Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

GLI STATISTI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

   

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

 

GLI STATISTI

PRIMA PARTE

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando Aldo Moro.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando Andreotti.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli amici di Craxi.

Fine Pena Mai. L’Accanimento giudiziario.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Donne e famiglia.

Politica ed affari.

Le Leggi ad Personam.

La Salute.

La Giustizia.

 

SECONDA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Prima del Nazismo.

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Al tempo del Nazismo.

Dopo il Nazismo.

Prima del Fascismo.

Comunismo = Fascismo.

Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.

Claretta Petacci: l’Hitleriana.

Achille Starace, il regista del fascismo.

Quel fascismo un po' liberale.

Al tempo del Fascismo.

Le cose buone.

Resistenza: la verità sui partigiani comunisti.

Dopo il Fascismo.

Gli eredi di Mussolini.

La Destra omosessuale.

La destra italiana? Parla al femminile.

La Questione Morale.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

 

  

GLI STATISTI

 

SECONDA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Prima del Nazismo.

Storia. Tutti scontenti: 11 novembre 1918, come finì la Prima guerra mondiale. Da Focus. Ecco come gli accordi di pace stipulati alla fine della Prima guerra mondiale hanno preparato il terreno alla Seconda guerra mondiale. I leader politici che trattarono alla conferenza di pace di Versailles del 1919.

Da sinistra: il generale francese Ferdinand Foch, il Primo ministro francese Georges Clemenceau, il Primo ministro britannico Lloyd George, il Premier italiano Vittorio Emanuele Orlando e il Ministro degli esteri del Regno d'Italia Sidney Costantino Sonnino. Everett Collection / Shutterstock

Alle 11 del mattino dell'11 novembre 1918 finiva la Prima guerra mondiale: la Germania, infatti, stava firmando in quel momento un umiliante armistizio, su un vagone ferroviario vicino a Compiègne. Ma la Grande guerra aveva seminato morte e devastazione in tutta Europa, e gli accordi di pace, mal gestiti, prepararono il terreno a un nuovo conflitto ancora più cruento. La pace del 1918, i trattati e le promesse furono solo una tregua nel corso di uno scontro che sarebbe durato fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

MAI UMILIARE IL NEMICO. Può un trattato di pace alimentare un conflitto peggiore di quello a cui pone fine? Certo: qualsiasi accordo postbellico tende d'altronde a lasciare molti scontenti, soprattutto tra gli sconfitti. Quel che avvenne nel 1919, però, è una specie di record. Il trattato di pace che sancì la fine della Grande guerra lasciò infatti amareggiati sia i vinti sia i vincitori, ponendo addirittura le basi per l'ascesa del nazismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. L'errore più grave commesso nella stesura del documento? Dimenticare l'antico suggerimento di non umiliare mai il nemico – in questo caso la Germania – che non si è in grado di annientare del tutto.

I "QUATTRO GRANDI". Il conflitto si era chiuso l'11 novembre 1918, con la firma dell'armistizio da parte della Germania, e il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace che doveva ridisegnare la geografia politica mondiale, regolando i rapporti tra vincitori e vinti. A tal fine, si diedero appuntamento i portavoce di decine di nazioni con in prima fila i "quattro grandi", ossia i delegati delle maggiori potenze vincitrici: Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti. In rappresentanza dei primi tre Paesi vi erano i premier Georges Clemenceau, David Lloyd George e Vittorio Emanuele Orlando, mentre per gli statunitensi partecipava il presidente Woodrow Wilson.

I lavori terminarono il 21 gennaio 1920, ma il giorno "clou" fu il 28 giugno 1919, data della firma del cosiddetto Trattato di Versailles, composto da 440 articoli divisi in 16 parti e così chiamato poiché siglato nella celebre reggia francese. Prima di vedere la luce, il documento fu anticipato da aspre discussioni tra i quattro grandi, che dibatterono a lungo sui confini da assegnare alle varie nazioni e, soprattutto, sulla punizione da riservare alla Germania, considerata responsabile assoluta del conflitto. A scontrarsi furono in particolare Clemenceau, animato da pura sete di vendetta, e Wilson, che sembrava avere visioni più equilibrate.

UNA PACE SENZA VINCITORI. Il premier francese avrebbe voluto smembrare l'Impero tedesco, quello austro-ungarico e quello ottomano – l'Impero russo era invece stato abbattuto dalla Rivoluzione d'ottobre del 1917 – per spartirsene i territori con la Gran Bretagna. Il presidente statunitense mirava invece a una "pace senza vincitori" che si basasse sul principio di autodeterminazione dei popoli. In breve, ogni popolazione sottomessa a una forza straniera avrebbe dovuto scegliere, su base prevalentemente etnica, la propria identità nazionale e le proprie forme di governo. Così, si pensava, sarebbe evaporato ogni motivo di tensione internazionale.

Queste idee erano state riassunte da Wilson nei celebri "quattordici punti", serie di propositi snocciolati in un discorso tenuto nel gennaio 1918, a guerra in corso, davanti al senato statunitense. In proposito, Clemenceau commentò caustico: "Mi dà ai nervi coi suoi 14 punti, quando lo stesso buon Dio si è contentato di dieci". Tra le altre cose, Wilson proponeva di annullare ogni trattato segreto prebellico (caldeggiando una nuova diplomazia "trasparente"), garantire la libera navigazione, favorire gli scambi commerciali, ridurre gli armamenti, liberare ogni territorio occupato con la forza, rettificare le frontiere secondo criteri per l'appunto etnici anziché politici e, in ultimo, creare una "Lega delle Nazioni" per promuovere la cooperazione tra Stati in vista di una pace il più duratura possibile.

UMILIAZIONE TEDESCA. Alla fine prevalsero molte delle idee wilsoniane, ma se la pace fu teoricamente senza vincitori, i "vinti" ci furono eccome. La Germania subì infatti la temuta vendetta della Francia, nazione che più di altre aveva patito gli effetti del conflitto. L'idea era quella di annientare i tedeschi e infliggere loro anche un sonoro schiaffo morale, intenzione evidente fin dalla scelta del luogo per la firma del trattato di pace: la Galleria degli Specchi di Versailles, già sede nel 1871 della proclamazione dell'Impero tedesco dopo la sconfitta subita dai francesi nella guerra franco-prussiana. Per completare la rivincita, la Francia si riprese l'Alsazia e la Lorena, regioni che aveva perso proprio in quel conflitto.

Alla Germania, costretta a sottoscrivere il trattato finale, fu inoltre tolto ogni possedimento coloniale e furono imposte grosse restrizioni in ambito militare: la leva obbligatoria fu sospesa, l'esercito fu ridotto a centomila unità (altre limitazioni riguardarono la marina, mentre l'aviazione fu eliminata) e furono messi al bando gli armamenti pesanti. Non solo: la Germania dovette demilitarizzare la Renania, territorio al confine con la Francia, e concedere a quest'ultima l'occupazione della Ruhr, regione ricca di miniere di carbone. I tedeschi furono infine obbligati a lasciare alla Polonia il territorio della città di Danzica, con relativo sbocco sul Mar Baltico (il "corridoio polacco"). Il capitolo più pesante fu, tuttavia, quello delle riparazioni di guerra: lo Stato tedesco fu obbligato al pagamento di ben 132 miliardi di marchi oro, cifra smodata la cui entità gettò il Paese in uno stato di angoscia e inquietudine, alimentando una profonda crisi economica e i peggiori propositi di vendetta.

TUTTI SCONTENTI. La colpa della guerra, oltre che sui tedeschi, ricadde naturalmente sui loro alleati, in primis l'Austria-Ungheria e l'Impero ottomano, con i quali i trattati di pace furono firmati rispettivamente nel settembre 1919 e nell'agosto 1920. A rappresentare la realtà ottomana, già moribonda, rimase solo la Turchia, che dal 1923 sarà peraltro guidata e "de-ottomanizzata" dal leader nazionalista Mustafa Kemal. Il resto dei territori passò invece sotto l'amministrazione di francesi e inglesi. Allo stesso modo, la pace firmata con gli austriaci portò allo smembramento del loro impero, alla creazione di nuovi Stati autonomi e alla concessione all'Italia di molteplici territori. Tra questi non c'era però la Dalmazia, nonostante fosse stata promessa agli italiani alla vigilia dell'ingresso in guerra (1915). Il motivo? Gli Stati Uniti di Wilson non ritennero valido il trattato segreto che aveva sancito tale accordo (Patto di Londra), proprio in virtù della sua "segretezza". Caddero inoltre nel vuoto le rivendicazioni italiane sulla città di Fiume (oggi in Croazia), e così il malcontento investì anche il Belpaese, pur uscito vincitore dal conflitto. A masticare amaro furono però anche i trionfatori francesi e inglesi: i primi non gradivano di essersi dovuti in parte piegare ai dettami di Wilson, mentre i secondi si sentivano messi in secondo piano dagli stessi francesi. Molti britannici criticarono inoltre le condizioni imposte ai vinti e l'assenza di un piano di ripresa economica. Tra le voci di dissenso spicca quella dell'economista John Maynard Keynes, che nel volume Le conseguenze economiche della pace (1919) parlò di "pace cartaginese", rievocando i duri obblighi postbellici imposti dai Romani ai Cartaginesi al termine della Seconda guerra punica (III secolo a.C.). Se all'epoca la forza di Roma era bastata a garantire la pace, il timore era che in questo caso le potenze occidentali stessero invece gettando i semi di nuove guerre. Su questo punto risultò profetica l'affermazione di Ferdinand Foch, generale francese che nel 1920, commentando il Trattato di Versailles, affermò: "Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni".

UN'EREDITÀ LETALE. Neanche gli americani, entrati tra l'altro in guerra solo nel 1917, ne uscirono soddisfatti, tanto che il senato a stelle e strisce, pervaso da un latente desiderio "isolazionista", rifiutò l'adesione alla neonata Società delle Nazioni prevista dai quattordici punti di Wilson. A ogni modo, la nuova organizzazione intergovernativa, che avviò i lavori già nel 1920, con sede a Londra e poi a Ginevra, vide l'immediata partecipazione di oltre 40 nazioni e, pur non riuscendo a garantire la pace (anche perché dotata di limitati poteri di arbitrato), pose le basi della futura Organizzazione delle Nazioni Unite (che ne prese il posto nel 1945), oltre a valere a Wilson il Nobel per la Pace 1919. Tra le ambivalenti eredità del Trattato di Versailles, un notevole impatto lo ebbe il controverso principio di autodeterminazione dei popoli, che portò sia a un arricchimento nel campo del diritto internazionale sia alla nascita di pericolosi sentimenti ultranazionalisti. Oltre a non assicurare la pace (negli anni dopo il conflitto molti Stati europei conobbero rivoluzioni e nuove guerre), il trattato ebbe inoltre il demerito di nutrire il mostro nazista. Nella sua ascesa al potere, Hitler cavalcò infatti la voglia di rivalsa popolare per le condizioni inflitte dai vincitori, invocando dapprima la nascita di una Grande Germania che riunisse ogni popolo tedesco (in base proprio al principio di autodeterminazione) e scatenando poi, dal 1939, un nuovo conflitto di portata mondiale. Prima vittima illustre fu la Francia, alla quale la Germania rese pan per focaccia: i francesi dovettero infatti firmare la resa, nel 1940, nello stesso vagone ferroviario in cui i rappresentanti dell'Impero tedesco si erano arresi nel novembre 1918. Un altro frutto avvelenato della pace di Versailles.

Questo articolo è tratto da "Frutto avvelenato" di Matteo Liberti, pubblicato su Focus Storia 145 (novembre 2018) disponibile solo in formato digitale. Leggi anche l'ultimo numero di Focus Storia ora in edicola. 11 novembre 2021

Vril, la società del mistero dietro alla nascita del nazismo. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 novembre 2021. L’era nazista non è durata un millennio come avrebbe voluto il Führer, ma quei dodici anni sono stati sufficienti a catalizzare l’ingresso della storia dell’Uomo in una nuova età: l’età della Guerra fredda, della decolonizzazione e della fine definitiva e irreversibile del sistema europeo degli Stati. E ancora oggi, dopo quasi un secolo, quella nazista continua ad essere la saga storica che, più di ogni altra – anche più dello scontro egemonico tra Stati Uniti e Unione Sovietica –, solletica maggiormente l’immaginazione e l’attenzione di scrittori e sceneggiatori. I motivi alla base dell’eterno interesse verso il nazismo sono plurimi, poiché spazianti dalla curiosità antropologica alla trasmissione della memoria e dalla ricerca storica alla fascinazione verso il lato misterico e arcano del Mito del ventesimo secolo. Perché il nazismo fu sì odio, sangue e guerra, ma fu anche criptoarcheologia, esoterismo, occultismo, teosofia e ufologia. Perché il nazismo non produsse soltanto Joseph Goebbels, Alfred Rosenberg e Reinhard Heydrich, essendo stato anche il cacciatore di tesori perduti Otto Rahn, lo stregone Karl Maria Wiligut e l’enigmatico Rudolf Hess. Perché il nazismo non fu solo SS e Luftwaffe, ma fu anche Ahnenerbe, Thule e Società del Vril.

Vril come mito

Vril è un termine proveniente dalla mitologia indiana che in Europa compare per la prima volta in un romanzo scientifico del 1871, intitolato Vril. The Power of Coming Race (ndr, in Italia edito come La razza futura) e frutto dell’immaginazione dell’autore inglese Edward Bulwer-Lytton. Vril, in questo romanzo, non ha a che fare con gli uomini, non è una società segreta né una setta, essendo una sostanza vivificante, energizzante, che dona a chi ne fa uso dei poteri magici.

Nel titolo è contenuta la trama del romanzo: Vril, la sostanza che dà la vita (e dei poteri preternaturali), e la razza del futuro, identificata con una misteriosa civiltà dall’aspetto biondo-nordico che vive nella Terra cava e i cui membri si chiamano tra loro Vril-ya. Il protagonista del romanzo verrà a contatto con il Vril e coi Vril-ya fortuitamente, scoprendone la storia e apprezzandone l’evidente superiorità agli esseri umani.

Un romanzo intrigante, avvincente, che avrebbe fatto la fortuna dello scrittore-esoterista Bulwer-Lytton, spianando la strada ai generi fantascientifico e distopico, ma nient’altro che un romanzo. Alcuni contemporanei dell’autore, però, in quel libro avrebbero trovato dell’altro, oltre a del buon intrattenimento: segreti antichi, messaggi subliminali, ricette magiche e indizi utili a raggiungere la Terra cava – tema, quest’ultimo, che all’epoca non era ritenuto così irrealistico.

Il libro di Bulwer-Lytton, in breve tempo, avrebbe riempito le librerie dei comuni mortali come quelle degli esoteristi, degli occultisti, dei massoni, degli appassionati del mistero, esercitando un’influenza notevole sui mostri sacri dell’arcano dell’epoca, tra i quali la genitrice della teosofia Helena Blavatsky e il ricercatore di Atlantide William Scott-Elliot. Un’influenza destinata ad aumentare nel corso degli anni, in particolar modo della Germania prenazista.

Vril come realtà

Vril nasce e muore con Bulwer-Lytton almeno fino a quando, nel 1960, i ricercatori francesi Louis Pauwels e Jacques Bergier avrebbero fatto una scoperta sensazionalistica: dei seguaci della via della mano sinistra della Germania weimariana avrebbero fondato una società segreta con quel nome, giocando un ruolo determinante nel temprare quelli che di lì a breve avrebbero dato vita al nazionalsocialismo.

Quella descritta da Pauwels e Bergier ne Il mattino dei maghi porta il nome di Società del Vril (Vril-Gesellschaft) e la sua storia, da loro ricostruita parzialmente, sarebbe stata la seguente. Fondata durante o dopo la Grande guerra, questa loggia chiusa sarebbe stata il frutto del grembo della Società di Thule e avrebbe stretto legami con le più potenti realtà occultistiche dell’epoca, come ad esempio l’Ordine ermetico dell’alba dorata.

All’indomani della commercializzazione del libro – amato dal pubblico ma stroncato dalla critica per via della carenza di fonti -, i lettori più ostinati, al termine di una scrupolosa ricerca storico-bibliografica, avrebbero trovato le possibili prove a supporto della tesi di Pauwels e Bergier: una società del genere era stata effettivamente menzionata nel 1947 dall’ingegnere aerospaziale Willy Ley.

Ley, che si era trasferito dalla Germania agli Stati Uniti alla vigilia della seconda guerra mondiale, in un articolo pubblicato sulla rivista Astounding Science Fiction aveva raccontato dei suoi trascorsi con il misticismo nazista, facendo il nome di un circolo esoterico ultrasegreto, la Società per la Verità (Wahrheisgesellschaft), i cui membri sarebbero stati alla ricerca del Vril per scopi militari.

A partire dal 1960, causa il lavoro di Pauwels e Bergier e complice l’estumulazione degli scritti di Ley, storici e amatori avrebbero cominciato a scavare più a fondo sulla questione, scoprendo di volta in volta nuove cose e rafforzando, più che diminuendo, la nube di mistero avvolgente la Società del Vril.

Le ricerche successive

La Società del Vril è uscita ufficialmente dal reame della finzione, entrando in quello della storia, soltanto di recente, ovverosia nel 2002, anno della pubblicazione di uno dei libri più importanti mai scritti sul misticismo nazista: Sole nero. Nell’opera, firmata dall’esperto di nazismo di fama mondiale Nicholas Goodrick-Clarke, la storia di questa società viene ripercorsa per la prima volta, con dovizia di particolari, grazie a delle fonti (attendibili) in lingua tedesca.

La storia della Società del Vril, così come ricostruita dalle ricerche dell’oggi defunto Goodrick-Clarke, è la storia di una piccola ma potente setta dedita a pratiche esoteriche e dotata di un nome anonimo: il Gruppo di lavoro del Reich (Reichsarbeitsgemeinschaft). Un nome trasudante burocrazia e giustificato dalla natura della setta: era esoterica, sì, ma operava per conto del governo.

Perché la setta sarebbe stata associata al Vril da Ley, Pauwels e Bergier era risultato abbastanza evidente al professore: i membri credevano fermamente nell’esistenza di questa sostanza, che sarebbe stata utilizzata dagli antichi egizi e dagli aztechi per costruire le piramidi, e dedicarono la vita alla sua ricerca, convinti che potesse essere impiegata per donare ai tedeschi un’intelligenza soprannaturale e permettere ai nazisti di sviluppare delle armi imbattibili.

Riconfermando le tesi di Pauwels e Bergier, Goodrick-Clarke fece risalire le origini di questa società segreta a Thule, collocandone la nascita nel dopo-rivoluzione bavarese – maggio 1919 – e trovandone il casus nativitatis, oltre che nel focus sul Vril, in un maggiore attaccamento alla magia antica, nell’immedesimazione dei membri con i Cavalieri templari e nella credenza alle teorie sugli extraterrestri.

La Società del Vril, in breve, sarebbe stata costituita dagli oltranzisti dell’occultismo di Thule, dalla quale, comunque, non si sarebbe mai separata. Al contrario, i seguaci del Vril avrebbero completato e complementato il lavoro dei progenitori, siglando alleanze fuori – Ordine ermetico dell’alba dorata – e dentro il Vecchio Continente – Signori della pietra nera (DHvSS, Die Herren vom Schwarzen Stein) – e facendo proseliti tra geografi e scienziati. I primi per scoprire dove si nascondesse il Vril e i secondi per poterlo utilizzare.

Curiosamente, ma non sorprendentemente, le teorie dei seguaci del Vril avrebbero riscosso una tremenda popolarità nella Germania prenazista, contribuendo in maniera considerevole al successo di Thule e stregando la prima generazione di nazisti. Tra coloro che avrebbero aderito alla società segreta, perché anelanti a possedere questa sostanza primordiale, nata insieme all’universo, Goodrick-Clarke elencò con certezza il geopolitico Karl Haushofer e il fisico Winfried Otto Schumann, non riuscendo a confermare né a smentire, però, le indiscrezioni sull’appartenenza di Adolf Hitler, Heinrich Himmler, Rudolf Hess, Hermann Goring e Theodor Morell.

Ley, in quell’articolo-denuncia del 1947, aveva definito i seguaci del Vril dei folli, dicendosi scioccato dalla circolazione e dall’influenza di tali teorie negli ambienti del misticismo nazista. Il pubblico ha potuto comprendere pienamente il significato di quella testimonianza più di cinquant’anni più tardi, nel 2002, grazie al lavoro encomiabile del professor Goodrick-Clarke.

Quando il Kaiser e il Sultano proclamarono il Jihad. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 16 agosto 2021. Quando si scrive e si parla di strumentalizzazione dell’islam per fini politici e/o terroristici il pensiero va rapidamente a filosofi come Sayyid Qutb, ad attivisti come Hasan al-Banna o ad intellettuali-guerriglieri come Abdullah Azzam. Qutb, al-Banna e Azzam sono appartenuti a tre epoche differenti, sono stati accomunati da una weltanschauung alquanto simile, e hanno contribuito in maniera determinante all’elaborazione di un concetto che politologi ed islamologi avrebbero poi ribattezzato il “Jihād offensivo”. È in errore, però, chi crede che la riformulazione della potente ma ambigua nozione di Jihād, che ha tradizionalmente indicato lo “sforzo spirituale” dei fedeli impegnati a diventare un tutt’uno con Allah, vada imputata alla Triade dell’islam politico costituita da al-Banna, Qutb e Azzam. Perché qualcun altro, molto di prima di loro, avrebbe cercato di sollevare la umma contro gli infedeli con l’obiettivo di dare vita ad un Jihād globale: il Gran Muftì di Costantinopoli (in combutta con il Kaiser dell’Impero tedesco).

La “guerra santa” dimenticata del 1914. Costantinopoli, 14 novembre 1914: l’Europa è sprofondata nella guerra da quasi quattro mesi, cioè da quando Gavrilo Princip ha assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, e il Gran Muftì della metropoli turca ha invitato i fedeli a riunirsi dinanzi al simbolo dell’ottomanità, la Grande moschea benedetta di Ayasofya, perché deve comunicare loro un messaggio importante. Non si sa quanti fedeli islamici abbiano raccolto l’appello del Gran Muftì – che imam di quartiere e muezzini hanno pubblicizzato in lungo e in largo da giorni –, si sa soltanto che all’appuntamento giungono in tanti, tantissimi, decine di migliaia. Costantinopoli è in silenzio, accalcata presso quel sito che secoli prima fu l’emblema della Cristianità orientale e che Maometto II consegnò trionfalmente ai figli di Osman il 29 maggio 1453. L’attesa è snervante: colui che si rivolgerà alla folla oceanica è la seconda figura più importante ed autorevole dell’Impero, perciò non può aver chiesto un incontro con gli abitanti della Sublime Porta senza un motivo valido. Quando la sabbia nella clepsidra finisce, e il Gran Muftì si materializza, cominciando a leggere ai presenti il contenuto di un’ambasciata che impugna tra le mani come se fosse una sciabola, il tempo si ferma, o meglio torna indietro. Torna indietro di secoli, ai tempi delle guerre per la sottomissione della Rumelia, delle battaglie navali per l’egemonizzazione del Mediterraneo e delle guerre russo-turche. Torna indietro di un’era, riportando le lancette dell’orologio ai tempi del Jihād della spada e della prima espansione islamica: ai tempi della guerra santa contro i kāfir e i mushrik, cioè gli infedeli e i politeisti. Il Gran Muftì di Costantinopoli, in estrema sintesi, aveva riunito gli abitanti della Nuova Roma per proclamare pubblicamente un Jihād offensivo, da lui ribattezzato il “Jihād della felicità”, giustificandolo in termini di obbligo coranico, inquadrandolo nel contesto della prima guerra mondiale e rivolgendolo non soltanto ed esclusivamente alla platea ottomana, ma all’intera umma, ovverosia ai musulmani di tutto il mondo.

Coloro che avrebbero risposto a quel takfir sotto forma di dichiarazione di guerra, combattendo anima e corpo i Nemici di Allah – identificati con i membri e gli alleati della Triplice Intesa –, avrebbero ottenuto felicità, onore e mitizzazione sulla Terra e salvezza eterna nell’al di là. Coloro che avrebbero risposto a quella chiamata alle armi, senza saperlo, avrebbero combattuto una guerra santa voluta, più che da Allah, dall’allora Kaiser di Germania, Guglielmo II. L’orientalista olandese Christiaan Snouck-Hurgronje, testimone della Grande Guerra e acuto osservatore degli accadimenti che stavano avendo luogo lungo la Berlino–Costantinopoli, dopo aver riflettuto sul contenuto della fatwa emessa dal Gran Muftì di Costantinopoli, le avrebbe affibbiato un nome più consono: non Jihād della felicità, ma Jihād fabbricato in Germania.

L’Aquila e la Mezzaluna. La Sublime Porta era entrata nella prima guerra mondiale il 31 ottobre, supportando la causa dei cosiddetti imperi centrali, e la proclamazione di guerra santa del 14 novembre avrebbe giocato un ruolo determinante nel persuadere l’opinione pubblica ad accettare il fatto. Perché non era più una questione di politica, ma di fede. E non si trattava più di combattere dei semplici soldati, ma degli infedeli armati.

Affiatati dal movente religioso, i turchi ottomani avrebbero appoggiato en masse le ostilità contro la Triplice intesa e partecipato personalmente e direttamente a quella che era divenuta nottetempo una guerra di civiltà, una guerra santa. I nemici della Sublime Porta avrebbero compreso molto presto le potenzialità mortifere di quella proclamazione di Jihād: lo straordinario dispiegamento di quasi 200mila soldati nel fronte caucasico, la temporanea messa in secondo piano dei dissidi interetnici tra turchi e curdi – con questi ultimi in prima fila nella conduzione dei genocidi armeno e assiro –, la divinizzazione di Enver Pasha e le sollevazioni filo-ottomane in Egitto, India, Maghreb, Caucaso russo e Asia centrale. Berlino avrebbe appoggiato il Jihād offensivo lanciato da Costantinopoli in una varietà di modi, tra i quali risaltano la diffusione di materiale propagandistico filo-ottomano negli spazi coloniali delle potenze della Triplice intesa da parte dell’Ufficio di Intelligence per l’Oriente (Nachrichtenstelle für den Orient), lo sdoganamento dell’islam negli ambienti intellettuali tedeschi – trainato dall’attivismo irrefrenabile di Max Freiherr von Oppenheim (teorico dell'”arma islamica”), Friedrich Naumann e Friedrich Bronsart von Schellendorff – e i tentativi simultanei di infiltrare i moti islamisti nell’Eurafrasia – nell’aspettativa, forse, di profittare del risveglio dei popoli islamici per subentrare culturalmente (e politicamente) ai francesi nel Maghreb, ai britannici tra Egitto ed India e ai russi tra Caucaso e Asia centrale.

Il tramonto della guerra santa turco-tedesca. All’acme del Jihād offensivo lanciato dal Gran Muftì di Costantinopoli, localizzabile nel biennio 1915-16, le campagne di propaganda e mobilitazione totale operate da tedeschi e ottomani avrebbero sobillato Mesopotamia, Africa settentrionale, Asia meridionale e Sudest asiatico, sullo sfondo dei crimini genocidiali perpetrati contro armeni e assiri tra Anatolia e Caucaso dalle truppe turche e dalla gente comune. Apogeo di questa guerra santa di cui nessuno sembra avere memoria, sebbene la sua esistenza sia un fatto storico acclarato e documentato, sarebbe stato il celebre ammutinamento di Singapore. Il 15 febbraio 1915, per quasi una settimana, la componente islamica del quinto reggimento di fanteria dell’esercito anglo-indiano (British Indian Army) si sarebbe sollevata contro il personale britannico. Un episodio culminato con la morte di trenta persone, oltre la metà delle quali di nazionalità britannica, che la storiografia ha poco a poco rivalutato, riletto e reinterpretato, finendo con il contestualizzarlo all’interno di quella chiamata alle armi contro gli infedeli proveniente da Costantinopoli (e della più vasta e altrettanto sconosciuta cospirazione indo-tedesca).

Alla fine, come è noto, il fronte degli imperi centrali avrebbe perso la Grande Guerra, con il Kaiser costretto a siglare una resa ignominiosa e con il Sultano testimone della fine di un’epoca – quella ottomana –, provocata tanto da contraddizioni interne quanto dal genio strategico di Lawrence d’Arabia, il beduino venuto da Londra che riuscì ad annientare la forza siderea del potente richiamo al Jihād della Sublime Porta mettendo La Mecca contro Costantinopoli.

Quando il Kaiser voleva essere il "Grande Fratello". Davide Bartoccini il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. Guglielmo II fece allestire una fitta rete di spie per carpire pensieri e segreti dei suoi sudditi all'interno delle taverne del Reich. Egli temeva gli estremisti: ma alla fine dei giochi, adorava impicciarsi di tutto..."I re torturano col vino colui che essi non sanno se sia degno d'amicizia", cantava il poeta romano Orazio, ben prima che assassinassero Giulio Cesare. E Guglielmo II, Kaiser del Reich di cui si celebrano i 150 dalla nascita, doveva aver capito quanto fosse importante “suggere” le verità delle labbra dei sudditi mentre erano ebbri e distolti dai loro dibatti in osteria. Tanto da stabilire un Grande Fratello onnipresente nelle taverne dell'Impero. Molto prima della famigerata Stasi, il servizio segreto che spiò per più di 40 anni la vita dei tedeschi della Germania Est - secondo le stime stilarono ben 5 milioni di dossier - un'altra fitta rete di spie ascoltava segretamente idee e ideali del popolo per annotare ogni avvisaglia che potesse ricondurre ad un estremista, alla maturazione di un dissidente, alla nascita di un pericoloso anarchico o di un possibile cospiratore. A ricordare gli efficienti metodi degli "Spionen", che fa molto fumetto di Bonvi ma è solo una traduzione di spie, è stato il supplemento storico della nota rivista Der Spiegel, che, come ricordato da Italia Oggi, raccontando la vita quotidiana di allora, non ha potuto tralasciare l’efficienza dell’operoso servizio d’informazione agli ordini del Kaiser Guglielmo. Gli occhi e le orecchie di Guglielmi II che venivano mandati nelle osterie per mischiarsi alla classe operaia e carpire idee, passoni, tumulti, e talvolta, i segreti. La missione principale degli spionen doveva essere quella di scoprire quale fosse il giudizio dell’uomo della strada nei confronti del Kaiser. Per scovare detrattori e individuare o mettere sotto sorveglianza possibili rivoluzionari. Ma data la capacità delle spie di infiltrarsi e confondersi perfettamente nelle osterie del Reich - spesso gli agenti si vestivano come i lavoratori imitandone i costumi - la curiosità del Kaiser, e delle alte sfere del neonato servizio segreto tedesco da cui sarebbe nato l’Abwehr prima e la Gestapo poi, finì con ricadere su altre numerose tematiche d'attualità politica all'epoca. Cosa pensavano i sudditi del capitalismo, e della sua critica? Cosa pensavano del comunismo che gonfiava le sue fila nell'impero dello Zar? E del colonialismo? Era fiero, critico o disinteressato nei confronti della cosiddetta “Corsa all’Africa”, o del vessillo con l’aquila imperiale che sventola nella lontana città cinese di Tsingtao? Secondo lo storico Richard J. Evans - che si è imbattuto nei documenti degli archivi della polizia durante alcune ricerche sull’epidemia di colera che colpì l’impero alla fine del XIX secolo - furono almeno 20mila i dossier redatti dalle spie del Kaiser. Uomini che con l'aiuto dei collaboratori assoldati di volta in volta ascoltavano i bevitori nelle taverne in attesa di coglierli in fallo e poter riferire ai superiori chissà quale fervore antipatriottico. Di questi, ben 348 documenti sono stati pubblica nel libro "Kneipegrespräche im Kaisereich 1892-1914", "Colloqui nelle osterie nel Reich" (Rowohlt Verlag). E le segnalazioni, zelantemente annotate, spaziano da affermazioni in discussioni di natura teologica, come sulla paternità del Cristo, a commenti antisemiti, dai giudizi su casi di cronaca nera, agli umori "rossi" dei socialisti che lavoravano al porto di Amburgo. E poi ancora conversazioni, illazioni, mugugni appena percepibili, vaneggiamenti, risse e schiamazzi avvenute nelle taverne di Berlino, di Dresda, di Monaco. Ventidue anni di umori di un popolo che s'incontrava nelle taverne ogni sera, e che a sua insaputa si preparava ad abbandonare la Belle Epoque per ritrovarsi travolto dalle atrocità della Guerra Totale.

Secondo gli esperti che hanno esaminato i dossier redatti dagli Spionen del Kaiser, essi sembrano essere, almeno in più di un'occasione, avvezzi alla "fantasia". Esaltando quisquilie e intessendo trame spesso prive di alcun fondamento, tanto per dare un senso all'infruttuoso servizio di una notte. Del resto i nomi dei "colpevoli" di codeste ciarle da bancone non dovevano essere scritti in calce - a meno che non si scorgesse il profilo di un vero e proprio rischio per quella che oggi chiamiamo "sicurezza nazionale" (in assenza d'imperi). E i veri anarchici, i pericolosi cospiratori e futuri rivoluzionari, già allora si guardavano bene da farsi sfuggire la minima invettiva. Oggi per certe cose, in barba alla tanta decantata privacy, basta ficcanasare sui nostri social network e tra i dati che vengono immagazzinati dai motori di ricerca. Almeno se si vuole dare rette alle rivelazioni del signor Edward Snowden sul controllo delle masse. Sul vero, impalpabile quanto plausibile, Grande Fratello. 

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare

Quando la Germania sognava di invadere gli Stati Uniti. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 24 settembre 2021. Quella tra Germania e Stati Uniti è una delle storie di amore-odio – più odio che amore in realtà – più intriganti, coinvolgenti e cabalistiche degli ultimi due secoli. Perché l’America, un po’ come la Britannia, la Polonia, il cardinale Richelieu e molti altri, nei confronti di questa piccola ma grande potenza votata per natura e destino all’egemonia ha sempre serbato un timore reverenziale. La storia, in effetti, ha dato agli uomini dell’Europa, della Città sulla collina e del resto del mondo, più di una ragione per avere paura di questa nazione, che, grande la metà del Texas, possiede la quarta economia più grande del mondo – pari a quelle di Brasile e Italia combinate – e, soprattutto, ha alle spalle un breve ma intenso trascorso di tentativi egemonici unici per dimensioni e ripercussioni globali. Motivi che spiegano perché le grandi potenze, dalla Francia di Richelieu agli Stati Uniti di Henry Truman, non abbiano mai fatto segreto del loro desiderio di frammentare la Germania unitaria in tante piccole Germanie. Quando si scrive e si parla di Germania e appetiti egemonici, di solito, il focus è sulla corsa anglo-tedesca agli armamenti, sulla spartizione dell’Africa e sulle due guerre mondiali. Dietro alla storia condensata dei libri di scuola, però, c’è (molto) di più: c’è una potenza dal quoziente imperiale che irradia genialità, che in due secoli ha risaltato per l’elevatezza dei propri machiavelli – come il bismarckiano dispaccio di Ems –, la singolarità dei propri metodi – come il Jihād globale guglielmino-ottomano –, la lungimiranza dei propri calcoli – si pensi al piano Schlieffen – e la profondità strategica insita in alcune delle sue gesta più audaci. L’elenco dei piani follemente geniali concepiti dagli strateghi di Berlino è sterminato e presenta una sezione interamente dedicata ad una regione del globo: le Americhe. Perché il Nuovo Mondo, in particolare gli Stati Uniti, ha sempre esercitato una forte fascinazione sull’immaginario collettivo dei tedeschi, costretti in Europa dalla geografia e traghettati in ogni dove dalla fantasia.

Guglielmo II e l’America. I fatti, alcuni conosciuti, altri semisconosciuti ed altri ancora completamente obliati, sembrano suggerire come, dall’epoca guglielmina a quella nazista, i tedeschi abbiano sognato di possedere un posto al Sole, oltre che in Africa, anche tra le Montagne Rocciose e la Patagonia. Un posto al Sole preferibilmente localizzato nell’America settentrionale, ovverosia negli Stati Uniti. La storia di questa ricerca di un posto al Sole nel Nuovo mondo ha inizio durante l’epoca guglielmina, cioè con la fine dell’equilibrio e della realpolitik e con l’alba della rivalità anglo-tedesca e della weltpolitik. Bismarck, invero, che parlava inglese e nel dopo-guerra di secessione aveva proposto (senza successo) un’alleanza agli Stati Uniti in funzione contenitiva della Francia, non era mai stato guidato da sentimenti antiamericani. Guglielmo II e il suo fido Bernhard von Bülow, però, avevano una weltanschauung radicalmente differente da quella dell’unificatore della Germania. Loro non volevano che il Reich adattasse le proprie politiche alla realtà (realpolitik), volevano che il mondo accettasse l’inevitabilità di un nuovo corso storico (neue kurs) avente al centro Berlino. Una Berlino la cui agenda estera, coerentemente con l’imperativo di plasmare l’umanità, avrebbe investito l’intero globo (weltpolitik). Ed è in questo contesto di riorientamento della bussola dall’Europa al mondo che si piantano i semi dell’antiamericanismo nelle accademie militari e nelle scuole diplomatiche tedesche. Guglielmo II, a differenza di Bismarck, non vedeva nell’America una potenziale amica della Germania – perché influenzata dal sangue e dal pensiero dei britannici, indi votata all’imperialismo e al soggiogamento delle tellurocrazie del Vecchio Continente – e gli sviluppi tardo-ottocenteschi, dal Grande Riavvicinamento (Great Rapprochement) alla corsa al Pacifico, lo avrebbero convinto ulteriormente di ciò.

I tre piani degli uomini del Kaiser. Convinto che, prima o poi, gli Stati Uniti avrebbero profittato del declino del Sistema europeo degli Stati per sottomettere l’Eurasia in combutta con i loro cugini, cioè l’impero britannico, fra il 1897 e il 1903 il Kaiser revisionista avrebbe ordinato ai propri strateghi di formulare una serie di piani per l’invasione. Piani ultrasegreti, di cui il mondo è venuto a conoscenza gradualmente, e che erano stati concepiti al duplice scopo di limitare la presenza a stelle e strisce nel Pacifico e fare breccia nel cortile di casa degli Stati Uniti, ossia l’America Latina. Il primo piano, firmato dal tenente Eberhard von Mantey e formulato tra il 1897 e il 1898, prevedeva una serie di attacchi a sorpresa nella regione geostrategica di Hampton Roads (Virginia), il porto le cui acque non gelano mai e da dove (ancora oggi) salpa la maggior parte delle navi militari dirette verso Atlantico, Mediterraneo e Indo-Pacifico. Paralizzare il centro operativo della Flotta statunitense, secondo von Mantey, avrebbe permesso ai tedeschi di stabilire nottetempo e in totale sicurezza una base nei Caraibi. Base la cui realizzazione sarebbe stata possibilitata dalla cattura di Hampton Roads e da un simultaneo blocco navale davanti alle coste nordamericane. E base che, nell’ottica dello stratega, irradiando potere e influenza in America centrale, avrebbe consentito ai tedeschi di rompere quel senso di inviolabilità regalato dalla geografia agli Stati Uniti, coartandoli a ripiegare dal mondo al loro continente. Il secondo piano, disegnato dal tenente Hubert von Rebeur-Paschwitz all’indomani della guerra ispano-americana per Cuba, può essere ritenuto un’evoluzione naturale del primo. Non la Virginia, ma le aree di New York e Boston avrebbero dovuto essere attaccate, o meglio indebolite a livelli critici a mezzo di una durissima invasione-lampo, perché rappresentanti i due polmoni dell’America. Ridotte ad uno stato preindustriale e private delle loro infrastrutture-chiave attraverso una “demolizione militare controllata”, le due metropoli si sarebbero trasformate in un macigno economicida e Berlino avrebbe potuto approfittare della crisi provocata per rallentare la corsa mondiale di Washington. Guglielmo II credeva a tal punto nel piano di von Rebeur-Paschwitz che nel 1901 lo avrebbe inviato nella costa orientale per esperire attività di ricognizione e spionaggio. Dalla missione in America di von Rebeur-Paschwitz avrebbe preso forma il terzo ed ultimo piano per un’ipotetica invasione degli Stati Uniti. Rivisitato dall’ufficiale navale Wilhelm von Büchsel, l’Operationsplan III prefigurava lo stabilimento di un avamposto fortificato a Porto Rico, progettato per lanciare, in caso di guerra con gli Stati Uniti, un attacco contro il canale di Panama.

L’eredità del Kaiser. Il Kaiser avrebbe riposto i sogni antiamericani nel cassetto nella seconda metà del primo decennio del Novecento, perché costretto dall’aggravamento della situazione in Europa e della competizione imperialistica, per poi tirarli fuori nuovamente allo scoppio della Grande guerra. Durante il conflitto, invero, l’impero tedesco avrebbe tentato per ben tre volte di portare l’insicurezza in casa dell’America: la prima utilizzando la carta messicana (telegramma Zimmermann), la seconda attraverso il Canada (il fallito attentato al ponte ferroviario Saint Croix–Vanceboro) e la terza con gli U-boot (battaglia dell’Atlantico). Il ruolo centrale giocato dagli Stati Uniti nel determinare l’esito della guerra non sarebbe stato dimenticato dall’ala più nostalgica e revanscista del nazionalismo tedesco. Con l’ascesa di Adolf Hitler al cancellierato, invero, gli strateghi del Reich rinato avrebbero recuperato il pensiero di von Mantey sul cuore della Terra nordamericano e sull’importanza delle azioni di disturbo nel monroano “cortile di casa”. A differenza del Kaiser, che il via libera all’espansione nelle Americhe non lo dette mai, il Führer avrebbe tentato l’azzardo più volte – rompendo un tabù in piedi dal 1867, anno dell’esecuzione di Massimiliano I del Messico e della fine della breve avventura latinoamericana di Napoleone III – e, in alcuni casi, toccando con mano il successo, seppure per un momento fugace. Come quando, fra il 1938 e il 1939, i servizi segreti tedeschi tentarono due colpi di Stato in Cile: la Toma del Seguro Obrero e l’Ariostazo. Vinti, i nazisti avrebbero cercato di penetrare nelle Americhe per l’intero corso della seconda guerra mondiale, come ricordano le operazioni spionistiche Bolìvar e Pastorious, il tentato attacco al canale di Panama pensato nell’ambito del Progetto 14 e, ultimo ma non meno importante, la formulazione dell’apocalittica campagna di bombardamento della East Coast nota come Amerikabomber. Da allora ad oggi sono cambiate molte cose. La Germania, ad esempio, che nel secondo dopoguerra è stata accortamente castrata, non brama più di muovere guerre a chicchessia nel nome di un messianismo in salsa tedesca. Una cosa, però, è rimasta immutata, nonostante la storia abbia seppellito sotto una coltre di sangue e ignominia le epoche guglielmina e nazista. Quella cosa è la natura complicata delle relazioni tra Washington e Berlino, che, oggi come ieri, continuano ad amarsi-odiarsi e a guerreggiarsi, sebbene in altri luoghi, con altri mezzi e per altre finalità.

La carica di cavalleria che salvò l'Europa. Andrea Muratore il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. A Vienna nel 1683 i polacchi sostennero l'Impero austriaco nel travolgere i turchi nel corso dell'ultima battaglia che salvò l'Europa. Vienna,11 settembre 1683. Sul Monte Calvo, il rilievo del Kahlenberg a poca distanza dalla capitale dell'Impero asburgico, una confusa mischia coinvolge le truppe ottomane intente a porle sotto assedio e le forze dell'imperatore Leopoldo I. L'assedio turco a Vienna, il secondo dopo quello del 1529, è giunto alla sua giornata conclusiva. Oltre un secolo dopo la battaglia di Lepanto, l'Europa si trova davanti alla nuova avanzata del Gran Turco, questa volta via terra. I giannizzeri, le forze speciali più avanzate dell'esercito ottomano, e le forze del duca Carlo V di Lorena, al cui interno spicca un giovane ufficiale che farà carriera, Eugenio di Savoia, combattono con asprezza a pochi chilometri dalla città assediata. Allora si temeva che per l'Europa potesse nuovamente materializzarsi la grande paura dell'invasione turca, ma alla prova dei fatti un solo attacco bastò a cambiare il corso dell'assedio e, a suo modo, la storia. "Gesùmmaria": nel pieno della mischia un grido risuona e in men che non si dica il Monte Calvo è invaso da quella che pare una legione di angeli. Sono cavalieri corazzati, armati di sciabola e di una lancia di sei metri, sulle spalle portano impalcature lignee a cui è attaccata una collezione di piume d'uccello, che formano strutture simili a ali, rendono più imponente il combattente, producono, durante la carica, un sibilo e un fruscio che terrorizzano i nemici. Sono gli ussari alati, l'elemento cardine dell'esercito del re di Polonia Giovanni III Sobieski accorso in salvezza alla città. Quattro battaglioni travolgono i turchi, 15mila uomini restano sul campo, l'esercito ottomano subisce una nuova batosta, questa volta definitiva. Nel 1664 era stato fermato nella sua avanzata dagli eserciti imperiali guidati da Raimondo Montecuccoli (1609-1680) nella battaglia di San Gottardo, in Ungheria, per poi riprendere la marcia in seguito alle pressioni esercitate da Luigi XIV di Francia su Istanbul per prendere l'iniziativa contro l'Impero degli Asburgo. Nel 1683 il freno all'avanzata diventa rotta e si trasforma, negli anni successivi, in controffensiva tra l'Ungheria e i Balcani. Da luglio a settembre andò in scena l'ultima "Grande Paura", il metus di una conquista turca del cuore dell'Europa già diffusosi dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, il primo assedio di Vienna nel 1529 e la sfida di Lepanto del 1571. La carica dei polacchi diede sostanza all'ultima grande coalizione nata per fini religiosi nella storia Europea, in una fase storica in cui anche il re di Francia aveva da tempo scelto una strada alternativa, come del resto gli schieramenti della Guerra dei Trent'Anni avevano confermato. Così fuori dal tempo e così a sé, l'episodio dell'assedio guidato da Kara Mustafa Pasha non era apparso come un canto del cigno, anzi, ma come la continuazione di una smodata ambizione di dominio da parte dei turchi. Alla prova dei fatti fu un passo più lungo della gamba, una scommessa azzardata che la Sublime Porta pagò con l'inizio del suo declino. Il gap tra le organizzazioni militari europee e quelle turche si era chiuso, l'arte delle fortificazioni aveva prodotto capisaldi pressoché inespugnabili, il calo del morale e dell'organizzazione tuca rese meno sopportabili le perdite. Il primo 11 settembre della storia fu però deciso da un vero e proprio episodio di guerra psicologica: la comparsa degli Ussari terrorizzò enormemente i turchi, ne abbatté il morale, fu vista come un segno divino di punizione. La Lepanto di terraferma fu decisa da un episodio risolutore, e il riflusso della marea turca portò con sé l'avanzata degli stendardi e dei domini degli Asburgo. Affamati di espansione territoriale e del ritorno alla corona di aree cruciali come l'Ungheria. Da allora in avanti, sarebbe stata la politica e la fame di espansione territoriale, piuttosto che il dualismo tra islam e cristianesimo, a guidare l'assalto continuamente condotto da Austria-Ungheria, Russia e altre potenze all'Impero ottomano. Condotto al declino da una batosta irrimediabile dovuta a troppa hybris dei suoi capi militari, convinti che Vienna sarebbe potuta cadere. L'Europa fu in un certo senso salvata un'ultima volta dopo Lepanto: ultima "guerra di religione" d'Europa, l'assedio di Vienna è stata l'ultima battaglia connotabile a toni netti sotto questo punto di vista, e la sua straordinaria natura anacronistica è paragonabile solo al suo ruolo di spartiacque storico. In seguito mascherare la logica di potenza con nobili ideali sarebbe stato molto più difficile: e l'assalto alla diligenza ottomana dei secoli successivi lo avrebbe testimoniato.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Bismarck, il padre di una potenza chiamata Germania. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 30 giugno 2021. L’Ottocento è stato il secolo della grande svolta che ha preludiato all’ingresso del mondo nel turbolento Novecento, essendo stato il tempo delle ultime guerre d’indipendenza dei popoli europei, del tramonto dell’impero ottomano, dell’estinzione dello Stato pontificio e della progressiva diffusione degli ideali rivoluzionari di Marx ed Engels. Ma il XIX secolo è stato anche il secolo dei grandi uomini universali come Napoleone Bonaparte, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord e Klemens von Metternich. Ma soprattutto è stato il secolo di Otto von Bismarck, colui che avrebbe unificato le terre tedesche sotto un’unica bandiera, messo sotto scacco le potenze continentali – in primis la Francia –, posto fine all’anglocentrismo nelle relazioni internazionali e gettato le basi per la trasformazione della Germania in una superpotenza.

La gioventù e i primi passi in politica. Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schönhausen nasce nella piccola Schönhausen il primo aprile 1815. Proveniente da una famiglia dell’aristocrazia terriera (junker), il giovane Bismarck cresce ascoltando le gesta del padre – un ufficiale prussiano che aveva partecipato alle guerre napoleoniche – e imparando a conoscere i meccanismi dietro al funzionamento della macchina statale dalla madre – una burocrate.

Trascorre la prima metà degli anni Trenta dell’Ottocento fra Gottinga e Berlino, dove avrebbe studiato giurisprudenza, per poi spostarsi a Potsdam e ad Aquisgrana, due città in cui avrebbe avuto l’occasione di lavorare brevemente per l’amministrazione pubblica. Il suo sogno, però, era un altro: entrare nella diplomazia. Dopo un breve e forzato ritorno a Schönhausen, dovuto alla morte dell’amata madre, nel 1847, per un caso fortuito, viene convocato alla Dieta riunita di Berlino dall’allora re di Prussia, Federico Guglielmo IV. Bismarck, colui che non avrebbe dovuto prendere parte alla Dieta – perché non figurante tra gli invitati originari –, profittò egregiamente dell’opportunità, stregando i partecipanti con la sua oratoria e guadagnando le simpatie dei conservatori per la sua adesione al pietismo. L’anno successivo – il celebre 1848 della Primavera dei popoli –, viene eletto nell’assemblea legislativa scaturita dall’occupazione di Berlino ad opera di Federico Guglielmo IV. E sarà in questo contesto di tensioni domestiche ed internazionali – in particolare con l’Austria –, che Bismarck troverà il modo di farsi strada. Di nuovo, per un caso fortuito – non aveva alcuna esperienza in ambito diplomatico –, nel 1851 sarebbe stato incaricato di rappresentare la Prussia presso la Confederazione germanica. Come già accaduto in passato, l’inesperto ma smaliziato Bismarck avrebbe saputo trasformare l’accidente in destino. Intuendo il declino del polmone austriaco, Bismarck suggerì al re di lavorare nel dietro le quinte per la secessione dei territori tedeschi settentrionali dalla confederazione e lo stabilimento di alleanze spendibili in un futuro di indipendenza. L’idea avrebbe convinto Federico Guglielmo IV, ma non poté essere messa immediatamente in atto a causa dell’ascesa prematura al trono di Prussia di suo fratello, Guglielmo I. Guglielmo I, più liberale del fratello e predecessore, indi più favorevole ad una Prussia integrata in un’entità confederativa con l’Austria, nel 1859 avrebbe inviato Bismarck a San Pietroburgo, eleggendolo ambasciatore, allo scopo di allontanarlo dalla politica interna. La misura punitiva, ad ogni modo, non sarebbe durata a lungo: nel 1862, invero, il re, sopraffatto dall’instabilità politica che affliggeva la piccola Prussia, le cui stanze dei bottoni e i cui seggi parlamentari erano infiltrati da agenti al soldo di Vienna e Parigi, richiamò Bismarck in patria affidandogli la gestione del dossier francese. Una missione che Bismarck avrebbe accettato prontamente e che, di lì a pochi anni, avrebbe condotto le terre tedesche sotto un’unica bandiera. Guglielmo I, il re pentito, richiamò Bismarck in patria nel 1862 per chiedergli di trovare una soluzione definitiva e permanente alla questione francese. Bismarck chiese pieni poteri, cioè la guida del governo, ma ottenne persino di più: il premierato e la titolarità del ministero degli Esteri. Quell’anno ebbe inizio un’epoca che sarebbe durata fino al 1890, plasmando la storia dell’Europa e delle restanti terre emerse. Forte di aver ottenuto carta bianca dall’imperatore, Bismarck si premurò, come prima cosa, di indebolire la posizione austriaca all’interno della Confederazione germanica. Un obiettivo che avrebbe raggiunto in maniera semplice e veloce, ovvero boicottando le sessioni confederative – invalidate dall’assenza della rappresentanza prussiana –, ottenendo la partecipazione della Prussia alla spartizione dello Schleswig-Holstein – funzionale ad evitare l’espansione del regno danese a detrimento prussiano e ad impedire che l’Austria potesse acquisire territori a settentrione – e, infine, convincendo gli austriaci a non rinnovare i trattati che regolavano l’unione doganale tra i membri della Confederazione – una mossa che, complicando l’interscambio, avrebbe aiutato il sistema produttivo prussiano a disaccoppiarsi da quello austriaco. Il diplomatico autodidatta, che aveva imparato la natura delle relazioni internazionali dai libri di storia, consapevole della verità sempreverde dell’amicus meus, inimicus inimici mei, nella seconda metà degli anni Sessanta avrebbe dato il colpo di grazia alle aspirazioni egemoniche di Vienna dando il via ad una partita a scacchi a quattro, cioè includente la neonata Italia e la Francia di Napoleone III.

Dopo aver siglato un’alleanza con l’Italia – destramente persuasa sollevando la questione del Veneto –, Bismarck procedette allo scioglimento della Confederazione germanica – improvviso, sì, ma comunque ritenuto prossimo ed inevitabile dagli austriaci –, il veridico casus belli della guerra lampo austro-prussiana – durata soltanto due mesi, cioè da giugno ad agosto del 1866. La guerra dei fratelli, come fu ribattezzata, si concluse con la sconfitta dell’Austria, costretta ad accettare la sovranità esclusiva della Prussia sui territori a settentrione del Meno e la fine, de jure et de facto, della Confederazione – i cui (ex) Stati membri, poco alla volta, sarebbero stati inglobati da Bismarck. Nell’immediato dopoguerra, al di là di ogni pronostico, Bismarck avrebbe piegato l’imponente Russia di Alessandro II senza colpo ferire. Lo zar, invero, era preoccupato dall’ascesa dirompente della Prussia e aveva minacciato di interferire nel processo di pace austro-prussiano. Bismarck, a quel punto, giocò d’astuzia: intimò al sovrano russo di non intromettersi, convincendolo, paventando lo scoppio di una rivoluzione tedesco-guidata nella Polonia russa. L’anno successivo, nel 1867, Bismarck avrebbe inviato un messaggio alla Francia, il secondo obiettivo della politica estera prussiana. Allestendo una conferenza internazionale a Londra, l’abile diplomatico ottenne che il piccolo Lussemburgo – un dominio sui generis protetto dalle truppe prussiane, amministrato dai Paesi Bassi e desiderato dalla Francia – fosse trasformato in uno Stato indipendente. L’obiettivo di Bismarck, che Napoleone III avrebbe compreso soltanto più tardi, e con insanabile ritardo, era quello di provocare la Francia, incoraggiandola ad avviare una guerra che avrebbe potuto favorire l’unificazione delle terre germaniche. L’incidente del destino avrebbe avuto luogo tre anni dopo, nel 1870, quando i parlamentari spagnoli avrebbero offerto la corona vacante a Leopoldo, parente di Guglielmo I, suscitando le ire di una Francia preda della sindrome di accerchiamento. Con un abilissimo machiavello – il celebre dispaccio di Ems –, Bismarck spinse la Francia a muovere guerra alla Prussia. Contrariamente alle attese di Napoleone III, però, quello che avrebbe dovuto essere un conflitto franco-prussiano si trasformò ben presto in un conflitto franco-tedesco, perché Bismarck, facendo leva sul germogliante pangermanesimo e corteggiando i principi tedeschi più prevenuti, trascinò nei combattimenti l’intera galassia ex confederativa – con l’eccezione dell’Austria. Sconfitta la Francia e negoziati i termini dell’adesione al futuro Stato tedesco con ogni singolo principe dei territori germanici, il 18 gennaio 1871, con l’incoronazione a Versailles di Guglielmo I, nacque ufficialmente l’impero tedesco, di cui due mesi più tardi Bismarck sarebbe divenuto cancelliere. Fatta la Germania e (già) fatti i tedeschi, nonché ridimensionati gli austriaci e piegati i francesi, Bismarck avrebbe dedicato il ventennio successivo al consolidamento dello Stato – dotato di un primitivo e avanguardistico sistema welfaristico e proiettato verso la modernità via investimenti nelle industrie bellica, pesante e navale –, all’addomesticamento delle potenziali quinte colonne – dalle campagne repressive contro socialisti ed anarchici al Kulturkampf contro la Chiesa cattolica, funzionale a ridurre le aspirazioni autonomistiche della Bavaria, potenzialmente strumentalizzabili da potenze cattoliche come Francia e Austria – e all’accrescimento della potenza tedesca sul piano internazionale – reso possibile spostando da Londra a Berlino le conferenze internazionali, rispolverando il pangermanesimo per ricostituire l’antico legame con l’Austria e creando una cinta muraria a difesa della Germania, e a latere dell’ordine bismarckiano, per mezzo di alleanze e intese cordiali con chiunque, dalla Francia alla Russia, e dovunque, dal Medio Oriente all’Africa. Morì il 30 luglio 1898, sopravvivendo alla moglie e all’amato kaiser, dopo aver trascorso gli ultimi mesi a lavorare ad un ultimo capolavoro, questa volta autobiografico: Pensieri e ricordi di Ottone Principe di Bismarck (Gedanken und Erinnerungen).

Le lezioni di Bismarck. Otto von Bismarck ha lasciato una mole di insegnamenti alla posterità, un bagaglio immane di lezioni in materia di statismo, diplomazia, strategia e geopolitica da cui sarà possibile attingere per sempre. Perché, oggi (e domani) come ieri, il vissuto del padre della Germania (ci) rammenta che:

Il caso può essere destino – quando un incarico viene ottenuto per una questione di fortuna, che si tratti di un seggio parlamentare o di un posto diplomatico, si colga l’occasione per dimostrare il proprio talento ai superiori (e meritare il titolo vinto fortuitamente) in luogo di comportarsi come dei supplenti disinteressati a cristallizzare la propria posizione;

Ogni Golia ha il suo Davide – una piccola potenza in ascesa può costringere all’inazione anche una grande potenza consolidata se in grado di riconoscere (e utilizzare) un jolly quando si presenta, come può essere una minoranza etnica da sobillare a scopo destabilizzativo;

L’importanza di non colpire per primi – il supporto della comunità internazionale ad una guerra può variare grandemente sulla base del suo essere offensiva o difensiva, perciò se l’intenzione è quella di ottenere una mobilitazione a proprio favore si potrebbe provocare il rivale sino a condurlo a dichiarare guerra, trasformandolo da vittima a carnefice e vincendo il sostegno di Stati altrimenti disinteressati ad entrare nel conflitto;

L’importanza dell’identità – fattori quali religione ed etnia possono essere strumentalizzati per trascinare in una guerra a due, e squisitamente politica, degli Stati gemelli o parenti dal punto di vista civilizzazionale, convertendo il conflitto in tutti contro uno;

L’imperativo della profondità strategica – i rivali vanno isolati preventivamente a mezzo di intese e alleanze con i loro nemici, ovunque si trovino e chiunque siano, nel nome dell’amicus meus, inimicus inimici mei;

Il corteggiamento è un’arma – un partner titubante e diffidente può essere spronato a prendere una posizione chiara e netta facendo appello ai suoi appetiti irredentistici e/o egemonici, mettendo l’esaudimento dei suoi desideri al centro del tavolo negoziale.

Più di ogni altra cosa, però, Otto von Bismarck (ci) ha insegnato che tutto è possibile. Che un giovane autodidatta può ingannare chi nella diplomazia è nato e cresciuto. Che l’astuzia può avere la meglio sulla forza bruta. E che, soprattutto, le relazioni internazionali sono imprevedibili: perché un ordine plurisecolare può essere spezzato in un decennio.

Da Bava Beccaris a Bresci. Anatomia di un regicidio. Giorgio Ferrari ricostruisce il lungo percorso che ha portato all'attentato a Umberto I. Matteo Sacchi - Sab, 27/02/2021 - su Il Giornale. Monza, 29 luglio dell'anno mille e novecento, due destini si incrociano: quello di Umberto I di Savoia, re d'Italia dal 1878, e quello di Gaetano Bresci, anarchico e figlio di contadini. Tre colpi di pistola - in rapida sequenza, e a breve distanza - contro il Re in carrozza, che saluta la folla venuta ad assistere ad un saggio ginnico, troncano la vita del monarca. È un attimo. La carrozza tenta la fuga, il Re dice «Non credo sia niente» e poi si accascia, la gente inferocita cerca di linciare Bresci che balbetta «non sono stato io». Lo salverà, arrestandolo, un maresciallo dei carabinieri, Andrea Braggio. Bresci non oppone resistenza e solo a posteriori, salvato dai bastoni, dirà la celebre frase: «Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio». Quella scena accaduta nell'afosa serata estiva di Monza che cambierà la storia d'Italia è solo l'ultima di un dramma iniziato ben prima. Per rendersene conto a 120 anni dalla morte di Gaetano Bresci, forse (e il forse è d'obbligo) suicida nel carcere di Santo Stefano a Ventotene, c'è un libro che ricostruisce non tanto il regicidio, quanto l'intricato percorso sociale e politico che ha portato a esso: Uccidete il Re Buono. Da Bava Beccaris a Gaetano Bresci (Neri Pozza, pagg. 272, euro 18) di Giorgio Ferrari. Ferrari, inviato speciale ed editorialista, cesella con precisione certosina il contesto europeo e internazionale in cui è maturato l'attentato. L'impressione che se ne ricava è che molte delle tensioni politiche e ideologiche del Novecento, nonché il militarismo e la violenza che ha portato alle Guerre mondiali, abbiano solide radici nel secolo precedente. I tre proiettili (ma c'è stato anche chi ha parlato di un quarto colpo) che uccisero un Re schiacciato dall'ombra di suo padre, il vitale e battagliero Vittorio Emanuele II, sono stati fusi tanto nello stampo dell'anarchia che in quello del militarismo bismarckiano. Umberto I avanza verso la morte seduto sulla carrozza, azzimata ma traballante, di una monarchia dalle grandi ambizioni, eppure a capo di un Paese fragile e diviso. Mentre si susseguono gli scandali economici, buon ultimo quello che travolgerà il governo Giolitti e la Banca Romana nel 1893, la corte coltiva sogni di gloria militare, una politica di forza che emuli quella di Berlino. Una sudditanza mentale nata ben prima di quella di Mussolini nei confronti di Hitler. Le ambizioni coloniali, portate avanti dal governo Crispi, si colorano subito di scelte velleitarie con risultati disastrosi: basti ricordare la battaglia di Adua del 1896, dove le truppe italiane vennero travolte da quelle del Negus Menelik II. I costi di queste scelte finirono inevitabilmente per cadere sulle classi popolari. E per sedare la loro rivolta non si esita ad utilizzare il cannone, come fece a Milano il generale Fiorenzo Bava Beccaris nel 1898. Ne ricevette in cambio da Umberto I l'ingresso nel senato del Regno. Ma lui e il Re ne ottennero anche una profetica canzone popolare: «Deh, non rider, sabauda marmaglia:/ se il fucile ha domato i ribelli/ se i fratelli hanno ucciso i fratelli/ sul tuo capo quel sangue cadrà». Non si può ridurre tutto a questa inutile repressione violenta o alle ambizioni di guerra di Umberto e di Crispi. Da anni il regicidio tentato o riuscito era diventato prassi comune in Europa. La sua teorizzazione ultima era stata fatta dall'anarchico Bakunin. E le messe in pratica sono troppe per elencarle, basti dire che prima di Bresci già altri due anarchici avevano tentato di assassinare Umberto I: Giovanni Passannante e Pietro Acciarito. Un meccanismo politico, nato dalle rivoluzioni borghesi o dai moti di unità nazionale, si era inceppato e veniva sostituito da una propaganda che vedeva nello Stato solo oppressione. Una propaganda che in Italia poteva saldarsi anche con una serie di movimenti con cui i Savoia avevano volentieri flirtato, almeno quando si trattava di abbattere monarchie altrui. Scriveva Errico Malatesta in morte di Bakunin: «L'idea della violenza, anche nel senso dell'attentato individuale che in molti ritengono peculiare all'anarchia, proviene in realtà dalla democrazia: è sufficiente essere democratici per adottare la rivolta, anche armata, contro l'oppressione. Prima di accogliere gli insegnamenti di Bakunin gli anarchici italiani hanno ammirato ed esaltato figure come Felice Orsini e i coups de main di Mazzini e Garibaldi e dei cospiratori risorgimentali». Umberto I vittima anche del Risorgimento oltre che del desiderio impossibile di eguagliare i successi del Padre. E forse l'unico difetto del libro è di essere davvero severo, nella chiusa, sulla figura di questo monarca. Certo, fu un Re dandy che poco capì del Paese, come scrive Ferrari, ma a lasciarlo scivolare in quella trappola fu una intera corte di sonnambuli. Errori commessi anche con l'ausilio di certi intellettuali, come Carducci, che andavano in sollucchero per la regina Margherita, senza intuire lo iato tra Paese reale e monarchia. Alla fine pagarono con la vita i manifestanti milanesi, i soldati di Adua, il Re e lo stesso Gaetano Bresci. Altri, altrettanto responsabili, da Crispi a Bava Beccaris o al generale Luigi Pelloux, passando anche per molti insurrezionalisti da divano, o avidi bancarottieri, se la cavarono senza pagare dazio alcuno o quasi.

Le spiagge invase dai cadaveri: l'inferno della battaglia di Gallipoli. Nel febbraio del 1915 iniziarono le operazioni per invadere la penisola di Gallipoli. Le forze alleate provarono a occupare la terra in mano agli ottomani: si risolse in un bagno di sangue. Lorenzo Vita - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale.  Il 17 febbraio 1915 due aerei decollano dalla portaidrovolanti britannica Hms Ark Royal per osservare le difese ottomane nella penisola di Gallipoli. Un volo breve che serve a confermare i piani degli strateghi inglesi, convinti che solo un'azione di forza avrebbe costretto gli ottomani a capitolare lasciando entrare gli Alleati a Costantinopoli dopo il blocco dei Dardanelli. Lì dove il mito racconta che nacque Dardano - colui che diede origine alla dinastia che regnò su Troia - la terra e il mare si uniscono in un affascinante insieme di colori. Il blu del mare, il giallo ocra della sabbia, il verde degli arbusti si fondono in un mosaico che agli occhi dei piloti britannici appare perfetto per colpire con l'operazione pianificata da Londra. Le fortezze ottomane sembrano buone, ma non inespugnabili. Gli idrovolanti eseguono alcune perlustrazioni individuando i punti che considerano più facili da colpire e quelli più complessi, dove è necessario l'intervento delle navi della flotta Alleata. Le difese turche sono state rinforzate da poco. i consiglieri militari del Kaiser hanno spiegato agli ottomani dove blindare i Dardanelli: i forti di Sedd el Bahr e Kum Kale osservano l'imboccatura dello stretto; mentre nella parte meno ampia, dove i Dardanelli sono larghi all'incirca un miglio, l'artiglieria turca offre un linea del fuoco molto più impegnativa, con due fortezze, quelle di Kilid Bahr e Çanakkale, a colpire ogni nave nemica che sceglie di solcare le acque degli stretti. Ottantamila uomini appartenenti alla Quinta armata ottomana, di cui una delle divisioni è comandata da Mustafa Kemal, sono stanziati sul fronte in attesa di una possibile invasione. La marina, ormai azzerata, non è in grado fornire un vero muro alle mire Alleate. Tornati sulla Ark Royal, i piloti degli idrovolanti sono convinti di aver svolto il lavoro nel miglior modo possibile. La missione è stata compiuta, certo. Ma nessuno può immaginare il destino che aspetta quella campagna rimasta nella storia come una delle peggiori disfatte dell'Impero britannico. Nella nebbia delle rive del Tamigi, il governo inglese, con Winston Churchill all'Ammiragliato, ragiona da anni sulla possibilità di colpire la Mezzaluna nel cuore del suo potere marittimo: il controllo degli Stretti. Solo quella prova di forza avrebbe piegato definitivamente la Sublime Porta. Churchill però non aveva fatto i conti con la possibilità che il blitz sognato da Londra si sarebbe trasformato in un bagno di sangue di quasi un anno. Con le prime luci dell'alba del 19 febbraio, un cannone turco spara il primo colpo contro la flotta anglo-francese posizionata davanti alle coste della penisola di Gallipoli. Due ore dopo è la corazzata britannica Cornwallis alle 9:51 a lanciare un nuovo proiettile. La Royal Navy si rende conto che la distanza non permette di colpire i forti turchi: è necessario avanzare rischiando di rimanere inerti di fronte all'artiglieria ottomana. Il 25 febbraio, dopo una settimana di mare in burrasca e piogge torrenziali, la flotta Alleata riprende gli attacchi: la situazione però non è così semplice come appariva a Londra. I forti ottomani sono ben nascosti e diventa impossibile attraversare gli stretti senza rischia di vedere colare a picco le navi impegnate negli scontri a fuoco. Per settimane gli anglo-francesi provano a dragare i Dardanelli e fanno sbarcare alcune piccole guarnigioni di fanteria per distruggere i forti abbandonati dagli ottomani, ma l'impressione è che non sia possibile forzare così facilmente quello stretto che basa tutta la strategia di Costantinopoli. Un mese dopo, quando il mare offre condizioni meteo più favorevoli, l'ammiraglio John de Robeck lancia l'attacco generale. Gli Alleati schierano 18 corazzate, più altre navi di appoggio. La flotta ingaggia un durissimo scontro con le fortezze ottomane, ma il tributo pagato dalle marine francese e inglese è pesante: affondano tre corazzate, devastate da una barriera di mine, mentre altre navi sono rese inutilizzabili dalle bombe. De Robeck ritiene che non sia possibile arrivare con la flotta davanti Costantinopoli e ferma l'operazione navale chiamando Londra: è il momento dello sbarco dell'esercito. Una scelta che si rivela funesta perché l'impero, in realtà, è praticamente stremato. I cannoni sono quasi inservibili e gli operai delle fabbriche di munizioni sull'orlo della rivolta. Ma a Londra non lo sanno e accettano la linea dell'ammiraglio. Il 25 aprile, un esercito composto da australiani, britannici, francesi e neozelandesi sbarcano sulla penisola di Gallipoli. Sei spiagge diventeranno presto la tomba per decine di migliaia di giovani. La sabbia di Gallipoli si comincia a colorare del rosso del sangue di questi giovani inviati come forza anfibia in terra turca, mentre gli ottomani resistono pagando anche loro un enorme tributo in termini di vite. Interi reparti vengono annientati dai fucilieri ottomani che, dall'alto dei pendii a ridosso delle spiagge, colpiscono ogni soldato che capita a tiro. Una carneficina che diventa immediatamente un'immagine orrenda: le cronache narrano di un odore nauseabondo che si sprigiona dalle trincee scavate tra la linea ottomana e il mare. I cadaveri si ammassano lungo le linee di fuoco mentre tra le truppe dei dominions britannici e quelle anglo-francesi si accendono epidemie di tifo e dissenteria. In poche settimane, quasi 15mila soldati Alleati muoiono semplicemente per avanzare poche centinaia di metri. Il giovane Mustafa Kemal, che è riuscito a evitare che gli ottomani compissero l'errore di sottovalutare alcune mosse degli occidentali, ha escogitato una resistenza senza precedenti. E nel frattempo, insieme ai cadaveri, aumentano a dismisura anche i feriti e moribondi che non sono più in grado di essere curati. Dopo mesi di resistenza senza tregua degli ottomani e tentativi di assalti Alleati finiti nel nulla, le forze che avevano tentato di prendere la penisola di Gallipoli sono costrette a evacuare. È impossibile dare una cifra esatta dei morti. Secondo le stime, si potrebbe arrivare anche a mezzo milione di vittime, considerando i morti per malattia che erano sopravvissuti al fuoco delle trincee ma non alle malattie esplose al loro interno. Altri studiosi ritengono che almeno centomila soldati morirono in combattimento, ma probabilmente sono stime viste al ribasso. Un conteggio che non è mai finito, così come il ricordo che è sempre presente nei Paesi coinvolti nella devastante campagna militare. Per la Turchia quell'ecatombe rappresenta la rinascita pagata col sangue dei martiri. Per i Paesi occidentali un incubo che non va dimenticato. Oggi, in migliaia sono sepolti lì, di fronte al mare, dove le loro tombe vengono scalfite dal vento, dal caldo e dalla salsedine che oggi: gli stessi elementi che più di un secolo fa segnarono i corpi di quei giovani caduti.

Francesco Carella per "Libero quotidiano" il 26 gennaio 2021. Le riflessioni sul Giorno della Memoria non possono che ruotare intorno alle domande che ossessionano l'umanità dacché furono abbattuti i cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945. Come è stato possibile che Adolf Hitler abbia potuto impossessarsi di uno dei Paesi occidentali culturalmente più sviluppati e portare avanti il programma di sterminio della popolazione ebraica con il consenso della stragrande maggioranza dei tedeschi? Una pagina unica nella storia che ha segnato la più drammatica eclissi dei valori mai verificatasi nei tempi moderni. E ancora: quale forma di cecità colpì i maggiori leader delle democrazie europee per non avere riconosciuto fin da subito la reale natura del fenomeno nazionalsocialista? Era convinzione diffusa presso le diverse Cancellerie che Hitler fosse solo uno scaltro agitatore senza alcuna capacità di governo, ancorché abilissimo nello sfruttare la frustrazione tedesca seguita ai pesanti Trattati di Versailles. Tutti erano pronti a giurare che sarebbe stato abbandonato al suo destino di demagogo, una volta superata la fase acuta della crisi economica, e sostituito dai tradizionali gruppi di potere della Germania.

Esagerazione. D'altronde, ancora nel 1937 il premier britannico Neville Chamberlain invita i suoi interlocutori, sia interni che internazionali, a "non vedere in Hitler null'altro che l'autore del Mein Kampf. Di più sarebbe un'autentica esagerazione". E dire che il futuro Führer si occupa della "questione ebraica" già nel lontano 1919, come ricorda lo storico Ian Kershaw in Hitler e l'enigma del consenso. Infatti, il 16 settembre di quell' anno partecipa a un seminario sul capitalismo organizzato dall'esercito e su sollecitazione di un ufficiale decide d'intervenire con una lettera che costituisce la prima testimonianza scritta delle sue idee sull'argomento. In quella missiva, dopo avere premesso che «il potere degli ebrei rappresenta l'espressione massima del potere del capitale», egli parla degli «ebrei come razza» e sostiene «la necessità di combatterli con strumenti razionali, piuttosto che in modo emotivo». A tal fine, si legge più avanti, «sarebbe necessario abolire tutti i diritti riconosciuti dalla legge ed estirpare la razza ebraica in quanto tale». Due anni dopo le medesime idee diventano parte integrante del programma del partito nazionalsocialista, mentre nel corso di un discorso pubblico tenuto nell'agosto 1920 Hitler ribadisce, in modo sprezzante e senza esitazione, che «non ci si deve illudere di combattere una malattia senza rimuoverne la causa. Essa continuerà ad avvelenare la nazione fino a quando la sua causa organica, l'ebreo, non verrà rimossa dal nostro seno». Per tacere di quanto scrive nel Mein Kampf, laddove si dice convinto che sarebbe stato possibile salvare la vita di un milione di tedeschi durante la Prima guerra mondiale se «solo fossero stati sottoposti al gas venefico dodici o quindicimila di questi ebrei corruttori del popolo». Come s'intuisce da questi passaggi era davvero difficile coltivare dubbi sui suoi propositi. Egli aveva in mente, fin dall'inizio, l'idea aberrante della "soluzione finale".

Trattato di Versailles. Tuttavia, nessuno dei leader democratici del Vecchio continente ne comprese appieno le potenzialità distruttrici. Si lasciò, viceversa, mano libera al punto che il Führer ottenne già nel '34-'35 il superamento di gran parte delle limitazioni imposte dal Trattato di Versailles, riuscendo, in tal modo, a indirizzare ingenti risorse economiche verso la costruzione di un apparato militare indispensabile per realizzare i piani di guerra. Si raggiunse il culmine della sottovalutazione nel settembre 1938, quando con il Patto di Monaco le democrazie avallarono il forzato passaggio della regione dei Sudeti sotto il controllo tedesco. La catastrofe dietro l'angolo era pronta a esplodere. «Il nazismo», - scrive Ian Kershaw, «non fu il prodotto dell'immaginazione di un solo uomo, ma una forza immanente allo stesso sistema di potere nazionalsocialista. Se nella società tedesca non ci fosse stata un'ampia disponibilità, diffusa anche fra i più scettici e i più tiepidi, a lavorare per il Führer - in modo diretto o indiretto - la forma peculiare di potere personale esercitata da Hitler si sarebbe trovata priva di fondamenta sia sociali che politiche. Egli non fu un tiranno imposto alla nazione, ma un leader sostenuto dalle masse tedesche». A tal proposito, lo storico americano, Daniel Jonah Goldhagen, parlò in un libro di qualche anno fa - suscitando reazioni furenti in Germania - di «volenterosi carnefici di Hitler». Mentre l'antisemitismo continua a essere presente in Europa, ma non solo, vale la pena di ricordare con Joachim Fest - autore di una monumentale biografia di Hitler - che «il Male esiste e che esso può presentarsi sulla scena pubblica con le sembianze di un essere umano. È la cosa più inquietante che ho capito studiando il nazismo e il progetto di stermino degli ebrei». Ammoniva, con amarezza, Primo Levi : "È avvenuto, quindi può accadere di nuovo".

Anais Ginori per "repubblica.it" il 21 maggio 2021. “Storicizzare il male”. È questo il titolo che Fayard ha dato alla nuova edizione critica di Mein Kampf. La scelta del prestigioso editore francese di ripubblicare il libro-manifesto del nazismo scritto da Adolf Hitler è nata quasi dieci anni fa, accompagnata da dubbi e critiche, tanto che l'uscita è stata più volte rinviata, anche a causa di un clima di rinnovato allarme per l'odio antisemita e gli attacchi contro la comunità ebraica in Francia. Tra gli intellettuali che erano insorti nel 2015, quando si è cominciato a parlare della ripubblicazione, c'era stato Marek Halter. Ma anche diverse associazioni di vittime della Shoah hanno protestato. Alla fine, l'editore ha deciso. Il 2 giugno uscirà l'edizione curata da un gruppo di storici guidati dal francese Florent Brayard e dal tedesco Andreas Wirsching. Il libro non rischia di finire nelle vetrine e nei banchi dei supermercati, la procedura di distribuzione sarà infatti inedita, a dimostrazione che non si tratta di un saggio tra i tanti. Fayard non passerà dalla normale rete distributiva ma manderà il volume solo ai librai che lo ordineranno, in un dialogo diretto con ognuno di loro. Con una lettera inviata alle librerie, la presidente di Fayard, Sophie de Closets, chiede di spiegare il progetto ai lettori.

Smascherando Hitler. “Non abbiamo mai voluto ripubblicare Mein Kampf, non avrebbe alcun senso” ha spiegato Closets presentando il volume. La necessità, prosegue l'editrice, si è presentata quando il testo di Hitler stava per cadere nel pubblico dominio, con il rischio di pubblicazioni selvagge e anche militanti. “Sarebbe stato irresponsabile – dice l'editrice – non offrire una traduzione di riferimento, completa di tutti gli strumenti per permettere al lettore di individuare le bugie e le manipolazioni dell'autore”. Scritto tra il 1924 e il 1925, Mein Kampf è la somma ideologica di Hitler, nel quale comincia a esporre la sua visione, lanciando violente imprecazioni contro coloro che designa come nemici della Germania, a cominciare dagli ebrei. Il libro era stato tradotto in Francia la prima volta nel 1934, con il titolo Mon Combat (pubblicato da Nouvelles Editions Latines) in un'edizione che circola ancora oggi in rete. Dal 1980, dopo una sentenza, è stato deciso di far precedere quel testo di Hitler da una prefazione di otto pagine. Poco, secondo Fayard, visto che poi si lascia comunque libero campo alla voce dell'autore e alla sua ideologia sterminatrice. Il Mein Kampf, ha aggiunto l'editore, si trova facilmente su Amazon e altre piattaforme, quindi tanto vale diffonderlo ai lettori con il massimo di contesto e avvertenze.

L'esempio tedesco. Il volume in uscita è di quasi mille pagine. Un terzo delle pagine contengono il testo originale e due terzi sono invece dedicate all'apparato critico. Fayard ha affidato il testo a un traduttore rinomato, Olivier Mannoni, che ha già lavorato su autori come Sigmund Freud, Stefan Zweig e Franz Kafka. L'iniziativa francese si ispira a quanto già fatto in Germania. Nel 2015 la squadra di studiosi guidati da Brayard ha cominciato a costruire l'apparato critico, in collaborazione con l'Istituto di storia contemporanea di Monaco di Baviera diretto da Wirsching, responsabile della riedizione tedesca di Mein Kampf. Nel progetto sono stati coinvolti venticinque storici, una dozzina di specialisti e diversi di collaboratori. "Il nostro comitato di storici – spiega Fayard – ha tradotto, adattato ed esteso le tremila note dell'edizione tedesca e scritto un'introduzione generale e 27 introduzioni di capitoli". “Historiser le mal”, storicizzare il male, sarà stampato in 10mila copie. Il prezzo elevato, 100 euro, dovrebbe limitare il numero di lettori. Tutti i ricavi saranno comunque versati alla Fondazione Auschwitz-Birkenau.

Storia tragica e segreta della Francia di Vichy. Le memorie di un intellettuale raffinato, anticonformista e alla fine profetico. Francesco Perfetti, Lunedì 18/01/2021 su Il Giornale. Nel 1924 apparve nelle librerie francesi un grosso volume dal titolo La victoire (Gallimard) che metteva in discussione l'idea, ispiratrice delle sedute e delle decisioni della Conferenza della pace, secondo la quale alle origini della Grande Guerra vi sarebbe stata una responsabilità esclusiva, o quanto meno predominante, della Germania. Molti decenni dopo, Raymond Aron scrisse che quel libro era «talmente eretico da far scandalo» ma aggiunse che esso in realtà «si sforzava solo di dividere le responsabilità della guerra tra i due campi». Autore del volume era un giovanissimo ma già conosciuto intellettuale, Alfred Fabre-Luce (1899-1983), divenuto in seguito un illustre scrittore di storia e politica, uno dei maggiori e non etichettabili testimoni, al pari di un Raymond Aron e di un Bertrand de Jouvenel, di molti dei decenni più caldi del XX secolo. Nipote del fondatore del Crédite Lyonnais e figlio di un banchiere, apparteneva a una importante famiglia di origine marsigliese che aveva costruito la propria fortuna sul commercio e sulla marina mercantile. Elegante e raffinato, lo sguardo intelligente e curioso, l'abbigliamento sempre ben curato con il papillon e il fazzoletto bianco nel taschino della giacca, Alfred Fabre-Luce, pur nell'aspetto esteriore, lasciava intendere l'appartenenza a quel ceto alto-borghese alle cui doti imprenditoriali (ma anche, si potrebbe aggiungere, all'amore per la cultura classica e al patriottismo unito a un certo gusto per la mondanità salottiera e letteraria) si dovevano le fortune del Paese. Dopo gli studi di letteratura, storia e diritto e dopo la laurea in Scienze politiche, Alfred Fabre-Luce aveva intrapreso la carriera diplomatica, era stato destinato a Londra, ma aveva quasi subito abbandonato questa carriera per dedicarsi al giornalismo politico e letterario. I suoi articoli cominciarono ad apparire su quotidiani e riviste e attirarono l'attenzione dello scrittore Albert Thibaudet e del critico Jacques Rivière, all'epoca direttore della prestigiosa Nouvelle Revue Française. Fu, sembra, proprio quest'ultimo a introdurlo nel sodalizio intellettuale fondato dal filosofo Paul Desjardins e chiamato «Décades de Pontigny» perché, ogni anno, per dieci giorni, si riunivano nella celebre abbazia gli intellettuali più prestigiosi dell'epoca per dibattere temi sociali e politici, filosofici e letterari. Agli incontri, coordinati da André Gide e Charles du Bos, presero parte, per esempio, André Maurois e François Mauriac, André Malraux e Ramon Fernandez, Jean Fayard... Fabre-Luce avrebbe ricordato, in seguito, le estati di Pontigny con una battuta eloquente: «In mancanza di un campus universitario ho conosciuto Pontigny», un luogo dove incontrare autori «le cui opere avevano contribuito alla mia formazione». Il microcosmo intellettuale e politicamente eclettico di Pontigny contribuì certamente alla notorietà di Fabre-Luce nel mondo culturale francese, ma il suo ingresso nei salotti mondani e aristocratici fu, con molta probabilità, dovuto al matrimonio con l'effervescente Lolotte, la principessa Charlotte de Fauchigny-Lucinge, diretta discendente del duca de Berry e di Carlo X e grande amica di un'altra esponente della più antica aristocrazia di Francia, la «duchessa rossa» Élisabeth de Gramont, modello del personaggio proustiano della duchessa di Guemantes. Uomo di curiosità insaziabile e di una grande versatilità artistica che gli consentiva di passare attraverso generi espressivi diversi dal saggio storico alla biografia, dal romanzo al teatro, dal pamphlet al giornalismo egli si trovava a proprio agio, al di là degli schemi ideologici, ovunque potesse far valere ed esercitare le proprie qualità di osservatore e testimone disincantato ma non disimpegnato. Non è un caso che egli sia stato annoverato fra i cosiddetti «non conformisti degli anni Trenta», quel gruppo di intellettuali, provenienti da diverse esperienze politiche, che si proponevano di superare la crisi politica, economica e sociale cercando una «terza via» fra le ideologie consolidate. In realtà egli apparteneva, a ben vedere, a quel filone speculativo che considerava la libertà di pensiero un punto di riferimento irrinunciabile secondo la direttrice che, partendo da Alexis de Tocqueville e passando per Benjamin Constant (al quale dedicò una bella biografia), giungeva fino a Raymond Aron e a Bertrand de Jouvenel. I suoi scritti erano spessi sconcertanti e non di rado chiaroveggenti. All'inizio del 1936, per esempio, egli pubblicò su L'Europe Nouvelle, periodico del quale era redattore capo, un articolo nel quale sosteneva che la Germania, dopo la rimilitarizzazione della Renania e il trattato di Locarno, avrebbe preparato la sua guerra all'Est: era una presa di posizione destinata a suscitare polemiche ma che, a detta di Aron, già spiegava e giustificava l'approvazione che Fabre-Luce avrebbe dato all'accordo di Monaco del 1938. A quell'epoca, Fabre-Luce, insieme con altri amici intellettuali come Bertrand de Jouvenel, Pierre Drieu La Rochelle e Ramon Fernandez stava avvicinandosi al Parti Populaire di Jacques Doriot, un partito di ispirazione fascista del quale, per qualche tempo, fece parte. Allo scoppio della seconda guerra mondiale Fabre-Luce cominciò a tenere un diario che, sotto il titolo Journal de la France 1939-1944, raccontava puntualmente gli avvenimenti dall'inizio del conflitto sino alla liberazione di Parigi. L'opera, ora riproposta in italiano con il titolo Riservato da Vichy. Diario segreto della Francia 1939-1944 (Oaks editrice, pagg. X-436, euro 25; introduzione di Roberto Zavaglia), è fondamentale per conoscere davvero quel tragico periodo e per capire come e perché, ancora oggi, la «sindrome di Vichy» sia ancora forte nella Francia di oggi. Fabre-Luce racconta, con una forza narrativa che richiama alla memoria le pagine di Suite francese di Irène Némirovski, l'evoluzione degli spiriti in un paese «ridisegnato» dall'armistizio, invaso dalle truppe di un nemico che era assimilato al barbaro, il comportamento degli intellettuali nella zona libera e nella zona occupata, le illusioni e le delusioni sul progetto di «Stato organico» che si voleva creare a Vichy. Fabre-Luce è lucido, conseguenziale e profetico. Nelle pagine iniziali, scritte dopo l'accordo Hitler-Stalin, spiega bene la dinamica di quello che egli chiama «il metodo hitleriano»: esso, scrive, «consiste nello spezzare la volontà dell'avversario su un punto debole, e approfittare poi della sua stanchezza per impadronirsi di posiziono piè importanti. Il Führer ha chiesto i Sudeti per essere padrone della Cecoslovacchia; chiede Danzica per essere padrone della Polonia, così un audace innamorato chiede un favore secondario, un bacio, o stringere la mano; e se trionfa in questo tentativo, il resto lo avrà senza sforzo». Guarda, inizialmente, con simpatia la nascita dello Stato di Vichy perché non si può mettere in discussione la legalità del governo di Vichy votato a stragrande maggioranza dall'Assemblea Nazionale, ma non nasconde le differenze che esistono, per esempio, tra Pétain e Laval e che nascondono un «contrasto morale». Se Pétain «ha il rispetto della tradizione, delle forme, dei corpi costituiti, dei rapporti scritti», Laval è al contrario «l'uomo delle improvvisazioni» che «rifiuta di tracciare in precedenza i limiti dei negoziati» e che considera uno scenario poco importante la «dignità tanto cara agli occhi del Maresciallo». Pubblicato parzialmente a Parigi durante l'occupazione, il volume di Fabre-Luce costò all'autore, che aveva predetto la sconfitta tedesca, un primo arresto da parte della Gestapo e un secondo arresto da parte del governo di Vichy. Dopo la Liberazione, Fabre-Luce fu poi nuovamente imprigionato e processato come collaborazionista. In realtà, egli non fu un collaborazionista nel senso proprio del termine, a differenza di molti altri intellettuali, pur suoi amici, ideologicamente vicini al nazionalsocialismo. Fu, piuttosto, un «realista» e un pragmatico. E, soprattutto, un osservatore e un testimone, sia pure impegnato ma sempre lucido e anticonformista. Come, del resto, avrebbero dimostrato i tanti suoi lavori successivi a cominciare da quelli critici nei confronti di De Gaulle e della sua politica algerina.

·        La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Davide contro Golia: la resistenza della Finlandia all’invasione di Stalin. Andrea Muratore su Inside Over l'8 dicembre 2021. Nell’inverno 1939, mentre in Europa prendeva forma la complessa storia della seconda guerra mondiale un conflitto di pochi mesi divampò parallelamente alla drole de guerre al confine franco-tedesco, in cui le armi tacevano. Un conflitto caratterizzato da uno dei massimi squilibri tra le parti in causa, che vide la piccola Finlandia tenere testa per diversi mesi all’Unione Sovietica, la quale l’aveva invasa per consolidare i confini occidentali nella regione di Leningrado.

A oltre ottant’anni di distanza la resistenza di Helsinki in una guerra conclusasi con un’onorevole sconfitta ma, in ultima istanza, con una vittoria strategica della Finlandia che evitò definitivamente l’annessione nell’orbita sovietica desta ammirazione come una delle pagine più intense della storia militare del Novecento.

La Finlandia nelle mire sovietiche

Mosca voleva da tempo regolare i conti con la Finlandia, nazione di giovane indipendenza che si era emancipata nel 1917 dall’Impero Russo, di cui faceva parte come granducato, e aveva resistito a tutti i tentativi di infiltrazione comunisti negli Anni Venti e Trenta.

Inoltre, la vicinanza dell’ex capitale imperiale, la città di San Pietroburgo rinominata dopo la Rivoluzione Leningrado, ai confini della giovane nazione con cui Mosca aveva stipulato nel 1932 un trattato di non aggressione rendeva il leader sovietico Stalin timoroso del fatto che un’eventuale potenza desiderosa di attaccare l’Unione Sovietica potesse usare la Finlandia come trampolino di lancio.

Il Patto Molotov-Ribbentrop del 1939, in un certo senso, offrì a Stalin il pretesto per aprire la strada a un’operazione di egemonizzazione della Finlandia.  L’accordo siglato a Mosca nella giornata del 23 agosto 1939 attribuiva nel protocollo segreto la delemitazione delle sfere di influenza dell’Urss e della Germania Nazista nell’Europa orientale. Oltre alla nota spartizione della Polonia lungo la linea Bug-San e alla divisione di quelle che sarebbero diventate le terre di sangue il patto di non aggressione russo-tedesco sdoganava per Stalin la possibilità di programmare l’espansione verso gli stati Baltici e la Finlandia. Tra settembre e ottobre del 1939 Mosca si attivò per imporre a Estonia, Lettonia e Lituania patti di assistenza che aprivano la strada alla presenza di truppe sovietiche nel Paese e, nel giro di pochi mesi, all’annessione alla nazione comunista. Lo stesso approccio fu impiegato nei confronti della Finlandia, ma le proposte sovietiche, che comprendevano anche rettifiche dei confini in Carelia e nell’Artico furono rispedite al mittente.

Scoppia la guerra d'inverno

La tensione tra i due Paesi ai confini salì ai massimi livelli. Il 26 novembre 1939 tre postazioni d’osservazione finlandese notarono l’esplosione di sette colpi all’interno del territorio sovietico nei pressi di una cittadina dell’area circostante Leningrado, chiamata Mainila. I rappresentanti del governo della Finlandia negarono ogni responsabilità nell’incidente occorso. Aimo Cajander (1879-1943), all’epoca primo ministro, propose l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente per risolvere la questione, ma Mosca rifiutò. Tre giorni dopo l’Unione Sovietica ruppe le relazioni diplomatiche con la Finlandia e, il 30 novembre 1939, dopo aver rigettato il trattato di non aggressione con la Finlandia stipulato precedentemente, lanciò l’offensiva.

Quel giorno Unione Sovietica avviò la mobilitazione di imponenti contingenti dell’Armata Rossa verso i confini finlandesi. I numeri a confronto delle forze schierate sul campo erano a dir poco impari: dai 130 mila più altri 230 mila soldati finlandesi mobilitati al quasi milione dei soldati dell’Armata Rossa. In più i sovietici potevano contare anche su circa 2500 carri e 2700 aerei.

Non c’era confronto, almeno sulla carta. Ma fin da subito la forza d’urto sovietica si ritrovò impantanata. La stagione scelta per l’attacco era a dir poco inclemente: i laghi ghiacciati e le foreste innevate della Finlandia avrebbero messo a dura prova qualsiasi esercito in inverni normali, mentre quello del 1939 fu uno dei più gelidi e inclementi di sempre. Con temperature che toccavano i quaranta gradi sotto lo zero, i russi subirono sulla propria pelle gli effetti del Generale Inverno che, da Napoleone all’Operazione Barbarossa, li aveva e li avrebbe più volte salvati nella storia.

Inoltre, le truppe d’invasione erano in larga parte costituite da divisioni ucraine poco addestrate, facenti riferimento a un popolo che, straziato dalla carestia e dalla repressione degli Anni Trenta, registrava i più bassi tassi di consenso per il potere sovietico. Truppe poco motivate, dunque, di fronte alla tenace resistenza dei finlandesi. Fin dall’inizio le truppe di Helsinki combatterono per i loro villaggi, le loro case e, soprattutto, sulla scia di un’organizzazione pronta all’eventualità di un’invasione

Da tempo il Paese era sul piede di guerra. Indro Montanelli, che da giovane cronista avrebbe seguito i mesi della guerra russo-finlandese per il Corriere della Sera, aveva scritto di aver trovato a novembre in Helsinki una città pronta a resistere e ben consapevole delle minacce: “La mobilitazione, iniziata con un senso avaro di previdenza e attuata con molto criterio, non ha causato confusione né scompiglio. Un volontarismo sereno, la capacità di sacrificio, il senso del dovere hanno secondato i provvedimenti presi dalle autorità civili e militari. Queste autorità civili e militari hanno agito con molta saggezza in previsione del peggio, quasi che la guerra fosse fatale. Con assoluta freddezza il caso d’un attacco russo è stato preventivato, mentre non è stata neppure presa in considerazione l’ipotesi di una non resistenza”.

La tattica utilizzata dai finlandesi nei territori settentrionali si rifaceva a quella della guerriglia: di fronte a soldati dotati di un armamento superiore, ma lente e male organizzate i finlandesi lanciarono la strategia denominata motti (termine che in finlandese indica la legna accatastata per essere fatta a pezzi): muovendosi agilmente con gli sci lungo i fianchi delle lunghe colonne sovietiche confinate sulle poche strade che attraversavano le fitte foreste innevate, si lanciavano in incessanti e fulminei attacchi di disturbo dileguandosi poi nelle foreste; quindi, concentravano su più punti offensive più strutturate., suddividendo le truppe avversarie in piccoli gruppi (le motti) che, immobilizzati nella neve, venivano poi circondati e annientati. Montanelli avrebbe spesso sottolineato il ruolo centrale che in quest’azione di resistenza sarebbe stato giocato dall’uomo oggigiorno ricordato come l’eroe nazionale del Paese, il barone Carl Gustaf Mannerheim.

La guerra personale del Barone

Come un Cincinnato richiamato alle armi, Mannerheim fu promosso immediatamente alla guida dell’Esercito finlandese lasciando la posizione di relativa retrovia di comandante della Difesa Territoriale detenuta dal 1931 al 1939 che aveva sapientemente sfruttato per architettare la linea di difesa che prendeva il suo nome e su cui si saldò la difesa finnica.

Tra capisaldi naturali, alture, laghi e città strategiche le truppe finlandesi compensarono con l’organizzazione e il favore della natura l’inferiorità numerica. Colonne di fanti armati di sci vestiti di bianco piombavano nella neve sulle colonne sovietiche in marcia, nidi di mitragliatrici tenevano in scacco interi battaglioni, l’inverno neutralizzava la superiorità sovietica in termini di aerei e mezzi motorizzati. A Nord, la lunga notte artica cristallizzò lo scontro in una guerra “bianca” di assalti di gruppi di arditi, scontri di pattuglie, piccole avanzate sovietiche che imponevano un duro prezzo umano.

La guerra si stava sviluppando esattamente come l’aveva immaginata da tempo il Barone Mannerheim. Il quale aveva vissuto vent’anni nell’attesa di un evento che riteneva fatalmente impossibile da neutralizzare, l’attacco sovietico. Dopo il quale il governo di Helsinki si affidò all’uomo che tra il 1918 e il 1919 aveva contribuito a consolidare l’esercito nazionale, sganciare definitivamente la Finlandia dalla Russia, negoziare l’uscita delle forze armate ex zariste dal Paese, chiudere la partita interna coi comunisti e, al tempo stesso, evitare di dover far per questo sponda con le Armate Bianche intente a combattere la guerra civile. Era quella l’era dei due “Baroni” in lotta contro tutti in una guerra privata: se per il pittoresco Ungern, a Est, la fine sarebbe arrivata nel 1921 con la vittoria bolscevica sulla sua armata, per Mannerheim la seconda guerra mondiale avrebbe riservato un nuovo capitolo nella sfida con la Russia.

Settantaduenne ex comandante di truppe di cavalleria zariste, ufficiale decorato nella Grande Guerra durante la campagna sul fronte carpatico, combattente plasmatosi nel “torneo delle ombre” dell’Estremo Oriente nella fase finale del Grande Gioco, reggente del Paese dopo l’indipendenza Mannerheim guidò una strategia realista per consolidare la tenuta del fronte finlandese. Nonostante l’entusiasmo di molti comandanti locali, che puntavano a rintuzzare con offensive gli attacchi fallimentari sovietici in Carelia, Mannerheim pensava a una salda tenuta del fronte da far pesare come elemento negoziale in un armistizio.

“Mannerheim non si vede più”, scriveva a dicembre 1939 Montanelli da Helsinki. “Per sua particolare natura è sempre stato un personaggio stranamente lontano e solitario […] Ma ora egli è più lontano che mai, al centro del misterioso quartier generale finnico di cui tutti ignorano la sede. Da una stanzetta disadorna quasi monacale, seduto ad una grande ordinatissima scrivania, Mannerheim dirige le operazioni vittoriose del suo esercito. Egli manovra sulla carta, calcola con pazienza, ascolta con attenzione, emana pochi ordini precisi. Tutto dipende da lui: esercito marina aviazione. E tutto a lui rassomiglia nell’azione: equilibrato, calmo, tenace”. La Finlandia applicò, finché fu possibile, la dottrina difensiva del suo eroe nazionale. E questo di fatto salvò il Paese.

La riorganizzazione sovietica

Alla fine di dicembre, Stalin constatò la difficile situazione dell’Armata Rossa sul fronte finlandese ed esautorò il Commissario alla difesa Kliment Vorošilov, chiamando al suo posto il generale Semën Tymošenko che ebbe anche il compito di supervisionare i comandanti delle singole armate impegnate contro la Finlandia. Abbandonando l’idea di una guerra di manovra, Tymošenko realizzò che l’unica via per Mosca di evitare di perdere ulteriori risorse e salvare la faccia sarebbe stata quella di procedere a una lenta, costosa guerra di logoramento per stremare gradualmente la Finlandia, che nel frattempo oltre al sostegno morale di buona parte del mondo e all’appoggio diplomatico di potenze appartenenti a campi contrapposti, come Italia e Regno Unito, aveva ottenuto un lasco appoggio materiale.

Le truppe sovietiche iniziarono a bombardare sistematicamente i bunker, a concentrarsi sui singoli capisaldi, a togliere terreno alle truppe finlandesi concentrando su punti precisi, di volta in volta, le offensive. In Carelia l’obiettivo era spezzare il fronte al livello dell’istmo per far sì che, di fronte al rischio di vedere il Paese diviso e la capitale accerchiata, i finlandesi chiedessero un armistizio.

Il disgelo favorì le azioni sovietiche, mentre la limitatezza di risorse e il logoramento finnico fecero il resto. A febbraio i sovietici vinsero due importanti battaglie, a Lahde e nei diretti pressi di Viipuri, la città ritenuta più strategica nella regione su cui si attestò la resistenza finlandese, costretta a una guerra di posizione molto più dispendiosa. A iniziomarzo del 1940, Viipuri, l’ultimo caposaldo finlandese nell’istmo di Carelia, cadde in mano ai sovietici. Helsinki non esitò ad attivare i canali diplomatici per porre fine a un conflitto dall’epilogo inevitabilmente catastrofico su iniziativa proprio del maresciallo Mannerheim, conscio della necessità di sfruttare la finestra di tempo per ottenere condizioni onorevoli. Così, in fin dei conti, fu.

La pace di Mosca

Con il trattato di pace di Mosca sottoscritto da Finlandia e Unione Sovietica il 12 marzo 1940, ebbe fine la “Guerra d’Inverno”, durata 105 giorni. La Finlandia si impegnò cedere 64 750 km² di territorio, rinunciando al 10% del territorio finlandese in cui viveva il 12% della popolazione ma preservò l’indipendenza nazionale e a conservare l’accesso all’oceano Artico.

La popolazione finlandese si divise di fronte all’armistizio, tra chi temeva potesse essere l’inizio di un’ulteriore penetrazione sovietica e chi invece fu soddisfatto della resistenza dimostrata. Montanelli osservò ammirato: “Questo popolo è indipendente da venti anni e la sua Patria se l’è sofferta per secoli. L’ama a tal punto e con tale gelosia che pur di alienarla è pronta a distruggerla. E lo fa soffrendo sotto una maschera di indifferenza che a volte ci fa dubitare se questi siano esseri umani”. Era stata la superiorità materiale, non quella militare, a portare l’Urss alla vittoria. Il popolo, il governo, l’esercito finlandese avrebbero concluso il conflitto a testa alta. Fieri, indipendenti, sovrani. Come un Davide capace di tenere testa al Golia comunista, nel pressoché totale isolamento. La ripartizione delle perdite di uomini e mezzi presenta la dimensione dell’eroismo finlandese. La Finlandia perse circa 25.000 uomini e 60 aerei, l’Unione Sovietica oltre 125.000 uomini, oltre 500 aerei e 1.600 carri armati: perdite durissime che sarebbero impallidite di fronte alle cifre della battaglia contro la Germania ma, in relazione al numero di forze in campo, desta impressione. Così come la desta un’epopea militare entrata di diritto tra le più grandi di tutti i tempi.

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin. Matteo Sacchi il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. Un saggio di Claudia Weber indaga l'alleanza mortale (e rimossa) tra i dittatori. Il 22 giugno 1941 molti nelle alte sfere politiche e militari della Gran Bretagna tirarono un sospiro di sollievo. Hitler dando corso a una progettualità di espansione a Est già ventilata nel Mein Kampf diede il via all'operazione Barbarossa e aggredì l'Unione Sovietica di Stalin. Tra i più sollevati dalla svolta, largamente prevista, il primo ministro Winston Churchill che aveva lavorato a far sì che gli Usa fossero pronti ad assistere materialmente i sovietici e che con l'apertura di un secondo fronte vedeva diminuire enormemente la pressione su Londra. Questa svolta che ha condizionato tutta la guerra ha fatto sì che la storiografia abbia alla fine guardato molto poco ai rapporti russo tedeschi durante i mesi precedenti del conflitto. Certo in qualunque manuale si trova traccia del patto Molotov-Ribbentrop firmato il 23 agosto 1939. Un patto decennale di non aggressione tra Mosca e Berlino che de facto portò alla spartizione della Polonia. Le fotografie scattate a Mosca durante la ratifica (dal fotografo personale di Hitler, Heinrich Hoffmann), come quella in questa pagina, sono addirittura diventate iconiche. Però il reale scopo dell'accordo, la spartizione dell'Europa orientale, e i suoi effetti devastanti sulle popolazioni stritolate dalle due dittature sono spesso stati sottostimati o raccontati solo di straforo. Erano materia quantomai imbarazzante per molte delle sinistre europee e ovviamente i sovietici, dopo il 1941, ebbero tutto l'interesse a seppellire molto profondamente nei loro archivi tutto ciò che era relativo alla loro collaborazione con la Germania. A scandagliare questa vicenda complessa ci ha pensa la storica Claudia Weber, con Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un'alleanza mortale ora tradotto in italiano per i tipi della Einaudi (pagg. 260, euro 28). Il saggio, breve ma molto denso, racconta con dovizia di dettagli il percorso che portò la Nkvd sovietica a collaborare con la Sipo di Heinrich Himmler per stringere in una morsa la popolazione polacca. Responsabilità che vanno ben oltre il massacro di 22mila ufficiali polacchi a Katyn che i sovietici hanno ammesso solo nel 1990 quando Michail Gorbacëv porse le scuse ufficiali del suo Paese. Il libro della Weber, che insegna all'università di Francoforte, fa chiaramente capire come l'intesa dei russi con i tedeschi a scopo di sviluppo militare e di occupazione dell'Europa dell'Est fosse iniziata addirittura prima dell'ascesa di Hitler. Già nel 1922 l'Urss si era avvicinata alla Germania. Era un modo per i due Paesi di uscire dall'isolamento diplomatico prodotto dal Trattato di Versailles. Le scelte di Stalin che portavano avanti l'idea del socialismo in un solo Paese attraverso una industrializzazione forzata necessitavano di un alleato tecnologicamente avanzato. La Germania isolata era perfetta. Iniziarono dei rapporti economici sanciti dal Trattato di Berlino del 1926 che nemmeno l'ascesa di Hitler mise mai in discussione. Nel 1931 e 1932 l'Urss fu il principale acquirente mondiale di macchinari tedeschi. Un esempio: nella prima metà del 1932, spiega Weber, Mosca acquistò più della metà dei profilati in ferro prodotti dalla Germania, il 70% delle macchine utensili per lavorare i metalli, il 90% delle turbine a vapore... Senza l'Urss la Germania non sarebbe sopravvissuta alla crisi del '29. Negli anni precedenti i tedeschi avevano del resto spostato in Urss con reciproco vantaggio una serie di esperimenti per la produzione di gas venefici. Venne anche creata una Panzerschule a Kazan' dove ufficiali tedeschi e russi (che poi si sarebbero sparati contro nella Seconda guerra mondiale) si addestravano assieme. Idem nel campo di volo vicino alla città di Lipeck. Pur nella diffidenza, cosa accomunava i militari delle due nazioni che si addestravano in questi campi? L'idea che la Polonia dovesse avere vita breve e che l'unica questione rilevante fosse quella di quando sarebbe scoccato il momento giusto per annientarla. Insomma nei suoi piani di sangue e di conquista Hitler mostrerà ben poca originalità ricalcando idee già ben radicate negli ufficiali di scuola prussiana e nelle fila dell'Armata rossa. Risulta quindi chiaro come la diplomazia sovietica abbia da subito lavorato per far capire ai nazisti, arrivati al potere nel 1933, quanto volentieri Mosca avrebbe proceduto sulla via precedentemente tracciata. Per usare le parole di Maksim Litvinov, ministro degli Esteri sovietico sino al 1939, rivolte ai diplomatici di Berlino: «Che cosa ce ne importa, se fate fuori i vostri comunisti». Non fu tutto così liscio perché l'antisovietismo (venato di realistico timore) di Hitler era radicale. Ma alla fine dopo una complessa sciarada politica che le potenze occidentali giocarono oggettivamente molto male il progetto di spartizione dell'Est prevalse su qualunque ideologia. Grazie soprattutto allo spietato realismo geopolitico di Stalin. Si arrivò all'assurdo dei comunisti francesi obbligati a festeggiare l'arrivo di Hitler a Parigi. E anche in Germania un Goebbels basito dovette inchinarsi al giornale delle SS che inneggiava alla fratellanza di sangue tra russi e tedeschi limitandosi a segnalare che certi tentativi di ingraziarsi Mosca erano «troppo goffi». Ma non fu solo una farsa tragica dove le ideologie si sacrificavano in nome della geopolitica. Nelle terre di sangue il doppio tallone ben coordinato delle SS e dei sovietici produsse un numero enorme di vittime. Una partita sporca che si interruppe soltanto quando Hitler ritenne (a torto) di poter fare a meno di Mosca e quando Stalin, nella sua paranoia, rifiutandosi di ascoltare chiunque non volle vedere l'evidenza del cambiamento di orientamento dei tedeschi. Ma questa è la storia nota che ha fatto finire sotto il tappeto quel complesso, e criminogeno, rapporto Mosca Berlino che la Weber racconta. Un rapporto di cui ancora non si può capire tutto perché ci sono carte che i russi tutt'ora si rifiutano di mostrare. Evidentemente imbarazzano ancora e schizzano di fango l'idea della grande guerra patriottica.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tec 

Mirella Serri per "lastampa.it" il 7 settembre 2021. «Nella biblioteca di letteratura straniera al posto dei giornali degli immigrati comunisti furono esposti fogli nazisti e furono eliminati i romanzi degli antifascisti. La parola “fascismo” non comparve più sulla stampa sovietica», così ricorderà il giovane Wolfgang Leonhard, futuro storico e politico che, nell’estate del 1939, frequentava la biblioteca moscovita. La mattina del 24 agosto una notizia strepitosa aveva stravolto il mondo democratico: al Cremlino il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov e il suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop avevano firmato un patto di non aggressione tra Urss e Germania. Proprio così: le due dittature, fino a quel momento l’una contro l’altra armate, avevano siglato un accordo. Tutto il mondo, in particolare quello antifascista, era pervaso da un sentimento di sgomento. Wolfgang, per esempio, come tanti altri antinazisti, era arrivato a Mosca in fuga da Berlino dove aveva fatto parte dei Giovani Pionieri, organizzazione del Partito comunista. Ora Stalin si era alleato con colui che Wolfgang considerava il suo aguzzino. Il patto Molotov-Ribbentrop prevedeva anche un «protocollo segreto» rimasto tale fino al termine degli anni Novanta, in cui venivano definiti i territori che i due tiranni si sarebbero spartiti. Le dinamiche di questa scellerata intesa tra i due Stati totalitari sono state cancellate dalla storia del Novecento e tenute nascoste come in uno speciale «buco nero»: adesso a far luce con dovizia di documenti inediti sul complesso intreccio de Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale è la storica Claudia Weber, docente all’Università di Francoforte sull’Oder. La studiosa si preoccupa di rimettere insieme i tasselli dell’accordo che per decenni «è stato considerato solo uno scomodo incidente storico». L’intesa Molotov-Ribbentrop, a seguito della quale il 1° settembre del 1939 iniziò la Seconda guerra mondiale, non fu per nulla un incidente anche se fu scambiata per una fake news: il diplomatico e ingegnere Viktor Kravcenko il quale, fuggito dall’Urss, scriverà il pamphlet Ho scelto la libertà, racconta: «Era incredibile! Era una certezza il fatto che l’unico nemico dei nazisti fosse l’Unione Sovietica. I nostri bambini giocavano a fascisti-contro comunisti e i fascisti avevano sempre nomi tedeschi e ogni volta venivano riempiti di botte». Non riusciva a capacitarsi di quella mostruosità nemmeno lo scrittore Arthur Koestler (successivamente autore del bestseller Buio a mezzogiorno in cui denunciava gli orrori delle galere staliniane): «Non ebbi più dubbi quando all’aeroporto di Mosca venne issata la bandiera con la svastica in onore di Ribbentrop e la banda dell’Armata Rossa intonò Das Horst-Wessel-Lied», l’inno ufficiale del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Stalin, a seguito del trattato tra i due ministri sovietico e tedesco, invase la Polonia orientale, gli Stati baltici e la Bessarabia (attualmente divisa tra la Moldavia e l’Ucraina), mentre Hitler, a sua volta, occupò la parte occidentale della Polonia: si misero in moto una «devastante carneficina mondiale e la Shoah», spiega la Weber. In Urss, sul modello nazista, venne avviata l’epurazione degli ebrei dai pubblici uffici. I giornali scrissero che «era dovere degli atei marxisti aiutare i nazisti nella campagna antisemita». Nel primo anno di guerra, con ordini segreti - resi noti solo decenni più tardi -, i sovietici proibirono ai partiti comunisti polacco e ceco di prendere posizione contro Hitler. Quando la Wehrmacht entrò a Parigi nel 1940, Stalin ordinò ai compagni francesi di accogliere calorosamente le truppe di occupazione. Molti comunisti che si erano rifugiati a Mosca e poi erano stati imprigionati durante le purghe staliniane, come la scrittrice tedesca Margarete Buber Neumann, vennero estradati e, dopo aver patito il gulag, si ritrovarono nei lager nazisti. La maggioranza degli aderenti ai partiti comunisti europei accettò tutto passivamente: «Stalin sa quello che fa», dicevano, «e il Partito ha sempre ragione». Il poeta Johannes R. Becher, comunista e in seguito ministro della Cultura della Repubblica democratica tedesca, rese addirittura omaggio al patto con una lirica: «A Stalin. Tu proteggi con la tua mano forte il giardino dell’Unione Sovietica. Tu, il figlio più grande della madre Russia, accetta questo mazzo di fiori… come segno del legame di pace che si estende saldo fino alla Cancelleria del Reich». I sovietici e i nazisti, a dispetto di tutti i precedenti contrasti ideologici, giunsero a una perfetta integrazione nello sterminio. L’Europa orientale si trasformò in «terra di sangue», con i profughi - ebrei, polacchi, ucraini - che si nascondevano nei boschi e tra le macerie delle città nelle zone di occupazione russa e tedesca ed erano il bersaglio delle guardie di confine. Paradossalmente, il 22 giugno 1941 i militanti comunisti tirarono un respiro di sollievo di fronte all’avvio di una nuova immensa tragedia. Era l’inizio dell’Operazione Barbarossa, nome in codice dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista. Si apriva lo scenario per un’altra storia, quella della lotta antifascista, mentre i sovietici, i partiti comunisti d’occidente e gli Alleati che operavano nella seconda guerra mondiale, si preparavano in nome della propaganda bellica a seppellire il ricordo del patto Hitler-Stalin.

Quell'asse "segreto" che ha fatto 14 milioni di morti. Andrea Muratore il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. In "Terre di sangue" Timothy Snyder parla di come nazismo e stalinismo furono di fatto complici nel tentativo di annientare il pluralismo etnico, sociale e culturale dell'Europa orientale. Provocando 14 milioni di morti. Quella tra russi e tedeschi è ben più della relazione tra due popoli. Si tratta di un rapporto che ha plasmato la storia d'Europa. Riorientandone l'asse verso il centro e l'Est, aggiungendo al mondo mediterraneo e allo spazio "carolingio" anche le distese oltre l'Oder e il Neisse, verso gli sconfinati spazi della Russia europea. Potenza catapultata tra il XVI e il XVII come protagonista dei consessi europei. Divisa dalla Prussia prima e dalla Germania poi da una relazione complessa. Un Giano bifronte, potremmo dire. Per dirla con il professor Salvatore Santangelo, attento studioso delle relazioni tra Mosca e Berlino, il rapporto russo-tedesco può essere letto in diversi "tra i Paesi europei, la Russia non ha avuto rapporti altrettanto intensi quanto quello costruito con la Germania. Un rapporto fatto anche di tragedie e orrori, che hanno avuto il proprio culmine nella Seconda guerra mondiale", in cui lo scontro ideologico tra il nazionalsocialismo e il comunismo stalinista aggiunse combustibile a una rivalità geopolitica giunta al punto di rottura, di non ritorno. Per il dilagare delle ambizioni del Terzo Reich e dell'Unione Sovietica sull'area che divideva, e divide tuttora, Germania e Russia. Al vasto spazio tra i russi e i tedeschi che i due popoli, a lungo imperiali, hanno più volte messo nel mirino e si sono contese. Fino a trasformarle, per usare l'espressione che dà il nome a un omonimo libro di Timothy Snyder, nelle "terre di sangue". Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin analizza nel profondo la storia di aree d'Europa come la Polonia, l'Ucraina, i Paesi baltici nel periodo che dalla fase interbellica arriva fino al pieno del secondo conflitto mondiale. Caricato di una tremenda connotazione di guerra d'annientamento il 22 giugno 1941, giorno del tradimento tedesco del Patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione siglato nel 1939 che sancì l'inizio dell'invasione dell'Unione Sovietica. E trascinò, per mezzo delle battaglie combattute sul campo, delle persecuzioni e dell'orrore dell'Olocausto, in una spirale di violenze senza fine le aree contese tra le due potenze totalitarie. Ma dal 1933 al 1945 la lista delle persecuzioni che investirono le "terre di sangue" fu in continuo aggiornamento: la carestia deliberatamente provocata da Stalin nei primi anni Trenta in Ucraina. Il Grande Terrore tra il ’37 e il ’38. La mortale aggressione tedesco-sovietica alle classi colte polacche tra ’39 e ’41. I tre milioni di prigionieri sovietici lasciati morire di fame dai tedeschi. Le centinaia di migliaia di civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Infine il dramma più grande, l’Olocausto e, sul finire della guerra, la persecuzione contro i tedeschi dell'Est. Snyder costruisce un racconto storiografico ben ordinato partendo da dei presupposti fondamentali: accerta che sia l'Unione Sovietica staliniana che la Germania nazista furono responsabili dell'annientamento di milioni di vite umane in territori che si contesero militarmente e che nell'ambizione dei due dittatori, Adolf Hitler e Josif Stalin, dovevano risultare strategici nella competizione bilaterale. Hitler sognava il trionfo della Germania ariana, l'annientamento degli ebrei dell'Est Europa, la trasformazione della Polonia, dell'Ucraina, della Russia europee in dipendenze dominate dai soldati-agricoltori mandati a colonizzarle, la sottomissione degli slavi. Aggiungendo connotati ideologici e razzisti alla chiara dottrina geopolitica interpretata da studiosi come Karl Hausofer, che immaginava per la Germania un ruolo centrale come impero continentale. L'Unione Sovietica staliniana intendeva invece assimilare al regime socialista le terre che più di tutte avevano mostrato riottosità all'omologazione sotto il nuovo ordine bolscevico. L'autore evidenzia come sia il Reich che l'Urss siano stati di fatto complici in un progetto che, per fini diversi, mirava però a annullare ogni identità culturale, politica e sociale dei Paesi delle "terre di sangue", non a caso spartiti brutalmente da Molotov e Ribbentrop nel patto del 1939 rotto da Hitler due anni dopo. Ed è impressionante constatare come i morti complessivi dell'Olocausto, 6 milioni, non corrispondano che a meno della metà delle persone uccise dai due regimi nei territori in questione tra il 1933 e il 1945: 14 milioni. Deportazioni di massa, carestie indotte (come il tragico Holodomor ucraino indotto dal regime staliniano), esecuzioni sommarie, repressioni, stupri, incendi, pogrom: le metodologie di massacro conobbero una crudele ed eterogenea variabilità, ed è spesso trascurata dalla storiografia l'attestazione del fatto che il numero di morti civili per queste cause diverse tra loro fu sopravanzato per un breve periodo soltanto (1944-1945) da quelli nei campi di sterminio nazisti. In larga parte posizionati nel cuore delle "terre di sangue": Auschwitz, Treblinka, Belzec e altri luoghi dell'orrore. "Non uno solo di quei quattordici milioni di morti era un soldato in servizio effettivo", nota Snyder. "La maggior parte era costituita da donne, bambini e anziani. Principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici". Molti di loro deceduti dopo aver subito persecuzioni da entrambi i regimi. Per l'autore "in quelle terre ebbe luogo la più grande calamità nella storia d’Europa" e fu sul lungo periodo inevitabile il fatto che "le vittime non poterono fare a meno di paragonare i due regimi. Penso a Vasilij Grossman, scrittore sovietico nato in Ucraina da famiglia ebrea. Egli assistette alla carestia lucidamente indotta da Stalin in Ucraina, e più tardi perse sua madre nell’Olocausto nazista, sempre in Ucraina. Gli venne naturale paragonare i due terribili eventi. Così fu per moltissimi ebrei, e così per moltissimi ucraini". Vittime di una persecuzione continua, stritolate nel redde rationem di un dualismo secolare, nel pieno del lungo suicidio dell'Europa rappresentato dalle due guerre mondiali. Un'ondata di dolore che ha rimesso in moto con profondo dinamismo la storia di queste terre dopo la fine della guerra e i lunghi anni di dominazione comunista. La memoria del dolore plasma oggigiorno la visione di nazioni come l'odierna Polonia, diffidente tanto di Mosca quanto di Berlino, identitaria e intenta a riscoprire nelle sue radici cristiane la forza vivificatrice per la ricostruzione del suo futuro. Una via già indicata in passato da Giovanni Paolo II, tra i tanti uomini sopravvissuti nonostante il faccia a faccia con entrambi i totalitarismi. Che, in fin dei conti, piuttosto che annientare i popoli delle "terre di sangue" li hanno, in ultima istanza, resi più coesi e resistenti. La disfatta del totalitarismo sta proprio nel fatto che nell'Europa di oggi continui a esistere il prezioso pluralismo etnico, religioso, politico, culturale che Hitler e Stalin volevano cinicamente negare. Andrea Muratore

L’Olocausto dimenticato di Stalin: Holodomor, la grande carestia ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 5 novembre 2021. Tra i grandi genocidi del Novecento eccessivamente sotto silenzio passa spesso nel dibattito pubblico l’Holodomor, la grande carestia che si abbatté sull’Ucraina tra il 1932 e il 1933 e che è direttamente correlabile alle politiche del regime sovietico di Stalin volte a consolidare la collettivizzazione forzata delle terre agricole del “granaio” dell’Europa orientale. In ucraino Holodomor significa letteralmente “sterminio per fame” .

Nel contesto di un processo che proseguiva a tappe forzate almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, si stima che tra i 3 e i 4 milioni fossero ucraini, vittime come in altre carestie del XX secolo non tanto della carenza di cibo e raccolti quanto piuttosto di una precisa volontà politica che tendeva a reprimere ogni dissenso dall’autorità centrale, arrivando a punire chi temendo la morte per fame ammassava privatamente raccolti o si rifiutava di far macellare il bestiame con la confisca dei beni.

Le premesse dell'annientamento

Riuniti sotto il controllo sovietico i territori ucraini, i bolscevichi dopo la guerra civile seguita alla fine dell’Impero zarista istituirono ufficialmente la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina il 30 dicembre 1922. Essa ebbe come prima capitale fino al 1934 la città orientale di Charkiv, dal 1918 sede del locale potere sovietico, ricordata talvolta come “la capitale della carestia”.

Il regime di Lenin prima e quello di Stalin poi apportarono profondi stravolgimenti nell’assetto sociale, politico ed economico dell’Ucraina, forzando (nonostante l’appello formale alla politica delle nazionalità) una convergenza verso un ceppo dominante di matrice russa, eradicando buona parte della tradizione culturale di matrice ortodossa, marginalizzando le minoranze ritenute afferenti a poteri potenzialmente nemici (come i polacchi), reprimendo l’identità dei cosacchi e cercando di imporre i principi del socialismo in un’economia a trazione agricola.

Dopo l’annuncio della massiccia campagna di collettivizzazione fondata sulle fattorie collettive (kolchoz) e le aziende agricole statali (sovchoz) la leadership sovietica nel 1928 concentrò fortemente i suoi sforzi su un’Ucraina che era stata tra le aree più renitenti del Paese in questa nuova sfida.

“Stalin e compagni”, nota l’Osservatorio Balcani-Caucaso, “erano ben consapevoli del pericolo di rivolte e ribellioni e, non volendo perdere l’Ucraina, nel 1932 il regime pensò a uno stratagemma per sterminare (o quantomeno mettere a tacere) la nazione ucraina, abilmente mascherato da uno dei piani di collettivizzazione”, cogliendo la palla al balzo per giustificare gli insufficienti risultati del piano generale. In sostanza “si trattava di confiscare tutte le scorte di grano e di generi alimentari come sanzione per il fallimento del piano statale di approvvigionamento di grano”.

La carestia come detto nacque non tanto dalla collettivizzazione, ma piuttosto dalle manovre volte a punire gli ucraini e a utilizzare il volano dell’accentramento del controllo sulle terre come scusa per annientare l’identità politica della Repubblica. Fu dunque il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, dei confinamenti delle metropoli a partire dalla stessa Charkiv, divenuta “la capitale della fame”. Il governo sovietico così accentuò la crisi agricola già in atto, creando una carestia “su ordinazione, imponendo una quota di grano estremamente alta e non realistica come tassa statale: la produzione di circa 6 milioni di chili di grano”.

L'inferno dell'Ucraina nell'era di Stalin

Il saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum e Terre di sangue, di Timothy Snyder, hanno contribuito a portare a conoscenza del grande pubblico alcune delle più drammatiche conseguenze delle politiche del regime di Stalin, riassunte emblematicamente da Avvenire: tra il 1932 e il 1933, in particolare, un rapporto “del capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi”.

Nell’universo parallelo del regime di Stalin la fame era considerata una forma di resistenza al potere sovietico. Sobillati dai nemici del Paese, primi fra tutti Polonia e Giappone dei quali ai cui estremi confini Mosca temeva l’alleanza in funzione antisovietica, Stalin e i suoi fedelissimi, Kaganovic e Molotov in testa, arrivarono a convincersi che la fame equivaleva a una forma estrema di resistenza all’inevitabile vittoria del socialismo da parte di sabotatori che odiavano il regime a tal punto da lasciare morire intenzionalmente le loro famiglie pur di non ammetterlo. Per Kaganovic la fame era una “lotta di classe”, e in un contesto che vide una carestia tragica fare milioni di vittima in tutta l’Unione Sovietica in Ucraina si arrivò al deliberato omicidio di massa.

Le tappe dell'Holodomor

Tra il novembre e il dicembre 1932 una serie di misure politiche crearono le basi perché l’Ucraina fosse accerchiata dalla fame. Il 18 novembre ai contadini ucraini fu fatto ordine di consegnare ogni avanzo del raccolto precedente superante le eccedenze da destinare all’ammasso, dando vita a una serie infinita di persecuzioni da parte di polizia e servizi segreti; due giorni dopo fu imposta una norma draconiana sulla carne, che portò alla confisca di massa di mucche e maiali, vera e propria riserva anti-fame per centinaia di migliaia di ucraini; il 28 novembre e il 5 dicembre ulteriori ordinanze aumentarono il potere di confisca dei funzionari comunisti. A fine dicembre e inizio gennaio il tour ucraino di Kaganovic lasciò dietro di sé un’ondata di epurazioni di funzionari, condanne a morte, deportazioni; il 14 gennaio 1933 ai contadini ucraini non fu concesso il lasciapassare interno che obbligatoriamente i cittadini sovietici dovevano portare con sé per muoversi nel Paese e, nell’inverno 1933, fu compiuta la mossa finale: la confisca die semi del grano per la stagione successiva, che lasciava i contadini ucraini senza speranze di poter autonomamente condurre un nuovo raccolto.

Nella primavera 1933 non meno di 10mila persone morivano, in media, ogni giorno di fame in Ucraina, a cui andavano aggiunti i circa 300mila ucraini morti di carestia dopo la deportazione nei campi di lavoro, nei gulag e negli insediamenti speciali citati da Snyder nei suoi studi. Aleksandr Solženicyn ha sostenuto il 2 aprile 2008 in un’intervista a Izvestija che la carestia degli anni Trenta in Ucraina è stata simile alla carestia russa del 1921-1922, poiché entrambe furono causati dalla “spietata rapina dei contadini da parte del sistema bolscevico”.

Complessivamente, non meno di 3,3 milioni di persone persero la vita nell’Holodomor, l’inferno sulla terra creato dalla collettivizzazione. La struttura sociale ucraina ne fu sconvolta, mentre nel frattempo il grano sovietico requisito agli ucraini contribuiva a mantenere stabili i mercati internazionali, nelle decisive settimane in cui gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt puntavano su questa nuova stabilità per uscire dalla Grande Depressione e si preparavano ad estendere il proprio riconoscimento all’Urss nel novembre 1933 e in Germania Adolf Hitler consolidava il suo potere.

Ancora oggi il ricordo dell’Holodomor divide Ucraina e Russia. Per Kiev si tratta di una pagina incancellabile della propria storia: nel 2010, la corte d’appello di Kiev decretò che l’Holodomor fosse un atto di genocidio e anche Polonia e Città del Vaticano si sono espressi in tal senso. Latita ancora la memoria storica in tal senso, come spesso accade sul fronte dei crimini staliniani. Condotti sotto la cappa di ferro di un regime in larga misura isolato dal mondo e la cui scoperta è stata, in larga misura, il frutto del lavoro pioneristico di pochi storici.

Tra Hitler e Stalin: le “terre di sangue” vittime dei regimi totalitari. Andrea Muratore  su Inside Over il 5 novembre 2021. Il totalitarismo nazionalsocialista e quello stalinano sono associati ad alcuni dei più efferati crimini commessi nella storia del Novecento. Guardando alla tragica storia tra l’inizio delle campagne di collettivizzazione di massa in Unione Sovietica a inizio Anni Trenta e la fine della Seconda guerra mondiale culminata nella distruzione del Terzo Reich si nota che buona parte dei crimini di Hitler e Stalin ebbero come teatro un’area sovrapponibile dell’Europa orientale compresa tra la Polonia, i Paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina. In cui furono sterminate milioni di persone in larga parte inermi.

I massacri dei due totalitarismi

Lo storico Timothy Snyder nel saggio Terre di sangue ha sottolineato l’importanza di analizzare questa area d’Europa come vittima parallelamente delle efferatezze staliniane e di quelle naziste. Dall’inizio degli Anni Trenta all’inizio della seconda guerra mondiale fu l’Unione Sovietica a produrre i maggiori massacri con l’Holodomor, la devastante carestia ucraina, le collettivizzazioni forzate delle campagne e le deportazioni nei Gulag culminate nel Grande Terrore tra il 1937 e il 1938; il Patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione siglato nell’agosto 1939 e durato fino alla tragica giornata del 22 giugno che sancì l’inizio dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica aprì la strada alla spartizione della Polonia e a una fase in cui i due regimi furono complici dell’annientamento dell’identità sociale, politica e culturale della nazione occupata.

Dopo il 1941, infine, furono i tedeschi a sdoganare la componente più efferata e violenta dei loro crimini. Nelle “terre di sangue” ebbe luogo l’omicidio in massa degli ebrei di tutta Europa, nel loro territorio avevano sede le fabbriche della morte naziste (Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Belzec, Majdanek), furono compiuti eccidi di massa e fucilazioni, almeno tre milioni di prigionieri di guerra sovietici furono fatti morire di fame. Le “terre di sangue” furono oggetto della competizione incrociata tra il Reich e la potenza comunista, ma sostanzialmente, anche da nemiche, sia il Reich che l’Urss siano stati di fatto complici in un progetto che, per fini diversi, mirava però allo stesso obiettivo di fondo: annullare ogni identità culturale, politica e sociale dei Paesi delle “terre di sangue”, non a caso spartiti brutalmente da Molotov e Ribbentrop nel patto del 1939, assimilandoli forzatamente ai russi e ai tedeschi.

Una conta di morti impressionante

Oggigiorno – giustamente – spaventano e raccapricciano i pensieri riguardanti i 6 milioni di ebrei assassinati nel quadro della “Soluzione finale” nazionalsocialista. Ebbene, gli ebrei sterminati dai tedeschi nelle camere a gas, nelle repressioni di massa, con le fucilazioni, attraverso le marce della morte e la privazione del cibo non ammontano nemmeno alla metà complessiva dei morti delle “terre di sangue”, che Snyder calcola complessivamente in 14 milioni.

Questo numero, come quello di tutti i genocidi della storia, non significherebbe nulla se non fosse confrontato al pensiero che ogni decesso corrisponde a un’esistenza umana interrotta tragicamente. Dal prigioniero del gulag fatto morire di fame alla bambina ucraina perita assieme alla sua famiglia di carestia, dalla giovane madre ebrea morta in Bielorussia dopo l’invasione tedesca alle innumerevoli vite divorate dai lager, Snyder prova a dare umanità e individualità a alcune di queste.

La conta dei morti si snoda lungo un decennio ed è impressionante: il martirio delle “terre di sangue” ebbe inizio con i 3 milioni di morti della carestia “politica” imposta da Stalin all’Ucraina a inizio Anni Trenta; proseguì con i circa 700mila morti del Grande Terrore, in larga misura contadini e membri di minoranze nazionali fucilati; 200mila polacchi furono uccisi da tedeschi e sovietici nella repressione del 1939-1941; 4 milioni di persone morirono di fame e stenti in Unione Sovietica dopo l’invasione tedesca, 5,4 dei 6 milioni di ebrei periti durante l’Olocausto furono sterminati nelle “terre di sangue” e le operazioni anti-partigiane, le repressioni di massa e le vendette incrociate contro i partigiani tra Polonia, Bielorussia, Ucraina reclamarono un tributo di un ulteriore mezzo milione di vittime.

“A grande distanza di tempo si può scegliere di paragonare o meno i sistemi nazista o sovietico”, scrive Snyder, riferendosi a un’annosa polemica politica che divide l’Europa. “Le centinaia di milioni di europei che furono sottoposti a entrambi i regimi non poterono permettersi questo lusso”. E spesso finirono per essere vittime di entrambi i regimi o carnefici involontari. Per un ufficiale polacco nel 1939 la scelta di arrendersi ai tedeschi o ai sovietici presentava analoghe incognite; un ebreo polacco fuggito in Unione Sovietica tra il 1939 e il 1941 poteva finire in un gulag o essere riconsegnato ai nazisti; un cittadino ucraino poteva subire una rappresaglia tedesca o entrare a far parte di un gruppo partigiano, oppure scegliere un collaborazionismo spesso deciso come via di fuga dall’incertezza; in Bielorussia l’arruolamento forzato al lavoro al servizio dei tedeschi o il reclutamento da parte dei partigiani dipendeva spesso da singoli rastrellamenti; spesso diversi militari sovietici caduti prigionieri scelsero l’arruolamento con la Germania nazista come unica alternativa alla morte per fame.

La sovrapposizione tra le violenze naziste e quelle sovietiche portò al parossismo la pressione storica sull’Europa orientale, ma diede anche vita a una fase unica, nella sua tragicità, dei rapporti tra Berlino e Mosca, dato che per il professor Salvatore Santangelo, attento studioso delle relazioni tra Mosca e Berlino, “la Russia non ha avuto rapporti altrettanto intensi quanto quello costruito con la Germania. Un rapporto fatto anche di tragedie e orrori, che hanno avuto il proprio culmine nella Seconda guerra mondiale”, la quale ha segnato uno spartiacque storico fondamentale per l’Europa orientale. E non è un caso che per quasi tutti gli Stati che si trovano ancor oggi tra i russi e i tedeschi oggigiorno l’incubo strategico, dopo le divisioni della Guerra Fredda e la fine del comunismo sovietico, sia una piena saldatura tra Mosca e Berlino sotto forma di asse economico, energetico, geopolitico che li tagli fuori. I retaggi del passato non si possono cancellare dalla memoria dei popoli quando di mezzo ci sono le terre di sangue.

Katyn, il colpo al cuore della Polonia. Andrea Muratore  su Inside Over il 5 novembre 2021. Camminando per le città polacche, in diverse chiese e cattedrali ricostruite dopo la Seconda guerra mondiale si potrà ammirare, in forma di dipinto, come scultura o incisa in una vetrata, un’icona della Vergine Maria tanto realistica quanto commovente: la Madonna, raffigurata dolorante, stringe al suo petto il corpo di un uomo che appare rivolto di schiena, con un foro nella nuca. Per i polacchi, è l’icona della Madonna di Katyn, il simbolo del martirio della nazione durante il secondo conflitto mondiale, che ebbe uno dei suoi momenti apicali nella strage ordinata dal regime sovietico di Stalin contro gli ufficiali polacchi prigionieri nella primavera 1940.

I graduati polacchi presi prigionieri dopo la spartizione della Polonia tra Germania nazista e Unione Sovietica furono massacrati assieme a politici, giornalisti, intellettuali, professori e industriali, uccisi con esecuzioni sommarie a colpi di pistola dai militari Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) in una serie di episodi che ebbero il loro apice nel massacro avvenuto nei pressi della foresta di Katyn, sita a circa 20 km dalla città russa di Smolensk.

Complessivamente, furono 22mila i morti in una serie di operazioni che spiccano per efferatezza e programmazione da parte delle autorità sovietiche. Desiderose di cancellare dalla faccia della Terra ogni vestigia di un’identità polacca. Di annientare scientemente la nazione dopo aver contribuito ad azzerarne lo Stato. Un’azione volutamente e deliberatamente tesa all’annientamento delle guide contemporanee e future del popolo polacco, a consolidarne l’asservimento, non meno brutale di analoghe repressioni condotte dai nazisti nella prima nazione da loro invasa nel 1939 e negli anni successivi. Laddove la Seconda guerra mondiale rappresentò per la Germania di Adolf Hitler il punto d’inizio di una campagna di asservimento dei cittadini polacchi e di sterminio graduale della sua comunità ebraica, essa fu per Stalin e il suo regime il punto d’arrivo di una paranoica persecuzione anti-polacca che aveva avuto già le sue prime espressioni ai tempi dell’Holodomor, la grande carestia ucraina degli Anni Trenta, e nel Grande Terrore del 1937-1938.

Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, capo della polizia segreta sovietica, aveva proposto al Politburo del Partito comunista dell’Unione Sovietica di approvare un ordine di eliminazione delle forze antisovietiche e degli attivisti  “nazionalisti e controrivoluzionari” detenuti nei campi e nelle prigioni delle parti occupata della Polonia. Richiamandosi all’inesistente Organizzazione Militare Polacca a cui erano accusati di partecipare alcuni dei fucilati in vista della repressione del Grande Terrore.

Detenuti nei campi di prigionia di Kalinin, vicino Mosca, di Staroblisk, vicino all’attuale Donetsk, e soprattutto nel centro di Kozelsk i polacchi arrestati o presi prigionieri furono destinati alla morte da un ordine amministrativo connotato dal tradizionale grigiore burocratico con cui la vita e la morte venivano decise nell’Urss staliniana. Kozelsk è la città in cui Fedor Dostojevskij aveva collocato una scena cruciale dei Fratelli Karamazov. Un’opera coniugante in forma tragica fede, discussioni sul destino dell’essere umano e un duello tragico tra morali diverse che vide una sua parte ambientata all’Optyn Hermitage della piccola città russa, divenuta dal 1939 sede di un campo di prigionia sovietico divenuto base per la fabbrica della morte sovietica. Come ha ricordato la storica Anna Cienciala, polacca emigrata negli Usa, i massacri che presero il nome da Katyn avvennero dispersi su più aree concentrate nello spazio boschivo vicino Smolensk e seguivano un modus operandi freddamente determinato: i detenuti condotti da Kozelsk a Katyn erano “condotti in una stanza dove venivano controllati i loro estremi. Da qui giungevano in un’altra stanza, buia e senza finestre” e, come ricordarono testimoni del Nkvd, “si sentiva un rumore secco e questa era la fine”. In alcuni casi, a Katyn i i prigionieri erano portati direttamente alle fosse con le mani legate dietro la schiena e uccisi con un colpo di pistola alla nuca.

Qual è la portata tragica più significativa dell’eccidio di Katyn? Essenzialmente il fatto che inviti a pensare sulla drammaticità e sulla convergenza dei regimi totalitari del Novecento. Per lungo tempo la sua responsabilità venne attribuite ai tedeschi per il fatto che Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Reich, volle sfruttare propagandisticamente il massacro dopo la scoperta delle fosse comuni di Katyn da parte dei militari della Germania nel 1943. Di questa opera di madornale disinformazione furono complici anche gli occidentali prima della fine della seconda guerra mondiale: la rottura consumatasi tra il governo polacco in esilio e Stalin dopo la scoperta del massacro rischiava di minare la coalizione antitedesca e Varsavia, in nome della quale era stata avviata la guerra a Hitler, destinata nelle mani di uno dei suoi due invasori del 1939. Come sottolinea Avvenire, inoltre, “il macabro paradosso del processo di Norimberga fu che tra i giudici dei criminali hitleriani c’erano i funzionari sovietici, colpevoli di analoghi stermini di massa, tra cui appunto quello di Katyn”.

Nella sua ultima intervista concessa all’Osservatore Romano a pochi giorni dalla morte, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 2009 il professor Viktor Zaslavsky, docente di Sociologia politica presso la Luiss di Roma, grande studioso dei rapporti tra Italia e blocco orientale nella Guerra Fredda e, soprattutto, ex cittadino sovietico che nel 1974 venne espulso dall’Urss dichiarò che “nell’ambito del dibattito sui totalitarismi e sui sistemi totalitari del XX secolo il massacro di Katyn rappresenta un caso emblematico di pulizia di classe, mentre Auschwitz si configura come un caso di pulizia etnica. Due politiche gemelle che accomunano il totalitarismo nazista e quello sovietico”. Con una nazione martire per eccellenza: la Polonia, “Cristo d’Europa” martoriato per decenni fino alla definitiva emancipazione da ogni dominio esterno dopo il 1989. Anno che ha permesso di far finalmente giustizia su uno dei crimini più odiosi e meno noti del Novecento. Un massacro con cui un regime totalitario mirò a decapitare di colpo una nazione intera azzerando le sue prospettive di rinascita e decimandone l’élite.

·        Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Il saggio di Bevilacqua. Tocqueville e i suoi fantasmi: una lezione di filosofia. Filippo La Porta su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Piero Bevilacqua, storico meridionalista e scrittore, ha orchestrato un dialogo impossibile tra alcuni giganti del pensiero moderno, altrettanti spettri convocati nel 2021 in una sontuosa dimora vicino Parigi, dal visconte Alexis de Tocqueville: Illustri fantasmi nel castello di Tocqueville (Castelvecchi), e lo ha fatto con gusto letterario, sapiente messinscena e senso dei dialoghi. Di fronte a noi sfilano Marx, Burke, Nietzsche, Lenin, Rosa Luxemburg, Gramsci, Friedman… tutti molto informati sulle trasformazioni del mondo contemporaneo. Credo che il nostro ceto politico – apparentemente nato da se stesso (riuscite a immaginare una biblioteca dietro i nostri partiti?) – avrebbe l’obbligo di leggere questo libretto, anche solo per acquisire un senso del passato, una consapevolezza della politica stessa, una cognizione sufficientemente precisa del conflitto di idee così come ci viene dalla tradizione.

Dichiaro subito la mia totale condivisione dello spirito del libretto, della sensibilità che lo sottende, della segreta identificazione dell’autore con Rosa Luxemburg (se non mi sbaglio), l’unica capace di attaccare sia la “ragione” occidentale, legata al dominio, e sia il soggettivismo rivoluzionario privo di misura, che non riconosce al caso alcuna importanza. Inoltre segnalo, in queste pagine, alcune perle assolute: l’originale riflessione sulla mancanza di una vera tradizione di sinistra negli Usa, la disputa sulla illusione che basti produrre più ricchezza per elevare il livello di tutti, la denuncia dell’applicazione agli animali dei metodi di sterminio collaudati nel secolo breve, la confutazione del cosiddetto “stato leggero”, l’idea aberrante della colpa originaria oggi legata al debito contratto… Non solo Bevilacqua dice qualcosa di sinistra, ma la dice con una chiarezza problematica esemplare. Detto questo, mi sento allora autorizzato a riportare qui un elenco di considerazioni critiche e di possibili obiezioni (to be continued…)

1) Nel nobile consesso mancano alcuni ospiti che sarebbero stati fondamentali (mentre far rappresentare da Friedman l’intera tradizione liberale è un po’ mettersi le cose facili). In particolare: Proudhon, che non capiva la dialettica (come Tocqueville) ma che aveva intravisto l’autoritarismo di Marx e più che di socialismo “scientifico” (micidiale illusione) parlava della centralità del bisogno di giustizia; Leopardi, che più di chiunque altro ha meditato sulla natura (restiamo creature gettate sulla terra, condannate a invecchiare e a morire, dice Tocqueville) auspicando (nella “Ginestra”) una lotta di tutti contro il comune nemico (mente il marxismo sulla questione del limite oscuro e naturale dell’esistenza ha delegato troppo al positivismo più bolso); Herzen, il pensatore libertario che ha mostrato come i fini troppo lontani nel tempo sono sempre un inganno (contano quasi solo i “mezzi”).

2) Unico autore contemporaneo citato è sir Ralf Dahrendorf (e il nostro Carlo Cipolla)! Senza nulla togliere all’illustre “baronetto” politologo, forse c’era di meglio: Sennett, Nancy, Castoriadis, Ivan Illich…

3) La tirata di Marx contro il nostro tempo (la tendenza a farsi gregge delle persone) e le strategie pervasive di marketing (ci indurrebbero ad acquistare anche prodotti di cui non abbiamo bisogno) non mi convince, né mi pare in fondo “marxista”: le merci non sono mai imposte né interamente calate dall’alto. Vi è interazione tra alto e basso. L’iPhone – un prodotto di eccellenza tecnologica – è stato immaginato e disegnato da ex fricchettoni californiani (sottopagati) pensando a ciò che loro stessi desideravano di più, alla possibilità di comunicare facilmente con chiunque, etc.! Non ne abbiamo bisogno per la sopravvivenza? Certo, ma allora dovremmo rinunciare a 4/5 del nostro stile di vita.

4) Sulla violenza le critiche (radicali) al marxismo (la violenza levatrice della Storia, etc.) le avrei fatte citando almeno Simone Weil: ogni guerra, come la guerra di Troia, si dimentica le sue ragioni, mentre l’uso della forza sfigura per sempre chi la usa e chi la subisce. Compagni, ancora uno sforzo: Saul Alinsky, inventore del sit-in e di tecniche di disobbedienza passiva, organizzatore dal basso di comunità a Chicago negli anni ‘30, è assai più “eversivo” di Che Guevara!

5) Il Nietzsche di questo consesso, benché dipinto correttamente come pessimista incorreggibile e critico della modernità, mi sembra troppo poco di destra, come invece era! Non dimentichiamolo, voleva gli operai ridotti a schiavi, senza la “finzione” del diritto di sciopero e cose analoghe!

6) Sugli States. Bevilacqua accoglie equanimemente opinioni diverse, però si capisce che è un po’ più dalla parte di chi li demonizza. Ora, dal punto di vista “dell’essenza” (i filosofi prediligono l’essenza) può anche darsi che tra democrazia americana e Germania nazista non ci siano differenze rilevanti. Ma basta aver vissuto negli Stati Uniti una settimana per capire come invece i “dettagli” sono tutto, e circola ovunque un senso di libertà vertiginoso, a noi sconosciuto (un musicista nero, che viveva di espedienti, mi disse convinto: «I’m not poor, I’m broke», «Non sono povero, sono – temporaneamente – al verde»).

Torniamo al mio pieno consenso a queste pagine di Bevilacqua. Nelle conclusioni fa dire a Marx: «Dentro quest’ordine vecchio della società, questo involucro inerte di divisioni e confini… è sorta una sola umanità, spinta da un comune desiderio di uguaglianza». E parla di una “crisalide” uscita dalla membrana, una “nuova ragione del mondo”. E così Rosa Luxemburg, anche lei rivolta a Nietzsche (ma perché? tanto nessuno lo convince!), dirà che il bello, il buono e il giusto non sono spariti, «fanno parte della volontà di essere di tanti uomini e donne». Ed è la «storia più nobile del nostro passato».

Appunto: per la rivoluzione – qualsiasi cosa voglia dire questo concetto – è molto più utile il passato del futuro, la nostalgia di ciò che non è stato realizzato. Particolarmente felice la invenzione del personaggio di Caterina, la domestica napoletana di Tocqueville, che alla fine invita tutti al pranzo, alle penne al ragù di maiale cucinato a fuoco lento per tre giorni, etc. (per la signora Rosa, vegetariana, pasta aglio e olio)… Sano richiamo materialistico ad una concreta esperienza di piacere indispensabile per criticare l’esistente, che quel piacere nega ai più. In tedesco le parole “compagno” e “godimento” hanno la stessa radice, come a quel pranzo ben sapeva Marx, affondando la mano nel groviglio della sua grande barba. Filippo La Porta

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx con la rivoluzione come desiderio. Nasceva centocinquanta anni fa una delle protagoniste del pensiero della sinistra storica europea. Figura poco ricordata finanche dalle sinistre una ribelle in tutto, nella militanza e negli scritti. Emilio Gardini su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2021. Nel discorso che tiene il 31 dicembre del 1918 a Berlino, in occasione della fondazione del partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg fa un esplicito riferimento al documento rivoluzionario più famoso della storia moderna, il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Nella prima parte del discorso il richiamo al pamphlet è chiaro; il principale nemico della democrazia per i proletari è il capitalismo. Come per Marx ed Engels, per la Luxemburg, il compito dei rivoluzionari proletari è “fare del socialismo verità e realtà e sradicare il capitalismo”. In quel discorso, che sancisce la confluenza della Lega di Spartaco – partito socialista rivoluzionario che fonda con Karl Liebknecht, anni prima nel 1914 – nel partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg, in chiara polemica con i socialdemocratici, ribadisce come una parte del marxismo “ufficiale” avesse tra i suoi intenti quello di non considerare più necessaria la lotta di classe. Come se essa fosse inattuale e non più un mezzo per l’emancipazione delle masse. Tacciare i socialisti ribelli come anarchici e addirittura anti-marxisti aveva lo scopo di dimostrare l’impossibilità della vittoria del proletariato sulle borghesie e attenuare così le reazioni del popolo. Diversamente, la Luxemburg, convinta che solo il ruolo attivo del proletariato nei processi potesse innescare il cambiamento, considerava come “vero marxismo” quello che “lotta anche contro coloro che cercano di falsificarlo”. Definita dal filosofo Gyorgy Lucaks, la principale allieva di Karl Marx, che segue meticolosamente nei suoi scritti anche filosoficamente, morirà poco dopo quel discorso, il 15 gennaio del 1919, colpita alla testa con il calcio del fucile, poi giustiziata e gettata in un canale dai paramilitari di destra (Freikorps) appoggiati dal governo tedesco di Weimar nel corso della “rivolta di gennaio”, successiva agli scioperi e alle manifestazioni di massa che da tempo avevano luogo a Berlino. Il suo corpo verrà trovato mesi dopo. Uccisa meschinamente così la più potente filosofa rivoluzionaria marxista, una figura incredibilmente troppo poco ricordata finanche dalle sinistre, una ribelle in tutto, nella militanza e negli scritti. Rosa Luxemburg nasce il 5 marzo del 1871 a Zamosoc, in Polonia, ebrea, di famiglia colta e di educazione liberale. Si trasferisce ancora bambina con la famiglia a Varsavia dove inizia la sua militanza politica entrando a far parte del partito rivoluzionario “Proletariat”. Poi Zurigo nel 1889, dove scappa dalla polizia zarista che arresta molti membri del partito. Qui si laurea, continua la sua militanza politica e scrive nel 1897 la sua tesi di dottorato sullo sviluppo industriale in Polonia. Zurigo è una città dove la sua formazione politica acquisisce un carattere completo, il contesto sociale nel quale è immersa non è la Polonia sottomessa all’autoritarismo zarista che ha sempre sofferto. Studia a fondo i lavori di Marx ed Engels, i classici dell’economia, la filosofia e la letteratura. Oltre a coltivare il suo interesse per la botanica. È una donna colta, con talento letterario, passione politica e rivoluzionaria. Si trasferisce allora in Germania, il fulcro del socialismo e del movimento operaio di fine secolo, dove diventa cittadina tedesca grazie a un matrimonio “di forma”. In Germania tra il 1898 e il 1899 scrive il bellissimo saggio Riforma sociale o rivoluzione? nel quale critica la visione revisionista che in Germania sta prendendo piede e che considera la teoria di Karl Marx inadatta a interpretare le contingenze storiche del capitalismo industriale. In particolare polemizza con gli scritti di Eduard Bernstein, il più noto tra i “revisionisti”, il quale ritiene che la fine del capitalismo non sarebbe avvenuta come Marx preconizzava perché la sua capacità di adattarsi avrebbe addirittura annullato le crisi a venire. Di conseguenza, il compito dei socialisti non è più conquistare il potere e ribaltare lo “stato delle cose” ma accettare le condizioni del momento storico cooperando con i governi borghesi. Questo significa, per la Luxemburg, rinunciare alla possibilità di cambiare la società. “Tutta questa teoria – scrive nel saggio – non conduce ad altro che al consiglio di rinunciare alla trasformazione della società, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e di fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un mezzo della lotta di classe”. In modo molto deciso, come nel suo stile, ritiene che la riforma sociale rimane solo una illusione se si rinuncia alla trasformazione strutturale della società per la quale la partecipazione delle classi subalterne è necessaria. Il dovere dei socialisti rivoluzionari è liberare il proletariato dall’oppressione del capitalismo. Non bisogna illudersi delle riforme messe in atto dallo Stato borghese, perché queste sono false concessioni per indebolire le coscienze delle masse. Nel 1913 scrive L’accumulazione del capitale, la sua opera più importante, così in linea con le analisi di Karl Marx che Gyorgy Lucaks le dedica uno scritto nel 1921 – che poi diventerà parte dei saggi raccolti nel suo Storia e coscienza di classe – nel quale sostiene che la Luxemburg raccoglie l’interezza dell’opera marxiana “dopo decenni di volgarizzazione del marxismo”. Il suo “marxismo internazionalista”, mosso dal desiderio della rivoluzione, è sempre stato antiautoritario e avverso ai dispotismi. Nonostante considerasse necessario il partito e avesse guardato con entusiasmo alla rivoluzione bolscevica del 1917, reale capovolgimento dell’oppressione del potere zarista, temeva le possibili derive autoritarie conseguenti alla centralizzazione del potere nelle mani di pochi. Fu anche per questo ostracizzata da una parte del mondo socialista che la considerava una mistificatrice della rivoluzione. La sua visione socialista e il suo rifiuto per l’oppressione, nel mezzo della Grande Guerra dalla quale le borghesie non riescono a tener fuori i paesi ridotti alla sofferenza, sono l’opposto del dramma che avrebbe afflitto la Germania dopo la sconfitta. L’avvento del nazismo fu la barbarie. Suona coerente, dunque, il suo motto noto “socialismo o barbarie”, forse ripreso da Friedrich Engels come lei stessa dice, o da Karl Kautsky, come alcuni sostengono, chissà. Ma non è importante. È importante invece che il sogno rivoluzionario di Rosa Luxemburg, militante e intellettuale socialista, non si spenga e possa ancora oggi orientare nell’indifferenza della politica.

·        Al tempo del Nazismo.

L'OMBRA DI PEARL HARBOR. Ottant'anni fa l'attacco che aprì la guerra del Pacifico. Un colpo a sorpresa, che ancora oggi condiziona le scelte dell'America. di Gianluca di Feo. A cura di Paola Cipriani. Grafica di Paula Simonetti, Paola Cipriani, Teresa Galloppa, Nino Brisindi, Giuliano Granati, Corrado Moretti e Roberto Trinchieri su la Repubblica il 2 Dicembre 2021.

Pearl Harbour è un incubo che imprigiona gli Stati Uniti da ottant’anni. È la staffilata inferta alla schiena dalla picchiata di oltre trecento aerei che sganciano bombe su una nazione addormentata, incapace di aprire gli occhi su quello che stava accadendo nel mondo. L’America si è svegliata dal torpore della domenica mattina scoprendo non solo di essere in guerra, ma pure di trovarsi a un passo dalla sconfitta perché in novanta minuti il nemico aveva affondato il cuore della sua flotta. Passato lo smarrimento iniziale, si è rialzata e ha reagito “al giorno dell’infamia” con un’energia sottovalutata dagli avversari, senza però rimuovere il trauma di quella pugnalata a tradimento. Le domande di allora continuano a condizionare le scelte di oggi. Perché i giapponesi erano arrivati a tanto, colpendo senza neppure formalizzare le ostilità? Come era stato possibile che nessuno avesse dato l’allarme sulla spedizione che aveva percorso 5.600 chilometri per raggiungere le acque delle Hawaii? E perché gli stormi imperiali non hanno incontrato resistenza? L’esordio del conflitto aveva mostrato l’impotenza di Washington, limitata nella politica estera, praticamente priva di intelligence e senza una forza militare all’altezza della sfida: una responsabilità collettiva che nei giorni successivi al 7 dicembre 1941 ha trasmesso un senso di panico in tutti gli States, temendo che l’armata nipponica stesse per sbarcare sulla costa del Pacifico. In poche settimane gran parte dell’Asia è stata invasa, cancellando la presenza occidentale fino ai confini dell’India e alle spiagge della Nuova Zelanda. Lo choc non ha piegato l’orgoglio americano, anzi lo ha moltiplicato mobilitando il Paese verso una riscossa lenta e inesorabile, dalla battaglia di Midway al trionfo finale. Nella coscienza della nazione però la macchia è rimasta indelebile: forse solo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno restituito agli Usa un senso di sicurezza, senza mai cancellare definitivamente l’incubo. Pearl Harbour è il fantasma che si è seduto al tavolo di presidenti e generali ogni qual volta dovevano affrontare una crisi, influenzandone le scelte da Cuba nel 1962 a Teheran nel 1979. Sessant’anni dopo il disastro si è ripetuto, con i voli di altri kamikaze contro le Torri Gemelle e contro il Pentagono. Sono tornati gli stessi interrogativi sulla sottovalutazione dell’avversario, l’inefficienza del sistema di prevenzione, la debolezza delle difese. Corsi e ricorsi storici che proseguono fino a oggi: il Pacifico è di nuovo lo scacchiere decisivo, dove fare i conti con una potenza asiatica aggressiva. Proiettando nello scenario del presente lo spettro del passato: il timore che Pechino possa tentare un’altra Pearl Harbor.

L’altro spazio vitale

Dei fatti del 7 dicembre 1941 abbiamo una buona conoscenza grazie soprattutto a due film. Il magnifico “Tora Tora Tora” è un’opera corale del 1970 girata insieme da registi americani e nipponici che dà spazio alle dinamiche che hanno preceduto il raid. Il kolossal del 2001 con Ben Affleck invece si è concentrato sugli aspetti emotivi, con una narrazione a stelle e strisce che evidenzia la tenacia. Entrambi i fattori sono importanti. . La partita a scacchi scatenata dal Giappone dal 1931 è illuminante, anche per la somiglianza con quello che sta avvenendo adesso nel Pacifico. In estrema sintesi, Tokyo all’epoca aveva gli stessi obiettivi della Germania nazista: garantire uno “spazio vitale” alla sua crescita, ottenendo le materie prime carenti in patria. Per prima cosa si è lanciata nell’occupazione della Cina, tormentata dai conflitti interni, cominciando dalla Manciuria per arrivare fino ai confini dell’Urss. Vista la vocazione orientale della politica nipponica, l’espansione nell’Asia sovietica ricca di giacimenti di metalli e carbone appariva naturale. Le truppe del Sol Levante avevano già tentato di inserirsi nella disgregazione della Russia zarista, mandando contingenti in Siberia per ostacolare i bolscevichi, e tornano a premere su quella frontiera. Ma tra il 1938 e il 1939 in una duplice campagna l’Armata Rossa ha risposto con la forza alle puntate nipponiche, mettendo in campo tattiche moderne nell’uso coordinato di aerei e carri armati che hanno sbaragliato i soldati e spaventato il comando imperiale. Merito soprattutto del generale Zukhov, che inizia così la carriera trionfale che lo renderà nel 1945 il conquistatore di Berlino: il suo contrattacco sul fiume Khalkhin Gol si trasforma in una tenaglia, con 500 tank e 450 autoblindo che soffocano un’intera armata giapponese. Quella disfatta ha condizionato gli eventi futuri: neppure con i tedeschi alle porte di Mosca il Giappone dichiarerà guerra a Stalin, negando all’Asse l’apertura di un secondo fronte in grado di cambiare il corso della Storia. Chiusa la strada per il Nord, inevitabilmente la spinta strategica si è diretta verso Sud-Ovest. Le trombe della propaganda hanno diffuso slogan contro il colonialismo occidentale, soffiando sui popoli di Indocina, Indonesia, Filippine e India promesse di liberazione che servivano solo a creare una labile giustificazione all’intervento nipponico. La “Grande Sfera di Prosperità Comune” nella realtà era il bacino di risorse indispensabili all’industria nipponica, a partire da petrolio e carbone. La prima preda nel 1940 è stata la colonia francese che decenni più tardi diventerà il Viet Nam: il governo di Vichy non può resistere e viene a patti. La Casa Bianca replica congelando le proprietà nipponiche negli States e paventa un embargo sui carburanti, per l’80 per cento forniti proprio dagli Usa. Il presidente Roosevelt però non rende operativo il bando, forse per non dare un pretesto alle forze imperiali che minacciavano le Indie Olandesi, ricche di oro nero e praticamente indifese dopo l’occupazione nazista dei Paesi Bassi. Alla fine dell’estate 1941 ci sono gli ultimi tentativo di trattare. Tokyo offre la ritirata dall’Indocina francese e da alcune zone della Cina in cambio della fine delle ostilità da parte dei nazionalisti di Chiang Kai-shek, sostenuti economicamente dagli Usa, e della garanzia di rifornimenti dai pozzi olandesi. Il presidente Roosevelt dice di no. E cerca di chiudere il rubinetto del petrolio in maniera trasversale: inasprisce il blocco dei fondi nipponici nelle banche statunitensi, impedendo di fatto gli acquisti. L’America ha capito quali fossero gli obiettivi ma non si è resa conto che per fermare la marcia di Tokyo sarebbero serviti strumenti diversi. Nella visione degli eredi dei samurai, le sanzioni sono considerate una prova di debolezza, incapace di condizionare la politica: anzi, la stretta dell’autunno 1941 viene interpretata dai vertici giapponesi come una provocazione, a cui bisogna rispondere con le armi. Mentre l’unica iniziativa militare della Casa Bianca è stata limitata e indiretta - il corpo di piloti mercenari delle Tigri Volanti schierati al fianco dei nazionalisti cinesi - trasmettendo al quartiere generale rivale la convinzione che non ci fosse la volontà di combattere. D’altronde all’indomani della prima guerra mondiale Washington aveva smantellato l’esercito e - contrariamente ai Paesi europei - non aveva creato un’aviazione autonoma: gli Usa schierano un corpo terrestre minuscolo, senza carri armati e con pochissimi velivoli. Erano proseguiti soltanto gli investimenti sulla flotta, destinata a tutelare l’influenza sul Pacifico, che per numeri e qualità era tra le più temibili del pianeta. Ecco che il comando supremo nipponico formula un’equazione fin troppo elementare: se riusciamo con un attacco a sorpresa a debellare la forza navale, allora il successo sarà assicurato. A convincerli della bontà di questa idea c’era pure un episodio avvenuto pochi mesi prima nel Mediterraneo: la notte di Taranto, quando venti aerosiluranti inglesi hanno colato a picco tre corazzate italiane ancorate nel porto più protetto.

L'ora del Samurai

Il generale Tojo è l’uomo forte di questa strategia. Era soprannominato il “Rasoio” per l’abilità nel ragionamento e la rapidità nelle scelte. Ostentava la fede nel Bushido, l’antico codice morale dei samurai, e nel 1934 aveva scritto un saggio che teorizzava la trasformazione del Giappone in una nazione guerriera: spesso nel trasmettere gli ordini schiaffeggiava gli ufficiali, convinto così di rafforzarne il carattere. Era molto più attento ai canoni della disciplina marziale che non agli sviluppi tecnici del conflitto che in quei mesi dilaniava l’Europa. Il premier moderato Konoye tenta invano di ottenere un summit con la Casa Bianca, offrendo la disponibilità a negoziati e evidenziando il rischio che senza un riconoscimento americano i “falchi” avrebbero preso il sopravvento. Così accade. Il ministro dell’Esercito Tojo sfrutta le tensioni con gli Usa per impossessarsi del potere e imporre l’urgenza di uno scontro. La “nota Hull” trasmessa il 26 novembre con le condizioni della Casa Bianca diventa il casus belli: “Il cuore della questione è l’imposizione di ritirarci dall’Indocina e dalla Cina. Se ci pieghiamo alle richieste dell’America, verranno distrutti i frutti degli sforzi in Cina. Il nostro controllo sulla Manciuria sarà in pericolo e quello sulla Corea rimarrà minato”. L’imperatore si schiera con lui. Deve essere guerra: una guerra rapida, perché ci sono riserve di combustibile per soli due anni.

La pianificazione dell’offensiva era già scattata da tempo. La regia è nelle mani dell’ammiraglio Yamamoto, che aveva scartato l’ipotesi di affrontare direttamente i domini olandesi e britannici: c’è un solo modo di vincere - scrive nel suo diario - “avere una potente forza aerea che colpisca in profondità il cuore del nemico nei primi istanti e infligga una mazzata, morale e materiale, dalla quale non potrà risollevarsi per parecchio tempo”. La rotta per Pearl Harbor era tracciata.

Tora tora tora

La flotta d’assalto prende il largo proprio il 26 novembre, quando l’imperatore non ha ancora dato il via libera alla guerra: deciderà solo il 2 dicembre. Non c’è bisogno di una preparazione particolare: l’addestramento di equipaggi e piloti è esemplare. Anche i mezzi sono competitivi. Il caccia Zero stupirà gli alleati: è un capolavoro di velocità e acrobazia, con una potenza di fuoco devastante. Per quasi due anni appare invincibile, spiazzando persino gli Spitfire britannici che avevano trionfato nella Battaglia di Inghilterra. Progettato per operare dalle portaerei: Yamamoto aveva puntato tutto sulla supremazia aeronavale, contrastando la costruzione di nuove corazzate. “Anche il serpente più fiero – aveva detto l’ammiraglio - può essere sconfitto da uno sciame di formiche” Gli Zero scortano i grandi B5N Kate, che potevano caricare un siluro o una micidiale bomba perforante da 800 chili, e i bombardieri in picchiata D3A Val. Tutte le dotazioni sono state perfezionate in vista del raid: gli inneschi dei siluri, ad esempio, vengono modificati per colpire nei fondali bassi della rada. Le portaerei sono sei, da cui sarebbero decollati 408 velivoli: 360 per l’assalto, 48 come scorta. Le istruzioni sono semplici e chiare. La prima ondata doveva scatenare l’inferno; i bombardieri in picchiata si sarebbero accaniti sugli hangar e i depositi; i siluranti avrebbero selezionato i bersagli più importanti: corazzate e portaerei. Tutti, inclusi i caccia, avrebbero fatto fuoco a volontà con le mitragliatrici contro gli aerei parcheggiati sulle piste e le postazioni della contraerea. La flotta deve percorrere 3.500 miglia senza farsi scoprire e per questo viene decisa una rotta lontana dalle arterie mercantili. Durante la navigazione, uno schermo di idrovolanti pattuglia il mare per evitare di incontrare altre navi, per poi monitorare l’area intorno alle Hawai senza però avvicinarsi troppo all’obiettivo per non mettere in guardia le difese. Le informazioni sul porto arrivavano dalle spie, in particolare da Takeo Yoshikawa: un ufficiale imperiale che legalmente viveva a Pearl Harbor, in una casa sulla collina affacciata sui moli. Yoshikawa aveva sorvolato con velivoli a noleggio tutte le installazioni e si era immerso nei fondali. Due volte a settimana trasmetteva rapporti dettagliati sulla situazione nell’arcipelago. La ricognizione finale viene affidata a cinque sommergibili, ciascuno dei quali il 6 dicembre a dieci miglia dalla base americana mette in acqua un mini-sottomarino. Alle 3.47 del 7 dicembre il dragamine “Condor” avvista un periscopio nell’oscurità all’entrata del porto e allerta il caccia “Ward”. Ma non trovano nulla. Poi però alle 6.37 la nave americana individua un’altra sagoma semisommersa e apre il fuoco. Di fatto, è l’inizio delle ostilità. Ma a Pearl Harbor l’allarme non scatta. Alle squadriglie d’assalto invece viene trasmesso l’ordine passato alla storia: “Tora Tora Tora”. 

Si apre l'inferno 

Per poco più di un’ora torna il silenzio. Alle 7.48 un ronzio indistinto nella tranquillità domenicale si trasforma in una sequenza di boati. Sugli ormeggi piovono 48 super-bombe dirompenti da 800 chili e 40 siluri: ventuno ordigni centrano le corazzate. Soltanto in mezzo a quel tiro incrociato di raffiche ed esplosioni parte il celebre messaggio “Raid su Pearl Harbor. Non è un’esercitazione!”. La contraerea è disattivata, i caccia fermi sui piazzali con le armi scariche, i magazzini delle munizioni chiusi a chiave. Sul caccia “Aylwin” quattro giovanissimi ufficiali prendono il comando e conducono l’unità fuori dalla rada. Il capitano della “West Virginia” Mervyn Bennion guida la resistenza finché una scheggia non lo uccide. Everest Capra si aspettava che i giapponesi colpissero, ma non sapeva quando. Come tutte le domeniche si era alzato presto e aveva giocato a tennis. Stava facendo colazione: “Mi sono alzato dalla tavola per buttare il guscio di un uovo e ho visto tre strani aerei. Poi ho notato il simbolo rosso e ho capito che era arrivato il giorno dell’attacco. In pantaloncini e scarpe da ginnastica, ho cominciato a correre urlando: “Sono qui!”. E in quel momento si è aperto l’inferno. “Mi ero arruolato per vedere il mondo, non per combattere”, ha ricordato Joe Morgan. Quando è iniziato il raid, si è infilato in un hangar riparandosi dietro a un blocco d’acciaio. Da lì ha visto alcuni dei commilitoni allo scoperto sul parcheggio che sparavano verso il cielo con le pistole. “Ero stato addestrato come mitragliere e pensavo solo a nascondermi: mi sono vergognato. E la vergogna ha vinto la paura: ho preso un’arma e sono andato ad affrontare gli aerei”. Sull’isola di Oahu c’era l’aeroporto con i caccia destinati a proteggere le Hawai: le squadriglie erano state tenute in allerta per una settimana, fino a sabato 6 dicembre, poi era stata decisa la smobilitazione. Gino Gasparelli era rimasto in caserma, preparandosi a una gita in barca. “Cinque minuti prima delle otto ho sentito il suono di motori diversi da quelli dei nostri P-40: volavano molto basso. Mi sono affacciato e ho visto un grande aereo nero che sfiorava gli alberi e puntava verso di noi. Poi ha lasciato cadere una bomba sull’hangar. Ho cominciato a gridare, ordinando alla mia squadra di uscire fuori: alcuni stavano ancora dormendo. Non avevamo armi, ci siamo buttati tra gli arbusti sotto dietro una fila di alberi ma i piloti ci hanno avvistato e le raffiche hanno sbriciolato i rami sopra di noi. Appena il cielo si è placato, siamo andati in armeria e abbiamo preso le munizioni per la contraerea”. La tregua dura pochissimo, poi la seconda ondata scende in picchiata. Ci sono cinquanta siluranti e 81 bombardieri. Il carosello diabolico si chiude dopo novanta minuti dal primo attacco. Muoiono 2.403 militari statunitensi e altri 1.143 sono feriti. Quasi metà delle vittime era sulla “Arizona”: la corazzata lunga 185 metri salta in aria assieme a 1.107 marinai che dormivano a bordo. “Stavamo per iniziare la seconda ondata quando una colossale esplosione ci sorprese – ha detto il capitano nipponico Mitsuo Fuchida – con una colonna gigantesca di fumo di circa mille metri. Dovevamo aver colpito qualcosa di grosso, la polveriera della “Arizona”. L’onda d’urto investì il mio aereo, a molte miglia dal porto”. La corazzata “Oklahoma” invece si rovescia e intrappola parte dell’equipaggio: molti sono ancora vivi e continuano a picchiare sullo scafo. Un tecnico civile dei cantieri, Julio DeCastro, organizza una squadra di operai che forano il guscio di acciaio in più punti, riuscendo a salvarne trentadue. Altri 429 muoiono: i resti del diciannovenne Buford Dyer sono stati identificati grazie al dna la scorsa settimana. Il bilancio è incredibile. In tutto diciotto navi sono state colate a picco, incluse cinque corazzate, e altre tre corazzate sono in fiamme. Ben 188 aerei sono stati distrutti e altrettanti danneggiati al suolo: solo otto caccia riescono a decollare, abbattendo sei avversari. Un successo schiacciante. I giapponesi hanno perso 29 velivoli e 55 uomini. Muoiono anche 9 marinai dei sottomarini, mentre uno degli ufficiali viene catturato. Con la flotta immobilizzata, scatta l’offensiva globale. Nel giro di sette ore ci sono operazioni coordinate contro le basi americane nelle Filippine, a Guam e nell’isola di Wake e contro quelle britanniche a Singapore, Hong Kong e Malaya. Le colonne del Sol Levante sono ovunque inarrestabili.

Il grande Errore

In quei minuti concitati, gli ammiragli giapponesi compiono il primo errore: preoccupati per le riserve di carburante, negano agli ufficiali inferiori la partenza di una terza ondata di aerei. Vengono così risparmiate le infrastrutture di Pearl Harbour: i depositi di combustibile e munizioni, i moli, le centrali elettriche potevano essere spazzate via, cancellando la base più preziosa. Saranno rimesse in funzione in pochi mesi, offrendo il trampolino per lanciare la riscossa. L’elemento decisivo di quella giornata di fuoco però è l’assenza delle tre portaerei americane: avevano lasciato la rada per un’esercitazioni di routine, sfuggendo agli occhi delle spie nipponiche e ai bombardamenti. Le battaglie in Europa avevano già fatto capire che le corazzate non erano più le regine dei mari. Questi castelli d’acciaio naviganti, pesanti fino a 50 mila tonnellate, potevano essere espugnati da una manciata di aerosiluranti: era accaduto all’ammiraglia tedesca Bismarck, che nel maggio 1941 con una sola bordata aveva disintegrato la Hood britannica ma poi era stata paralizzata da una dozzina di biplani Swordfish costruiti in legno e tela. Le tre portaerei scampate alla mattanza di Pearl Harbor saranno le protagoniste nel giugno 1942 della rivalsa delle Midway e da allora in poi domineranno gli scontri navali. Negli anni a seguire, saranno le incursioni dei siluranti e quelle dei bombardieri quadrimotori a cancellare la flotta nipponica. Saranno le catene di montaggio degli States a sfornare mezzi sempre più moderni e numerosi, arrivando a completare un mercantile “Liberty” in 36 ore e produrre decine di migliaia di aerei. E saranno i laboratori americani a inventare armi sempre più sofisticate, fino all’ordigno atomico di Hiroshima e Nagasaki. Ma sarà soprattutto il sacrificio di decine di migliaia di marines a permettere la riconquista dell’Asia: solo nei tre mesi di lotta per occupare Okinawa ne verranno uccisi o feriti 40 mila. 

Hideki Tojo. 8 dicembre 1942

Nel corso della guerra oltre due milioni e 300 mila giapponesi moriranno, tutte le città saranno rase al suolo, cinquemila ufficiali verranno processati come criminali di guerra: anche il generale Tojo, dopo avere cercato invano di suicidarsi, sarà condannato e fucilato nel 1948. L’errore dei vertici nipponici è stata l’incapacità di comprendere la caparbietà del popolo americano, quella dote che oggi viene più spesso chiamata resilienza, che davanti ai momenti più drammatici reagisce con il massimo dell’energia. Molti dei gerarchi imperiali che hanno deciso il conflitto ignoravano e disprezzavano la cultura occidentale: si sentivano superiori. Yamamoto invece era stato a lungo negli States e ne conosceva la potenza industriale: “Se la guerra durerà più di due anni, non avremo speranze”, aveva scritto prima di Pearl Harbor. Ma anche lui era convinto che gli Stati Uniti non avrebbero retto al costo umano ed economico dell’offensiva iniziale, tale da spingere la Casa Bianca ad accettare un negoziato. Per vent’anni l’America aveva cercato solo pace e neutralità, smobilitando le sue forze armate. Perché avrebbe dovuto combattere a oltranza dopo un colpo ritenuto letale?

Scontro di civiltà

“Lost in translation”, verrebbe da dire. Anche gli americani non hanno compreso la filosofia bellica giapponese, prima e dopo il 7 dicembre. Nel corso del 1941 replicano all’aggressività nipponica rinsaldando l’alleanza con i britannici, gli australiani e con le colonie olandesi; insistendo sulle sanzioni; rifornendo le truppe nazionaliste cinesi. Una manovra prettamente diplomatica, che doveva fare i conti con l’opinione pubblica di una democrazia ostile agli interventi militari all’estero e poco incline alle spese belliche, ancora presa dalla ricostruzione sociale dopo il tracollo finanziario del 1929. Le iniziative di Roosevelt però hanno trasmesso a Tokyo un senso di accerchiamento, amplificando da una parte le paure, dall’altra il disprezzo per un avversario che non ha il coraggio di impugnare le armi: in pratica, hanno imposto la convinzione che bisognasse attaccare. Si era ripetuta la “trappola di Tucidide”, analizzata nello splendido saggio “Destined for war” di Graham Allison (sintetizzata nella tabella sotto): due potenze, una consolidata e l’altra emergente, erano entrate in competizione nella stessa aerea geografica. Senza riuscire a trovare un’alternativa allo scontro bellico. Lo studio di Allison verte su quello che sta accadendo ora nel Pacifico, con similitudini in apparenza impressionanti. La Cina - come il Giappone di allora - è una nazione che ha conosciuto una crescita rapida: la prosperità del Paese - e di conseguenza il consenso al regime - dipende dalle rotte navali che permettono di esportare prodotti e importare materie prime, soprattutto il petrolio. Per questo la strategia di Pechino è incentrata sul controllo di uno “spazio vitale” sul mare, segnato da catene di isole che vengono sempre più fortificate installando missili, radar e basi. Allo stesso tempo, c’è un’offensiva economica per “colonizzare” territori e infrastrutture in Asia e in Africa funzionali a questo obiettivo. Quando questo processo sarà compiuto, allora l’influenza politica prenderà il sopravvento su quella economica. E quando il potenziamento dell’arsenale militare sarà talmente schiacciante da impedire la reazione degli stati confinanti, la Cina avrà il dominio senza usare le armi. Questa concezione di lungo periodo nasce da una visione molto diversa da quella giapponese degli anni Trenta: affonda le radici nella cultura dei grandi imperi cinesi. Mentre a Tokyo il riferimento erano i signori della guerra e i loro samurai, con una fede nella forza, a Pechino si ispirano a un filosofie più elaborate che ricordano gli insegnamenti di Sun Tsu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità. Vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo”. Washington per vent’anni ha trascurato la sfida lanciata ad Oriente e si è totalmente focalizzata sulla lotta al terrorismo islamico: il Pentagono ha smesso di investire risorse sulla prospettiva di un conflitto su larga scala, preoccupandosi solo degli strumenti per spegnere le bande jihadiste. Ora sta correndo rapidamente ai ripari, spostando tutta la sua potenza nella competizione asiatica. Come Roosevelt, Biden allaccia alleanze stabili con le potenze regionali a partire dall’Australia e l’India. E come nel 1937 venivano rifornite le brigate nazionaliste di Chiang Kai-shek, oggi riprende il sostegno militare ai loro eredi di Taiwan. Come reagirà il presidente Xi Jinping? Quanto la crisi globale impressa dal Covid e il rallentamento dell’economia cinese influiranno sulle sue decisioni? Il cambiamento di linea è già in atto. Il primo passo è l’esasperazione del nazionalismo, intensificando la mobilitazione delle masse intorno a valori anti-americani e stroncando qualsiasi germoglio di opposizione democratica. Ma la nuova rete di alleanze intessuta da Washington e una serie di iniziative simboliche - la crociera britannica guidata dalla portaerei Queen Elizabeth e le sortite di singole navi occidentali nelle acque che la Cina rivendica - stanno diffondendo un senso di assedio nella nomenklatura comunista. Tanto da riportare la questione di Taiwan al centro della competizione. E rendere sempre più attuale la “trappola di Tucidide”.

I denti del Dragone

In realtà, le forze armate cinesi non hanno una postura offensiva. Nonostante la massiccia evoluzione nella qualità e nella quantità di mezzi e organici, il vertice militare ritiene superiori le capacità statunitensi. Per questo negli ultimi decenni ha sviluppato tattiche e armamenti con una impostazione difensiva: l’obiettivo era completare la “Grande Muraglia” di isole e impedire che la Us Navy fosse in grado di interrompere le rotte navali vitali. E, in ogni caso, i generali di Pechino hanno sempre sostenuto che prima del 2031 non sarebbero stati in grado di fronteggiare alla pari gli Stati Uniti. 

RAPPORTO TRA LE ECONOMIE Fonte: “Destined for war” di Graham Allison

Questa linea di condotta sta mutando. Ad esempio, sta venendo allestito un grande corpo di truppe da sbarco con veicoli - come i tank anfibi “Type 05” - più potenti di quelli dei marines. I sottomarini nucleari allargano il loro raggio d’azione: assieme alla costruzione di nuove portaerei, testimoniano il tentativo di estendere il braccio armato della Repubblica Popolare. A spaventare gli analisti c’è poi il moltiplicarsi delle testate atomiche, che non paiono solo uno strumento di deterrenza di fronte alla supremazia nucleare americana. Molti di questi ordigni sembrano destinati a un uso tattico - ad esempio i missili balistici progettati per devastare le portaerei - che rappresenta un incremento dei rischi di conflitto totale: sono il metro della propensione a impiegare le atomiche contro bersagli militari, trascurando il pericolo di un’escalation apocalittica. Una minaccia che durante la Guerra Fredda era stata congelata dalla certezza della ritorsione e della Mutua Distruzione Assicurata: Mad ossia Pazzo, come indicava l’acronimo inglese di questo folle bilanciamento. 

Un poster di propaganda sovietica

Oggi l’equilibrio del terrore pare frantumarsi. Una corrosione incrementata dalla militarizzazione dello spazio, dove orbitano i satelliti spia in grado di avvistare l’accensione dei missili balistici e dare l’allarme. E se i cinesi li mettessero fuori gioco? Come farebbero gli Stati Uniti a mantenere la credibilità della rappresaglia atomica? Di più. L’ultimo test oltre l’atmosfera condotto dagli scienziati di Pechino ha trasmesso un brivido in tutto il Pentagono: è stata sperimentata una navetta orbitante che sgancia missili ipersonici. E’ il prototipo di un bombardiere spaziale, che può saettare su qualunque parte del pianeta armi contro cui non esiste scudo. Ancora una volta, il fantasma di Pearl Harbour è tornato a materializzarsi nei discorsi dei generali americani: il timore di un devastante attacco a sorpresa, lanciato addirittura dallo spazio. Senza dimenticare l’altro incubo introdotto dall’innovazione informatica: la possibilità di un’offensiva cyber che all’improvviso mandi in tilt lo scheletro informatico degli Stati Uniti e dei suoi alleati, azzerando gli snodi delle reti decisive per la vita di un Paese. Quando si introduce un’arma che appare invincibile, la tentazione di impiegarla è difficile da frenare. Soprattutto nei momenti di crisi, quando il confronto internazionale e le tensioni interne vengono a sommarsi. Uno scenario che potrebbe riguardare anche il presidente Xi. “I governi ed i popoli non sempre prendono decisioni razionali – ha dichiarato Wiston Churchill parlando di Pearl Harbor -. Talvolta prendono decisioni pazzesche, oppure alcuni popoli impongono a tutti gli altri di seguirli nella loro follia”. 

Sul grande schermo di Roberto Nepoti

Ferita aperta nella memoria della nazione americana, l’attacco giapponese a Pearl Harbor è all’origine di parecchi film, che hanno sfruttato – in modo quale più, quale meno onesto - il potenziale di crudele spettacolarità dell’evento storico. Parecchi ma non moltissimi, a causa dell’impegno produttivo richiesto e dei cast all-star; però premiati generosamente agli Oscar e visti da milioni di spettatori. Per la cronaca, ne esistono alcuni prodotti in Giappone: dal film di propaganda del 1942 Hawaii mare oki kaisen, che celebrava l’aggressione come una vittoria, a Oluja na Pacifiku, su un pilota che aveva partecipato al bombardamento. Il primo film americano importante fu Arcipelago in fiamme (1943) di Howard Hawks; ma il grande successo internazionale premiò tre titoli successivi: Da qui all’eternità (1953), Tora! Tora! Tora! (1970) e Pearl Harbor (2001). Varrà la pena di osservare quali trasformazioni l’ottica sul cruciale episodio storico abbia subìto in questi kolossal, prodotti a decenni di distanza gli uni dagli altri.

Da qui all'eternità

Con quel suo titolo un pò lugubre, dal romanzo omonimo di James Jones uscito nel 1952, il film di Fred Zinnemann ha come scena una base americana nelle Hawaii durante le settimane che precedono l’attacco giapponese. Vi soggiornano alcuni militari carismatici: il sergente Warden (Burt Lancaster), il quale ha una relazione con la moglie del suo inetto capitano; il soltato Robert Prewitt (Montgomery Clift), ex-pugile che rifiuta di salire sul ring per difendere l’onore del reggimento; lo scanzonato soldato Maggio (Frank Sinatra), vittima di un violento sergente. Per la maggior parte il film è un lungo melodramma sentimentale tinto di critica (piuttosto convenzionale) della vita militare: per l’epoca, tuttavia, poteva apparire coraggioso. Soprattutto impressionò la scena – una delle più celebri di tutta la storia del cinema – in cui Lancaster e l’adultera Deborah Kerr si baciano appassionatamente sulla spiaggia, lambìti dalle onde del mare: immagine “iconica” poi immortalata da poster e infinite parodie. Quando, infine, gli aerei da bombardamento del Sol Levante cominciano a vomitare bombe sui nostri eroi, lo stile di regia si fa magniloquente e un po’ pesante; assicurando, comunque, al film la bellezza di otto Oscar 

Tora! Tora! Tora!

Quanto profondamente fosse cambiato il discorso pubblico hollywoodiano a vent’anni di distanza lo dimostra – con tutta l’evidenza – questo kolossal prodotto da Darryl F. Zanuck, specialista in ricostruzioni storiche miliardarie per il grande schermo. Zanuck decide di adottare un punto di vista equlibrato su Pearl Harbor, collaborando con i memici di ieri alla realizzazione di un filmone dove i giapponesi sono rappresentati in modo paritario con gli americani. Anzi, la prima parte sottolinea l’insipienza letargica dello stato maggiore Usa, che non capisce nulla dell’imminente offensiva. Anche la regia è in par condicio, spartita tra Richard Fleischer e due cineasti nipponici (in origine doveva essere Akira Kurosawa a dirigere le sequenze giapponesi). Largo spazio è lasciato alla preparazione dell’assalto, vista dalla parte del Sol Levante; mentre burocrati, funzionari e tecnici americani cercano goffamente di decriptare cablogrammi. Il tutto risulta piuttosto noioso: anche perché sappiamo benissimo che l’attacco avverrà e la suspence va a farsi benedire. Anche gli attori (Joseph Cotten, Jason Robards, Martin Balsam) mancano di convinzione; così che ti scopri e desiderare, vergognandoti un po’, l’inizio dei bombardamenti. Che arrivano, alzando il languente livello drammatico, ma durano un quarto d’ora sfoggiando effetti speciali non troppo impressionanti 

Pearl Harbor

All’alba del nuovo millennio, Pearl Harbor torna al cinema con un blockbuster miliardario prodotto da Jerry Bruckheimer e diretto da Michael Bay, nella convinzione che il binomio romance-catastrofe storica produca alti incassi. Più ispirato ai film precedenti sul tema che ai documenti d’epoca, il film è per un pubblico che potrebbe anche ignorare l’episodio storico del 7 dicembre 1941. Si racconta di due amici giovani e belli (Ben Affleck e Josh Hartnett), entrambi innamorati di un’infermiera giovane e bella (Kate Beckinsale), che saranno gli unici piloti in grado di decollare dopo l’attacco alla base. Quando, dopo un’ora e mezza di “soap”, iniziano i botti, si assiste al massacro con blando interesse per la sorte delle vittime. Tutta l’enfasi poggia sui destini sentimentali dei protagonisti del triangolo amoroso, uno dei quali è dato per caduto ma… Il che non impedisce, tuttavia, a Pearl Harbor di olezzare di film di propaganda rétro, tanto da essere definito “il primo blockbuster dell’era Bush”. Costato la spropositata cifra di 140 milioni di dollari, vinse quattro Oscar in categorie minori. Molto citata la scena della bomba che colpisce la corazzata Arizona, inquadrata dal “punto di vista” dell’ordigno.

Ignazio Mangrano per “La Verità” il 10 dicembre 2021. Mai in preda al panico e sempre lucido nel suo estremismo, Joseph Goebbels non smise di predicare la dottrina del nazismo. A qualsiasi costo, sino alla morte sua e del regime. Anche negando la realtà, distorcendola, incitando all'inutile martirio i suoi stessi concittadini, travolgendoli di menzogne. Ovviamente a mezzo stampa, il suo pezzo forte, il suo drammatico capolavoro, essendo riuscito a ridurre tutti i giornali tedeschi a «pianoforte del Terzo Reich». Tra il 22 e il 29 aprile del 1945, con l'Armata Rossa che stringeva fino ad annientare Berlino, Adolf Hitler e Goebbels, nel loro tentativo di rendere comunque immortale la loro creatura, non rinunciarono alla propaganda. Ma dell'orchestra che aveva sostenuto la dittatura fino al crepuscolo non restava più da suonare altro che veleno e - si direbbe oggi - fake news. A Berlino, per di più, potevano contare soltanto su un ultimo precario giornale: il Panzerbär. Quattro pagine per otto uscite, in formato ridotto, usando una tipografia di fortuna, con una sola rotativa, e allestendo la redazione nel bunker sotto la Cancelleria cannoneggiata. Il logo (e nome della testata) era un orso corazzato, con la vanga e il panzerfaust tra le zampe: incitava i berlinesi a combattere fino all'ultimo secondo, perché la vittoria era vicina, così scrivevano i nazisti. Perché i rinforzi stavano arrivando e perché gli occidentali avrebbero presto cambiato le alleanze. A questo quotidiano è dedicato La propaganda nell'abisso, scritto da Giovanni Mari per Lindau. Goebbels si dedicò a quel progetto nell'asfissiante ridotto hitleriano, dettando i suoi articoli, dando ordini redazionali, intimando ai generali e a un manipolo di intellettuali, nonché ai soldati-giornalisti rimasti in piedi, di scrivere commenti e rapporti. Il Panzerbär fu distribuito tra le macerie da ragazzini in bicicletta, gratuitamente, qualche volta gettato da piccoli alianti sulle truppe rimaste isolate. Sulla prima pagina, mutuando il detto scolastico tedesco, c'era l'invito, stampato sulla testata, a «leggere e passare» ad altri. Una decina di articoli ripeteva ossessivamente - come Goebbels aveva insegnato - che «dietro all'ultimo dispiegamento massiccio di carri armati sovietici si nasconde un enorme abisso». Un editoriale, non firmato e quindi da attribuire direttamente al ministro della Propaganda, recitava: «Se riuscissimo, con l'ultima forza a nostra disposizione, a sfondare questa dura crosta, allora questa spinta andrebbe senza resistenze avanti fino al cuore del nostro nemico mortale». Non c'era nulla di vero. Ma questo era il teorema, studiato ad arte per ipnotizzare la popolazione nonostante la lucida previsione di sconfitta. E diventa paradossale, su quelle stesse pagine, quando i nazisti devono dar atto anche della distribuzione di provviste, smentendo nei fatti la bugia dei magazzini pieni riportata nei titoli. Il quotidiano riferiva come l'ufficio provviste avesse «destinato a ciascuna famiglia 250 grammi di carne, un etto di grassi, un quarto di chilo di zucchero» e «proposto una possibile permuta tra una lattina di verdure e una scatoletta di pesce». Il Reich dei 1.000 anni era ridotto a questo trasandato mercato della povertà, della fame, messo a rischio da crolli continui, cannoneggiamenti e suicidi. Ma tutto era imbellettato con la promessa di un imminente cambio della scena, grazie a miracolosi interventi strategici del Führer. Il Panzerbär riportava ogni giorno il bugiardo bollettino di guerra diramato dalla Wehrmacht e vidimato dagli uomini del ministero; ospitava feroci editoriali dei pochi gerarchi del Terzo Reich rimasti in vita o rimasti fedeli a Hitler, spiegava le fantomatiche ricostruzioni politiche di Goebbels sui motivi della guerra e sulla sua evoluzione futura, diffondeva la minaccia che ancora aveva la forza di farsi quotidianamente più aggressiva di Hitler: «Chi tradisce deve essere ucciso». E raccontava anche le storie del fronte, un fronte cittadino, esaltando singole disperate azioni di presunti eroi immediatamente diventati martiri, elogiando le donne che combattono al fianco degli uomini, innalzando a paladini i poveri ragazzini scagliati contro i carri armati sovietici. Il Panzerbär, il solo foglio che circolava sotto le bombe di Berlino, era la summa della propaganda totalitaria di guerra, intrisa di incommensurabili bugie e di opprimente violenza. Invogliava senza perifrasi i civili a scendere in strada, con poche granate e tra barricate improvvisate contro gli obici avversari, di fatto condannando a morte una popolazione senza più speranza; così come senza speranza era la cricca nazista, che infatti già aveva organizzato un suicidio di massa. Mari, giornalista del Secolo XIX, ha ricostruito l'intera vicenda del Panzerbär, dopo averne constatato una totale assenza di letteratura (salvo sporadiche citazioni nei manuali di storia del giornalismo berlinese in lingua tedesca, per altro non rigorose nella datazione delle uscite del giornale). «La propaganda nell'abisso» dimostra l'effettiva direzione editoriale di Goebbels, come del resto emerse da alcuni interrogatori; citando le persone e i soldati che contribuirono alla sua realizzazione, descrivendo l'opera giornalistica e tipografica, ricostruendo l'utilizzo di due diverse «sedi» operative e descrivendo il sequestro dell'ultimo numero da parte dell'Armata Rossa. Nel libro è raccolta e riprodotta l'intera produzione del Panzerbär, grazie alla consultazione di remoti archivi di Stato a Berlino e alla documentazione dell'Istituto tedesco per il marxismo e il leninismo dell'ex Ddr. C'è anche il numero uno, solo fotografato, sparito dai radar dagli studiosi del nazismo e non considerato dagli storici del giornalismo. Dopo una breve panoramica sul modello di propaganda deviata praticata dal Panzerbär, Mari confronta la realtà storica degli avvenimenti bellici, politici e personali nella Berlino assediata e la finzione giornalistica del quotidiano. Un capitolo per ogni giorno dal 22 al 29 aprile, con la ricostruzione sincera della battaglia e la traduzione criminale e paranoica del Panzerbär. Un parallelo tra realtà e propaganda da cui emerge la portata mistificatoria degli ultimi giorni del Terzo Reich, con Goebbels, il ministro imperiale diventato Difensore di Berlino, impegnato in prima persona nella costruzione di un colossale e criminale sdoppiamento della storia. D'altra parte, Goebbels aveva giurato a Hitler che avrebbe «costretto ogni singolo abitante di Berlino, uomo o donna che fosse, a battersi all'ultimo sangue per guadagnare le ore e i giorni che servivano per l'arrivo dell'armata di Wenck». Un'armata fantomatica, già paralizzata, annientata o in ritirata nel momento stesso in cui venivano scandite quelle parole. Sono tradotti e analizzati gli articoli più importanti e gli editoriali più pesanti, l'intera narrazione dell'ultima settimana di guerra, costata 100.000 vittime nella sola battaglia di Berlino. Si riconosce la fanatica mano di Goebbels, agitatore e sostenitore fino all'ultimo della guerra totale. Una serie di ricostruzioni che, una notte, in una drammatica riunione nel bunker, convinsero il generale Helmut Weidling ad attaccare il ministro della Propaganda: «La situazione è disperata: abbiamo solo sei tonnellate di viveri e una ventina di panzerfaust. Io so che i soldati combattono valorosamente. Purtroppo, questo valore viene eccitato da speranze che non sono più realizzabili. Si tratta di un commentario, il Panzerbär. Ciò che è detto là, è semplicemente una menzogna». Così Berlino diventa l'istrice a difesa dell'Europa, contro i «cagnacci bastardi» che la assediano, forti solo in gruppo ma già pronti a scannarsi per il boccone prelibato. Nella sua stralunata visione della storia, Goebbels firmò il suo estremo editoriale: «Fino all'ultimo respiro». E dice: «A Berlino tra le macerie fumanti della capitale del Reich si decide il destino dell'Europa e da questo, tu, camerata, non puoi separare il tuo. Pensa a questo, stringi i denti, resisti, sempre fedele al tuo giuramento e alla responsabilità che hai nei confronti dei tuoi successori, di tua madre, tua moglie e dei tuoi figli. La sentenza del destino è davanti a te, non puoi sottrarti e neanche rinviare la sua esecuzione». Fino a sovverte la Storia, fino a sostenere che la guerra era stata voluta dalla congiura bolscevica ed ebraica. Questo ultimo respiro restò sospeso nell'aria insalubre di Berlino, resa densa dal fumo delle macerie. Quando viene distribuita, l'edizione del 29 aprile venne abbandonata e requisita dai sovietici, ormai pronti ad agganciare i loro artigli sul Reichstag.

Pearl Harbor, il giallo dei documenti insabbiati. Hoover non si fidava dello "slavo"? Davide Bartoccini il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Non un gioco e nemmeno una guerra presa sul serio. Solo la sfiducia di Edgar Hoover, il capo della FBI che si sentiva imperatore e non diede peso alla spia "slava" mandata dagli inglesi. Per alcuni, lasciò in un cassetto le informazioni che avrebbero salvato migliaia di vite.

Giugno 1941, Cascais, Portogallo. Due spie doppiogiochiste a mezzo servizio della Germania nazista, Johnny Jebsen, nome in codice Artist, e Dusko Popov, nome in codice Ivan, contemplano il mare e si confidano da vecchi amici quali erano al tempo dell’università a Friburgo i particolari di una missione “singolare” quanto segreta. Artist, rampollo di una ricca famiglia di Amburgo che un minuto prima dello scoppio del conflitto reclutò il suo vecchio amico dopo averlo salvato dalle mani della Gestapo, si lascia sfuggire a pranzo d’essersi recato nel sud dell’Italia, presso la base navale di Taranto, per conto dei servizi segreti giapponesi che avrebbero dovuto riferire direttamente al Mikado. Sulla base navale italiana era stato sferrato in novembre un brillante quanto devastante raid notturno - condotto da appena venti aerosiluranti lanciati da una sola portaerei inglese, la Illustrious. “Perché i giapponesi sono così interessati a Taranto?” domanderà incuriosito Ivan, che nei servizi segreti inglesi risponde al nome in codice di Tricycle. Questa domanda, con ovvia risposta almeno per noi che conosciamo già lo svolgersi degli eventi, è il principio di un grande mistero: quello che riguarda il possibile insabbiamento di informazioni segrete di altissimo rilievo che avrebbero permesso a pochi uomini di cambiare decisamente il corso della storia.

Occhi a "mandorla" su Taranto

Per il barone Gronau, esperto consigliere del Reich di stanza a Tokyo che aveva accompagnato Jebsen a Taranto, i giapponesi sarebbero entrati certamente in guerra se Roosevelt non avesse revocato l’embargo dei prodotti petroliferi. L’attacco sarebbe avvenuto nel momento in cui l’Impero giapponese avesse raggiunto la soglia critica dei soli 12 mesi di autonomia delle scorte petrolifere. Durante la missione segreta di Taranto, la scorte erano state stimate approssimativamente a 18 mesi. E quando a Dusko Popov venne inviato in America come spia al servizio dei nazisti - ma in realtà fedele a Londra e agli alleati unitisi in lotta contro Hitler - quelle scorte andavano giorno dopo giorno esaurendosi. Il quartier generale dell’Abwehr, il servizio segreto della Germania, aveva inviato Popov in America con alcuni “questionari” da riempiere di particolari informazioni richieste dal comando di Berlino. Uno dei questionari doveva essere dedicato ad informazioni sulle isole Hawaii - sembrava che gli alleati giapponesi cercassero dati specifici sui depositi di mine e munizioni che si trovavano sull’isola di Oahu, proprio dove sorgeva la base navale di Pearl Harbor. Per Tricycle non c’erano più dubbi: tutto era collegato, l’attacco della flotta giapponese era imminente.

Tutto sembrava risolto, le informazioni acquisite senza sforzo e avvalorate dall’intelligence di Londra, il viaggio sotto copertura negli Stati Uniti che avrebbe permesso a Popov di fingere di lavorare per i tedeschi quando continuava a passare informazioni agli inglesi, la salvezza per agli alleati americani che potevano in questo modo prepararsi a ricevere il nemico. Tutto tranne la mente viziata e prevaricatrice di un uomo difficile da persuadere: il direttore dell'FBI J. Edgar Hoover che in assenza di un servizio segreto omologo all’MI6 britannico, si occupava di fare la guerra ai gangster come ai nazisti.

Quello studio su Hoover

Sulla base di numerosi documenti reperiti dagli storici della Michigan State University John F. Bratzel e Leslie B. Rout Jr., dalle ricerche effettuate dallo scrittore premio Pulitzer John Toland, e non ultimo del libro autobiografico “Spia contro Spia” scritto dallo stesso agente doppiogiochista Dusko Popov, la colpa per il successo devastante dell’attacco lanciato dai giapponesi a Pearl Harbor andrebbe attribuita in larga parte alle negligenze di Hoover che “ricevette un doppio avvertimento più di tre mesi prima dell'attacco che i giapponesi” e per qualche oscuro motivo, deciso di ignorarlo. Completamente. L’uomo che aveva salvato gli Stati Uniti dalla criminalità organizzata, e che avrebbe servito fedelmente il Federal Bureau of Investigation per 48 anni lunghi anni, avrebbe deliberatamente ignorato in dossier top-secret. Perché? 

Quando venne sferrato l’attacco a Pearl Harbor, l’agente Tricycle era in missione in Brasile, per conto dei tedeschi. Al suo ritorno, dopo aver ascoltato alla radio che i giapponesi avevano attaccato gli Stati Uniti, era certo di aver salvato molte vite con le sue informazioni. Ma presto venne a sapere che la flotta americana non solo era stata presa di sorpresa, ma era stata annientata mentre era ancora alla fonda, come era avvenuto a Taranto. E non erano nemmeno le uniche. Prima che venisse istituito l’Oss, ossia il servizio segreto padre della Cia, i compiti di spionaggio, controspionaggio, monitoraggio e crittografia erano affidati a due distaccamenti separati e non coesi: l’OP-20-G che faceva capo all'Office of Naval Intelligence per la Marina e il Signal Intelligence Service per l’Esercito. Il servizio d’intelligence “separato” lavorava da tempo alla decrittazione del codice in cifra usato dalla Marina giapponese, e al cosiddetto “Purple code”, che quando l’attacco era ormai imminente poté captare le comunicazioni degli emissari diplomatici che avvertivano Tokyo del complotto fallimento dei negoziati che si sarebbero tradotti in una dichiarazione di guerra. Il 4 di dicembre Roosevelt era stato informato di una serie di operazioni di spionaggio che avevano avuto come solo obiettivo l’accumulo di informazioni riguardanti la potenza e il dislocamento delle forze armate statunitensi nelle Hawaii.

Il mistero del dossier "Tricyle"

“Quattro mesi fa vi ho avvertiti. Sembrerebbe che non ne abbiate tenuto conto. A Pearl Harbor sono stati sorpresi con le brache calate”, avrebbe gridato l’agente segreto di origini slave, ispirazione di Ian Fleming per il suo 007, non appena tornato in America. Ma né i suoi colleghi dei servizi segreti inglesi, né quelli dell’Fbi, né tanto meno Hoover in persona che lo aveva più volte cacciato dal suo ufficio a male parole, potevano dire o fare niente. Ormai il dato era tratto. E restava solo da chiedersi perché le preziose informazioni di Tricycle erano state abbandonate in fondo a qualche cassetto.

“Non ho mai trovato risposta al mistero di Pearl Harbor. Esaminando la questione e cerca di raggiungere una conclusione ho prestato attenzione a tutte le ipotesi e a qualunque congettura”, ha scritto l’agente Popov nel suo libro pubblicato nel 1974. “Vi furono inchieste e si insediarono corti marziali”, ma niente di tutto ciò non portò mai a nulla se non al coinvolgimento degli Stati Uniti in quel secondo conflitto mondiale. “Non ho mai letto né sentito di parlare dei documenti che avevo portato negli Stati Uniti e che provavano senza dubbio l’esistenza di piano giapponese contro Pearl Harbor”. E la cosa era inquietante, da un certo punto di vista.

L’idea che il presidente Roosevelt mosso da doppi interessi avesse concesso deliberatamente ai giapponese di attaccare le Hawaii - come molti fanatici dei complotti hanno a lungo sostenuto - sfiorò la mente della spia “slava” come quella di molti altri, ma svanì in fretta, raggiungendo la semplice conclusione che un attacco sferrato dai giapponesi verso una base americana pronta ad accoglierli - “senza farsi sorprendere le brache calate” cito testualmente - avrebbe sortito lo stesso identico effetto. Quello stillicidio dunque, non era funzionale, nemmeno alla retorica del giorno dell’Infamia. Del resto un qualsiasi attacco sferrato prima di una formale dichiarazione di guerra sarebbe stato sufficiente a muovere la guerra all’Impero Giapponese e ai suoi alleati dell’Asse.

L'oscura sfiducia del despota

Il primo a parlare apertamente delle preziose informazioni consegnate dall’agente doppiogiochista Tricycle sarà lo scrittore John Mastermann nel suo libro “The Double Cross Sistyem” (pubblicato nel 1972). In forza di alcuni documenti ottenuti in seguito al Official Secret Act, scriverà: “… il questionario di Trycicle per l’America conteneva un preavviso dell’attacco di Pearl Harbor verificatosi poi entro la fine dell’anno. Ma l’avvertimento restò inascoltato”. Riassumendo brevemente l’intreccio di servizi di spionaggio, il Comitato XX (ossia la sezione agenti doppi gestita dagli inglesi, ndr) , l’MI6, l’MI5 e le diverse sezioni del Abwehr che passando per Lisbona, Londra e New York, aveva portato sulla scrivania di Hoover il dossier incriminato. “Hoover era pertanto in possesso di tutte le informazioni contenute nel questionario”, quindi al corrente delle domande avanzate dai giapponesi e dell’eventualità di un attacco nelle isole Hawaii emulo del raid di Taranto ideato dall’ammiraglio britannico Cunningham.

“Ovviamente era compito degli americani e non nostro [scrive l’autore britannico] trarre le debite conclusioni sui questionari dell’Abwher”, e a questa connotazione si ricollega infatti l’agente Popov, esprimendo proprio il sospetto che Hoover faccia da mastino, l’uomo della rettitudine misteriosa, dei dossier segreti per ricattare i Kennedy, delle relazioni oscure con la mafia che invece ricattava lui, avrebbe ignorato deliberatamente le informazioni fornite da quel playboy slavo e doppiogiochista per un misto di sfiducia, xenofobia e profonda antipatia, nutrita per un uomo così diverso da lui. È possibile sì, ma non dimostrabile. Almeno non completamente.

Tanti indizi che collegati potrebbero portare alla soluzione più semplice e spaventosa. Del resto il mondo dello spionaggio è così. Spesso si eseguono soltanto gli ordini, come avviene per i soldati semplici. Non sta a loro decidere come incrociare o impiegare quelle informazioni ottenute con l'inganno. Lo stesso Popov, nome in codice Ivan e Tricycle, quando venne inviato in Brasile per ottenere notizie su di un particolare materiale chiamato uranio, non era stato messo al corrente, né dai tedeschi prima né dagli americani poi, per quale motivo fosse così importante per l'ottenimento di un’arma mai vista prima: la bomba atomica.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Candido Godoi, la città dei “gemelli ariani” di Mengele. Pietro Emanueli su Inside Over il 20 novembre 2021. L’assalto del Terzo Reich all’America Latina rappresenta uno dei capitoli più intriganti della Seconda guerra mondiale, eppure, per uno strano scherzo del destino, risulta essere anche uno dei meno conosciuti al grande pubblico. Scrivere e parlarne, però, è più che importante – è essenziale –, perché è soltanto avendo cognizione di ciò che accadde tra gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale che si può comprendere, ad esempio, la storia della grande fuga dei nazisti nelle terre di Simon Bolivar nel dopo-caduta di Berlino. L’emigrazione delle aquile naziste in America Latina, secondo alcuni pilotata dalla cabalistica Organizzazione Odessa allo scopo di consentire, un giorno, la nascita di un nuovo Reich, avrebbe condotto un piccolo esercito tra gli altopiani messicani e le pianure argentine. Un esercito composto dalle nove alle dodicimila persone, tra le quali alcuni dei più eminenti gerarchi del Terzo Reich, come Adolf Eichmann e Josef Mengele. E quest’ultimo, per quanto braccato dai cacciatori di teste del Mossad, avrebbe continuato a svolgere esperimenti fino all’ultimo dei suoi giorni.

Lo strano caso dei gemelli di Cândido Godói

Josef Mengele, il famigerato “angelo della morte”, sarebbe arrivato in Brasile nel 1963 e qui sarebbe morto alcuni anni più tardi, probabilmente nel 1979. Prima del 1963, secondo le ricostruzioni storiche, il medico degli orrori avrebbe vissuto tra Argentina e Paraguay, non disdegnando spostamenti in altri lidi per incontrare gli ex colleghi. Sarebbe stata la cattura dell’ex collega e amico Eichmann a convincerlo della necessità di trasferirsi nelle terre brasiliane, ritenute più sicure e meno permeabili alla vendetta del Mossad.

Cândido Godói fu una delle località dove Mengele avrebbe trascorso la maggior parte dei suoi ultimi sedici anni di vita. E perché si fosse stanziato qui non è difficile da capire: localizzato al confine con l’Argentina, questo villaggio di meno di 10mila anime era abitato – e lo è ancora oggi – da una folta minoranza di polacchi e tedeschi. Una minoranza poco o nulla integrata nel tessuto sociale brasiliano, tanto da possedere un proprio dialetto – noto come Hunsrik –, indi perfetta a prestarsi come rifugio e laboratorio.

Cosa sia accaduto di preciso non è dato saperlo, ma quali siano stati i risultati di quelle sperimentazioni, sì, è abbastanza noto. Perché Cândido Godói, a partire dal 1963, è gradualmente divenuta la località con la più alta incidenza di gravidanze gemellari dell’intero pianeta. Quello che accade in questo villaggio, più precisamente nel quartiere tedesco di Linha São Pedro, è che una gravidanza su dieci è di tipo gemellare. La dimensione e l’unicità del fenomeno può essere esplicata meglio a mezzo dei numeri:

Nello stato federato di Rio Grande do Sul, al quale appartiene Cândido Godói, le gravidanze gemellari costituiscono l’1,8% del totale.

L’incidenza delle gravidanze gemellari in quel di Cândido Godói risulta essere due volte maggiore a quella registrata in altri territori del globo interessati da fenomeni simili, come la Nigeria sudoccidentale – dove il tasso dei parti gemellari è del 4,5-5%.

Quasi una gravidanza gemellare su due, il 47% per l’esattezza, termina con la nascita di una coppia monozigote – nel resto del mondo, invece, i “gemelli identici” rappresentano meno del 30% di tutte le gravidanze gemellari.

Vi sono stati anni in cui l’incidenza delle gravidanze gemellari ha raggiunto la soglia record del 20%.

Cos’è successo a Cândido Godói?

Di Mengele è noto che abbia vissuto e sia morto in Brasile, ivi conducendo degli esperimenti come, dove e quando possibile, ma la natura di tali ricerche continua ad essere avvolta dal mistero. Le indagini sulla popolazione di Cândido Godói sembrano indicare che Mengele possa aver studiato il cosiddetto “effetto del fondatore” – termine con il quale si fa riferimento ad un processo che comporta la progressiva riduzione della variabilità genetica in comunità piccole e omogenee – e che l’aumento repentino delle gravidanze gemellari, ancora oggi persistente, non sia che l’esito delle sue attività.

Lo storico argentino Jorge Camarasa, tra i più importanti investigatori del caso Cândido Godói e dell’epopea di Mengele in America Latina, era giunto alla conclusione che l’angelo della morte, dietro la scusante di curare gli abitanti del borgo, avesse trattato le donne del posto con dei medicinali sperimentali, magari provenienti dai laboratori nazisti, concepiti al duplice scopo di “arianizzare” il patrimonio genetico e di incrementare il tasso di natalità.

Una tesi ai limiti della fantascienza, quella proposta da Camarasa, che all’epoca della pubblicazione di “Mengele. L’angelo della morte in Sud America” (2008) gli era valsa le critiche di colleghi e genetisti – convinti, quest’ulltimi, che il caso Cândido Godói fosse riconducibile ad una radicalizzazione inusuale ma naturale dell’effetto del fondatore –, ma che risulterà tutt’altro che illogica e fuori dal mondo per coloro che il nazismo lo hanno sviscerato.

Perché il nazismo non fu soltanto scienza applicata al genocidio e ricerca militare avanguardistica. Il nazismo fu anche, e soprattutto, esoterismo, misticismo e occultismo. Tre ragioni che spiegano l’ossessione del Führer per le reliquie e per gli oggetti leggendari dai poteri preternaturali – come il santo Graal –, che spiegano la centralità rivestita da società segrete come Thule e Vril nella formulazione della politica nazista e che, forse, potrebbero spiegare perché Mengele cercò di trasformare Cândido Godói nell’ultimo rifugio della razza ariana. 

Reinhard Gehlen, il nazista della Cia. Pietro Emanueli su Inside Over il 20 novembre 2021. Il nazismo è sorto e morto con Adolf Hitler, il Führer che aveva sognato un Reich di mille anni e il cui fedelissimo Heinrich Himmler credeva di essere la reincarnazione di Enrico l’Uccellatore, ma i nazisti no, non perirono né scomparvero con la caduta di Berlino e con la consegna alla storia della breve epopea del Mito del ventesimo secolo. Perché molti di loro riuscirono a scappare, chi in America Latina – tra i nove e i dodicimila – e chi in Medio Oriente, riuscendo a rifarsi una vita, sottraendosi alla giustizia di Norimberga e alla vendetta del Mossad fino all’ultimo giorno. Alcuni, tra quei tanti superstiti, avrebbero profittato della seconda occasione per trovare un nuovo scopo, perché più amanti dell’azione che dell’anonimato. Johann von Leers, ad esempio, sarebbe divenuto uno dei più importanti propagandisti del nazionalismo arabo e dell’antisionismo. Otto Skorzeny, il famigerato liberatore di Mussolini, avrebbe costruito una fortuna offrendo le proprie consulenze politico-militari al miglior offerente. E Reinhard Gehlen, invece, sarebbe diventato il “nazista della Cia”.

Un "nazista qualunque"

Reinhard Gehlen nacque in quel di Erfurt, la capitale della Turingia, il 3 marzo 1902. Figlio di due cattolici praticanti, che per lui sognavano una carriera accademica, Gehlen, una volta adulto, avrebbe fatto il contrario di quanto desiderato dai genitori. Non soltanto, infatti, sarebbe diventato ateo, abbandonando la fede di famiglia, ma si sarebbe arruolato nelle forze armate weimariane, la Reichswehr.

All’interno della Reichswehr, nata per sostituire la possente armata guglielmina, Gehlen avrebbe fatto carriera. Nel 1935 la licenziatura presso l’Accademia di commando delle forze armate (Führungsakademie der Bundeswehr) e, subito dopo, la promozione al grado di capitano accompagnata dall’assegnazione allo Stato maggiore generale.

Gehlen non si sarebbe distinto per azioni particolari durante la prima parte della Seconda guerra mondiale. Non era, infatti, interessato a risaltare agli occhi del Partito: era un nazionalista, non un nazionalsocialista. Impegnato sostanzialmente nel teatro orientale, dapprima in Polonia e poi in Unione sovietica, Gehlen avrebbe quivi alternato ruoli di medio comando e intelligence. La svolta sarebbe avvenuta nel corso della battaglia di Stalingrado, alla quale Gehlen avrebbe partecipato direttamente in qualità di comandante del Fremde Heere Ost, la divisione specializzata nello studio del campo sovietico. Alla guida di tale sezione avrebbe trovato il proprio scopo esistenziale: l’intelligence. Fu lui, invero, che, accorgendosi della disorganizzazione di quella che avrebbe dovuto essere una realtà di eccellenza, avrebbe coordinato personalmente l’arrivo di linguisti, geografi, antropologi e altri conoscitori del mondo russo in aiuto ai militari.

Il piano B

Gehlen avrebbe avuto l’occasione di (di)mostrare al mondo quali fossero le sue reali convinzioni politiche nel 1944, quando fu contattato da Henning von Tresckow, Claus von Stauffenberg e Adolf Heusinger per prendere parte all’operazione Valchiria, ovverosia alla congiura di palazzo contro il Führer. Congiura alla quale Gehlen avrebbe partecipato, seppure giocando un ruolo minoritario, cioè garantendo al trio copertura nel proprio ambiente.

La scoperta del complotto, con la successiva esecuzione dei protagonisti, avrebbe costretto Gehlen alla fuga. Una fuga durata fino alla caduta di Berlino. Morto Hitler, comunque, qualcun altro avrebbe cominciato a cercarlo: gli Stati Uniti. Affidabile perché naziscetttico, nonché utile perché conoscitore della realtà sovietica e possessore di una grande quantità di intelligence, Gehlen era l’uomo di cui gli Stati Uniti e la nascente Central Intelligence Agency abbisognavano per combattere la minaccia del domani: l’Unione Sovietica. E lui, tanto naziscettico quanto anticomunista, li avrebbe aiutati volentieri.

Al servizio della Cia

Il patto tra Gehlen e gli Stati Uniti fu siglato nel maggio 1945, sullo sfondo della Berlino in macerie, e fu strutturato come un do ut des basato sulla promessa di libertà in cambio di accesso agli archivi della Fremde Heere Ost e aiuto nella creazione di una struttura transnazionale in chiave anticomunista. Di lì a breve, ovvero entro la fine dell’anno, Gehlen avrebbe messo in piedi una struttura spionistica dedicata al monitoraggio delle manovre sovietiche nell’Europa centro-orientale: l’Organizzazione Gehlen, altresì nota come “L’Organizzazione”. Composta da ex colleghi della Fremde Heere Ost, e in contatto con l’Office of Strategic Services – il precursore della Cia –, la rete Gehlen avrebbe svolto un ruolo-chiave tanto nella formazione dei futuri servizi segreti della Germania Ovest quanto nella foggiatura dell’agenda americana per l’Europa comunista. Entro la fine del 1946, complice l’ottimo lavoro di spionaggio esperito, Gehlen avrebbe potuto far uscire la propria entità dall’ombra, camuffandola dietro l’apparentemente inoffensiva Organizzazione per lo Sviluppo industriale della Germania meridionale. Un nome trasudante innocuità ma, in realtà, nascondente una potente e ramificata agenzia di spionaggio composta da una squadra di 350 dipendenti e da un piccolo esercito di circa quattromila 007. Gli agenti della Gehlen sarebbero stati gli occhi e le mani della Cia nel cuore della Cortina di Ferro, fino agli anni Cinquanta inoltrati, in quanto incaricati di interrogare ogni prigioniero di guerra di ritorno dai campi sovietici, di condurre operazioni di spionaggio nella Germania Est e nel Patto di Varsavia e di costituire delle micro-reti di resistenza a scopo spionistico nelle repubbliche sovietiche più permeabili – come Baltici e Ucraina. L’epopea dell’organizzazione Gehlen, comunque, sarebbe giunta al termine tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima parte dei Sessanta, quando la qualità del servizio offerto agli Stati Uniti avrebbe cominciato a diminuire vertiginosamente a causa di fughe di notizie e raccolta di informazioni false. Gehlen e la Cia avrebbero scoperto il motivo di simile avvenimento soltanto nel 1961, sorprendendo tre agenti insospettabili e di alta classe – Johannes Clemens, Erwin Tiebel e Heinz Felfe – a passare documentazione ai sovietici.

Direttore dei servizi segreti tedeschi

In concomitanza con il ruolo direttivo esercitato presso l‘Organizzazione, Gehlen avrebbe lavorato anche per la madrepatria, ottenendo da essa l’incarico della vita: la direzione del neonato Servizio di Intelligence Federale (BND, Bundesnachrichtendienst). Istituito nel 1956, Gehlen ne sarebbe diventato il primo direttore. L’ex nazista avrebbe guidato il BND fino al 1968, per dodici anni – un record ancora oggi imbattuto –, quando infine avrebbe ceduto al clima di pressione, ostilità e diffidenza emerso nell’immediato dopo-scoperta dei tre del Cremlino, cioè i doppiogiochisti Clemens, Tiebel e Felfe. Il trio, invero, non operava soltanto per conto della rete Gehlen, allo scopo di indebolirla, ma era anche impiegato dalla BND, dalla quale trafugava informazioni riservate sulla politica tedesca e sulla cooperazione euroatlantica. Su Gehlen, in quanto direttore del BND e testa dell’Organizzazione, sarebbe ricaduta ogni colpa per la grave infiltrazione ai danni della sicurezza della Germania Ovest. Di più, oramai divenuto un vero e proprio capro espiatorio sul quale addossare ogni responsabilità, Gehlen cominciò a divenire oggetto di attacchi di vario genere e provenienti da differenti latitudini. Nel 1968, dopo aver seguito il processo al trio del Cremlino e avviato un timido processo di ristrutturazione del BND, Gehlen si sarebbe tirato ufficialmente fuori dal servizio di intelligence. Di lì a breve, con l’avvio dell’era Wessel, avrebbe scoperto il vero motivo delle pressioni incessanti: alla classe dirigente tedesca era stato ordinato di denazificare i propri apparati, svuotandoli della presenza di ex seguaci del Terzo Reich e riempiendoli di esponenti della nuova generazione. Gehlen, in sintesi, aveva fatto il suo tempo. Perché gli Alleati maggiori, e la stessa opinione pubblica, non avevano più intenzione di accettare che dei collaboratori del Führer, in alcuni casi colpevoli di gravi crimini di guerra, occupassero posizioni di rilievo nella nuova Germania. Ne andava della credibilità dell’Occidente, oltre che della Germania “buona”. Morì l’8 giugno 1979, circondato dalle critiche del nuovo BND, demonizzato dall’opinione pubblica e scaricato dalla stessa Cia – i cui portavoce sminuirono pubblicamente l’importanza giocata dalla rete Gehlen. Forse perché vittima di questo clima, e desideroso di dire la propria sugli eventi del dopoguerra, trascorse gli ultimi anni alla scrittura di un libro di memorie, che riuscì a pubblicare prima del trapasso. 

Chi era Erich Ludendorff, l’ispiratore di Hitler. Pietro Emanueli su Inside Over il 20 novembre 2021. Dietro ogni statista, in democrazia come in dittatura, si celano sempre un maestro che ha insegnato e/o un ispiratore che ha influenzato. Giulio Mazzarino ebbe come maestro il cardinale Richelieu. Lenin ebbe come ispiratori Karl Marx e Friedrich Engels. E Adolf Hitler ebbe, tra i vari insegnanti e influenzatori, l’eroe della Grande guerra e nostalgico guglielmino Erich Ludendorff.

Le origini

Erich Friedrich Wilhelm Ludendorff nacque in quel di Ludendorff il 9 aprile 1865. Terzo di sei figli, Erich era nato in un contesto relativamente agiato: il padre era uno junker, la madre un’aristocratica vantante una remota connessione con la potente famiglia Dönhoff.

Cresciuto nella tenuta di famiglia dalla zia materna, Erich si sarebbe rapidamente rivelato un bambino prodigio, eccellendo nella matematica e in molte altre materie. Come lui, anche il fratello Hans, che in futuro sarebbe divenuto un celebre astronomo, mostrò di possedere il dono di una mente fuori dal comune sin dalla tenera età.

Primo di ogni corso, sebbene inserito in un percorso avanzato seguito da persone più avanti con l’età, Erich avrebbe scelto la carriera militare, preferendola agli affari di famiglia, e all’interno delle forze armate tedesche, riconfermando le proprie qualità straordinarie, sarebbe divenuto in breve tempo un punto di riferimento tanto per i coetanei quanto per i più anziani.

Eroe nella Grande Guerra

All’alba della Grande Guerra, Ludendorff vantava un curriculum più unico che raro, avendo ricoperto una pluralità di posizioni ed essendo capace di ricoprire diversi ruoli. Colonnello e stratega, Ludendorff era stato prescelto dai vertici militari per trasporre in realtà il piano Schlieffen in caso di guerra e, coerentemente con la missione affidatagli, aveva iniziato ad effettuare dei sopralluoghi in Belgio nel 1911.

Fu Ludendorff, tra sopralluoghi e notti insonni passate a studiare i dettagli del piano, che illuminò gli alti comandi su di un grave difetto: all’armata tedesca mancavano sei corpi per compiere la campagna alla perfezione.

Allo scoppio del conflitto, in segno di riconoscimento per le abilità dimostrate, Ludendorff fu insignito del grado di vicecapo presso la seconda armata del generale Karl von Bülow. Guidò da remoto la fatidica traslazione in realtà del piano Schlieffen, nell’agosto 1914, coordinando in particolare la battaglia di Liegi, e per la fulminea vittoria, lo stesso mese, fu premiato da Guglielmo II in persona con la più alta onorificenza prussiana: l’Ordine Pour le Mérite.

Di lì a breve, complici le difficoltà sperimentate nel fronte orientale con l’Impero zarista, Ludendorff sarebbe stato nominato dal gabinetto di guerra il vice del comandante Paul von Hindenburg. Il duo, disegnando dei piani d’azione basati sul calcolo delle forze sul campo e sull’analisi degli scenari più plausibili, avrebbe mostrato rapidamente al gabinetto di guerra i primi risultati, come in occasione della battaglia di Tannenberg, ma le divergenze di visioni avrebbero preso il sopravvento – a detrimento della Germania.

Visionario, oltre che calcolatore, Ludendorff aveva proposto a Berlino di colonizzare e germanizzare l’area polacco-baltica nel contesto del Drang nach Osten e dedicò gli inverni del 1915 e del 1916, passati a Kaunas, alla messa su carta di quell’idea. Il potenziale di questa Grande Germania, secondo i computi dello stratega, sarebbe stato tale da permettere il sostenimento di una guerra con britannici e americani.

Richiamato in patria con l’aggravarsi della situazione nel cuore del continente, Ludendorff si ritrovò nuovamente a collaborare con von Hindenburg. Nonostante l’aumento dei dissidi con il resto della gerarchia, per via della sua tendenza ad egemonizzare i piani bellici, la sottomissione della Romania al Kaiser lo avrebbe consacrato in un idolo popolare, mentre la stampa avrebbe cominciato a chiamarlo “il cervello dell’esercito tedesco”.

Con l’avvio della campagna per la costruzione di un’economia di guerra, delineata dal programma Hindenburg, Ludendorff sarebbe entrato anche nella supervisione dell’economia nazionale. A quel punto, apice della carriera e della stessa vita di Ludendorff, gli storici concordano all’unanimità: era diventato l’uomo più potente di Germania.

Il potere e il prestigio di Ludendorff sarebbero aumentati ulteriormente nel 1917, quando il geniale stratega mise la firma sulla battaglia di Caporetto e curò il ritorno di Lenin e dei suo discepoli in Russia, fornendo loro aiuto in termini di capitale e armamenti a condizione che, una volta al potere, firmassero immediatamente un trattato di pace dettato dalla Germania. Cosa che poi avvenne.

Sebbene la sorte della Grande Guerra sembrasse ormai scritta, la disfatta era dietro l’angolo. Con lo scoppio del caso Zimmermann – il celebre tentativo della diplomazia tedesca di convincere il Messico a dichiarare guerra agli Stati Uniti –, la presidenza Wilson avrebbe dichiarato guerra al Kaiser. E contro quell’immenso dispiegamento di forze, incontenibile per l’economia stremata e per l’armata stanca dell’Impero tedesco, nulla avrebbe potuto la mente iperdotata di Ludendorff.

Il ruolo-chiave nella formazione del nazismo

L’idolo delle folle che aveva stregato il Kaiser, a causa dell’ignominiosa sconfitta della Germania, avrebbe magnetizzato ogni colpa, sarebbe diventato oggetto di ogni attacco, vedendosi costretto a riparare in Svezia con dei documenti falsi. Una volta qui, solo con se stesso e ricco di verità da raccontare su quanto fosse accaduto nel dietro le quinte, Ludendorff avrebbe cominciato a scrivere memorie, articoli, saggi e commenti sulla guerra e sul dopoguerra.

Sarebbe stato proprio Ludendorff, dall’autoesilio, ad alimentare il malcontento dei nostalgici e dei veterani, popolarizzando la leggenda della pugnalata alla schiena (Dolchstoßlegende) e accusando socialdemocratici e comunisti di anelare all’annichilimento della Germania in combutta con la minoranza ebraica.

Tornato a Berlino nel febbraio 1919, poco più di un anno più tardi avrebbe supportato il tentato Putsch di Kapp – il più significativo tentativo di rovesciamento della Repubblica di Weimar, durato una settimana e coinvolgente cinquemila veterani. Nello stesso periodo, vincendo il proprio orgoglio, avrebbe incontrato von Hindenburg, sancendo una riconciliazione che, comunque, sarebbe durata poco.

Nonostante il putsch di Kapp fosse fallito, la Germania weimariana era tutt’altro che in pace. Nel 1922, ad esempio, un’organizzazione terroristica protonazista si rese protagonista dell’assassinio del ministro Walther Rathenau. E quel clima di terrore, in parte, era stato creato dal revisionismo di Ludendorff. Ludendorff che, non a caso, nel 1923 ricevette un invito per un incontro privato da un aspirante politico rispondente al nome di Adolf Hitler.

I due condividevano tutto: la diffidenza per gli ebrei tedeschi, la nostalgia per il Reich, il livore nei confronti di Versailles, la voglia di rivalsa contro l’Europa, l’adesione al darwinismo sociale e persino la visione razzialistica delle relazioni internazionali – visione che vedeva la nazione tedesca messianicamente al centro del mondo e al di sopra di ogni altro popolo.

Hitler e Ludendorff, a partire dal 1923, iniziarono a trascorrere tempo insieme, sempre più tempo, fino a diventare quasi un tutt’uno. Neanche il putsch della birreria li avrebbe divisi, consolidando, anzi, quel legame. L’ex eroe di guerra, nel frattempo reinventatosi scrittore di testi cospirazionistici di stampo giudeofobico e antimassonico, avrebbe formato un’intera generazione di nazisti.

Gli ultimi anni e la morte

La sconfitta alle presidenziali del 1925, che lo videro competere contro von Hindenburg con il neonato Partito Popolare Tedesco della Libertà, non fecero che radicalizzare Ludendorff, unendolo ancora di più a Hitler. Quella radicalizzazione, che accentuò il carattere misantropico del tormentato genio, sarebbe stata anche la causa del fallimento del suo matrimonio.

Il nazismo, che nel 1933 sarebbe diventato l’ideologia ufficiale del Reich rinato, debbe tante cose a Hitler quante a Ludendorff. Da quest’ultimo, in particolare, mutuò il rigetto del cristianesimo, ritenuto una religione debilitante, a favore di un ritorno al paganesimo germanico – lui stesso, del resto, divenne un seguace di Odino.

Negli ultimi anni di vita si allontanò dal nazismo, nonché dallo stesso Hitler, estraniandosi dalla politica ed immergendosi interamente nell’esoterismo, nell’occultismo e nella magia. Completò quella strana trasformazione, da militare a stregone, fondando la Società per la Conoscenza di Dio (Bund für Gotteserkenntnis), una setta esoterica ancora oggi esistente.

Morì il 20 dicembre 1937, giorno del suo settantaduesimo compleanno, a causa di un tumore del fegato. Eloquentemente, a riprova della distanza venutasi a creare con l’ex allievo, Hitler, pur tributandogli un funerale di Stato, non gli dedicò alcun elogio funebre.

Abwehr, gli 007 del Fuhrer. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 novembre 2021. Ogni potenza che ambisca ad essere grande deve imperativamente soddisfare una serie di condizioni, che spaziano dal possesso di risorse naturali alla dotazione di un apparato militare all’altezza di competizioni egemoniche, passando per la capacità di adattamento ai cambiamenti, l’avere un sistema politico stabile e la propensione al progresso tecnologico. Tra le condizioni essenziali da soddisfare, pena la sconfitta in un confronto egemonico e l’ingabbiamento in uno stato di media potenza, figurano anche la disponibilità di quinte colonne nella casa del rivale, l’avere degli eserciti invisibili pronti a uscire dall’ombra in caso di emergenza e l’avere dei servizi segreti impermeabili alla corruzione e plusdotati in termini di cervelli, abilità e strumenti. Ed è precisamente per l’ultimo motivo che la Germania nazista perse la seconda guerra mondiale: aveva un servizio segreto, l’Abwehr, ricco di cervelli ma povero di strumenti e circondato da nemici.

La genesi

L’Abwehr viene istituito ai primordi dell’epoca weimariana, nel 1920, e inquadrato all’interno del Ministero della Difesa. Viene costituito per due ragioni: succedere al vetusto Abteilung III b, che aveva mostrato tutta la sua inefficienza durante la Grande guerra, e mostrare alle potenze vincitrici che la Weimarer Republik non aveva ambizioni offensive – attività prima e principale dell’agenzia era il controspionaggio.

Povero di missioni per via delle clausole vincolanti del Trattato di Versailles – al controspionaggio, negli anni successivi, sarebbe stato possibile aggiungere soltanto la cifratura e la ricognizione – e carente di personale – una mancanza dovuta ad una serie di motivi: scarso focus sul reclutamento, disinteresse generale verso l’agenzia, sentimenti anti-weimariani tra le forze armate –, l’Abwehr sarebbe andato incontro ad un processo di ingrandimento nel 1928, anno dell’ingresso al suo interno degli uomini dell’agenzia di spionaggio della Marina: la Reichsmarine.

Una vera e propria riforma dell’Abwehr, ad ogni modo, avrebbe avuto luogo soltanto con la fine dell’esperienza weimariana, ovverosia con l’inizio del dodicennio nazista.

La riorganizzazione durante il nazismo

Nel 1932, all’alba del nazismo, all’Abwehr avviene un cambio di regia: il comando viene assunto dal capitano Konrad Patzig, uno dei tanti ufficiali entrati nell’agenzia grazie alla fusione con il reparto di intelligence della Reichsmarine. E sarebbe stato Patzig, in una prima assoluta, a traghettare l’Abwehr verso l’emancipazione da Versailles, forgiando una collaborazione con le controparti del vicinato mitteleuropeo in chiave antisovietica.

Il circuito di alleanze creato da Patzig fu ereditato dai nazisti, che con il pretesto del contenimento antisovietico avrebbero cominciato a sorvegliare i loro futuri obiettivi, in primis la Polonia, a mezzo di raccolta informazioni, voli di ricognizione e intercettazioni. Per quanto utile e adatto al ruolo, Patzig non era una nazista, ragion per cui nel 1935 fu silurato e sostituito da un fedelissimo del Führer: Wilhelm Canaris, un altro ammiraglio formatosi nella Reichsmarine.

Negli anni di Canaris sarebbero apparsi i semi che, una volta maturati, avrebbero contribuito al fallimento dell’Abwehr e, a latere, alla sconfitta della Germania nazista: la competizione antagonistica con le organizzazioni sorelle, cioè il Servizio di Sicurezza (SD, Sicherheitsdienst) di Reinhard Heydrich, la Gestapo e la sezione SIGINT dell’Auswärtiges Amt.

Le rivalità tra agenzie sarebbero aumentate considerevolmente a partire dal 1938, anno di una riforma radicale dell’Abwehr voluta da Adolf Hitler e negoziata da Canaris. L’ente, oramai composto da quasi un migliaio di agenti, fu suddiviso in tre dipartimenti, dotato di una vasta gamma di funzioni e missioni – dal monitoraggio dei movimenti sovietici all’intrusione nelle colonie e nei satelliti delle potenze dell’Europa occidentale, passando per i sabotaggi e la pianificazione di guerre coperte all’estero – e investito di una maggiore autonomia dal Ministero della Difesa

Suddetta riforma avrebbe gettato le fondamenta per la trasformazione dell’Abwehr nel principale vettore del nazismo oltreconfine, dal resto d’Europa all’America centro-meridionale, passando per l’Africa e il Medio Oriente, ma avrebbe anche esacerbato il conflitto con le sorelle gelose in madrepatria. E Canaris, nel corso della seconda guerra mondiale, si sarebbe tanto pentito di aver persuaso Hitler ad avallare il potenziamento dell’Abwehr da diventare un antinazista.

Le operazioni più significative

I principali fatti ed eventi dell’anteguerra e della guerra sembrano suggerire che se l’Abwehr avesse ottenuto più fondi e strumenti adeguati, riuscendo a vincere l’animosità sabotatrice delle sorelle SD e Gestapo, la seconda guerra mondiale avrebbe potuto avere un esito differente. Un esito non per forza a favore dell’Asse, ma semplicemente differente: maggiori difficoltà per gli Alleati, campagne belliche prolungate ed esplosione di conflitti imprevedibili in teatri insospettabili.

L’elenco delle innumerevoli operazioni pensate e/o condotte dall’Abwehr prima e durante il conflitto è la prova provante delle potenzialità inespresse di quest’agenzia sepolta dalla storia:

Il supporto nell’annessione dell’Austria, alla quale l’Abwehr avrebbe contribuito sondando l’umore dell’opinione pubblica e diffondendo sentimenti pangermanici tra la popolazione.

L’operazione Polo Nord nei Paesi Bassi, grazie alla quale la Germania nazista poté neutralizzare la resistenza clandestina in loco e catturare agenti, armi e strumenti provenienti dalla Gran Bretagna, sigillando la nazione sino al termine del conflitto.

L’occupazione di Norvegia e Danimarca, facilitata da una serie di sabotaggi alle infrastrutture strategiche esperiti dall’Abwehr nelle fasi precedenti allo spostamento delle truppe.

L’organizzazione di un vasto movimento di opposizione all’impero britannico in India, capitanato da Subhas Chandra Bose, dotato di un proprio esercito – la Legione indiana –, supportato da spie in loco come la celebre Savitri Devi e reso accattivante agli occhi dell’opinione pubblica del subcontinente a mezzo di un’intensa campagna propagandistica portata avanti da entità come il Centro per l’India libera e Radio Azad Hind.

La conclusione di uno storico accordo armi-per-petrolio con la Romania – il primo del genere per la Germania nazista –, siglato grazie agli sforzi diplomatici dell’Abwehr e che avrebbe assicurato ai tedeschi un significativo approvvigionamento energetico con l’apertura del fronte orientale.

L’operazione Salam, portata avanti con l’aiuto dell’esploratore Laszlo Almasy, che avrebbe permesso ai tedeschi di collezionare intelligence sulle manovre inglesi in Egitto.

Il colpo di Stato in Iraq del 1941.

L’insurgenza anticoloniale nella regione Medio Oriente e Nord Africa.

I due tentativi putschisti in Cile del 1938 e del 1939.

L’operazione Bolivar nell’America centro-meridionale.

L’alleanza con l’Irish Republican Army in chiave antibritannica.

La quasi-rivoluzione boera in Sudafrica.

L’infiltrazione nelle terre turco-turano-islamiche dell’Unione Sovietica.

Il tramonto

L’avvio dell’operazione Barbarossa avrebbe sancito l’inizio della fine per la Germania nazista e per l’Abwehr. Perché sarebbe stata proprio quest’ultimo ad effettuare l’analisi delle forze in gioco sulla quale si basò Hitler per invadere l’Unione Sovietica. E quell’analisi, come è noto, avrebbe sottostimato grandemente le capacità dell’esercito di Stalin, ritenuto dagli analisti dell’Abwehr tanto carente di mezzi quanto mancante di volontà combattiva.

Gli storici ritengono che l’Abwehr, ad ogni modo, più che non aver saputo, non abbia voluto leggere adeguatamente la realtà dei fatti, limitandosi a fornire alla dirigenza nazista ciò che gli era stato chiesto: non un’analisi obiettiva, quanto una che andasse incontro ai desideri espansionistici del Führer. A supportare questa visione degli eventi, il fatto che Canaris, già nel marzo 1942, avesse cominciato a parlare di una sconfitta imminente, non soltanto nel teatro orientale, ma nella guerra mondiale.

Nella seconda parte del conflitto, complici il crescendo della rivalità tra agenzie e delle operazioni di controspionaggio degli Alleati, l’Abwehr avrebbe cominciato a sperimentare i primi fallimenti, tra i quali l’esecuzione delle spie coinvolte nell’ambiziosa operazione Pastorius – concepita allo scopo di colpire obiettivi economicamente strategici negli Stati Uniti – e l’abbandono dell’operazione Felix – pensata per occupare Gibilterra con il consenso di Francisco Franco, ma fallita a causa delle pesanti interferenze del SD, che durante il processo di negoziazione cercò di assassinare un alto dirigente franchista, raggelando ulteriormente le relazioni bilaterali.

Sul finire della guerra, del cui esito sfavorevole il capitano Canaris era sempre più convinto, alcuni agenti dell’Abwehr avrebbero cominciato a complottare contro il governo nel disperato tentativo di evitare una nuova ignominiosa sconfitta. E uno di loro, Hans Bernd Gisevius, avrebbe persino cercato di negoziare una resa concordata con John Foster Dulles, trovando un ostacolo insormontabile, però, nell’intransigenza di Franklin Delano Roosevelt.

Nello stesso periodo delle cospirazioni e dei fallimenti, forse perché a conoscenza del malcontento serpeggiante nell’Abwehr, o forse perché impazienti di catalizzarne la fine, SD, Gestapo e SS avrebbero aumentato la morsa sull’odiata organizzazione sorella, infiltrandone i dipartimenti, portandone in tribunale gli agenti per le accuse più svariate e mettendo sotto sorveglianza lo stesso Canaris.

L’epopea dell’Abwehr sarebbe giunta al capolinea il 18 febbraio 1944, giorno in cui Hitler, a mezzo di decreto ufficiale, ne sancì lo scioglimento. Un decreto firmato su spinta della Gestapo, che qualche mese prima, il 10 settembre, aveva smantellato il cosiddetto “circolo di Solf” – un raduno di personalità antinaziste che soleva avere luogo in casa di Hanna Solf –, trovandovi al suo interno Otto Kiep, un ufficiale con vari amici nell’Abwehr.

Nessun Abwehr faceva parte del circolo di Solf, ma la Gestapo seppe strumentalizzare magistralmente la presenza di Kiop, facendo leva sulla montante paranoia di Hitler. Di lì a breve, Canaris, già spogliato di ogni titolo e funzione, sarebbe stato condotto al patibolo perché associato al famigerato complotto del 20 luglio e accusato di aver utilizzato l’Abwehr per salvare un numero indefinito di ebrei – fatto, quest’ultimo, poi rivelatosi veritiero a posteriori. Fu giustiziato il 9 aprile 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg, dichiarandosi innocente dalle accuse di tradimento e di essere stato un semplice patriota.

Otto Skorzeny, il nazista che visse pericolosamente. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 novembre 2021. Quello che il teologo della supremazia ariana Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo è nato e morto con Adolf Hitler, ma alcuni dei suoi seguaci, come è noto, sarebbero riusciti a scappare dalle grinfie degli Alleati, di Norimberga e dei cacciatori di teste di Simon Wiesenthal e del Mossad. Il novero dei nazisti che, sopravvissuti alla caduta del Terzo Reich, riuscirono a rifarsi una vita altrove nel secondo dopoguerra, chi preferendo entrare nell’anonimato e chi prestando i propri servizi al miglior offerente, è lungo, lunghissimo. Si consideri, a titolo esemplificativo, che nella sola America Latina avrebbero trovato riparo 9-12mila seguaci del Führer, tra i quali ex gerarchi del calibro di Martin Bormann, Josef Mengele e Adolf Eichmann. Altri, come Johann von Leers, trovarono rifugio nel Medio Oriente. E altri ancora, invece, come Otto Skorzeny, scelsero di correre il rischio maggiore: non nascondersi affatto.

Origini, adolescenza e formazione

Otto Skorzeny nacque in quel di Vienna il 12 giugno 1908. Di origini polacche – il cognome Skorzeny non era che un’armonizzazione di Skorzęcin, il villaggio da cui provenivano gli avi dei genitori –, Otto era il figlio di due membri della classe media con alle spalle una lunga tradizione di servizio militare.

Cresciuto in un ambiente austero – perché il padre non voleva che l’agio lo corrompesse –, Skorzeny avrebbe ricevuto un’educazione aristocratica basata sullo studio delle lingue straniere (inglese e francese) e sugli sport di combattimento (scherma). Nel corso di un duello, avvenuto negli anni universitari, sarebbe stato sfregiato all’altezza della guancia sinistra. Una cicatrice che lo avrebbe accompagnato tutta la vita.

Sul finire degli anni Venti, oramai adulto, Skorzeny sarebbe divenuto un sostenitore accanito della causa nazionalsocialista. Una causa patrocinata dapprima entrando a far parte del Partito Nazionalsocialista Austriaco e dipoi cominciando a militare nel distaccamento viennese delle SS.

Il nazismo e la seconda guerra mondiale

Skorzeny, coerentemente con il credo nazista professato, avrebbe accolto con entusiasmo l’unificazione tra le due Germanie, l’Anschluss, e lavorato ardentemente affinché gli alti comandi si accorgessero di lui. Dopo aver tentato di servire come volontario nella Luftwaffe all’alba della Seconda guerra mondiale – fu scartato per l’età e l’altezza –, riuscì ad arruolarsi nella 1ª Divisione Panzer SS “Leibstandarte SS Adolf Hitler” (1. SS-Panzer-Division “Leibstandarte SS Adolf Hitler”), distinguendosi per il valore mostrato nei campi di battaglia del fronte orientale.

Partecipò all’Operazione Barbarossa venendo incaricato, nel corso della battaglia di Mosca, di catturare le sedi del Partito Comunista e il quartier generale del NKVD. Colpito alla nuca nel corso dei combattimenti, fu costretto a tornare in patria per le cure. E qui, a riconoscimento dei suoi servigi, fu insignito della prestigiosa Croce di Ferro.

Il periodo di riposo forzato lo avrebbe aiutato a riflettere. Da casa, o meglio dal letto, Skorzeny avrebbe cominciato a scrivere di guerra non convenzionale, asimmetrica e urbana, convinto che il Terzo Reich avrebbe potuto capovolgere le sorti del conflitto soltanto revisionando profondamente il proprio modus belli gerendi. Le sue idee, evidentemente, colpirono i vertici della piramide nazista, dato che fu investito dell’onere-onore di addestrare alcune divisioni delle SS alle tattiche e alle tecniche della guerra non convenzionale.

La mini-rivoluzione bellica di Skorzeny arrivò in ritardo, non riuscendo ad evolvere in un fattore inversivo determinante, ma quel biennio di operazioni all’insegna dell’imprevedibilità strategica sarebbe bastato a trasformarlo in una sorta di anti-eroe nel secondo dopoguerra. Una nomea, quella di anti-eroe votato a dei folli ma lucidi salti nel buio, di cui si possono comprendere le origini e le ragioni soltanto attraverso un breve riepilogo di alcune delle missioni esperite o pensate dalla squadra di Skorzeny:

Operazione François. Un tentativo infruttuoso di sabotare l’invasione anglo-sovietica dell’Iran facendo leva sul malcontento del popolo Qashqai.

Operazione Salto Lungo. Un piano per l’assassinio di Stalin, Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt alla Conferenza di Teheran del 1943. Fu scoperto dai servizi segreti dell’Unione Sovietica quando ancora nelle fasi della pianificazione, e dunque abortito.

Operazione Rösselsprung. Un tentativo inane di rapire Tito.

Operazione Panzerfaust. Nome con il quale si fa riferimento al rapimento del figlio dell’ammiraglio Miklos Horthy per convincere quest’ultimo a cedere il governo del regno d’Ungheria al filonazista Ferenc Szalasi.

La missione più significativa e memorabile della squadra speciale di Skorzeny, ad ogni modo, fu l’operazione Quercia. Un nome che risulterà sconosciuto ai più, perché in Italia noto con il nome di raid del Gran Sasso, e che indica l’incursione con cui, la notte tra il 23 e il 25 luglio 1943, i nazisti liberarono Benito Mussolini.

Negli ultimi mesi del conflitto, lungi dall’arrendersi, avrebbe radunato un gruppo di soldati fluenti in inglese allo scopo di infiltrarsi nelle linee nemiche – con tanto di uniformi farlocche – e spargere i semi della confusione negli attimi più concitati dell’avanzata sulla Germania. Scoperti poco alla volta, i sabotatori di Skorzeny sarebbero andati incontro all’esecuzione, in accordo con le leggi di guerra allora vigenti, mentre sul gerarca sarebbe stata messa una taglia.

La fuga rocambolesca

Catturato nelle fasi finali della guerra, Skorzeny fu trasferito immediatamente in un campo di internamento in attesa di processo. Accusato di aver violato le leggi di guerra durante l’offensiva delle Ardenne – quando infiltrò le file americane con dei finti soldati statunitensi –, Skorzeny fu uno dei protagonisti del processo di Dachau.

All’alba della sentenza, il 27 luglio 1948, Skorzeny si fece beffa dei carcerieri evadendo in una maniera che mise in grave imbarazzo gli Stati Uniti. A processo per aver spaesato le truppe della Casa Bianca a mezzo di tedeschi camuffati da loro connazionali, il gerarca nazista fu prelevato da tre ex colleghi, con indosso delle uniformi a stelle e strisce, che convinsero le autorità carcerarie a liberarlo perché richiesto a Norimberga per un’udienza.

A partire da quella fuga cinematografica, che ne consolidò l’immagine di anti-eroe sfrontato e irriverente, Skorzeny avrebbe trascorso i due anni successivi tra Germania e Francia, protetto dagli ex colleghi del Terzo Reich. Nel 1950, ad ogni modo, dovette riparare nella Spagna franchista dopo essere stato riconosciuto da ignoti in un caffé parigino nei pressi dei Campi Elisi. A tradirlo, nonostante il nuovo aspetto, quel tratto inalterabile nel volto: la cicatrice sulla guancia sinistra.

Da ricercato dalla giustizia a ricercato dai governi

Memore del breve ma intenso biennio della “guerra alla Skorzeny”, l’ex generale Reinhard Gehlen, che nel secondo dopoguerra era finito sul libropaga della Central Intelligence Agency, prese contatti con il fuggitivo per proporgli l’affare della vita: collaborazione con la nebulosa Organizzazione Gehlen – una delle tante facce di quell’Idra rispondente al nome di Odessa – in cambio di serenità, di fine della caccia all’uomo dei servizi segreti di tutto l’Occidente.

Skorzeny, naturalmente, accettò la proposta dell’ex gerarca nazista. La prima missione svolta per conto dell’organizzazione Gehlen ebbe luogo in Egitto, all’indomani del rovesciamento della monarchia. Qui, infatti, Skorzeny fu inviato in qualità di consigliere militare, per istruire le truppe dei generali Nasser e Mohammed Naguib all’arte della guerra non convenzionale.

Consapevole del ruolo affidatogli, ma non dimentico del proprio passato – da lui mai rinnegato –, Skorzeny avrebbe profittato del soggiorno egiziano per svolgere degli incarichi extra. Incarichi come la pianificazione di scenari di guerra contro i britannici per il controllo del canale di Suez – che Nasser, poi, avrebbe preso effettivamente in considerazione nel 1956 – e l’addestramento di volontari provenienti dal Medio Oriente, più precisamente da Israele-Palestina, alla ricerca di maestri dai quali imparare a combattere degli eserciti regolari. Tra quei tanti volontari che si recarono in Egitto per essere temprati da quell’uomo sfregiato venuto dell’Europa, sebbene la storiografia non ne faccia quasi cenno, figurava anche un giovanissimo Yasser Arafat, il futuro capo del movimento di resistenza palestinese.

Terminato il “contratto” con l’Egitto nasseriano, i servigi di Skorzeny furono richiesti dall’Argentina di Juan Domingo Perón. Per conto dell’allora guida dell’anti-imperialismo sudamericano, l’ex uomo di punta del Führer svolse una pluralità di mansioni: consigliere politico, guardia del corpo di Evita e coordinatore della trasmigrazione di nazisti dall’Europa a Buenos Aires attraverso un proprio canale – Die Spinne (let. il ragno). Nell’ambito di quest’ultimo incarico, tra i più importanti dei tre, sembra che Skorzeny avesse proposto all’Organizzazione Gehlen di fare dell’Argentina la culla di un futuro Quarto Reich.

Gli ultimi anni e la morte

L’uomo delle fughe e dei paradossi, nei primi anni Sessanta, sarebbe stato raggiunto dal cliente più impensabile: il Mossad. In qualità di membro dell’Organizzazione Gehlen e di ex consigliere militare di Nasser, Skorzeny era ritenuto dagli israeliani l’uomo adatto al compimento dell’operazione Damocle – nome in codice di un piano per l’eliminazione degli scienziati (ex) nazisti impiegati nel programma missilistico egiziano. L’effettivo coinvolgimento di Skorzeny nell’operazione, tuttavia, per quanto ritenuto credibile dagli storici israeliani, continua ad essere oggetto di dibattito.

Grazie al danaro ricevuto dai vari governi e dai servizi segreti ai quali aveva offerto il proprio cervello per un ventennio, Skorzeny, alla morte, sopraggiunta per un cancro il 5 agosto 1975, sarebbe risultato il capo di un piccolo impero. L’uomo che visse pericolosamente, invero, era il proprietario di un terreno di 165 acri nella contea di Kildare (Irlanda), di una villa a Maiorca, di una compagnia militare privata (Paladin Group) e di una società per la diffusione del nazismo con sede a Barcellona (CEDADE).

Il 7 luglio, in occasione dei funerali, tenutisi a Madrid con rito cattolico, l’ultimo saluto al nazista che visse pericolosamente avrebbe attratto nella capitale spagnola una folla di ex fedelissimi del Terzo Reich. Musiche funebri fecero da sfondo ai canti nazisti per qualche ora. I madrileni erano sbigottiti, non capivano, forse perché non sapevano, ma era morto Skorzeny, colui che poté tutto senza mai rinnegare il proprio credo nazista, incluso farsi corteggiare dal Mossad.

Hanna Reitsch, il lungo volo della pioniera di Hitler. Davide Bartoccini il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. La storia di Hanna Reitsch, pilota collaudatrice di Hitler che arrivò dove nessuno avrebbe osato, raccontata ne Il volo, la mia vita. Non solo un libro di guerra, ma la fedele testimonianza vergata da una donna senza eguali. "E ora avrei potuto prendere parte a un corso di formazione presso la scuola di volo a vela di Grunau. Finalmente andavo a volare!”. Le precise parole pronunciate da una giovanissima Hanna Reitsch, la pioniera dell'aviazione di Hitler che in un ventennio da allora avrebbe raggiunto, e addirittura surclassato per coraggio, la leggendaria Amelia Earhart. Forse la più nota aviatrice della storia. Instancabile, sempre sorridente, con i suoi biondi capelli color cenere immancabilmente raccolti per calzare la cuffia da pilota prima di spiccare il volo. Hanna Reitsch, piccola grande donna destinata a rimanere nella leggenda, sceglierà di scrivere le sue memorie dopo essere stata internata in un campo di prigionia dagli americani. Non per osannare il “sangue dei vinti”, ma per raccontare con schietta semplicità - senza per questo privarsi di una perpetua precisione nelle nozioni più specifiche - una verità: la sua. Detentrice tra gli anni '20 e '30 di un nutrito palmares di primati di volo, principalmente a vela, iniziò così la sua lunga carriera: ”Un corso di addestramento al volo a Grunau.. dove c’era una nota scuola di piloti per alianti”. Il preludio al volo come promessa del padre medico se la "bambina" avesse onorato e rispettato il suo impegno negli studi. L'approccio al volo a motore, fino a divenire pilota collaudatrice di quasi tutti gli aerei militari impiegati dalla Luftwaffe durante il secondo conflitto mondiale. Anche dei più pionieristici e spettacolari prototipi a reazione. Dal Focke-Wulf Fw 190, il caccia ad ala bassa più impiegato nella difesa dei cieli del Reich, al gigantesco aliante da trasporto Messerschmitt Me 321 “Gigant”. Dallo sviluppo delle temibili e leggendarie V1 pilotate da quelli che dovevano diventare i kamikaze tetutonici (gli “Uomini SO”, ndr), ai test per portare all'operatività il pericoloso aereo a razzo Me 163 “Komet”: una delle Wunderwaffen, le armi meravigliose tanto desiderate da Hitler che la fecero sentire, testuali parole, come a "vivere una fantasia di Münchhausen". Ogni traguardo, ogni pensiero, riportato fedelmente nelle sue memorie edite in Italia da Italia Storica di Andrea Lombardi. Volare, la mia vita (Italia Storica) di Hanna Reitsch ripercorre tutti i passi compiuti dalla pilota collaudatrice che, come tanti bambini divenuti aviatori, trovò nel volo degli uccelli che solcavano gli azzurri cieli estivi della Germania, il primordiale istinto di raggiungerli per passare accanto a loro come faceva "ogni nuvola nel vento”. Un'infanzia trascorsa con il naso all'insù, "finché (quel piacere) non si trasformò in una profonda, insistente nostalgia, un desiderio che mi accompagnava ovunque e mai poteva essere placato". Ecco cosa porta l'essere umano al volo. Questo avrebbe portato la giovane e stimata collaudatrice a diventare la prima donna al mondo a pilotare un elicottero, come ad atterrare nella Berlino assediata dai sovietici in quell’aprile 1945. Solo lei e il futuro Feldmaresciallo Ritter von Greim, nominato da Adolf Hitler ultimo comandante in capo della Luftwaffe, per ricevere gli ultimi ordini del führer prima della "caduta". “Stavo sconfinando in un dominio esclusivamente maschile e sentivo che il ricevere l’incarico di un compito patriottico di tale importanza e responsabilità, era un onore più grande di quello conferito da qualsiasi titolo o decorazione”, che pure le venne conferita, anzi, personalizzata in diamanti e oro. Figura leggendaria anche nella Germania che di solito mal celebra chiunque abbia avuto a che fare con il Nazismo - si tratti fiananco di geni e pionieri che hanno gettato le basi per la corsa allo Spazio, come nel caso del barone, ed ex SS, Wernher von Braun (che lei avrebbe incontrato in America dopo la guerra) - la Reitsch è stata e resterà da ogni punto di vista si voglia vederla uno dei più grandi piloti che il mondo abbia mai conosciuto. Una donna straordinaria che - ripercorrendo la sua storia, a tratti struggente - non fornisce soltanto una panoramica dei progressi dell’aviazione e dei piani di guerra della Luftwaffe, ma condivide con il lettore la carriera straordinaria di una donna antesignana e totalmente fuori dal comune. Toccando le fasi più drammatiche di una vita interamente dedicata al volo e al patriottismo "puro" ma non cieco - a testimoniarlo il suo resoconto fondamentale dei giorni trascorsi nel bunker della Cancelleria a Berlino. Un patriottismo che non si perde d’animo, anche dopo i terribili giorni della caduta, quando ai tedeschi, per un certo tempo, verrà addirittura proibito di volare nelle competizioni sportivo-acrobatiche. Il "volo è la mia vita", e io "vivrò per volare ancora”, si sarebbe detta nei giorni più bui della sua storia. Chi leggerà il libro scoprirà che è vero, che così è stato.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare.  

Il capitano Rudolf Jacobs e gli altri: i disobbedienti del Reich. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. Militari tedeschi che scelsero di ribellarsi: Carlo Greppi ricostruisce per Laterza la vicenda dell’ufficiale morto il 3 novembre 1944 a Sarzana in un agguato ai fascisti. Chi è Rudolf Jacobs? Nel libro mastro della storia, l’anti Eichmann: l’ostensione più plateale d’un debito di disonore. Perché la breve vita straordinaria di questo trentenne capitano della Marina nazista rovescia con il gesto finale, la morte in battaglia dalla parte giusta, l’estrema banale difesa del ragioniere dell’Olocausto e di tanti boia a lui simili, assassini in divisa d’ogni tempo e d’ogni latitudine: ero solo un soldato, eseguivo ordini. Il libro di Carlo Greppi, «Il buon tedesco», è pubblicato da Laterza (pagine 268, euro 18) 

Il capitano Jacobs esegue gli ordini, sì, ma quelli impartiti dalla sua incoercibile coscienza. E quegli ordini lo portano assai lontano dalla disciplina hitleriana, in conflitto con i propri compatrioti: incrinando l’ineluttabilità della legge del sangue denunciata magistralmente da Johann Chapoutot, la «buonafede» criminale di medici pronti a eliminare bambini ebrei quali «agenti di contaminazione», la «volonterosa» ferocia che Daniel Goldhagen individua nel tedesco comune, diremmo della strada, e nella conseguente collaborazione «popolare» allo sterminio che si proietta, fosco punto interrogativo, su settanta milioni di cittadini del Terzo Reich negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Tra i saggi di Carlo Greppi (Torino, 1982: qui sopra), «L’età dei muri. Breve storia del nostro tempo» (Feltrinelli, 2019), «La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore» (Utet, 2020), «25 aprile 1945» (2018) e «L’antifascismo non serve più a niente» (2020) usciti per Laterza. Scegliere diversamente si poteva, disobbedire si doveva, sino a far prevalere una consanguineità universale, l’appartenenza superiore a un’unica razza, quella umana. Nel nome di essa, il capitano Jacobs, «il tedesco buono», combatte lungo la Linea Gotica contro i tedeschi cattivi e contro i repubblichini loro manutengoli (altro che «italiani brava gente») in una metastoria dove Bene e Male prescindono dall’anagrafe attingendo all’epica; e battendosi viene ucciso, nel tentativo di realizzare un piano di battaglia da lui stesso messo a punto con i suoi compagni della brigata partigiana Muccini: l’assalto all’albergo Laurina di Sarzana, che in quel 3 novembre 1944 è la caserma dei fascisti torturatori di civili, una delle tante Villa Triste dei «briganti neri» asserviti ai connazionali di Jacobs. Sono passati giusto settantasette anni. E questa formidabile parabola di redenzione personale mantiene la sua carica di riscatto collettivo. Se basta uno Schindler, deve bastarci anche un Jacobs per aprire uno squarcio di speranza in una dimensione comune, per dirci che, nel libro mastro di cui sopra, i debiti sono sempre individuali, così come le scelte. Rudolf Jacobs fu capitano della Marina da guerra tedesca durante la Seconda guerra mondiale. Di stanza in Italia, dopo l’8 settembre si unì ai partigiani. Nel 1944, il 3 novembre, trentenne, perse la vita durante un’azione, da lui progettata, contro l’albergo Laurina di Sarzana (La Spezia), allora requisito dalle Brigate nere. Storia già narrata, peraltro, questa del capitano della Kriegsmarine, da racconti e saggi, lungometraggi e romanzi, e persino celebrata, perché «l’uomo che nacque morendo» (è il titolo scelto dal regista Luigi Faccini nel suo film del 2011) ha una targa nella città d’adozione e di sacrificio, Sarzana, e, sebbene con gran ritardo, è stato onorato anche nella città d’origine, Brema. Eppure, è storia tuttora inedita e da narrare ancora e ancora, arricchendola vieppiù di volti e nomi, di lacerti di tracce che riportano a tanti Jacobs ignoti, tuttavia vividi nella memoria della guerra di Liberazione, in ciò che resta di tanti personalissimi sentieri di nidi di ragno. È dunque una sfida impegnativa, questa, raccolta da Carlo Greppi, trentanovenne ricercatore torinese, con Il buon tedesco, appena pubblicato da Laterza. Quel segaligno ufficiale, che i compagni d’allora ricordano come «un uomo triste, un uomo ferito», destinato a non rivedere mai più moglie e figlioletti in patria, non fu solo all’appuntamento con la storia, non fu un’eccezione per quanto commovente: centinaia e centinaia di tedeschi e austriaci (era austriaco il suo attendente, Paul, o forse Kurt, che con lui disertò e accanto a lui combatté lungo le alpi Apuane), forse mille soltanto in Italia, forse di più, hanno lasciato le loro tracce, spesso labili eppure sempre conficcate a fondo, nell’istante della scelta di campo, dentro la memoria delle formazioni partigiane cui si unirono e che si opposero ai nazifascisti nello scorcio più cruento. Perché? «Perché ho visto il male che hanno fatto i tedeschi», spiega al telefono, ancora commosso, il novantaseienne Heinrich «Enrico» Rahe, (Überläufer, disertore, come Jacobs e sullo stesso fronte) il quale, nota Greppi, parla dei «tedeschi» come se lui stesso non lo fosse: «Ho visto quando i tedeschi ammazzavano le donne e i bambini». Dunque, la scelta individuale diventa salvezza per tanti Hans, Kurt, Wilhelm: piccoli soldati che mettono il fazzoletto rosso sulla giacca bruna volgendo il mitra dall’altra parte, e che Greppi documenta con puntiglio, appigliandosi a frammenti di lettere, comunicazioni fra comandi partigiani, registri d’ospedale appena intellegibili o di uffici municipali a malapena rimasti in piedi. Ma è una salvezza morale che costa una scissione profonda: «in Alemania», per tanto tempo, nessuno ha mai ringraziato per la sua scelta il disertore Heinrich «Enrico» o quelli come lui, anzi, «hai sparato sui tuoi Kameraden?», gli chiedevano attoniti. C’è un coraggio che forse fa davvero rinascere, ma richiede di morire due volte, e lo sa bene Erika von Brockdorff salendo alla ghigliottina nel 1943, quando scrive alla figlioletta «cercheranno di mettermi in cattiva luce davanti ai tuoi occhi». Così noi celebriamo il nostro «buon tedesco», filo rosso visibile attraverso tante storie sfocate eppure struggenti, più e meglio di quanto abbiano fatto a lungo i suoi compatrioti (la vedova attese anni chiedendo una pensione). «Darei la mia vita pur di abbreviare di un solo minuto questa guerra insensata», dice lui ai partigiani, quando ormai ha tratto il suo dado, forse spinto anche dall’eco delle stragi di Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti, Vinca, altra ignominia sulla sua bandiera di nascita. «Rudolf è stato veramente un eroe, ha voluto morire per la sua vera patria tedesca, per riscattare la dignità di un popolo travolto dal nazismo», scrive il suo comandante partigiano già nel 1945, quando il mito del capitano disertore comincia a formarsi nelle valli appena liberate. Un eroe dell’Europa che sta nascendo. E che, assaltando con nove compagni il fortino di chi quell’Europa voleva sottomettere, muore tradito dalla sorte, perché la sua arma si inceppa. Eppure, della sorte si fa beffe, perché «alla stella sotto cui nasci, e che pretende di accompagnarti tutta la vita incurante della tua volontà, le spalle le puoi sempre voltare».

Belfast, 1939: l’Ira e la Svastica contro Sua Maestà. Pietro Emanueli su Inside Over il 31 ottobre 2021. L’epopea nazista non è durata un millennio come sognava Adolf Hitler, ma quei dodici anni sono stati sufficienti a catalizzare l’entrata dell’umanità in una nuova dimensione storica: l’era della Guerra fredda, della decolonizzazione e della fine definitiva del sistema europeo degli Stati. E ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, quella nazista continua ad essere la saga storica che, più di ogni altra – anche più dello scontro egemonico tra Stati Uniti e Unione Sovietica -, stimola la fantasia di scrittori e sceneggiatori. I motivi per cui quel periodo di orrori continua a magnetizzare l’interesse dei ricercatori, in effetti, sono innumerevoli. Perché indagare genesi e origini di quello che Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo non significa addentrarsi semplicemente nei meandri plumbei e cabalistici dell’esoterismo, dell’occultismo e del misticismo – come rammentano la Società di Thule, il vissuto misterico di Rudolf Hess e la curiosa ricerca del Santo Graal -, dato che il nazismo fu anche, e soprattutto, un laboratorio di esperimenti nelle sfere della geopolitica e delle relazioni internazionali. Tra i vari esperimenti geopolitici condotti dagli strateghi del Führer, i più degni di nota sembrano essere stati dimenticati dalla storiografia, che non li ha mai approfonditi, limitandosi a scavare in fosse già lavorate e sovraffollate. E nel novero di questi esperimenti, semisconosciuti ai più, figurano l’alleanza profana tra la Svastica e la Mezzaluna islamica, l’assalto all’America Latina, l’infiltrazione delle terre turco-islamo-turaniche dell’Unione sovietica e il curioso asse con l’Irish Republican Army contro Sua Maestà.

La genesi dell’asse Berlino-Belfast contro Londra

Nel nome dell’amicus meus, inimicus inimici mei sono state siglate le alleanze più innaturali, imprevedibili ed eversive della storia. Oggi è l’epoca dell’asse arabo-israeliano in chiave anti-iraniana e del patto sino-russo in funzione antioccidentale. E ieri fu il tempo dell’intesa sino-americana contro l’Unione sovietica e della lega turco-tedesca contro la Triplice intesa. È così da sempre e sempre lo sarà: quando le circostanze lo esigono, tutti, persino degli acerrimi nemici, possono diventare improvvisamente dei migliori amici.

Uno dei casi più emblematici di “amicizia vincolata” del Novecento, più precisamente di quell’era di grandi sconvolgimenti che è stata la Seconda guerra mondiale, è quello dell’asse Berlino-Belfast contro Londra. Tutto avrebbe avuto inizio nel 1937, per puro caso, quando dei traffici di armi illeciti coinvolgenti agenti dell’Abwehr ed esercito irlandese e i sogni di uno studente di antropologia avrebbero dato vita a qualcosa di (geo)politicamente inaspettato. I traffici di armi, più che avvicinare l’Abwehr a Dublino – di cui i tedeschi volevano comprare la neutralità in caso di guerra -, l’avrebbero avvicinata a Belfast, i cui paramilitari, fieramente cattolici e antibritannici, erano alla ricerca di armamenti ed amicizie più dei loro fratelli maggiori. Per quanto riguarda lo studente di antropologia – e presunta spia dell’Abwehr -, rispondente al nome di Joseph Hoven, di lui è noto che, nel corso di un soggiorno a Connacht, fece la conoscenza di un veterano della guerra d’indipendenza irlandese, Tom Barry. Hoven e Barry, fra il 1937 e il 1939, sarebbero diventati più che conoscenti: sarebbero diventati degli amici. E tra una conversazione e l’altra davanti ad una pinta di birra, avente come tema la fantasia di un’alleanza tra l’Ira e Berlino, i due avrebbero cominciato a lavorare affinché quell’utopia venisse trasposta in realtà. La storia avrebbe premiato i loro sforzi: nel corso di un viaggio insieme nella capitale tedesca, datato 1937, Barry ottenne un incontro con le autorità naziste e la promessa di assistenza all’Ira in caso di guerra.

La fase O’Donnovan

Nel 1938, all’alba del Secondo conflitto mondiale, l’Ira avrebbe dichiarato guerra a Londra, iniziando ad attaccare obiettivi britannici nell’Irlanda del Nord. Non è dato sapere se dietro la proclamazione di guerra vi sia stata la mano, o meglio la mente, dell’Abwehr, ma il tempismo sospetto – Barry, soltanto un anno prima, aveva siglato un accordo di cooperazione con Berlino – legittima dubbi e dietrologie. L’apertura del fronte nordirlandese avrebbe accelerato i piani della Germania nazista per l’arcipelago atlantico, e all’agente Oscar Pfaus fu dato mandato di esplorare le necessità dell’Ira e di guidare il coordinamento tra le parti. Pfaus, tra febbraio e luglio 1939, avrebbe espletato la missione con serietà e diligenza, allestendo un ciclo di incontri di lavoro tra esponenti dell’Abwehr e dirigenti dell’Ira, tra i quali Moss Twomey e Seamus O’Donnovan. O’Donnovan, un esperto di esplosivi e tra i più importanti combattenti dell’Ira dell’epoca, si sarebbe rivelato una delle figure-chiave dell’operazione Belfast. Benvoluto dall’Abwehr perché erudito, impavido e fluente in tedesco, O’Donnovan si sarebbe premurato di persuadere le sezioni più scettiche dell’Ira ad accettare l’alleanza con Berlino, sobbarcandosi inoltre l’onere-onere di trovare una soluzione a fascicoli spinosi come lo stabilimento di un canale di comunicazione sicuro e la fattibilità del traffico di armi tra isola e continente in tempo di guerra. Superare le barriere della geografia e della tecnologia, nonostante i piani di contingenza sviluppati, sarebbe stato più che complicato: quasi impossibile. E quella difficoltà sarebbe stata alla base del fallimento della fase O’Donnovan, che terminò nel 1941, dopo una breve stagione di attacchi irregolari a postazioni militari britanniche, a causa dell’incapacità di intavolare delle comunicazioni regolari a scopo di coordinamento con Berlino – incapacità dovuta alla tecnologia messa a disposizione dai tedeschi – e, dunque, di accordarsi su attacchi, sabotaggi e rifornimenti di armi.

I tanti volti dell’asse Berlino-Belfast

L’Abwehr avrebbe adoperato una strategia multidimensionale nel teatro nordirlandese, portando avanti una pluralità di missioni ed operazioni in simultanea e separatamente. Lungi dal limitarsi ai piani Barry e O’Donnovan, invero, la collaborazione tra l’Abwehr e l’Ira avrebbe condotto alla formulazione di una vasta gamma di corsi d’azione, tra i quali figurano e risaltano per rilevanza, obiettivi ed ambizione:

Piano Kathleen. Concepito da Liam Gaynor e Stephen Hayes nel 1940, il piano prevedeva un’invasione delle forze armate naziste dell’Irlanda del Nord avente quale obiettivo ultimo la catalizzazione del processo di unificazione con l’Irlanda. L’Ira avrebbe coadiuvato le truppe tedesche aumentando esponenzialmente il livello dell’insurgenza antibritannica, preconizzando un possibile intervento da parte della sorella maggiore, l’Irlanda, alla quale il piano era stato già esposto. I nazisti, ad ogni modo, bocciarono il piano, ritenendo amatoriale, rischioso e caratterizzato da un rapporto costi-benefici eccessivamente negativo.

Operazione Dove. Vide degli addestratori dell’Abwehr impegnati a formare uno dei più importanti combattenti dell’Ira, Sean Russell, ai primordi del 1940. È possibile che lo scopo supremo della missione, la cui fase di preparazione ebbe luogo in Germania, fosse un rovesciamento dell’ordine costituito in Irlanda del Nord. L’Abwehr, tuttavia, non avrebbe potuto assaggiare i frutti di quell’addestramento speciale al quale era stato sottoposto Russell: morì durante il trasporto nell’arcipelago, in quello che gli storici ritengono sia stato un avvelenamento orchestrato dai servizi segreti di Sua Maestà.

Operazione Seagull II. Formulata nel 1942, l’operazione prevedeva il paracadutaggio di alcuni agenti dell’Abwehr in Irlanda del Nord, che, una volta qui, avrebbero dovuto reclutare dei sabotatori nelle file dell’Ira coi quali portare avanti degli attacchi di alto livello contro obiettivi britannici in loco. Fu annullata dopo la scoperta dell’Abwehr di un traditore tra i membri della missione.

Entro il 1944, complici la ritirata della Germania nazista dall’Europa extra-continentale e la traduzione in arresto dei principali 007 dell’Abwehr di stanza tra Dublino e Belfast, la breve epopea di quest’alleanza profana sarebbe giunta al termine. E curiosamente, con la fine del sodalizio, sarebbero anche cessati gli attacchi dei sottomarini tedeschi lungo le coste occidentali della Gran Bretagna, quelle prospicienti all’isola irlandese. Sottomarini di cui alcuni testimoni avrebbero giurato di aver visto l’inabissamento tra Dublino e Belfast e che, forse, operarono nel contesto di quell’obliata amicizia che durante la Seconda guerra mondiale unì i destini di tedeschi e nordirlandesi.

Il piano di Hitler per prendersi il Sudafrica. Pietro Emanueli su Inside Over il 31 ottobre 2021. L’epopea nazista non è durata un millennio come sognava Adolf Hitler, ma quei dodici anni sono stati sufficienti a catalizzare l’entrata dell’umanità in una nuova dimensione storica: l’era della Guerra fredda, della decolonizzazione e della fine definitiva del sistema europeo degli Stati. E ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, quella nazista continua ad essere la saga storica che, più di ogni altra – anche più dello scontro egemonico tra Stati Uniti e Unione Sovietica -, stimola la fantasia di scrittori e sceneggiatori. I motivi per cui quel periodo di orrori continua a magnetizzare l’interesse dei ricercatori, in effetti, sono innumerevoli. Perché indagare genesi e origini di quello che Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo non significa addentrarsi semplicemente nei meandri plumbei e cabalistici dell’esoterismo, dell’occultismo e del misticismo – come rammentano la Società di Thule, il vissuto misterico di Rudolf Hess e la curiosa ricerca del Santo Graal -, dato che il nazismo fu anche, e soprattutto, un laboratorio di esperimenti nelle sfere della geopolitica e delle relazioni internazionali. Tra i vari esperimenti geopolitici condotti dagli strateghi del Führer, i più degni di nota sembrano essere stati dimenticati dalla storiografia, che non li ha mai approfonditi, limitandosi a scavare in fosse già lavorate e sovraffollate. E nel novero di questi esperimenti, semisconosciuti ai più, figurano l’alleanza profana tra la Svastica e la Mezzaluna islamica, l’assalto all’America Latina, l’infiltrazione delle terre turco-islamo-turaniche dell’Unione sovietica e i curiosi assi con i separatisti nordirlandesi e i nazionalisti sudafricani in chiave antibritannica.

Una storia di boeri, nazionalisti e massoni-messianisti

La logica dell’antidiluviano e sempreverde amicus meus, inimicus inimici mei avrebbe incoraggiato gli strateghi del Führer a tentare di piantare la bandiera nazista letteralmente ovunque, dal cuore della Terra mackinderiana alla dār al-Islām, non risparmiando neppure il continente africano. Qui, oltre alle campagne belliche nel settentrione, i nazisti si sarebbero resi protagonisti di una mission impossible, tanto azzardata quanto ambiziosa, colpevolmente riposta nel cassetto dei ricordi dimenticati dalla storiografia.

È il 1939, la Seconda guerra mondiale albeggia e nell’Unione sudafricana, dominion pivotale dell’impero britannico, sta accadendo qualcosa di inquietante, un fenomeno che turba i diplomatici e i servizi segreti di Sua Maestà: le tensioni tra coloni inglesi e boeri, che sembravano essere state sepolte definitivamente dalla Seconda guerra boera e dalla Prima guerra mondiale, sono riapparse e vanno diffondendosi.

I principali veicoli delle tensioni, che sono il frutto di una radicalizzazione della comunità boera in direzione di un etno-nazionalismo esclusivistico e dalle venature antibritanniche, sono due entità: il Partito nazionale purificato di Daniel François Malan ed una società segreta, la Fratellanza afrikaner, guidata da obiettivi politici – l’indipendenza da Londra – e messianici – la trasformazione della terra sudafricana in un luogo privo di peccato, votato al calvinismo e rimesso nelle mani di Dio.

Insieme, il Partito nazionale purificato e l’impermeabile Fratellanza afrikaner, avrebbero dato vita ad un’organizzazione dedita al “risveglio boero“: l’OssewaBrandwag (Sentinella del carro trainato dai buoi, Ndr). Fondata nel 1939, all’indomani del centenario della Grande marcia (Great Trek), uno degli eventi-chiave della storia dei boeri sudafricani, l’OB si sarebbe rapidamente trasformata nel più grande raggruppamento organizzato dei nazionalisti boeri e nella forza catalizzatrice del travolgente momentum anglofobico.

Comprendere origini e ragioni di quella sospettosa mobilitazione antibritannica, per gli 007 di Sua Maestà, non sarebbe stato affatto difficile: il logo dell’OB conteneva dei palesi richiami al Terzo Reich – un’aquila nera, stilizzata, nazisteggiante ed un motto di tedesca memoria “Il mio Dio, il mio Popolo” (My God, My Volk) – ed il fondatore era Johannes van Rensburg. Quest’ultimo, a Londra, era un volto tutt’altro che sconosciuto: avvocato di successo, storico lobbista di punta del nazionalismo boero, Segretario di Stato alla giustizia e, soprattutto, amico di Adolf Hitler e Hermann Göring, coi quali soleva incontrarsi con il pretesto del lavoro.

Approdare a Città del Capo per colpire Londra

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, con il progressivo posizionamento di pianeti e satelliti da una o dall’altra parte, i militanti dell’OB avrebbero cominciato a protestare duramente contro la decisione del governo sudafricano di entrare nel conflitto a fianco dell’impero britannico. Sullo sfondo delle marce, e dei tumulti, l’OB avrebbe persino avviato una campagna contro la coscrizione obbligatoria e, non meno importante, dato vita ad un’ala paramilitare: gli Stormjaers.

Dagli scontri, di cui gli storici ricordano in particolare l’insurrezione anti-coscrizione di Johannesburg del primo febbraio 1941, culminata con il ferimento di 140 militari, l’OB avrebbe gradualmente alzato il tiro della lotta, passando ai sabotaggi e agli attentati contro infrastrutture strategiche quali le centrali elettriche e le linee di comunicazione telefonica e telegrafica.

Nel 1942, all’acme della guerra asimmetrica dell’OB contro il governo sudafricano, le autorità avrebbero optato per la politica della tolleranza zero: arresti di massa, trasferimenti dei detenuti in campi di internamento ad hoc e imposizione temporanea di un regime poliziesco. Stremati dalle carcerazioni – nell’ordine delle migliaia – e privi di supporto, dato il concomitante declino dell’Asse, quei patrioti divenuti guerriglieri avrebbero ceduto, dissolvendosi completamente con la fine della guerra.

Lo 007 dell’Abwehr

L’assalto nazista al Sudafrica non sarebbe stato circoscritto alla strumentalizzazione del risentimento boero nei confronti dell’impero britannico. Sullo sfondo dell’agitamento dell’OB e dell’infiltrazione nelle società segrete, infatti, Berlino avrebbe fatto ricorso al più antico dei metodi: lo spionaggio.

Delle spie sudafricane al servizio del Terzo Reich, che non è dato sapere quante siano state, l’insospettabile Sidney Robbey Leibbrandt fu sicuramente il più celebre, colui il cui caso avrebbe suscitato uno scalpore senza eguali. Appartenente ad una famiglia di patrioti boeri, fieramente antibritannici, Leibbrandt era un personaggio pubblico ed uno sportivo di fama internazionale.

Pugile professionista, Leibbrandt aveva vinto il bronzo nella categoria dei pesi mediomassimi ai secondi Giochi dell’Impero britannico, tenutisi a Londra nel 1934, e gareggiato alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Qui, pur non vincendo alcuna medaglia – terminò la competizione in quarta posizione -, avrebbe fatto la conoscenza di Hitler e del nazismo, restandone affascinato.

Nel 1938, subito dopo essere diventato il campione sudafricano dei pesi massimi, il giovane pugile avrebbe fatto ritorno in quella Berlino che lo aveva stregato. Inizialmente interessato a proseguire la carriera sportiva – si iscrisse all’Accademia del Reich per la Ginnastica -, Leibbrandt fu avvicinato e quindi reclutato dai potenti servizi segreti esteri della Germania nazista, l’Abwehr, e convinto a diventare una spia.

Avrebbe fatto ritorno in Sudafrica soltanto nel 1941, dopo un triennio di intenso addestramento: non nelle arti pugilistiche, quanto nel pilotaggio aereo, nella guerra irregolare e nell’utilizzo di armi da fuoco ed esplosivi. Neanche i sudafricani più scettici, ad ogni modo, avrebbero potuto immaginare la ragione del rientro della promessa del pugilato. Leibbrandt, invero, non avrebbe dovuto esperire delle semplici missioni di tipo pedinamento-intercettazione: era stato scelto per partecipare all’operazione Weissdorn, il piano nazista per il rovesciamento del governo sudafricano e l’instaurazione di un regime amico.

Il golpe fallito

Nel giugno 1941, dopo aver preso contatti con van Rensburg, il pugile-spia avrebbe personalmente gestito la formazione della squadra di putschisti, reclutati nell’ala paramilitare dell’OB. Dopo un breve periodo di formazione, svolto tra le province a maggioranza boera del Transvaal e dello Stato libero dell’Orange, Leibbrandt e i golpisti – una sessantina – avrebbero inaugurato una guerra asimmetrica a base di sabotaggi e attentati contro le infrastrutture strategiche, complementando il lavoro condotto in concomitanza dall’OB, contraddistinguendosi, però, per gli obiettivi più elevati, come le linee ferroviarie, e i mezzi impiegati, cioè la dinamite.

Nel 1942, tradito dall’espansione delle violenze dell’OB per le strade del Sudafrica – a quell’apogeo avrebbe fatto seguito un rapido e tremendo declino -, Leibbrandt avrebbe accelerato il passo, tentando il salto dalla guerra irregolare al colpo di Stato. Un salto che avrebbe assunto la forma di combattimenti in aree urbane e scontri con le forze armate. Una soffiata alle autorità, nel dicembre dello stesso anno, avrebbe posto fine al sogno nazista di far sventolare la svastica a Città del Capo.

Il processo a Leibbrandt sarebbe stato tanto rapido quanto inusualmente televisivo. In soli tre mesi, data la mole di prove a carico dell’imputato, nonché il suo atteggiamento in aula – saluti e canti nazisti -, la corte avrebbe raggiunto il verdetto: condanna a morte per alto tradimento. Gli eventi, però, avrebbero assunto una piega totalmente inaspettata. Elogiato dalle folle al di fuori del tribunale, e felice di andare al patibolo per il Führer, Leibbrandt era divenuto improvvisamente un problema, una possibile fonte di ulteriore radicalizzazione dei boeri, in un momento in cui lo Stato era impegnato a reprimere l’OB.

Leibbrandt, se condannato a morte, sarebbe potuto diventare un martire. E i martiri fanno proseliti

I giudici, perciò, decisero di commutare la pena capitale in ergastolo. Dietro le sbarre, comunque, sarebbe rimasto poco, un po’ perché troppo popolare per essere rinchiuso a vita e un po’ perché pericolosamente capace di evangelizzare al credo nazista dai detenuti alle guardie. Le autorità lo avrebbero liberato nel 1948, perché amnistiato dal neonato esecutivo di un personaggio fortemente ambiguo, concausa del risveglio boero e legato a doppio filo alla Fratellanza afrikaner: Daniel François Malan.

"Memorie dell’insurrezione di Varsavia". Così Varsavia fu rasa al suolo nel 1944, l’orrore della capitale della Polonia. Eraldo Affinati su Il Riformista il 21 Ottobre 2021. A prima vista, non sembra neppure un’opera letteraria questo Memorie dell’insurrezione di Varsavia di Miron Bialoszewski (Adelphi, pp. 321, a cura di Luca Bernardini, 22 euro), anche se lo è in sommo grado. Chiunque si avvicini alle sue pagine dense e compatte, senza la tradizionale scansione in capitoli, composte in uno stile appuntistico, molto suggestivo, fra diario quotidiano e cronaca allucinata, con frasi tra parentesi e dialoghi posti uno accanto all’altro come pezzi di ricambio da utilizzare in futuro, ha piuttosto l’impressione di stringere nel pugno una pietra di lava incandescente: non c’è tempo per respirare fra una pagina e l’altra, tutto sembra franare sotto ai nostri occhi. Stiamo parlando della famosa rivolta dell’agosto 1944: una fra le più grandi e assurde tragedie della Seconda guerra mondiale. Piccolo sunto storico. La Polonia, in quell’indimenticabile estate di guerra, all’indomani del grandioso sbarco in Normandia che aveva cambiato le sorti del conflitto, pareva stretta in una micidiale morsa: a est le armate russe erano arrivate sulla Vistola e si stavano preparando a entrare nell’antica gloriosa capitale dando la spallata definitiva; a ovest gli Alleati premevano forte diretti a tutta velocità verso Berlino. La liberazione pareva imminente. I ribelli nazionalisti, prima che ciò accadesse, insorsero con l’intenzione di affermare di fronte al mondo l’identità polacca: lo fecero in funzione anticomunista. Non avrebbero voluto finire, dopo aver subìto – soprattutto gli ebrei – il terrore hitleriano, nelle grinfie di Stalin, come poi invece puntualmente accadde. Quando i sovietici se ne resero conto, lasciarono cinicamente che i tedeschi bruciassero la città. Anche le forze anglo-americane non fecero granché, tranne qualche lancio di viveri sulla metropoli assediata e distrutta, molti dei quali peraltro non andarono a buon fine. Infamie della Realpolitik. Varsavia pagò un prezzo altissimo: duecentomila vittime nella popolazione civile e quindicimila caduti fra gli insorti. Il governo polacco, in esilio a Londra, condannò l’iniziativa. Il leggendario generale Władysław Anders, che poi sarebbe stato sepolto a Cassino, insieme al corpo di spedizione polacco che aveva guidato l’assalto all’abbazia benedettina, nel dopoguerra dichiarò: «Mi inginocchio di fronte a Varsavia combattente, ma ritengo l’insurrezione stessa un crimine». Queste informazioni si ricavano dai manuali. Ma leggere il testo di Miron Bialoszewski, pubblicato per la prima volta nel 1970, è un’altra cosa. Lui aveva ventidue anni, sin dall’inizio visse la protesta da protagonista, senza prendere parte alla contesa, limitandosi – e non era poco – a cercare di salvare la pelle: «Mi ricordo che dal secondo piano del palazzo opposto alla Wache, all’angolo tra la Chlodna e la Zelazna, buttavano in strada tavoli, sedie e armadi, e la gente li prendeva immediatamente per farci una barricata. E i carri armati la travolsero all’istante». Le precisazioni toponomastiche danno vivacità e colore alla narrazione: fanno parte integrante del resoconto. L’autore, che diventerà un poeta fra i più significativi della letteratura polacca, ci trascina dentro il tumulto, in mezzo alle bombe e ai frantumi del conflitto urbano. Da una parte c’è l’armata nazista, dall’altra i partigiani: si combatte prima nei cortili, poi nelle fogne che in seguito verranno allagate. A sostenere i tedeschi, scatenati nella rappresaglia, ci sono i collaborazionisti ucraini, particolarmente crudeli: migliaia di persone vengono fucilate in poche ore: «Quelli ancora mezzi vivi li bruciavano insieme a quelli mezzi morti, per dire. Li buttavano negli stessi roghi». Bialoszewski, tanto tempo dopo, nella Polonia comunista, rievocando quei giorni terribili con frasi smozzicate e ripetute, quasi teatrali, come se dovessero essere recitate in un monologo sul palcoscenico, tese a rappresentare percussivamente la carneficina, riflette così: «Per vent’anni non sono riuscito a scriverne. Anche se lo avrei tanto voluto. E allora chiacchieravo. Dell’insurrezione. Con parecchie persone. Diverse. Tante di quelle volte. E pensavo continuamente che questa insurrezione in un qualche modo la dovevo descrivere, ma proprio descrivere. E non sapevo che questo chiacchierare per vent’anni – perché ne chiacchiero da vent’anni – perché è l’avvenimento più importante della mia vita, così conchiuso – che proprio questo chiacchierare è l’unico modo per descrivere l’insurrezione». Fra tunnel, cunicoli e canaletti di scolo, dentro ai palazzi incendiati, scansando granate e lanciarazzi, la popolazione civile cerca di sopravvivere anche con l’aiuto delle suore, le famose Sacramentine, pronte a soccorrere i feriti trascinandoli negli ospedali dirupati. Le SS, coi loro binocoli piazzati sui grandi alberi dello zoo, facevano piazza pulita usando l’artiglieria contro gli edifici occupati. Allo sguardo dello scrittore non sfugge niente: neppure le esplosioni vitali dell’umanità tumefatta ma ancora in grado di prosperare: «Mi ricordo gli insorti sdraiati fianco a fianco con le staffette o le infermiere dopo un’azione notturna, sotto le stesse coperte. C’erano donnine che si scandalizzavano, ma si limitavano a borbottare e lanciare occhiatacce. Credo che più che altro si stupissero. Che in una situazione del genere si potesse pensare a quelle cose lì. Il resto della gente era del tutto indifferente». Quando i sovietici giunsero a occupare il quartiere Praga, dall’altra parte del fiume, l’insurrezione si trasformò in una bolgia se possibile ancora più feroce. In sostanza Varsavia venne rasa al suolo, con l’intenzione di cancellarne anche la memoria, infatti, diversi anni dopo, nel momento in cui i nuovi governanti dovettero ricostruirla, chiesero agli architetti di affidarsi ai dipinti di Bernardo Bellotto che, come sappiamo, l’aveva immortalata nei suoi dipinti settecenteschi. Per questo nel centro storico della capitale polacca palpita ancora oggi un’anima italiana. Eraldo Affinati

Tonia Mastrobuoni per repubblica.it il 21 settembre 2021. La mattina dello sbarco in Normandia, Adolf Hitler dormiva. Il Fuehrer, sul finire della guerra, soffriva di un sonno sempre più disturbato. "Si addormentava tardissimo: alle quattro o alle cinque del mattino. E l'ordine tassativo era di non svegliarlo prima di mezzogiorno". Così il dittatore non fu neanche svegliato quando gli Alleati arrivarono sulle spiagge francesi e cominciarono a liberare l'Europa dall'incubo nazista. Un dettaglio curioso e fondamentale, per ogni storico che si voglia occupare del più feroce dittatore della storia. E Harald Sandner, che storico non è, ha dedicato la sua vita a sviscerare dettagli della vita di Hitler. Come quello del Fuehrer immerso nel sonno mentre la Wehrmacht subiva una delle più cruciali disfatte della guerra. Il risultato di trentacinque anni di testarde ricerche di questo "storico per hobby" è la più monumentale cronaca della vita del dittatore nazista: Hitler.The Itinerary, (Berlin Story Verlag), un tomo da 2.432 pagine con 1.494 fotografie storiche e 721 contemporanee - tre quarti totalmente inedite - ha uno scopo ben preciso: "spazzare via tutte le bugie che i tedeschi si raccontano ancora oggi su Hitler, smontare leggende e miti e ripristinare la verità sul più atroce dittatore che sia mai vissuto", ci spiega Sandner. La versione tedesca del libro è già arrivata alla settimana ristampa. Il suo editore, Wieland Giebel, ha deciso dunque di pubblicare una versione in inglese che è appena uscita: "È un libro di fatti, non una biografia", ci tiene a sottolineare. Sandner annuisce. "Ho cominciato a costruire una cronaca della vita di Hitler per capire anzitutto la mia famiglia. Tutti - mio padre, mia madre, i miei nonni - erano stati nazisti. E io volevo capire come diavolo fosse potuto accadere". Trentacinque anni fa si rese conto anzitutto che le biografie del Fuehrer e i libri di storia erano pieni di errori. Così, cominciò a ricostruire la vita del dittatore minuto per minuto, proprio per capire perché avesse esercitato un tale fascino sui tedeschi. Sandner iniziò a viaggiare ovunque fosse stato il Fuehrer e da allora ha parlato con testimoni dell'epoca, scartabellato archivi e letto tonnellate di giornali, a cominciare dall'organo nazista Voelkischer Beobachter. E ha scoperto mistificazioni e manipolazioni che resistono ad oggi. "Non è vero che Hitler odiasse Amburgo, come amano dire gli amburghesi, che continuano a crogiolarsi nel mito che la città cosmopolita e borghese fosse odiata dal rozzo Fuehrer. È  falso: è stato lì ben 72 volte. Un mito simile circondava il famoso Hotel Adlon di Berlino: anche in questo caso, non è vero che Hitler non lo amasse". Sandner ha trovato una foto che ritrae Hitler con frack e bombetta all'Adlon dopo la cosiddetta "notte dei lunghi coltelli", quando il leader nazista decapitò i vertici delle sue squadracce speciali, le SA. Hitler era anche un graditissimo ospite della dinastia dei Krupp, dormiva spesso nella loro "Villa Huegel" immersa in un gigantesco parco alle porte di Essen. La famiglia del più grande colosso dell'acciaio tedesco immortalata da Luchino Visconti nella "Caduta degli dei" si era totalmente inginocchiata al regime. Ma siccome il Fuehrer ci andava di nascosto, Sandner è stato costretto ad andare nella vecchia villa dei Krupp per consultare gli archivi personali della famiglia. "Sono stati molto generosi, ma sono dovuto andare fin lì per scoprire quanto spesso Hitler li andava a trovare; non fanno uscire nulla da lì", commenta. Sandner ha voluto fare pulizia nella storia del Fuehrer perché molti tedeschi continuano ancora a nascondersi dietro a immense bugie. "E mi preoccupa molto - aggiunge - che secondo i sondaggi il 35% dei tedeschi sia ancora antisemita. Bisogna capire da dove viene, questo orribile odio contro gli ebrei". Una delle tante leggende che viene accuratamente smontata nel libro è quella sulla presunta sopravvivenza di Hitler al suicidio nel bunker, sul mito che sarebbe ancora nascosto da qualche parte al sicuro. Il corpo fu riesumato nove volte dai sovietici e i suoi resti triturati finirono, alla fine, in un fiume. Come disse Josef Goebbels nel 1943 "passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi. O come i più grandi criminali". E che la seconda tesi si sia universalmente affermata e continui a resistere nonostante i negazionismi e le mistificazioni, è anche grazie a libri come questo.

Roberto Righetto per “Avvenire” il 19 settembre 2021. «Penso ancora adesso che una delle radici del nazismo fosse zoologica»: la frase di Primo Levi è giustamente riportata in esergo nel volume Cani, topi e scarafaggi. Metamorfosi ebraiche nella zoologia letteraria di Luca De Angelis, un'accurata indagine sul processo di disumanizzazione dell'ebreo, avvenuto in Europa già in età moderna, che ha costituito il prodromo ai campi di concentramento. Oltre a Primo Levi, molti sono gli scrittori citati, Kafka e Svevo in primo luogo, i quali intuirono il nesso fra animali ed ebraismo propagandato dall'antisemitismo. Gregor Samsa trasformato in scarafaggio nel famoso racconto La metamorfosi del 1913 è il modello del parassita che i nazisti identificarono con i prigionieri ebrei e che vollero liquidare con il famigerato Zyclon B, veleno con cui si combattevano allora gli insetti nocivi e fastidiosi come le pulci e gli scarafaggi appunto. «Le metafore zoomorfiche dell'antisemitismo - commenta De Angelis - evocano l'atmosfera di quotidiano terrore nell'universo concentrazionario», sottolineando come ad Auschwitz la parola Mensch, uomo, non esisteva e al suo posto si usasse Hund, cane. Aggiunge l'autore del saggio: «Le figure del cane e del parassita rimandano a due classici epiteti oltraggiosi e disumanizzanti in bocca agli antisemiti». Scegliendo le sembianze di un Ungenziefer, Kafka in un certo senso scelse di appuntare addosso al suo personaggio la stella gialla: tragica anteprima della Shoah. Un nomignolo, quello del parassita, attribuito agli ebrei già nell'800, in un processo di annientamento che fu prima ideologico e poi fisico. Ma gli ebrei nel clima di poco precedente al dominio del Terzo Reich furono definiti anche "popolo dei topi", tanto che gli ideologi del Fuhrer imbastirono una vera e propria campagna contro il successo in Germania di Topolino. Sull'organo della Pomerania del partito nel 1931 uscì una stroncatura del cartone disneyano in cui si poteva leggere: «Mickey Mouse è l'ideale più penoso mai esistito. Il parassita sporco e pieno di sudiciume, il maggiore portatore di batteri del regno animale non può costituire il tipo ideale di animale. Basta con la brutalizzazione giudaica della gente! Abbasso Mickey Mouse! Indossate la svastica!». I nazisti non solo si opponevano all'industria culturale americana che sviava pericolosamente le coscienze dei giovani tedeschi, ma degradavano il topo disneyano a ratto, animale a cui associavano gli ebrei. Se ne accorse Walter Benjamin, che in un articolo divenuto famoso prese le difese di Topolino. Che l'armamentario ideologico e propagandistico di cui si servì il nazismo fosse all'opera già da tempo è dunque un fatto e tra i profeti dell'incubo che si realizzò durante la seconda guerra mondiale vi furono Heine e Roth, oltre ai citati Kafka e Svevo. Tutti respirarono un clima di profonda ostilità antigiudaica. Il poeta renano già nell'800 racconta di una «metamorfosi canina» e non si liberò mai dalla «paura dell'antisemitismo», sentendosi sempre un emarginato. Così più tardi Italo Svevo, che subì di persona vari episodi di antisemitismo in quella Trieste che nel 1938 sarebbe stata scelta da Mussolini per lanciare anche in Italia le leggi razziali. Ma già ai primi del '900 sul giornale - ahimé d'impostazione cattolica - 'L'Amico' si potevano leggere inviti a rendere Judenrein la città giuliana, la cui aria era «ammorbata di microbi semiti». Il documento più impressionante riportato dal saggio di De Angelis - che in verità avrebbe potuto inserire una disamina più attenta della letteratura cristiana sulla questione da lui analizzata - è il film documentario del 1940 Der ewige Jude di Fritz Hippler, che mette sullo stesso piano gli ebrei e i ratti. Dice la voce narrante: «Come il ratto è il più infimo tra gli animali, l'ebreo lo è altrettanto tra gli esseri umani». Le immagini mostrano i tuguri in cui vivono gli ebrei, sporchi e disgustosi, e puntano il dito contro quegli ebrei che si sono voluti integrare nella società tedesca, infettandola e rendendola impura. Il disegnatore Art Spiegelman, autore del fumetto Maus, ha definito il film «l'opera più sconvolgente sull'antisemitismo». Allo stesso modo un libello del filologo Hans Friedrich Karl Gunther, negli anni Trenta, auspicava la morte di tutti gli ebrei come obiettivo finale, cui si poteva arrivare prima togliendo loro i beni, poi costringendoli ai lavori forzati in campi realizzati ad hoc. Dove? In Polonia, come sarebbe effettivamente accaduto ad Auschwitz. Uno dei punti di partenza di questa volontà di annientamento viene fatto risalire da De Angelis al Mercante di Venezia di Shakespeare. Ampio è stato il dibattito fra gli studiosi a proposito dell'antisemitismo del Bardo, ma in questo caso ci permettiamo di dissentire: il famoso discorso in cui Shylock si difende dalle accuse («Non ha occhi un ebreo?...») è un invito palese a considerare e preservare l'umanità del personaggio e, nonostante sia spesso ritratto come una figura odiosa e paragonato a un lupo feroce, questa perorazione alfine rimane impressa in maniera indelebile nel lettore e nello spettatore. Lo sfogo di Shylock riecheggerà poi nel Processo di Kafka: «Non siamo degli esseri umani? Non ci rassomigliamo tutti?». Anche questo romanzo prefigura, come bene ha rilevato il critico letterario Giacomo De Benedetti, «le persecuzioni, le condanne emanate in nome di un principio gratuito, i campi della morte». Il tutto a partire da un pregiudizio folle e insensato, come dimostra il libro di De Angelis, che si può sintetizzare in una verità profonda contenuta in un pensiero di Elie Wiesel: «Tutte le catastrofi sono iniziate dalle parole».

"L'ho ucciso io". Cosa fu quel maledetto 31 luglio. Davide Bartoccini il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. Un aereo da guerra come tanti cadde sotto i colpi del nemico a un anno dalla fine del terribile conflitto che scosse l'Europa. A bordo non c'era un uomo come gli altri, ma uno scrittore ineguagliabile: Antoine de Saint-Exupéry. "Pilot did not return and is presumed lost". Scrive sconvolta e restia una penna come tante penne, al comando di un ufficiale come tanti ufficiali. È la triste consuetudine della guerra che si compie. Ultimo giorni di luglio del 1944. In una base alleata della Corsica, nei pressi di Borgo, un attendente come tanti compila un registro di squadriglia in un giorno di guerra come troppi giorni. Sono le 14:00 passate, e anche il tempo concesso alle speranze è scaduto. Il Lockheed F-5 partito di buon mattino per una ricognizione fotografica sulle coste della Provenza non è rientrato. È un altro pilota che non fa ritorno: presunto morto o disperso, l'ennesimo. Si chiama Antoine de Saint-Exupéry. Tutti gli uomini che combattono prima di essere qualcosa sono qualcuno, e lui era uno scrittore. Si disgrega così la normalità della consuetudine ripetuta così tante volte. C’era una leggenda romantica e popolare sulla scomparsa dell’autore di Vol de nuit, di Pilote de guerre, di Le Petit Prince (Il Piccolo Principe). Si credeva fosse volato via. Scomparso silenziosamente come il suo principe dai capelli d’oro. Come fosse stato protagonista di un racconto reale, ma con una pagina strappata. Quella che avrebbe narrato di un moderno Icaro in eterno volo verso il Sole, che tramonta solo per lui più di 43 volte al giorno quando si sente triste. Purtroppo la storia ci ha svelato una di quelle verità che troppo disincantano. Antoine de Saint-Exupéry, il famoso scrittore, venne abbattuto al largo delle coste di Marsiglia. È un dato certo. Ad ammetterlo, dopo 64 lunghi anni di segreto, è stato Hors Rippert, a quel tempo pilota di caccia arruolato nella Luftwaffe, l'aeronautica tedesca. Lo disse con grande dispiacere a un gruppo di ricercatori che lo intervistarono con la scusa di essere autori di un libro sui Messerschimitt Bf-109, il caccia che lui pilotava. Quando lo capì, disse semplicemente: “Smettete di cercare la verità su Saint-Exupéry. Sono io che l’ho abbattuto”. Esordì così Rippert all’età di 88 anni. Dei 28 abbattimenti riconosciutigli alla fine della guerra, uno più di tutti pesava sulla sua coscienza. Un peso insostenibile. Quando il sommozzatore Luc Varnell, il responsabile di un'associazione di recupero di aerei caduti, Lino von Gartzen, e il giornalista Jacques Pradel trovarono il relitto (i rottami si trovano al museo di Le Bourget) e il bracciale che lo scrittore portava sempre al polso, la verità scansò l’ultimo dubbio a cui aggrapparsi. "Quando ho saputo di chi si trattava – disse il vecchio tedesco – ho a lungo sperato che non fosse lui". Horst a quel tempo aveva 24 anni, Antoine 44. Il mondo li affidò a nazioni avverse che li avevano allevati nel clima di profondi revanscismi. Il destino, spesso beffardo, li fece scontrare. Il giovane asso da caccia Rippert lo vide spuntare improvvisamente sotto di se, da una coltre di nubi spesse, mentre era in rotta verso Marsiglia. Era un Lightning P-38, a prima vista, con coccarde azzurre e rosse, e la croce di Lorena come emblema, quello della Francia Libera. Volava basso, troppo basso, il vecchio Antoine. Era a duemila metri, sorvolava la costa intento a fotografare le spiagge che l'intelligence aveva o avrebbe scelto per l'Operazione Anvil, poi rinominata Dragoon. Preparavano lo sbarco alleato nella costa meridionale della Francia concertato con quello più grande in Normandia. "Ragazzo mio, sei un po' imprudente e se non te la squagli in fretta ti impallino", aveva pensato Rippert manovrando senza fretta per metterglisi in coda con altitudine e luce del Sole a suo favore. Ma quell'aereo da ricognizione continuava a bordeggiare senza dare minimamente segno di essersi accorto che un caccia avversario stava per piombargli addosso. "Mi sono lanciato nella sua direzione e ho tirato, non verso la fusoliera ma mirando alle ali", raccontò Horst. "Colpito! Lo zinco è esploso, e lui giù, dritto nel mare. Nessuno si è gettato con il paracadute, nessuno è ricomparso tra le onde". Ma il pilota non si perdona: "L'ho saputo qualche giorno dopo che era Saint-Exupery. Ho sperato, e spero ancora che non fosse lui". Il tempo avrebbe rivelato che la sua era una speranza vana. Ecco dunque il paradosso della guerra: "Lo adoravo e gli ho sparato", si rinfacciava il pilota tedesco. Un aereo anonimo come tanti aerei, abbatte un aereo anonimo come tanti altri aerei avversari. A dividere i due uomini, un conflitto mondiale. Ad accomunarli l'amore per il cielo, la passione per il volo, i pensieri intensi che spesso si fanno di fronte ai tramonti silenziosi - quelli che si possono ammirare solo a più di cinquemila metri -, o il rullaggio delle eliche al decollo che leva i capelli al vento. "Ho sperato e continuato a sperare, assurdamente, che non fosse lui. A scuola avevamo adorato tutti i suoi libri, sognato con le sue avventure nell’emisfero Sud. Come sapeva descrivere il cielo, le paure e le emozioni dei piloti! Era leggendolo che molti di noi avevano scoperto la passione di volare. Se avessi saputo che in quella carlinga era lui, giuro, non avrei sparato. Su tutti, ma non su di lui!". Quando nei giorni seguenti dalle frequenze alleate - regolarmente captate e ascoltate nelle basi tedesche - si apprese che l'autore de Il Piccolo Principe era stato abbattuto durante una missione ricognitiva nel sud della Francia di Vichy, e risultava disperso, Rippert e i suoi compagni di squadriglia collegarono i due episodi e intuirono, non poco dolorosamente, che l'apparecchio abbattuto poteva essere proprio quello scomparso. Quello sul quale si trovava l'adorato scrittore. Dapprima subentrò la vergogna. Poi le riflessioni sul senso assurdo della guerra, la debolezza che affligge un colpevole ignaro e impossibilitato a rimediare. Questo avrebbe raccontato il giovane tedesco. Quel giorno del '44 il gruppo di giovani piloti decise insieme di mantenere il segreto. Nessuno doveva sapere che uno di loro aveva ucciso il poeta del cielo dal naso che pizzicava la Luna. Insieme a lui avevano assassinato una parte di loro stessi e di tutti quei piloti avventurosi che si erano ispirati alle sue eteree parole. Le circostanze della morte di de Saint-Exupéry rimasero un mistero che alimentò a lungo le leggende sulla sua scomparsa. La realtà sembrava aver seguito impronte indelebili del suo piccolo grande capolavoro letterario, il Piccolo Principe, pubblicato appena un anno prima. Era caduto sulle Alpi per un guasto al motore? Era morto suicida? O scomparso semplicemente tra dolci sogni e miraggi dovuti all’assenza d'ossigeno che può segnare il destino dichi vola ad alta quota,come aveva narrato lui stesso in Pilota di Guerra (pubblicato nel 1940)? Hugo Pratt, il celebre fumettista, disse di lui: "In fondo cosa voleva? Voleva sparire? Il fatto è che è sparito veramente in una forma per così dire letteraria, romantica. Meglio così, che un uomo che decide di sparire o è sparito, non sia più ritrovato; diventa un fatto leggendario e diventa un mito per le generazioni future". E così è stato. Una morte coerente per un poeta aviatore le cui spoglie mortali non vennero mai ritrovate. Proprio come accade ai personaggi di certe favole: che è volano. Come il personaggio della sua favola, che riconosceva i mali del mondo; e tentava di sopire il dolore che prova colui che ti ama e non potrà più rivederti domani, o dopodomani, o un altro giorno. Più distante nella storia. "Questa notte.. sai non venire. Sembrerà che io mi senta male… Sembrerà un po’ che io muoia. È così. Non venire a vedere. Non ne vale la pena..", disse il Piccolo Principe. Non è stato un serpente a portare via Antoine, ma è delicato pensarlo. "Non mi sembri così potente, non hai nemmeno le zampe", disse il Piccolo Principe. "Posso portarti più lontano di un bastimento" rispose il serpente. Così è stato.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti.

Chi era Albert Speer, l’architetto di Hitler. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 15 luglio 2021. Dal novero delle figure che hanno plasmato maggiormente quell’epoca orrorifica e intrisa di misticismo che fu il nazismo, spesso e volentieri, viene escluso ingiustamente Albert Speer. Uomo universale dalla personalità eclettica e poliedrica, Speer fu tutto e il contrario di tutto – ideologo, amministratore degli armamenti, sportivo e scrittore –, ma, più di ogni altra cosa, fu colui che si occupò di dare una dimensione estetica alle costruzioni edificate negli anni del Terzo Reich. Fu l’architetto di Adolf Hitler.

La gioventù. Albert Speer nasce a Mannheim il 19 marzo 1905 all’interno di una famiglia dell’alta borghesia tedesca. Allevato ai culti della salute e del corpo, lo Speer delle origini è uno sportivo versatile – praticante di sci, alpinismo e rugby – che tra un passatempo e l’altro studia matematica, dipinge con lo zio – il celebre pittore Conrad Hommel – ed è incantato dai palazzi. Fra le varie passioni, alla fine, avrebbe prevalso l’ultima: negli anni Venti comincia a studiare architettura all’università. Si iscrive all’Istituto di tecnologia di Berlino nel 1925, entrando rapidamente nelle grazie di Heinrich Tessenow, uno dei massimi esperti di architettura della Germania weimariana, che lo avrebbe nominato suo assistente due anni più tardi, quando ancora non in possesso di una laurea. È negli anni dell’università e dell’apprendistato informale presso la cattedra di Tessenow che Speer entra in contatto con la politica, un mondo prima di allora completamente ignorato. Dopo aver partecipato ad alcune manifestazioni dell’ascendente Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, evidentemente colpito dalle ricette miracolose proposte da quel demagogo persuasivo rispondente al nome di Adolf Hitler, Speer decide che è il momento di tentare la carriera nella politica. L’occasione sarebbe arrivata nel 1932, quando, oramai tesserato, viene contattato dall’ufficiale Karl Hanke per ridisegnare la sede centrale del partito a Berlino.

L'architetto di Hitler. La riprogettazione della sede berlinese del Partito nazista avrebbe fatto la fortuna di Speer. Ottenuta la fiducia di Hanke, l’architetto viene introdotto all’influente Rudolf Hess, che gli affida l’onere-onore di preparare stilisticamente il raduno di Norimberga del 1933. Conquistato anche Hess, trasformando il raduno in una “cattedrale di luce” (lichtdom), Speer viene presentato a Joseph Goebbels, il numero due del neonato governo nazista. Goebbels, investito da Hitler della titolarità del ministero della Propaganda, chiede a Speer di concepire il design di quello che dovrà essere uno degli edifici-simbolo della nuova Germania – la sede del suddetto ministero della propaganda. Soddisfatti anche i desideri di Goebbels, per Speer, l’architetto che sapeva dare forma ai sogni dei gerarchi nazisti, giunge il grande momento: l’incontro con il Führer. A partire da quel momento, ovvero dall’entrata nelle grazie di Hitler, Speer avrebbe cominciato a ricevere un numero crescente di commissioni da parte del governo, divenendo nel 1934, de jure et de facto, l’architetto capo del Partito nazista. Visionario e capace, Speer era ciò di cui Hitler abbisognava per dotare le mirabili costruzioni del nazismo di effetti psichedelici sulle masse. Perché Speer sapeva come trasformare un anonimo edificio in un’opera trasudante patriottismo e suscitante soggezione nei passanti, che dovevano sentirsi piccoli e inermi dinanzi alla magnificenza ciclopica dello stile romano-alemanno da lui pionerizzato. Quello di Speer era uno stile, romano-alemanno per l’appunto, caratterizzato da proporzioni badiali, rorido di prometeismo, trasmettente adorazione per la Dea patria e timore reverenziale per il Reich. Era uno stile orientato all’esaltazione della grandezza, in ogni suo aspetto e significato, e che anelava all’estetizzazione del gigantismo – distinto dal brutalismo insipido di stampo sovietico – e a lasciare una memoria alla posterità del passaggio nazista – la cosiddetta teoria del valore delle rovine (ruinenwert) – sulla falsariga dell’Antica Roma e dell’Antica Grecia. L’opera più maestosa, però, Speer non poté costruirla: la nuova Berlino. Hitler aveva sognato di ridisegnare ex novo l’immagine della capitale tedesca, che, nel secondo dopoguerra, sarebbe dovuta diventare la capitale del mondo. Interi quartieri avrebbero dovuto essere cancellati per fare spazio al colossale Viale degli Splendori, ad un erculeo Arco di Trionfo, ad un nuovo Reichstag e a molte altre costruzioni concepite per fare di Berlino la caput mundi.

Norimberga, Spandau e la morte. Vergine in materia di guerra, Speer viene nominato ministro agli Armamenti e alla produzione bellica nel 1942, succedendo a Fritz Todt – deceduto a causa di una misteriosa esplosione in volo sulla quale gli storici hanno a lungo speculato. Non avrebbe deluso le aspettative del Terzo Reich: poliedrico sin dall’infanzia, l’architetto si sarebbe reinventato un abile stratega. Trovò il modo di sveltire i processi produttivi ed aggirare l’ostacolo degli impianti fuori uso a causa dei bombardamenti facendo leva su azzeramento della burocrazia, monopolizzazione del processo decisionale da parte di una cerchia di capitani d’industria e ricorso al lavoro schiavile – cioè la trasformazione degli internati nei lager in lavoratori a costo zero. Sopravvissuto ai suicidi di Hitler e Goebbels e contrario all’idea di fuggire attraverso la Ratline, utilizzata da un numero imprecisato di ex colleghi per riparare in America Latina, Speer sarebbe rimasto in Germania per fronteggiare il proprio fato. Arrestato e portato al banco degli imputati di Norimberga con l’accusa di aver schiavizzato gli internati per soddisfare il fabbisogno dell’industria bellica tedesca, Speer fu condannato a vent’anni di reclusione. E li avrebbe scontati tutti, dal primo all’ultimo, venendo scarcerato nel 1966. Avrebbe trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita scrivendo libri autobiografici, di cui si ricordano Memorie del Terzo Reich e Diari segreti di Spandau, e saziando l’appetito di conoscenza di giornalisti e storici, accontentati a mezzo di interviste e comparsate televisive. Muore a causa di un ictus nella giornata del primo settembre 1981 a Londra, dov’era giunto su invito della BBC, lasciando ai posteri un’eredità sempiterna. Perché, a distanza di quasi un secolo dall’ascesa nazista e dallo scoppio della seconda guerra mondiale, sembra essersi avverata la profezia sugli “uomini Speer” del giornalista Sebastian Haffner, datata 1944. Non banalmente maligno come Adolf Eichmann e neanche ideologizzato oltre l’inverosimile come Goebbels, Speer era, secondo Haffner, “un tipo d’uomo che sta assumendo sempre più importanza in tutti i Paesi belligeranti: il tecnico puro, l’abile organizzatore, il giovane brillante […] senza altri mezzi che le proprie capacità tecniche e manageriali”. Un tecnocrate ante litteram, insomma, destinato a prevalere ovunque, al di là dell’ideologia al potere e del regime politico di turno. La storia ha dato ragione al pessimismo antropologico di Haffner, a quel suo tuonante “degli Hitler e degli Himmler ce ne sbarazzeremo, ma con gli Speer dovremo fare i conti ancora a lungo”. Perché il nostro, il Terzo Millennio, è il tempo delle tecnocrazie, del dominio scientistico e dei governi degli esperti. Il nostro è il tempo degli uomini Speer.

Da "corriere.it" il 7 luglio 2021. «Hitler? Ha fatto molte cose buone per la Germania, a cominciare dalla straordinaria ripresa economica degli anni Trenta». Che Donald Trump non si sia mai fatto problemi ad esprimere apprezzamento anche per movimenti di estrema destra apertamente antidemocratici, se non addirittura sovversivi, dai suprematisti bianchi alle marce dei neonazisti in Virginia, era cosa nota. Ma che, sia pure in privato, si sia impegnato in discussioni nelle quali ha difeso il ruolo storico di Hitler rifiutando condanne perentorie del nazismo è una novità che emerge da uno dei tanti libri in arrivo sui quattro anni alla Casa Bianca dell’ex presidente repubblicano: Frankly, We Did Win This Election (La verità è che abbiamo vinto noi le elezioni, nda) del giornalista del Wall Street Journal Michael Bender. L’autore racconta che Trump discusse di questo tre anni fa con John Kelly, allora suo capo di gabinetto, durante il viaggio in Europa per le celebrazioni del centenario della fine della Prima guerra mondiale. Anche se Bender cita una fonte anonima e se precisa che Trump, interrogato in proposito, ha negato di aver parlato di Hitler, è evidente che è stato lo stesso Kelly a raccontare di una discussione accalorata nella quale a lui, un ex generale che gli ricordava le atrocità del nazismo, il presidente replicava «ma Hitler ha tirato fuori i tedeschi dalla povertà». E si diceva in disaccordo con lo stesso Kelly che aveva concluso: «Meglio la povertà di un genocidio». Il Guardian, che ha pubblicato le anticipazioni del libro di Bender, ricorda che durante quel viaggio al di là dell’Atlantico Trump fu aspramente criticato per gli scontri con i leader europei su vari fronti, comprese diverse concezioni della democrazia, e per aver cancellato all’ultimo momento la visita a un cimitero dei caduti americani della Grande Guerra. Sono dello stesso periodo le indiscrezioni di collaboratori della Casa Bianca che hanno riferito di aver sentito Trump definire i caduti in guerra «losers and suckers» (perdenti e sfigati, nda). Anche qui Trump ha negato, ma è abbastanza chiaro dalle testimonianze che il presidente ha fatto queste affermazioni davanti a Kelly, che l’ha presa in modo molto personale visto che un suo figlio è stato ucciso nel 2010 in Afghanistan. L’ex generale se n’è andato dalla Casa Bianca sbattendo la porta nel 2019 dopo aver tentato inutilmente di spingere Trump a comportarsi in modo più responsabile e rispettoso delle istituzioni democratiche. Secondo il nuovo libro, Kelly tentò (sempre invano) di ottenere da Trump un maggior rispetto anche per la storia. Anche questo non è sorprendente: The Donald ha sempre mostrato una scarsa considerazione per la storia dello schiavismo e della segregazione seguita alla sua abolizione legale. Quanto a Hitler, il giudizio assai poco critico di Trump si poteva intuire già da alcuni suoi apprezzamenti per manifestazioni neonaziste come quella della Virginia. Lo stesso Guardian ricorda che allora la rivista tedesca Stern gli dedicò una copertina: Trump che fa il saluto fascista avvolto nella bandiera americana.

Mario Baudino per "la Stampa" l'1 luglio 2021. Le ossa di Dante Alighieri hanno avuto nei secoli, com' è noto, una storia assai travagliata. Ora però un testimone «quasi» oculare aggiunge un colpo di scena: i tedeschi in ritirata le razziarono, o credettero di razziarle, nella primavera del '44, su ordine di Himmler, però vennero beffati e si portarono a Berlino, dove volevano edificare un Pantheon con le tombe dei grandi scrittori del passato, ciò che rimaneva di un ignoto defunto. La prima parte della vicenda è ben conosciuta: allertati dai servizi segreti americani, un gruppo di resistenti (e studiosi, in testa Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce) riuscirono a celare in tempo i resti terreni del poeta. A quanto sembra c' è però ben altro. Lo racconta Sergio Roncucci sulla rivista del Pen club in edicola oggi, svelando che in effetti i tedeschi portarono in Germania quelle che ritenevano le ceneri di Dante: ma erano di un ignoto defunto, che Monsignor Mesini, sacerdote antifascista, storico di Ravenna e custode della tomba dantesca, aveva raccattato in tutta fretta al cimitero. Roncucci, che allora aveva dieci anni, sa queste cose perché nell' operazione fu coinvolto direttamente suo padre. E si chiede come mai nessuno nei abbia mai parlato. Monsignor Mesini scrisse in effetti un libro, I monumenti ravennati e la guerra, dove narrò la vicenda, ma limitandosi a dire che le ossa erano state trasferite dalla loro urna e sepolte, chiuse in una cassetta di ferro, in una buca cementata. Venne posta al di sopra un'altra cassa simile, vuota, per ingannare un eventuale predone. Questa, la versione ufficiale, che non menziona il falso Dante finito in Germania per soddisfare le brame dell'Ahnenerbe l'accademia voluta da Himmler per studiare le eredità ancestrali del popolo tedesco: dove seri professori lavoravano fianco a fianco con folli esoteristi (andarono anche in Tibet a misurare i crani della popolazione per dimostrare qualche idiozia sulla «razza ariana»). Considerata la loro ferocia, indurli in inganno non era un gioco da ragazzi. Difendere le povere ossa dantesche fu un'azione di guerra. Mandare un falso in Germania, un milite ignoto, fu una gran bella impresa. Ma un monsignore poteva mai ammettere di aver anche lui, se pure a fin di bene, frugato tra le tombe?

Così fu sventato il tentativo di Hitler di trafugare le ossa di Dante. Sergio Roncucci l'1 Luglio 2021 su Il Giornale. Nella primavera del 1944 a Ravenna, flagellata dalla Seconda guerra mondiale, soldati tedeschi delle SS trafugano le ossa di Dante Alighieri per portarle in Germania. Hitler aveva ordinato all'architetto Albert Speer di costruire un mausoleo per ospitare le spoglie di alcuni grandi scrittori. Oltre a Dante, Cervantes, Zola, Molière, Victor Hugo, Tolstoj e, possibilmente, anche Shakespeare. Il progetto che non verrà mai realizzato per la fine della guerra è delirante, ma fa parte delle paranoie del Führer. L'«operazione Dante», però, viene a conoscenza dell'Oss (Office of Strategic Services) in sostanza il sevizio di spionaggio americano durante la guerra che informa l'Ori (Organizzazione per la Resistenza Italiana), creata a Napoli da Raimondo Craveri (giovane avvocato piemontese, genero di Benedetto Croce) assieme ad altri antifascisti. Croce avvisa Manara Valgimigli, scrittore e grecista che vive a Padova, che, a sua volta, avverte monsignor Giovanni Mesini, studioso ravennate di Dante. Occorre sventare il tentativo tedesco. Con l'aiuto di un amico, il sacerdote sostituisce le ossa del poeta con quelle, anonime, prelevate da una tomba abbandonata, nel cimitero di Ravenna. Quando i tedeschi se ne accorgeranno, sarà troppo tardi: la guerra è ormai alla fine. Quale ufficiale tedesco deve occuparsi dell'«operazione Dante»? I tentativi di salvare il patrimonio monumentale di Ravenna dalla guerra coinvolgono direttamente il colonnello Alexander Langsdorff delle SS, che scrive «al competente posto militare di servizio con viva preghiera di risparmiare Ravenna per quanto possibile e per quanto lo permettano le esigenze militari». Personaggio di notevole spessore culturale (studi a Marburgo in germanistica e preistoria, archeologo di spedizioni in Medio Oriente) Langsdorff, nazista della prima ora, colonnello delle SS e per sei anni nello stato maggiore di Himmler, lavora presso l'Ahnenerbe (Società di ricerca dell'eredità ancestrale), interessata alle reliquie del passato. Dal febbraio 1944 al 30 aprile 1945, Langsdorff dirige il Kunstschutz per l'Italia, vale a dire la struttura per la protezione dell'arte (con sede a Verona), che trafuga anche capolavori rinascimentali. Della vicenda fino ad oggi non si è saputo nulla, a parte qualche cenno contenuto in un libretto di monsignor Mesini, I monumenti ravennati e la guerra, uscito nel 1956 e passato sotto silenzio. Ho quindi deciso di raccontare la vicenda del '44, come testimone diretto, a contatto con alcuni protagonisti, fra cui mio fratello Giorgio e mio padre Bruno. Sergio Roncucci

Un cadavere al servizio di Sua Maestà: così gli inglesi beffarono i nazisti. Davide Bartoccini il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Un piano astuto quanto assurdo per depistare i nazisti e convincerli che gli Alleati sarebbero sbarcati ben distanti dalle zone predefinite. Ecco cosa prevedeva l'Operazione Mincemeat. Questa storia non appartiene ad un romanzo. Non è un film. Anzi, semmai come spesso accade, è da questa storia che sono stati tratti romanzi e film, uno di questi, il più noto, si intitola "L'uomo che non è mai esistito". Perché il protagonista di questa storia, il signor William Martin, in realtà non è mai esistito. Era un fantasma, o meglio un cadavere al servizio di Sua Maestà. Ideatore del piano fu l'onorabile capitano Ewen Montagu, il quale prese ispirazione dalle folli idee di un certo Ian Fleming, a quel tempo ufficiale visionario del servizio d'intelligence della Royal Navy e poi noto per aver firmato innumerevoli romanzi di spionaggio il cui protagonista era James Bond. Il piano consisteva nel fornire di una finta identità un cadavere che sarebbe stato lasciato da un sommergibile al largo delle coste spagnole, in attesa che la corrente lo portasse a riva e che qualcuno lo scoprisse: scoprendo assieme a lui le informazioni segrete, e ovviamente false, che avrebbe portato con sé. Perché quest'uomo misterioso, il maggiore Martin, avrebbe portato dentro una valigetta nera ammanettata al polso documenti confidenziali firmati da uomini tanto importanti da essere considerati una miniera d’oro per l'Abwehr, il servizio segreto dell'Esercito tedesco. Tra i documenti da far trovare ai tedeschi, c'era una lettera del vicecapo di Stato maggiore imperiale Archibald Nye da consegnare niente di meno che al generale Harold Alexander, comandante in capo del corpo di spedizione alleato - che sarebbe poi sbarcato veramente in Sicilia. E c'era anche una missiva inviata dall’ammiraglio Louis Mountbatten, capo del Combined Operations, all’ammiraglio Cunningham, comandante in capo della Flotta alleata del Mediterraneo. L'idea, avallata dai servizi segreti britannici, era quella di far credere all’esercito nazista che gli sbarchi degli Alleati, che incombevano sul continente dopo la vittoria in Nord Africa, avrebbero interessato la Grecia e la Sardegna - la “patria della sardine”, come la definiva Lord Mountbatten nella lettera confezionata ad hoc per l’uomo mai esistito - e che la Sicilia era soltanto un diversivo per distogliere l'attenzione dagli obiettivi principali. Fu così che il cadavere del maggiore Martin venne sistemato in un "congelatore", spacciato per una sonda meteorologica, trainata dal sommergibile britannico HMS Seraph per essere abbandonato in mare al largo di Huelva, in Andalusia. A bordo del Seraph solo il comandante Norman Limbury Auchinleck Jewell e altri due ufficiali erano al corrente della missione. (Ma onore di guerra che poi sarebbe comparsa per il sempre sulla bandiera dell'unità). Il cadavere abbandonato alla deriva venne recuperato da alcuni pescatori, tra cui José Antonio Rey Maria. Portato in obitorio dalla gendarmeria spagnola, venne esaminato dai servizi segreti di Madrid che, da simpatizzanti ma non cobelligeranti con la Germania nazista, non tardarono a informare Berlino. Per rendere credibile il depistaggio, il cadavere del finto ufficiale inglese venne "decorato" con una gran numero di effetti personali falsificati ad arte, quali lettere di una fantomatica fidanzata, Pam, di un padre affezionato, e di una lettera di sollecito della Lloyds Bank. A inventarle furono i due responsabili dell'operazione, Montagu e Lord Charles Cholmondeley, eccentrico gentiluomo che si era arruolato nella Raf, ma che essendo troppo alto per pilotare aeroplani finì nel MI5, o Direzione dell'Intelligence Militare sezione 5. Gli esaminatori reclutati dall’Abwehr, tra i quali Alolf Clauss, spia nazista di stanza in Spagna, esaminarono il cadavere - ma più essenzialmente i documenti segreti che si era trascinato appresso - e reputarono autentico l'ufficiale quanto le informazioni che si era portato nella morte. Le informazioni furono trasmesse immediatamente al comando di Berlino, che in seguito avrebbe diramato ordini in tutto il settore interessato, lasciando così pochi uomini a presidio della Sicilia, che rimase difesa dal Regio Esercito e da sole due unità tedesche (il resto di una divisione panzer e una divisione di paracadutisti), per giunta mal coordinate con il comando italiano. Il resto è storia, iniziata all'ora X del 9 luglio 1943, e conclusasi con il successo degli Alleati nell'Operazione Husky. Che portò alla conquista del primo non sottovalutabile lembo di territorio nazionale appartenente ad una potenza dell'Asse in Europa. Il corpo gettato in mare dallo Shepard era in realtà quello di un giovane ragazzo gallese, tale Glyndwr Michael, morto suicida dopo aver ingerito un pesticida per topi. Con indosso la divisa di ufficiale dei Royal Marines, il suo bel cappotto Montgomery e la sua valigetta ammanettata al polso - trattato a dovere come se fosse rimasto vittima di un incidente aereo o del siluramento di una nave, non avrebbe potuto destare alcun sospetto nei tedeschi. Nemmeno dopo l'autopsia, dato che allora la morte per avvelenamento poteva essere difficilmente riscontrata. Credettero infatti che la causa della morte fosse stato l'annegamento. Il corpo del povero suicida riesumato nel Galles venne seppellito in Spagna, dove la sua tomba è ancora visitabile, non prima di aver ricevuto gli onori militari. Ed è così che la realtà alle volte risulta più straordinaria di ogni genere di finzione. Del resto, chi avrebbe mai messo un cadavere al servizio di Sua Maestà se non un genio come il papà di James Bond?

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo... 

Silvana De Mari per “La Verità” il 6 giugno 2021. La storia dell'umanità è anche storia delle sue malattie. Un'intossicazione cronica di metanfetamina è a tutti gli effetti una malattia. Il libro Tossici, di Norman Ohler, fornisce il pezzo mancante per la comprensione del fenomeno politico più demente di tutta la storia dell'umanità. Il nazismo è stato demenza. Erano tutti strafatti. Come spiega Ohlel, «il 31 ottobre 1937, gli stabilimenti Temmler registrarono all'Ufficio brevetti di Berlino la prima metilanfetamina tedesca. Nome commerciale: Pervitin. La nuova versione dei farmaci "rivitalizzanti" si diffuse in maniera capillare nella società dell'epoca. L'eccitante esplose come una bomba, dilagò come un virus e iniziò ad andare a ruba, diventando ben presto normale quanto bere una tazza di caffè». Lo prendevano «studenti e professionisti per combattere lo stress, centraliniste e infermiere per star sveglie durante il turno di notte, chi svolgeva pesanti lavori fisici per superare la fatica; e lo stesso valeva per i membri del partito e delle Ss. Nel 1939, grazie a Otto Ranke, fisiologo della Wehrmacht, il farmaco prende piede in ambito militare. Anche Mussolini - il paziente "D" - fu tenuto sotto stretta sorveglianza dai medici nazisti. Testato durante l'invasione della Polonia, viene distribuito ai soldati delle divisioni corazzate di Guderian e Rommel in procinto di attraversare le Ardenne e inventare il Blitz-krieg, quando la velocità dei mezzi e la capacità di resistenza degli uomini diventano un fattore decisivo». La base del nazismo era il culto del corpo, che doveva essere forte e sano. Aria, luce, esercizio fisico, guerra al fumo, guerra all'alcol e soprattutto guerra alle droghe. Semplicemente la metanfetamina non era considerata una droga. Nella sua travagliata vita Hitler tentò anche il suicidio. Per curare la depressione gli furono prescritte le metanfetamine, che ebbero un effetto su di lui notevole: depressione scomparsa, energia smisurata, un'aggressività altrettanto smisurata che comunque diventava magnetica e ipnotica. Entusiasmato, dette ordine che nella bisaccia di tutti i soldati tedeschi, di fianco alla polvere per i pidocchi, ci fossero le compresse pervitin. Gli effetti della metanfetamina sono portentosi: non fa sentire la fame, non fa sentire sonno, dà una energia smisurata, ma diminuisce anche la capacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni e aumenta il livello di aggressività e di crudeltà. La forza del nazismo all'inizio fu una incredibile capacità di pensare fuori dagli schemi, tipica dei geni ma anche dei tossicodipendenti, e un'incredibile capacità di restare svegli 23 ore su 24 continuando a guidare i carri armati, tipica dei consumatori di metanfetamina. Grazie a queste due capacità sommate fu possibile la guerra lampo, una guerra dopata, una vittoria all'anfetamina: i carri armati tedeschi poterono aggredire la Francia passando dal Belgio perché i carristi non dormivano. Un colpo di genio incredibile. In compenso, qui arriva il colpo di imbecillità altrettanto incredibile proprio dei tossicodipendenti: si lasciarono sfuggire gli inglesi. L'armata inglese era bloccata e accerchiata a Dunkerque. Ormai i tedeschi li avevano in pugno. Ma Göring, comandante dell' aviazione tedesca e dipendente dall' eroina, chiese al tossicodipendente Hitler l'onore di distruggere lui, con i suoi Stukas, i soldati inglesi. L'idea era idiota: i soldati inglesi ormai erano accerchiati dai carrarmati. Ma così Hitler e soprattutto Göring avrebbero avuto la possibilità di umiliare i generali di carriera, a proprio favore. Il generale tedesco Guderian ricevette l'ordine da Hitler di fermarsi. Restò a guardare col binocolo i soldati inglesi e francesi che se ne andavano trasportati da qualsiasi battello in grado di superare la manica. Gli Stukas tedeschi affondarono un migliaio di natanti britannici, ma il cattivo tempo e soprattutto la Royal air force li fermarono, e il grosso delle truppe inglesi riuscì a tornare a casa. E una volta a casa, riuscì ad ascoltare il più famoso discorso di Churchill: «We shall fight», noi ci batteremo, noi ci batteremo sulle spiagge, sulle strade, nei campi, non cederemo mai. La soluzione finale è un'idea da tossicodipendenti. Saltiamo ogni giudizio etico, dimentichiamo la compassione, tralasciamo l'orrore di bimbi uccisi dopo averli trascinati da un punto all'altro dell'Europa in treni piombati senza acqua e senza niente da mangiare. Teniamo solamente l'attenzione concentrata sulla logistica: nel momento in cui c'è una guerra in corso, un incredibile numero di risorse vengono sperperate per annientare dei non belligeranti. Se questi belligeranti fossero stati espulsi, probabilmente Hitler non avrebbe perso la guerra. Rendiamoci semplicemente conto che dietro tutto questo c'è non solo una crudeltà disumana ma anche la irragionevolezza di menti strafatte. Tutta la campagna di Russia è un'impresa da tossicodipendenti. L'assoluta crudeltà, l'assoluta imbecillità hanno anche una sfumatura chimica. Attaccare l'Unione Sovietica mentre ci sono già due fronti aperti è un'idea delirante. In Unione Sovietica fu di nuovo tentata la guerra lampo, ma l'Unione Sovietica è un pochino più grossa della Francia, e lì non è venuta così bene. L'operazione Barbarossa, il nome dell'invasione dell'Urss, per come era stata programmata avrebbe dovuto finire rapidamente, i soldati tedeschi infatti non avevano equipaggiamenti invernali. Hanno cercato di sottrarre vestiario ai civili locali e ai militari sovietici catturati, ma anche così non è stato sufficiente. Sono stati innumerevoli i soldati tedeschi che hanno avuto i piedi amputati per il congelamento, favorito dagli scarponi chiodati: i chiodi sono un ottimo conduttore termico. Innumerevoli soldati tedeschi di guardia di notte arrivavano al mattino morti assiderati. Molti di loro per resistere alla stanchezza della guardia notturna usavano metanfetamine. Le metanfetamine diminuiscono la percezione del freddo, non il freddo. Solo a due tossicodipendenti poteva venire in mente la battaglia di Stalingrado. La terrificante battaglia di Stalingrado cominciata nell'estate del 1942 e finita nell'inverno del 1943 è costata un milione di morti civili, perché Stalin non aveva evacuato la città. Ignoro se anche lui fosse sotto sostanze, ed è un dubbio che spesso mi è venuto. I sovietici attaccarono con tutte le loro forze Stalingrado, ma a Stalingrado i tedeschi riuscirono a resistere. Allora i sovietici attaccarono a nord e a sud di Stalingrado dove c'erano i rumeni, che resistettero pochissimo, e la città fu accerchiata. Un qualsiasi capo militare che non fosse completamente demente avrebbe dato l'ordine immediato di ritirata, così da evitare l'accerchiamento. Il tossicodipendente Göring convinse il tossicodipendente Hitler a lasciare la sesta armata tedesca a Stalingrado, tanto da un momento all'altro l'avrebbero certamente ripresa. Lui l'avrebbe rifornita mediante un ponte aereo. Il ponte aereo quindi impegnava aerei che non potevano essere usati per altro, per esempio per difendere i tedeschi dai bombardamenti. Moltissimi aerei furono abbattuti. La sesta armata dopo aver perso innumerevoli uomini, molti dei quali morirono di fame e di freddo, come di fame e di freddo morivano gli internati dei lager, si arrese. Nelle nostre discoteche si vende spesso metanfetamina. Tutto regolare, vero? Solo una ragazzata.

Il libro di Jonathan Lichtenstein. “L’ombra di Berlino”, i dolori del giovane Hans che fuggì da Hitler in treno. Eraldo Affinati su Il Riformista il 23 Maggio 2021. Oggi i minorenni non accompagnati, provenienti da ogni parte del pianeta, si chiamano Mohamed, Omar, Faris. Scappano dalle guerre africane o mediorientali, sfuggono alla miseria e alla fame, oppure vengono mandati apposta in Europa dalle famiglie affinché possano studiare, imparare la nostra lingua, trovare un lavoro e magari inviare a casa qualche soldo. Nella loro strenua volontà di sopravvivenza, incarnano un principio d’umanità universale: sono onde che battono sugli scogli. Vanno e vengono. Gli spruzzi provocati da questi ragazzi si disperdono nell’aria che respiriamo, alla maniera di un sottile pulviscolo. Anche se non ce ne rendiamo conto, ci appartengono. Un tempo erano come Hans, protagonista di L’ombra di Berlino. Vivere con i fantasmi del Kindertransport di Jonathan Lichtenstein (Mondadori, pp. 286, 20 euro): uno dei circa diecimila bambini ebrei che, durante il nazismo, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, furono portati in salvo dalle organizzazioni umanitarie, quasi sempre in Gran Bretagna, mediante convogli speciali. Il figlio, Jonathan, sorta di Enea contemporaneo, che si prende sulle spalle il suo Anchise, racconta in questo testo, fra i più incisivi esempi della letteratura prodotta dalle cosiddette “seconde generazioni”, le quali non vissero la Shoah ma ne patiscono ancora oggi le conseguenze, il viaggio di ritorno che egli intraprese insieme all’anziano padre dal Galles, terra elettiva, alla capitale del vecchio Reich, per ripercorrere le tracce di quel trauma lontano, prima della morte del genitore. Hans aveva dodici anni quando la madre disperata decise di affidarlo al treno della salvezza – interi vagoni di bambini singhiozzanti che, se fossero rimasti in Germania, sarebbero finiti nei campi di concentramento – pur sapendo che avrebbe potuto non rivederlo mai più. In realtà i due ebbero modo di ritrovarsi, tanti anni dopo, nella Ddr. La sorella maggiore, Toni, era riuscita a fuggire da sola in Palestina, allora protettorato inglese: nel momento in cui la nave, arrivata al largo di Giaffa, ebbe dei problemi per attraccare, non esitò a lanciarsi dal ponte nel tentativo di raggiungere la costa a nuoto. Il padre, il nonno e lo zio invece si erano suicidati. Una tragica catena. Ferite come queste non si rimarginano. Infatti il tema-fondamento del libro s’identifica sì nella storia del padre, pronto a rifarsi una nuova vita in Inghilterra, medico apprezzato e militare in Malesya dove conobbe la moglie, ma si espande poi con potenza terrificante in quella del figlio, incapace di accettare e comprendere gli imbarazzati silenzi e la muta rabbia di chi lo aveva fatto nascere. Se adottiamo questa chiave di lettura, le scene più strazianti della narrazione, prima ancora che le visite nei luoghi tedeschi, dai cimiteri, musei e memoriali berlinesi fino al lager di Sachsenhausen, dal negozio familiare preso d’assalto nella famigerata Notte dei Cristalli, in via di ristrutturazione, alla non distante casa d’infanzia ancora presente vicino al Tiergarten, appartengono alla giovinezza di Jonathan. I suoi ricordi entrano dentro il diario di viaggio in automobile (da Harwich a Hoek van Holland in traghetto, poi tutta autostrada) come schegge incandescenti, pronte a segnare una sofferta educazione sentimentale: l’infanzia trascorsa nel silenzio e nell’introversione affrontando la più completa rimozione del passato, basti pensare alla cancellazione della lingua tedesca che non si parlò mai in famiglia. E poi le zuffe fra ragazzi coi bulli pronti ad attaccare il futuro scrittore perché ebreo, senza che lui ne capisse la ragione. Ancora non sapeva cosa aveva alle spalle. Sentiva soltanto il peso della storia: un coacervo di emozioni trattenute, violenze inenarrabili, atroci solitudini. Cosa devo fare per superare questo dolore innominabile? Come posso contrappormi al male? Nessuno te lo dirà: men che meno tuo padre. Dovrai scoprirlo da solo. A mani nude. Una volta Hans, volendo punire Jonathan per una spinta che, nella cecità adolescenziale, lui aveva dato a una sua amica seduta sul bordo della piscina, si era infuriato a tal punto da gettarlo in acqua col rischio di farlo annegare. Crescere così non è facile, soprattutto nella giovinezza, quando stai cercando di diventare adulto. Il compito da svolgere può risultare proibitivo; bisogna riconquistare il proprio padre uccidendo i fantasmi che lo assediano: «A un certo punto, riuscii a trovare lavoro al Traliccio 83 della piattaforma petrolifera Ninian South, nel Mare del Nord… Una volta, si levò una burrasca e mi fu ordinato di arrampicarmi sulle tre rampe di scale che portavano alla piccola piattaforma della torre… Al pensiero delle foto appese alle pareti dello studio di mio padre, però, che lo ritraevano ufficiale medico dello Special Air Service, pronto a lanciarsi con il paracadute nella giungla, e sentendo la sua voce che mi incoraggiava a provarci, decisi di salire, anche se la minima scivolata avrebbe significato morte sicura…». Non a caso il fratello Simon scomparirà nel corso di un arrischiato volo in elicottero nei dintorni di Nizza, anche lui impegnato nell’invisibile confronto col padre sopravvissuto. Come se Hans avesse depositato nei figli il desiderio di mettersi in gioco per vincere la morte, dentro e fuori se stesso, che i nazisti gli avevano inoculato. Gli eventi tragici producono contraccolpi a lunga gittata: è il motore del mondo. Raccogli il testimone che hai ricevuto e lo consegni a chi viene dopo. Alla fine del viaggio Jonathan, nato nel 1957 a Kuala Lumpur, drammaturgo pluripremiato e conosciuto, ne converrà proclamando con fierezza in quest’opera che si era tenuto dentro fino adesso come un groppo in gola: «La mia evidente fragilità lo terrorizzava tanto quanto terrorizzava me. Voleva che io fossi preparato ad affrontare non quel che sarebbe potuto succedere, bensì quel che prima o poi sarebbe sicuramente successo. Mi rendo conto di quale immenso privilegio sia essere suo figlio». Eraldo Affinati

L'incredibile storia di amicizia tra due piloti nemici. Davide Bartoccini il 20 Maggio 2021 su Il Giornale. Nei cieli della Norvegia, durante la Seconda guerra mondiale, due giovani piloti ingaggiano un duello, abbattendosi a vicenda. Si troveranno costretti a vivere insieme per superare l'inverno, dando vita a una vicenda straordinaria. Due anziani signori, eleganti e imbiancati dal tempo, si stringono la mano in un museo di aeroplani. Sono trascorsi trent’anni precisi dalla prima volta. Erano in Norvegia, c'era la guerra, tanta neve, e loro erano entrambi piloti, piloti di guerra. Sembra quasi un déjà-vu. È l'aprile del 1940, quando la Blitzkrieg - la guerra lampo che ha permesso alla Germania nazista di occupare rapidamente la Polonia - irrompe nella penisola Scandinava con l’obiettivo d’impossessarsi delle riserve di minerali, in particolare modo ferro, che in Norvegia abbondano. La "Strana guerra", quella che gli inglesi hanno combattuto fino a qual momento sparando pochi colpi, inizia a prendere una piega differente. Nel tentativo di preservare le risorse norvegesi e scoraggiare Adolph Hitler a proseguire la sua conquista indiscriminata dell’Europa, Londra invia le sue portaerei nei gelidi mari del Nord, per condurre missioni di bombardamento su Narvik e intercettare gli incrociatori della Kriegsmarine alla fonda. Dai ponti della HMS Ark Royal e della HMS Furious, decollano le formazioni di bombardieri imbarcati, i Blackburn Skua, lenti e mal armati bombardieri in picchiata del Fleet Air Arm, la nuova aviazione della Royal Navy.

Un duello inconsueto. Della dozzina che ne verranno abbattuti, uno, decollato il 27 aprile dalla Ark Royal, è pilotato dal capitano dei Royal Marines Richard Partridge. A bordo con lui, nel sedile posteriore, siede l’armiere, il tenente Robin Bostock. Fa parte di una formazione di tre apparecchi che fungono da scorta per un convoglio di navi quando scorgono tra le nuvole un solitario Heinkel He-111, un bombardiere medio della Luftwaffe tedesca. Era decollato da una base della Danimarca occidentale, parte di formazione più ampia invita a bombardare l’incrociatore britannico HMS Flamingo. Ai suoi comandi c’è il sottotenente Horst Schopis. Lo Skua ingaggia l’Heinkel che si è perso, il duello tra i due bombardieri corre per qualche decina di chilometri nell’entroterra, tra le vette innevate e le distese deserte, abitate solo da renne e lepri artiche. Partridge bersaglia il bombardiere tedesco con le sue mitragliatrici alari centrando più volte il sinistro, costringendo Horst a un atterraggio di fortuna nei pressi del lago Heilstugu. Mentre lo Skua è sulla coda del Heinkel però, uno dei mitraglieri mette a segno un colpo fortunato, che centra proprio il tubo dell’olio del bombardiere inglese. Il motore si ferma di botto: anche lo Skua è costretto ad un atterraggio d’emergenza. Partridge individua quella che sembra essere una spianata e ci plana sopra. Si rivelerà essere il lago ghiacciato di Breidal, completamente ricoperto dalla neve. Entrambi gli atterraggi d’emergenza vanno a buon fine. Schopis e il suo copilota, Karlheinz Strunk, escono illesi della bimotore sprofondato nella neve fresca. L’aviere Josef Auchtor, uno dei due mitraglieri, è rimasto ferito ad un braccio. Non c’è più nulla da fare invece per Hans Hauck, l’altro mitragliere che è rimasto ucciso da una raffica durante l’azione. La neve è alta due metri e i tedeschi decidono di mettersi subito in marcia per raggiungere il primo riparo che sperano di trovare in direzione della costa. A poco più di un miglio di distanza sta accadendo lo stesso. I due aviatori inglesi sono sopravvissuti all’atterraggio; e poiché sono probabilmente caduti in territorio nemico, soli e armati soltanto di una rivoltella, si catapultano fuori dall’abitacolo. Sparano uno dei razzi di segnalazione sul serbatoio - per rendere inservibile l’aereo che potrebbe cadere in mano nemica - e si dirigono verso quello che sembrerebbe essere un rifugio di caccia. Ci sono punti in cui la neve raggiunge addirittura i cinque metri, ma i due inglesi, sebbene a fatica, riescono a raggiungere il rifugio prima di sera e si sistemano. Poco dopo però, la porta si spalanca. E non si tratta di cacciatori norvegesi. Sono i tre aviatori avversarsi, che come loro vogliono sfuggire alla morte per ipotermia nelle desolate lande norvegesi. Il pilota inglese, con modi da gentleman, mette da parte ogni sorta di bellicismo e porge la mano all'ufficiale tedesco, un segno di pace. Schopis, inizialmente restio, gli concede la stretta. "In quell’istante – racconterà poi Horst - non avevo nessuna la voglia di dargli la mano".

Quasi "amici". Dopo le dovute presentazioni, i due ufficiali in comando cercano di comunicare tra loro: qualche parola di inglese, un po' di tedesco, molti gesti. Gli equipaggi avversari si confrontano sull'accaduto. I tedeschi credono di esser stati abbattuti da tre temibili caccia Spitfire, non da un singolo e poco agguerrito Skua. Il pilota inglese invece, che conosce la verità, si inventa una storia diversa per non rischiare ritorsioni: lui e il suo armiere facevano parte dell'equipaggio di un bombardiere, un Wellington caduto quella stessa mattina, nelle vicinanze di Narvik. Si sono lanciati con il paracadute e si sono ritrovati lì, come loro. Nessuno sa dove si trovino di preciso, se nella Norvegia occupata dai tedeschi, o se in quella prossima alla costa dove sono sbarcati i commando inglesi. Sono dispersi, e tutti potenzialmente prigionieri, di una parte o dell’altra. La decisione è quella di stabilire una tregua per fronteggiare insieme due minacce che alle lunghe possono rivelarsi letali come i proiettili: il freddo e la fame. L'aviere ferito viene medicato e il rifugio perquisito. In una credenza vengono scoperti del caffè e dei biscotti - che vengono razionati per cinque. E dopo una certa diffidenza reciproca, i nemici passano la notte insieme, quasi fossero “camerati". Il giorno seguente, i tedeschi escono per una ricognizione, e tornano con un regalo da condividere con gli altri ospiti del rifugio: sigarette e biscotti trovati in un albergo abbandonato nelle vicinanze. Quel gesto sancisce l’amicizia tra i due equipaggi. I due ufficiali studiano insieme le mappe per cercare di capire dove sono caduti e ipotizzare una via di fuga congiunta dalle montagne - sebbene gli inglesi abbiano un piano differente. Partridge, che ispezionando a sua volta l’albergo abbandonato aveva trovato degli sci, intende abbandonare i piloti tedeschi insieme a Bostock, mentre gli avversari dormono. Il rumore, tuttavia, lo tradisce, obbligando il gruppo ad uscire tutti insieme per una ulteriore ispezione del territorio. Durante l’escursione verranno sorpresi da una pattuglia di scout norvegesi di passaggio (alleati degli inglesi) e si verificherà un tragico incidente. Dal fucile di uno degli scout, parte un colpo che uccide accidentalmente Strunk. Horst è sconvolto, ma non c’è nulla da fare.

Le strade si dividono. Poiché la Norvegia era alleata della Gran Bretagna, i due aviatori inglesi vengono immediatamente scortati fino Andalnes, per poi essere evacuati in Inghilterra a bordo della HMS Manchester. Torneranno entrambi in servizio attivo presso il gruppo aereo imbarcato sulla Ark Royal. Continuando a volare in coppia sugli Skua, prendendo parte altre missioni fino a quando, il 13 giugno, durante un attacco portato contro l’incrociatore tedesco Scharnhorst, verranno pesantemente bersagliati dalla contraerea. Bostock rimane ucciso. Partridge gravemente ferito, ma sopravvivrà a quell'azione e alla guerra. Horst Schopis e l'aviere superstite vengono fatti prigionieri. Costretti in un granaio nei pressi di Stryn prima di essere internati in un campo di prigionia in Scozia, finiranno in un altro campo in Canada. Horst verrà liberato solo nel 1946. Il bombardiere tedesco verrà rimosso, mentre lo Skua - nome preso in prestito da una razza uccelli marini predatori - rimarrà sul lago ghiacciato per settimane fino a quando il calore non scioglierà l'acqua lasciandolo scivolare sul fondo. A 24 metri di profondità. Rimarrà lì per oltre trent'anni, finché una spedizione della Royal Navy non deciderà di recuperarlo dopo la segnalazione dei un gruppo di sub locali.

Di nuovo insieme. Lo Skua ritrovato troverà posto nel museo del Fleet Air Arm in Inghilterra. Ed è proprio lì, che i due piloti avversari si rincontrarono stringendosi di nuovo la mano. Era il 1977. Quando il gruppo noto come Operation Skua decise di organizzare un randez-vous in Norvegia per visitare i luoghi di questi straordinari avvenimenti, Richard Partridge era ormai morto. Horst Schopis aveva 92 anni. E decise di suo compleanno in compagnia del figlio di Richard, Simon Partridge, e dei tutti coloro che avevano partecipato al recupero del relitto e alle ricerche. Insieme a loro, erano anche diversi piloti di Skua che come Partridge erano sopravvissuti al conflitto. Gli vennero regalate le fotografie del foro di proiettile che aveva centrato precisamente il tubo dell’olio del suo avversario, facendolo precipitare. E il pilota tedesco rivelò a tutto come si fosse sempre domandato "come avessero fatto a mandarlo giù". Il gruppo visitò anche il casino di caccia. Vennero messe delle sedie in cerchio, e ancora una volta servito caffè caldo e biscotti. Come nei giorni dell'amicizia tra i piloti avversari. Fu allora che Horst, confidò nel pieno della commozione al figlio di Partridge che era stato suo padre ad avergli in qualche modo reso salva la vita abbattendolo quel giorno d'aprile del 1940. Tutti gli equipaggi della vecchia squadriglia di Horst avevano trovato la morte tra la Battaglia d’Inghilterra e il fronte russo. Lui era uno dei pochissimi piloti superstiti.

Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2021. Leni Riefenstahl, passata alla storia come la regista di Hitler (definizione assai riduttiva) somiglia a una sorta di Schwarzenegger-Terminator, indistruttibile. E ora torna, in una biografia romanzata, introspettiva, spietata e surreale, ma anche molto rigorosa nelle citazioni storiche. Quest' ora sommersa (Feltrinelli editore, pag.224, euro 16,50), di Emiliano Poddi, racconta la vita di Leni attraverso la ricostruzione capillare messa a punto da Martha Krems, un'immaginaria giovane biologa marina che la segue come un'ombra durante la sua ultima immersione alle Maldive per fotografare il mondo sommerso, avvenuta all' incredibile età di cento anni, nel 2002. Martha la segue vigile tra i coralli e le mante, è ossessionata da Leni, creatura insondabile e misteriosa, in un'attrazione di amore e odio recondito legato alle vicissitudini subìte dalla sua famiglia, quando Leni era la regista più potente del Terzo Reich. Vuole restituircela nella complessità delle sue cinque vite, danzatrice, attrice, fotografa, regista, sommozzatrice. Sì, Melena Bertha Amalie Riefenstahl, che dovette abbandonare la danza per una lesione al menisco, divenendo attrice, e poi anche più brava dietro la macchina da presa, sovvenzionata dal Ministero per la cultura e la propaganda nazista, con il film sul Congresso di Norimberga, Il trionfo della volontà (1933) e poi con Olympia, documentario sulle Olimpiadi di Berlino del '36, vinse la Coppa Mussolini alla Mostra del Cinema di Venezia nel '38, ex aequo con "Luciano Serra pilota" di Goffredo Alessandrini. Arrestata dagli alleati, nel '45, fu infine assolta da ogni tribunale: le riconobbero la totale dedizione al cinema, più che al nazismo (non si iscrisse mai al partito nazionalsocialista), anzi all' estetica, una passione totale per l'immagine, indifferente a tutto ciò che, dietro la facciata, esiste in ogni creatura. E lei se ne andò in Africa a fotografare i nubiani. Svariati, nel libro, i commenti dei contemporanei che ricostruiscono la sua vita: «Se quella puttana si presenta un'altra volta sul mio set, giuro su Dio che abbandono il film», diceva la rivale Marlene Dietrich nel 1929. «Quando saremo al potere, lei realizzerà i miei film», anticipava Adolf Hitler nel 1932. «Lo ammetta, lei è innamorata di Hitler», sosteneva nello stesso anno Jospeh Goebbels, che la odiava e la desiderava in con temporanea. E ribadiva: «Lei deve diventare la mia amante. Ne ho bisogno...La mia vita senza di lei è un inferno». Raccontava un giornalista, Lucien Lemas nel 1934: «A momenti sembrava che il Furher guardasse verso di lei per sapere che cosa doveva fare, Madame Riefenstahl è l'unica persona in Germania che possa vantarsi di dargli ordini». E nel 1941 Rosa Winter, poi deportata a Maxglan, diceva: «Eravamo tutti nel campo. Lei arrivò con la polizia e scelse delle persone. Io ero lì con molti altri bambini e noi eravamo esattamente quello che cercava», cioè comparse per i suoi film, poi eliminate. Nel 1945, un morboso medico americano le chiedeva, da prigioniera: «Signora Riefenstahl, non è un delitto essere andata a letto con Hitler. Vogliamo solo sapere se era sessualmente normale o impotente, come si presentavano i suoi genitali e così via». E in chiusura, nel 2002, il giornalista Gerard Lefort scriveva: «Una volta di più, oggi come ieri, Leni Riefenstahl danza con gli squali». Infatti la regista è sopravvissuta a un numero incredibile di incidenti. Per citarne alcuni: le scoppiò in faccia una torcia al magnesio, ma, nonostante ustioni di terzo grado, continuò a filmare sino alla fine del ciak. Rischiò il congelamento in gioventù sul set di La tragedia di Pizzo Palù. A trentun anni, la nave con la quale tentava di raggiungere la Groenlandia rimase intrappolata fra i ghiacci, saltando da una lastra all' altra riuscì a raggiungere la terraferma, e, poche settimane dopo, sempre in Groenlandia, si tuffò nelle acque gelide dell'Oceano per salvarsi da un idrovolante in fiamme. Seguirono svariati collassi da stress sul set di Il trionfo della volontà. A cinquantaquattro anni, nel corso del suo primo viaggio in Africa, precipitò in un burrone: schiacciamento di un polmone e rottura di varie costole, all' ospedale di Nairobi venne data per spacciata, si salvò. E poi la malaria contratta in Sudan. A settantatré anni si salvò da uno spaventoso uragano in Honduras, a settantasette si ruppe un femore sciando a St Moritz.A novantotto l'elicottero a bordo del quale si trovava in Sudan fu colpito da un cecchino, precipitò e lei fu di nuovo data per spacciata: invece si risvegliò, e visto che la scena non era stata ripresa, chiede se fosse possibile rifarla. Terminator, fatti più in là, Leni è invincibile. E la sua storia irresistibile.

Adolf Hitler, il documentario sulla sessualità del Fuhrer: "Perverso sadomasochista", tutti i suoi sconvolgenti vizi a letto. Libero Quotidiano l'08 maggio 2021. Adolf Hitler amava le donne che gli facevano la pipì addosso durante il sesso e aveva una relazione incestuosa con la nipote. Lo rivela il documentario Hitler's Secret Sex Life andato in onda su Sky History. Il Fuhrer, racconta il documentario, amava anche essere preso a calci e partecipare a rapporti sadomaso. "Ha interiorizzato tutto ciò che non gli piaceva nella sua vita, come le perdite, e ha proiettato la sua rabbia su tutti. Una personalità come la sua è coerente con queste pratiche sessuali", ha detto Robert Kaplan, storico australiano e psichiatra forense. Secondo le testimonianze, Hitler aveva avuto, per sei anni, una relazione incestuosa con la nipote, Geli Raubal. La ragazza fu poi ritrovata morta nell'appartamento di Hitler nel 1931, a 23 anni, alimentando i sospetti che a ucciderla fosse stato lui. Secondo l'ex alleato di Hitler, Otto Strasser, Geli era stata costretta a prendere parte ai giochi sessuali del Führer. Sembra che anche Renata Müller, una delle attrici di maggior successo dell'epoca, morta misteriosamente a 31 anni, abbia consumato atti sadomaso con Hitler: a detta del regista Alfred Ziesler, la donna fu obbligata a prendere a calci Hitler che, steso sul pavimento, le chiedeva di riceverne ancora. Hitler, scrive il Dialy Star, sostenne sempre di astenersi dal sesso e di essere contrario alla prostituzione. Eppure, racconta il documentario, invitava le prostitute a mettere in scena spettacoli privati nel suo rifugio di montagna e aveva una dipendenza dalla pornografia. E il suo medico personale lo riforniva di anfetamine e sperma di toro per aumentarne la libido.

Da Hitler alla Guerra fredda Il Novecento in un romanzo. Il libro-fiume di Kraus racconta la continuità tra SS e servizi segreti occidentali. E molto altro...Alessandro Gnocchi - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale. Ci sta tutto il Novecento in un romanzo solo? Forse no ma lo scrittore tedesco Chris Kraus ci va molto vicino con Figli della furia (SEM). Nello scaffale, dopo averlo letto, e se lo iniziate arriverete senz'altro alla fine nonostante la mole imponente, potete riporlo accanto a un altro libro formidabile, Le benevole (Einaudi) di Jonathan Littell. Siamo in un ospedale. È il 1974. Un uomo con un proiettile in testa racconta la sua storia a un sempre più sbalordito e impaurito hippie con due viti in testa e un canale di spurgo per i liquidi cerebrali in eccesso. Beh, in effetti, l'hippie qualche motivo di inquietudine ce l'ha. L'uomo col proiettile in testa è un ex nazista, una ex SS di alto livello. Ed ecco la sua biografia per sommi capi. Nella periferica Riga, capitale della Lettonia, il nazismo si diffonde a macchia d'olio nella importante comunità tedesca. C'è bisogno di orgoglio germanico per fronteggiare la minaccia incombente del comunismo sovietico. I fratelli Solm aderiscono al movimento come una sorella. Piccolo dettaglio: Ev è ebrea, anche se lei stessa non ne è inizialmente consapevole. Hub e Koja fanno carriera ma a sorpresa è la stella del secondo, abile manipolatore, a brillare fino all'impatto con quel proiettile in testa che lo ha portato in ospedale a terrorizzare un hippie con le sue vicende personali. Basato su fatti reali, e pieno di personaggi storici, Figli della furia segue la parabola di Koja. La sua carriera non subisce significative battute d'arresto: esordio nelle SS, sezione spionaggio; arruolamento nel NKSVD (il papà del KGB); agente doppio al servizio di Mosca e di Bonn nel dopoguerra; agente triplo al servizio di Mosca, Bonn, Tel Aviv; agente quadruplo al servizio di Mosca, Bonn, Tel Aviv e Washington. Koja ha informazioni, capacità organizzative, intuito. Sa come distribuire le sue capacità a vantaggio di tutti. In quel mondo sottratto alla vista dei cittadini, chiunque può essere un traditore e un assassino. Dietro a ogni amicizia si nasconde un vantaggio e «un atto sessuale senza secondi fini era spreco puro e semplice». Mentre Koja si fa largo nel mondo, a modo suo, senza apparire, facciamo conoscenza di Reinhard Heydrich, Heinrich Himmler, Klaus Barbie, Adolf Eichmann, Shimon Peres, J.R.R. Tolkien, Konrad Adenauer e molti altri, tra i quali spicca Reinhard Gehlen, il generale della Wehrmacht, capo dei servizi segreti sul fronte orientale durante l'Operazione Barbarossa. È Gehlen a portare i camerati delle SS nel nuovo sistema democratico: di fatto i nazisti sono reclutati dall'intelligence occidentale (e sovietica in misura minore ma significativa). A un livello sotterraneo, ma non per questo meno scandaloso, c'è continuità tra totalitarismo nazista e democrazia. Già questo lascia intendere la quantità di dilemmi morali posti da Kraus. Il più grave: in questo mondo solidale, almeno a parole, qualcuno deve assumersi la responsabilità di essere «fascista» o «comunista». Gli illiberali di un tempo sono il fondamento della attuale libertà. Se possiamo crogiolarci nei buoni sentimenti è solo perché qualcuno è disposto a compiere cattive azioni. Possiamo fare finta di ignorare la verità per sentirci persone migliori. In questa società commovente, nessuno vuole interpretare il cattivo, è una parte difficile. Sintesi di Koja: «Tutte le famiglie collasserebbero se al loro interno non ci fossero delle bugie. E lo stesso vale per gli Stati. Non c'è mondo senza bugie, tanto meno un mondo dove le bugie vengono approvate». D'altro canto che differenza c'è tra noi e le società asservite al fascismo, se gli uomini che garantiscono la stabilità della nostra sono un mucchio di ex nazisti? Grazie a una abbondante documentazione, raccolta in dieci anni di studi in Europa, in Sud America e negli Stati Uniti, Kraus mostra quanto i servizi segreti della Germania Ovest abbiano impiegato ex nazisti in modo sistematico. Il segno della continuità è la villa di Martin Bormann, il braccio destro di Adolf Hitler, abitazione nel Dopoguerra di Gehlen e sede della vera intelligence della democratica Repubblica Federale, l'Organizzazione Gehlen, agenzia di spionaggio composta interamente da ex camerati. Il secondo tema, intrecciato al primo, è quello del consenso ai regimi antidemocratici. Si può essere volenterosi carnefici come Hub ma anche scivolare nell'orrore un po' alla volta, senza alcuna convinzione, come Koja. È incredibile come l'animo di un uomo possa essere scisso. Koja capisce l'orrore ma non si ferma, cerca soltanto di non essere coinvolto nelle mansioni più crudeli, nella deportazione e nelle esecuzioni di massa. Non può funzionare. Infatti si trova in un bosco a dare il colpo di grazia ai feriti rantolanti in una fossa dopo una fucilazione senza processo. Ma la coscienza si può mettere a tacere, ad esempio illudendosi di esercitare un male necessario per salvare la vita delle persone amate, i genitori, la sorella Ev ma anche la spia sovietica Maja. Si può anche cercare di minimizzare, e sentirsi, a posteriori, «travolti dalle enormi questioni della nostra epoca, dalla grandezza del presente, dalla vicinanza della guerra». Tutti motivi per cui «non possiamo in tutta onestà rimproverarci di essere stati nazisti». Si può anche credere, credenza recepita dalle leggi, di aver obbedito agli ordini, senza avere la possibilità di ribellarsi. I problemi sollevati dal romanzo sono moltissimi. Non possiamo elencarli tutti, dunque andiamo a quello più scabroso. Figli della furia è anche un libro dissacrante, e strappa sorrisi, che spesso diventano risate, con l'umorismo cinico di Koja. I servizi non hanno niente di mitico: tutte le operazioni che non prevedono violenza fisica sul nemico si risolvono in comici disastri. Ecco, il lettore, mentre ride, prova disagio. In fondo è stare al gioco di Koja. Uno che racconta all'hippie vicino di letto di aver spedito a Dachau il suo vecchio insegnante di matematica, sospettato di simpatie socialdemocratiche, perché gli aveva fatto ripetere la quarta superiore. E dunque ecco Himmler, «il primo hippie che ho incontrato», fermare l'automobile per far passare ventimila rospi in migrazione. Ecco sedi SS dove i pappagalli sanno dire «Heil Hitler» e «Sieg Heil» ma anche, a sorpresa, «Hitler Kaputt». Ecco piani insensati tipo far attaccare Tokyo da pipistrelli incendiari, come se la capitale del Giappone fosse fatta di carta, agenti sovietici scagliati dagli aerei senza paracadute, perché tanto la zona è paludosa e trenta metri di tuffo cosa vuoi che siano (tutti morti), intere squadre naziste paracadutate nelle foreste degli Urali e lì falciate dal gelo e dagli orsi, progetti deliranti per uccidere Stalin e vincere una guerra ormai persa. Ecco l'ufficiale del NKVD sovietico discettare di arte con il prigioniero Koja e, giunti al comune odio per i Suprematisti, tirar fuori «un grosso album fotografico con tutti i Suprematisti che aveva personalmente interrogato e torturato». L'amore, in questa latrina piena di moribondi, sembrerebbe l'unica cosa pulita. Ma Koja arriva alla conclusione che nemmeno in amore è possibile fare «la conoscenza del paese della verità». Viviamo dunque nella menzogna e nell'autoinganno. Oppure un intelligente ex SS, esperto manipolatore, vuole farci credere che sia così, per salvare la sua coscienza e macchiare la nostra.

In gita con Himmler animalista e insieme bestiale. Tre giorni dopo incontrai davvero il signor Himmler. Era in una Mercedes coupé aperta, parcheggiata a sud del Ritterhaus, e ammirava il panorama cittadino medievale immerso in una nuvola di SS dalle uniformi impeccabili. Dichris Kraus - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale.  Tre giorni dopo incontrai davvero il signor Himmler. Era in una Mercedes coupé aperta, parcheggiata a sud del Ritterhaus, e ammirava il panorama cittadino medievale immerso in una nuvola di SS dalle uniformi impeccabili.

C'era anche Stahlecker. E mio fratello.

Quando Hub mi vide arrivare, mi venne incontro, sibilò «Sguardo amichevole!», mi fece passare davanti ai generali della Wehrmacht (ai quali avrebbe potuto dire la stessa cosa) portandomi direttamente da Himmler, e mi presentò. Io feci rapporto. Himmler mi squadrò compiaciuto.

«Suo fratello dice che sa disegnare molto bene».

Io non seppi cosa rispondere, guardai solo quell'uomo straordinariamente miope che dava grande importanza allo spirito di corpo in sede di esecuzioni. Hub replicò al posto mio che in effetti sapevo disegnare molto bene.

«Ottimo, allora mi faccia una caricatura, Obersturmführer».

«Adesso, Herr Reichsführer?».

«Ha cinque minuti.»

Estrassi ubbidiente il mio quaderno degli schizzi dalla tasca della giacca, presi la matita e iniziai dagli occhi. Bisogna sempre iniziare dagli occhi, molti che non sanno disegnare credono erroneamente di poter anche cominciare dalle linee del viso o dal naso, ma quello è l'inizio della fine. Io disegnai gli occhi di una iena, perché Himmler rideva come una iena, stridendo altissimo per poi tacere di colpo. Aveva denti minuscoli, ma quelli potevano aspettare. Sotto gli occhi piazzai un grugno, un bel grugno da maiale, e sotto il grugno da maiale i suoi baffetti, e sotto i baffetti si aprivano fauci storte da vacca dalle quali feci spuntare un pochino di fieno. Un mento a Himmler non lo diedi, perché non ce l'aveva, e le orecchie diventarono le orecchie di un uistitì dai pennacchi bianchi e, quando alla fine dovetti scegliere la forma della testa, tentennando tra quella di una carpa e quella di un ippopotamo, optai di nuovo per il buon vecchio maiale domestico, e lo stesso valse per le guance cadenti.

«Ho finito, Herr Reichsführer.»

«Bene, dia qua».

Himmler lanciò uno sguardo eloquente a Hub, che mosse tre passi rigidi verso di me.

Allungai a lui la caricatura.

Hub la fissò a lungo, perplesso.

«Allora?» chiese Himmler impaziente. Tutti i dirigenti delle SS di Riga guardavano mio fratello carichi di aspettative.

Hub piegò il pezzo di carta, lo stracciò e se l'infilò nella tasca del cappotto di pelle.

«Temo che non sia ancora riuscito benissimo all'Obersturmführer, Herr Reichsführer».

«Può migliorare?».

«Può migliorare di molto. Credo che l'Obersturmführer sia un po' nervoso».

«Non dovrebbe essere nervoso. Non mordiamo mica».

Io tornai in me, completai un nuovo disegno che ritraeva il signor Himmler come Lancillotto in un'armatura scintillante, coi tratti e i baffi di Douglas Fairbanks.

Poi viaggiammo insieme per tutti i paesi baltici, il signor Himmler e io. Nel corso del viaggio il Reichsführer pontificò col suo modo di parlare dalle sfumature bavaresi che fra l'altro mi ricorda il suo, swami, e che ci creda o meno: era incredibilmente esperto degli insegnamenti spirituali asiatici che lei m'illustra con tanta capacità persuasiva e abbondanza di dettagli. Sì, a ben vedere Himmler è stato il primo hippie che ho incontrato, almeno per quel che riguarda il livello d'indipendenza interiore. E sapeva anche liberare la mente. Come tutti i buddhisti amava gli animali, e un pomeriggio dovemmo restare fermi due ore a motore spento su una strada di campagna estone per via della migrazione di massa dei rospi, consentendo così a tutti i ventimila rospi di attraversarla in sicurezza.

Ovviamente il signor Himmler era anche un vegetariano convinto, assumeva di continuo integratori omeopatici, credeva che i teutoni fossero precipitati sul pianeta Terra direttamente dallo spazio con un meteorite ghiacciato che cadde nei pressi di Bad Wimpfen, e mi chiese il segno zodiacale. Al che venni subito a sapere che quelli nati sotto il segno dello Scorpione erano dei sensuali che si sarebbero sentiti a proprio agio nelle città di Münster, Osnabrück e Lisbona.

Himmler teneva sempre molto volentieri delle lezioni sulle sue amate SS.

Una volta mi spiegò che per quell'Ordine sacro erano necessari degli uomini di sangue nordico, intelligenti e intolleranti. Era la cosa più importante. La domanda era se io fossi abbastanza intelligente e intollerante.

Sull'intelligenza non posso dire nulla, risposi, poiché essa s'annida soprattutto nell'occhio di chi guarda. Quanto all'intolleranza, nelle ultime settimane avevo fatto notevoli passi avanti. Himmler grugnì soddisfatto.

Chris Kraus

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 2 aprile 2021. Un’agghiacciante foto in bianco e nero di alcuni ufficiali delle SS che sorridono davanti a un edificio in legno offre uno sguardo su uno degli orrori meno noti della Seconda Guerra Mondiale. Con il suo ampio portico e finestre luminose, la struttura era un luogo di rifugio per i soldati tedeschi stazionati al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, ma per i detenuti era un luogo di degrado e disperazione. Chiamato Kameradschaftsheim der Waffen SS KL Auschwitz, (La Casa del Cameratismo per la Waffen SS ad Auschwitz) l’edificio è stato costruito dai prigionieri ed inaugurato appena prima della pasqua del 1942, per fungere da circolo privato per gli ufficiali nazisti di alto rango e le loro famiglie. Nell’arco dei tre anni che è rimasto aperto, il club ospitava spettacoli come cabaret; sketch-show; concerti; incontri di pugilato; giri a cavallo per i bambini e anche proiezioni cinematografiche. Inoltre, alcune stelle del mondo dello spettacolo venivano invitate per intrattenere gli ufficiali, come ad esempio l’attrice e cantante italiana Lia Origoni. Anche i prigionieri erano costretti a fare degli spettacoli, come ad esempio i sette artisti romeni affetti da nanismo che diventarono una fonte di interesse per il dottore nazista Josef Mengele, soprannominato “L’angelo della morte”. Prima di essere spediti ad Auschwitz nel maggio del 1944, la famiglia Ovitz era nota per il loro show di varietà di fama internazionale chiamato “Lilliput Troupe”, ma nel campo di sterminio venivano presentati come lo “Spettacolo dei Nani del Dott. Mengele.” Mengele era noto per esaminare le persone che arrivavano ad Auschwitz e separare le persone di suo interesse, come i gemelli, dagli altri arrivi diretti alle camere a gas o i lavori forzati. Sebbene questi soggetti venivano spesso risparmiati dallo sterminio e vivevano in condizioni migliori rispetto agli altri prigionieri, le persone scelte da Mengele erano soggetti a esperimenti disumani. Per la famiglia Ovitz, questi includevano: la rimozione del midollo osseo; l’estrazione dei denti senza anestesia; il versare acqua calda e fredda negli occhi e l’ispezione ginecologica delle donne sposate. Lo scopo di questi brutali esperimenti era quello di cercare la presenza di malattie congenite nella famiglia, compresi i membri non affetti da nanismo. Una volta, Mengele ha ordinato alla famiglia Ovitz di fare uno spettacolo alla Casa del Cameratismo SS, ma una volta arrivati al clunb, furono costretti a spogliarsi e presentati agli ufficiali nazisti. Mengele ha poi fatto un discorso parlando di come la “Razza ebrea” fosse degenerata. I sette fratelli sono sopravvissuti agli orrori di Auschwitz e vissero come rifugiati nell’Unione Sovietica prima di trasferirsi in Israele nel 1949. Le loro storie strazianti sono state interpretate dall’attore Warwick Davis, noto per i suoi ruoli in Star Wars ed Harry Potter, in un episodio del programma “Perspectives” nel 2013. Sebbene i prigionieri morivano di stenti sistematicamente, le guardie ad Auschwitz potevano usufruire della mensa dell’edificio. L’ex prigioniero Bronislaw Staszkiewicz, che ha lavorato nella cucina del circolo privato prima di evadere il campo, ha raccontato di come c’erano spesso feste e celebrazioni dentro la mensa. I lavori per la costruzione del club iniziarono nel 1941 quando Auschwitz si stava espandendo e nel 1945 c'erano più di 4.500 soldati delle SS stazionati al campo. La moglie di uno dei soldati ha raccontato che l'edificio ospitava feste meravigliose con cibo delizioso ma che all'arrivo l'odore dei crematori era insopportabile. L’edificio è anche strettamente legato alla resistenza tra i detenuti, poiché almeno tre sono fuggiti dalla Casa del cameratismo, compreso lo scrittore polacco Kazimierz Albin. Dopo che il campo fu liberato, divenne uno spazio sociale per i lavoratori del National Tobacco Monopoly prima di essere passato alle National Grain Facilities, che lo usavano per immagazzinare il grano. Ha cominciato a cadere in rovina negli anni '80, quando era di proprietà della tesoreria nazionale. L'edificio si trova ancora a poche centinaia di metri dal celebre ingresso del campo, anche se pochi turisti lo vedono perché non fa parte del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau. Memory Sites near Auschwitz-Birkeanu, una fondazione che ora gestisce l'edificio, sta cercando di salvarlo dalla rovina. Si dice che l'edificio offra un'immagine più completa della storia del sito mostrando come vivevano i soldati. “Qui si svolgevano le feste di Natale per gli uomini delle SS e le loro famiglie nel 1944, feste da ballo e spettacoli serali. I detenuti devono soddisfare qualsiasi desiderio del personale delle SS mentre proprio dietro il muro dell’edificio i detenuti vivevano vite strazianti”, ha detto in un video Dagmar Kopijasz della fondazione. “I soldati delle SS venivano qui per prendere una limonata, con le loro mogli ad un appuntamento per una serata danzante. È stato l'epicentro dello sterminio. Le persone non vogliono pensare agli autori come persone normali. Ma lo erano. Erano persone come noi, l'unica differenza è che hanno ucciso persone quando erano al lavoro", ha detto Dagmar Kopijasz della fondazione. "La storia di Auschwitz e l'educazione sull'Olocausto non sono complete senza questo edificio e la sua storia."

Leni Riefenstahl, la regista della propaganda nazista. Il Führer le affidò budget illimitati per raccontare con il cinema il Terzo Reich. Lei sfruttò il suo ruolo per adottare e sperimentare tecniche di ripresa innovative. Pietro Mei su Il Quotidiano del Sud l'8 marzo 2021. Hitler le affidò budget illimitati per i suoi film: il gossip di poi sosteneva che fosse una sua amante, con il Führer impegnato in un duello amoroso con il suo ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, al quale venne (e viene) attribuita la frase che non disse mai “quando sento la parola cultura metto la mano alla pistola” (in realtà la battuta era “quando sento la parola cultura, cerco la salvezza nella mia Browning”, in una pièce di Hanss Johst, che era nazista anche lui). Ne disse e fece ben altre, Goebbels. Mussolini le fece dare la Coppa a lui intitolata alla Mostra del cinema di Venezia, nel 1938. Lei la condivise (il premio fu assegnato in parità) con il film strappacuore Luciano Serra pilota, star Amedeo Nazzari. Il film italiano aveva degli atouts particolari: era stato il primo, con Scipione l’Africano, pellicola famosa per le sue scene di massa e per la comparsa che interpretava un legionario e dimenticò al polso l’orologio, girato nei nuovi stabilimenti di Cinecittà, e in più il supervisore aveva un cognome di peso: Mussolini. Era Vittorio, il figlio del duce. I due vincitori della Coppa sconfissero fra gli altri Il porto delle nebbie di Marcel Carné, e il primo lungometraggio di animazione di Walt Disney, Biancaneve e i sette nani. La premiata era Leni Riefensthal, il suo film era Olympia: Leni aveva impiegato due anni per il montaggio e ne aveva tratto due parti, “Fest der Volker”, “Festa dei Popoli”, che durava 123 minuti e “Fest der Schönheit”, “Festa della Bellezza”, che ne durava 94. Un totale di tre ore e mezza: un attimo rispetto alle 200 ore di girato, 400 mila metri di pellicola che erano l’opera originale. Leni dovette lavorare parecchio di immaginazione e di forbici. La prima l’aveva in quantità, fin da ragazza quando, destinata a una carriera di imprenditrice nella ditta di papà a Berlino, aveva invece preferito la vita d’artista per la quale si sentiva più portata, prima dedicandosi al balletto e al ballo, poi, vittima di un menisco come un qualsiasi calciatore, durante una trasferta a Praga, al cinema. Da attrice per cominciare, specialmente impegnata nel genere “film di montagna” che allora andava molto. Affascinata dalle immagini del regista Arnold Fanck, andò a cercarlo lungo le Alpi: lo trovò, trovò anche un aitante attore altoatesino di cui divenne amante e che poi l’avrebbe tradita scrivendo e pubblicando un falso (così è stato riconosciuto dai tribunali) diario di Eva Braun, la compagna di Hitler, che raccontava il Führer e i suoi incontri non precisamente sentimentali con Leni in salotto, mentre la povera  Eva si rigirava da sola nel letto matrimoniale nella stanza accanto. Oltre l’attore altoatesino, anche il cinema conquistò Leni: girò da regista La bella maledetta. Hitler lo vide e gli piacque. Leni lesse “Mein Kampf” e le piacque, sentì un discorso di Hitler dal vivo e le piacque. L’incontro era nel destino, che non aspettò troppo a provocarlo. La Riefensthal ebbe l’incarico della regia di un documentario, “La vittoria della fede”, che si occupasse del congresso nazista di Norimberga, 1933. L’opera non ebbe fortuna: nella “notte dei lunghi coltelli”, quella che nel 1934 portò all’epurazione delle “camicie brune” più radicali, si consumò la disgrazia di Eric Rohm, potentissimo loro capo, che venne giustiziato. Nel documentario di Leni, Rohm era ripreso frequentemente al fianco di Hitler (era uno dei pochi che gli “dava del tu”) e il materiale fu fatto sparire in tutta fretta. Leni non sparì: anzi Hitler la convinse a girare un nuovo documentario, legato al successivo congresso di Norimberga: stavolta a trionfare nel titolo non era la fede, ma la volontà, “Il trionfo della volontà”. Visto il budget ed avuta l’assicurazione che sarebbe stato l’ultimo lavoro politico (ma “Olympia”, allora?) la Riefensthal accettò l’incarico. E diresse quello che è tuttora considerato un classico della propaganda politica, il Führer protagonista come un messia. Teleobiettivi, grandangoli, quasi tutti gli operatori cinematografici tedeschi: Leni ottenne carta bianca. Uomini in marcia, musiche travolgenti e Hitler furono gli ingredienti. “Olympia” avrebbe seguito questa traccia dopo che Leni ebbe un altro cedimento di regime, girando un cortometraggio, “Tag der Freiheit – Unsere Wehrmacht”, “I giorni della libertà – Il nostro esercito”, che doveva servire al Fuhrer per tenere a bada le rinascenti forze armate tedesche furiose per non essere state trattate nel documentario precedente. Era il 1935, l’anno delle leggi razziali. Per tirarsi fuori da ogni accusa, Leni negò poi di aver girato proprio in quei tempi l’esaltazione della Wehrmacht: ma nel 1971 ne fu trovata una copia…Era tempo di Olimpiadi e dunque di “Olympia”. Hitler la incaricò del compito, Leni pretese e ottenne che Goebbels fosse tagliato fuori dalla realizzazione: lui la definiva “una donna cattiva”, lei raccontava di averlo più volte dovuto “respingere”, non solo in senso creativo. Le masse, la corporeità, le musiche, la bellezza: la Riefensthal era nel suo territorio. Tecnicamente innovativa, ebbe l’accesso in tutti i luoghi olimpici; fece scavare trincee per camere a livello terra; ne mise subacquee e aeree legate a un pallone aerostatico (vennero premiati coloro che ritrovavano parti girate volate via dalla mongolfiera), ne legò alle caviglie dei maratoneti e alle selle dei cavalieri; montò il dolly su rotaie e usò la slow motion, la moviola; non le sfuggì un muscolo, specie di quelli del decatleta d’oro, l’americano Glenn Morris, con il quale ebbe una storiella e che convinse a ripetere nello stadio deserto una gara che non era riuscita a filmare bene quando effettuata veramente; riprese un premio piano di Jesse Owens che sorrideva alla telecamera dopo una vittoria e la mise in contrapposizione con il volto di Hitler: il “nero”, di umore, era il Führer. Montò tuffatori che uscivano dall’acqua, spruzzando nell’inversione delle immagini, e statue greche che si trasformavano in corpi viventi di atleti o danzatrici (il Discobolo di Mirone si anima e diventa il decatleta tedesco Erwin Huber, quarto nella gara, nudo nell’immagine; lei stessa interpreta una danzatrice, il sogno di bambina). Impiegò 40 operatori e 50 assistenti, inventò una specie di zoom. Fu esteticamente geniale. Le molte riprese dedicate agli americani, anche neri, non erano prova di un dissenso antirazziale, ma una subliminale strizzatina d’occhio a Hollywood, dove Leni voleva approdare e dove regnava la sua rivale d’un tempo, Marlene Dietrich, che le aveva tolto il sogno di essere sullo schermo Lola e L’Angelo azzurro, ruolo cui la Riefensthal ambiva. In America Leni si recò per il lancio di Olympia. La tragica coincidenza volle che il viaggio avvenisse proprio mentre in Germania fu la “Notte dei cristalli”, 1000 sinagoghe bruciate e 30 mila ebrei deportati in una notte sola. L’opera venne boicottata immediatamente, Hollywood rifiutò ogni incontro, il film non trovò distributori: era il 1938. Brundage, gran capo dello sport mondiale, ne disse un’altra delle sue: “Beh, i teatri e le sale cinematografiche sono quasi tutti degli ebrei…”. La Riefensthal tornò in Germania. Tutto le crollava intorno: fu poi arrestata e rilasciata più di una volta. Non aveva lavoro: aveva in mente soggetti come la vita di Eleonora Duse, o quella di Vincent Van Gogh. Poi se ne andò in Africa a fotografare (immagini bellissime) i guerrieri Nuba. A più di settant’anni prese la patente subacquea per girare documentari di biologia marina. A 101 anni morì, non senza aver scritto memorie né rilasciato interviste in cui raccontava la sua vita come la aveva vissuta, la raccontava a modo suo, nel documentario “The wonderful horrible life of Leni Riefensthal”. A ciascuno la scelta dell’aggettivo.

Dario Ronzoni per "linkiesta.it" il 2 marzo 2021. Non era un padre amorevole. Come marito era pessimo. La maggior parte del tempo la dedicava (lavoro a parte) a bere e alla cura delle api. Alois Hitler, padre di Adolf, morì a 65 anni nel 1903 e non poté mai sapere cosa sarebbe diventato suo figlio. Ma, in modo indiretto, ne fu in gran parte responsabile. È quello che sostiene Roman Sandgruber nel suo “Hitlers Vater” (Molden), testo basato su alcuni documenti inediti che permettono di gettare nuova luce su un personaggio di cui si sa ancora poco. Si tratta di 31 lettere che sono state affidate allo scrittore dalla pronipote di Josef Radlegger, costruttore stradale e amico del padre di Hitler. Fu lui a vendergli la tenuta di Hafeld, dalle parti di Lambech. Nelle carte si discute di questioni burocratiche, di pettegolezzi di paese, ma anche delle incombenze quotidiane. Tutte note preziose per fare luce su uno degli aspetti meno noti della vita del Führer, gli anni dell’infanzia. Secondo Sandgruber, il figlio avrebbe ereditato i tratti meno piacevoli della personalità del padre. Arroganza, autoritarismo, cocciutaggine, eccesso di autostima. Ma anche opinioni radicate come l’odio verso la religione, il disprezzo per l’autorità e per la nobiltà. E, soprattutto, l’antisemitismo. Alois Hitler non era una persona gradevole. Collerico, duro, non spiritoso, visse sempre con difficoltà il fatto di essere nato figlio illegittimo (il suo cognome di origine, Schiklgruber, era quello della madre) e senza una istruzione reale. Entrò nell’esercito e trovò lavoro come guardia di frontiera dell’Impero asburgico. Un mestiere che lo obbligò a diversi trasferimenti nella sua vita, cui corrispose un più alto numero di relazioni, coniugali ed extraconiugali. Si sposò tre volte: la prima a 36 anni, con Anna Glassl, cinquantenne benestante. Non ebbero figli. Dopo una separazione (causata dai continui tradimenti dell’uomo), si risposò con Franziska Matzelberger, una cameriera, con cui ebbe due figli. Rimasto vedovo, si sposò infine con Klara Pölzl, con cui aveva già avuto una relazione e che, dopo il cambio di cognome, era diventata sua lontana parente. «Come padre, come marito, come persona, fu un fallimento», spiega Sandgruber. «Era rimasto senza amici e senza una vera casa». Coltivava aspettative velleitarie, era duro sull’arido lavoro da burocrate. A casa urlava con i figli e quasi non parlava con la moglie. L’unica cosa che lo rilassava erano le api. Adolf lo temeva, ma al tempo stesso lo venerava. «Si nota quasi una forma di imitazione del padre», continua lo scrittore. Il figlio ne copia la firma, riprende lo stile di scrittura. Assorbe anche la diffidenza – anzi, il disprezzo – nei confronti dell’educazione scolastica e la sicurezza nell’essere un autodidatta. Tra le scoperte, si nota che la madre di Hitler non era remissiva quanto si è sempre pensato. «Non era affatto poco istruita e non era certo sottomessa al marito», scrive Sandgruber. Al contrario, nelle lettere compare come una donna sveglia, desiderosa di essere considerata nelle decisioni da prendere. «Le piace essere impegnata», scriveva Alois. «Ed è brava nel tenere la casa».

Ardenne, l'ultima offensiva di Hitler per riprendersi l'Europa. "Colpo di coda" di Hitler, l'offensiva delle Ardenne spaventò e non poco gli Alleati occidentali a cavallo tra 1944 e 1945. Ma a conti fatti accelerò la disfatta del Fuhrer. Andrea Muratore, Martedì 05/01/2021 su Il Giornale. Vista col senno di poi, la situazione strategica del teatro europeo della seconda guerra mondiale a cavallo tra la fine del 1944 e l'inizio del 1945 disegnava uno scenario ormai in via di definizione, che presupponeva la totale disfatta del Terzo Reich schiacciato tra l'incudine degli Alleati avanzanti da Ovest e il martello dell'Unione Sovietica in avanzata da Est. Dal giugno 1944 alla fine dell'anno la Germania, a Ovest, aveva fallito il contenimento dello sbarco in Normandia, perso in poche settimane la Francia, visto la caduta di territori incorporati nei propri confini metropolitani come la città di Aquisgrana, perso lo scalo strategico di Anversa in Belgio. A Est, l'Armata Rossa era avanzata come un rullo compressore e, al prezzo di circa 180mila morti in un mese e mezzo (22 giugno-1 agosto), era avanzata di centinaia di chilometri dall'Ucraina e la Bielorussia ai territori polacchi. Ciononostante, la macchina da guerra tedesca era da ritenersi, non a torto, un nemico ancora capace di colpi temibili. Per quanto privata su entrambi i fronti e sul secondario teatro italiano dell'inerzia, la Wehrmacht manteneva importanti riserve di mezzi corazzati e grandi unità ancora sostanzialmente intatte, per quanto menomante dalla carenza nell'approvvigionamento di mezzi, materiali e carburante legata agli incessanti bombardamenti aerei statunitensi e britannici che stavano mettendo in ginocchio il Paese. Adolf Hitler sognava ancora la riscossa. Per quanto estraniato completamente dalla realtà dei fatti e pronto a vedere l'intero Paese sacrificarsi assieme a lui per il fallimento del suo progetto egemonico, il Fuhrer non mancava di momenti in cui, con forte cinismo e con maggiore lucidità strategica, riusciva a leggere le situazioni con maggiore realismo. Il suo "colpo di coda", l'Offensiva delle Ardenne con cui l'esercito tedesco provò a ricacciare indietro gli Alleati in una fase in cui, provati dal fallimento dell'operazione Market Garden condotta in Olanda con truppe paracadutate e frustrati per la fine del sogno di vincere la guerra entro il Natale 1944, dovevano consolidare la loro vittoria dei mesi precedenti rientra in questa sfera. Il 16 dicembre 1944 le foreste delle Ardenne tra Belgio e Lussemburgo vissero una riedizione di quanto accaduto quattro anni e mezzo prima. Nel 1940 i panzer tedeschi erano comparsi all'improvviso dalle Ardenne per aggirare le difese francesi della Linea Maginot su iniziativa del generale Heinz Guderian, in questo momento invece le truppe di fanteria tedesche si lanciarono a sorpresa sulla 1ª Armata statunitense, cogliendola completamente di sorpresa, per aprire varchi alle Panzerdivisionen tenute in seconda linea. Perché la Germania voleva colpire nelle Ardenne un nemico dotato di mezzi e forze superiori? Il piano strategico tedesco (originariamente denominato in codice Wacht am Rhein, "guardia sul Reno", e successivamente Herbstnebel, "nebbia autunnale") era stato pensato dai generali Walter Model e Hasso von Menuteuffell, e nei loro propositi e in quelli di Hitler doveva garantire uno sfondamento a sorpresa in un'area ben definita ove lo schieramento americano era vulnerabile (Schwerpunkt) per poi portare a un accerchiamento degli anglo-americani e a un obiettivo, di conseguenza, "politico". Con l'offensiva delle Ardenne Hitler infatti sperava di veder crollare il morale degli Alleati e portare la guerra nelle case di tutti i cittadini delle due potenze-guida, facendo seminare dubbi e incertezze circa la condotta futura del conflitto. Dunque permettendo di guadagnare tempo e risorse fondamentali a difendere il territorio metropolitano del Reich. Cui Hitler faceva, come suo solito, seguire a mo' di corollario i suoi tradizionali deliri: il tempo guadagnato sarebbe dovuto esser necessario a sviluppare le Wunderwaffen, le armi miracolose con cui la Germania avrebbe potuto ribaltare il verso del conflitto e di cui le bombe volanti V2 rappresentavano un classico esempio. Fatto sta che quel giorno di dicembre i soldati americani furono effettivamente travolti dall'azione tedesca, condotta dalle divisioni di Volksgrenadier. Nonostante un rapporto di uno a tre per le forze a disposizione (circa un milione i tedeschi, tre gli Alleati) sul fronte occidentale i tedeschi avevano scelto proprio il settore meno presidiato per avanzare. Nel complesso i tedeschi avrebbero impegnato in tutta la battaglia circa 350.000 soldati concentrati nell'area delle Ardenne con un'eccellente operazione logistica che era riuscita a schermare alla ricognizione aerea nemica l'afflusso in prima linea di sette divisioni corazzate, due divisioni paracadutisti e dodici divisioni Volksgrenadier. Le truppe panzer lanciate subito dopo l'irruzione della fanteria contro gli Alleati seppero fare diverse puntate in profondità verso città come Bastogne, sfondarono il cosiddetto varco di Losheim e accerchiarono e catturarono circa 9mila soldati statunitensi nella regione montuosa dell'Eifel. Al contempo, tuttavia, il morale statunitense non era crollato. La 99esima divisione di fanteria di presidio alla prima linea reagiva combattendo, gli statunitensi potevano fare affidamento su importanti quantità di munizioni, risorse e mezzi da combattimento all'avanguardia, dai carri armati ai mezzi di difesa dai corazzati nemici. Inoltre, la relativa vicinanza alle basi di rifornimento favorì l'azione difensiva nel contesto di una stagione fredda e ostile per chi, come le truppe tedesche, si era invece visto costretto ad allungare la sua logistica. Il contenimento dell'offensiva delle divisioni Waffen-SS aggiunse un'ulteriore problematica ai dilemmi strategici tedeschi, mentre l'attraversamento del fiume Our contribuì a dare un certo slancio all'offensiva. Al quartier generale alleato a Verdun il comandante supremo Dwight Eisenhower e il generale Omar Bradley definivano intanto con lucidità le contromosse. Gli Alleati spostarono a Nord il XVIII corpo d'armata aviotrasportato con le sue due divisioni paracadutisti (82ª e 101ª), di cui fu previsto inizialmente l'impiego a nord contro le Waffen-SS che sembravano aver sfondato nella regione di Malmedy, mentre la 10° Divisione Corazzata statunitense inquadrata nella Terza Armata del generale George Patton si diresse nei pressi di Bastogne. La città, snodo strategico della regione, fu assediata e accerchiata a partire dal 21 dicembre, data in cui la 101° paracadutisti si ritrovò a combattere contro un avversario in avanzata ma sostanzialmente inadatto a garantire profondità e slancio alla sua azione di rottura. Patton disse a Bradley, in una riunione di stato maggiore del 19 dicembre, "Brad, questa volta il Fritz si è cacciato nel tritacarne, e sarò io, adesso, a girare la manovella". Gli Alleati, tre giorni dopo, iniziarono a rifornire con un ponte aereo la città, imposero anche nelle condizioni meteo avverse la loro supremazia aerea, si mossero con puntate e contrattacchi su tutto il fronte dell'offensiva tedesca, che fu messa in scacco. Il giorno di Natale Bastogne resistette all'ennesimo attacco e Patton, avanzando, distrasse i tedeschi dal loro obiettivo strategico. Nel frattempo era arrivato nel quadrante anche l'alto comandante britannico, generale Bernard Montgomery, eccellente organizzatore di risorse e prudente stratega, che aveva gradualmente contribuito a riorganizzare le truppe alleate puntando su lente e graduali avanzate nell'attesa che il pomo (il ritorno del fronte alle posizioni di partenza) si staccasse da solo dal ramo. Una scelta accorta, specie dopo che il 6 gennaio l'assedio a Bastogne fu rotto. L'offensiva delle Ardenne poteva dirsi definitivamente fallita, ma i tedeschi si mantennero combattivi e gli Alleati attenti a non rischiare eccessive vite umane e risorse in una battaglia fattasi oramai disperata. A decidere il futuro della battaglia contribuì, il 12 gennaio 1945, l'inizio della poderosa offensiva sovietica a Est, che costrinse i tedeschi a spostare ingenti forze e riserve dal teatro occidentale a quello ritenuto vitale per la salvezza del Terzo Reich e che in due settimane portò i russi a meno di 100 km da Berlino. Il saliente dell'offensiva tedesca andò dunque evaporando, gli Alleati avanzarono gradualmente, quasi per inerzia, fino a riconquistare le posizioni di partenza attorno al 25 gennaio, data in cui i tedeschi ripararono oltre la Linea Sigfrido. L'atteggiamento prudente ispirato da Montgomery, nonostante le energie profuse da Patton per portare la realtà sul terreno a un maggiore dinamismo, aveva consentito questa possibilità ma aveva impedito agli alleati di accerchiare o annientare le truppe tedesche in ritirata. Fu questa l'ultima fase in cui la Germania provò un'offensiva contro gli anglo-statunitensi schierati a Ovest. La battaglia delle Ardenne fu la più grande (in termini di uomini impiegati) e più costosa battaglia combattuta dall'esercito statunitense nella seconda guerra mondiale, facendogli piangere 19mila morti contro i 10mila tedeschi. Parimenti, il tentativo tedesco esaurì definitivamente le speranze tedesche di riportare il fronte a favore di Berlino. Circa il ruolo giocato dal logorio di forze nell'Offensiva delle Ardenne nel crollo del fronte tedesco sul Reno tra marzo e aprile le tesi storiche divergono. Il fatto che durante gennaio e febbraio circa 20-25 divisioni tedesche combattenti a ovest o in Italia vennero dirottate precipitosamente a est contro i sovietici portò Stalin a ritenere che i successi alleati di primavera su entrambi i fronti fossero decisamente collegati alle avanzate dell'Armata Rossa, che indubbiamente sostenne un peso umano e materiali enorme nell'offensiva contro il Terzo Reich. John Erickson in The Road to Berlin (2002) e Max Hastings in Apocalisse tedesca, a loro modo hanno dato un credito non secondario a questa tesi, mentre Basil Liddell Hart nella sua fondamentale Storia militare della seconda guerra mondiale (1970) sottolinea il logorio delle forze nemiche come decisivo per la caduta della Linea Sigfrido in primavera. Realisticamente le due tesi sono complementari e non escludibili l'una con l'altra: gli obiettivi strategici immaginati da Hitler e dai suoi generali per la battaglia delle Ardenne furono falliti dai tedeschi ben prima dell'offensiva a oriente, e quello politico di demoralizzare il nemico fallì ai primi contatti tra le forze schierate sui fronti opposti. Parimenti, la manovra sovietica sull'Oder di inizio 1945 fu il game-changer decisivo che accelerò e di non poco le sorti della guerra. Spostando il fronte fino a ridosso di Berlino l'Armata Rossa si trasformò nella vera minaccia esistenziale per la Germania nazista. A cui restavano ben pochi mesi di vita, prima della totale debellatio e del violento tracollo del regime e delle sue armate in una serie di sanguinose, e largamente inutili, battaglie difensive. Un wagneriano "crepuscolo degli Dei" salutò la fine della tragica esperienza nazionalsocialista, e un ruolo in questo tracollo lo ha sicuramente giocata la poderosa battaglia combattuta tra le brume e le nebbie delle Ardenne a cavallo tra gli ultimi due anni della guerra mondiale.

La misteriosa strage del Boac 777: ecco il piano delle spie naziste. Dietro alla misteriosa strage che infiammò i cieli del Golfo di Biscaglia nel 1943, un gioco di spie degno del plot di Casablanca, che coinvolse un famoso attore inglese, e il piano fallito di assassinare Winston Churchill. Davide Bartoccini, Venerdì 22/01/2021 su Il Giornale. Golfo di Biscaglia, 1 giugno 1943. Un aereo di linea della KLM/BOAC - fusione di guerra delle compagnie civili olandese e britannica - è in volo sulla rotta che collega, nonostante i cieli siano campo di battaglia, la capitale del neutrale Portogallo, Lisbona, a Bristol nel Regno Unito. A bordo sono 17 anime, tra loro, oltre quattro membri dell'equipaggio, tutti olandesi, il famoso attore britannico Leslie Howard (Via col Vento, la Primula Rossa, The first of the Few, ndr) e un uomo calvo e corpulento che ama fumare sigari cubani e vestire eleganti abiti gessati a doppio petto e con tanto di panciotto: il suo contabile e compagno di viaggio Alfred T. Chenhalls. Si sono imbarcati all'ultimo, facendo valere il loro status di personalità importanti sotto gli occhi vigili degli agenti segreti - anzi delle "spie" - dell'Abwehr, il servizio d'intelligence della Germania nazista, ma anche di quelli dell'Oss americano e dell'MI6 inglese. Assieme a loro viaggiano alcuni funzionari esteri, mogli di militari, un giornalista della Reuters con sua moglie e le due figlie. Alle 12.45 il volo che era stato codificato BOAC 777 viene avvistato da una formazione di caccia pesanti della Luftwaffe: sono otto bimotori Ju-88 "Kampfzerstörer" che avevano ricevuto l'ordine - almeno secondo i rapporti ufficiali - di fare da scorta a due U-boot in navigazione, mai incontrati. Quando si trovano in aria circa 800 chilometri a ovest di Bordeaux, la formazione avvista una sagoma "grigia" tra le nuvole. Può trattarsi solo di un aereo nemico. "Indiani a ore undici", si sente scandire alla radio. Appena cinque minuti dopo, arriva l'ordine di abbatterlo. Due Ju-88 si staccano dalla formazione e si mettono in coda a quel volo civile, soprannominato "Ibis", come l'uccello venerato nel mondo antico. Uno gli è poco sopra, l'altro poco sotto; aprono il fuoco in coppia con i cannoncini automatici che spuntano del muso corazzato. Non può esserci scampo. Nemmeno quando l'avvicinamento consente di riconoscere e identificare un volo civile - sebbene l'aereo avesse una livera mimetica, e fosse un modello in uso nelle aeronautiche militari alleate - e l'ordine viene revocato. Il motore e l'ala sinistra sono già in fiamme. Tre figure non identificate cercano di saltare con i paracadute, che però prende fuoco nel salto non aprendosi. L'aereo di linea precipita in mare. Galleggia per qualche istante tra i detriti e la nafta infiammata, e poi sprofonda nell'abisso con le restanti quattordici anime ancora a bordo, tutte di nazionalità britannica. I piloti tedeschi sono furiosi della mancata segnalazione da parte del loro comando: dovevano essere messi al corrente dell'esistenza di una compagnia civile ancora "operativa" che collegava l'Europa neutrale con il Regno Unito - che bollerà l'attacco come un evidente crimine di guerra.

Ma si trattò davvero di un incidente? Già nei giorni immediatamente successivi, nonché negli anni a venire, una serie di teorie hanno cercato di spiegare il tragico evento; lasciando spazio a diverse ipotesi, plausibili e fantasiose. La prima, avanzata dal figlio del famoso attore britannico che si era recato in Portogallo per presenziare ad una serie di convegni, voleva che l'ordine di abbattere l'aereo su cui volava Leslie Howard (per altro di origini ebraiche) provenisse direttamente da Joseph Goebbels. Il ministro propaganda nazista che suo padre aveva ridicolizzato al cinema e nelle trasmissioni radiofoniche cui prestava la sua voce. La tesi, mai confermata, si scontrerebbe però con un fatto ben noto agli storici: Goebbels non aveva alcun peso o ruolo in ambito militari; cosa che lo frustava ampiamente secondo le ricerche condotte negli ultimi anni. La seconda ipotesi, sempre incentrata sul noto attore shakespeariano che tutti ricordano per il ruolo di Ashley Wilkes in "Via col vento", ipotizzerebbe un suo coinvolgimento con i servizi segreti di Sua Maestà: Howard in realtà sarebbe stato inviato da Londra in veste di spia, per scambiare informazioni sul suolo europeo e dissuadere il generalissimo Francisco Franco da una possibile alleanza tra la Spagna e le potenze dell'Asse. Sebbene alcune fonti possano seriamente avvicinare l'attore agli ambienti dello spionaggio, e sebbene nel '43 Lisbona secondo i dossier della CIA (allora Oss, ndr) potesse essere paragonata a "Casablanca" nella pellicola con Humphrey Bogart, anche questa pista sembrò risultare abbastanza fragile. La teoria più avvalorata - anche dallo stesso Winston Churchill - sarebbe una terza, ove gli agenti segreti tedeschi avrebbero individuato quello che supponevano fosse il primo ministro britannico in transito nell'aeroporto di Lisbona, scambiandolo per il contabile di Howard, Alfred T. Chenhalls, e confondendo Howard per la sua guardia del corpo personale: lo slanciato e serioso Walter H. Thompson. Questo avrebbe provocato l'immediato ordine di abbattere a tutti i costi l'aereo su cui voleva quello che poteva essere considerato il più acerrimo nemico del führer. Il caso vuole che Churchill in quello stesso momento potesse trovarsi seriamente in Europa; aveva spesso fatto scalo a Gibilterra nei primi anni del conflitto, e aveva anche volato su aerei di linea - ad esempio per recarsi alle Bermuda e incontrare il presidente americano Franklin D. Roosevelt. Ma davvero l’intelligence tedesco non sarebbe stato “capace” di verificare se l'uomo che si stava imbarcando su quell’aereo era veramente Curchill? Riguardo gli eventi il primo ministro inglese scrisse nelle sue memorie: "La brutalità dei tedeschi era pari solo alla stupidità dei loro agenti. È difficile capire come qualcuno potesse immaginare che con tutte le risorse della Gran Bretagna a mia disposizione avrei dovuto prenotare un passaggio su un aereo disarmato e senza scorta, in partenza da Lisbona, in pieno giorno". Churchill infatti si trovava a Gibilterra, e sarebbe partito la sera del 4 giugno 1943. A bordo di un bombardiere B-24 Liberator però, con corazzature aggiuntive e 10 mitraglieri a difesa della fortezza volante. Il grande mistero che permane in questa vicenda è se davvero Londra fosse al corrente dell'intenzione da parte dei tedeschi di abbattere il volo civile sul quale credevano si sarebbe trovato Churchill. Alcuni storici sostengono infatti che i codificatori britannici di Bletchley Park avessero "decrittografato diversi messaggi" riguardanti i piani per l'assassinio di Churchill. E forse anche l'ordine di intercettare l'aereo. Ma sarebbe stato comandato di "lasciar correre", per evitare che l'Oberkommando della Wehrmacht sospettasse che il codice Enigma fosse stato compromesso. Sacrificando, in questo caso come in altri numerosi casi, l'innocente volo dell'Ibis. All'indomani dell'abbattimento di volo 777, tutti i voli KLM/BOAC furono dirottati su altre rotte e operati solo con il favore dell'oscurità. Come sempre avevano fatto i famosi "Lysander": i taxi delle spie pilotati dagli uomini più temerari della Royal Air Force.

Da lastampa.it il 23 gennaio 2021. "Lavoratrici in buona salute tra i 20 e i 40 anni ricercate per un sito militare" si legge in un annuncio di lavoro di un giornale tedesco del 1944. Si promettono buoni salari e vitto gratuito, alloggio e vestiario. Ciò che non viene menzionato è che l'abbigliamento è un'uniforme delle SS e che il "sito militare" è il campo di concentramento femminile di Ravensbrück, a circa 80 km da Berlino. Molte delle guardie femminili erano giovani donne, alcune con figli, provenenti da famiglie povere, che lasciavano presto la scuola e avevano poche opportunità di carriera.

Il Cazzo Ebreo. Tonia Mastrobuoni per "Il Venerdì – la Repubblica" il 16 gennaio 2021. «Siamo stati abituati soltanto a ebrei morti o disperati che ci guardano da innumerevoli fotografie grigie, o da qualche remoto luogo d’esilio senza mai sorridere, e noi perpetuamente debitori nei loro confronti». Mentre è sdraiata sul lettino del suo psicanalista, la protagonista del caustico, esilarante romanzo d’esordio di Katharina Volckmer, Un cazzo ebreo (La nave di Teseo), si lascia andare alle sue eretiche fantasie sessuali con Adolf Hitler, al sogno di una bambina gonfiabile per donne e rivela il lato oscuro della glorificata Vergangenheitsbewaeltigung, del fare i conti col proprio passato di cui la Germania va molto fiera. Agli occhi della protagonista, quel modo di trattare la Shoah si è ridotto a una sorta di gigantesco feticismo collettivo. Tanto che il senso di colpa verso gli ebrei raramente si è tradotto nel desiderio di interagire con una cultura che, prima del nazismo, ha permeato quella tedesca come nessun’altra. Da Londra, dove vive da quindici anni, Katharina Volckmer ci spiega al telefono cosa intende, quando scrive che i suoi connazionali sono stati abituati solo agli ebrei morti o disperati: «Direi che è una sintesi. Sono cresciuta in Germania, sono andata a scuola lì. Gli ebrei sono onnipresenti, ma non come qualcosa di vivo, bensì come qualcosa di museale, di morto. La vita ebraica non è presente in Germania come lo è ad esempio negli Stati Uniti. È tutto molto astratto, e ha poco a che fare con la vita quotidiana. Anche quando si piange per la Shoah, la si piange non come una perdita mostruosa per la collettività, ma come un lutto per qualcosa che è “altro da sé”». Il romanzo è un lungo sfogo che avviene in uno studio psicanalitico londinese, è un monologo perturbante con un dottore ebreo, Seligman. Un flusso di coscienza senza tabù – cosa più unica che rara per una scrittrice tedesca alle prese col passato nazista – in cui la protagonista oscilla tra il rifiuto del suo corpo e di una femminilità imposta, il lutto per un amore finito con un certo “K” e le proibite fantasie sessuali con il Führer. Il romanzo strappa spesso risate che sono pugni. «Si è mai immaginato Hitler in pigiama, dottor Seligman, che si sveglia con i capelli arruffati e inciampa in camera sua mentre cerca le pantofole?». Volckmer si è ispirata anche a Thomas Bernhard, forse lo scrittore più implacabile sulla grande rimozione del nazismo nel suo Paese, l’Austria. E la scrittrice trentatreenne ha deciso di scrivere il suo romanzo in inglese. Non tanto per ottenere l’effetto di straniamento di Samuel Beckett, il grande genio irlandese che scriveva in francese, quanto «per impormi dei limiti. Quando non scrivi nella tua lingua madre tendi a disciplinarti, a misurare le parole, a tagliare gli aggettivi, a semplificare. E su di me il fatto di scrivere in inglese ha anche avuto un effetto creativo». Leggendo Un cazzo ebreo si fanno scoperte strepitose che riguardano l’identità tedesca. In Italia siamo ossessionati dal fatto che in Germania “debito” e “colpa” siano la stessa parola, Schuld. E siamo ormai sepolti da dotte riflessioni sulle ragioni di quell’indistinguibilità. Ma Volckmer ci insegna anche che non esiste una parola tedesca per “desiderio”, inteso in senso sessuale. Esiste la lussuria, la parola Lust, e il sesso dunque legato a un vizio capitale. Colpa di Lutero? Volckmer ride di gusto: «Non so, forse sì, anche. I tedeschi sono persone molto, molto serie. Qui a Londra racconto sempre che in Germania c’è questa difficoltà a ridere, questa diffusa pesantezza. Ma mi chiedo anche se sia legato alla storia». Volckmer non è sorpresa per quello che viene definito un “ritorno” di antisemitismo in Germania: «Non è un ritorno. Io penso che non sia mai sparito. Nonostante la meticolosa analisi storica, l’indubbio sforzo di fare i conti con la Shoah, a un certo punto c’è anche stato il tentativo di archiviare quel capitolo della storia. Come se non ci fosse stata una continuità col nazismo, dopo il 1945. E ho anche l’impressione che non se ne parli volentieri, di quella continuità, neanche oggi. Il risultato è che indossare una kippah in Germania è ancora pericoloso, e questo è davvero tristissimo. A pensarci bene, in Germania si è cominciato anche tardi a fare un’analisi seria del nazismo, con la generazione del ’68, con il processo Eichmann». C’è una terza generazione di tedeschi, come Nora Krug o Géraldine Schwarz, che hanno cominciato a interrogare la storia delle proprie famiglie per sollevare il velo di ipocrisia che ha resistito per decenni attorno ai presunti tedeschi che non sapevano o che si sentirono costretti a obbedire. In realtà, molti di essi erano convinti adepti di Hitler, ma nelle storie tramandate da figli e nipoti si trasformarono in nazisti riluttanti, costretti alle atrocità dalla ferocia della dittatura. «A me fanno persino arrabbiare frasi come “Hitler invase la Polonia”», riflette Volckmer. «Non era Hitler, erano cittadini tedeschi che invasero la Polonia». La scrittrice ricorda che ai tempi in cui andava a scuola, a Berlino ci fu una famosissima, contestata mostra sulla Wehrmacht: «Fino ad allora, per decenni, si era raccontata la favola di un esercito di bravi tedeschi obbligati a combattere. Quando venne fuori che erano stati anche criminali di guerra, che avevano commesso immense atrocità, ci furono addirittura delle proteste. Il tema del libro è questo: noi siamo gli eredi di quell’orrore. È doloroso, ma è così». Il romanzo uscito ora in Italia è già stato pubblicato nel Regno Unito, negli Usa, in Spagna e in altri paesi. Mentre la storia della sua pubblicazione in Germania è stata lunga e faticosa. Certamente non è un caso, vista la sua stupenda ferocia. «Sì, il libro uscirà in Germania in estate, ma è stato un percorso accidentato e tormentato. Non lo voleva fare nessuno. E gli editor erano estremamente irritati. Non lo trovavano affatto divertente. Sembrava davvero che nessuno avrebbe avuto il coraggio di farlo. Poi ho trovato un editore che ha fondato una casa editrice per pubblicarlo». E Volckmer ha anche parlato nel frattempo con la traduttrice, Milena Adam. «Le ho detto, ma sei sicura di volerlo tradurre? E lei mi ha detto una cosa molto intelligente. Che la destra non avrebbe mai potuto metterci il cappello». Un altro tema fondamentale del libro è il rapporto della protagonista con la sua femminilità. Anche lì Volckmer rompe molti tabù, tematizza la masturbazione, lascia spazio a sfrenate ed esilaranti tirate sul sesso, riflette del significato di una fellatio in un bagno pubblico, si esercita estesamente su argomenti sui quali alle donne viene insegnato ancora oggi che sia più opportuno tacere. «Sì, è vero, è l’altro grande tema del libro: come suddividiamo i corpi. Lo schema binario dell’uomo o della donna è troppo fisso. E la protagonista tenta di scapparne. Ma è stata educata così, alla femminilità come dovere, schiacciata da un’immagine molto prepotente imposta alle donne, e ai loro corpi. Bisognerebbe cominciare dalla prima infanzia, quando sarebbe importante dire alle bambine che sono intelligenti. E non solo che sono belle».

Stefania Vitulli per "il Giornale" il 16 gennaio 2021. La paziente è tedesca, anche se vive a Londra. Lo psicoanalista è ebreo. Il fulcro è un sogno, «essere» Hitler ed essere con Hitler, e una serie di fantasie sessuali connesse alle evocazioni del «piccolo A». La narrazione della seduta, come hanno scritto alcuni critici americani, è «à la Bernhard»: l'eccesso è sempre in agguato, il limite sta in ogni momento, ad ogni affermazione un poco più provocatoria, un poco più spinta, sempre sul punto di essere oltrepassato. E quando avviene, quando il salto nel buio del profondamente conscio eppure superficialmente nascosto è stato fatto, si conquista nuova energia retorica per andare ancora oltre. È il modo di procedere del romanzo breve Un cazzo ebreo di Katharina Volckmer, uscito in questi giorni per La nave di Teseo (traduzione di Chiara Spaziani, pagg. 112, euro 16), un modo di procedere che ha una sua motivazione esplicita e una più radicale e protetta, come del resto ci ha raccontato l'autrice stessa: «L'idea per questo romanzo è nata mano a mano, grazie ad un certo numero di racconti che ho scritto nel tempo, per sperimentare. Per me tutto è partito dalla voce della protagonista: quando l'ho sentita parlare per la prima volta nella mia testa, il libro si è praticamente scritto da solo. Il suo sogno di essere Hitler così come le sue fantasie sessuali con lui sono il suo modo di provocare le persone intorno a lei, in questo caso il dottor Seligman e prima di lui il suo terapista Jason. Ma per me come scrittrice sono anche il sistema per prendermi gioco dell'ossessione collettiva che la gente continua a provare per Hitler. E della maniera in cui quelle stesse persone usano Hitler come scusa per i crimini che hanno commesso: potete ancora facilmente trovare documentari della televisione tedesca, ad esempio, in cui la gente afferma cose come E poi Hitler invase la Polonia, invece di dire che l'invasione è avvenuta ad opera dei tedeschi stessi e che un uomo da solo non può invadere una nazione». Fin qui tutto chiaro. C'è da dire tuttavia che la Volckmer (classe 1987, tedesca, vive a Londra e sembra aver molto in comune con la voce narrante di Un cazzo ebreo) non si fa davvero alcuno scrupolo di usare proprio tutte le immagini che le vengono alla mente per rappresentare questo paradosso: sesso e perversione sono in ogni riga, uniti a una stratificata sprezzatura che a tratti si può scambiare per magnetico snobismo - per il genere umano inteso in senso ampio. Si capisce come mai questo esordio, libro dell'anno 2020 per il Times Literary Supplement, sia in corso di traduzione in 12 Paesi, sebbene venga preso con le pinze a partire dal titolo: al momento solo La nave di Teseo ha infatti optato per il titolo voluto dall'autrice, mentre la maggioranza degli editori ha glissato verso il più soft L'appuntamento. «Hitler mi faceva dire il mio nome è Sarah prima di punirmi con il suo possente frustino»; «Dovrei rallegrarmi forse che non mi abbia fatto ricoverare spedendomi in qualche manicomio per essermi inventata dei soprannomi da dare all'uccello di Hitler»; «Mi immaginavo perfino delle brevi pubblicità televisive, con un bambolotto snodato di Hitler in sella a uno di quei cavalli brillantinati, che strappa una fanciulla tedesca dalle mani di un qualche lascivo ebreo e galoppa lontano, verso il tramonto: la razza era sana e salva»: sono solo alcune delle immagini riferibili e riferite al dittatore, che si trasforma nel sogno della protagonista in un uomo da violare e da cui farsi violare, ma anche in un filtro con cui guardare alla propria storia personale e al proprio tempo storico, il nostro: «Non sento di appartenere ad alcuna generazione», ci spiega la Volckmer. «Penso che possiamo parlare solo per noi stessi e sono abbastanza sicura che un sacco di gente in Germania non sarà d'accordo con il mio libro: verrà pubblicato la prossima estate, vedremo. Ma la protagonista, sebbene non la si possa definire una sociopatica, è influenzata sia dalla contemporaneità che dalla storia: soffre per il fatto di essere tedesca e per il senso di colpa che ne deriva, ma affronta anche le battaglie necessarie per vivere in una città come Londra in questa epoca particolare. Lotta per essere felice e riconciliarsi con il suo retaggio culturale, ma anche con il proprio corpo, corpo nel quale non vuole più continuare a vivere. Alcuni trovano volgare che abbia messo insieme Olocausto e sesso nella stessa narrativa. Ma la combinazione di vergogna del corpo e linguaggio, storia e geografia in cui siamo nati era la miscela che volevo esplorare». Naturalmente arrivati in fondo al volumetto è inevitabile ripensare all'appartenenza tedesca e alle eredità della storia che pesano sulle spalle di ormai tre generazioni che non le hanno vissute personalmente, ma a vincere è quella voce che la Volckmer ha inventato e che ci porta a spasso tra fantasie senz'altro estreme ma anche catartiche, che danno modo alla protagonista di rievocare oltre a Hitler, anche il proprio padre, assente ingiustificato, e la propria madre, inquietante dittatrice in questa vicenda, da cui non si sente libera mai, nemmeno quando fa sesso, nemmeno quando ha un orgasmo. Se su questo la Volckmer cerca una riconciliazione attraverso il corpo e il riprendersene piena proprietà, diritti e favori, sulla Storia la questione rimane invece aperta: «Si tratta senza dubbio di un libro su che cosa significhi essere tedeschi e sul modo in cui i tedeschi abbiano fallito nel trattare con il proprio passato. Su come ignorino il neofascismo contemporaneo e su come non sia affatto sicuro indossare una kippah in Germania. E più approfondisci e più ti rendi conto di questa continuità e della mancanza di volontà di riconoscere appieno la colpa. Colpa e vergogna che si trasmettono, da una generazione all'altra».

Di politici, re, chiromanti e stregoni. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 9 ottobre 2021. È dall’alba dei tempi e del primo uomo, Adam Qadmon, che gli abitanti della Terra sono intrigati, e al tempo stesso impauriti, da ciò che non conoscono e non riescono a comprendere. E anche laddove scienza, positivismo, razionalismo e scientismo riescono a imporsi su fede e superstizione, comunque, l’ignoto non perde mai del tutto né fascino né seguaci. Il caso della Repubblica Ceca è eloquente a proposito della presa sempiterna dell’arcano sulle genti. Perché questa piccola nazione, che è la più scristianizzata del Vecchio Continente e tra le più atee del mondo, è un semenzaio di nuovi movimenti religiosi e culti New Age al cui interno prosperano la superstizione e il mercato dell’occulto. Praga e il 21esimo secolo, comunque, non sono né l’unico luogo e né l’unico tempo dove la defenestrazione del Dio abramitico, più che alla capillarizzazione del pensiero ateistico stricto sensu, ha condotto all’entrata in scena di forme nere di magia, esoterismo, misticismo ed occultismo. Perché è dall’Età moderna che le Bibbie vengono sostituite dai Grimori, i preti dai maghi e le croci dai talismani. Sostituzioni che, sin dal Cinquecento, lungi dal riguardare semplicemente l’uomo comune, interessano in maniera speciale i salotti letterari, i caffé filosofici, i circoli aristocratici e le corti dei re.

I condottieri e l’occulto

L’eminenza grigia è il consigliere per antonomasia, una persona che, essendo più realista del re, spesso e volentieri può combaciare con o sovrapporsi ad altre figure simili, quali sono il potere dietro al trono e il grande burattinaio. Ogni capo di Stato che si rispetti ha una o più eminenze grigie: loschi ma preparati figuri, battezzati alle arti sacre della guerra e della diplomazia, che sanno come muoversi nel mondo, che conoscono le leggi del bellum omnium contra omnes e che aiutano i loro re Davide ad affrontare e vincere i Golia di turno. Historia homines docet che cambiano le epoche, differiscono i contesti e mutano i regimi, ma le eminenze grigie sono una costante inamovibile e onnipresente: ieri le hanno avute gli imperatori, oggi le hanno i presidenti. Pragmatici, lungimiranti, geniali e diabolici, questi poteri dietro al trono, a volte, non rispondono al canone comune e stereotipato dello stratega in giacca e cravatta, freddo, calcolatore, razionale e spietato. Al contrario, non sono rari i casi di chiromanti, oracoli, occultisti e maghi, più legati al cielo che alla terra, che hanno sussurrato all’orecchio di re, imperatori, presidenti e dittatori. L’elenco dei condottieri che allo stratega formatosi nelle scuole diplomatiche hanno preferito uno stregone dalle origini nebulose è piuttosto lungo. E questi stregoni, lungi dall’aver provocato la rovina dei loro capi, in alcuni casi hanno cambiato il corso della storia. Tra i più importanti occultisti al servizio del potere si ricordano:

John Dee. Alchimista, cabalista e chiromante, fu il consigliere per la politica estera di Elisabetta I, alla quale suggerì di fondare delle colonie nell’America settentrionale e per la quale delineò un piano per la trasformazione del regno in una talassocrazia transcontinentale basato su espansione della Marina, controllo di isole-chiave e sviluppo del commercio. Fu il coniatore, inoltre, del termine “Impero britannico”.

Cosimo Ruggieri. Astrologo e negromante, fu l’uomo della famiglia De Medici alla corte del re di Francia.

Julia. Chiaroveggente, fu la consigliera di Cristina di Svezia.

Ulrica Arfvidsson. Indovina errante, veniva consultata da Gustavo III prima delle campagne belliche e dell’assunzione di decisioni in materia di politica domestica.

Clotilde-Suzanne Courcelles de Labrousse. Medium, era l’eminenza grigia di Robespierre.

Henrietta Zofia z Puszetów Lullier. Divinatrice francese di stanza a Varsavia, fu la consulente per la politica estera di re Stanislao II Augusto di Polonia.

Grigorij Rasputin. Mistico ortodosso, fu il consigliere privato della famiglia Romanov prima e durante la prima guerra mondiale.

Erik Jan Hanussen. Chiaroveggente e occultista, fu tra i mentori di Adolf Hitler.

Karl Maria Wiligut. Esoterista, fu il precettore di Heinrich Himmler.

Wolf Messing. Veggente e telepata, durante la seconda guerra mondiale fu trasferito segretamente dalla Germania all’Unione Sovietica su ordine di Stalin, del quale diventò confidente.

Il fascino dell’arcano

Da John Dee a Wolf Messing, passando per il celeberrimo Rasputin, sono vari gli elementi che accomunano le eminenze nere: il carisma, l’arrivismo, la previdenza, l’intelligenza superiore, il fascino e l’aura misterica. Elementi che li hanno trasformati in strateghi infallibili e veraci agli occhi di condottieri a volte deboli, come Nicola II, e a volte semplicemente suggestionabili, come Stalin.

Alcuni, come Hitler e Himmler, nell’operato di mistici, veggenti, sensitivi, occultisti e stregoni avrebbero intravisto qualcosa di estremamente utile ai fini del comando e del controllo delle masse. Perché l’arcano, nell’ottica nazista, poteva essere utilizzato per creare una nuova religione, nuovi miti e nuove credenze, e dunque un nuovo popolo. E quell’arcano, difatti, sarebbe stato usato per legittimare la nascita dell’Ahnenerbe, le ricerche esoteriche di Otto Rahn e le adunate orfiche delle SS nel castello di Wewelsburg.

I fatti, anche se è poco noto, avrebbero dato ragione a Hitler. Perché l’internazionale dell’occulto, nel dietro le quinte del palcoscenico mondiale, avrebbe lavorato duramente affinché la causa nazista superasse la prova del fuoco, cioè la seconda guerra mondiale, riscrivendo l’Uomo e il Mondo ad immagine e somiglianza di quelle teorie metafisiche e mefistofeliche propagate dalla scuola esoterica inglese, dall’ariosofia e dalla teosofia. Per quella causa, infatti, avrebbero lottato il negromante più famoso del Novecento, Aleister Crowley, e il gerarca nazista Rudolf Hess, che partì alla volta della Scozia (anche) per convincere la massoneria britannica a facilitare la fine delle ostilità tra Londra e Berlino.

Savitri Devi, la musa del neonazismo. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 9 ottobre 2021. Il nazismo stricto sensu nasce e muore con Adolf Hitler e il Terzo Reich, ma il suo messaggio funereo di cui è stato portatore è sopravvissuto ad entrambi. Perché quel messaggio orrorifico si è rivelato resistente alla Storia, all’Uomo, ed è stato trasmesso di generazione in generazione, fino ad oggi, da pensatori, politici e scrittori.E nel novero di nostalgici di quello che Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo, che è lungo, sfaccettato ed include personaggi come Miguel Serrano, George Lincoln Rockwell e David Irving, va inserita una delle figure più controverse ed eclettiche del secondo Novecento: Savitri Devi.

Le origini

Savitri Devi Mukherji, al secolo Maximiani Julia Portas, è stata una delle figure più intriganti – per quanto controverse – della seconda parte del Novecento. Attivista politica, spia, scrittrice, socialite, occultista, animalista e neonazista; la Devi è stata tutto nel corso dei suoi settantasette anni di vita. Nata in quel di Lione il 30 settembre 1905, la Devi crebbe in un ambiente multiculturale e multietnico – la madre era inglese, il padre era un francese di origini greche ed italiane –, ricevendo un’educazione improntata allo sviluppo della curiosità, allo studio delle scienze, al rispetto per gli animali e al culto dei padri. Non ancora adolescente, la Devi già aveva formulato una propria weltanschauung, arricchendo o togliendo elementi dai valori e dagli insegnamenti ricevuti, che avrebbe mantenuto ed esteso nel corso della vita. Studentessa modello, avrebbe lasciato la città natale soltanto dopo aver conseguito due lauree specialistiche ed un dottorato, combinando studi filosofici e scientifici. L’addio a Lione sarebbe stato seguito da un viaggio alla scoperta delle proprie origini, cioè la Grecia. Qui, nella culla della civiltà europea, la Devi sarebbe stata introdotta agli studi di Heinrich Schliemann sulle svastiche anatoliche, convincendosi del fatto che gli antichi greci appartenessero alla leggendaria razza ariana. E anche lei, di conseguenza, in quanto di origine greca, avrebbe cominciato a credere di essere una degli ultimi ariani.

Il nazismo e la Seconda guerra mondiale

La passione per il mito della razza ariana si sarebbe trasformata in una vera e propria ossessione per la Devi. E quell’ossessione l’avrebbe condotta dapprima a rinunciare alla cittadinanza francese – preferendole quella greca, nazione di ariani –, dipoi ad effettuare un pellegrinaggio pasquale in Terra Santa alla ricerca del “Gesù ariano” ed infine a viaggiare in India – una delle culle degli ariani. Il viaggio nel subcontinente indiano avvenne nel 1932 e si sarebbe concluso con la presunta scoperta della verità. Verità che tutto sarebbe nato qui, tra le terre iraniche, il Tibet e la valle dell’Indo, e che l’induismo sarebbe stato la Via degli ariani. Verità che l’avrebbe persuasa ad abbandonare il proprio nome europeo e a rinascere in Savitri Devi, che in sanscrito significa dea del Sole. E verità che l’avrebbe condotta tra le braccia del Terzo Reich grazie al libro A Warning to the Hindus e alla palese e palesata volontà di dedicarsi alla causa dell’indipendenza indiana. In India, per conto della Germania nazista, la Devi sarebbe stata tante cose: attivista politica per conto dell’Esercito Nazionale Indiano di Subhas Chandra Bose, reclutatrice di soldati per l’Indische Legion e scaltra predatrice di uomini, o meglio di diplomatici britannici, dai quali carpire informazioni utili al fine del sabotaggio dell’impero britannico nell’indosfera. L’amore per l’India e il nazismo sarebbe stato suggellato definitivamente nel 1940, anno del matrimonio con il bramino filonazista Asit Krishna Mukherij. I coniugi Mukherij, a partire da quel momento, avrebbero congiunto gli sforzi, permettendo all’Asse – in particolare ai giapponesi – di portare a compimento una serie di operazioni di successo nell’indosfera. Il nazismo, come è noto, avrebbe perduto la guerra, ma i Mukherij si sarebbero occupati di preservarne il messaggio per i posteri.

La madrina del neonazismo

La Devi avrebbe fatto ritorno in Europa nel secondo dopoguerra, vantando cittadinanza britannica – acquisita con il matrimonio con il bramino – e cominciando a viaggiare da parte a parte del continente, in particolare tra le terre germaniche e la Scandinavia, per ragioni di studio. Arrestata nel 1949 a Düsseldorf, con l’accusa di propaganda nazista, la Devi avrebbe scontato otto mesi presso il carcere di Werl. L’esperienza, lungi dal spaventarla, l’avrebbe convinta ulteriormente della giustezza delle proprie idee. Dietro le sbarre, difatti, avrebbe conosciuto tanti militari nazisti – cioè persone che avevano effettivamente combattuto la Seconda guerra mondiale e vissuto sulla propria pelle il dodicennio hitleriano –, dai quali ebbe modo di conoscere più approfonditamente quell’ideologia che l’aveva affascinata sin dalla gioventù. Dopo alcuni anni di relativa tranquillità, verso la metà degli anni Cinquanta avrebbe rispolverato il proprio attivismo con più solerzia di prima. Nel 1953 un eremitico pellegrinaggio lungo i luoghi simbolo dell’era nazista e della civiltà germanica – esperienza trasposta in libro cinque anni più tardi, Pilgrimage. Nel 1956 la scrittura della sua magnum opus, The Ligthning and the Sun, nota per i contenuti bizzarri relativi alla spiegazione del nazismo – una sorta di katéchon contro il Kali Yuga – e alla natura di Hitler – ritenuto un avatar del dio Vishnu. Nel 1956 un soggiorno egiziano per salutare l’amico Johann von Leers, reinventatosi ideologo antioccidentalista. E nel 1961 un viaggio madrileno per parlare con l’intoccabile Otto Skorzeny – tra i presunti registi della semileggendaria Organizzazione Odessa. Personaggio eclettico, con la fama di mistica e fattucchiera, la Devi, nonostante le idee sostenute e propagandate, negli anni Sessanta si sarebbe trasformata in una socialite, cioè in una frequentatrice dei buoni salotti. Salotti che l’avrebbero portata, tra le varie mete, nella famiglia Dior – diventò amica intima di Françoise, nipote del capostipite Christian. Insegnante e scrittrice, la Devi avrebbe trascorso gli anni Sessanta e Settanta a lavorare ad un obiettivo: l’unificazione dei partiti e dei movimenti nazionalsocialisti sotto un’unica bandiera. È anche a lei che si deve, difatti, la costituzione dell’Unione mondiale dei nazionalsocialisti. Non meno importante, la Devi avrebbe giocato un ruolo determinante anche nella nascita del dibattito negazionista sull’Olocausto. Firma richiesta dai principali partiti nazi-nostalgici dell’epoca – dall’Union Movement di Oswald Mosley al British National Party di Andrew Fountaine, passando per il Partito nazista americano di Rockwell –, la Devi avrebbe ottenuto, per loro tramite, la diffusione globale dei propri lavori sul Mito del ventesimo secolo, diventando la madrina indiscussa del neonazismo. Nel 1982, a causa del deteriorarsi delle proprie condizioni di vita, avrebbe deciso di trasferirsi dall’India all’Europa. Dopo dei brevi trascorsi tra Germania e Francia, sarebbe morta a causa di un arresto cardiaco il 22 ottobre dello stesso anno in casa di un amico, a Sible Hedingham (Essex), mentre era in attesa di partire alla volta degli Stati Uniti per parlare ad un convegno organizzato dal Partito nazista americano. Le sue ceneri, a simboleggiare l’importanza rivestita per l’internazionale neonazista, sono state trasportate dall’Essex ad Arlington, in Virginia, e giustapposte affianco a quelle di Rockwell. Morta e sepolta, come il nazismo prima di lei, le sue idee, per quanto tetre, continuano a vivere e a stregare tutti coloro che sperano in un Quarto Reich.

Storia del “sistema occulto” che favorì l’ascesa di Adolf Hitler. Luca Gallesi su Inside Over l'11 giugno 2021. Tra i vari misteri che ancora aleggiano sul periodo storico che, per poco più di un decennio (1933-1945), vide Adolf Hitler al comando della Germania, rapidamente trasformata in Terzo Reich, il più fitto è l’inspiegabile ascesa di un giovane disoccupato e artista bohémien, che nel giro di pochi anni diventa il capo indiscutibile del Partito Nazionalsocialista e Führer indiscusso di una delle più grandi potenze europee. Il politologo Giorgio Galli, nell’edizione da lui curata del Mein Kampf, l’autobiografia di Hitler, scrive, a proposito della sua giovinezza: “Dal 1909 al 1912, a Vienna, il giovane Hitler vive una precaria esistenza di artista mancato. Per la seconda volta non viene ammesso all’Accademia delle arti figurative. Alloggia in ostelli e dormitori pubblici, e integra l’esigua pensione di orfano smerciando i suoi dipinti e disegni. È un giovane chiuso, introverso e dall’incerta personalità. Legge la stampa pangermanista, ammira il borgomastro antisemita Karl Lueger, si avvicina agli ideali tedesco-nazionali. Intanto si sottrae agli obblighi del servizio militare non iscrivendosi nelle liste di leva.” Come abbia fatto uno spiantato vagabondo a diventare uno degli uomini più potenti della Storia può essere chiarito, sempre secondo Galli, solo approfondendo il suo rapporto con quello che possiamo chiamare il “sistema occulto“, ovvero quella corrente di pensiero antirazionalista, antilluminista, non ortodossa che, a tratti, emerge nella storia dell’umanità, influenzando uomini e idee. Si badi bene, però, sottolinea sempre Galli, a non confondere, semplificando eccessivamente, la presenza di idee eterodosse nelle vicende politiche e nelle realtà umane con il complottismo becero, che teorizza l’esistenza di società segrete che dirigono da dietro le quinte il corso della storia.  I “poteri occulti” sono molto meno occulti e soprattutto meno potenti dei veri poteri reali, che agiscono alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti. Tornando al futuro Führer, la sua repentina trasformazione da artista fallito a invincibile leader politico è giustificata, sempre secondo il noto politologo, dall’incontro, all’inizio degli Anni Venti, con gli ambienti esoterici della Società Thule (Thule Gesellschaft) punto di riferimento per gli ambienti esoterici, per le correnti antisemite e per i movimenti völkisch, un circolo organizzato come una loggia. Tra i membri del sodalizio segreto, troviamo tra gli altri, ancora studenti, alcuni tra i futuri massimi dirigenti del Terzo Reich: Rudolf Hess, Alfred Rosenberg e Hans Frank, tutti finiti alla sbarra a Norimberga, il primo condannato a vita e gli altri due a morte. La Società Thule era una branca del Germanen Orden, un gruppo antisemita ariano guidato da Rudolph von Sebottendorff, uno sradicato appassionato di astrologia e di occultismo, che sosteneva di ricevere ordini e istruzioni da non meglio identificati maestri segreti tibetani, discendenti degli antichi Atlantidei che ancora esercitavano il dominio sul mondo in qualche località irraggiungibile, sulle vette himalaiane. Secondo Giorgio Galli, è proprio grazie a questo ambiente, permeato di cultura esoterica, che Hitler si convince di essere il prescelto dalla dottrina segreta per compiere la missione di rifare la Germania creando una patria ariana che sarà la base per la rifondazione dell’intero universo, antitetico a quello cristiano. Scrive, infatti, sempre nel Mein Kampf: “Noi ci rivolgiamo a quelli che adorano non il denaro, ma altri Dei, ai quali votano la loro esistenza. Un giorno l’uomo tornerà a inchinarsi ad altre divinità. Solo un appello a queste stesse misteriose forze può giovare. Il comandamento che si presenta è quello di porre fine al peccato originale, tuttora operante, dell’avvelenamento della razza, per ridonare all’onnipotente Creatore esseri quali egli stesso creò”. Una volta acquisita la sapienza segreta e soprattutto investito del carisma necessario per compiere la missione, è necessario che Hitler, per passare dalle sette segrete al partito di massa, nasconda o comunque mascheri le tracce di un passato, quello esoterico, che avrebbe potuto intralciare la conquista del potere. Lo scrive esplicitamente, sempre nel Mein Kampf: “Non è possibile costruire un’organizzazione alquanto vasta e al tempo stesso tenerla segreta. Noi avevamo e abbiamo bisogno non di cento o duecento audaci congiurati, ma di centinaia di migliaia di fanatici combattenti. Questa considerazione mi indusse a vietare la partecipazione a società segrete. Quando un movimento si propone di disfare un mondo e di crearne un altro in sua vece, i suoi dirigenti devono avere perfetta conoscenza di queste leggi fondamentali: ogni movimento deve vagliare il materiale umano da lui raccolto e spartirlo in due gruppi, partigiani e membri effettivi”. In realtà, come abbiamo visto nel precedente articolo dedicato al misterioso caso di Hess, non a tutti fu interdetta la frequentazione di società segrete, e, all’interno dell’élite nazionalsocialista ci fu anche l’esperimento, riuscito, di creare “migliaia di fanatici combattenti” strutturati esattamente come una società segreta: le SS di Himmler, un altro esponente di primissimo piano della cerchia hitleriana, a suo modo imbevuto di esoterismo. Cattolico, ma convinto di essere la reincarnazione di Enrico l’Uccellatore, (876-936) Duca di Sassonia e Re di Germania, Heinrich Himmler sostanzialmente inventò le SS, che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto essere un Ordine mistico di combattenti e di credenti, nato per diffondere e difendere l’ideale ariano in tutto il mondo. A tale scopo, elaborò suggestivi rituali, con tanto di calendario germanico e precise regole di vita monastiche. Utilizzò un alfabeto magico, quello runico, e fece costruire, in antichi castelli, scuole segrete di formazione a cui erano ammessi solo i più selezionati membri dell’Ordine. Tra le tante attività, oltre a quella criminale di gestione dei campi di concentramento, per le quali sono diventate tristemente famose, le SS disponevano, grazie a risorse e mezzi pressoché illimitati, anche di un’organizzazione scientifica, la Deutsches Ahnenerbe, un istituto che finanziò spedizioni in tutto il mondo alla ricerca delle sorgenti occulte del potere. Furono infatti organizzate missioni in Finlandia (1935), per documentare le attività di maghi e streghe ancora attivi nella zona al confine con la Russia; viaggi archeologici in Svezia (1936) per studiare le antichissime incisioni rupestri ivi scoperte; e, dal 1937 sino alla fine della guerra ci fu un susseguirsi di spedizioni scientifiche in tutti i continenti: in Italia, da Bolzano a Cosenza alla Val Camonica; nel Vicino Oriente,  fino a Bagdad; in Perù, poi ancora in Nord Europa e soprattutto in Asia. La meta preferita era il Tibet, dove furono ben cinque le missioni delle SS, organizzate per scopi alpinistici, per ragioni etnologiche, per obiettivi politici ma soprattutto per finalità esoteriche, come la ricerca della mitica Agarthi, il regno sotterraneo dove ebbe origine, secondo miti e leggende accreditati come verità scientifiche, la razza ariana. Di quelle spedizioni, oltre ai filmati originali reperibili in Rete, rimangono suggestioni “nazioccultiste” che hanno ispirato alcuni videogiochi e vari film, anche di successo, come un paio di avventure di Indiana Jones, I predatori dell’arca perduta e L’ultima crociata, e, tra gli altri, una pellicola del 2003, Il Monaco, dove il protagonista è, appunto un vecchio nazista alla ricerca di una formula magica custodita in un monastero tibetano. Alle pellicole non di fantasia, invece, appartiene il blockbuster Sette anni in Tibet, storia vera delle avventure dell’ufficiale SS Heinrich Harrer, impersonato da Brad Pitt, che riuscì a fuggire nel 1944 da un campo di concentramento britannico ai piedi dell’Himalaya per accasarsi addirittura dal Dalai Lama, allora adolescente. Tra i retaggi del nazismo magico, finito in modo tragico tra le fiamme della Berlino in macerie del 1945 o sulle forche alleate di Norimberga nel 1946, sopravvive dunque, ironia della sorte, una dimensione kitsch, presente soprattutto in molti film di serie B, come i nazisti sulla Luna di Iron Sky, o le SS-zombie di Dead Snow o addirittura, il ritorno delle teorie sulla terra cava proprie della Thule Gesellschaft riprese letteralmente nel grottesco e recentissimo Godzilla contro Kong, dove si giustifica il ritorno sulla Terra dei mostri preistorici proprio grazie alla teoria pseudoscientifica della Terra vuota, uno spazio sotto la crosta terrestre dove vivrebbero ancora animali e piante di un’era preumana.

Guerre e società segrete: quel fondamento esoterico dietro al nazionalsocialismo. Luca Gallesi su Indide Over il 9 giugno 2021. Era il 1960 quando in Francia, presso l’autorevole editore Gallimard, uscì un libro dal titolo curioso: Le matin des magicien, scritto a quattro mani da Louis Pauwels, un ex-discepolo di G.I. Gurdjeff dalle idee reazionarie, e uno scienziato e scrittore comunista, Jacques Bergier. Il saggio, che divenne rapidamente un best-seller, tradotto in italiano nel 1963 da Mondadori col titolo Il mattino dei maghi, miscelava sapientemente dati oggettivi e suggestioni fantastiche, ipotizzando una convergenza delle nuove scoperte scientifiche con le antiche sapienze occulte. Sergio Solmi, nella prefazione all’edizione italiana, elogiava il libro che offriva, “attraverso un’esposizione lucida, varia e appassionata, il materiale più affascinante che possano tenere per noi in serbo questi anni di ardua e preoccupante trasformazione tecnica e sociale”. In un’epoca, l’inizio degli anni Sessanta, in cui cominciava a delinearsi il sostanziale dominio di una concezione materialistica della società e la visione deterministica della Storia, Il mattino dei maghi rimetteva in gioco l’idea che le forze operanti nello sviluppo dell’umanità non fossero quelle dei rapporti di produzione o dello scontro dialettico tra classi sociali, bensì quelle più sottili, i poteri che agiscono dietro le quinte, espressione di principi non visibili ma assolutamente reali; per intenderci, l’occultismo e la magia che, secondo le parole di Solmi, “non sarebbero ormai più soltanto segreti perduti, ma i preannunci che le età remote mandano fino a noi delle palingenesi future”. Parole problematiche, che rimandano a un libro facilissimo da leggere, difficile da capire e decisamente arduo da condividere in toto. In mezzo alle vite e opere di moderni alchimisti e arcani mistagoghi, passando con nonchalance dalle civiltà scomparse dell’antichità agli scrittori contemporanei di fantascienza, Pauwels e Bergier accompagnano – a volte trascinandolo- il lettore in un turbinio di universi lontani passati e futuri, tra mondi paralleli e dimensioni fantastiche che, a più di mezzo secolo, mantengono intatto il fascino della lettura, anche quando i contenuti sono diventati irrimediabilmente superati, quando non definitivamente screditati. La realtà virtuale che domina l’inizio del terzo millennio ha rapidamente fatto piazza pulita del ciarpame spiritista e occultista che, ancora a metà del Novecento, poteva mantenere una sembianza di credibilità, ormai definitivamente declinata tranne che per un singolo argomento, che dilaga anche, e soprattutto, nella Rete: il “nazismo magico”. Parliamo quindi dei legami, indiscutibili anche se spesso enfatizzati, tra il nazionalsocialismo e le scienze occulte, argomento centrale del Mattino dei Maghi, come scrisse il politologo Giorgio Galli, che proprio grazie a questo libro cominciò a studiare quello che sarebbe diventato il prolifico filone dell’esoterismo nazionalsocialista, a cui l’illustre politologo dedicò parecchi libri. Galli cominciò allora, proprio grazie a Pauwels e Bergier, a realizzare che la sapienza occulta poteva aiutarlo a capire la Storia, perché l’esoterismo, “dimora dentro la Storia e non fuori, arrivando sovente ad esercitare un’influenza non secondaria su di essa”. Centrale, nell’indagine di Galli nella dimensione nascosta della storia, il riferimento all’esistenza di una cultura esoterica (letteralmente: riservata a pochi) che, dalle profondità della storia dell’Occidente, riemergeva, in Europa e soprattutto in Germania, nel pieno rigoglio scientifico del XX secolo. Una presenza che permette di spiegare il percorso seguito da Hitler e da una parte dell’élite nazionalsocialista lungo tutta la “seconda Guerra dei trent’anni”, come Galli chiama il periodo della storia europea che va dal 1914 al 1945. Dietro i tragici avvenimenti che insanguinarono il Vecchio continente nella prima metà del Novecento, come romanzato prima da Pauwels e Bergier e poi studiato scientificamente da storici come René Alleau e Nicholas Goodrich Clarke, ci sono, anche, gli influssi esercitati dalle molteplici e attivissime società segrete, operanti in tutta Europa, a cui erano affiliati numerosi membri del governo tedesco e del gabinetto reale britannico. Sul suolo tedesco la realtà dominante era la Società Thule (Thule-Gesellschaft), mentre nel Regno Unito era attivissima la Golden Dawn (Hermetic Order of The Golden Dawn). La Golden Dawn era stata fondata nel 1887 da Mc Gregor Mathers, Woodman e Wynn Westcott, e si proponeva di approfondire la magia cerimoniale per raggiungere, tramite le conoscenze iniziatiche, lo sviluppo di poteri sovrannaturali. Tra i soci più famosi, tanto per dare un’idea dell’importanza del sodalizio, troviamo W.B. Yeats, Arthur Machen, Aleister Crowley, probabilmente Bram Stoker, e molti altri intellettuali e scienziati di punta dell’intellighenzia britannica. Della Società Thule, invece, furono membri attivi più uomini politici che gli intellettuali, o meglio, dei politici con interessi intellettuali, come il “Vicario” di Hitler, Rudolf Hess, il governatore nazionalsocialista della Polonia Hans Frank, il teorico della geopolitica, prof. Karl Haushofer e il principale teorico del nazionalsocialismo Alfred Rosenberg, tutte persone che appartenevano alla ristretta cerchia del futuro Führer, personaggio certamente non alieno da simpatie e interessi “occulti”, che spesso influenzarono la sua azione politica. Qui, complice una produzione libraria sconfinata e spesso inattendibile, diventa labile il confine tra storia e fantasia, ma, come scrive Giorgio Galli, possiamo affermare senza tema di smentita che “Hitler è il portavoce di un gruppo di intellettuali formatosi nella dimestichezza con la cultura occulta”. Come e quanto questa “sapienza segreta” abbia effettivamente agito nelle scelte del Cancelliere tedesco è arduo da definire esattamente. Si può, comunque, supporre che molte delle scelte fatte durante il periodo 1939-1945 non siano riconducibili a delle motivazioni razionali: dall’inspiegabile “tregua” concessa agli inglesi a Dunkerque, alla scelta suicida della guerra sui due fronti a oriente e occidente, fino alla spasmodica attesa di misteriose armi finali che avrebbero capovolto l’inevitabile drammatica fine della Germania, siamo nel campo delle decisioni irrevocabili e irrazionali, che hanno avuto spaventose e sanguinose conseguenze così che, nel corso di due guerre mondiali e con un immane sacrificio di vite umane, siamo passati dal “Mattino dei maghi” al “Tramonto dell’Occidente”.

Tra sette segrete ed esoterismo: il volto nascosto di Hitler. Dietro all'ascesa al potere del Führer importanti movimenti esoterici. E anche autori insospettabili...Matteo Carnieletto, Lunedì 04/01/2021 su Il Giornale. Nel 1792 la Rivoluzione francese ha raggiunto il suo culmine. In Europa sta nascendo un nuovo ordine e l'ancien regime sembra ormai un lontano ricordo. Sono, quelli, anni strani. Non solo per la politica ma anche per l'arte. Proprio in quel periodo, infatti, l'artista spagnolo Francisco Goya viene colpito da una strana malattia, "la cui natura però ci è ignota", scrive lo storico dell'arte Hans Sedlmayr ne La perdita del centro (Borla, 1967). Non è l'unico, però. "Siamo nei decenni" - prosegue l'autore austriaco - "in cui molti artisti vengono posseduti da forze demoniache". Goya è costretto a stare a letto per quasi un anno, paralizzato e continuamente tormentato da disturbi visivi. Uscito da questo inferno, dipingerà i "Sogni". I volti dei suoi personaggi si deformano. Non sono più uomini, ma demoni. "Nelle visioni dei 'Sogni' e dei 'Proverbi' compaiono tutte le deviazioni dell'elemento umano e gli attentati all'uomo e alla sua dignità; dèmoni in forme umane e, accanto ad essi, dèmoni allucinati di ogni specie: mostri, spettri, streghe, giganti, animali, lemuri, vampiri", nota Sedlmayr. È proprio in quegli anni che riemergono incubi e teorie che si pensava fossero terminati nel Rinascimento e che, come nota James Webb ne Il sistema occulto (Iduna, 2019), ritornano alla luce e hanno il loro culmine nel periodo che va dalla sconfitta di Napoleone (1815) al 1848. Per Webb sono infatti tre le grandi "esplosioni di irrazionalità" nella storia dell'uomo: "'La crisi idell'anno zero', che denota il periodo sia precedente che successivo alla nascita di Cristo, quando un'ondata di speculazione magica sovrastò le conquiste del razionalismo grecco", quella "del "Rinascimento e della Riforma" e si riferisce al riemergere dell'irrazionale dopo il collasso della sintesi medievale" e, infine, quella che emerge tra il XIX e il XX secolo. Ed è proprio seguendo queste crisi, che Giorgio Galli ha investigato le radici occulte del nazismo. In Hitler e l'esoterismo (Oaks editrice), il celebre politologo da poco scomparso sostiene infatti che l'esoterismo del Führer "comprende elementi molto anteriori al cristianesimo, quali la stessa dottrina occulta del Terzo regno, anticipazione del Terzo Reich". L'esoterismo dei circoli che formeranno Hitler si forma infatti con "Clemente Alessandrino il quale, negli Stromati, propone una lettura criptica dei Vangeli che, attraverso il misticismo e le mistiche (come Margherita Porete), giunge alla Società Thule. (...) Qui si formano, appunto, in questa cultura esoterica, gli ufficiali aristocratici che, attorno e con la guida di Von Stauffenberg, prima aiutano Hitler a giungere al potere e poi cercano di elminarlo (luglio 1944) quando la 'sua' guerra sta portando alla rovina il loro Terzo Regno (Terzo Reich), pensato millenario, che sperano di salvare mediante un'intesa con loro omologhi (aristocratici esosteristi) vicini alla Corte inglese coi quali Hess aveva cercato di prendere contatto sin da maggio 1941". Nella prefazione a libro di Lord Beaverbrook, Un nazista sul trono d'Inghilterra (Oaks editrice), Galli nota infatti che molto probabilmente Edoardo VIII, il sovrano britannico affascinato dal Führer, potesse "essere il punto di riferimento di circoli della tradizione esoterica collegati a quelli del Terzo Reich (Wally Simpson era un'esperta di magia sessuale, 'magia rossa', e un rapporto dei servizi segreti inglesi informava che Edoardo seguiva una terapia con Alexander Cannon, occultista ed esperto di magia nera". La rete esoterica che aveva sostenuto Hitler (per poi scaricarlo) era infatti molto più ampia di quanto si potesse pensare e superava i confini nazionali. L'Operazione Valchiria, ovvero il tentativo del 20 luglio del 1944 per eliminare Hitler e avviare un colpo di Stato in grado di salvare la Germania, "ha pieno successo (con l'arresto del vertice delle SS) solo a Parigi, ove sono contemporaneamente presenti Gurdjieff, Pauwels, Jünger (tra gli ispiratori del complotto) e i collaboratori di Rosenberg". Tutti e quattro sono importanti esoteristi. Gurdjieff, nota Galli, "è un autentico maestro dell'esoterico, e non un ciarlatano, ma opera nella nascente società dello spettacolo"; Pauwels scrive, "da un punto di vista occulto", Il mattino dei maghi in cui sostiene che Hitler fosse mosso da idee "eccentricamente mistiche e cosmologiche"; Jünger scriverà Le scogliere di marmo per cercare di evitare la guerra con la Gran Bretagna; Rosemberg non solo è uno dei motori del nazionalsocialismo, ma anche uno dei sostenitori del "'partito esoterico della pace, quel settore del vertice nazionalsocialista che voleva evitare la guerra, perché la temeva su due fronti". All'interno del Reich, dunque, non era solo Hitler a muovere i fili. Il Führer, però, sentiva di essere guidato da un destino superiore. Aveva la certezza di rispondere a un ordine più alto, dove magia e occultismo si mescolavano. Per creare uno dei più grandi demoni del XX secolo.

24 giugno 1922, le vere radici del nazismo.  Emanuel Pietrobon su Inside Over il 23 giugno 2021. È fatto noto e acclarato che i semi della parabola fulminea e funerea di Adolf Hitler siano stati gettati inconsapevolmente a Versailles nel 1919, quando le potenze vincitrici scaricarono su una comatosa Germania l’intero (e antistorico) peso dello scoppio della Grande Guerra. Privata dell’impero coloniale, derubata di porzioni significative e strategiche del proprio territorio europeo, coartata al pagamento di riparazioni bancarottesche e sottoposta ad altri supplizi, la nazione tedesca, alcuni anni più tardi, avrebbe cercato la rivalsa cedendo alle lusinghe del nazismo e venendo rapita dal carisma travolgente del suo facondo Führer. Eletto al cancellierato nel 1933, Hitler avrebbe fatto del Judenhass il motivo conduttore dell’esistenza propria e della nuova Germania, che, nei suoi sogni, avrebbe dovuto durare un millennio. L’epopea nazista non avrebbe superato i dodici anni, perché sepolta dalla Seconda guerra mondiale, ma quel breve tempo le sarebbe bastato per cambiare per sempre il corso della storia dei popoli e delle relazioni internazionali. Passano gli anni, ma la domanda che tormenta gli storici rimane la stessa: la terrifica ascesa di Hitler avrebbe potuto essere predetta dai suoi contemporanei? Probabilmente sì. Perché nel 1933 i tedeschi non elessero un volto nuovo della politica, ma il regista di un tentato colpo di Stato, il celebre Putsch della birreria (Bürgerbräu-Putsch) del 1923, e l’autore di un corposo e dettagliato manifesto politico, il Mein Kampf. Ma prima ancora che il giovane Hitler si dedicasse al golpismo e alla scrittura, qualcosa di profetico accadde nella turbolenta Germania di Weimar. Un presagio funesto di ciò che sarebbe successo nella decade successiva: l’assassinio di Walther Rathenau.

Rathenau, il patriota incompreso. Walther Rathenau nacque a Berlino il 29 settembre 1867 da Emil Rathenau e Mathilde Nachmann. Il padre, Emil, era uno dei più noti imprenditori elettromeccanici dell’epoca – fondatore dell’AEG, gigante mondiale della metalmeccanica e dell’elettronica attivo fino al 1996 –, nonché uno dei più ricchi ed influenti ebrei di Germania. Vani i tentativi di Emil di iniziare Walther agli affari di famiglia e allevarlo al culto degli antenati (l’ebraismo): terminato il ciclo di studi universitari, centrati sulle scienze e sulla fisica, e dedicati alcuni anni all’internazionalizzazione dell’ascendente marchio AEG, il giovane Rathenau si sarebbe dato alla politica, sua vera e grande passione, coerentemente con il credo laico e patriottico manifestato sin dalla giovinezza. Entrato nelle stanze dei bottoni agli albori della grande guerra, ovvero nell’estate 1914, Rathenau avrebbe fatto il possibile per evitare la disfatta dell’impero tedesco. Sua fu, ad esempio, l’idea di istituire il KRA (acronimo di Kriegsrohstoffabteilung), un dipartimento del ministero della Guerra adibito all’immagazzinamento preventivo dei beni a rischio embargo, al reperimento nell’estero vicino di materiale utile alla produzione bellica, allo stabilimento dei prezzi dei beni-chiave per le industrie strategiche e alla supervisione della produzione di beni succedanei. Come è noto, Berlino perse il conflitto, ma gli sforzi di Rathenau furono ricompensati dalla dirigenza della neonata Repubblica di Weimar. Dapprima avvicinato dalle alte sfere per suggerimenti in merito alla formulazione di una politica economica che potesse soddisfare simultaneamente le esigenze interne (la distruzione dell’apparato produttivo) e quelle esterne (i danni di guerra), in seguito gli sarebbe stato afffidato il fascicolo più sensibile: lo stabilimento di rapporti segreti con l’Unione Sovietica ai fini del riarmamento e dell’apertura ad Est del mercato tedesco. Sullo sfondo del coinvolgimento negli affari di Stato, Rathenau avrebbe lavorato per conto proprio all’efficientamento della realtà imprenditoriale tedesca, da lui ritenuta poco propensa all’innovazione e debole in fatto di internazionalizzazione, fondando la Lega per l’industria nel 1919. Patriottico, più che nazionalista, Rathenau fu tra i fondatori del Partito Democratico Tedesco (DDP, Deutsche Demokratische Partei), dal quale si sarebbe presto allontanato, e figurò nell’elenco dei “grandi preoccupati” per il destino della Germania, secondo lui diretta, causa guerra e malagestione del postguerra, verso una progressiva e deleteria estremizzazione in blocchi contrapposti.

L’assassinio. L’omicidio di Rathenau non sarebbe maturato nel contesto della tremenda crisi economico-finanziaria della Repubblica di Weimar – i cui vertici, tra l’altro, non ascoltarono i suggerimenti proposti dall’uomo in materia di ristrutturazione del mercato interno e ripensamento del modus operandi del sistema produttivo nazionale in direzione della razionalizzazione dei processi e della socializzazione dei mezzi di produzione –, ma in quello dell’albeggiante e germinale sottobosco nazista, composto da una miriade di sette fratellanze paramassoniche, società segrete e organizzazioni politiche. Investito dal governo del prestigioso titolo di capo del ministero degli Esteri, il 16 aprile 1922, dopo un anno di trattative sottobanco, Rathenau riuscì a posare la prima pietra del patto tedesco-sovietico: il trattato di Rapallo. Vero e proprio capolavoro dell’arte diplomatica, il trattato avrebbe permesso a Berlino, in cambio della rinuncia ad ogni richiesta di indennizzo di guerra e di risarcimento per gli espropri effettuati dai comunisti, di raggiungere tre importanti obiettivi:

L’allontanamento dalla condizione di isolamento a livello internazionale a mezzo dello stabilimento di relazioni bilaterali ufficiali con l’Unione Sovietica.

L’appianamento, anche se superficiale e temporaneo, della crisi economica attraverso l’agganciamento del mercato tedesco a quello sovietico: complementari per natura ed egualmente bisognosi di boccate d’aria.

L’avvio di un’ascosa rimilitarizzazione sul territorio sovietico, lontana dagli occhi indiscreti delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale e inclusiva della possibilità di effettuare sperimentazioni belliche e ottenere tecnologia militare.

L’ultimo punto, accuratamente eliminato dalla versione presentata al pubblico, si sarebbe rivelato determinante negli anni a venire, come dimostrato dalla rapida corsa alle armi della Germania nazista. I posteri avrebbero ringraziato Rathenau per il trattato di Rapallo, ma una parte dei contemporanei, letto il contenuto – privo del punto numero tre – e avendo a mente le origini del ministro, gli avrebbe assegnato un significato squisitamente negativo, ritenendolo l’evidenza lapalissiana di un complotto giudaico-bolscevico teso alla sottomissione del popolo tedesco al comunismo.

Il trattato di Rapallo sarebbe costato la vita a Rathenau, il patriota incompreso. Il 24 giugno, a poco più di due mesi dalla firma del documento, il ministro degli esteri tedesco fu ucciso nel corso di un agguato a colpi di mitra e granate condotto da Ernst Werner Techow, Erwin Kern e Hermann Fischer. La verità emerse rapidamente: i tre avevano ricevuto l’ordine di uccidere da un gruppo terroristico noto come Organizzazione Consul (Organisation Consul), che solo un anno prima aveva rivendicato l’omicidio del ministro delle finanze Matthias Erzberger. Poco si sa di questa organizzazione terroristica, a parte che fosse ferocemente giudeofobica, che fosse composta principalmente da reduci di guerra e che anelasse a trascinare la nazione nel caos attraverso gli omicidi di personalità prominenti della politica. L’obiettivo dell’Organizzazione Consul, sostengono gli storici, sarebbe stato quello di gettare la Germania nella guerra civile e profittare delle violenze per consumare un colpo di Stato. Non avrebbero mai raggiunto il loro scopo, perché rapidamente sgominati all’indomani dell’omicidio di Rathenau, ma dieci anni più tardi qualcun altro avrebbe raccolto il loro scettro, utilizzando lo stesso repertorio propagandistico – dai Protocolli dei Savi di Sion al complotto giudaico-bolscevico – ed una violenza persino maggiore: Adolf Hitler.

La storia dietro al legame tra l’esoterismo e le SS. Luca Gallesi su Inside Over il 20 giugno 2021. Nel secondo volume della sua trilogia dedicata al “nazismo magico”, Hitler e la cultura occulta (Rizzoli 2013), Giorgio Galli affronta il tema dell’esoterismo delle SS, argomento tra i più gettonati dai ciarlatani dell’occulto per l’indubbio fascino esercitato sugli amanti del macabro e dei misteri prêt-à-porter. Chincaglierie nazi-occultiste a parte, restano dei fatti e delle persone che, oggettivamente, hanno creato i filoni di pensiero che costituiscono l’epopea razzista del corpo d’élite hitleriano. La più famosa missione “esoterica” delle SS, accanto alle già menzionate –in un precedente articolo– spedizioni in Tibet, resta quella di Otto Rahn, studioso dei trovatori provenzali e membro delle SS, che ritenne di identificare il mito del Graal con la tragica storia dei Catari, la cui avventura finì stroncata nel sangue nel Castello di Montségur. La fortezza, che si trova nella regione dei Midi-Pirenei, nel 1243 fu cinta d’assedio per quasi un anno dalle forze crociate che volevano estirpare una volta per tutte l’eresia degli albigesi, così come chiesto da papa Innocenzo III. Secondo Otto Rahn, che pubblicò il resoconto del suo viaggio e i risultati delle sue ricerche in due libri disponibili anche in italiano (Crociata contro il Graal  e La corte di Lucifero, Società Editrice Barbarossa/AGA), gli eretici erano stati gli ultimi custodi del Sacro Graal, il misterioso oggetto che, forse, fu la coppa dove, secondo la leggenda, era stato raccolto il sangue di Gesù oppure, secondo altre versioni, lo smeraldo incastonato sulla corona di Lucifero, prima che l’angelo più bello si ribellasse al suo Creatore. Nel suo libro, Rahn racconta così le origini del mito del Graal secondo la versione degli eretici: “Al tempo in cui le mura di Montsegur erano ancora in piedi, i Catari tennero qui il Sacro Graal. Montsegur era in pericolo. Le armate di Lucifero lo accerchiavano. Volevano il Graal, per rimetterlo sul diadema del loro Principe dal quale si staccò durante la caduta dei suoi angeli sulla Terra. Allora, nel momento più critico, discese dal cielo una colomba bianca, la quale spaccò col suo becco il Tabor (Montsegur) in due. Esclarmonda, che era la custode del Graal, gettò il gioiello sacro nelle profondità della montagna, che si rinchiuse su sé stessa, ed in questa maniera il Graal fu salvato”. Il Graal non fu trovato, ma le ricerche di Otto Rahn continuarono, anche se non si sa nulla delle nuove scoperte, da lui annunciate ma mai svelate, anche perché, enigma su enigma, nel 1939 morì misteriosamente sulle Alpi. Il 18 maggio 1939, sul quotidiano nazionalsocialista “Völkischer Beobachter” pubblicava l’annuncio della sua scomparsa: “Durante  una tempesta di neve in montagna, nello scorso marzo, ha perduto tragicamente la vita l’Obersturmführer delle SS Otto Rahn. Ricordando questo defunto camerata, ci dogliamo della perdita di un onesto ufficiale delle SS nonché autore di eccellenti opere storiche.” La misteriosa morte di Otto Rahn non segna, però, le fine dell’interesse delle SS per l’eresia catara. Come ricorda Giorgio Galli, sono molte le opere che tracciano un collegamento tra i Catari e il nazionalsocialismo, e ci sono indizi che confermerebbero la prosecuzione di ricerche e addirittura la celebrazione di riti a Montsegur ancora nel 1943-1944, grazie all’interessamento, se non addirittura alla partecipazione, di Himmler e Rosenberg,  che si intrecciano, continua Galli, con “la magia delle rune indagata da von List, e l’esistenza di una storia umana dimenticata, con le tracce delle sue civiltà scomparse, con echi di Steiner e di Helena Petrovna Blavatsky”. Il tutto, sapientemente miscelato con le più suggestive tradizioni cavalleresche germaniche, che furono da Himmler abilmente riprese e coniugate in una nuova versione nazionalsocialista, che pretendeva di innestarsi, anche figurativamente, sulle antiche saghe tedesche. Racconta bene un ricercatore indipendente, Gianfranco Drioli, autore di un saggio, Ahnenerbe. Appunti su scienza e magia del Nazionalsocialismo (Ritter), che i candidati a entrare nelle SS seguivano le regole di un Ordine religioso o militare: “Come nel Medioevo i cavalieri ricevevano la spada nel momento dell’investitura, così gli SS ricevevano la loro daga, sulla cui lama era inciso il motto delle SS: Meine Ehre heisst Treue (Il mio onore si chiama fedeltà). Nella cerchia più vicina a Himmler c’erano dodici gerarchi, i più alti ufficiali delle SS, che si riunivano nel castello di Wewelsburg, il centro dell’universo del nuovo ordine (nero) mondiale, sia sotto il profilo militare sia sotto quello esoterico-religioso”. Wewelsburg, infatti, presentava innanzitutto una curiosità architettonica: era costruito, a forma di freccia, secondo l’asse Nord-Sud, invece del più consueto Est-Ovest, e nella torre nord furono costruite ad hoc delle stanze ricche di motivi mistico – esoterici, tra cui una sala per i suddetti dodici ufficiali SS e una cripta dove sarebbero state riposte le loro ceneri dopo la morte. I piani di ristrutturazione del maniero furono interrotti dall’avanzate delle truppe americane. Prima, però, che i fanti della 3° Divisione U.S.A. raggiungessero Wewelsburg, Himmler ordinò ai difensori, che si erano trincerati dietro le ampie mura, di bruciare il castello perché non cadesse nelle mani del nemico. I pochi soldati che si arresero agli americano furono fatti prigionieri e sbrigativamente passati per le armi. Finita la tragedia, cala la quiete sull’antico maniero. Ironia della sorte, oggi, la sede dell’élite dell’Ordine nero ospita un ostello della gioventù internazionale, e, al posto degli archivi dell’Ahnenerbe, è sorto un museo dedicato ai crimini di guerra compiuti dai tedeschi.

Storia di Karl Maria Wiligut, il Rasputin di Himmler. Luca Gallesi su Inside Over il 20 giugno 2021. Tra gli aspetti più misteriosi del cosiddetto “esoterismo nazista” studiati da Giorgio Galli nella trilogia dedicata a questo argomento (Hitler e il nazismo magico, Rizzoli 1989, Hitler e la cultura occulta BUR 2013, Hitler e l’esoterismo, OAKS 2020), troviamo le gesta di personaggi poco considerati dalla storiografia ufficiale, che però giocarono, apparentemente, un ruolo tutt’altro che secondario nel breve periodo in cui la Germania fu governata dalla dittatura hitleriana. Un alto ufficiale delle SS, tanto importante quanto sconosciuto, ad esempio, fu Karl Maria Wiligut, più noto come Weisthor, secondo Galli uno dei semi-sconosciuti “maestri” occulti che gestirono un grande potere dietro le quinte. Nato a Vienna nel 1866, eroe della Prima guerra mondiale, Wiligut si congeda dall’esercito austriaco col grado di colonnello, ed entra rapidamente in contatto con le più importanti associazioni esoteriche nazionaliste del tempo, come l’Edda Gesellschaft di Gorsleben e l’Ordo Novi Templi dell’abate Lanz von Liebenfels. Nel 1932 si trasferisce in Germania, a Monaco, dove, rafforzando i suoi legami con i circoli esoterici, conosce Heinrich Himmler, entra nelle SS e diventa rapidamente un influente membro della sua cerchia ristretta con lo pseudonimo, appunto di Karl Maria Weisthor. Uno studioso e ricercatore italiano, Marco Zagni, ha pubblicato due libri dedicati alla cultura esoterica delle SS: Gli archeologi di Himmler (Ritter) e La svastica e la runa (Mursia), dove ricorda che: “Ancora 30-35 anni fa la figura di Karl Maria Wiligut “Weisthor” era praticamente sconosciuta dagli storici e da gran parte del mondo tedesco sotto il nazismo e dalla maggioranza delle stesse SS. Si definiva uno studioso dei lati oscuri e nascosti della storia del mondo e in particolare del mondo germanico e si riteneva, come gli era stato detto nella sua famiglia, l’ultimo di una casata di re segreti e maledetti (dalla Chiesa) della Germania” . E maledetto, o forse solo pazzo, lo fu davvero, dato che, come risultò solo molti anni dopo, nel 1924 era stato internato nel manicomio di Salisburgo a seguito delle accuse mossegli dalla moglie, che lo aveva incolpato di avere manie occultistiche, di essere schizofrenico, megalomane, violento, e soprattutto di aver cercato di ammazzarla. Quando Himmler venne a sapere di questi trascorsi da Karl Wolff, il numero due delle SS che aveva incontrato la moglie di Weisthor, era il 1939, e il “Rasputin di Himmler” come lo chiamavano in molti, si ritirò dalla vita pubblica. Deportato, nel 1945, in un campo di concentramento alleato, fu poi rilasciato, e tornò nella cittadina di Arolsen, dove morì all’inizio del 1946. Pazzia a parte, Weisthor aveva davvero contribuito a creare i miti esoterici dell’Ordine nero guidato da Himmler: dopo aver partecipato a numerose spedizioni dell’Ahnenerbe alla ricerca delle vestigia dell’antica religione germanica, elaborò complesse teorie psicologiche e ipotesi storiche piuttosto stravaganti ma non del tutto prive di senso. Ad esempio, teorizzò l’esistenza di una memoria genetica, che conserva il ricordo anche dei nostri antenati, ipotesi, poi, avanzata anche da alcuni neurologi nei decenni successivi. Per quanto riguarda le sue concezioni esoterico-cosmologiche, riteneva che la storia dell’uomo e della Terra siano una perenne lotta tra energie contrapposte, che alternano fasi di civiltà ascendenti e discendenti, ipotesi confermate, secondo lui, dai risultati delle spedizioni negli antichi luoghi sacri che risultarono possedere notevoli proprietà geomantiche, ricche di questi opposti flussi energetici. Stramberie cosmologiche a parte, il “Rasputin di Himmler” fu davvero uno dei Maestri di cerimonia del Castello di Wewelsburg, il luogo magico citato in un articolo precedente: qui celebrava i matrimoni delle SS, e insegnava i misteri delle rune che, secondo lui, erano la chiave per svelare il segreto dell’universo, racchiuso nel rapporto armonico tra il microcosmo dell’uomo e, appunto il macrocosmo del creato. Le rune, secondo la tradizione germanica e soprattutto secondo l’interpretazione dei circoli esoterici dell’ottocento, erano la testimonianza della cultura arcaica dei popoli del Nord e le gelose custodi dei destini del mondo e degli uomini. Fu proprio Weisthor, inoltre, a disegnare il tristemente celebre Totenkpfring, l’anello d’argento con incisa la testa di morto che Himmler regalava a pochi eletti in occasione del genetliaco del Fuehrer, il 20 aprile, festa nazionale tedesca. Quando un possessore dell’anello moriva, il gioiello veniva riportato al Castello assieme alle ceneri del defunto, per esservi conservato in una grotta. Alla fine della guerra, gli ultimi superstiti fecero esplodere la grotta, e i macabri gioielli non furono mai ritrovati. Gli studi di Giorgio Galli legano strettamente l’ascesa e declino di Weisthor al Generale Karl Wolff, il già menzionato vice di Himmler, che, curiosamente, non solo evitò le forche di Norimberga, ma, dopo un processo al quale presenziò in divisa e una breve condanna simbolica, venne restituito alla società come un uomo completamente libero. Wolff, secondo Galli, faceva parte del vertice esoterico nazionalsocialista, ed era al corrente delle profezie decifrate da Weisthor che vaticinavano una grande battaglia tra Oriente e Occidente, battaglia dalla quale le terre germaniche dell’Est sarebbero uscite completamente devastate. La profezia, però, non fu sufficiente a fermare la guerra, e l’Europa sarebbe stata presto ridotta a un cumulo di rovine, come, enigmaticamente, Weithor volle scritto sulla lapide che copre la sua tomba: Unser Leben geht dahin wie ein Geschwaetz (La nostra vita trascorre come una chiacchierata senza senso) 

Morto Giorgio Galli: indagò le radici esoteriche del nazismo. Il politologo Giorgio Galli si è spento oggi a Camogli all'età di 92 anni. Nella sua vita ha indagato i totaltarismi, in particolare il nazismo, e l'influenza dell'esoterismo nella politica. Per ricordarlo, pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto del suo ultimo libro: Hitler e l'esoterismo (Oaks editrice). Giorgio Galli, Domenica 27/12/2020 su Il Giornale. Il politologo Giorgio Galli si è spento oggi a Camogli all'età di 92 anni. Nella sua vita ha indagato i totaltarismi, in particolare il nazismo, e l'influenza dell'esoterismo nella politica. Per ricordarlo, pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto del suo ultimo libro: Hitler e l'esoterismo (Oaks editrice). "L’idea hitleriana dell’osservatorio astronomico si ripresenta a conclusione di una esposizione nella quale, a proposito della “fuga dalla ragione” di Webb, il Führer presenta la sua cultura esoterica in questi termini: «Nella nostra qualità di tedeschi ragionevoli, ci prendiamo la testa tra le mani e ci interroghiamo per cercar di capire come mai tutte quelle mistificazioni ebraiche (la Bibbia, come detto in precedenza, n.d.r.) manipolate dai preti abbiano potuto far girare la testa a dei tedeschi sino a indurli a pratiche delle quali sorridiamo quando si tratta di rotanti dervisci turchi o di magia nera. La conclusione che voglio trarre da queste considerazioni è che in avvenire bisogna fare tutto quanto è umanamente possibile per impedire al popolo tedesco di intristire nello spirito – e poco importa che si tratti di follia religiosa o qualunque altra forma di disordine mentale. A questo fine ho previsto che tutte le città siano dotate di un osservatorio, perché è accertato che l’astronomia è uno dei migliori mezzi di cui dispone l’uomo per ampliare la sua concezione del mondo e di conseguenza per tutelarsi contro l’errore» (pag. 383). Sorprendente: chi crede in spazi dominati dal Ghiaccio cosmico, nei quali si combatte una lotta tra Bene e Male che spiega quella sulla Terra, invoca come ragionevole questa “concezione del mondo”, che si contrappone ai dervisci (cari a von Sebottendorff) e alla magia nera; una concezione che può coesistere, in questo testo, con una serie di osservazioni assolutamente ragionevoli, come un giudizio positivo su Hess e una valutazione sui carri armati simile a quella di Hanson. La prima: «Un giorno c’erano Hess con la moglie e la cognata. Uno studente ubriaco si permette al loro indirizzo una affermazione fuori posto. Hess lo redarguisce. L’indomani due spilungoni si presentano da Hess per chiedergli ragione dell’offesa fatta al loro collega! Ho proibito a Hess di lasciarsi trascinare in quella ridicola faccenda, pregandolo di mandare da me i due. A costoro ho detto: voi volete litigare con un uomo che per quattro anni si è battuto contro il nemico. Non vi vergognate?» (pagg. 188-189). È il 19 gennaio 1942, sono trascorsi otto mesi dal volo di Hess e questo affettuoso ricordo dell’antico compagno è importante, perché significa che Hitler, oltre a richiamare la comune visione esoterica, ha quanto meno capito la buona volontà della sua iniziativa, in quanto, a proposito dell’Inghilterra, egli stesso aveva scritto sul Mein Kampf.

La seconda osservazione: «Alla fine della prima guerra mondale, l’esperienza aveva dimostrato che solo il carro armato pesante e più fortemente blindato era efficace. Ciononostante, subito dopo la pace si mettono a costruire carri armati ultraleggeri» (pag. 103). Ragionevoli osservazioni di questo tipo, si accompagnano a una valutazione del suo ruolo, inteso come missione, che mette in luce la sostanza della sua cultura esoterica: «Se la mia presenza su questa terra è provvidenziale, lo si deve a una volontà superiore. La nostra epoca vedrà la fine della malattia cristiana. È questione di cento anni, forse di duecento. Il mio rammarico sarà solo, a somiglianza di un certo profeta, di scorgere la terra promessa solo da lontano. Noi entriamo in una concezione del mondo che sarà un’era soleggiata, un’era di tolleranza. L’uomo deve essere in grado di sviluppare liberamente i talenti datigli da Dio. L’importante è che noi impediamo a una menzogna più grande di sostituirsi a quella che scompare. Il giudeo-bolscevismo deve inabissarsi» (pag. 265). E: «Se devo giudicare la mia opera, devo anzitutto tenere conto del fatto che ho contribuito a far trionfare il concetto del primato della razza, in un mondo che aveva dimenticato questa nozione. Ho dato poi alla nazione tedesca una solida base culturale. In effetti, la potenza di cui noi oggi disponiamo, può essere giustificata, a mio avviso, solo dall’istituzione e dalla diffusione di una grande cultura. Riuscire in questo compito deve essere l’imperativo della nostra esistenza. I mezzi che impiegherò a questo scopo supereranno di molto quelli che occorsero per condurre questa guerra. Voglio essere un costruttore. È mio malgrado che sono un condottiero. Se applico la mia mente a problemi militari, è perché so che, per adesso, nessuno riuscirebbe meglio di me. Reagisco come un contadino minacciato nei suoi beni. È in questa disposizione di spirito che faccio la guerra. Essa è per me un mezzo finalizzato a conseguire altri fini. Il compito attuale, ossia quello di costruire la grande Germania e di condurla alla potenza mondiale, non poteva che essere assolto da un uomo del Sud» (pagg. 94-95). Un contadino profeta e condottiero, al contempo diffusore di una grande cultura (esoterica) e costruttore di una grande Germania, potenza mondiale di razza ariana: così si vede e si vive Hitler, che nelle ultime pagine di questa parte nel libro – nel settembre 1942, quando le sue armate marciano ancora verso il Caucaso – rievoca i suoi inizi da alunno ribelle, prima di trovare i veri maestri in un’Ellade nietzscheanamente idealizzata: «Inutile dire che presso i professori non ero in odore di santità. Un adolescente di tredici o quattordici anni, se ha la mente sveglia, ha facilmente la meglio su un maestro abbrutito da anni di insegnamento. È comprensibile che i giovani greci si recassero talvolta molto lontano per beneficiare dell’insegnamento di un maestro di loro gusto. Del resto i giovani dell’antichità andavano al combattimento raggruppati attorno al loro maestro. Nessuno può avere più entusiasmo di un fanciullo dai tredici ai diciassette anni. Si farebbe sbranare per un maestro, se questi è veramente un uomo. Vorrei che fosse così anche da noi, che intere classi partissero per il fronte in compagnia del loro maestro» (pag. 507). Mancano un paio di mesi alla catastrofe di Stalingrado, Hitler è ancora convinto di vincere sulla base di una “grande cultura”, mentre intere classi della gioventù tedesche si stanno “facendo sbranare” per lui, quando i sogni esoterici di vittoria del Terzo Regno su Arimane si stanno rovesciando nel loro contrario e non l’inesistente giudeo-bolscevismo, ma l’Unione Sovietica reale di Stalin si accinge a scagliare i suoi carri armati pesanti contro un esercito stremato, costruito da Hitler con una logica realistica (le guerre-lampo nel triennio, con rapporti di forza favorevoli), ma sulla base di una cosmologia infondata e fantastica. Questa è la chiave della personalità del Führer, del suo inesauribile discettare sullo scibile umano, mentre le sue armate sembrano avanzare, irresistibilmente e quasi automaticamente, dopo aver superato l’ostacolo davanti a Mosca, nell’inverno 1941: la neve del presentimento, trasformata e domata dal ghiaccio di Hörbiger, il vero principio dell’universo, “rapporti segreti” di un antico sapere, trasmessi al solo Hitler e a coloro che definisce “quelli della sua cerchia” e non a un altro “qualcuno”, perché lui solo è in grado di ricostruire all’Est il destino ariano del popolo. Questa certezza, chiave delle personalità frutto di una formazione esoterica, si incrina nell’autunno del 1942, davanti a Stalingrado, che non è un errore – come egli credeva – dell’uomo che ha dato nome alla città, ma è invece la prova che l’URSS ha più armi e più risorse del Terzo Reich, che la guerra-lampo, riuscita all’Ovest, è fallita all’Est".

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 16 maggio 2021. La più celebre fuga della Seconda guerra mondiale fu il frutto di un lavoro di disinformazione dei servizi segreti britannici. E quella che abbiamo sempre creduto essere stata l'iniziativa personale di un nazista tormentato, in realtà fu una trappola ben riuscita, che si tradusse in un importante successo tattico per la Gran Bretagna ed ebbe anche conseguenze pratiche sull' andamento del conflitto. La sera del 10 maggio 1941 un cacciabombardiere Bf 110, con il serbatoio di riserva anch' esso pieno di carburante, prese il volo dalla pista di collaudo della fabbrica di aerei Messerschmitt Ag di Haunstetten, in Baviera, in direzione nord-ovest. Alla guida del velivolo della Luftwaffe era Rudolf Hess, numero due del regime nazista e delfino designato di Hitler. Intorno alle 23 ora locale, mentre si trovava sul cielo della Scozia, Hess azionò il seggiolino eiettabile e venne proiettato nel vuoto. Fu il primo e ultimo lancio col paracadute della sua vita. Mezz' ora dopo, la Home Guard britannica lo arrestò, prendendolo in consegna da una coppia di contadini scozzesi che lo aveva scoperto e catturato nel proprio cortile. A Berlino, ci vollero ventiquattr' ore prima di capire cos' era successo e il doppio per confezionare una verità ufficiale. Finalmente, il 12 maggio, la radio del regime lesse un comunicato del quartier generale di Hitler, secondo il quale Hess era volato verso l'Inghilterra e probabilmente era caduto, vittima di un incidente. Il testo parlava di «crollo mentale», il vice del Führer sarebbe stato vittima di un delirio di grandezza. Il giorno dopo però, ci aveva pensato la Bbc a mettere le cose in chiaro: Hess non era precipitato, era vivo e vegeto e si trovava in custodia delle autorità britanniche. L' annuncio stuzzicò la graffiante ironia dei berlinesi, alimentando barzellette e battute, clandestine naturalmente, perché si rischiava la galera: «Secondo Radio Londra, questa notte non si segnalano altri voli di ministri tedeschi». Hitler aveva ricevuto la notizia la mattina dell'11 maggio nel Nido dell'Aquila, la sua residenza sul Berghof, nelle Alpi bavaresi: due aiutanti di Hess, gli ufficiali Karlheinz Pintsch e Alfred Leitgen, gli avevano consegnato personalmente una busta sigillata con una lettera autografa del loro capo. Quando la lesse, il Führer ebbe un attacco di rabbia. Ordinò che i due malcapitati fossero arrestati e spediti nel campo di concentramento di Sachsenhausen, dove sarebbero rimasti fino al 1944. Poi, insieme a Martin Bormann, Hitler aveva trascorso ore e ore a «formulare una motivazione plausibile del volo di Hess in Inghilterra», come ha raccontato nelle sue memorie Christa Schröder, la sua segretaria. Ma che cos' era successo? E cosa diceva Hess al suo Führer nella lettera? Rudolf Hess non era solo un gerarca nazista. Era il più devoto dei compagni d' arme della prima ora, un autentico fanatico del culto di Hitler, che a lui aveva dettato il Mein Kampf nella prigione di Landsberg, dopo il fallito putsch di Monaco del novembre 1923. Salito al potere, Hitler gli aveva affidato la gestione del partito. Ma l'inizio della guerra lo aveva estraniato dal capo. Sempre più Hess si era convinto (giustamente) che l'idea di Hitler di aprire un secondo fronte contro l'Unione Sovietica sarebbe stato un errore fatale con il primo ancora aperto. Il Terzo Reich non avrebbe avuto risorse sufficienti a reggere l'urto contemporaneo di due guerre. Così, si era sempre più fissato con l'idea che potesse essere lui a negoziare una pace separata con Londra e regalarla al Führer. E quando nella primavera 1941 si era reso conto che l'inizio dell'operazione Barbarossa, l'attacco all' Urss, era prossimo, aveva rotto gli indugi. Hess pensava di avere individuato anche l'uomo giusto, con il quale trattare un accordo di pace: non Churchill, naturalmente, ma il duca scozzese Douglas Douglas-Hamilton, uno dei leader del movimento pacifista britannico e oppositore del premier. Lo aveva conosciuto nel 1936 durante i Giochi Olimpici di Berlino. Agli agenti della Home Guard che lo avevano arrestato, Hess dichiarò un falso nome e chiese infatti di vedere Douglas-Hamilton, dicendo di essere suo amico. Ma quando l'11 maggio il duca si appalesò e il gerarca si presentò col suo vero nome, quello non ricordò l'incontro. Anzi, appena appresa la sua vera identità, Douglas-Hamilton, da vero patriota, informò subito il gabinetto del primo ministro. Si racconta che Churchill quella sera aveva deciso di vedersi un film nel bunker sotto Downing Street dove viveva. E quando gli dissero che Hess, il vice di Hitler, era stato catturato in Scozia, rispose: «Hess o non Hess, io ora voglio vedere i fratelli Marx». La domanda che da sempre aleggia è se Hess sia volato di sua autonoma iniziativa o su mandato segreto di Hitler. Nulla di tutto questo, secondo lo storico Rainer F. Schmidt, che ha potuto consultare il fascicolo Hess, finalmente liberato dal segreto negli Archivi di Stato britannici. In realtà, come rivela «Die Welt», Rudolf Hess cadde in una trappola tesagli dai servizi britannici. Già dal 1940 infatti, spacciandosi proprio per Douglas-Hamilton, che non ne sapeva nulla, gli agenti britannici avevano stabilito una corrispondenza epistolare con il numero due del nazismo, con l'obiettivo di diffondere disinformazione al vertice del regime per seminare discordia e sospetti. Che Hess abbia preso sul serio le lettere, al punto da rispondere e perfino decidere di recarsi personalmente in Scozia, l'intelligence di sua maestà non lo aveva però mai immaginato o sperato. La sua fuga fu un colpo di fortuna del tutto inatteso. La cattura di Hess produsse almeno tre vantaggi per la Gran Bretagna. In primo luogo, migliorò il morale della popolazione. Ancora più importante, rafforzò negli Stati Uniti la preoccupazione che Londra potesse essere tentata di concludere una pace separata con Hitler, facilitando la decisione del Congresso di aumentare gli aiuti militari e alimentari del «Lend-Lease» al Regno Unito. Infine, Churchill alimentò il timore di Stalin che Gran Bretagna e Germania potessero unirsi contro l'Unione Sovietica. Rudolf Hess sarebbe rimasto per tutta la guerra in mani inglesi. Processato a Norimberga con gli altri gerarchi nazisti, proprio la fuga gli evitò la condanna a morte. Fu condannato all'ergastolo e scontò la pena nel carcere speciale di Spandau a Berlino, dove a partire dal 1981 fu l'unico detenuto della struttura. Hess rimase sempre un convinto nazista e antisemita e questo fu l'argomento opposto ai molti che nel tempo ne chiesero il rilascio per ragioni di salute. Ormai molto malato, il 17 agosto 1987, all' età di 93 anni, Hess fu trovato impiccato nella prigione berlinese, ufficialmente suicida. La famiglia e il suo avvocato non hanno mai creduto a questa versione. Poche settimane prima Mikhail Gorbaciov aveva tolto il veto sovietico alla sua scarcerazione. Probabilmente, sarebbe stato liberato di lì a poco.

Minoranze da difendere? Tutte, tranne gli ebrei...La sinistra non tutela più il "popolo" bensì le "diversità". Ma si è "scordata" una religione. Marco Gervasoni - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Il progressismo attuale, cioè la sinistra, lo sappiamo, non tutela più le classi lavoratrici e il «popolo» quanto le minoranze. Non c'è minoranza etnica, linguistica, religiosa, sessuale e persino di scelte culinarie (il veganesimo) che non sia difesa dai progressisti come modello di uno stile di vita che dovrebbe arricchire spiritualmente questo triste Occidente. Segno tangibile di decadenza, troviamo questa spasmodica ricerca della diversità anche in altri periodi caratterizzati dalla fine di una civiltà, come durante l'epoca alessandrina, il tardo impero romano, gli ultimi tempi di quello bizantino e così via. In attesa dei barbari che vengano a rivitalizzare la decadenza, la sinistra oggi è essenzialmente ed esclusivamente genderista, immigrazionista, filo islamica. L'unica minoranza religiosa che i progressisti si guardano bene dal difendere, e anzi spesso aggrediscono, è costituita dagli ebrei. Si riconferma così il classico paradosso che l'identità ebraica è al tempo stesso invisibile eppure onnipresente, e che la figura dell'ebreo è oggetto di operazioni di proiezione fantasmatica da parte dei non ebrei. In più, a complicare il quadro, sta il sostanziale filo islamismo dell'attuale sinistra, e per quanto non possiamo istituire una meccanica sovrapposizione tra antisemitismo e islam, oggi, in Occidente, gli islamisti sono i principali nemici degli ebrei. La patria di tutti questi paradossi non è gli Stati Uniti, nonostante il peso della identity politics (cioè l'assemblamento di minoranze) sia molto forte e gli ebrei abbiano un ruolo importante nella vita pubblica di oltre oceano. No, il luogo in cui cercare la contraddizione è il Regno Unito, dove la sinistra intellettuale e politica, rappresentata dal Labour, è al tempo stesso profondamente anti popolare e con uno spiccato carattere anti semita, e certamente anti israeliano. Le dimissioni di Corbyn non hanno modificato di molto il quadro: nonostante il linguaggio marxista e persino leninista, il Labour party è esattamente questo patchwork di minoranze di ogni tipo. Tutte tranne gli ebrei, che anzi spesso sono stati vittima della propaganda laburista. Ma il fenomeno è più profondo: il Labour non fa nient'altro che farsi collettore di immagini che circolano nella sfera pubblica inglese e in quella culturale, e della cultura che una volta si sarebbe detta di massa. Per questo il tema dell'antisemitismo a sinistra, ben tracciato da una serie di studi, appare in una luce nuova in questo volumetto proprio perché scritto da un attore (David Baddiel, Jews don't count, Harper Collins) il cui nome da noi non dice molto ma nel Regno Unito è un noto attore e presentatore televisivo, nonché sceneggiatore e romanziere, spesso impegnato nell'attività della comunità ebraica inglese. E qui si dimostra coraggioso assai perché anche a Londra tv e cinema sono occupati militarmente dai progressisti: che Baddiel sfida apertamente, accusandoli di difendere tutte le cause delle minoranze, meno quella degli ebrei. Di fatto, come spiega l'autore, per la sinistra gli ebrei non sono affatto una minoranza. Prova ne è che, nel mondo delle sceneggiature tv e cinematografiche, tutte dominate dal politicamente corretto, nella storia devono essere presenti tutte le minoranze, tutte ovviamente incarnazione di figure positive (i cattivi sono quasi sempre maschi bianchi etero ormai), tranne gli ebrei. Attraverso esempi calzanti spesso molto divertenti (si sente la penna dell'umorista), Baddiel cita i rarissimi casi in cui ebrei sono presenti nelle fiction, e sono quasi tutti personaggi negativi o perlomeno ambigui. Così, secondo un paradosso, alla fine la sinistra politicamente corretta finisce per fare la stessa cosa della produzione artistica della Germania nazista; in cui gli ebrei dovevano essere assenti, salvo incarnare figure negative. Persino nella scelta degli attori è così: rarissimamente personaggi ebrei sono interpretati da attori che lo sono davvero, diversamente da quando accade per le altre minoranze. Ovviamente la questione palestinese occupa un posto fondamentale, fino a un Ken Loach che spiega come «l'antisemitismo» sia una reazione «comprensibile» di fronte alle «azioni di Israele». Quanto all'antisemitismo nel Labour, Baddiel mostra come la spiegazione della intellighentsia rossa di oltre Manica sia piuttosto primitiva: solo propaganda della destra e dei suoi giornali. Fino a un noto editorialista del Guardian che istituisce una rigida gerarchia del razzismo, partendo dalle etnie o dalle religioni più aggredite fino a quelle più tollerate: indovinate chi siede all'ultimo posto? Gli ebrei, quasi estinti in Europa nel secolo scorso da un progetto sterminazionista, sarebbero insomma oggi poco toccati dal razzismo, quando non sarebbero razzisti essi stessi nei confronti degli arabi. Una sorta di neo negazionismo, come denuncia la scrittrice Deborah Lipstadt intervistata dallo stesso Baddiel. Che alla fine non fornisce rimedi e soluzioni: intanto però diverse organizzazioni islamiche hanno già chiesto che sia bandito dalla tv per... razzismo. Amara conferma della correttezza della sua tesi.

GIORNO DELLA MEMORIA. La mia battaglia per obbligarci a ricordare l'orrore della Shoah. Fu l’Italia a scegliere una data per ricordare lo sterminio nazista degli ebrei. Come ricorda Furio Colombo, promotore della legge: «Non è stato facile, perché in An e Forza Italia c'era chi diceva "il fascismo ha fatto anche cose buone"». Francesca De Sanctis su L'Espresso il 26 gennaio 2021. Prima ancora dell’Onu, che nel 2005 istituì il Giorno della memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto, fu l’Italia a prendere la stessa decisione, nell’anno 2000, grazie alla sensibilità, alla tenacia, alla volontà di un giornalista e scrittore, allora deputato dell’Ulivo, di pronunciare a gran voce la verità che andava gridata: «La Shoah è un crimine italiano, ricordiamocelo». Parole di Furio Colombo, che ha appena festeggiato i suoi primi 90 anni e a cui vanno i nostri auguri. Fu lui a proporre e a far approvare la legge n. 211 che il 20 luglio del 2000 istituì in Italia il Giorno della memoria, «per ricordare lo sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». Da 20 anni si celebra il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz.

Il più grande sterminio del '900. Perché il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, la commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Gennaio 2021. Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la Giornata della Memoria. Le commemorazioni per ricordare l’Olocausto, lo sterminio degli ebrei, di avversari politici e di altre minoranze etniche a opera del regime nazista e dei suoi alleati che tra il 1933 e il 1945 (dati dell’Holocaust Memorial Museum di Washington) fece tra 15 e 17 milioni di vittime. Di questi tra cinque e sei milioni di ebrei. A designare la data la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del primo novembre 2005 durante la 42esima riunione plenaria. Il 27 gennaio è diventata la data simbolica della Shoah (in ebraico “disastro”, “catastrofe”) perché il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche della 60esima Armata del “1° Fronte ucraino” scoprirono e liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Il complesso, nei pressi della città polacca di Oświęcim, era il più grande complesso di sterminio realizzato dai nazisti. È diventato il simbolo del più grande genocidio del 900. Oggi accoglie milioni di visitatori all’anno. La scoperta del campo di Auschwitz rivelò al mondo lo sterminio dell’Olocausto. Dieci mesi prima di Auschwitz l’armata sovietica aveva liberato il campo di concentramento di Majdanek. Dal 1979 il campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz Birkenau è Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Ogni anno, in tutto il mondo, si commemora la Shoah in tutto il mondo con cerimonie ufficiali e occasioni di incontro per ricordare la pagina più orrenda del 20esimo secolo. Le iniziative, in Italia, si svolgeranno quest’anno nelle scuole, in Parlamento, nei Comuni, nelle televisioni. Alle 11:00 le celebrazioni ufficiali al Palazzo del Quirinale con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premier dimissionario Giuseppe Conte, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, la Presidente dell’Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), Noemi Di Segni e Sami Modiano, sopravvissuto all’Olocausto. “Ricordare è una espressione di umanità, ricordare è segno di civiltà, ricordare è condizione per un futuro migliore di pace e di fraternità, ricordare è anche stare attenti perché queste cose possono succedere un’altra volta, incominciando dalle proposte ideologiche che vogliono salvare un popolo e finendo a distruggere un popolo e l’umanità. State attenti a come è incominciata questa strada di morte, di sterminio, di brutalità”, ha dichiarato Papa Francesco all’udienza generale in occasione del Giorno della Memoria.

DAGONEWS il 4 febbraio 2021. Foto rare mostrano uomini, donne e bambini messi in fila e portati via dopo aver combattuto per quasi quattro settimane durante la rivolta nel ghetto di Varsavia del 1943. Il tentativo di resistere al rastrellamento ebbe un finale tragico. L’eroica resistenza costò la vita a 13mila ebrei. Dei 460.000 ebrei del ghetto di Varsavia, 265.000 furono inviati nel campo di sterminio di Treblinka per essere assassinati; altri 20.000 furono mandati nei campi di lavoro. Le immagini ci riportano dentro quell’orrore e saranno raccolte nel volume dello storico Ian Baxter, “The Ghettos of Nazi-Occupied Poland - Rare Photographs from Wartime Archives”, pubblicato da Pen and Sword.

Claudio Del Frate per corriere.it il 28 gennaio 2021. Tre consiglieri comunale della minoranza di centrodestra hanno votano mostrando il saluto romano anziché la semplice alzata di mano. È accaduto nel municipio di Cogoleto (Genova) nella seduta del 27 gennaio, giorno della memoria, durante la discussione sul bilancio comunale. L’episodio è stato denunciato dal sindaco del comune ligure, Paolo Bruzzone e documentato da un video girato dallo streaming del consiglio comunale stesso. I tre protagonisti dell’episodio - rispettivamente un consigliere leghista, uno di Fratelli d’Italia e un indipendente - hanno negato che il loro gesto volesse richiamare il saluto romano. Il video inquadra i banchi della minoranza al momento della votazione sul documento contabile: si vedono i tre consiglieri (Francesco Biamonti, Valeria Amadei e Mauro Siri) tendere il braccio quasi in contemporanea per esprimere il loro voto contrario. Il gesto viene ripetuto più volte. Su Facebook il sindaco Bruzzone scrive: «Mi preme condannare con forza tale gesto, appartenente alla simbologia fascista, che evoca valori politici di intolleranza, odio e discriminazione razziale. Sono pertanto convinto che quanto accaduto non possa e non debba passare inosservato, nel rispetto di tutte le persone che, a causa dell’ideologia a cui rimandano quelle braccia tese - e più in generale, di ogni forma di prevaricazione indipendente dal colore politico - hanno vissuto gli orrori del passato».  

«Rivedendo il video ci siamo accorti che un consigliere rivolgendosi alla sua vicina di banco ha detto "Votiamo con il saluto romano?", oltre a questo nel video quando gli è stato fatto notare il gesto e alla richiesta di scuse queste non ci sono state. Ora stiamo valutando la richiesta di dimissioni o se ci possono essere rilevanze penali e di oltraggio al Costituzione» ha aggiunto oggi Bruzzone. I consiglieri di minoranza hanno però smentito di aver pronunciato quella frase. Anche il governatore della Liguria Giovanni Toti ha condannato l’episodio: «Quello che è accaduto a Cogoleto non è tollerabile e va condannato, senza se e senza ma. I consiglieri che durante il consiglio comunale hanno fatto il saluto romano, oltre a commettere un reato, hanno offeso nel giorno della Memoria tutte le vittime della follia criminale nazifascista». «Da Presidente di Regione ritengo che nessuno debba permettersi comportamenti simili, a maggior ragione i rappresentanti delle istituzioni, in nessuna giornata, non solo in quella della Memoria».

Cogoleto, saluto romano in consiglio comunale nel giorno della Memoria. Il consigliere leghista: “Ho solo votato”. Le Iene News il 28 gennaio 2021. Tre consiglieri della minoranza hanno votato in consiglio comunale alzando il braccio destro ed emulando il saluto romano. È avvenuto durante la seduta convocata nel giorno della Memoria a Cogoleto, paese in provincia di Genova spesso al centro dei dibattiti per aver dato forse i natali a Cristoforo Colombo. I consiglieri comunali hanno risposto agli inviti di scuse: “È solo il loro modo di votare”. Cogoleto non verrà ricordata solo per la diatriba per aver forse dato i natali a Cristoforo Colombo, ma anche per una brutta pagina della sua politica. Una parte della minoranza vicina al centrodestra ha alzato il braccio destro in consiglio comunale emulando il saluto romano, proprio nel giorno della Memoria. “Una cosa molto grave, una scena assolutamente vergognosa a opera di alcuni esponenti della minoranza”, commenta così Stefano Damonte, vicesindaco del paese di quasi 9mila abitanti in provincia di Genova. “Si tratta di gesti che devono essere sempre con forza condannati”. A testimonianza di quanto avvenuto ci sono le immagini e i video registrati dalle telecamere che vedete qui sopra. “Mi preme condannare con forza tale gesto, appartenente alla simbologia fascista, che evoca valori politici di intolleranza, odio e discriminazione razziale. La nostra Cogoleto ha sempre difeso in maniera salda i valori antifascisti presenti nella Costituzione”, dice il sindaco Paolo Bruzzone. “Gesti come quelli di ieri, che mi auguro non si ripetano più in alcun modo, sono da stigmatizzare aspramente, ancor di più se commessi da rappresentanti delle istituzioni”. L’invito a scusarsi da parte del presidente del consiglio comunale non è stato accolto. “Non devo giustificare nulla, questo è il mio modo di votare. Sono offeso da queste accuse infamanti”, ha detto Francesco Biamonti.

Giorno memoria: indagati i tre consiglieri di Cogoleto. (ANSA il 30 gennaio 2021) La procura di Genova ha indagato per violazione della legge Mancino Valeria Amadei, Francesco Biamonti e Mauro Siri, i tre consiglieri comunali di Cogoleto che nella seduta consiliare del 27 gennaio, in cui si celebrava il giorno della Memoria, avrebbero ripetutamente fatto il saluto romano mentre votavano alcune delibere. "Si tratta di una iscrizione doverosa - sottolinea il procuratore aggiunto Francesco Pinto - perché deve essere chiaro che nel nostro ordinamento il razzismo e l'antisemitismo non sono opinioni ma delitti e la reazione deve essere immediata quando succedono certi fatti".

Sterminio e orrore, la Storia si vergogna: Soverina e l'innocenza della colpa. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 24 gennaio 2021. L’Immagine del filo spinato che attraversa la Storia si ripresenta vivida in occasione della Giornata della Memoria: il 27 gennaio. Di quel che significò e significa ancora la Shoah e non solo, ne parliamo con Francesco Soverina.

Professor Soverina, cos’è stata la Shoah?

«Shoah è la parola con cui gli ebrei designano il genocidio perpetrato a loro danno dal nazismo durante il secondo conflitto mondiale. Si è trattato di uno sterminio di immani proporzioni, che segna una gravissima battuta d’arresto del processo di civilizzazione, che mette a nudo – in modo inquietante – le potenzialità distruttive della modernità tecnico-industriale. La sua tragica peculiarità è riconducibile, oltre alla vastità del programma omicida, all’impiego di tutte le risorse proprie di uno Stato nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico. Sono questi i fattori che connotano uno sterminio considerato unico, perché mai prima di allora uno Stato moderno prende la decisione di distruggere un intero popolo. Uno sterminio, paradigma della “barbarie civilizzata”, perché rivolto “contro la diversità umana” e che occupa una sinistra centralità nella novecentesca “età degli estremi” (E. J. Hobsbawm). Va ricordato, inoltre, che genocidio è un termine nuovo, coniato nel 1944 dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin per designare la drammatica novità di quanto stava accadendo nell’Europa piegata sotto il “tallone di ferro” del Terzo Reich».

“Olocausto/Olocausti. Lo sterminio e la memoria” è un libro da lei curato, perché questo titolo?

«Perché – a ben vedere – quello messo in atto dal nazismo e dai suoi alleati è stato uno sterminio caratterizzato dalla pluralità delle vittime, dei carnefici e dei metodi di eliminazione. L’assassinio di massa degli ebrei e di quanti sono ritenuti una minaccia per l’integrità razziale e politica del Terzo Reich ha richiesto la costruzione di una complessa macchina organizzativa, l’adozione di tecniche di eliminazione che vanno dalle fucilazioni sommarie alla gasazione nelle “fabbriche della morte”. In nome di un imperativo biologico-razziale o ideologico-politico vengono liquidati, a partire dai disabili tedeschi, non solo ebrei, ma sinti e rom, oppositori politici, Testimoni di Geova, omosessuali, “sotto-uomini” slavi e prigionieri di guerra sovietici. Senza stilare una graduatoria delle sofferenze, disabili, ebrei, sinti e rom vengono braccati e perseguitati solo per la colpa di esistere. Per loro, e solo per loro, non c’è posto alcuno nell’utopia negativa del nazismo».

Quale storia le è rimasta dentro e perché?

«Fra le tante, in cui mi sono imbattuto nei miei studi, quella del bambino disabile, il cui omicidio “terapeutico” segna l’inizio della pagina dello sterminio. Per i nazisti quel piccolo tedesco rappresentava una “vita indegna di essere vissuta”, una “bocca inutile”, da annientare al fine di tutelare la propria “comunità etnico-popolare”, fondata su vincoli di sangue. La sua uccisione, come quella di decine di migliaia di disabili e del milione e mezzo di bambini ebrei, è lo sbocco nefasto dell’ostilità pseudoscientifica nutrita per oltre cinquant’anni, dalla fine dell’Ottocento, nei confronti dei “diversi”. La ragione di fondo per cui questa storia, queste storie mi accompagneranno per tutta la vita risiede nel raccapricciante destino a cui tanti esseri inermi, innocenti sono stati condannati; una sorte, la loro, che rinvia, da un lato, al tema dell’ “innocenza della colpa”, dall’altro agli effetti esiziali del veleno inoculato da una “fede feroce” (E. Montale)».

Cosa la storia di quei fatti di ieri può ancora insegnare agli uomini di oggi?

«In primo luogo – vede – occorre far sì che le lezioni della storia siano conosciute e recepite. In relazione a quei giganteschi crimini contro l’umanità, non mi stancherò mai di ripetere che bisogna sbarazzarsi del convincimento autoassolutorio secondo cui lo sterminio nazista sia stato opera di un pugno di fanatici agli ordini di un folle capo carismatico. Accanto agli aguzzini, ai sadici esecutori ci sono stati tantissimi “uomini comuni”, tra cui i grigi “burocrati della morte”, che con un semplice tratto di penna hanno cancellato milioni di vittime. È il tema, lucidamente enucleato da Hannah Arendt, della “banalità del male”».

Uno dei suoi libri si intitola “La difficile memoria. La resistenza nel Mezzogiorno e le quattro giornate di Napoli”. Difficile memoria, perché ?

«Il titolo si riferisce al travagliato, incerto radicamento del “paradigma antifascista” nel Mezzogiorno. È trascorso molto tempo prima che un consistente numero di napoletani si riappropriasse della memoria delle Quattro Giornate, un capitolo cruciale della loro storia. Così come – e ciò non suoni oggi sorprendente – sono trascorsi molti decenni prima che Elisa Springer, Nedo Fiano, Pietro Terracina, Liliana Segre rompessero il muro del silenzio per scardinare la fortezza dell’indifferenza. Un compito arduo, nel quale sono stati preceduti da Primo Levi, il grande testimone e interprete della Shoah, che ha speso una vita per dire “l’indicibile”, per decifrare il “buco nero” di Auschwitz».

Se dovesse parlare ai ragazzi di quanto sia importante conoscere la Storia per leggere il presente, quale frase e quale scrittore sceglierebbe?

«Mi viene subito in mente l’illuminante frase di uno dei maggiori storici del Novecento, Marc Bloch, fondatore – insieme con Lucien Febvre – della scuola delle “Annales”, che si è resa protagonista di una vera e propria rivoluzione storiografica: “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse, però, non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato ove nulla si sappia del presente”. In effetti, ad onta di quanto ancora persiste nel senso comune, la storia non si risolve nella conoscenza degli eventi passati, dal momento che gli storici volgono lo sguardo all’indietro a partire dal tentativo di comprendere dinamiche e questioni dell’età in cui essi vivono. Ci si rivolge al passato per cercare di rispondere a domande e problemi sollevati dal presente, per coglierne le radici. A mio avviso, la storia – “la scienza degli uomini nel tempo” (Marc Bloch) – mette a fuoco lo spessore del presente, ce ne mostra la profondità complessa e multiforme. Infine, è significativo che a svolgere le considerazioni, consegnate a quel capolavoro sul piano metodologico che è l’Apologia della storia, sia stato un medievista della levatura di Bloch, il quale non ha esitato a cimentarsi con la storia del suo presente in ben due occasioni, l’ultima delle quali per spiegare le ragioni della Strana disfatta della Francia, travolta nel 1940 dalla Germania hitleriana. Finirà – non a caso – i suoi giorni, il 16 giugno 1944, fucilato dai nazisti, perché partigiano ed ebreo».

La nipote Goia ricorda Bartali: eroe Giusto e discreto.  Antonio Ruzzo il 27 gennaio 2021 su Il Giornale. “Tutto giusto, tutto da rifare…”. Andrebbe cambiata così la frase più famosa di Gino Bartali. Perchè in questo caso non c’è nulla di sbagliato e non stiamo parlando di una vittoria di un Giro o di un Tour. Ci sono azioni che entrano nella storia in silenzio e che fanno la storia senza clamori . Racconti di altri tempi che danno la dimensione delle persone, dei protagonisti e della vita: com’era e come adesso è cambiata. Così  Bartali corriere dei partigiani che durante l’occupazione tedesca dà una mano a salvare  gli ebrei dall’Olocausto può sembrare solo l’immagine sbiadita di uno dei tanti documentari su quel periodo buio. In realtà quell’immagine non si può e non si deve cancellare.  E questa mattina a ricordarla è stata Gioia Bartali, nipote del campione  intervenendo nelle seduta solenne del Consiglio comunale di Sassari in occasione della Giornata della Memoria.  “Lo Yad Vashem istruisce un dossier e analizza in modo rigoroso una serie di documenti e testimonianze prima di riconoscere una persona ’Giusto tra le Nazioni” ha spiegato.  “Ginettaccio” è stato insignito nel 2013 del riconoscimento postumo per aver salvato la vita a tanti ebrei durante le persecuzioni e la nipote Gioia ha voluto così rispondere alle polemiche che da qualche giorno si sono sollevate attorno alle affermazioni contenute nel libro dello storico Stefano Pivato, secondo il quale non ci sarebbe nessuna prova che Bartali abbia salvato centinaia di ebrei perchè tutto si basa su testimonianze di persone che non ci sono più e i riscontri non sarebbero sufficienti.   Un’operazione sinceramente “pericolosa” perchè  liquida la vicenda come inventata senza neppure porsi un dubbio, ignorando una storiografia precedente compreso lo Yed Vashem e il suo noto rigore investigativo e alimentando un clima di negazionismo sempre più imperante in tutti i campi. Ma tant’è . Resta ciò che per fortuna resta e cioè la narrazione  di un campione e di un eroe che ha compiuto vari viaggi in bicicletta dalla stazione di Terontola-Cortona fino ad Assisi, trasportando documenti e foto tessere, prodotte dai frati francescani di Assisi, nascoste nei tubi della bicicletta per fornire identità false agli ebrei per potersi salvare. «Mio nonno diceva che il bene si fa e non si dice- ricorda Gioia Bartali -parlava poco di quello che aveva fatto. Quando lo raccontò a mio padre gli raccomandò di non dirlo a nessuno. Non avrebbe mai accettato in vita di ricevere alcuna onorificenza”. Anche perchè come ripeteva sempre: “Il bene si fa ma non si dice e sfruttare le disgrazie degli altri per farsi belli è da vigliacchi…”

Il virus inventato da tre medici per salvare i bambini dalla Shoah. Lo chiamavano il "Morbo di K", un nome spaventoso, adatto a un virus letale e altamente contagioso, che però non è mai esistito. Fu l'invenzione di tre medici romani che voleva salvare i bambini ebrei dalla deportazione. Davide Bartoccini, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. Un virus terribile, estremamente contagioso e sconosciuto ai più. Una "sindrome neurodegenerativa fulminante" che poteva essere trasmessa con un colpo di tosse, o con uno starnuto - come un'influenza; e che però si sarebbe rivelata letale: anche per i soldati delle SS che avrebbero dovuto prendere i bambini per metterli su treni che portavano ad est. Treni di morte. Treni che facevano una sola fermata, in località isolate dai nomi allora sconosciuti. Nomi che sarebbero poi rimasti impressi, stigmatizzati per sempre nella memoria un mondo sgomento di fronte all'orrore perpetrato. Uno di quei nomi era Birkenau, dove sorgeva il konzentrationslager allestito nelle vicinanze di Auschwitz: il campo di sterminio più terribile, dopo quello di Treblinka. Se non ne avete più sentito parlare del "Morbo di K", non è perché venne trovato un vaccino che lo ha debellato - come quello per la Poliomelite. Non ne avete mai più sentito parlare perché in verità que morbo non è mai esistito: fu l'invenzione dell'allora primario dell'Ospedale Fatebenefratelli di Roma, Giovanni Borromeo, pensanto con la complicità di Adriano Ossicini e Vittorio Emanuele Sacerdoti - medico di origini ebraiche che svolgeva la professione sotto falso nome -, al fine di mettere in salvo i bambini ebrei terrorizzando le SS di Herbert Kappler, il boia di Roma che nel 16 ottobre del 1943 ordinò il razzia del ghetto. Di 1022 anime rastrellate e inviate immediatamente ad Auschwitz-Birkenau, solo 16 fecero ritorno. Pochi invece, riuscirono a scappare per rifugiarsi da amici e partente chi vivevano fuori dal quartiere ebraico. Così i medici romani pensarono di inventarsi una malattia che doveva contagiare proprio e solo quei bambini, che erano sfuggiti al rastrellamento ma rischiavano ancora di essere trovati dalla Gestapo, come qualche altro "superstite". Ricoverandoli in ospedale, e tenendoli in isolamento nei sotterranei dell'ospedale che sorge sull'Isola Tiberina, dove era il reparto malattie infettive, sarebbero rimasti certamente al sicuro. Protetti dalla paura. Ai soldati tedeschi infatti, veniva intimato dai medici di non ispezionare il padiglione, avvertendoli del rischio al quale si sarebbero esposti nell'entrare in contatto con i pazienti affetti da quel terribile virus. Un virus fantasioro, che doveva il suo nome, limitato alla lettera "K", proprio alle iniziali di Kappler, capo dei servizi segreti nazisti a Roma, e del generale Kesselring, comandante di tutte le forze armate naziste in Italia; ma che allo stesso tempo doveva evocare nei tedeschi la sinistra paura che veniva associata ad un male incurabile al cervello: a parole come Kopf e Krebs, che in tedesco sigrificano rispettivamente testa e cancro. Così facendo il dottor Borromeo, insieme a Ossicini e Sacerdoti, si impegnò a falsificare decine di cartelle cliniche tenendo alla larga gli ufficiali tedeschi; almeno fino a quando non lasciarono Roma nel '44. Secondo le testimonianze raccolte dalla giornalista del Messaggero Ilaria Ravarino però, non tutti erano stati messi al corrente dell'inganno nell'ospedale; e per questo il timore era percepibile anche nel personale medico che aveva sentito mormorare di una malattia rara e mortale che infestava i sotterranei di uno dei più antichi ospedali di Roma, senza sapere che si trattava di un piano quasi machiavellico. "Chi poteva si teneva alla larga da quel reparto" - "Le SS non osavano avvicinarsi, pensando che non valeva la pena rischiare" - "E poi il morbo di K ci avrebbe comunque uccisi (la soluzione finale, ndr). Il problema più grande per noi era trovare da mangiare. Ogni tanto con mio fratello uscivamo dai sotterranei per fare cicoria, che poi cucinavamo con il carbone rubato alle cucine dell'ospedale", racconta Giacomo Sonnino, protagonista del documentario "Sindrome K, il virus che salvò gli ebrei"​. Solo in un caso - riporta il documentario basato sui resoconti forniti dal figlio di Borromeo - le SS insistettero per tentare di far luce su quel misterioso morbo di cui nessuno aveva mai sentito parlare al di fuori di Roma. Fu durante l'inverno del 1943, che alcuni ufficiali nazisti pretesero di ispezionare il reparto insieme a un dottore militare tedesco che avrebbe dovuto visitare i ricoverati, e constatare i sintomi di quelli che per chunque fosse al corrente della macchinazione erano diventati i "pazienti Kesserling". A causa di un ritardo da parte degli ispettori, Ossicini riuscì a spiegare la situazione ai piccoli pazienti, convincendoli a "tacere e tossire" per spaventare i "cattivi" che portavano la testa di morto sul bavero delle uniformi. Il gioco funzionò; e così i tre medici eroi salvarono la vita a oltre cinquanta persone. Con una delle più belle e assurde bugie bianche che Roma e la medicina ricordino.

Schindler's List, l'uomo e la lista che hanno salvato gli ebrei. Schindler's List è forse uno dei film più famosi e amati di Steven Spielberg. In esso si racconta la vera storia di Oskar Schindler, l'uomo che salvò migliaia di ebrei dall'Olocausto. Erika Pomella, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale.  Schindler's List - che andrà in onda questa sera su rete 4 alle 21.27 - è uno dei film più famosi tra quelli firmati dal regista Steven Spielberg e una delle pellicole più emozionanti tra quelle che affrontanto il tema della Shoah e dell'Olocausto. Arrivato al cinema nell'ormai lontano 1993, Schindler's List è tratto dal romanzo La lista di Schindler, scritto da Thomas Kennelly. Lo scrittore riuscì a raccontare la vera storia di Oskar Schindler grazie alla testimonianza di un sopravvissuto ebreo che riuscì a sfuggire alla deportazione proprio grazie all'aiuto dell'uomo.

Schindler's List, la trama. Dopo l'invasione della Polonia da parte della Germania nazista, quando agli ebrei viene vietato di avere attività commerciali, Oskar Schindler (Liam Neeson) pensa di approfittare della situazione e avviare un'attività che fabbrichi pentole per l'esercito tedesco. Grazie alla sua capacità di corruzione e all'aiuto di un contabile ebreo (Ben Kingsley), l'imprenditore riesce a dare il via alla Deutsche Emaillewarenfabrik, dove assume più di mille ebrei, molti dei quali suggeriti dal suo amico contabile per evitar loro di finire nei campi di concentramento. All'inizio le cose sembrano andare per il verso giusto: Oskar guadagna molto e ha il favore di alcune SS. Per i suoi impiegati, inoltre, la vita sembra andare molto meglio rispetto a quella degli ebrei nel ghetto. Tuttavia questo status quo viene meno quando in città arriva l'ufficiale delle SS Amon Goeth (Ralph Fiennes) con l'incarico di diminuire drasticamente il numero degli ebrei nel ghetto di Cracovia, spostandoli nel campo di concentramento di Krakow-Plaszow. Ben presto per Oskar inizierà una vera e propria lotta contro la crudeltà del partito nazista e per cercare di salvare gli ebrei dalla deportazione ad Auschwitz redigerà una lista delle persone da salvare.

La vera storia di Oskar Schindler. Oskar Schindler è stato davvero un uomo che ha cercato di cambiare la sorte del popolo ebreo polacco, arruolandoli nella sua fabbrica ed evitando ad alcuni di loro l'annientamento nei campi di concentramento. Naturalmente, il film di Steven Spielberg si prende qualche licenza poetica per aumentare ancora di più l'impatto emotivo della pellicola che racconta una delle pagine più nere della storia europea. Secondo David M. Crowe e il suo libro sulla vera storia di Oscar Schindler riportato da Forbes, l'imprenditore non scrisse effettivamente una lista coi nomi degli ebrei da salvare, né scoppiò a piangere al pensiero di tutte le vite che non aveva potuto proteggere. Come racconta NoSpoiler, Oskar Schindler fu un uomo comune, che conviveva coi suoi difetti. Si sposò a vent'anni con Emilie Pelzl, ma non passò molto tempo prima di cominciare una lunga serie di relazioni extraconiugali, da cui ebbe anche dei figli. Il momento cardine della sua storia avviene nel 1936, quando viene reclutato dall'intelligence del partito nazista per spiare le industrie della Cecoslovacchia. Un lavoro, questo, che più tardi si dimostrerà fondamentale. La partecipazione allo spionaggio, così come al partito nazista, darà a Oskar Schindler tutta una serie di contatti attraverso i quali l'imprenditore cercherà di affrontare gli anni della guerra. Come racconta sempre Forbes, dopo che la Germania invase la Polonia, Schindler cercò in ogni modo di mettere su una fabbrica di tegami. Il suo obiettivo, naturalmente, era quello di fare soldi. Ma, con il passare del tempo, l'uomo finì con l'affezionarsi davvero ai suoi lavoratori ebrei, soprattutto con quelli con cui aveva rapporti quasi ogni giorno. Inoltre aiutare gli ebrei divenne, per l'uomo, un'occasione per combattere contro le nuove politiche del partito nazista, andando contro le leggi brutali e disumane emanate per volere di Adolf Hitler.

Schindler's List: è esistita davvero una lista? Nel romanzo di David Crowe ci si interroga sull'effettiva esistenza della famosa lista di Schindler, che da il titolo al film di Spielberg. Secondo quando si legge nel libro, infatti, sembra che Oscar Schindler non abbia creato effettivamente una lista di nomi da salvare. Nel 1944, quando la Germania era ormai minacciata da ogni fronte, il numero di stragi degli ebrei aumentò in modo smisurato. Le SS e i soldati del partito nazista cercarono inutilmente di cancellare le prove degli stermini. Allo stesso tempo, però, era necessario continuare a far affidamento sulle fabbriche affinché potessero rifornire l'esercito tedesco di ciò di cui aveva bisogno per affrontare la guerra. Il protagonista di Schindler's List riuscì dunque a convincere le autorità tedesche che la sua fabbrica era di vitale importanza per lo sforzo bellico e, di fatto, aveva bisogno di conservare gli operai che ormai sapevano come lavorare. Tuttavia, non creò nessuna lista coi nomi degli ebrei da mantenere nella fabbrica. Questo compito venne compiuto da Marcel Goldberg, un impiegato ebreo assegnato al comandante delle SS Arnold Buscher. Secondo Crowe: "Nella realtà Oskar Schindler non ebbe nulla a che fare con la creazione della sua famosa lista di trasporto".

Processata a 95 anni ex segretaria in un lager: è accusata di sterminio. Una donna di 95 anni potrebbe essere rinviata a giudizio per essere stata complice dell'omicidio di 10mila persone internate e giustiziate nel campo di sterminio di Stutthof. Davide Bartoccini, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Il suo nome completo non è stato riportato alle cronache, ma secondo la procura di Itzehoe, un'anziana donna di 95 anni sarebbe complice dell'omicidio di 10mila persone internate e giustiziate nel campo di sterminio di Stutthof: uno dei primi campi di prigionia nazisti che sorgeva ad est di Danzica, dove nel 1943 iniziò ad essere impiegato il famigerato agente tossico Zyklon B per “gasare” i prigionieri ebrei, ma anche i partigiani polacchi. Non è il primo caso che vede una donna coinvolta in quelle che può essere considerato tra i più biechi crimini di guerra e contro l’umanità della storia, ma è sicuramente singolare l'indagine - iniziata nel 2016 -, che chiede ora il rinvio a giudizio per tale Irmgard F : ex segretaria del comandante delle unità "testa di morto" delle SS che controllavano il campo di concentramento nazista di Stutthof; con l'accusa di aver collaborato “insieme ai responsabili del massacro sistematico di prigionieri ebrei, partigiani polacchi e prigionieri di guerra sovietici russi" attraverso “la sua funzione di stenografa e segretaria del comandante”. Tale compito sarebbe stato svolto dalla donna, a quel tempo appena adolescente, "tra giugno 1943 e aprile 1945”. Il campo venne liberato come molti altri dall’Armata Rossa nel maggio del ’45. Per quanto riguarda i prigionieri “sopravvissuti”, varrà l’accusa di “collaborazione nel tentato omicidio”. È noto infatti che furono numerosi i prigionieri che sopravvissero agli anni di internamento nel campo di Stutthof (oggi Polonia), dove secondo le ricostruzioni sarebbero transitate oltre 100mila anime, delle quali oltre 65mila vi avrebbero trovato la morte. Sebbene con evidente ritardo, la giustizia tedesca apre così la strada al futuro processo dell'anziana signora che si ritiene stia trascorrendo gli ultimi anni della propria vita in un istituto per anziani a Pinneberg, nei pressi di Amburgo. Secondo quanto evidenziato dalla stampa estera, nel 2019 erano ancora venticinque i processi aperti nei confronti di criminali nazisti che avevano preso parte alla “soluzione finale”. Negli ultimi due anni la Germania ha processato e condannato diversi uomini appartenenti alle SS, estendendo alle guardie del campo e ai collaboratori, l'accusa di complicità nell’omicidio. Nel luglio 2020, lo stesso tribunale di Amburgo - città nei pressi della quale si troverebbe l’anziana signora - ha condannato a due anni di carcere l’ultra novantenne Bruno Dey, ex guardia del campo di concentramento di Stutthof.

Liliana Segre racconta la sua deportazione. Il Dubbio il 31 gennaio 2021. Liliana Segre è stata deportata da Milano al campo di concentramento nazista di Auschwitz Birkenau il 30 gennaio 1944. «Soltanto i detenuti ci hanno fatto sentire persone». «Quei vagoni non sono folkloristici, come qualcuno ha osato dire, vagoni tragici. Nel caso del mio trasporto c’erano 600 persone e quindi erano molti camion che partivano da San Vittore. Perché mi voglio anche occupare che siano vaccinati i detenuti di San Vittore, perché io sono stata lì 40 giorni e so come si sta nelle celle, anche se adesso sono rinnovate e sicuramente diverse da quelle che ho vissuto io con mio papà in quella cella indimenticabile. Ma chi eravamo? Eravamo vitelli che andavano a qualche mattatoio, eravamo merci, eravamo già pezzi, quegli stücke che poi siamo diventati senza saperlo. Nessuno ci ha fermato per strada, sono stati detenuti di San Vittore che ci hanno dato l’ultimo saluto, perché detenuti sanno molto bene chi è colpevole e chi no. Il mio dovere finché ho vita è di ricordare quelle persone, perché quei detenuti ci hanno fatto sentire ancora persone». La senatrice Liliana Segre racconta la sua deportazione al Binario 21 di Milano, diventato sede del Memoriale della Shoah in piazza Safra 1. Oltre alla senatrice a vita presenti anche Andrea Riccardi (Comunità di Sant’Egidio), Roberto Jarach (presidente della fondazione Memoriale della Shoah), il rabbino capo di Milano Rav Alfonso Arbib, l’arcivescovo Mario Delpini, il sindaco Beppe Sala e Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Liliana Segre è stata deportata da Milano al campo di concentramento nazista di Auschwitz Birkenau il 30 gennaio 1944 e sulla pelle porta ancora il numero matricola 75190. Il 19 gennaio 2019 è stata scelta dal presidente Sergio Mattarella come membro permanente del Senato, «per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». Ad Auschwitz, a 13 anni, ha incontrato anche gli zingari, che a prima vista sembravano dei privilegiati: mentre lei e le altre ragazze stavano coi capelli rasati a zero, lontano dalle proprie famiglie e coi i vestiti a righe, loro vivevano tutti insieme, coi loro capelli ancora tutti in testa e senza il pigiama tipico dei prigionieri. «Ci dicevamo: che fortunati, questi, ma chi sono? Una mattina però non c’erano più: li avevano gasati tutti durante la notte. Non lo posso dimenticare». Il 31 gennaio 1944 il treno sul quale si trovava Segre aveva già passato il confine «e la gente, quando ha visto che non era più Italia dai finestrini vide che si era arrivati al confine i pianti, disperazione e il rannicchiarsi mio tra le braccia di mio padre sono indimenticabili, perché il viaggio durava una settimana e quindi la partenza da qui era ancora Milano, era ancora la mia città dove ero nata e cresciuta, dove ero andata a scuola, dove ero stata amata. Non ero più una bambina, ero già la ragazza vecchia che cercava di non sentire e di non vedere. Cominciavo a cercare di sottrarmi alla disperazione e di avere quella forza che devono avere i ragazzi, gli adolescenti, per i quali ci si preoccupa tanto e che in realtà sono fortissimi e possono cambiare il destino loro e quello dei loro genitori, spesso deboli e incapaci di educarli. Noi quando siamo adolescenti siamo fortissimi e possiamo consolare l’altro e mentre l’altro ti dice non avere paura paura ,tu gli rispondi non ho paura, perché sono vicino a te. Ricordiamo tutti quelli che non sono tornati».

Liliana Segre per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2021. Quando, ormai trent'anni fa, decisi di raccontare la mia esperienza di giovanissima deportata ad Auschwitz, molte scuole di tutta Italia cominciarono a invitarmi per ascoltare la mia testimonianza. Quasi in ogni luogo ero stata preceduta da Nedo Fiano, il padre dell'autore, al quale, fin dal bellissimo titolo "Il profumo di mio padre", è dedicato questo libro (in uscita domani per Piem-me). Nedo era alto, bello, vigoroso, vulcanico, estroverso: riportava con esattezza i fatti, le situazioni, i personaggi della tragedia che aveva attraversato, ma li impersonava come un attore consumato, alzava la voce o la riduceva a un sussurro, si commuoveva e piangeva sulla sorte sua e di tutta la sua famiglia assassinata dai nazisti. Tutto il contrario di me, che non so commuovermi e piangere in pubblico e che non alzo mai la voce: due testimoni più diversi, magari nella stessa scuola, era difficile immaginarseli. Ma a me andava bene così, era giusto così, perché eravamo e siamo due individui, non due robot-schiavi come avrebbero voluto ridurci i nostri aguzzini. Di cinque anni maggiore di me, Nedo era entrato nel lager da giovane uomo, mentre io ero una ragazzina appena adolescente: lui sapeva un po' di tedesco, mentre io nemmeno una sillaba. Lui venne assegnato al Kanada - il magazzino in cui si smistavano i vestiti, le valigie e ogni avere strappato alle vittime - dove le sofferenze, per chi lavorava lì, erano un po' meno terribili e la possibilità di sopravvivere un po' più alta, mentre io, sfuggita per puro caso alle selezioni, lavoravo come operaia-schiava nella fabbrica di munizioni Union. Insomma, diversi erano non solo i nostri temperamenti, ma diverse - e molto - erano anche le nostre esperienze ad Auschwitz-Birkenau. Dopo la Liberazione i nostri ruoli si erano in un certo senso invertiti: io, più fortunata, avevo trovato ad accogliermi una certa agiatezza materiale e - non senza difficoltà e incomprensioni - quel che restava della mia famiglia, i nonni materni, gli zii. Nedo invece non aveva trovato nessuno. Dopo l'inferno, il deserto. Con un coraggio da leone, che ho sempre ammirato e ammiro ancora oggi, si era rifatto letteralmente una vita, una famiglia, un'istruzione (laureandosi da studente lavoratore passati i quarant'anni), una carriera e una posizione economica e sociale. Nedo, con le sue ferite inguaribili e comuni a tutti noi sopravvissuti, è stato nonostante tutto l'incarnazione stessa dell'ottimismo della volontà, del volercela fare a dispetto di ogni tragedia e avversità. La sua fascinazione per tutto ciò che era moderno e per l'America land of opportunity, che suo figlio Emanuele racconta benissimo in questo libro, era il segno visibile del suo carattere indomito. Nel libro di Emanuele Fiano - anche di lui come di suo padre sono da molti anni diventata amica e ammiratrice del suo costante impegno civile - vengono raccontate con gusto e talento di scrittore molte altre vicende famigliari: la Firenze d'origine tra lussuose ville di parenti ricchi e più modeste pensioni, la Milano del miracolo economico che unisce nel progresso sociale ed economico ebrei e non ebrei in un'atmosfera di aperta solidarietà, l'attaccamento pieno di tenerezza alle tradizioni ebraiche anche da chi, come Emanuele e io stessa, non si considera credente. E naturalmente c'è la Shoah, scoperta progressivamente e dolorosamente tra cose non dette e frasi lasciate cadere, la Shoah incomprensibile e sempre presente. Ma se ho parlato tanto di Nedo, del nostro essere entrambi dei sopravvissuti e del mio rapporto con lui è perché questo libro è soprattutto un grande atto di amore filiale. L'amore per un padre non sempre facile, abitato dai suoi fantasmi e dai suoi incubi - dovrei dire dai nostri fantasmi e dai nostri incubi -, ma capace di passare al figlio un testimone o forse un lievito che Emanuele descrive così alla fine del suo racconto: «"Non mi lasciare mai", sembra che mi dica la voce di dentro "non permetterti di dimenticarmi, di dimenticare tuo padre e quelle rovine fumanti che ha attraversato, non abbandonare mai la voglia di entrare fin dentro i meandri più crudi dell'animo umano, fin dove ogni morale si è persa, sappi che sei figlio della forza sovrumana di chi non si è dato per vinto, di chi ha continuato a sperare"».

Aurelia, nata ad Auschwitz: «Mia madre sopravvisse, poi mi raccontò l’inferno». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 14/1/2021.Quando le telefono è il giorno del suo compleanno. Compie 75 anni. Ma in questo caso, conta, insieme alla data di nascita, il luogo in cui questa è avvenuta. La signora Aurelia Gregori è venuta al mondo nel campo di concentramento di Auschwitz il 13 gennaio del 1945. Il suo è un racconto inedito.

I documenti conservati nell’Archivio di Auschwitz. È la vicenda di uno dei due neonati italiani la cui identità è stata ricostruita attraverso l’analisi di documenti conservati nell’Archivio di Auschwitz, l’elenco delle donne con bambini ricoverate, dopo la nascita, nell’ospedale allestito nell’ex Lager subito dopo l’arrivo dei sovietici, i cui dati sono stati analizzati e messi a confronto con la documentazione italiana di vario tipo e della Croce Rossa internazionale. È un lavoro coordinato da Marcello Pezzetti, uno dei massimi studiosi della Shoah, insieme alla storica Sara Berger, che, con Pezzetti, per la Fondazione Museo della Shoah di Roma, ha effettuato la ricerca per la realizzazione dell’esposizione «Dall’Italia ad Auschwitz», da Liliana Picciotto e dal suo staff del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, da Laura Tagliabue, dell’ANED di Sesto San Giovanni, e da Dunja Nanut, dell’ANED di Trieste.

La deportazione dall’Italia. Ne sta uscendo un quadro della deportazione dall’Italia ad Auschwitz del tutto inedito, ricco di novità assolute, spesso sconvolgenti. Una di queste è l’avvenuta deportazione di un numero incredibilmente consistente di donne da Trieste, arrestate in tutto il territorio del Litorale Adriatico, incarcerate nel penitenziario del Coroneo e deportate ad Auschwitz, come tutte le persone di origine ebraica. Tra queste donne c’erano le due giovani che hanno dato alla luce un bambino e una bambina nelle condizioni insostenibili del campo di Auschwitz. Una di queste era Aurelia Gregori, una ragazza triestina di ventitrè anni che partorì, in quell’inferno, una bambina alla quale diede poi il suo stesso nome. «Mia mamma non era ebrea e non era antifascista. Era una ragazza come tante. Fu presa da due fascisti che la sequestrarono e la portarono a Villa Triste dove fu stuprata. Poi l’hanno messa su uno di quei treni piombati, destinazione Birkenau».

Villa Trieste. Villa Triste era in via Bellosguardo numero otto, a Trieste. Era stata la casa di una famiglia ebraica che, per spietato contrappasso, fu trasformata nella sede dell’Ispettorato speciale di Pubblica Sicurezza dove operava la banda Collotti che prendeva il nome da un funzionario di polizia che Paolo Rumiz ha così descritto: «Il capo era tale Gaetano Collotti, un tipo distinto che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro. Per non far sentire le urla dei disgraziati — in gran parte sloveni del Carso e altri antifascisti di lingua italiana — faceva sparare intorno musica ad alto volume». Molti sono stati torturati lì e anche nella caserma dei carabinieri di via Cologna. È sempre Rumiz a dare voce al racconto di quel martirio attraverso le parole di Sonia Amf Kanziani: «Un giorno mi appesero con altre tre donne. Avevamo solo gli alluci che toccavano terra. Guardi, porto ancora ai polsi i segni delle corde. Ci picchiavano e Collotti guardava, impassibile. Diceva: se parli ti aiuteremo. Ma aveva due cani lupo pronti a strapparci la carne. A un tratto mormorai in sloveno: Gesù, a te ti hanno tormentato per tre giorni, io sono qui da tre mesi. Tu ci hai messo tre ore a morire, io muoio ogni giorno... Allora mi percossero ancora più forte, gridando che non dovevo parlare quella lingua schifosa. Furono in molti a vedermi uscire svenuta e piena di sangue dalla stanza. A guerra finita un medico mi visitò e mi chiese come avevo fatto a uscire viva da una simile pena».

Violentata dagli aguzzini. «Mia madre» dice oggi Aurelia Gregori «lì fu violentata dagli aguzzini che poi l’hanno trasferita ad Auschwitz-Birkenau. Solo quando sono stata più grande mi ha raccontato ciò che aveva subito nel campo: le baracche, i corpi delle persone agonizzanti portati dentro la sera per essere spostati, morti, il mattino dopo. L’orrore delle kapò che si vendevano ai nazisti. Mi ha raccontato di quando ha contratto il tifo, al sesto mese di gravidanza, e di quante persone ha visto cadere intorno a lei per sfinimento, fame, freddo. Non ci si rende conto di cosa fosse l’inverno lì. Mamma andava con le altre prigioniere a vuotare al mattino i bidoni con le feci nella tundra, nel gelo, sotto zero e vestite di niente. Lei non ce la faceva più, voleva farla finita, era al nono mese, era stremata. Una sua compagna era fuggita e i nazisti, quando qualcuno scappava, scioglievano i cani che prendevano i fuggitivi e li sbranavano. Le Ss non si erano accorte che mamma era incinta perché lei era alta e nascondeva la pancia. Altrimenti l’avrebbero certamente mandata nella camera a gas. È stata fortunata e io con lei. Col tifo ha temuto di non farcela, mi ha detto che pensava: “Muoio e muoio insieme a te”. Dio ci ha salvate, insieme.

Il parto su un tavolaccio di legno. Io sono nata a gennaio. Il parto glielo hanno fatto fare su un tavolaccio di pietra. Mamma non aveva le doglie, le contrazioni, non riusciva a partorire. Era troppo debole, aveva fame, non mangiava nulla, aspettava che qualcuno morisse per prendere un pezzo di pane. Mi ha detto: “Dovevo far sopravvivere te e me. Eravamo in due. Io pensavo che saresti venuta fuori come un mostro. Se fosse stato così ti avrei lasciato lì, sotto la neve. Invece, nonostante tutto, eri una bella bambina. Avevi molti peli, e questo ti salvò dalla marchiatura col numero che i nazisti volevano farti”. Mia mamma cercò invece, con un chirurgo, di far venire via quelle cifre impresse nel suo braccio. A Trieste, dopo la guerra, meno parlavi dei lager e dei nazisti e meglio era. Io, che lavoravo in ospedale nel reparto geriatrico, stavo zitta. Alla scuola elementare le maestre, che erano ebree, certamente avranno avuto un sobbalzo nel leggere il luogo in cui ero nata, ma non mi hanno mai detto nulla». Aurelia è rimasta in vita perché non era ebrea, altrimenti sarebbe stata eliminata come i tanti bambini le cui foto ogni giorno l’Auschwitz Memorial pubblica sui social network.

I bambini nei lager. Furono portati nel lager circa duecentotrentamila bambini e adolescenti, ne sopravvissero alcune centinaia. Ci sono pagine atroci come quella del martirio dei venti bambini ebrei sequestrati da Mengele per gli esperimenti e poi trucidati nella scuola di Bullenhuser Damm o il racconto che faceva Shlomo Venezia, uno dei deportati, che testimoniò di aver visto con i suoi occhi un neonato strappato dal seno della madre morta nella camera a gas e lanciato in aria dai nazisti che gli spararono così. Aurelia riprende a parlare: «Io non sono mai voluta andare ad Auschwitz, mamma invece ci è tornata con l’associazione. Lei ha sofferto tanto, per tutta la vita. Faceva la pulitrice dei condomini. È morta nel 2012, il 14 marzo». Di lei i freddi dati degli archivi dicono questo: «Aurelia Gregori (1921-2012), nata a Sant’Antonio (Villa Decani, Capodistria, oggi in Slovenia) viene arrestata il 24 maggio 1944 a Trieste nella sua abitazione di Largo Barriera Vecchia n. 14. Quando viene deportata ad Auschwitz, dove arriva il 25 giugno 1944, è incinta di tre mesi. Immatricolata con il numero 82120, resiste alle spaventose condizioni igienico-sanitarie del campo e il 13 gennaio 1945, due settimane prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, riesce a dare alla luce una bimba che riceve il suo stesso nome: Zlatka/Aurelia Gregori. La bimba viene battezzata nel febbraio in una chiesa a Brzeszcze. Aurelia rientra a Trieste il 20 settembre 1945». Dell’altro bambino nato ad Auschwitz si sa solo che, da grande, non ce l’ha fatta.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2021. «Salvare un po' della bellezza del mondo» era l'obiettivo di Rose Valland, storica dell'arte e resistente francese che durante la Seconda guerra mondiale riuscì a sottrarre migliaia di opere d'arte ai saccheggi dei nazisti. Le sue parole danno ora il titolo alla mostra a Chambord fino al 2 gennaio, sul ruolo del castello come centro di raccolta e smistamento dei capolavori tra il 1939 e il 1945. Una parte importante dell'esposizione è dedicata al pezzo più prezioso, la Gioconda di Leonardo, che passò più volte da Chambord nel suo periplo attraverso la Francia per sfuggire ai bombardamenti e alle mire dell'occupante tedesco. Arrivata in Francia attraverso le Alpi assieme all'autore invitato da Francesco I ad Amboise nel 1516, poi regolarmente acquistata dal re, la Gioconda è stata spostata nell'arsenale di Brest nel 1870, per proteggerla dalla guerra franco-prussiana. Rubata dal vetraio italiano Vincenzo Peruggia e ritrovata a Firenze alla fine del 1913, Monna Lisa ha passato la Prima guerra mondiale a Bordeaux e a Tolosa, per poi venire appesa nella grande galleria del Louvre. Quando Hitler invade i Sudeti, il 27 settembre 1938 il dipinto di Leonardo lascia una prima volta il Louvre per Chambord. È la prova generale di quel che accadrà neanche un anno dopo. All'annuncio del patto Molotov-Ribbentrop tra Urss e Germania nazista, nell'agosto 1939, il direttore dei musei nazionali francesi Jacques Jaujard lancia il piano messo a punto ormai da anni: i dipinti vengono staccati dai muri dei musei nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1939 e a partire dal 25 vengono caricati su 51 convogli su strada e trasportati prima a Chambord e poi verso gli undici depositi selezionati in tutta la Francia. Il 28 agosto 1939 un primo gruppo di otto camion lascia il Louvre in direzione della valle della Loira. A bordo c'è la Gioconda, accanto alla «Libertà che guida il popolo» di Delacroix e alla «Merlettaia» di Vermeer. Le condizioni di trasporto del dipinto di Leonardo sono uniche: «È il solo quadro a disporre di una sua cassa a parete doppia, che durante il viaggio poggia su una barella di ambulanza con le sospensioni elastiche ad assorbire le vibrazioni», dice la commissaria dell'esposizione, Alexandra Fleury. Tre mesi dopo l'arrivo a Chambord, la Gioconda riparte per Louvigny, nel dipartimento della Sarthe. Ad accompagnarla, seduto quasi abbracciato a lei nel retro del campion e non nella cabina di guida, c'è Pierre Schommer, il responsabile del deposito di Chambord, che racconterà l'avventura nel libro autobiografico «Il faut sauver la Joconde!» (bisogna salvare la Gioconda). Il capolavoro di Leonardo viaggerà poi verso l'abbazia di Loc-Dieu, poi al museo Ingres di Montauban, infine verso il castello di Montal, dove rimarrà fino alla fine della guerra. Grazie al piano di Jaujard e ai tanti che lo hanno aiutato, nonostante l'occupazione la Gioconda non è stata danneggiata né trafugata, e non è stata trasferita nel museo di Linz, in Austria, dove Hitler avrebbe voluto radunare i capolavori dell'arte «non degenerata».

DAGONEWS il 14 gennaio 2021. L'ultima opera saccheggiata dai nazisti è stata scoperta nella collezione di un pensionato tedesco ed è stata restituita ai legittimi proprietari otto anni dopo il suo ritrovamento. Il disegno di Carl Spitzweg “Playing the piano” è stato consegnato martedì alla casa d'aste Christie's su richiesta degli eredi del legittimo proprietario, Henri Hinrichsen, dopo essere stato trovato nell’appartamento del pensionato Cornelius Gurlitt nel 2012. L'opera era stata sequestrata all'editore musicale ebraico Hinrichsen nel 1939, due anni prima che venisse ucciso ad Auschwitz, ed è stata ereditata da Gurlitt da suo padre. Le autorità tedesche hanno ora consegnato 14 opere della collezione che vale un miliardo di sterline trovate in due case appartenenti a Gurlitt, morto nel 2014, dopo che è stato dimostrato che erano state saccheggiate dai nazisti. L’opera fu acquistata dal padre di Gurlitt, Hildebrand Gurlitt, un mercante d'arte che vendeva opere confiscate dai nazisti, nel 1940. Cornelius Gurlitt ha ereditato gran parte della collezione da suo padre e ha lasciato gran parte delle opere in eredità a un museo svizzero, il Kunstmuseum Bern. Una task force del governo tedesco ha identificato l’opera come saccheggiata nel 2015, ma per complicazioni legali non è stato possibile effettuare la sua restituzione fino ad ora. All'epoca furono trovati opere di Picasso, Renoir, Cézanne e Matisse. Gurlitt ha sempre affermato che tutti i dipinti fossero stati acquisiti legalmente da suo padre, ma in passato si è ipotizzato che almeno 500 fossero stati rubati dai nazisti o acquistati da collezionisti ebrei a prezzi stracciati. Suo padre era il principale esperto di arte moderna della Germania nazista, incaricato personalmente da Hitler di vendere all'estero i dipinti che disprezzava per aiutare a finanziare lo sforzo bellico del Terzo Reich. Tuttavia, Hildebrand Gurlitt tenne segretamente molte delle opere per sé. Dopo la guerra, è stato interrogato dall'unità "Monuments Men" dell'esercito americano ma non è mai stato accusato di alcun crimine: Gurlitt mentì dicendo che la maggior parte della sua collezione era stata distrutta nel bombardamento di Dresda nel 1945. Sebbene solo 14 delle 1.450 opere d'arte sono state identificate come rubate dai nazisti dalla German Lost Art Foundation, l'origine di circa 1.000 pezzi rimane incerta.

Estratto dell'articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 23 agosto 2021. L'uomo nella foto sorride. Ma non è ignaro. Sa chi è il collega che posa accanto a lui. Sa che è uno dei più feroci gerarchi nazisti, latitante da anni. Anche Adolf Eichmann sembra accennare a un sorriso. Si sente protetto in quella sperduta provincia argentina. Coperto dalla fedeltà d'acciaio dell'ampia rete di ex nazisti che si nascondono nel Paese di Perón e dalla falsa identità che gli hanno regalato. Ma l'uomo nella foto ha capito da un pezzo che dietro Ricardo Klement si cela uno dei principali architetti dello sterminio degli ebrei, il boia che Hannah Arendt prenderà a esempio per descrivere la banalità del male quando diventerà l'imputato del più spettacolare processo alla Germania nazista in Israele. Gerhard Klammer è schifato da Eichmann. In Germania ha visto i filmati sui campi di concentramento, per anni busserà invano alle autorità tedesche per denunciarlo. Finché non incontrerà la persona giusta. Fino a oggi l'identità di Klammer, eroe civile, geologo tedesco emigrato in Sudamerica che consegnò il boia di Hitler alla procura generale e al Mossad, è rimasta segreta. Il quotidiano Sueddeutsche Zeitung è riuscito a ricostruirne l'identità attraverso una lunga inchiesta. È il 1949 quando Klammer decide di abbandonare la moglie, i figli, e una Germania ancora ricoperta di macerie per cercare fortuna in Sudamerica. È costretto a lavoretti saltuari, pagati una miseria, e a settembre si imbarca clandestinamente a Genova su una nave che lo porta in Argentina. (...) Quando arriva in azienda, tutti sanno chi si nasconde dietro Ricardo Klement. All'inizio degli anni Cinquanta, Klammer comincia a denunciarlo alle autorità tedesche. Ma nessuno lo ascolta. Il Paese vuole dimenticare, il cancelliere Konrad Adenauer è ansioso di cancellare tante biografie coperte di sangue, vuole pacificare una Germania che fatica a rialzarsi. (...) Un giorno, disperato, si rivolge a un suo amico teologo rimasto in Germania, Giselher Pohl, molto vicino al vescovo Hermann Kunst. È lui a parlare nel 1959 con il leggendario Procuratore generale Fritz Bauer, con il magistrato ebreo che si è messo a caccia gli ex nazisti ma che ha la sensazione di calpestare territorio nemico ogni volta che lascia il suo ufficio. I tribunali sono infestati di ex nazisti, e Bauer ha imparato da un pezzo a girare le sue informazioni al Mossad, ai servizi segreti israeliani. Su Eichmann, però, si sono bruciati già una volta, non si fidano dell'accuratezza delle sue informazioni. Finché Bauer non tira fuori la foto. È l'istantanea scattata in Argentina in cui si vede Eichmann accanto a Klammer. È la prova che convince il Mossad, che rapisce Eichmann da lì a poco e lo consegna alla giustizia israeliana. Ma la foto è strappata: Bauer ha voluto nascondere il suo informatore. Per ricomporla, la Germania ha dovuto aspettare sessanta lunghi anni.

Paolo Galassi per “il Venerdì - la Repubblica” il 17 gennaio 2021. Dal romanzo di Olivier Guez su Josef Mengele ai nazi-pensionati della serie Hunters, il copione che lega l' Argentina al Terzo Reich non passa mai di moda. Gli spunti storici non mancano: se una sera di 60 anni fa Ricardo Klement da Bolzano (aka Adolf Eichmann) veniva sequestrato dal Mossad in un sobborgo di Buenos Aires, nel 1970 Juan Domingo Perón in persona confermava a un giovane Tomás Eloy Martinez le visite del medico bavarese Helmut Gregor, le cui vacche partorivano solo vitelli gemelli. Un hobby, quello della genetica (bovina e non), ispirato dal ministro nazista Richard Walther Darré, padre del manifesto ariano Blut und Boden ("Sangue e terra", pubblicato in Italia dal gruppo AR di Franco Freda), morto sì in una clinica di Monaco, ma cresciuto sui banchi della Goethe Schule della capitale argentina a inizio '900. Sottomarini U-Boot che sbarcano gerarchi e forzieri in Patagonia, il Führer in salvo sulle rive del lago Nahuel Huapi di Bariloche (rifugio di Erich Priebke): cambia il mito del Quarto Reich alla fine del mondo, ma la caccia al tesoro nazi rimane. L'ultima bomba, che ha fatto il giro del mondo, risale allo scorso marzo: ritrovata nello scantinato di una banca la prova della triangolazione Berlino-Baires-Zurigo con cui i capitali sottratti a milioni di ebrei sarebbero stati "lavati" nel Rio de la Plata e congelati in Svizzera. Una lista di 12mila presunti nazisti tramite i quali il Banco Alemán Transatlántico di Buenos Aires (filiale della Deutsche Bank) e il Banco Germánico de la América del Sur avrebbero girato fiumi di denaro allo Schweizerische Kreditanstalt, oggi Credit Suisse. Documenti appartenenti a un'inchiesta parlamentare del 1941, di cui il Centro Simon Wiesenthal, l'agenzia intitolata al celebre cacciatore di nazisti sopravvissuto a Mauthausen, riproduce alcune schermate sul suo sito: nomi, numeri e l'inconfondibile svastica con il timbro NSDAP del Partito Nazionalsocialista. Il merito è di un ex impiegato della Banca Nazionale dello Sviluppo, a cui 35 anni fa un lungimirante superiore consegna dei fondi d'archivio destinati al macero. Il 20enne Pedro Filipuzzi, sangue inglese e friulano, ancora non sa che quei sei piani di granito e art déco della calle 25 de Mayo, a 150 metri dalla Casa Rosada, furono la base delle trame nazi in Argentina: dal 1933 vi si concentrano infatti ambasciata tedesca, Banco Germánico de la América del Sur, filiale argentina del NSDAP e i giornali di propaganda El Pampero e Der Trommler. L'edificio viene espropriato nel 1945, quando l' Argentina (ufficialmente "neutrale" durante la Seconda guerra mondiale) si schiera in extremis con gli Alleati. La Banca Nazionale dello Sviluppo eredita gli archivi del Banco Germánico, che finiranno in mano a Filipuzzi 40 anni dopo: il movente e il metodo delle sue ricerche, poi consegnate al Centro Wiesenthal, sarebbero materia eccellente per un romanzo. Dal reclamo che i referenti della comunità ebraica d' Argentina inviano al Credit Suisse emerge una traccia interessante: «Sappiamo che avete già ricevuto richieste da parte di presunti eredi dei nazisti presenti sulla lista». Per capire chi stia bussando alla porta dei banchieri di Zurigo andiamo a parlare con Pedro Filipuzzi. Oggi è un ingegnere informatico del gigante Telefonica. Nel 2017 denuncia la discriminazione subìta dagli impiegati ebrei della compagnia, ricevendo l' appoggio del potente Congresso ebraico latinoamericano, che a Buenos Aires ha la sua centrale operativa. Il suo prossimo libro sarà su questa storia: «Più che altro una riproduzione dei documenti ritrovati. Di mio ci sarà molto poco, per coprirmi le spalle. Un importante studio legale mi ha offerto soldi e un posto di lavoro invidiabile per stare zitto, ma non ho accettato» racconta al Venerdì. In un caffè dell'Avenida Corrientes ci mostra bozze e titolo: "La rotta del denaro dei nazi argentini. L'organizzazione nazi dell' Unione Tedesca dei Sindacati. Lista dei membri". La famosa lista, quindi, è quella degli iscritti alla filiale argentina della UAG (Unión Alemana de Gremios), il sindacato unico dei lavoratori tedeschi d'Argentina durante il Terzo Reich, estensione oltreoceano del Deutsche Arbeitsfront (DAF), il Fronte tedesco del lavoro fondato nel 1933. L'intestazione "Camera dei deputati" conferma l' origine dei documenti: è l' inchiesta parlamentare del 1941 sulle attività naziste in Argentina, bruciata - si è letto ovunque - durante il golpe pro-Asse del 1943 guidato dal colonnello Juan Domingo Perón, aggregato militare a Roma dal '39 al '41 e poi Presidente d' Argentina dal '46 al '55. Ci sono dati anagrafici e numeri di tessera degli iscritti, rapporti sulle imprese tedesche legate al Reich (non poteva mancare la IG Farben, produttrice dello Zyklon-B usato nei campi di sterminio) e le transazioni tra sindacato, banche tedesche di Buenos Aires e banche svizzere. «Buenos Aires era il principale centro offshore dei nazi sti per riciclare il denaro ottenuto dal saccheggio delle banche e delle imprese dei Paesi occupati. La valuta straniera entrava come "valigia diplomatica", era cambiata in dollari o franchi svizzeri e poi investita in imprese tedesche o girata in Svizzera. L' obiettivo era far rientrare il denaro in Europa perché la Germania potesse utilizzarlo». Ma come rimetterlo in circolazione? Secondo Filipuzzi, attraverso le migliaia di conti interni al sindacato, a loro volta collegati a un unico conto aperto presso la banca tedesca di Buenos Aires: «I tesserati del sindacato erano circa 12mila, ognuno con un conto interno che tributava al conto 4063 della UAG presso il Banco Germánico de la América del Sur di Buenos Aires, dove confluivano anche i ricavi delle imprese tedesche radicate in Argentina. Attraverso il Banco Alemán Transatlántico, poi, questo denaro era girato al conto n° 2 del DAF presso lo Schweizerische Kreditanstalt di Zurigo, oggi Credit Suisse. Era necessario che l' Argentina rimanesse neutrale perché i conti bancari dei nazisti di Buenos Aires continuassero ad essere attivi. Una neutralità apparente, per coprire la triangolazione Berlino-Baires-Zurigo». Così parlò Filippuzzi, ma non tutti sono totalmente d' accordo. «È vero che i nazisti usavano banche tedesche per muovere denaro attraverso l'Argentina, accumulando dollari e franchi svizzeri che non potevano ottenere in altro modo, cosa che preoccupava in particolare gli Stati Uniti. Ma in Argentina non c'erano 12mila nazisti a triangolare beni sottratti agli ebrei, e ancora non ho visto prove che lo dimostrino». Formato nello storico Buenos Aires Herald durante l'ultima dittatura, Uki Goñi è il reporter che ha ricostruito il cammino di 300 SS, collaborazionisti belgi, francesi e ustascia croati, verso il Rio de la Plata. Oltre a documentare la cinematografica ratline (il sistema di vie di fuga) appoggiata dal Vaticano in chiave anticomunista, il suo libro Operazione Odessa ha confermato l'esistenza della famigerata Circolare 11 (ritrovata nel '98 a Stoccolma) con cui nel 1941 il cancelliere argentino José Maria Cantilo ordinò alle ambasciate di negare l'asilo a chiunque cercasse di scappare a Buenos Aires. È così che diplomatici tedeschi e argentini strinsero il cerchio intorno agli ebrei più ricchi, gli unici in grado di salvarsi: il prezzo del visto, variabile in base a patrimonio e numero di familiari, si pagava presso le banche tedesche dei Paesi neutrali, che diventavano piazze di riciclaggio e investimento. «Le fake news in questo campo sono permanenti, eppure non ricordo un caso con tanta eco internazionale». Il ricercatore Julio Mutti ci fa notare che persino la copertina dei documenti digitalizzati (riprodotti dal Centro Wiesenthal e dai giornali) è stata manipolata, inserendo un modulo con la svastica estrapolato da un altro rapporto. «L'inchiesta parlamentare del 1941 è un documento pubblico depositato presso la Camera dei deputati, gli storici lo conoscono da decenni. Non c' è stata nessuna rigorosità in termini storici, né da parte dei media, né di chi li ha informati. Non c' è prova dell' esistenza di un conto svizzero con denaro nazista, solo una lista di persone affiliate a un' organizzazione nazista (il sindacato) che forse naziste non erano (c' erano anche braccianti e peones delle estancias)». Sul suo sito, Mutti riproduce l' esame dei periti della commissione parlamentare: il volume dei movimenti bancari verso Zurigo e Berlino non risulta nemmeno paragonabile ai 33 miliardi di euro sparati dal quotidiano La Nación. «Il Credit Suisse potrebbe anche nascondere denaro nazista, ma non in tali quantità: non sarebbe potuto uscire dall' Argentina». C' è anche un altro aspetto che sarebbe sfuggito ai media di mezzo mondo: Filipuzzi avrebbe rintracciato e connesso tra loro i discendenti di alcune importanti "eminenze grigie" iscritte al sindacato nazista (attive in Argentina prima, durante e dopo la guerra), che ora starebbero reclamando i capitali di famiglia congelati in Svizzera. Sono loro i "presunti eredi dei nazi" a cui Filipuzzi avrebbe consegnato vari assi da calare nel poker legale con il Credit Suisse. Un paio di esempi: il fabbricante d' armi austriaco Fritz Mandl, in bilico costante fra Gestapo e Alleati, ai cui eredi Filipuzzi suggerisce una pista di aziende tedesche radicate in Argentina (presenti nella "black list" yankee del 1946) e di trust svizzeri registrati in Liechtenstein. O i figli di Werner Koennecke, tesoriere della rete di spionaggio nazi "Bolivar" (che in Argentina aveva la sua base operativa) e genero del banchiere Ludwig Freude, che Perón salvò in extremis dall' estradizione: il suo appoggio finanziario al Generale fu ricambiato con la nomina del figlio Rodolfo a capo della Divisione Informazioni che gestì la ratline dei criminali in fuga dall' Europa. Morto di cancro nel 2003, Freude è il primo a cui Filippuzzi mostra le sue ricerche, a metà anni 90: «Da allora cominciò la sua battaglia col Credit Suisse per sbloccare i conti di suo padre Ludwig. Secondo lui, avrebbero contenuto 1.300 milioni di euro». Dal carteggio che Filipuzzi ci inoltra, s' intende che la sua relazione di fiducia con gli eredi tedeschi è di gran lunga anteriore a quella con le autorità ebraiche d' Argentina. Due fronti che ora sembrano avere però uno stesso fine comune: «Le due parti sono unite e sono io ad averle avvicinate, come amico della famiglia Freude e del Centro Wiesenthal». Ariel Gelblung, direttore del Centro Wiesenthal per l' America Latina, prende però le distanze dall' ingegnere: «La sua è solo un' interpretazione». L' importante, ci spiega, è che il Credit Suisse abbia ora accettato di riallaciare un dialogo interrotto oltre 20 anni fa: «Nel 1997 si erano offerti di sponsorizzare un convegno sul saccheggio nazista ai danni degli ebrei. Rispondemmo che avremmo preferito dare un' occhiata ai loro archivi. Da lì in poi, il silenzio». Due anni dopo la Commissione Volcker confermava l' esistenza di 53mila conti svizzeri inattivi, appartenuti a vittime dell' Olocausto. «In quel caso si parlava di soldi di ebrei. Stavolta parliamo di capitali dei nazisti cresciuti in modo considerevole dopo le leggi razziali di Norimberga del 1935. Noi chiediamo solo di vedere gli archivi e verificare l' origine dell' eventuale denaro congelato».

Odessa, sognando il Quarto Reich. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 24 agosto 2021. Adolf Eichmann, Josef Mengele, Walter Rauff, Franz Stangl, Josef Schwammberger, Erich Priebke e Johann von Leers vengono ricordati come i fuggiaschi più celebri del Terzo Reich. Biografie simili, destini diversi – chi morto in libertà, di vecchiaia, e chi morto per impiccagione o in una cella di prigione –, due elementi in comune: prima l’adesione a quello che Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo, ovverosia il nazismo, e dopo la fuga in America Latina nel secondo dopoguerra. I nazisti ad aver trovato rifugio nel cortile di casa degli Stati Uniti, però, non furono soltanto quei temibili sette: furono molti di più – migliaia –, dai 9mila ai 12mila. Un piccolo esercito, materializzatosi nottetempo dall’Europa all’America meridionale, la cui fuga dalle maglie della giustizia internazionale, nonché dai pugnaci cacciatori di nazisti israeliani, è oggetto di dibattito tra gli storici. Quel (poco) che è noto, a proposito della trasmigrazione nazista in America Latina, proviene da testimonianze dirette, documenti desecretati e indagini successive, e punta il dito contro due attori: l’internazionale cattolica ruotante attorno al Vaticano – perché uno dei più importanti salvatori di nazisti fu il vescovo austriaco Alois Hudal – ed una rete occulta e quasi leggendaria, perché ancora oggi avvolta nel mistero, rispondente al nome di Odessa.

La storia di Odessa (secondo Wiesenthal). Odessa, acronimo di Organisation der ehemaligen SS-Angehörigen (let. Organizzazione degli ex membri delle SS), è il nome dato da alcuni studiosi al presunto leviatano che avrebbe orchestrato la fuga en masse dei nazisti dall’Europa nell’immediato dopoguerra. Un leviatano che, a seconda delle versioni, avrebbe operato di concerto con Alois Hudal o agito in totale autonomia. Un leviatano che, secondo altri, sarebbe stato ben al di sopra di Hudal, comandandolo e dirigendolo. Ed un leviatano che, secondo altri ancora, non sarebbe mai esistito. Quando si scrive e si parla di Odessa il condizionale è d’obbligo: perché (quasi) tutto ciò che sappiamo di questa entità è frutto di speculazioni, ipotesi ed illazioni. Il suo stesso nome, del resto, è mutuato da un fortunato romanzo di genere thriller di Frederick Forsyth del 1972 (Dossier Odessa). Eppure, secondo il più famoso cacciatore di nazisti di tutti i tempi, Simon Wiesenthal, Odessa sarebbe esistita davvero e avrebbe orchestrato la messa in salvo di migliaia di nazisti tra America Latina, Africa settentrionale e Medio Oriente. E Hudal, all’interno di questo contesto, non sarebbe stato un burattinaio, ma un semplice burattino. Come lui, invero – e questa è storia –, molti altri personaggi si dedicarono con senso di abnegazione alla costruzione di “linee dei ratti” (ratline), cioè di vie di fuga attraversabili dai nazisti.

I numeri dell'operazione Odessa. Quando al centro della discussione vi sono i numeri della grande trasmigrazione nazista al di fuori del Vecchio Continente, è irrilevante che sia esistita un’Odessa, o che sia esistita una costellazione di piccole Odessa. Perché i numeri di quella fuga epocale, che tanto ha stuzzicato la fantasia di scrittori e sceneggiatori, parlano di un piccolo esercito fuggito principalmente nelle terre sudamericane e secondariamente tra Africa e Medio Oriente. Se le informazioni per quanto concerne la fuga nazista verso Africa e Medio Oriente sono scarne, quelle relative al capitolo sudamericano sono estremamente dettagliate. Perché è nell’estremità meridionale delle Americhe che si sono tradizionalmente concentrate le attività di indagine del duo Cia-Mossad. E numeri e fatti hanno dato ragione a quella focalizzazione investigativa:

Fra i 9mila e i 12mila nazisti avrebbero trovato riparo nel cono sud dell’America.

Più di mille gli agenti operativi del Terzo Reich scoperti in America Latina dallo Special Intelligence Service della Fbi fra il 1940 e il 1946.

La metà dei nazisti scappati dall’Europa avrebbe trovato rifugio nell’Argentina di Juan Domingo Peron – cioè almeno 5mila su circa 9-10mila.

Il Brasile sarebbe stato la seconda meta preferita dei fuggitivi nazisti, avendone ospitati fra i 1.500 e i 2mila.

In terza posizione per numero di fuggiaschi accolti, dopo Argentina e Brasile, si sarebbe trovato il Cile. Nella nazione andina, invero, avrebbero trovato una seconda casa fra i 500 e i 1000 seguaci del defunto Führer. Alcuni di essi, negli anni del pinochetismo, avrebbero servito la dittatura militare costruendo la tristemente nota Colonia Dignidad – a metà tra il centro di rieducazione e il campo di concentramento – capitalizzando le conoscenze pregresse in materia.

Alcuni dei più importanti latitanti della Germania nazista e dei suoi alleati – dove per importanza si intendono la caratura posseduta e il ruolo giocato durante la guerra –, avendo la possibilità di scegliere tra Africa, Medio Oriente e America Latina, hanno optato per quest’ultima. Tra di loro si ricordano Adolf Eichmann, Klaus Barbie, Herberts Cukurs, Aarne Kauhanen, Sandor Kepiro, Ante Pavelic, Josef Mengele, Erich Priebke, Walter Rauff, Eduard Roschmann, Hans-Ulrich Rudel, Dinko Sakic, Boris Smylovsky, Franz Stangl e Gustav Wagner.

Mito o realtà? La storiografia ufficiale non ha mai trovato prove a supporto della tesi di Wiesenthal e ritiene che Odessa vada considerata un mito, un argomento accattivante utile a chi lo sbandiera per vendere libri. L’elenco degli scettici è piuttosto lungo e contiene, tra i tanti, Uki Goñi (autore de Operazione Odessa), Guy Walters (autore de Hunting Evil), Gitta Sereny (autrice de Into That Darkness), Daniel Stahl e Heinz Schneppen. Una cosa, però, va precisata: gli storici di cui sopra negano l’esistenza di un cervello unico, di un grande burattinaio al di sopra di Hudal e degli altri costruttori di linee dei ratti, ma concordano sul fatto che sia esistita una “internazionale di salva-nazisti” di natura destrutturata, reticolare e agerchica, composta da innumerevoli organizzazioni, tra loro sconnesse o legate da sporadiche forme di dialogo. Organizzazioni come le piccole e semisconosciute Konsul, Leibwache, Lustige Brüder, Sechsgestirn e Scharnhorst, come la più celebre Die Spinne di Otto Skorzeny e come le anonime di Charles Lescat, Antonio Caggiano, Alarich Bross e Krunoslav Draganovic. Il vero punto di attrito tra i due fronti, quello di Odessa come realtà e quello di Odessa come mito, è quindi legato al loro modus interpretandi:

I primi ritengono che quell’internazionale fosse il risultato di una volontà unica, mirante, forse, alla futura costruzione del Quarto Reich – questa era l’ambizione, invero, della Die Spinne di Skorzeny.

I secondi, invece, credono che Hudal, Skorzeny e soci abbiano operato separatamente, in autonomia l’uno dall’altro, privi di qualsivoglia guida superiore e senza un orizzonte temporale di lungo termine.

Soltanto il tempo potrà chiudere definitivamente il dibattito sull’esistenza di Odessa, dando ragione incontrovertibile agli uni o agli altri. E sebbene i primi, cioè i sostenitori dell’Odessa come realtà, siano stati relegati da tempo ai margini del dibattito dalla storiografia ufficiale, dalla quale vengono tacciati di cospirazionismo, alcuni eventi, fatti e circostanze sembrano smentire la ricostruzione predominante.

Perché se è vero che la beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo della sua inesistenza, questo, in termini di applicazione pratica, significa rileggere, riscoprire e valorizzare le ricerche di Wiesenthal, che nell’esistenza di Odessa ha creduto davvero. E come lui ci hanno creduto Hanna Arendt, secondo la quale Eichmann sarebbe giunto in Argentina grazie a Odessa, e Paul Manning, tra coloro che contribuirono alla riapertura delle indagini su Martin Bormann.

E in Odessa, non meno importante, hanno creduto anche i coniugi Klarsfeld, la più famosa coppia di caccia-nazisti di Francia (e del mondo), che il 9 luglio 1979 scamparono ad un attentato potenzialmente mortale. Quel giorno, invero, la loro automobile esplose a causa della detonazione di una bomba occultata da ignoti al suo interno. Ignoti senza volto e temerari, che si sarebbero autoidentificati come membri della mitologica Odessa, l’organizzazione che non esiste.

Walter Veltroni per corriere.it il 17 aprile 2021. «Il grande silenzio durò fino all’undici aprile del 1961, quando iniziò a Gerusalemme il processo contro Adolf Eichmann. Prima la gente non raccontava niente. Ognuno teneva per sé i propri ricordi e il proprio dolore. Solo dopo il processo la gente fu disposta ad ascoltarci». Dice così, nel documentario di Francesca Molteni Il processo Eichmann, uno dei sopravvissuti, Joseph Kleinmann, che entrò nel campo di sterminio di Auschwitz a quattordici anni, l’età di Sami Modiano e di Piero Terracina. Il processo di Norimberga aveva collocato la Shoah all’interno di un giudizio sui crimini complessivi del nazismo. Quello di sessant’anni fa ad Adolf Eichmann accese invece i riflettori del mondo sulla persecuzione degli ebrei e sul disegno del loro annientamento. Una tragedia che, mai va dimenticato, non ha paragoni nella storia dell’umanità. Il funzionario del Reich fu sequestrato nel maggio del 1960 dal Mossad in Argentina, dove si era rifugiato. Era uno dei tanti capi nazisti sfuggiti a ogni forma di giustizia, nascosti, sotto identità false, in vari Paesi dell’America del Sud. Il premier israeliano annunciò al Parlamento di Israele che Eichmann «era stato trovato dai servizi di sicurezza israeliani». Quell’arresto scatenò polemiche, singolarmente anche negli Usa, come ben raccontato dal volume di Deborah Lipstadt Il processo Eichmann (Einaudi). Il nome che il tenente colonnello si era scelto per la sua seconda vita era Ricardo, Ricardo Klement. Lo stesso che diede a uno dei suoi figli, l’unico che poi maturerà un giudizio critico nei confronti del nazismo, «se tornasse la dittatura, farei le piccole valigie dei miei figli e fuggirei». Ricardo Eichmann, nel giugno del 1995, decise di incontrare l’uomo dei servizi israeliani che aveva prelevato in Argentina il nazista, suo padre. Sulle colonne del «Corriere della Sera» Lorenzo Cremonesi descrisse questo dialogo tra un quarantenne professore di Archeologia presso l’Università di Tubinga e Zvi Aharoni, che aveva passato giorni e giorni a sorvegliare la casa di Eichmann, in via Garibaldi, Buenos Aires. Cremonesi fa parlare il vecchio Aharoni: «Questo momento mi è molto difficile. Io sono responsabile della morte di tuo padre. È per colpa mia che diventasti orfano a sei anni». Ma chi era Eichmann? Era solo un contabile dello sterminio? Era un soldato costretto a obbedire perché incapace di reagire e privo del coraggio morale di dire no? Vale qui quello che, dopo l’arresto, scrisse su queste colonne Indro Montanelli: «Egli non uccideva perché portava una divisa. Portava una divisa per uccidere. E aveva volontariamente scelto quella della milizia più infame, adibita dal regime ai servizi più sporchi, appunto per soddisfare una vocazione di tortura e di morte». E Montanelli invocava che, quale che fosse la pena, Eichmann fosse condotto a vedere Israele, «da Tiberiade a Eliat. Egli non deve chiudere gli occhi prima di averli tenuti bene aperti su ciò che gli ebrei, questa razza da lui ritenuta inferiore e maledetta, hanno fatto in quell’angolo di sabbioso deserto». Centoundici deportati, scampati allo sterminio, per effetto di quel processo si sedettero sul banco dei testimoni. Alcuni piansero, altri restarono in piedi per l’agitazione. I deportati sopravvissuti ai quali molti non credevano, costretti al senso di colpa per avercela fatta, esposti alle angherie dei negazionisti o alle critiche ingenerose dei giovani israeliani che si chiedevano perché non si fossero ribellati nei campi, finalmente presero la parola e il mondo si dovette fermare ad ascoltarli. Molte testimonianze sono raccolte nel bel volume Eichmanndi Giulia Baj e Tullio Scovazzi, in libreria dall’8 aprile per Solferino. È stata, per Israele e per il mondo da poco libero, una esperienza collettiva sconvolgente. Qualcuno di loro, in quei giorni, raccontò dei suicidi nei campi, che erano molto criticati da chi restava, perché ogni caduto finiva col lasciare un posto che sarebbe stato occupato da un altro ebreo. Altri descrissero la spietatezza di una SS che, vedendo un neonato che piangeva in braccio alla madre, se lo fece passare con un sorriso rassicurante e poi lo sbatté a terra uccidendolo. C’è chi aggiunse «ogni volta che noi soffrivamo, loro gioivano» e chi, guardando Eichmann, disse che era «un pezzo di marmo, un blocco di ghiaccio». Il procuratore Hausner, che condurrà l’accusa, dirà, all’inizio delle udienze: «Quando io sto di fronte a voi, giudici d’Israele, per dirigere l’accusa di Adolf Eichmann, non sto da solo. Con me ci sono sei milioni di accusatori. Ma questi non possono alzarsi in piedi e puntare il dito contro l’uomo sul banco degli imputati con il grido “J’accuse” sulle loro labbra. Perché essi ora sono soltanto cenere, cenere ammucchiata sulle colline di Auschwitz e sui campi di Treblinka e sparsa nelle foreste d’Europa». E poi sosterrà che Eichmann era «un nuovo tipo di assassino, che sta dietro la scrivania. Un colletto bianco che concepisce un ordine di sterminio come un incarico da sbrigare. Fu lui a organizzare e pianificare il trasporto e la messa a morte». Eichmann sembrava davvero un ragioniere, nelle sue deposizioni. Si appassiona alla contabilità, come faceva allora. Spiega che aveva deciso di aumentare la capienza dei treni che deportavano gli ebrei da 700 a 1.000 persone in ragione del fatto che le valigie dei destinati allo sterminio venivano messe su vagoni merci. Non ha misura né senso dell’opportunità quando dice, a proposito della Conferenza di Wannsee del 1942 che decise la pianificazione dello sterminio: «Alla conclusione ho provato la soddisfazione di Pilato perché mi sono sentito completamente sollevato da ogni colpa… Ora a me spettava solo obbedire». O racconta che al termine dei lavori ai quali aveva partecipato, nei quali si era parlato di «esecuzioni, eliminazioni, sterminio» si era sentito onorato — «era la prima volta in vita mia che partecipavo a una riunione coì importante» — che i gerarchi nazisti lo invitassero a bere «uno, due, tre cognac» per festeggiare l’adozione della decisione che così veniva descritta nel Protocollo redatto proprio da Eichmann: «Nel quadro della soluzione finale e sotto una guida adeguata, gli ebrei devono essere mandati a lavorare all’Est. In grandi colonne divise per sesso. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza sarà eliminata per cause naturali». L’uomo che si pulisce freneticamente gli occhiali, che ha un tic dell’occhio destro, che si vanta con orgoglio della «meticolosità» del suo lavoro e dei suoi pregevoli risultati, che parla con freddezza delle «fontane di sangue», non lesina neanche affermazioni grottesche: «Era mio desiderio creare un luogo tutto loro, una terra dove gli ebrei potessero vivere». C’era riuscito, si chiamava Birkenau. Ed era il luogo dove gli ebrei poterono solo morire. Quel processo, celebrato tra la missione di Gagarin e la Baia dei Porci, fu in verità il disvelamento storico della Shoah. Dimostrò che in una dittatura anche un uomo senza qualità, avvolto dalla «banalità del male», può sentirsi, come disse un ebreo di Berlino a proposito di Eichmann: «Il signore della vita e della morte». 

Quando i nazisti tentarono l’assalto all’America Latina. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 9 ottobre 2021. Quella tra Germania e Stati Uniti è una delle storie di amore-odio – più odio che amore in realtà – più intriganti, coinvolgenti, incomprese e ricche di lati oscuri degli ultimi due secoli. Perché l’America, un po’ come la Britannia, la Polonia, il cardinale Richelieu e molti altri, ha sempre serbato un timore reverenziale nei confronti di questa piccola ma grande potenza predestinata all’egemonia. La storia, in effetti, ha dato agli Stati Uniti più di un’occasione e più di un motivo per temere questa nazione grande la metà del Texas. E tra quei motivi, oltre alle due guerre mondiali e ai propositi antiamericani di Guglielmo II, figurano i tentativi (quasi riusciti) del Führer di piantare la svastica nelle immediate vicinanze della Città sulla collina, ovverosia in America Latina.

Obiettivo Cile

A differenza di Guglielmo II, che semaforo verde all’espansione tedesca nelle Americhe non lo dette mai, Adolf Hitler avrebbe corso il rischio più volte – facendo cadere un tabù in piedi dal 1867, anno dell’esecuzione di Massimiliano I del Messico e della fine dei sogni latinoamericani di Napoleone III – e sperimentato persino un certo successo, anche se soltanto per un momento fugace. Come quando, fra il 1938 e il 1939, i servizi segreti tedeschi tentarono due colpi di Stato in Cile: la Toma del Seguro Obrero e l’Ariostazo. Il primo tentativo di rovesciamento dell’ordine costituito ebbe luogo il 5 settembre 1938 a Santiago, la capitale del Cile, alla vigilia delle presidenziali più attese del decennio. I golpisti credevano che i tempi fossero maturi affinché la nazione delle Ande si unisse all’internazionale nazifascista: il giorno prima avevano portato per le strade di Santiago oltre diecimila persone, nella cosiddetta Marcia della Vittoria (Marcha de la Victoria), e da un anno, cioè dalle ultime parlamentari, il Movimento Nazionalsocialista del Cile (MNC) disponeva di tre deputati. Quel giorno, a pochi passi dalla Moneda – il palazzo presidenziale –, un piccolo esercito di nacistas avrebbe cominciato una sollevazione contro l’allora presidente in carica, Arturo Alessandri, concepita allo scopo di favorire il ritorno al potere di Carlos Ibáñez del Campo, dittatore dal 1927 al 1931 e in corsa alle elezioni del 1938. Speranza-aspettativa dei putschisti era che le loro gesta eclatanti dessero vita ad un effetto domino nelle forze armate, incoraggiando i fedelissimi dell’ex dittatore, gli ibañisti, a detronizzare Alessandri. Poco dopo lo scoccare delle dodici, al grido “¡Chileno, a la acción!“, più di trenta nazisti addestrati all’arte della guerra urbana – selezionati tra i migliori membri delle Truppe Naziste d’Assalto (TNA, Tropas Nacistas de Asalto) del MNC – avrebbero fatto irruzione nel Palazzo del Seguro Obrero, sede dell’omonima agenzia governativa deputata alle politiche assistenzialistiche. Guidati dal tenente Gerardo Gallmeyer Klotze, i putschisti avrebbero mietuto la prima vittima entro cinque minuti dall’inizio dell’assalto: il carabinero José Luis Salazer Aedo. Preso in ostaggio il personale e trasformato l’edificio in un avamposto fortificato e ricco di tagliole ad ogni piano, i nacistas avrebbero iniziato a comunicare le loro intenzioni via radio, esortando i cileni, sia civili sia militari, a scendere in strada per supportare la rivoluzione in corso. La reazione della presidenza sarebbe stata dura e fulminea. Alessandri, dopo aver preannunciato l’apertura di un fascicolo investigativo volto ad accertare l’esistenza di legami tra i golpisti, apparati statali e forze straniere, avrebbe ordinato ai Carabineros di irrompere nell’edificio e sedare quel putsch in divenire il prima possibile e con ogni mezzo possibile. Entro le quattordici, un tiratore scelto avrebbe eliminato Gallmeyer, privando i golpisti della loro guida. Ed entro le quindici, tra lo stupore generale, sarebbe cominciata la battaglia per il Cile. Poco dopo aver inviato il reggimento di fanteria Buin al Seguro Obrero, infatti, la presidenza avrebbe dovuto mobilitare il reggimento Tacna per via dello scoppio di disordini in altre parti della capitale, tra i quali l’occupazione del Palazzo centrale dell’università del Cile. Ordine e sicurezza sarebbero stati restaurati entro il tramonto, ma ad un prezzo carissimo: il sangue dei putschisti tra le mani di Alessandri e dei Carabineros. Il presidente, invero, dette l’ordine agli uomini in divisa di giustiziare il maggior numero di aspiranti rivoluzionari. Un severo monito per l’intero ambiente nazionalsocialista cileno che, alla fine della giornata, sarebbe costato la vita a 59 nacistas e avrebbe scandalizzato tanto l’opinione pubblica quanto gli intellettuali cileni più celebri dell’epoca, come il poeta Gonzalo Rojas. Le urne avrebbero punito Alessandri per quell’eccidio, passato alla storia come il Massacro del Seguro Obrero (Matanza del Seguro Obrero), decretando la vittoria del rivale Pedro Aguirre Cerda. E Cerda, consapevole di essere stato eletto (anche) per protesta, una volta in ufficio avrebbe proceduto ad amnistiare i putschisti in stato di detenzione. Poco meno di un anno più tardi, il 25 agosto 1939, cioè all’alba della Seconda guerra mondiale, Santiago sarebbe nuovamente caduta preda di una longa manus della Germania nazista. Non i passionali nacistas, ma le forze armate, questa volta, avrebbero tentato un cambio di regime. Il generale Ariosto Herrera, infatti, avrebbe cercato di sollevare il reggimento Tacna contro il presidente in quello che è stato ribattezzato l’Ariostazo. Appoggiato dall’Escuela de Ingenieros Militares e da altri ufficiali, Herrera avrebbe invitato i soldati cileni alla rivolta, agitando lo spauracchio di un’incombente minaccia comunista sulla Moneda. L’appello, però, non sarebbe stato raccolto da nessuno, forse per via della memoria ancora fresca del Massacro del Seguro Obrero, e Herrera dovette arrendersi.

L’operazione Bolìvar

Il fallimento dell’operazione Cile avrebbe privato i nazisti di un posto al Sole prezioso, ma non avrebbe avuto alcun effetto inibitore sui piani del Führer per l’America Latina. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, invero, i nazisti avrebbero dato prova della loro capacità di esperire azioni di disturbo nel cuore del continente americano con l’operazione Bolìvar. L’operazione Bolìvar fu il frutto della lungimiranza. I tedeschi costituivano una delle comunità diasporiche più corpose dell’America Latina, essendo stanziati dal Messico all’Argentina, ed era opinione del Führer che potessero essere utilizzati per raccogliere intelligence, condurre spionaggio e servire la madre patria in una grande varietà di modi. Cominciando dal Brasile e dall’Argentina, i nazisti avrebbero costituito una serie di società commerciali e radio fittizie a partire dal 1940, e per l’intera durata della guerra, impiegate per adunare e smistare informazioni, fornire documenti falsi ai propri agenti in loco e spiare. I nazisti volevano sapere tutto del rapporto tra le due Americhe, tanto di quello economico quanto di quello politico, perché quella conoscenza avrebbe potuto aiutarli a fronteggiare in maniera migliore gli Stati Uniti. All’acme della guerra, cioè nel 1942, le spie dell’operazione Bolìvar avrebbero raccolto e trasmesso informazioni in Europa provenienti da Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Perù. Informazioni che avrebbero dovuto essere usate, tra le altre cose, per lanciare un attacco sul canale di Panama (Progetto 14) e contro obiettivi economici a stelle e strisce (operazione Pastorius). La scoperta di un tentativo di radicamento nazista a Cuba, comunque, avrebbe fatto saltare i piani di Hitler. Perché gli Stati Uniti, oramai in allerta, a partire dal 1942 avrebbero dato vita ad un’intensa ed incessante caccia all’uomo, durata fino alla fine della guerra e terminata con lo smantellamento della rete di spie Bolìvar. Sarebbe un grave errore, però, reputare l’operazione Bolìvar un fallimento. È vero: non ci fu nessun attacco né su Panama né sul territorio nordamericano. Ma la semina di quel quinquennio avrebbe dato dei frutti intemerati nell’immediato dopoguerra, quando il cono sud delle Americhe, la terra di Bolìvar, diventò la seconda casa di decine di migliaia di nazisti in fuga dall’Europa. Una casa la cui costruzione, ultimata dall’anonima nazista operante sotto l’ombrello dell’invisibile Organizzazione Odessa e con l’appoggio di apparati vaticani, fu cominciata dalle spie della rete Bolìvar.

Il mistero degli U-Boot fantasma. Dietro la scomparsa dei capi e del famoso oro dei nazisti non solo leggende infondate, ma indizi e sprazzi di verità che riportano, anche a distanza di oltre settant’anni, una trama difficile da svelare. Davide Bartoccini, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Piantati sui fondali marini come spade cadute; al largo della coste danesi, nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico o in vista del "Nuovo mondo", i relitti dei famigerati U-boot nazisti - i sommergibili terrorizzarono per quasi cinque anni ogni convoglio e ogni genere di naviglio alleato - continuano a suscitare fascinazione e leggenda sul destino misterioso dei loro ultimi viaggi. Quando, secondo voci mai del tutto avvalorate (ma nemmeno mai del tutto smentite), i loro comandanti ancora sotto il vessillo della svastica, salparono alla volta del Sud America per trarre in salvo i gerarchi superstiti e le ricchezze che avevano accumulato: il famoso oro dei nazisti. Secondo gli appassionati delle più fantasiose teorie del complotto, i nazisti, dopo la sconfitta, sarebbero andati a nascondersi sul lato oscuro della Luna cantato dai Pink Floyd e narrato da plot fantascientifici come quello di Iron Sky; per riorganizzarsi in attesa della restaurazione del Quarto Reich. Baggianate. Senza beneficio di alcun dubbio da "Wunderwaffen". Ma che molti esponenti del nazionalsocialismo siano letteralmente scomparsi nel nulla tra l'inverno e la primavera del 1945 - come Martin Bormann, braccio destro del führer - è una realtà; e che molti vertici delle SS e della Gestapo abbiano tentato di raggiungere a tutti i costi paesi e dittature simpatizzanti come l'Argentina di Peròn, il Cile e il Paraguay di Stroessner - riuscendoci - è vero altrettanto. E allora i mezzi e le strade per raggiungerli erano poche: passare attraverso la ratline allestita tra Svizzera e Stato del Vaticano con documenti e identità falsi per beneficiare di un passaggio della Croce Rossa; o salire su un sommergibile che, tentando di evitare le cariche di profondità delle cacciatorpediniere e dei bombardieri nemici, li avrebbero portati con un po' di fortuna molto lontano dal tribunale di Norimberga e dal cappio che sarebbe finito per cingere il loro collo. Personalità come il feldmaresciallo Hermann Göring o il capo delle SS Heinrich Himmler preferirono mordere una pasticca di cianuro. Ma il risultato raggiunto fu tuttavia il medesimo. Chi invece non voleva farsi prendere ad ogni costo - alcuni sono ancora convinti che lo stesso führer Adolf Hitler sia riuscito a fuggire insieme alla sua amante Eva Braun dal bunker della cancelleria posto sotto l'assedio dell'Armata Rossa - sarebbero salpati su sofisticati e innovativi sommergibili; anzi, "sottomarini" come gli U-Boot Tipo XXI: una nuova classe di unità sommergibili progettate appositamente per operare "stabilmente sott'acqua" - come i moderni sottomarini appunto - e non come le precedenti unità, che essendo solo dei "sommergibili", potevano immergersi e manovrare sotto la superficie del mare per brevi periodi in battaglia, ma dovevano navigare, come le normali unità di superficie, a pelo d'acqua.

La leggenda dell'U-3523. Tra gli ultimi relitti individuati al largo delle coste danesi, è stato proprio uno di questi vascelli all'avanguardia, l'U-3523, varato nel dicembre del '44 e inabissatosi dopo essere stato colpito dalle cariche di profondità sganciate da un bombardiere inglese "Liberator" adibito alla lotta antisommergibile. Era il 6 maggio 1945. Secondo alcuni storici, questa unità estremamente tecnologica per l'epoca sarebbe stata l'unica capace di attraversare l'Atlantico in "sicurezza", e per questo avrebbe potuto trasportare - ipoteticamente - ufficiali e gerarchi nazisti, nonché documenti rilevanti e una certa quantità di "oro". Questo prima di affondare per incunearsi meno di dieci miglia nautiche da Skagerrak, nel nord della Danimarca. Dove ha atteso a una profondità di circa 123 metri per ben 73 anni, prima di essere scoperto. A bordo dovevano essere 58 membri dell'equipaggio più alcuni "passeggeri", ma i team subacquei inviati per l'esplorazione non hanno individuato resti umani durante le ispezioni condotte nella sezione accessibile del relitto. Di lingotti d'oro con incisa l'aquila imperiale e la svastica inclinata, neanche l'ombra.

L'U-997 e l'U-530 che raggiunsero indenni l'Argentina. L'U-977, sommergibile del tipo IX-C, e l'U-530, sommergibile del tipo VII-C, furono rispettivamente varati nel '43 e nel '42, e raggiungere entrambi le coste dell'Argentina. Dimostrando che era quando meno possibile per un U-boot nazista, attraversare l'Atlantico scampando ai pattugliatori alleati, per non consegnarsi agli americani o peggio ai russi. All'U-997, salpato il 10 maggio del 1945 dalle coste norvegesi, ci vollero ben 66 giorni di navigazione sommersa - il secondo più lungo mai registrato durante la guerra -, per raggiungere prima l'isola di Capo Verde e poi proseguire fino a Mar della Plata, in Argentina, Lì il 17 agosto l'equipaggio si arrese alle forze armate argentine. Lo stesso valse per l'U-530, che dopo la resa della Germania fece rotta per Mar della Plata, raggiungendola il 10 luglio. Secondo i rapporti ufficiali, nessuno dei due U-boot sbarcò passeggeri prima della resa. Ma forse in quel caso, qualcosa venne davvero sbarcato sulle costa: un ingente tesoro di banconote in valuta estera e preziosi destinati a Peròn.

I sottomarini scomparsi e il mistero di San Matis. Secondo le autorità argentine, al tempo controllate dalla dittatura militare del generale Peròn, solo questi due U-boot avrebbero attraversato indenni l'Atlantico per poi arrendersi. Nessun passeggero sarebbe stato sbarcato, né sarebbe stato trovato, almeno ufficialmente, alcun tipo di "tesoro dei nazisti". Tuttavia, è rimasto noto alle cronache l'avvistamento di diversi "squali di ferro", come venivano chiamati i sommergibili, da parte di alcuni pescatori argentini, in un piccolo golfo della Patagonia: San Matias. Lì, secondo alcuni studiosi, sarebbero arrivati un numero imprecisato di sommergibili; un branco di "lupi", come venivano chiamati durante la battaglia dell'Atlantico, che avrebbero speso le informazioni accumulate dall'intelligence nazista durante alcune missioni che dovevano "selezionare" dei punti di approdo sicuri lungo le coste del Sud America, per sbarcare equipaggio, passeggeri e risorse su piccoli battelli, dopo l'autoaffondamento dei vascelli sottomarini. Come riporta Guido Olimpio in un suo vecchio articolo, infatti, sia negli anni '50 che negli anni '80 dei piloti d'aereo che hanno sorvolato il golfo avrebbero notato la sagoma aguzza di battelli adagiati sul fondo. Relitti che possono apparire e scomparire in virtù delle correnti che spostano le sabbie dei fondali. Alla richiesta di visionare i documenti relativi all'arrivo degli U-boot nazisti sulle coste dell'Argentina avanzate da storici e giornalisti, Buenos Aires ha sempre negato la propria disponibilità appellandosi al segreto di Stato. Un'espressione che viene associata da sempre a fatti, più o meno indicibili, che devono essere necessariamente nascosti per preservare alcune verità. Tra queste possibili "verità", quella riportata dalla biografa di Evita Peròn, Alicia Dujovne Ortiz, secondo la quale i sommergibili tedeschi avrebbero scaricato casse con all'interno centinaia milioni di dollari, sterline e franchi, diamanti e oro probabilmente rastrellato nei ghetti ebraici di mezza Europa. Possibile, certo, ma non dimostrabile. Dato incontrovertibile invece, è che personalità come Josef Mengele, il terribile medico sperimentatore di Auschwitz, Adolf Eichmann, il "contabile" responsabile della soluzione finale, Erik Priebke, il sottoposto di Kappler, responsabile dell'eccidio della Fosse Ardeatine, si sono tutte rifugiate in Sud America. Terra raggiunta clandestinamente al termine del conflitto grazie a programmi come Odessa, piani analoghi. Altro dato incontrovertibile, è l'esistenza documentata di luoghi come Colonia Dignidad: la spaventosa comunità agricola fondata dall'ex nazista Paul Schäfer, dove veniva testato il gas sarin e dove si erano "riuniti" molti tedeschi nostalgici della dittatura che infiammò il mondo - e sembra aver affidato parte dei suoi crimini e dei suoi segreti alle profondità del mare.

·        Dopo il Nazismo.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 dicembre 2021. In Spagna è stato ritrovato un telegramma di Adolf Hitler in cui il Führer sembra mostrare dubbi sulla vittoria della Germania durante la II Guerra Mondiale. La lettera era stata inviata il 2 gennaio del 1942, cinque giorni prima che i nazisti fossero sconfitti dai sovietici nella battaglia di Mosca. Hitler scrisse il suo saluto di Capodanno al generale e politico spagnolo Munoz Grandes a capo della Divisione Blu volontaria spagnola che combatteva per la Wehrmacht. Nel testo scritto a macchina c’è un’inserzione a penna scritta di suo pugno da Hitler in cui aggiunge “Trotz allem” (“nonostante tutto) alla frase. Secondo gli esperti, si tratta di un accenno al «seme del dubbio» sulle fortune della Germania. Munoz, che in seguito fu vice primo ministro sotto il generale Franco, aveva scritto nella sua lettera: «Insieme ai pensieri che vanno al mio paese, auguro alla Germania la completa vittoria sui nostri nemici nell'anno appena iniziato. Le difficoltà del momento presente non possono che confermare la mia fiducia nella vittoria finale, e il mio unico desiderio è che il rapporto tra i nostri due Paesi possa diventare ancora più profondo e intimo, anche se a costo di pesanti sacrifici». Note manoscritte mostrano che il telegramma è stato ricevuto a Wolfsschanze, noto come Wolf's Lair, che fungeva da quartier generale militare del fronte orientale di Hitler nei boschi della Masuria nell'odierna Polonia, il 1 gennaio alle 21:00. Fu presentato a Hitler il giorno seguente dal colonnello Nicolaus von Below, un ufficiale della Luftwaffe che servì come aiutante di campo del Fuhrer.  Hitler rispose: «Ti sono grato per i tuoi auguri per il nuovo anno. Sono certo che [nonostante tutto] la nostra lotta contro i nostri nemici avrà lo stesso successo anche in futuro come lo è stata finora, e che la vittoria finale sarà nostra. In grato ricordo del tuo paese, che può essere orgoglioso delle imprese della sua Divisione Blu, invio a te e ai tuoi soldati i miei migliori auguri». In una seconda nota, Munoz ha detto: «Chiedo alla vostra eccellenza di voler essere certi che nessun sacrificio è troppo grande per noi per la vittoria finale delle nostre braccia unite.  Sappiamo per cosa stiamo combattendo e dall'accordo a Grafenwoehr abbiamo seguito gli ordini della vostra eccellenza senza esitazione, obbediente con la dovuta misericordia». Poche settimane prima dello scambio, il 19 dicembre 1941, Hitler si infuriò per il fatto che Mosca non fosse ancora stata conquistata e licenziò il suo comandante in capo Walther von Brauchitsch, assumendo il controllo della Wehrmacht in persona. Gli affascinanti documenti sono riemersi in una vendita presso le Aste Internazionali di Autografi di Malaga, in Spagna. Richard Davie, specialista della casa d'aste, ha dichiarato: «Questo è un affascinante telegramma preparato da Hitler per Munoz Grandes, un generale che in seguito ha servito come vice primo ministro della Spagna sotto Francisco Franco. Spesso pensiamo a Hitler come a un uomo forte che non ha considerato la sconfitta, ma qui, per la prima volta, sembra avere un seme di dubbio sulla vittoria della guerra». «Solo un paio di giorni dopo, la battaglia di Mosca si è conclusa ed è stata una grande vittoria sovietica. Doveva sapere che avrebbe perso. C'è qualcosa nel fatto di inserire quelle parole, che rende l'affermazione meno sicura e potente di quanto originariamente previsto. È come se fosse preoccupato che la battaglia possa essere persa».

«Ho un’adorazione per Hitler»: come funziona il reclutamento dei giovani neonazisti. Erika Antonelli su L'Espresso il 16 novembre 2021. Vengono adescati nei gruppi Telegram e sulle pagine social o con modalità tradizionali di volantinaggio e passaparola. Ecco chi sono i nuovi estremisti all'italiana. «Io ho un'adorazione per Hitler, l'ho sempre avuta per il suo modo di essere deciso, solo che se lo dicevo a qualcuno pensavano “guarda questa”. Ma da quando ho saputo tutte queste cose io la notte prego a lui non prego a dio. Dormo col libro suo sotto il cuscino e devo comprare la svastica e metterla nel portafogli». Parla così Paola D., poco più che trentenne, intercettata mentre conversa con un amico. È una dei simpatizzanti dell'Ordine di Hagal, l'associazione «social-spirituale» le cui fila sono in mano al presidente Maurizio Ammendola. E come lei ci sono altri giovani, tra i venti e i trent'anni, reclutati sui canali Telegram o attraverso attività di volantinaggio e passaparola. Lo ha svelato l'indagine coordinata dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo e dai sostituti Antonello Ardituro e Claudio Onorati, che si concentra sulla rete dei suprematisti italiani. Con posizioni antisemite, filonaziste e negazioniste sapientemente diffuse da Ammendola, che gli adepti chiamano “professore” o “ariano”, e dai suoi collaboratori più stretti. La fascinazione per il Führer è tale da arrivare fino all'identificazione dell'Ordine con la struttura del Terzo Reich. In cui Ammendola ha il merito «di aver capito così profondamente Hitler da essere entrato nel suo spirito» e paragona Massimiliano M. (uno dei suoi collaboratori più stretti) a Goebbels, il ministro della propaganda in epoca nazista. Una similitudine avvalorata dal fatto che i due, emerge dall'inchiesta, stessero anche lavorando alla realizzazione di un cortometraggio. Ma per adattarsi allo spirito del tempo serve un passo in più. Per questo Ammendola e Massimiliano M. cercano persone da reclutare sui canali Telegram. Uno è “Ioaprocampania”. Lì sono venuti in contatto con Paola D., colmando le sue lacune storiche con teorie revisioniste. «Lo ha spiegato talmente bene che anche chi non ha studiato capisce quello che ha detto», racconta Paola all'amico nella conversazione intercettata. Aggiungendo di aver ricevuto da Ammendola «troppi dettagli» per considerarlo solo un complottista. Nei gruppi Telegram, l'Ordine di Hagal fa leva sull'insofferenza dei membri alle misure per contrastare l'epidemia. Poi, conquistata la fiducia degli interlocutori, passa alle conversazioni telefoniche. In una di queste Ammendola non fa mistero delle sue convinzioni antisemite e revisioniste: «Io pensavo che almeno sei milioni li avevano tolti da mezzo sti bastardi, invece neanche quelli. All'inizio fui incazzato con Hitler, poi ho capito perché non avrebbe mai potuto pensare di farlo. Sapeva che non sarebbe stata la soluzione, come oggi io so che non è la soluzione, perché è tutta una questione divina, di luce e tenebre, di bene e di male». Per reclutare giovani adepti esiste anche una pagina Facebook, “Assistenti costituzionali”, affiancata da un altro canale Telegram con lo stesso nome. Utile, secondo il creatore Massimiliano M., ad attrarre «persone che stanno contro il sistema, borderline», rimanendo però nell'alveo della normalità. «Ho scelto quel nome per farli entrare a livello di Hagal, che è molto più in alto della Costituzione». All'interno vengono caricati contenuti antisionisti e omofobi, per quanto Ammendola e i collaboratori cerchino di non spaventare i futuri discepoli con temi troppo divisivi. Il loro fine, infatti, è stimolare gli adepti per «non dare loro delle risposte, ma domande e ricerche da approfondire». Partendo dal presupposto che serva un sottile lavoro «nell'intimo della loro mente e della loro psiche» per decostruire certezze lunghe una vita. Oltre il velo, però, la visione del mondo promossa dall'Ordine di Hagal è radicale, razzista, omofoba, maschilista. Lo dimostra un video sulla loro pagina Facebook, in cui una donna in tacchi a spillo tira calci e pugni al sacco da boxe, mentre un uomo seminudo si dimena sferrando piccoli colpi. A commento delle immagini hanno scritto: «Per migliaia di anni le nostre donne hanno portato ben presto in braccio i loro figli. Ora, nel tentativo di conformarsi e di competere con una cultura aliena, negano i loro istinti e doveri naturali». Accanto all'indottrinamento attraverso la rete, Ammendola e Massimiliano M. sfruttano anche metodi più convenzionali. «Ho il volantino tuo che sto facendo proselitismo», dice M. in una telefonata. Poi aggiunge: «Secondo me, l'opzione proprio a passaparola, uno per uno, vedere prima bene tre o quattro volte le persone con cui interagiamo, io la trovo vincente come cosa, perché ti dà il tempo di coltivare il rapporto». Finalizzato a raggiungere l'obiettivo principale, far aderire giovani reclute all'Ordine. E l'elenco del materiale sequestrato ad Ammendola lo dimostra. Tra gli oggetti trovati, oltre a decine di libri e opuscoli inneggianti al nazismo e oggettistica nostalgica, ci sono infatti quattro domande di ammissione all'associazione, intestate a ragazzi tra i 20 e i 35 anni. Compare il nome di Giacomo A., proveniente dalle fila di Casapound, che dalle indagini risulta essere uno degli invitati alla cena «con un gruppo di nazionalsocialisti» organizzata da Ammendola per festeggiare il compleanno di Hitler. In un ristorante nella provincia di Avellino in cui Ammendola si reca con il figlio e una torta acquistata per l'occasione. E proprio con Giacomo A., Ammendola si lascia andare a quei proseliti che tanto ricordano le conversazioni con Paola D. «Io ho prospettive operative per mettere in ginocchio il sistema, basta poca gente, ci vuole coerenza volontà e ardimento. Serve il legame con la divinità e bisogna spostare l'asticella più avanti. Non siamo mossi dal corpo ma dallo spirito, da una volontà superiore a loro. Gli altri non possono nemmeno vederti, nemmeno toccarti, se non glielo dai tu il consenso». Oltre a Giacomo A. c'è un'altra giovane, Martina U. Ammendola e collaboratori la definiscono «una buona allieva» e «pura e onesta». A lei, rivelano le intercettazioni, è stato affidato anche un altro compito oltre a quello di ricerca sulle teorie gender: «Occuparsi di conserve, fermentazione e lavoro dei semi». Un incarico particolare, che potrebbe ricollegarsi al discorso che Ammendola fa a Giacomo A. per spiegare le mosse da compiere qualora i vaccini diventino obbligatori. «Abbiamo cominciato a creare strutture, diciamo, della sopravvivenza, ci sono terre dove stiamo piantando per la sussistenza alimentare, abbiamo preso accordi con contadini e altri proprietari terrieri che ci danno disponibilità di prodotti e di terre da lavorare», gli spiega. Coltivare la terra pare sia uno dei tanti interessi del presidente dell'Ordine di Hagal: a casa sua è stato sequestrato un numero della rivista fascista “La domenica dell'agricoltore”. E a febbraio 2021 l'associazione aveva programmato un corso di sopravvivenza, poi annullato, in un area boschiva della provincia di Capua. Accanto all'attività di reclutamento e indottrinamento, i giovani vengono costantemente monitorati e «analizzati», così da valutarne al meglio potenzialità e qualità. «Poi quando viene vediamo pure che testa ha e capiamo quale compito possiamo darle», dice Ammendola riferendosi a Martina U. Il rapporto che intesse con le reclute diventa in quest'ottica quasi simbiotico, tanto da «farli andare in panico» quando si ammala e non è dunque possibile «chiedergli le cose». Lui ne è consapevole, diviso tra il desiderio di non «centralizzare» l'organizzazione e la certezza che i giovani debbano ancora «comprendere la questione dei ruoli e dei margini di azione di ognuno». Ammendola e i suoi collaboratori plasmano le menti dei loro giovani seguaci, in modo costante e sottile: «Mi possono arrestare, perquisire, quello che è più caro strappare, ma la lotta del nazionalsocialismo non la possono fermare», diceva il presidente a uno dei giovani estremisti, ventenne. Senza fare mistero della sua fascinazione per il numero 88 (per lui corrisponde al saluto “Sieg Heil”, essendo la lettera H l'ottava dell'alfabeto). E richiamando nella pagina Facebook dell'associazione gli 88 precetti di David Lane, un suprematista bianco americano fondatore del gruppo terroristico “The Order” e deceduto in carcere nel 2007, mentre scontava una pena di 190 anni. Uno dei precetti pubblicati sulla pagina Facebook dell'Ordine di Hagal, il dodicesimo, recitava: «La verità non teme l'indagine». Il lavoro degli inquirenti sta dimostrando che non è così.

Esclusivo: ecco la rete dei nazisti italiani pronti a combattere. Uomini e donne giovanissimi. Addestrati all’uso di armi da guerra e esplosivi. Si infiltrano sui social e reclutano adepti tra i negazionisti. Chi sono e come si muovono i suprematisti bianchi di casa nostra. Lirio Abbate su L'Espresso il 5 novembre 2021. Ci sono nazisti in Italia desiderosi di combattere. Uomini e donne che fanno parte di gruppi antisemiti e negazionisti. Sono suprematisti bianchi, attivi in diverse zone del nostro Paese, in collegamento fra loro attraverso la rete, in particolare su canali Telegram e sulla piattaforma Vkontakte (VK), il social di gran lunga più popolare nel mondo russo. Ci sono personaggi addestrati nei campi di combattimento in Ucraina, capaci di usare armi da guerra, di confezionare ordigni, di studiare strategie di lotta e di aggressione, sostenuti dalle loro convinzioni antisemite e filonaziste, nutriti dalla fascinazione per Adolph Hitler. Sono italiani e da tre anni vengono tenuti sotto controllo dagli investigatori nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, e dai sostituti Antonello Ardituro e Claudio Onorati. L’indagine, che vede fino adesso una decina di indagati, tende ad allargarsi dalla Campania ad altre regioni. Il cardine da cui si parte è un’associazione chiamata “Ordine di Hagal”, che si presenta ufficialmente come un gruppo para-culturale che abbraccia vari ambiti di contestazione. Nel suo statuto è definita «associazione Social-Spirituale» e «associazione sostanzialmente e basilarmente religiosa». Ma in realtà è un movimento suprematista ed antisemita fortemente verticistico, denominato anche “Ordine Naturale di Hagal”, i cui affiliati vengono alternativamente chiamati dal presidente-fondatore, Maurizio Ammendola, 42 anni, di Maddaloni, «seguaci» o «adepti», ai quali viene richiesto di contrapporsi ai «nemici» che per loro sono gli ebrei, ma anche gli immigrati, fino a «morire per la causa». Gli adepti «oltre a dover essere pronti per la causa ad essere arrestati, dovrebbero ripudiare ogni forma di delazione (essendo peraltro costretti alla segretezza verso l’esterno) e a studiare per formarsi univocamente, secondo l’ideologia del movimento, rifiutando quindi ogni idea di cultura in senso lato o pluralità di informazione, tra i principi base di ogni associazione democratica», scrivono gli investigatori. 

C’è un’intensa attività di indottrinamento e reclutamento che viene svolta da diverse persone, in particolare da Ammendola, definito dai «seguaci» il «grande professore». 

Un filo nero potrebbe collegare episodi e personaggi apparsi sulle scene di cronaca negli ultimi anni. Un panorama dal fondo nazista molto più ampio di quello campano. Gli inquirenti stanno accertando se rientrano tutti in uno stesso quadro.

Il gruppo campano di Ammendola è entrato in fibrillazione a gennaio quando ha appreso dell’arresto a Savona di Andrea Cavalleri, 22 anni, esponente di un’ultradestra sempre più aggressiva. Ammendola riunisce in fretta suoi adepti e dice: «Hanno arrestato a Forlì, Cesena e in varie parti d’Italia un gruppo di nazionalsocialisti che inneggiavano alla rivoluzione, alla lotta armata e a fare strage dentro le manifestazioni femministe e comuniste». È presente una ragazza, che conosce bene le strategie di Ammendola, e lei si mostra preoccupata per quanto è avvenuto. Il riferimento è ad un’operazione di antiterrorismo in diverse regioni che ha colpito ambienti della destra radicale contigui al terrorismo di matrice suprematista, conclusa proprio con l’arresto del ventiduenne, accusato di aver costituito un’associazione con finalità di terrorismo e per aver svolto azione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale aggravata dal negazionismo. Anche in questa inchiesta ligure è emerso che i militanti o i simpatizzanti, che sono sempre più giovani, hanno propagandato le proprie ideologie attraverso Telegram. Accanto ad Ammendola c’è Gianpiero Testa, 24 anni, originario di Avellino, il quale davanti alla notizia dell’arresto appare preoccupato di essere anche lui coinvolto nell’inchiesta. Non si sa ancora se fra il ventiduenne di Savona e l’avellinese ci sia un collegamento. Fatto sta che Testa, immaginando l’arrivo della polizia, provvede subito a spostare da casa sua tutto il materiale che riteneva compromettente, nascondendolo in un’altra abitazione. I magistrati di Napoli stanno verificando se può esserci un collegamento anche con l’arresto avvenuto lo scorso anno a Bergamo di un ventitreenne accusato di detenzione di armi e istigazione per delinquere. O con la morte di Alessandro Fino, un ragazzo di 21 anni, rimasto ucciso mentre confezionava un ordigno in provincia di Como. E ancora con l’arresto di un soldato dell’esercito americano, in servizio presso la base Ederle di Vicenza: il militare si sarebbe unito a un gruppo neonazista satanico ed avrebbe fornito all’organizzazione estremista informazioni classificate nel tentativo di orchestrare un attacco alla sua stessa unità militare. Ritornando in Campania, le intercettazioni fanno emergere che il movimento di Ammendola e Testa è organizzato secondo criteri paramilitari e che ne fanno parte ex militanti di Forza Nuova, impieganti, studentesse, disoccupati, tutti caratterizzati dalla condivisione della brutale ideologia neonazista e da tutti gli aspetti che la connotano, quali l’antisemitismo, l’omofobia ed il razzismo, proclamando la superiorità della razza bianca. Alcuni di loro hanno seguito un percorso che li ha portati a tessere contatti ed alleanze con i più integralisti gruppi nazionalisti ucraini di chiara ispirazione neonazista, meglio conosciuti all’opinione pubblica internazionale dal 2014, a seguito della guerra civile scoppiata nella regione del Donbass. Tra questi il più famoso è il battaglione Azov, formazione paramilitare, nato nei giorni di Majdan e poi incorporato nella Guardia nazionale ucraina, famoso per essere composto da volontari provenienti da tutto il continente e militanti dell’estrema destra. Il battaglione ha raccolto componenti di “Pravy Sektor” (settore destro) e della formazione neonazista “Patriot Ukrainy”, ideologicamente ispirata alla creazione di un «nuovo ordine» basato sulla superiorità della razza bianca, al fine di realizzare una «rivoluzione nazionale antidemocratica, antisemita, anticomunista». Anche dal punto di vista simbolico Azov si è ispirato all’iconografia nazista adottando sia la runa “Wolfsangel”, termine tedesco che sta a significare “Dente di Lupo”, in passato fregio della seconda divisione corazzata SS “das Reich”, utilizzato negli anni di piombo anche da “Terza posizione” (un movimento neofascista eversivo fondato a Roma nel 1978 da Roberto Fiore), sia lo “Schwarze Sonne”: il “Sole Nero”, che richiama la componente esoterica del nazismo ed è da considerare come una variante della svastica, conferma quindi, per quanto riguarda il fenomeno del neonazismo, la commistione tra ideologie politiche e il “neopaganesimo”, ovvero lo stesso mix presente nel bagaglio delle persone coinvolte nell’inchiesta della procura di Napoli, pronte, armate e attrezzate. In attesa di un ordine, o di un segnale per scattare. Il battaglione Azov, per le sue ostentate caratterizzazioni neonaziste, è diventato un punto di incontro per la comunità internazionale dell’ultradestra, ed è proprio per queste dichiarate posizioni suprematiste ed antisemite che negli Stati Uniti 40 membri del Congresso hanno chiesto al Dipartimento di Stato di indicarlo come organizzazione terroristica straniera. Roberto Fiore è stato arrestato lo scorso mese con altri militanti di destra, compreso Giuliano Castellino, per l’assalto alla sede della Cgil a Roma. Entrambi sono al vertice di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato da Fiore nel 1997. Da almeno un anno i due neri sono in prima linea contro la «dittatura sanitaria», le decisioni del governo in tema di pandemia e campagna vaccinale. Per Fiore il capitolo “No Covid” è solo l'ultimo di un percorso che ha radici lontane e affonda negli anni di piombo. Castellino si divide tra il movimentismo di estrema destra e la sua passione per la Roma e gli ambienti “curvaioli”, spesso fucina per le nuove leve dell'estremismo nero in salsa romana. I due leader di Forza Nuova non sono coinvolti nell’inchiesta napoletana, che ha solo il sapore nazista. Uno dei punti di contatto fra gli ucraini e i nazionalsocialisti italiani è Gianpiero Testa. Dalle indagini si apprende che Testa e Ammendola «sono esperti in materia di armi», ed entrambi hanno seguito «specifici corsi di addestramento nell’uso di armi lunghe e corte», conseguendo anche un diploma in Polonia presso l’European security academy, dove vengono addestrati appartenenti alle forze speciali militari per il corso avanzato di Krav Maga, un sistema di combattimento il cui fine è neutralizzare e uccidere il nemico. L’odio e la strategia violenta di Testa sono emersi durante le intercettazioni, non solo verso gli ebrei e gli immigrati, ma anche verso gli appartenenti alle forze dell’ordine. L’avellinese ha più volte manifestato «allarmanti intenzioni omicide» nei confronti dei carabinieri, in particolare quelli in servizio alla Stazione di Marigliano, cittadina a 20 chilometri da Napoli, a nord del Vesuvio, in cui il nazista risiede. Testa voleva agire prendendo ad esempio i «lone actor terrorists» più noti a livello internazionale, adottando la tattica del terrorista solitario, scaricando in questo modo su altri la matrice dell’azione violenta che aveva progettato. Nonostante Testa e altri camerati siano stati più volte perquisiti a casa dalla polizia, hanno proseguito nelle loro attività illecite. E per migliorare le proprie capacità operative ed «affacciarsi nel variegato mondo dei mercenari», l’avellinese ha intrecciato rapporti con esperti istruttori di tiro e di tecniche di difesa, in particolare con due fucilieri assaltatori nei reparti speciali della Marina militare, non indagati, che risultano particolarmente esperti e addestrati all’uso delle armi e di esplosivi, e vantano numerose esperienze all’estero. Uno di questi fucilieri era stato coinvolto da Testa per organizzare un periodo di addestramento in un’area boschiva a Sant’Angelo in Formis, una frazione di Capua, dove lo scorso febbraio voleva preparare un campo, ma le condizioni meteo non lo hanno consentito. Sui finanziamenti che ricevono, gli investigatori stanno svolgendo accertamenti che puntano a verificare le origini dei versamenti su alcune carte Postepay utilizzate dai nazisti. Secondo la Digos sono un centinaio gli appartenenti a questi gruppi filonazisti dislocati in diverse città. Gli investigatori stanno ricostruendo gli elenchi degli adepti attraverso le chat di Telegram scoperte sui telefoni sequestrati agli indagati. Per ogni nickname vengono svolte indagini per accertare l’identità. E così si tesse la tela di nomi e città che si espande da nord a sud. Gruppi nascosti dall’anonimato, ma operativi sul territorio, in collegamento fra loro. La strategia comunicativa dell’associazione presieduta da Ammendola è impostata in modo da attirare adepti senza usare pubblicamente termini duri o razzisti che si rifanno ai nazisti. C’è un messaggio audio che «il grande professore» invia ad uno dei suoi «seguaci» in cui spiega quali linee guida deve seguire per organizzare un discorso pubblico che deve tenere davanti a decine di ragazzi per presentare l’Ordine di Hagal. E chiarisce come strutturare le parole da usare, in modo da «fare breccia nella mente dei curiosi che intendono avvicinarsi all’associazione» e riconoscersi nella sua ideologia. Per Ammendola il discorso «non deve contenere riferimenti espliciti» e «non deve essere immediatamente d’impatto» per non spaventare i curiosi che si approcciano per la prima volta all’associazione, che ha una facciata diversa rispetto a quello che nasconde. Per questo motivo privilegiano all’inizio un approccio più morbido per introdurre gli argomenti chiave, come l’antisemitismo, il suprematismo della razza bianca e l’omofobia. Il messaggio vocale registrato e acquisito agli atti dell’inchiesta, documenta come effettivamente l’Ordine di Hagal sia uno specchietto per allodole, che utilizza come facciata gli aggettivi di associazione «social-spirituale religiosa» per attirare adepti e seguaci verso le dottrine suprematiste in chiave neonazista professate da Ammendola, supportato da una ragazza che dispensa anche lei consigli per la comunicazione. «Dobbiamo renderci conto che abbiamo di fronte una platea di persone che non sa assolutamente nulla, che è immersa in questo sistema, dobbiamo ricordarci che ci stiamo proponendo come associazione spirituale che vuole risolvere delle cose fondamentali», dice Ammendola, che appare come un imbonitore, e prosegue: «Non possiamo ancora parlare esplicitamente di certe cose». «Per il momento occorre togliere la parola ebreo, diciamo il nome e il cognome, e invitiamo le persone a fare ricerche sui personaggi citati, in modo che poi siano loro autonomamente, nell’intimo della loro mente, ad andare a scoprire cosa hanno in comune tutti quanti, come l’essere ebrei. Anche sul discorso omosessualità non possiamo affrontarlo in maniera forte in questo primo incontro», chiarisce il “professore” il quale ricorda che «sono persone che vengono invitate ad una presentazione, una conferenza sull’economia. Noi dobbiamo fargli capire le cose fornendo strumenti in modo che loro possano comprendere, dicendo che l’informazione è falsa, che sostanzialmente gli interlocutori a cui diamo più credito, quelli che consideriamo più autorevoli, come le televisioni, i telegiornali, i programmi televisivi, le istituzioni, la polizia, i carabinieri, i medici, l’industria farmaceutica, sono quelli di cui le persone sono state portate a fidarsi di più, ma che in realtà sono degli aguzzini, nemici della nostra salute, del nostro benessere e sono dei traditori». La teoria del complotto e il senso di accerchiamento sono una costante di questi movimenti, prodromica all’affermazione delle teorie razziste, antisemite e xenofobe che trovano ulteriore humus nel disagio economico e nel senso di frustrazione ed esclusione dal sociale proprio di coloro sui quali queste ideologie hanno maggiore presa. Alcuni canali Telegram, dai titoli fuorvianti, che servono a catturare nuovi adepti per l’associazione nazista, come “ioaprocampania”, oppure “assistenti costituzionali”, vengono utilizzati per fare attività di proselitismo e indottrinamento. Ammendola attraverso “ioaprocampania”, composto da svariati membri interessati nei mesi scorsi a scambiarsi messaggi contro le misure adottate dal Governo per limitare l’epidemia da Covid-19, riesce ad attirare l’attenzione di una ragazza, con la quale parla a lungo con l’intenzione di farla avvicinare alle sue idee e coinvolgerla nei suoi progetti e le parla delle proprie ideologie filonaziste, sostenendo che Hitler era come lui concettualmente, e che lui è uno «dei principali esperti e profondamente convinti estimatori di Hitler, che molte persone hanno capito che l’olocausto non è mai esistito e che molte di queste lo reputano un messia». La ragazza si dimostra entusiasta e si rende disponibile ad aiutarlo. C’è un’età media dei militanti o quantomeno simpatizzanti, che si è abbassata ai ventenni. Uno degli uomini di Ammendola parla del canale “Assistenti costituzionali”, aperto a tutti con chiari contenuti antisionisti ed omofobi, e spiega che è utile per fare da «scrematore» tra quelli che vi si avvicinano, «per selezionarne successivamente alcuni da introdurre nell’Ordine di Hagal». Le ragioni dell’ascendente, soprattutto sui più giovani, di queste teorie, sono caratterizzate da forte disagio sociale ed economico, da disoccupazione e criminalità, dalla difficoltà, in poche parole, per molti di loro, a trovare una collocazione nel sociale e uno spazio in cui sviluppare con equilibrio la propria identità. Proprio a questo senso di spaesamento, a questa difficoltà di trovare una chiave di lettura coerente della realtà circostante, «le ideologie di estrema destra fornirebbero una risposta rassicurante», sostengono gli esperti che studiano i fenomeni neonazisti del nostro tempo. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nei mesi scorsi ha sottolineato che la più grande minaccia alla sicurezza interna di molti Paesi è data proprio dai movimenti suprematisti bianchi e dai movimenti neonazisti. Il segretario mette in guardia su questi «movimenti di odio che crescono di giorno in giorno», sono più di una minaccia terroristica interna e stanno diventando «una minaccia transazionale». Guterres ha fatto presente che questi gruppi neonazisti, come altri, hanno approfittato della pandemia, così come della polarizzazione sociale e della manipolazione culturale. «Troppo spesso, questi gruppi di odio sono incoraggiati da persone in posizioni di responsabilità, qualcosa che sembrava inimmaginabile poco tempo fa. È solo attraverso un’azione globale concertata che possiamo porre fine a questa grave e crescente minaccia».  

Nazisti sul palco: rock, gadget e croci celtiche. Così si finanzia la rete hitleriana. Dalla Germania all’Italia e ritorno. Un circuito di affari intorno alla musica e al merchandising razzista e antisemita che opera indisturbato. Erika Antonelli su L'Espresso il 5 novembre 2021. C'è una rete, nera e capillare, che collega la Germania all'Italia. E agisce indisturbata su internet e i social network, diffondendo musica che inneggia al nazismo, vendendo gadget e capi d'abbigliamento per i nostalgici di Adolf Hitler e del Terzo Reich. Una galassia di prodotti che rimandano ad altre gang, gruppi e formazioni, tutti però con un obiettivo comune: diffondere violenza, odio e xenofobia. Come fanno tre società specializzate nella vendita di cd “nazirock”, libri e altro materiale inneggiante al suprematismo bianco. Tutte con sede ad Artern, una cittadina in Sassonia. Il Land orientale in cui alle elezioni politiche del 26 settembre il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ha ottenuto il 24 per cento di voti, superando cristianodemocratici e centro-sinistra. Dietro alle tre società, Front records, Wewelsburg records e Frontmusik, ci sarebbe la formazione neonazista internazionale Hammerskin, da trent'anni attiva nella diffusione di ideologie xenofobe e suprematiste. Secondo gli esperti, creare diverse società satellite servirebbe a Hammerskin per schermare le loro attività ai controlli delle autorità. Le società garantiscono infatti agli utenti la sicurezza di rimanere nell'anonimato, non richiedendo loro di creare alcun conto per acquistare online i prodotti. L'ordine può essere fatto in modalità “ospite”, dunque senza salvare alcun dato. Così, indisturbati, si può navigare alla ricerca di felpe, magliette, bandiere, libri e riviste a dir poco discutibili. Come il volume “Rebellische Herzen”, cuori ribelli, scritto dagli attivisti (tutti anonimi) del partito neonazista La terza via, di cui l'Espresso aveva già parlato qui. E balzato recentemente agli onori della cronaca, dopo che la polizia tedesca aveva trovato una cinquantina di persone vicine alla formazione sul confine polacco. Pronte, verosimilmente, ad aggredire i migranti ed equipaggiate con spray al peperoncino, una baionetta, machete e manganelli. Per chi alla lettura preferisce lo shopping, invece, sono disponibili una gran quantità di capi d'abbigliamento. Tra gli altri, magliette con il logo “Aryan brotherhood”, fratellanza ariana, una gang di suprematisti bianchi e di matrice neonazista nata negli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta. O t-shirt con la scritta “Loving violence is not a crime”, amare la violenza non è un crimine. Cliccando sulla descrizione dell'articolo compare il motto “Sport frei”, apparentemente solo un saluto che veniva spesso utilizzato nella Repubblica democratica tedesca. In realtà però “Sport frei”, in italiano sport libero, è anche il nome di uno dei sei gruppi che collabora all'organizzazione dell'evento di MMA “Kampf der Nibelungen”, la più grande manifestazione sportiva nel panorama estremista di destra tedesco. Oltre a diffondere musica e merchandising per nostalgici, le formazioni neonaziste si incontrano ciclicamente ai concerti. Come quello di Hammerskin, tenutosi in Francia nel 2019, in cui i partecipanti si salutano facendo il saluto romano mentre gridano “Sieg Heil”. Succede anche in Italia, l'ultima volta l'anno scorso con l'evento “ISD Memorial”, organizzato a Verona da Veneto fronte Skinheads. Un concerto realizzato per ricordare Ian Stuart, il cantante inglese morto nel '93 e noto per aver fondato il gruppo nazista Blood and Honour. «Eventi così fanno bene al cuore, aiutano a lenire le delusioni di un mondo sempre più in un inesorabile declino, dimostrando che un mondo ribelle, contro corrente e antagonista esiste ed è vivo e vegeto», scrivono entusiasti gli skinhead nostrani sul loro sito. E sempre in nord Italia, a Rogoredo, nel 2016 si era tenuto un altro raduno, organizzato ancora una volta dalla formazione neonazista Hammerskin. Si chiamava “Europe Awake”, sveglia Europa. In quella Milano che, affermava il sindaco Beppe Sala, «è medaglia d'oro alla Resistenza, ha tra i suoi valori fondanti l'antinazismo e l'antifascismo e non vuole permettere che si svolga un'iniziativa volta a trasmettere messaggi violenti, xenofobi, razzisti e omofobi». È servito a poco, gli organizzatori hanno aggirato la diffida della questura a svolgere iniziative pubbliche utilizzando uno spazio privato. Tra gli artisti che si sono esibiti nel 2016 a Milano e nel 2020 a Verona c'erano anche i Katastrof, band veneta autrice di un album con un titolo a dir poco evocativo: “Aryan Rock”. La loro storia è interessante, poiché esemplificativa del filo rosso che lega Italia e Germania. Il primo capo del filo arriva ad Artern, perché il loro cd è acquistabile su tutte e tre le piattaforme con sede fisica nella cittadina della Turingia. Il secondo ad Apolda, altra città del Land orientale, perché la pagina Facebook dei Katastrof rimanda direttamente alla piattaforma “Das Zeughaus”, che lì ha la sua sede. Alla guida c'è Fabian Kellermann, il proprietario di un altro negozio – Strike Back Shop – in cui a marzo la polizia ha effettuato una perquisizione, rintracciando capi di vestiario «con simboli illegali». Gli stessi che Kellermann continua tranquillamente a vendere sul suo sito. Tutte le pagine in cui è possibile acquistare i dischi dei Katastrof li descrivono usando parole al miele: «Finalmente è arrivato il nuovo cd dei simpatici italiani. Molti di voi i ragazzi li avranno già visti a un concerto dal vivo. Cinque anni dopo, hanno fatto un enorme passo avanti. Nei brani dominano tamburi e chitarre, inseriti nella struttura bombastica delle canzoni. E la voce del cantante è energica e bruta. Trasmettono un messaggio politico chiaro al 188 per cento. Consigliatissimo!». In effetti il loro ultimo singolo, uscito nel 2021, lascia poco spazio all'immaginazione. Si chiama A.L.L., acronimo che sta per Anti Lockdown League («Questa è guerra e ora pagherete, la gente è stufa», cantano). È stato censurato su Youtube ma è ancora disponibile nella loro pagina Facebook. Il frontman e il resto della “rac” band – si definiscono così, la sigla sta per rock anti communism – indossano magliette con scritto “White lives matter”, “Fuck refugees” e “Offence best defence”, la miglior difesa è l'attacco. Lo stesso slogan che campeggiava sulla maglietta del leader della Lega Matteo Salvini, in una foto postata da lui stesso sui social tre anni fa. Alla parete, in diversi frammenti del video, compare un simbolo molto simile a una croce celtica. Che è in realtà il logo di “EB European Brotherhood”, altro sito specializzato nella vendita di «abiti e musica indipendente». Con indipendente intendono, tra le altre cose, magliette con la scritta “Protect the family” (una famiglia, madre con padella in mano, padre al centro e due bambini, si difende terrorizzata da due mani color arcobaleno pronte ad arraffarla). O altre con stampato “The media is the virus”, il virus sono i media. Dietro al messaggio, c'è disegnata una faccia che urla coperta dalla mascherina. “European Brotherhood” sulla sua pagina scrive che il movimento è stato fondato «nel 2014 da un gruppo di nazionalisti europei che tengono al futuro del loro paese». Senza specificare dove. Ma poco conta, perché esiste uno spazio (fisico e virtuale) anche per i nostalgici italiani alla ricerca di oggettistica legata a Hitler, Mussolini e al Terzo Reich. Si chiama “La testa di ferro” ed è possibile acquistare, tra le altre cose, bandiere con la croce celtica su sfondo nero o rosso, quelle con il fascio littorio e tricolori con l'aquila simbolo della repubblica sociale italiana. E poi anche spille della Decima Mas, il reparto dei mezzi di assalto della marina militare che dopo l'armistizio dell'otto settembre continuò a combattere al fianco dei nazisti. Inseriti in categorie apparentemente inoffensive, inoltre, è possibile scovare tirapugni mascherati da spille e guanti in pelle nera, con rinforzi casualmente posizionati all'altezza delle nocche. A “La testa di ferro”, un ruolo importante lo riveste pure Casapound. Ci sono infatti le toppe con il noto simbolo della tartaruga e i cd di Zetazeroalfa, la band fondata dal presidente Gianluca Iannone e composta dai militanti stessi. La rete neonazista è trasversale, capillare, interconnessa. Composta da formazioni e sigle legate tra di loro e libere di diffondere messaggi di odio in rete, anche nel nostro Paese, senza neppure il bisogno di schermare le attività. Non necessariamente solo confinate alla musica, come ha dimostrato il tentato attacco degli attivisti del partito La terza via al confine polacco. «Non c'è spazio per la violenza», aveva detto tempo fa il ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer a proposito dei movimenti estremisti. Guardando la loro galassia creare continue connessioni e agire indisturbata, non sembra così.

Nazisti cercansi: la storia dell’operazione Paperclip. Pietro Emanueli su Inside Over il 31 ottobre 2021. Il nazismo viene giustamente ricordato per aver prodotto alcuni dei criminali dall’istinto genocidiale più spietati del ventesimo secolo, come Heinrich Himmler e Martin Bormann. Criminali che avrebbero sfogato i loro istinti genocidi tanto nei campi di battaglia quanto nei campi di concentramento, pianificando e gestendo l’eliminazione di intere popolazioni, e che hanno macchiato indelebilmente l’immagine della nazione tedesca. Scrivere e parlare dell’altro lato del nazismo, quello separato da barbarie e suprematismo razziale, non è mai stato semplice – e mai lo sarà -, ma è l’unico modo che la storiografia ha avuto per risalire alle origini e alle ragioni di quello che Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo. Un mito incardinato su narrative antiche, quali quelle del Blut und Boden, del Volk ohne Raum e del Drang nach Osten, e che, feroci criminali a parte, magnetizzò un esercito di esoteristi ed occultisti, nonché di geni delle scienze civili e militari. Geni che un po’ tutti nel secondo dopoguerra, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, avrebbero cercato di sottrarre al Tribunale di Norimberga, barattandone la libertà in cambio dei loro segreti, delle loro doti fuori dal comune. La grande fuga dei cervelli nazisti, che in terra sovietica assunse il nome di operazione Osoaviakhim, negli Stati Uniti avvenne in diverse fasi, e prendendo nomi differenti, ma una soltanto contribuì in maniera effettiva e determinante a cambiare il corso della storia, della Guerra fredda, permettendo all’Impero della Libertà di assurgere allo status di iperpotenza: l’operazione Paperclip.

Le origini e le ragioni di Paperclip

Paperclip è il nome con il quale si fa riferimento ad un’operazione segreta, esperita congiuntamente da JIOA e CIC – tra i predecessori della Central Intelligence Agency – e che, tra il 1945 e il 1959, avrebbe comportato il trasferimento nei laboratori militari a stelle e strisce di circa 1.500-2.000 scienziati nazisti. Nata con l’obiettivo di dare impeto alla ricerca bellica degli Stati Uniti, date l’emergente competizione egemonica con l’Unione Sovietica e la conoscenza del programma Osoaviakhim, Paperclip avrebbe espresso il proprio potenziale verso la metà della guerra fredda, più precisamente nel contesto della corsa allo spazio. Il principio di Paperclip fu Overcast, un’operazione dello Stato maggiore congiunto (JCS, Joint Chiefs of Staff) avente delle simili finalità e concepita nel luglio 1945, ovverosia a seconda guerra mondiale ancora in corso. Poco più di un anno dopo, verso la fine del 1946, Overcast sarebbe divenuta ufficialmente Paperclip, su ordine dell’allora presidente Harry Truman. Fu a partire da quell’anno, dal 1946, che gli agenti segreti della Casa Bianca si sarebbero messi sulle tracce delle più eminenti menti dell’era nazista. E a rendere un successo questa caccia all’uomo, o meglio al cervello, fu il maggiore Robert J. Staver, che utilizzò un elenco di nomi compilato dai nazisti durante l’operazione Barbarossa, e noto come la “lista Osenberg”, per semplificare e sveltire le operazioni di ricerca.

Lo svolgimento

Almeno 1.800, fra tecnici e scienziati nazisti, sarebbero stati trasferiti segretamente dalla Germania Ovest agli Stati Uniti entro il 1947. E come questi (ex) nazisti furono convinti a cambiare sponda, accettando di collaborare con il distruttore del Terzo Reich, è storia nota: salvazione assicurata dai giudici di Norimberga, mantenimento a carico del governo e, non meno importante, diritto al ricongiungimento familiare. Quest’ultimo punto avrebbe elevato il numero degli ingressi da 1.800 a 5.500, considerando che moglie, figli/e e nipoti costituivano una realtà di 3.700 persone. Il compromesso valeva la candela: in gioco, più che la prima posizione in un’ordinaria corsa alle armi, v’era la vittoria nell’allora emergente guerra fredda contro l’Unione sovietica, un nano economico ma gigante militare che, similmente alla Germania nazista, aspirava a riscrivere il mondo a propria immagine e somiglianza. Per battere quel nemico temibile, che aveva rapidamente trasformato Hitler in un ricordo sbiadito, gli agenti dell’operazione Paperclip avrebbero individuato e portato negli Stati Uniti i più grandi geni dell’era nazista, giustificando tale trasferimento in termini di “riparazione intellettuale”. Nel lungo elenco dei cervelli salvati da Norimberga, e sottratti a Mosca, si sarebbero contraddistinti per importanza, capacità ed impatto storico:

Herbert A. Wagner, inventore dei missili Henschel Hs 293.

Wernher von Braun, co-sviluppatore dei missili V2.

Eberhard Rees, co-sviluppatore dei missili V2.

Kurt Lehovec, fisico.

Hans Ziegler, ingegnere aerospaziale.

Adolf Busemann, ingegnere aerospaziale.

Hermann Oberth, considerato uno dei padri fondatori della missilistica e dell’astronautica.

Walter Haeussermann, ingegnere aerospaziale.

Hans Hollmann, specialista dell’elettronica.

Helmut Hoelzer, inventore.

Fritz Karl Preikschat, inventore.

Johannes Plendl, fisico.

Il contributo degli ex nazisti alla costruzione dell'iperpotenza americana

Si stima che, fra brevetti e relativi processi industriali, l’operazione Paperclip abbia fruttato agli Stati Uniti un totale di dieci miliardi di dollari nel corso della Guerra fredda. Tuttavia, non fu per i possibili benefici economici, incalcolabili e imprevedibili nel 1946, che l’amministrazione Truman avrebbe benedetto quell’attrazione di cervelli sui generis: fu per la gloria. E la storia, poco più di quattro decadi dopo, gli avrebbe dato ragione.

Non le illazioni, ma i fatti, sono la prova che se Paperclip non avesse avuto luogo, gli Stati Uniti, forse, non avrebbero vinto la guerra fredda. O se l’avessero vinta, comunque, sarebbe stato con più difficoltà e impiegando un tempo significativamente maggiore. Una visione degli eventi che, lungi dall’essere una esagerazione, può essere pienamente compresa soltanto attraverso un’adeguata enumerazione dei traguardi e delle scoperte degli ex cervelli del Führer in terra americana:

Hans Ziegler sarebbe divenuto il padre del primo programma di elettronica militare statunitense, curando personalmente la fabbricazione dei primi satelliti artificiali e gettando le basi per l’introduzione dell’energia solare nel dibattito tecnologico. Nel 1963 fu insignito di una medaglia al merito dal Dipartimento della Difesa per i servizi resi agli Stati Uniti.

Kurt Lehovac avrebbe rivoluzionato il mondo dell’elettronica – non soltanto statunitense –, pionierizzando il circuito integrato, le batterie al litio, i dispositivi LED e le celle solari. A lui si deve, inoltre, il perfezionamento del metodo di isolamento della giunzione p-n.

Hans Hollmann viene ricordato per il contributo dato alla nascita della cibernetica e al potenziamento della tecnologia radar. A lui si deve, per di più, l’avvio delle ricerche militari su un argomento sino ad allora, e ancora oggi, fantascientifico: il teletrasporto di esseri umani.

Helmut Hoelzer è passato alla storia come l’inventore del primo computer analogico elettronico.

Johannes Plendl, co-padre fondatore della meteorologia spaziale, avrebbe aiutato il connazionale basato in Europa, Karl-Otto Kiepenheuer, a realizzare la prima prima rete di stazioni per l’osservazione dell’attività solare adibite ad uso militare.

Heinz Schlicke avrebbe spianato la strada alla tecnologia stealth.

Hubertus Strughold è stato il creatore della medicina spaziale.

Erich Traub aiutò la Casa Bianca ad avviare il proprio programma di armamento biologico.

Friedwardt Winterberg, insignito di una medaglia per le scoperte nel campo della propulsione nucleare ad impulso, viene ricordato per aver partecipato alla scrittura dell’Iniziativa di Difesa Strategica dell’amministrazione Reagan e per inaugurato i primi studi sui viaggi interstellari.

Fritz Karl Preikschat, veridico uomo universale – ventitré patenti in campi diversi tra loro, dall’aviazione civile alle telecomunicazioni –, avrebbe spianato la strada alla produzione dei primi veicoli a propulsione ibrida.

Il contributo più importante: l'uomo nello spazio

L’elenco dei nazisti redenti che hanno cambiato la storia degli Stati Uniti, e del mondo intero, non inizia con Ziegler e non termina con Preikschat. Perché molti di più furono i geni insigniti di medaglie al valore per le invenzioni e le innovazioni apportate nel militare e nel civile.

Tra coloro che non sono stati ancora citati, semplicemente perché meritevoli di uno spazio a parte, vanno ricordati Wernher von Braun e la sua squadra di visionari, in larga parte composta da colleghi nella base di Peenemünde catapultati negli Stati Uniti, tra i quali Eberhard Rees, William August Schulze, Hans Fichter, Walter Haeussermann, Gerhard Reisig, Hermann Oberth, Kurt Debus, Arthur Rudolph e Georg von Tiesenhausen.

Von Braun e i colleghi di Peenemünde, insieme, avrebbero messo la firma sull’intero programma spaziale degli Stati Uniti, scrivendolo e gestendolo da cima a fondo, occupandosi chi delle tute spaziali, come Oberth, chi delle rampe di lancio, come Debus, chi della tecnologia missilistica, come Reisig, e chi dei sistemi di navigazione dei razzi, come Haeussermann. E infine, uno di loro, il più dotato, avrebbe avuto il mandato unico di occuparsi di quasi ogni mansione, dall’architettura del Saturn V alla formazione degli astronauti. Quel qualcuno sarebbe stato von Braun.

Per il contributo inestimabile dato al successo delle missioni Apollo, von Braun, Debus, Rees, Rudolph e Geissler avrebbero ricevuto la più alta onorificenza prevista dall’agenzia spaziale statunitense: la NASA Distinguished Service Medal. E Von Braun, il più brillante del gruppo, avrebbe anche ottenuto altri riconoscimenti prestigiosi, tra i quali il Goddard Astronautics Award, l’ingresso nelle hall of fame dello U.S. Space & Rocket Center dell’Alabama e del Museo di storia spaziale del New Mexico e, non meno importante, la dedicazione di un cratere lunare a suo nome.

Il legato più significativo di Paperclip è stato sicuramente questo: l’invio dell’uomo sulla Luna. Un evento epocale, che ha fatto la storia della guerra fredda e dell’umanità, e che non sarebbe stato possibile, sebbene i più non ne siano a conoscenza, senza il contributo di von Braun e degli ex colleghi di Peenemünde.

Von Braun, a sua volta, da Paperclip avrebbe ricevuto qualcosa di impagabile: non la fama, ma un’opportunità. L’opportunità di una nuova vita, priva di crimini commessi nel nome di un’ideologia dell’odio e ricca di gratificazioni, come quella di vedere il mondo con il fiato sospeso durante l’arrivo di Neil Armstrong sulla Luna. Un’opportunità che, oltre a fornirgli uno scopo esistenziale unico, gli avrebbe permesso di trovare la redenzione, la riconciliazione con Dio, rinascendo a nuova vita nel cattolicesimo. Una rinascita di cui avrebbe cercato di rendere l’umanità compartecipe, invitando “chi è turbato dal fatto che non si possa provare scientificamente l’esistenza del Creatore” a non cedere al dubbio, perché “dobbiamo veramente accendere una candela per vedere il Sole?”.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 ottobre 2021. Dopo più di 70 anni, sono venuti alla luce documenti inediti degli ultimi giorni vissuti da Adolf Hitler nel suo bunker sotterraneo. Li aveva conservati un soldato francese come souvenir. Ad analizzare i documenti sono stati gli storici Xavier Aiolfi e Paul Villatoux: si tratta di lettere, telegrammi ed effetti personali, tra cui l’ultimo, inutile ordine alle truppe e l’annuncio della sua decisione di uccidersi. I documenti, segnati dalle bruciature, sono stati consegnati dal figlio del capito Michel Leroy, soldato francese che fece irruzione nel bunker durante la seconda guerra mondiale e conservò i documenti fino alla sua morte. Leroy trovò le 70 carte tra un mucchio di mobili e oggetti nell’ufficio di Bormann nel novembre del 1945. In un telegramma, il segretario privato di Hitler, Martin Bormann, ammette: «Qui le cose sono fottute», mentre in un altro, il capo della Gestapo e delle forze armate naziste Herman Goring tenta di approfittare del caos e assumere il controllo del Terzo Reich – mossa per la quale fu stato bollato come "traditore" e posto agli arresti domiciliari. Fino a poco tempo fa gli storici dovevano fare affidamento sulle testimonianze e sui documenti del dopoguerra provenienti da altre parti della Germania per far luce sugli ultimi giorni del Terzo Reich. Ora invece i due storici, Aiolfi e Villatoux, hanno presentato i documenti per la prima volta nel loro libro The Final Archives of the Fuhrerbunker. Nei giorni in cui la sconfitta della Germania è imminente, le comunicazioni ufficiali ritrovate dai due storici rivelano la disperazione e la paranoia dell’entourage. Un telegramma, inviato da Bormann dopo che Hitler si è infuriato e ha annunciato che avrebbe preferito uccidersi piuttosto che fuggire dalla città, è particolarmente agghiacciante. Vi si legge: «Le cose sono complicate qui. Il capo rimarrà qui, qualunque cosa accada. L'umore è chiaro». A questo telegramma fa seguito l'ordine militare finale del Führer dato a Bormann il 25 aprile, appena cinque giorni prima della sua morte. Ordinò a quel che restava dell'esercito tedesco in Norvegia, Danimarca e Lettonia di tornare indietro e consegnargli una «vittoria nella battaglia di Berlino». Un piano impossibile da realizzare, visto che le unità militari venivano distrutte o tagliate fuori dalle forze nemiche. Come successo in Lettonia, dove l’esercito tedesco, impotente, fu circondato dalle truppe sovietiche fino alla fine della guerra. Aiolfi ha descritto i documenti come «veri testimoni della storia». Ha detto: «Sono eccezionali perché quasi tutto nel bunker è stato bruciato in modo che non cadesse nelle mani delle truppe sovietiche. «Più di 75 anni dopo gli eventi, odorano ancora di umidità e hanno tracce di ustioni. Sono veri testimoni». «Hanno un notevole significato politico perché appartenevano a Martin Bormann, che era un indispensabile esecutore dei piani di Hitler. Era un personaggio servile, brutale, assetato di potere personale e determinato a stare vicino al Führer». «Il documento più emblematico resta il telegramma con cui Hitler impartisce i suoi ultimi ordini per la difesa di Berlino. Ha manovrato unità che non esistevano più o non erano più in grado di raggiungere la città, eppure era convinto che la Provvidenza avrebbe salvato il suo esercito. È chiaro da questi ordini che credeva ancora di poter vincere la battaglia di Berlino e sconfiggere i sovietici. Pensava che questo lo avrebbe messo in una posizione di forza per negoziare un trattato di pace e mettere gli alleati contro la Russia». Conosciuto come "il toro di Hitler", Bormann rimase nel rifugio sotto l'edificio della cancelleria a Berlino fino a quando il Fuhrer si sparò. Bormann si suicidò il 2 maggio 1945, mentre stava per essere catturato durante la sua fuga da Berlino. Sua moglie e i suoi dieci figli, tutti sopravvissuti alla guerra, si rifugiarono a Obersalzberg, in Baviera.

Edoardo Di Salvo per lastampa.it il 30 settembre 2021. Ha 96 anni e fugge da un processo per complicità nell’Olocausto. La storia arriva dalla Germania, dove Irmgard Furchner, ex segretaria del campo di concentramento di Stutthof, è accusata di favoreggiamento nel massacro di 11mila persone, tra il 1943 e il 1945. L’anziana è stata intercettata dalla polizia tedesca nel primo pomeriggio. Il processo è iniziato oggi, a distanza di 70 anni, nel tribunale della cittadina di Itzehoe, non lontano da Amburgo nel nord della Germania, dove l’anziana vive in una casa di riposo: la 96enne però, anziché presentarsi in aula si era data alla fuga prendendo un taxi.  Al processo la attendevano circa 50 giornalisti e 12 rappresentanti delle 30 persone costituitesi parte civile, tra cui alcuni sopravvissuti del campo. A quel punto, il giudice Dominik Gross ha emesso un mandato d’arresto nei confronti della 96enne. Le autorità l’hanno rintracciata. Si tratta della prima donna da decenni ad essere processata per crimini connessi al Terzo Reich, ma non sono rari in Germania casi simili, dove la giustizia non si ferma malgrado l’età molto avanzata degli imputati. Irmgard Furchner ha iniziato a lavorare nel campo di Stutthof, nella Polonia occupata nel 1943, quando aveva solo 18 anni, come segretaria e dattilografa. Il precedente giudiziario su cui si fonda il processo, è quello del 2011, in cui l’allora 91enne ucraino John Demjanjuk venne condannato a 5 anni di carcere semplicemente per essere stato presente nel campo di Sobibòr durante le stragi. L’uomo era un soldato dell’Armata Rossa catturato dai nazisti, ed è stato il soggetto con grado più basso di sempre a essere processato per crimini di guerra legati all’Olocausto. In quell’occasione il giudice motivò la decisione spiegando che non importa quanto piccolo possa essere stato il ruolo di una persona, basta avere le prove che si trattasse di un «ingranaggio della macchina della distruzione» per giungere a una condanna. La difesa di Furchner spingerà sul fatto che i compiti della donna fossero solo quelli di scrivere telegrammi e mandare comunicazioni radio, senza mai contribuire fisicamente al massacro.

Antonella Mollica per il corriere.it il 30 settembre 2021. Era appena arrivato a Forte dei Marmi con un pullman di pensionati della Germania per una vacanza fuori stagione sulla riviera versiliese. Nessuno poteva immaginare che dietro quel tedesco di 76 anni dall’aria così mite potesse nascondersi un criminale nazista. Reinhard Doring Falkenberg, 76 anni, residente a Gronau, nella Renania settentrionale, non si nascondeva. Pensava probabilmente di esser sfuggito per sempre alla giustizia che gli stava dando la caccia da sedici anni. Viaggiava con il suo documento di identità che ha regolarmente consegnato alla reception dell’hotel al suo arrivo in Italia. L’allarme è scattato qualche giorno fa quando al commissariato di polizia di Forte dei Marmi hanno inserito nel terminale le schede degli alloggiati nelle strutture turistiche: quell’uomo risultava ricercato in Cile. Così i poliziotti si sono presentati in albergo e dopo aver accertato che non si trattasse di un caso di omonimia, come talvolta accade, hanno fatto scattare il fermo. Adesso il caso passerà alla Corte d’Appello di Firenze che dovrà decidere sull’estradizione richiesta dal Cile. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto ai giudici di Firenze di non scarcerare Doring Falkenberg. Bisogna andare indietro di settantacinque anni per ricostruire la storia del tedesco fermato in Toscana. Bisogna tornare alla fine della seconda guerra mondiale quando un gran numero di nazisti fece perdere le tracce, spostandosi in America latina. Negli anni Sessanta il caporale delle Ss Paul Schafer fuggì in Cile con trecento gerarchi tedeschi che diedero vita a Colonia Dignidad, un borgo-lager sulle Ande, circa 350 chilometri a sud di Santiago del Cile, oggi diventato Villa Baviera, un villaggio turistico e una grossa azienda agricola. A Colonia Dignidad, per un certo periodo, si nascose anche Josef Mengele, il medico delle atroci sperimentazioni ad Auschwitz su cavie umane mentre durante il regime di Pinochet si trasformò in un centro di detenzione per gli oppositori cileni che venivano arrestati e poi fatti sparire. Quella vallata di 15 mila ettari divenne il regno di Schafer: una sorta di comunità-setta con i contadini che lavoravano senza sosta mentre i bambini venivano violentati e picchiati. «Ci facevano credere che quella fosse l’unica vita possibile — racconteranno anni dopo alcune vittime — che Schafer fosse Dio e che gli abusi fossero previsti dalla Bibbia». Inseguito da decine di denunce per violenze sessuali, l’ex gerarca fuggì in Argentina dove poi venne arrestato nel 2005. Nello stesso anno, dopo anni nel covo nazista oltreoceano, fuggì dal Cile anche Doring Falkenberg, prima di essere processato per il rapimento di Juan Maino, fotografo italo-cileno militante del Mapu (il movimento di azione popolare unitaria che sosteneva il governo Allende) scomparso nel 1976 a 27 anni. Maino venne portato via da casa da uno squadrone del dittatore Pinochet e mai più ritrovato. Anni e anni dopo si scoprirà che dentro Colonia Dignidad c’erano i desaparecidos inghiottiti dal regime di Pinochet. Da anni i familiari delle vittime cilene stanno portando avanti una battaglia sottolineando una corresponsabilità della Germania in quella vicenda. Nonostante le condanne arrivate anni fa ai protagonisti degli abusi sui bambini cileni negli anni Novanta non sono mai stati versati i risarcimenti. «Per azione o omissione Cile e Germania sono responsabili della tragedia della violazione dei diritti umani», hanno sempre ripetuto da anni i parenti delle vittime.

Rudolf Hess, il nazista del mistero. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'8 agosto 2021. L’epopea nazista non è durata mille anni come avrebbe voluto Adolf Hitler, ma quei dodici anni sono stati sufficienti a catalizzare l’entrata della storia e dell’umanità in una nuova era: l’era della guerra fredda, della decolonizzazione e della fine definitiva del sistema europeo degli Stati. E ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, quella nazista continua ad essere la saga storica che, più di ogni altra – anche più del confronto egemonico tra Stati Uniti e Unione sovietica –, stuzzica maggiormente la fantasia di scrittori e sceneggiatori. Le ragioni alla base dell’eterno interesse verso il nazismo sono molteplici, poiché spazianti dalla curiosità antropologica alla trasmissione della memoria e dalla ricerca storica alla fascinazione verso il lato misterico e misticistico che ha connotato il “Mito del ventesimo secolo” sin dai primordi. Perché il nazismo non fu soltanto odio e guerra, ma fu anche criptoarcheologia, esoterismo, occultismo, teosofia e ufologia. Perché il nazismo non fu soltanto Joseph Goebbels, ma fu anche il ricercatore del Graal Otto Rahn, il mistico Karl Maria Wiligut e l’enigmatico Rudolf Hess.

Le origini e il periodo interguerra. Rudolf Walter Richard Hess nasce ad Alessandria d’Egitto il 26 aprile 1894. Primogenito di Johann Fritz Hess e Klara Hess, una coppia appartenente alla classe alta, Rudolf avrebbe goduto della compagnia di un fratello e di una sorella di lì a breve, rispettivamente nati nel 1897 e nel 1904. Insieme ai fratelli e ai genitori avrebbe trascorso la prima parte dell’infanzia in Egitto, all’epoca sotto occupazione britannica, vivendo tra gli agi permessi dagli introiti dell’impresa commerciale del padre, la Heß & Co., e ricevendo un’educazione sui generis. Hess, invero, viene cresciuto più da Evelyn Baring, un conte di nazionalità britannica ed amico di famiglia, che dai genitori, costantemente lontani a causa del lavoro. Da lui, il conte Baring, il giovane Hess avrebbe imparato ad amare la cultura britannica, a credere nelle teorie nordiche del razzismo scientifico e a sostenere quello che all’epoca veniva definito il “fardello dell’uomo bianco”: l’ineluttabile necessità della colonizzazione a scopo civilizzatrice dei popoli non bianchi. Idee che lo avrebbero condizionato profondamente, conducendolo, una volta adulto, a sposare la causa nazista. Durante la Grande Guerra, il grande spartiacque del Novecento, Hess si sarebbe arruolato nell’esercito dell’impero tedesco, venendo successivamente premiato con una croce di ferro e una croce al merito per il coraggio mostrato nei campi di battaglia. Nel corso della medesima esperienza, inoltre, sarebbe stato introdotto all’arte dell’aviazione. Un’arte che avrebbe rispolverato parecchi anni dopo, in occasione del celebre volo magico verso l’Inghilterra.

Hess e il nazismo. Hess è stato uno dei primi tedeschi a subire la fascinazione di quel pittore reinventatosi politico rispondente al nome di Adolf Hitler. I due si conobbero nell’immediato Dopoguerra, durante una marcia a Monaco di Baviera, e tra loro sarebbe nato subitaneamente un legame tanto intenso quanto genuino. Innumerevoli i punti in comune alla base dell’idillio: l’esperienza di guerra, l’avversione nei confronti della Repubblica di Weimar, l’anticomunismo spasmodico, la passione per l’occulto e, ultimo ma non meno importante, l’antigiudaismo. Hess, proprio come Hitler, credeva che la Germania avesse perduto la guerra a causa della “coltellata alla schiena” (Dolchstoßlegende) presumibilmente ricevuta da quinte colonne operanti all’interno della nazione, in particolare ebrei e simpatizzanti bolscevichi. Non un fato tragico provocato dall’accerchiamento incontenibile della Triplice intesa e dei suoi alleati, ma un tremendo “nazionicidio”. I due decisero che andava fatto qualcosa: andava arrischiato un colpo di mano. E lo avrebbero tentato veramente, la sera dell’8 novembre 1923, a Monaco di Baviera. Alla fine dell’insurrezione, terminata con venti morti e altrettanti tra feriti e arrestati, per il duo si sarebbero aperte le porte del carcere di Landsberg, dove avrebbero lavorato insieme alla Bibbia del nazismo: il Mein Kampf. Le esperienze del tentato golpe e della carcerazione li avrebbero avvicinati ulteriormente, saldando il loro rapporto e rendendolo inossidabile, a prova di rottura ed erosione. Hess, divenuto il segretario del futuro cancelliere, accompagnava Hitler sempre e comunque, ad ogni evento e in ogni città. Nel 1933, a dittatura instaurata, Hess sarebbe stato ricompensato egregiamente per i servigi resi a Hitler in quel decennio di amicizia – incluso il salvargli la vita nei primi anni Venti nel corso di un attentato marxista -, venendo eletto vice Führer. Diverse le mansioni ricoperte, le funzioni svolte e gli argomenti trattati in qualità di vice Führer, tra le quali risultano e risaltano la co-gestione delle relazioni internazionali, lo stabilimento di rapporti con le minoranze tedesche all’estero – sua l’idea di fondare la Direzione generale del benessere dei tedeschi etnici (Hauptamt Volksdeutsche Mittelstelle) –, la preparazione dei discorsi al pubblico di Hitler e l’organizzazione dei grandi eventi del Partito nazista. Fu un sostenitore della causa antiebraica dalla prima ora, vedendo la longa manus di una presunta internazionale giudeo-bolscevica un po’ ovunque – dalla sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale allo scoppio della guerra civile spagnola – e contribuendo, coerentemente con il proprio credo, dapprima alla formulazione e all’implementazione delle leggi di Norimberga – la prima legislazione antisemita del Terzo Reich, datata 1935 – e dipoi al trattamento della cosiddetta “questione ebraica” durante la Seconda guerra mondiale.

Hess: l'esoterista. Attratto dall’astrologia, dalla numerologia e dall’occulto sin dalla gioventù, Hess è stato sicuramente uno dei membri dell’élite nazista più votati all’enigma, vicini all’arcano e convinti dell’esistenza di un complotto giudeo-bolscevico per il dominio del mondo. Entrò a far parte del più noto incubatore di nazisti, la misterica e misteriosa Società Thule, nell’immediato primo dopoguerra, ivi trovando un ambiente in cui approfondire le teorie sugli uomini e sulle relazioni internazionali alle quali era stato introdotto in gioventù dal conte Baring. Allo scoppio della guerra, sostenuto dall’amico Karl Haushofer – uno dei padri della geopolitica contemporanea –, tentò di aprire un canale di dialogo segreto con la famiglia reale britannica ai fini della chiusura del fronte occidentale e del raggiungimento di un’intesa. I britannici, credeva Hess, avrebbero dovuto capire, apprezzare e appoggiare il progetto hitleriano, perché custodi del destino della civiltà europea e a capo della massoneria mondiale. Senza il loro supporto determinante, in breve, la guerra per il futuro dei bianchi europei sarebbe stata persa. Dopo aver atteso invano delle risposte dai reali britannici contattati a mezzo lettera, nonché informato Hitler delle proprie intenzioni, il 10 maggio 1941 Hess avrebbe preso il volo per la Gran Bretagna. Da solo. L’azzardo gli sarebbe costato la fiducia del Führer – almeno in apparenza – e la traduzione in arresto una volta toccato il suolo britannico. Ed è a questo punto, a partire dal 10 maggio 1941, che storia e speculazione confluiscono in un solo fiume, mescolandosi sino a divenire un tutt’uno indistinto e inscindibile, investendo Hess del manto che gli è sempre e legittimamente appartenuto: quello del mistero. All’amico Albert Speer, l’architetto di Hitler, Hess avrebbe confidato di aver ricevuto l’ordine da una delle forze sovrannaturali con le quali dialogava attraverso i sogni. E questa eminenza grigia ed invisibile, che non poteva mentire, gli aveva ordinato di proporre ai britannici un’alleanza in chiave antisovietica basata su un irrefutabile do ut des: a Berlino l’Europa, a Londra l’impero. Il piano non ebbe successo, come è noto, ma Hess non avrebbe addossato la responsabilità né su se stesso né su quell’entità preternaturale con la quale era in contatto. Perché nel corso della detenzione, isolato dal mondo ma in compagnia di quelle forze ultraterrene, Hess avrebbe scoperto come Winston Churchill e la dirigenza britannica fossero stati condizionati mentalmente, e a loro insaputa, dall’internazionale ebraica. Dichiarazioni che lo avrebbero condotto a ricevere frequenti visite psichiatriche durante l’intero periodo detentivo, perché sospettato di soffrire di disturbi mentali, ma che lui non avrebbe mai rinnegato, neanche nel dopoguerra. A questo punto, dopo aver ricostruito gli eventi, la domanda sorge spontanea: Hess era uno squilibrato che aveva perduto il senno o un fedelissimo di Hitler realmente persuaso dell’imperativo di quella “missione per l’umanità” e di essere in contatto con esseri soprannaturali? Alcuni eventi sembrano suggerire che la risposta più probabile possa essere la seconda. Perché Hess non avrebbe agito da solo, come si suol credere, avendo ricevuto la benedizione di aristocratici, massoni e “preti neri”, ovvero i seguaci dell’occultismo. E tra i sostenitori di quella missione, sulla quale mai è stata fatta completamente luce, figura il più celebre occultista del Novecento, Aleister Crowley, altresì noto come la Bestia. L’influente Crowley, parimenti a Hess, credeva nella necessità di un’intesa tedesco-britannica tesa alla salvaguardia della civiltà europea, o meglio di quel che restava della razza ariana, e avrebbe cercato di aiutare il nazista come e quanto possibile, perché incuneato nei circoli britannici che contavano. L’oscura alleanza tra le sette teosofiche, massoniche e occultistiche di Londra e Berlino, però, non riuscì ad esercitare abbastanza pressione su Churchill. Il resto è storia.

Gli ultimi anni di vita. Figurante al banco degli imputati di Norimberga, Hess sarebbe stato giudicato per crimini contro la pace e condannato all’ergastolo. Tradotto al carcere di Spandau, quivi avrebbe trovato la morte il 17 agosto 1987, alla veneranda età di 93 anni, dopo aver accusato ripetutamente le autorità di volerlo assassinare e dopo aver tentato ripetutamente il suicidio.

La sua morte, così come la sua vita, resta avvolta dal mistero. Perché secondo il resoconto ufficiale, l’anziano Hess, fallito ogni tentativo di rilascio per via dell’età avanzata e dei problemi di salute, si sarebbe tolto la vita stringendosi una corda al collo. Un suicidio, accompagnato da una lettera di commiato, al quale, però, non hanno mai creduto l’avvocato di Hess, i suoi parenti e una piccola platea di amanti delle teorie del complotto.

Troppo in là con l’età, nonché gravemente debilitato dal punto di vista fisico, gli scettici ritengono che Hess sia stato ucciso dai servizi segreti britannici perché in procinto di rivelare segreti compromettenti sulla Seconda guerra mondiale, più nello specifico relativi al suo “volo magico” in Scozia. Speculazioni, nient’altro che speculazioni, che, però, continuano a mantenere in vita quell’anti-mito che fu Rudolf Hess, il nazista del mistero la cui rocambolesca missione di pace avvenne con la benedizione dell’internazionale esoterica e di uno dei suoi padrini, lo stregone Aleister Crowley.

Il vescovo di Hitler. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'8 agosto 2021. Adolf Eichmann, Josef Mengele, Walter Rauff, Franz Stangl, Josef Schwammberger, Erich Priebke e Gerhard Bohne sono ricordati come i fuggitivi più celebri del Terzo Reich. Biografie simili, fati diversi – chi morto in libertà e di vecchiaia, chi morto per impiccagione o in una cella di prigione -, due elementi in comune: prima l’adesione a quello che Alfred Rosenberg aveva definito il Mito del ventesimo secolo e dopo la fuga in America Latina nel secondo dopoguerra. I nazisti ad aver trovato una seconda casa in America Latina, però, non furono soltanto quei temibili sette: furono molti di più – migliaia -, dai 9mila ai 12mila. Un vero e proprio esercito, materializzatosi nottetempo dall’Europa all’America meridionale, la cui fuga dalle maglie della giustizia internazionale, nonché dagli agguerriti cacciatori di nazisti israeliani, è oggetto di dibattito tra gli storici. Quel (poco) che è noto, a proposito della trasmigrazione nazista in America Latina, proviene da testimonianze dirette e documenti desecretati e punta il dito, tra i vari attori, contro l’internazionale cattolica ruotante attorno al Vaticano. Perché uno dei più importanti salvatori di nazisti, autentica nemesi di Simon Wiesenthal, fu il vescovo austriaco Alois Hudal. 

Le origini. Alois Hudal nasce a Graz (Austria) il 31 maggio 1885 in una famiglia di umili origini. Folgorato sulla via di Damasco in tenerissima età, sarebbe stato ordinato presbitero precocemente, nel 1908, cioè a soli 23 anni. Studente instancabile e cattolico zelante, Hudal avrebbe tagliato una serie di traguardi rilevanti negli immediatamente successivi all’ordinazione e precedenti allo scoppio della Grande guerra, tra i quali risaltano due dottorati (uno in teologia sacra e uno in sacre scritture) e il titolo di cappellano preso il Collegio teutonico di Santa Maria dell’Anima a Roma. La Prima guerra mondiale lo avrebbe toccato profondamente, costituendo un momento di svolta nella sua vita. Ordinato cappellano militare, avrebbe seguito le truppe imperiali al fronte, supportandole spiritualmente – nel 1917 mette la firma su un libro di omelie militari –, conoscendo il dramma della Grande guerra e assistendo al progressivo annichilimento della propria nazione.

La fascinazione verso il nazismo. Quando la guerra finisce, l’impero austro-ungarico è stato seppellito dalla storia, il mondo germanico è stato ridotto in cenere e la Chiesa cattolica è una grande potenza in divenire. E Hudal, patriota disincantato, avrebbe cominciato a scalare i vertici vaticani a partire dal primo dopoguerra. Introdotto all’allora papa Pio XI dall’influente diplomatico (e connazionale) Ludwig von Pastor, Hudal entra rapidamente nelle grazie del pontefice e nel 1923 viene nominato rettore del Collegio teutonico di santa Maria dell’Anima, presso il quale aveva ricoperto il ruolo di cappellano nell’anteguerra. Sette anni dopo, dopo aver consolidato la propria posizione all’interno della gerarchia ecclesiastica, entra a far parte della potente Congregazione del Sant’Uffizio (oggi Congregazione per la dottrina della fede) in qualità di consultore. Negli anni Trenta si avvicina a quello che di lì a poco sarebbe divenuto il successore di Pio XI, ovvero il cardinale e segretario di Stato Eugenio Pacelli. Da Pacelli verrà nominato vescovo di Ela e incaricato di monitorare sia la persecuzione dei cristiani all’interno dell’Unione sovietica sia l’evoluzione di un fenomeno nuovo, sul quale la Chiesa era interessata a sapere di più: il nazismo. Né comunista né liberale, Hudal sarebbe rimasto affascinato da quell’ideologia teorizzata, tra l’altro, da un suo connazionale. Credendo incombente un’invasione sovietica delle terre germaniche e dell’Italia, e constatando l’avanzare della secolarizzazione tra le classi politiche dell’Europa occidentale, Hudal avrebbe visto nel nazismo, e in generale nei fascismi, un antemurale Christianitatis meritevole di comprensione e supporto. Con lo scorrere del tempo, consapevolmente o meno, Hudal sarebbe divenuto un simpatizzante anima e corpo del nazismo, sposandone quasi ogni punto cardine: dalla gestione dell’economia alla nazionalizzazione delle masse e dalla politica estera, fino addirittura alla “questione ebraica”. La fascinazione verso l’ideologia nazista, però, non gli impediva di riconoscerne i gravi limiti e la minaccia posta alla Chiesa cattolica. Perché Hudal era consapevole della presenza tra i ranghi nazisti di personaggi come Alfred Rosenberg ed Ernst Bergmann, fortemente contrari ad ogni forma di cooperazione con le forze di matrice cristiana, inclusa la Chiesa cattolica, ma favorevoli ad una revisione dei dogmi orientata alla costruzione del cosiddetto “cristianesimo positivo”. Decise di rimanere dalla parte dei nazisti, nonostante tutto, perché convinto che fossero dalla parte giusta della storia e che, soprattutto, avrebbero prevalso su liberali e comunisti, riportando l’Europa ai fasti dell’epoca della Res publica christiana. Una scelta di campo, quella di Hudal, mai tenuta nascosta e, anzi, palesata in più occasioni – dal sostegno all’Anschluss alla scrittura di un’agiografia sul nazismo (I fondamenti del nazionalsocialismo, 1937) –, che gli sarebbe costata il sacrificio delle prospettive di carriera nella piramide vaticana.

Al servizio del Reich. Dopo la pubblicazione del controverso manifesto filonazista – accolto positivamente in Germania e, sembra, letto dallo stesso Hitler –, Hudal fu costretto al ritiro a vita privata. Sebbene fosse rimasto teoricamente in servizio, in pratica fu spogliato di ogni responsabilità rilevante e gli fu impedito ogni contatto con Pio XII e gli alti papaveri della Chiesa cattolica. Gli storici ritengono che negli anni della guerra abbia profittato della lontananza dagli occhi indiscreti per reinventarsi agente segreto sul libropaga del Terzo Reich. Una tesi, quella di Hudal divenuto 007 nazista, esposta in Nothing Sacred dello storico Robert Graham e sostenuta da altri autori. E se la trasformazione in agente segreto continua ad essere materia di dibattito, è invece acclarata e dimostrata la sua conversione da monsignore a custode di ricercati e soldati – esclusivamente nazisti –, nascosti nei conventi e nelle strutture cattoliche spalmate sui territori italiano, austriaco e iugoslavo. Realizzato pienamente il potere della rete transnazionale della Chiesa cattolica, perché tastato con mano, Hudal, nel secondo Dopoguerra, avrebbe cominciato a dedicarsi alacremente ad un nuovo obiettivo: l’utilizzazione di chierici e strutture ecclesiastiche al fine della messa in sicurezza di tutti quei nazisti desiderosi di fuggire dal Vecchio continente. Isolato dalle stanze dei bottoni e dagli affari esteri, ma ricco di amicizie influenti e profondo conoscitore dei meccanismi interni della struttura vaticana, Hudal avrebbe costruito un’imponente macchina burocratica votata alla produzione di nuove identità, alla fornitura di nascondigli e all’organizzazione di viaggi salva-nazisti. Aiutato da potenti complici, tra i quali i cardinali Antonio Caggiano ed Eugène Tisserant, Hudal avrebbe salvato la vita di migliaia di nazisti, curandone ogni aspetto della latitanza: dalla fabbricazione di nuovi documenti identificativi all’acquisto dei biglietti di viaggio e dalla fornitura di denaro alla ricerca di lavoro nella loro nuova dimora. Tra i nazisti più celebri che riuscirono a scappare dall’Europa, usufruendo delle linee dei ratti (ratlines) istituite da Hudal e complici e sovvenzionate da finanziatori occulti, figurano e risaltano Stangl, Mengele, Eichmann, Priebke, Eduard Roschmann, Gustav Wagner e Alois Brunner.

Gli ultimi anni e la morte. Ci sarebbero voluti anni, in alcuni casi decenni, perché alcuni di quei nazisti salvati dal monsignore della svastica venissero catturati e portati dinanzi alla giustizia dalla contro-rete allestita dal Mossad del neonato Israele. Decine di rintracciati (e condannati) a fronte di migliaia di scappati e mai più ritrovati: una vittoria totale per Hudal, il chierico che, più di ogni altro, aveva creduto nel “Mito del ventesimo secolo” e lottato affinché non perisse con la fine della Seconda guerra mondiale. Dimessosi dal rettorato del Collegio teutonico di santa Maria dell’Anima nel 1952, viene successivamente esiliato da Pio XII. Non sarebbe tornato in Austria, però, scegliendo di trascorrere gli ultimi anni di vita nella Città eterna, in maniera tale da continuare a poter vedere San Pietro, pur non potendovi mettere piede. Muore nel 1963, poco dopo aver terminato la scrittura delle sue memorie (Römische Tagebücher, Lebensberichte eines alten Bischofs), senza aver mai rinnegato le complicità con e le simpatie per il nazismo e portandosi nella tomba una miriade di segreti su quel sistema salva-nazisti, a metà tra mito e realtà, che gli storici avrebbero ribattezzato “Odessa“.

Il sangue alle terme e lo sterminio delle SA. Marco Fraquelli l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di A destra di Sodoma (Oaks editrice). Sulla «Notte dei lunghi coltelli» si sono scritti fiumi di inchiostro, e la vicenda è assai nota. La riassumo perciò brevissimamente. Tutto accade la notte (anzi, per la verità all’alba) tra il 29 e il 30 giugno 1934, quando, in una placida stazione termale della Baviera, Bad Wiessee, un drappello di SS, guidate da Hitler in persona, fa irruzione in un albergo (la Pension Hanselbauer), sorprendendo nel sonno il nucleo dirigente delle SA, Röhm compreso. Tutti vengono arrestati, condotti nel vicino carcere di Stadelheim e in seguito giustiziati (Röhm sarà ucciso il 2 luglio dalle SS Eicke e Lippert, con due colpi di pistola). Come si diceva, la lettura in chiave omosessuale dell’episodio ha a lungo prevalso, complici alcune rappresentazioni superficiali e affrettate, o drammatizzazioni estetizzanti: è il caso del celebre film di Luchino Visconti, La caduta degli dei, nel quale il regista ci mostra – all’interno dell’albergo – un cumulo di corpi nudi e sanguinanti, insinuando, per usare un eufemismo, che il massacro si fosse consumato mentre le vittime erano state sorprese nel pieno di un’orgia. In realtà sappiamo che non è affatto così. Le SA furono sì sorprese, ma ciascuno a dormire nel proprio letto, con la sola eccezione del già menzionato Obergruppenführer Heines (che da militante dei Freikorps era stato coinvolto nell’omicidio di Walter Rathenau), trovato anche lui a letto, ma avvinghiato a un giovane biondino. Certamente la vulgata gay della vicenda nasce in seno allo stesso regime nazista: la strage viene infatti giustificata proprio con la necessità di porre fine a uno scandalo in seno al partito e ai suoi organi collaterali. È lo stesso Hitler a ufficializzare questa tesi in un discorso radiofonico del 13 luglio: «Nelle SA avevano cominciato a formarsi dei settori che costituivano il nodo di una congiura contro la concezione normale di una nazione sana e contro la sicurezza dello Stato. Abbiamo potuto constatare che queste persone sono state arruolate nelle SA per la semplice ragione che appartenevano al cenacolo delle inclinazioni particolari […] Ho dato ordine di fucilare i principali colpevoli di questo tradimento e di cauterizzare gli ascessi del nostro avvelenamento interiore e dell’avvelenamento straniero, fino a bruciare la carne viva […] Ero responsabile della nazione tedesca e, di conseguenza, per ventiquattro ore sono stato io, da solo, il giustiziere supremo del popolo tedesco». E lo stesso tema è ripreso in una nota ufficiale del partito nelle ore successive all’evento: «L’operazione di questi arresti offre moralmente delle immagini così desolanti che ogni traccia di commiserazione dovrebbe scomparire […] Alcuni di questi capi delle SA si erano offerti come “ragazzi d’appuntamento”. Uno di loro [il riferimento è a Heines] è stato sorpreso in quella situazione disgustante ed è stato messo in prigione. Il Führer diede ordine di sterminare una simile peste. Per il futuro non permetterà più che milioni di persone oneste possano venire importunate e compromesse da esseri anormali […] A mezzogiorno in punto il Führer ha pronunciato, davanti ai principali capi SA riuniti a Monaco, un discorso nel quale ha fatto valere la sua indefettibile alleanza con le SA, ma nello stesso tempo ha proclamato la sua determinazione di sterminare e annientare i soggetti indisciplinati e disobbedienti, così come gli elementi asociali e morbosi». Vero è che le SA, a cominciare dal loro leader, non avevano mai fatto nulla per celare la loro condizione «anormale», anzi. Come detto, infatti, non ha certamente mai nascosto le sue inclinazioni il Capo di Stato maggiore Ernst Röhm, l’uomo forse più importante nella fondazione del partito nazionalsocialista, sicuramente il più importante alleato di Hitler, da cui si distaccò solo nel 1928, non condividendo la tattica di conquista legale del potere perseguita dal Führer, né la sua politica autocratica, volta al controllo totale del partito. Anche per questi motivi, lo abbiamo visto, Röhm lasciò i suoi incarichi in seno al NSDAP e alle SA e emigrò in Bolivia per intraprendere l’attività di istruttore militare. Marco Fraquelli

Susanna Picone per fanpage.it il 3 agosto 2021. Ha cento anni, ma può sostenere un processo. E così un’ex guardia di un campo di concentramento nazista andrà alla sbarra in Germania a ottobre con l'accusa di complicità in 3.518 omicidi. Secondo quanto riportato dai media stranieri, l’ex guardia nazista – rimasta anonima in linea con le leggi sulla privacy tedesca – ha cento anni: l’ufficio del procuratore della località di Neuruppin, che per primo ha presentato le accuse a febbraio, ha ricevuto una valutazione medica che ha confermato che nonostante l’età avanzata è "in grado di sostenere un processo". Le udienze saranno limitate a due ore e mezza al giorno, secondo i pm. Come si legge sul Guardian, l’uomo che andrà a processo è accusato di aver assistito "consapevolmente e volontariamente" all'omicidio di prigionieri nel campo di Sachsenhausen a Oranienburg, a nord di Berlino, tra il 1942 e il 1945. In particolare è accusato di complicità nell’"esecuzione per fucilazione di prigionieri di guerra sovietici nel 1942″ e nell'omicidio di prigionieri "usando il gas velenoso Zyklon B”. Thomas Walther, un avvocato che rappresenta alcune delle vittime del caso, ha dichiarato al quotidiano Welt am Sonntag che "molti dei co-denuncianti hanno la stessa età dell'accusato e si aspettano che sia fatta giustizia”. Sachsenhausen fu fondato nel 1936 come primo nuovo campo dopo che Hitler diede alle SS il pieno controllo del sistema dei campi di concentramento. Più di 200.000 persone furono rinchiuse in quel campo tra il 1936 e il 1945, decine di migliaia morirono di fame, malattie, per il lavoro forzato e altre cause, nonché attraverso esperimenti medici e omicidi sistematici perpetrate dalle guardie naziste con fucilazione, impiccagione e gas.

Gianni Del Vecchio per huffingtonpost.it il 2 agosto 2021. Che nel Dopoguerra Roma pullulasse di nazisti in fuga verso il Sudamerica o il Medio Oriente lo si sapeva. Che nella loro permanenza fossero aiutati e sostenuti da importanti pezzi delle gerarchie vaticane pure lo si sapeva. Che tutto ciò avvenisse con il beneplacito dei servizi segreti americani - che utilizzavano le ex prime linee di Hitler in chiave anticomunista - è ormai verità storica conclamata. Che invece tanti di loro, almeno tre ma forse di più, sbarcassero il lunario recitando in ruoli minori in importanti film italiani - come Una Vita difficile di Dino Risi o La caduta degli Déi di Luchino Visconti -, questo è meno noto. O meglio: è noto per lo più a storici e addetti ai lavori. Che poi le parti a loro assegnate fossero autobiografiche - soldati tedeschi cattivi e senza cuore - beh, questo è il classico caso in cui la storia diventa farsa. O più precisamente, visto che parliamo di Cinecittà, è il caso in cui il confine fra finzione e realtà più che superato viene completamente abbattuto. Borante Domizlaff, maggiore delle SS, Karl Hass, anche lui maggiore SS, e Otto Wachter, generale SS nonché governatore della Galizia e responsabile della morte di centinaia di migliaia di ebrei: sono loro i tre ufficiali tedeschi che si guadagnavano il gettone “da 10mila lire” per le comparsate cinematografiche. Con un ulteriore dettaglio che ha del paradossale - come se del paradosso non ce ne fosse a sufficienza in questa vicenda - : due di loro, Domizlaff e Hass parteciparono attivamente all’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma del 1944. Ma si sa, la Città Eterna perdona facilmente i propri figli prodighi, figurarsi quelli che vengono da lontano, in questo caso gli ex occupanti tedeschi.

 Il mistero Domizlaff. Uno dei film più belli di Dino Risi, Una vita difficile, si apre con il partigiano Silvio, interpretato superbamente da Alberto Sordi, che in piena Seconda guerra mondiale cerca di sfuggire alla caccia nazista trovando rifugio in un albergo sul lago di Como. Sfortunatamente per lui, però, viene scoperto da un ufficiale tedesco che intende fucilarlo sul posto. “Traditore italiano! Tu hai sparato ai camerati tedeschi”, gli urla mentre gli punta la pistola. Ma proprio un secondo prima dello sparo ecco che Elena (Lea Massari), la figlia della proprietaria dell’albergo, gli salva la vita uccidendo il tedesco con un ben assestato colpo di ferro da stiro. Sembra incredibile ma quel soldato non era un attore né un figurante qualsiasi. Era bensì qualcuno che di esecuzioni e crudeltà era avvezzo. Realmente avvezzo. Stiamo parlando di Borante Domizlaff, vero maggiore delle SS, che quelle uniformi non le portava per travestimento ma per convinzione. Durante l’occupazione tedesca di Roma aveva partecipato, sotto il comando del colonnello Herbert Kappler, alle operazioni di rastrellamento e poi all’esecuzione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, con il quale il 24 marzo 1944 vennero uccisi 335 italiani, scelti tra civili, militari, prigionieri politici, detenuti comuni e cittadini di origine ebraica. Per questo fu poi processato nel 1948 da un tribunale militare italiano assieme a suoi altri 6 colleghi ma incredibilmente assolto per aver agito “nell’esecuzione di un ordine”. Alla fine infatti fu condannato solamente il colonnello Kappler. Domizlaff continuò a vivere a Roma fino al 1961 e oltre, anno in cui il film di Risi fu girato, come ricostruisce bene il giornalista Mario Tedeschini Lalli, che da un lustro sta cercando di mettere assieme i pezzi della vita romana del maggiore SS. Secondo lui “l’unico lavoro che a quanto pare svolgeva era proprio nell’ambito del cinema: i famigliari ricordano vagamente che fosse traduttore italiano-tedesco a Cinecittà”. Ma soprattutto Tedeschini dà per certo che Domizlaff partecipò vestito da soldato tedesco ad almeno altre due produzioni di Cinecittà, anche se i ruoli non gli furono mai ufficialmente accreditati. 

Il nazista a stelle e strisce Hass. La Caduta degli Déi è uno dei capolavori di Luchino Visconti, il primo atto della trilogia tedesca, un film che racconta l’ascesa del nazismo attraverso la saga familiare di una aristocratica famiglia proprietaria di grandi acciaierie, industrie fondamentali per lo sforzo bellico imposto da Hitler. La pellicola è del 1969 e in quell’anno viveva indisturbato a pochi chilometri da Cinecittà Karl Hass, maggiore delle SS e vice di Herbert Kappler nel 1944. Sì, proprio quel Kappler che diede l’ordine di trucidare gli italiani alla Fosse Ardeatine. Hass organizzò il massacro assieme a un altro nome ben noto alle cronache nazionali e cioè Erich Priebke. Non a caso durante il processo a Priebke tenuto nel 1996 Hass fu costretto ad ammettere le sue colpe: l’aver eseguito l’ordine abominevole di Kappler e soprattutto aver sparato di proprio pugno ad almeno due persone. Ebbene, Hass è il secondo ufficiale ad aver lavorato a Cinecittà. Come scrive lo storico Fabio Simonetti nel libro “Via Tasso”, il maggiore SS partecipò alle riprese del film di Visconti interpretando il ruolo - ovviamente - di un ufficiale nazista. Ma come ha fatto Hass a sfuggire per anni alla giustizia italiana e soprattutto a vivere nel nostro paese fino al processo del 96? Semplice: vendendosi ai servizi segreti americani. Nel Dopoguerra infatti il Cic (Counter Intelligence Corps), l’antenato della odierna Cia, pensò bene di reclutare una serie di militari nazisti in chiave anticomunista, in questo aiutato da alcune frange della gerarchia vaticana. In particolare Hass lavorava al soldo dell’agente segreto americano Thomas Lucid in cambio di protezione e a Roma si appoggiava al vescovo benefattore di tanti nazisti, Louis Hudal. Una rete - esposta dettagliatamente dal libro-inchiesta “La via di fuga” dell’accademico britannico Philippe Sands - che lo faceva sentire così al sicuro tanto da togliersi lo sfizio di comparire sul grande schermo in divisa nazista 25 anni dopo le Fosse Ardeatine. 25 anni vissuti da uomo libero. 

Diecimila lire per Otto Wachter. Proprio Sands ci conduce al terzo SS che amava costumi e macchine da presa. Stiamo parlando di Otto Wachter, sicuramente il nazista più potente dei tre nonché quello che ha più morti e nefandezze a suo carico. Wachter infatti è stato l’artefice della creazione del ghetto di Cracovia ma soprattutto è stato il “burocrate” che in qualità di governatore della Galizia - regione che oggi appartiene all’Ucraina - ha agevolato la soluzione finale per centinaia di migliaia di ebrei che abitavano a Leopoli e dintorni. Lo scrittore inglese racconta per filo e per segno gli anni in cui il nazista della prima ora, di origini austriache, ha soggiornato a Roma fra conventi e strutture vaticane in attesa di imboccare la via di fuga verso l’Argentina. E lo fa potendo contare su quello che si può definire il “sogno bagnato” di ogni storico: le lettere che si scambiava con la moglie nel periodo di latitanza. Proprio dalla corrispondenza viene fuori la carriera cinematografica di Otto. Racconta alla sua Charlotte dei due film in cui partecipò come comparsa nel 1949. Il primo fu La forza del destino, lungometraggio basato sull’opera di Verdi in cui il protagonista era il famoso baritono Tito Gobbi. Un’esperienza che soddisfò il boia di Leopoli sia artisticamente che economicamente. “Ho guadagnato i miei primi soldi come comparsa - scrisse entusiasta -. 10mila lire in soli tre giorni!”. Ma è la sua seconda apparizione a essere clamorosa. Dopo qualche settimana fu arruolato come figurante in Donne senza nome dell’ungherese Geza von Radvanyi, regista famoso soprattutto per essere il fratello di Sandor Marai, quello del romanzo Le braci. Ebbene, è qui che il caso ci mette lo zampino producendosi in un incredibile ribaltamento di piani: Wachter, nazista fino al midollo, recita infatti come agente della polizia militare americana. Perfetta nemesi artistica prima ancora che storica. Chissà cosa avrebbe pensato, se l’avesse visto, il commilitone Hass, lui sì prezzolato dagli statunitensi per salvarsi la pelle. Peraltro i due si conoscevano bene e a quei tempi amavano nuotare assieme nel lago di Albano, ai Castelli romani. Ma questa è tutta un’altra storia. Anzi, tutto un altro film.

La Germania in ginocchio. Il lato oscuro della vittoria. Matteo Sacchi il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. A partire dal Memorandum di Darmstadt un saggio svela le violenze degli Alleati sui tedeschi sconfitti. Guardare il lato più scomodo delle violenze della Seconda guerra mondiale. A ottant'anni da quel tremendo conflitto si può anche fare. E il lato più indigeribile delle brutalità commesse sono le violenze perpetrate dagli Alleati, cioè dalle forze armate che hanno riportato la democrazia in Europa. Il debito che noi abbiamo verso chi ha sconfitto l'Asse è enorme, eppure lo storico deve poter guardare anche a tutti i limiti, e alle violenze, che furono connessi durante la lunga campagna che sgominò il nazismo. Una parte di quegli eventi, negli ultimi anni, ha iniziato a essere esaminata con più onestà. Facciamo due esempi. La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945 di Jörg Friedrich (Mondadori, 2004) o Dresda di Frederick Taylor (sempre Mondadori, 2005) danno un'idea molto precisa di quanto i bombardamenti a tappeto sulla Germania avessero come bersaglio preciso i civili e quanto fossero studiati per massimizzare il danno sulla popolazione. Si è anche scritto molto, e ripubblicato, su quanto l'occupazione dei territori tedeschi, da parte dell'Armata rossa, sia stata causa di violenze indiscriminate. I territori della Germania orientale, la stessa Berlino occupata, sono stati sottoposti ad un'ondata di stupri, saccheggi e omicidi, di cui resta difficile avere un conteggio definitivo ma è ormai chiarita l'entità devastante. Per quanto si possa considerare una narrazione «di parte» La grande fuga. Il massacro dei tedeschi orientali di Jürgen Torwald, pubblicato nel 2016 da Oaks, contiene riferimenti dati e fatti che difficilmente possono essere smentiti. Ed è solo un esempio dei testi che progressivamente ci stanno svelando situazioni di questo tipo: per il contesto italiano non si può non citare La colpa dei vincitori. Viaggio nei crimini dell'esercito di liberazione (Piemme, 2018), il reportage vergato dalla giornalista francese di origine italiana Eliane Patriarca che ha visitato, parlando con testimoni e storici locali, i luoghi in cui avvennero le così dette «marocchinate». Ora a questi volumi si aggiunge 1945 Germania anno zero. Atrocità e crimini di guerra alleati nel «Memorandum di Darmstadt» a cura di Massimo Lucioli (Italia storica, pagg. 550, euro 36, con un notevole apparato fotografico a cura di Andrea Lombardi). Il cuore del volume è la corposa raccolta di materiale documentario che venne accumulato nel campo di internamento americano numero 91 a Darmstadt. Dentro il campo, che ospitò sino a 24mila prigionieri, venne costituito, su richiesta del collegio difensivo degli imputati al processo di Norimberga, un pool segreto di avvocati (scelti tra gli internati). A loro sei mila testimoni fornirono dichiarazioni giurate sulle violazioni delle leggi e delle regole di guerra da parte degli Alleati. Si trattava anche in questo caso di un memoriale di parte; avrebbe dovuto essere letto da Hermann Göring al tribunale nel suo discorso di chiusura il 5 luglio 1946, ma l'enorme quantitativo di testimonianze mette ben in luce tutte le situazioni in cui le regole di guerra e sul trattamento dei prigionieri sono state infrante, persino con la connivenza, o il diretto intervento, degli alti comandi alleati. E sono testimonianze riscontrabili: collimano infatti con i dati raccolti nei saggi del funzionario ONU, esperto di diritto umanitario, Alfred M. de Zayas e dello storico Franz W. Seidler dell'Università Bundeswehr di Monaco. Altre testimonianze sono state verificate dallo stesso Massimo Lucioli nell'archivio online del dipartimento Personenbezogene Auskünft di Berlino-Reinickendorf (con schede su milioni di caduti tedeschi). Il volume è particolarmente interessante soprattutto per quanto riguarda il comportamento delle truppe americane, normalmente considerate molto meno violente di quelle sovietiche. Ne esce un quadro crudissimo. Nel centro per gli interrogatori di Hersfeld, ad esempio, secondo i testimoni gli americani usavano sistemi degni delle SS. Un prigioniero «viene picchiato con manganelli di gomma e sbarre d'acciaio e, dopo essere crollato sotto i colpi, viene preso a calci nei genitali». Un prigioniero massacrato di botte chiede che gli sparino: «Potrebbe andarti bene, bastardo nazista, ma sarebbe troppo breve». Gli episodi sono numerosissimi e vanno inseriti all'interno di una violenza che era stata sistematicamente alimentata dagli alti comandi. Nel libro si tparla anche dell'ordine emesso da Eisenhower il 10 marzo 1945 con cui i prigionieri tedeschi venivano classificati come Disarmed Enemy Forces, perdendo il loro status di prigionieri di guerra: in tal modo venne aggirata la convenzione di Ginevra. Nella gestione dei campi di prigionia non venne dedicato nessuno sforzo per rendere le condizioni di detenzioni più umane. Racconta un testimone (è soltanto un altro esempio) parlando del campo di transito di Helfta: «Senza alcuna protezione contro il vento e le intemperie, i prigionieri sono esposti alle scottature solari durante il giorno e al gelo di notte perché la maggior parte di loro non ha né coperte né cappotti». Ovviamente questi crimini non minimizzano in alcun modo i precedenti crimini commessi dai nazisti, ma non è più pensabile tacerli e non prenderne atto. A Norimberga il memorandum non arrivò mai, venne occultato e se ne salvò solo una copia. Quando i vincitori processano i vinti le regole del diritto faticano a reggere.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Il tesoro delle SS è nascosto in una casa di "piacere". Davide Bartoccini il Oltre quaranta casse d'oro nascoste nelle "segrete" di una villa polacca: è il tesoro di Himmler, il comandante delle SS che avevano reso un antico palazzo di Minkowskie la loro casa di piacere. Sono anni che se ne parla, ma ormai l'ora della verità è vicina, e i due ricercatori che hanno passato quasi un decennio seguendo le tracce del famigerato tesoro di Himmler sono pronti ad impugnare pale e picconi per scavare sotto una villa del diciottesimo secolo. Una "casa di piacere" che troneggia su una collina alle porte di Minkowskie, nella Slesia polacca, dove il Reichsführer delle SS avrebbe nascosto 48 casse contenenti ognuna dozzine di lingotti d'oro. L'oro che sarebbe servito, secondo alcuni storici, per fondare il Quarto Reich. Dieci anni passati dietro i resoconti che spesso si perdono nella leggenda. A confrontare date, a cercare in documenti, dispacci, lettere, diari, informazioni ufficiali e ufficiose che potessero aiutarli ad identificare l'esatta posizione del “oro di Breslau”: un carico di decine di tonnellate di lingotti d'oro, opere d'arte e altri preziosi, rastrellati dalle SS di Heinrich Himmler e accumulati nella "Reichsbank", partiti su un treno da Breslavia, per poi scomparire nel nulla alla fine della seconda guerra mondiale. La prova regina proverrebbe dal diario di un alto ufficiale delle Schutzstaffel, le "squadre di protezione" di Hitler che attraverso i temibili sonderkommandoss portarono avanti la "soluzione finale" e la cancellazione di ogni genere di opposizione nell'Europa dell'est, consegnato da alcuni membri di un'antica loggia di Quedlinburg, insieme ad una mappa e altri documenti top-secret dell’epoca.

L'ufficiale in questione, denominato “Michaelis”, avrebbe spinto i cacciatori di tesori a cercare in un'area delimitata della Slesia polacca, al confine con la Repubblica Ceca, per poi concentrarsi sul terreno che circonda un elegante palazzo dal tetto celeste, risalente al diciottesimo secolo in evidente stato d’abbandono, oggi di proprietà della fondazione Silesian Bridge. A riportare la notizia è il tabloid britannico Daily Mail, che in un reportage esclusivo racconta dove potrebbe celarsi il tesoro da quantificare in oltre mezzo miliardo di sterline. L’edificio di due piani dal tetto spiovente commissionato dal generale prussiano Friedrich Wilhelm von Seydlitz, oggi perfetto per ambientare un film di fantasmi, venne requisito durante l’occupazione nazista e utilizzato come bordello dagli ufficiali che portavano la testa di morto sul bavero: gli uomini incaricati di "cancellare" dalla faccia della terra ebrei, zingari, partigiani, oppositori e sostenitori del comunismo. Una vicenda che racconta bene Littell del suo capolavoro "Le Benevole" (Enaudi). Sarebbe lì e in fondo ad un pozzo, che il tesoro aspetta di essere ritrovato da oltre settant’anni. Nelle pagine vergate a mano dall'ufficiale nazista si legge: "Mia cara Inge, porterò a termine il mio compito, se Iddio vorrà. Alcune operazioni di trasporto hanno già avuto successo. Le restanti 48 grosse casse della Reichsbank e tutte quelle appartenute a diverse famiglie, le affido a te. Soltanto tu sai dove si trovano. Possi Dio aiutarti e aiuti me, a finire quanto ho iniziato” - e prosegue - "Un passaggio è stato scavato nell’orangeria, che è una “casa” sicura per le casse e gli altri contenitori che sono stati inviati". Tra questi, 48 colli della Reichsbank, "in buone condizioni e ben nascosti sottoterra e sotto le piante". L'ultima nota è datata al 12 marzo del 1945, e Inge, la cara Inge, sarebbe secondo i resoconti una delle tante prostitute, o semplici ragazze affamate che si erano stabilite nella casa di piacere di Minkowskie per soddisfare per pulsioni degli ufficiali delle SS, della quale Michaelis si era innamorato. Fidandosene al punto da rivelarle l'esatta (o ipotetica) posizione del tesoro che però non è mai stato toccato. Forse perché con la rottura del fronte e l'avanzata dell'Armata Rossa, sia Michaelis, ufficiale nemico e criminale di guerra, che Inge, collaborazionista, sono rimasti uccisi; o forse, come sostiene Roman Furmaniak, capo della spedizione dei cacciatori d'oro, perché Inge, sopravvissuta, non ha mai voluto tradire il suo amore rivelando il segreto. Secondo Furmaniak, infatti, la ragazza era così innamorata del bell'ufficiale ariano "in uniforme nera delle SS", che credeva sarebbe tornato a prenderla, e magari avrebbero dissotterrato il tesoro insieme. "Sarebbe dovuta restare lì per un anno, forse due, poi tutto sarebbe finito", continua Furmaniak, "Nessuno credeva allora che la regione sarebbe passata sotto il controllo dell'Unione Sovietica. C'è stato un periodo di due mesi nel 1945 in cui ha dovuto nascondersi nella foresta dai russi. Ma quando è tornata, la zona non era stata disturbata". Poi avrebbe continuato a sorvegliare, per sessant’anni, fino alla morte.

Una storia poco credibile, più degna di un romanzo che della realtà, ma comunque prossima ad una svolta definitiva, perché all'inizio di maggio il gruppo di cacciatori d'oro dei nazisti inizierà gli scavi, partendo dalla villa di Minkowskie. Per setacciare gli undici nascondigli identificati dai documenti segreti, compreso il pozzo di Roztoka, altra X segnata sulla mappa. "Il diario dice che i depositi di Roztoka sono sepolti a 64 metri sul fondo di un pozzo. Sarebbe un compito enorme scavare quel sito. Ci stiamo concentrando su Minkowskie ora perché pensiamo che sarà più facile". È solo questione di tempo dunque, e sapremo se l'oro di Himmler si nasconde davvero sotto a un vecchio bordello delle milizie tedesche, che poi divenne sotto l'Unione Sovietica un asilo e per un po' di tempo anche un cinema. O seppure la storia fantasiosa sarà più adatta un film, che certe trame riscuotono ancora un certo successo: guerra, amore, e tesori nazisti.

Marco Perisse per gqitalia.it il 3 magio 2021. Potrebbe finalmente venire alla luce il leggendario tesoro dei nazisti nascosto in Polonia, altrimenti noto come l'oro di Breslau o anche come l'oro di Hitler. Un team di “cacciatori di tesori” è certo di aver localizzato 10 tonnellate di oro nascosto dalle SS alla fine della seconda guerra mondiale, e la prossima settimana inizieranno gli scavi nei terreni di uno storico palazzo situato 50 chilometri a est di Breslavia.

L'oro di Breslau. A riferirlo è la stessa stampa polacca: i cacciatori del tesoro dicono di aver trovato il nascondiglio del bottino grazie a documenti che erano rimasti segreti, tra cui una vera e propria mappa del tesoro ottenuta dai discendenti di ufficiali delle Waffen SS di estrazione aristocratica (collegati peraltro a un'antica gilda). L'annosa vicenda con connotati tra il mistero e il fantasy è ricca di tratti romanzeschi: per anni si è favoleggiato circa “l'oro di Breslau” (il nome tedesco di Breslavia che ora si trova in territorio polacco, Wroclaw appunto), ma ora sembra arrivato il momento della verità. 48 casse d'oro per un valore stimato di oltre mezzo miliardo di euro sarebbero seppellite al di sotto di un palazzo del XVIII secolo in stile rococò costruito da una gloria della cavalleria prussiana, il generale Friedrich Wilhelm von Seydlitz, nei pressi del villaggio di Minkowskie che le SS utilizzarono durante la guerra come “casa di piacere”.

Un tesoro leggendario. La leggenda del tesoro nascosto dai nazisti incalzati dall'avanzata dell'Armata Rossa è iniziata addirittura prima della fine del conflitto. La voce di un convoglio in cui Hitler e i gerarchi avevano ammassato preziosi e capolavori d'arte rubati è nata infatti nei mesi finali della seconda guerra mondiale, con l'Europa in preda al caos e gli eserciti alleati in marcia verso il cuore della Germania sia da ovest sia da est. La zona, nella Polonia occidentale attuale, era territorio tedesco, assegnato a Varsavia nel dopoguerra. Il treno sarebbe partito da Breslau - oggi Wroclaw/Breslavia - nel '45 diretto a sud, dove i nazisti avevano predisposto una rete di bunker e gallerie per proteggersi dai bombardamenti e tentare la fuga. Qualche anno fa due cacciatori di tesori credevano fosse nascosto a Walbrzych, nella Polonia sud-occidentale, una regione montagnosa coperta di foreste verso il confine con la Repubblica Ceca. Indizio al quale si erano interessate le stesse autorità polacche per concludere dopo una serie di ricerche che il treno non esiste. Tuttavia non si è spenta la caccia al tesoro, nella convinzione che dietro la leggenda ci sia qualcosa di vero. Vengono setacciati archivi, documenti, carteggi privati. E un nuovo indizio dell'esistenza del tesoro è comparso lo scorso anno indicando anche mappe di siti in cui sarebbero state occultate le ricchezze trafugate. La “pistola fumante” che ha indirizzato la caccia è un diario di guerra scritto 75 anni fa da un Waffen SS con lo pseudonimo di Michaelis, che descrive l'operazione di occultamento condotta dai reparti che facevano capo a Himmler.

Da cosa è composto il tesoro. Il diario indica con dovizia di particolari ben 11 località in Slesia e nei dintorni di Opole in cui sarebbero stati messi al sicuro oro, oggetti preziosi, capolavori d'arte trafugati sia in Germania che nei Paesi occupati dai tedeschi. Fra le opere nascoste, vi sarebbe anche il Ritratto di giovane uomo dipinto da Raffaello, acquistato a Venezia nel 1807 dall'aristocratico polacco Czartoryski e conservato nell'omonimo museo di Cracovia prima che se ne perdessero le tracce nel 1945, dopo che era finito nelle mani dei tedeschi in seguito all'occupazione della Polonia nel '39. L'esistenza del diario di guerra e i suoi eccezionali contenuti erano stati annunciati nella primavera dell'anno scorso da una fondazione di Opole denominata Silesian Bridge che informava di averlo ricevuto da una controparte tedesca e indicava una delle località in un altro palazzo storico, a Roztoka proprio nei pressi di  Walbrzych. L'operazione di ricerca del tesoro è stata però indirizzata nel palazzo di Minkowskie perché «il diario dice che i depositi di Roztoka sono sepolti a 64 metri sotto un pozzo e sarebbe un compito arduo scavare in quel sito, ci siamo concentrati su Minkowskie perché pensiamo sia più facile», ha spiegato Roman Furmaniak a capo della fondazione secondo la quale il blocco lì nascosto è il leggendario “oro di Breslau” sparito dal quartier generale della polizia di Wroclaw sul finire della guerra.

Fra leggenda e realtà. Cosa accadde a quel tesoro è uno dei misteri insoluti della seconda guerra mondiale e in quanto tale ha alimentato nei decenni leggende e voci che però intersecano fatti reali come la compilazione del cosiddetto inventario Grundman dal nome di Gunther Grundmann che era stato, prima e durante la guerra, il conservatore dei beni artistici della Slesia. Nel '42, a motivo dei bombardamenti alleati, fu incaricato di inventariare il patrimonio di musei pubblici e collezioni private indicando siti di riparo, uno dei quali ritenuto il palazzo Hochberg di Roztoka. Nel '44 il conservatore fu però incaricato di occuparsi dell'occultamento dei tesori nazisti, di qui la denominazione di “lista Grundman” per indicare i siti dei reperti spariti. La decisione di occultarli sembra fosse dovuta al fatto che, chiuse ormai le vie di transito dall'avanzata alleata, i gerarchi avevano optato per nasconderli. In questo plot romanzesco tra la guerra e la spy-story non mancano, secondo la ricostruzione della fondazione polacca, risvolti esoterici, piccanti e romantici. La fonte tedesca del diario, attraverso le proprie ascendenze aristocratiche, è ritenuta collegata a una società segreta antica di 1000 anni, coerentemente con la fascinazione esoterica di Himmler e delle sue milizie. Il palazzo durante la guerra era un bordello per ufficiali nazisti. Fu poi preso dall'Armata Rossa e trasformato in asilo, quindi passato all'esercito polacco, poi adibito a uffici e anche cinema prima di passare in gestione alla fondazione che ha chiesto i permessi di scavo in accordo col ministero della Cultura. Una lettera rivolta dall'ufficiale a una ragazza che vi lavorava, Inge, divenuta sua amante, la sollecita a tenere d'occhio il posto dell’occultamento. «Le restanti 48 grosse casse della Reichsbank, le affido a te. Un cunicolo è stato scavato nell'orangeria, che è una ‘casa’ sicura per le casse e gli altri contenitori» è l'annotazione sul diario datata 12 marzo 1945 mostrata da Furmaniak, e aggiunge che le «48 casse della Reichsbank, in buone condizioni, sono ben nascoste sotto terra e ricoperte di terra rinverdita con piante ancora vive». Con la Slesia in territorio polacco per gli accordi di Yalta e la presenza sovietica nel dopoguerra, non doveva esser stato possibile a Inge recuperare alcunché del tesoro, o forse rimase uccisa come collaborazionista. Nelle fasi convulse della fine della guerra e del crollo del nazismo non si conoscono i destini di "Michaelis" né della donna di cui si era innamorato. Per Roman Furmaniak, capo della spedizione dei cacciatori d'oro, Inge superstite non ha mai voluto tradire il suo amore svelando il segreto del tesoro, ma questa sembra un'appendice romanzesca attorno al tesoro che il prossimo mese potrebbe essere portato alla luce dagli scavi. Se comparirà l'oro, sarà finalmente risolto il mistero della seconda guerra mondiale; altrimenti bisognerà aggiungere un nuovo capitolo al suo pluridecennale feuilleton. Ma «ci stiamo preparando per esplorare un'altra location, nello stesso tempo o subito dopo Minkowskie», ha anticipato Furmaniak.

Uski Audino per "La Stampa" il 7 aprile 2021. La giustizia non ha mai bussato alla sua porta. Nonostante la sua responsabilità come generale delle SS dislocato a Vienna dal 1938 in sostegno all'operazione di Adolf Eichmann in Austria, nonostante il suo ruolo di responsabile del cosiddetto "Ufficio centrale per l'emigrazione ebraica" che si occupava della deportazione degli ebrei austriaci, Franz Josef Huber non ha mai subito alcun processo. È morto nel 1975 nella sua città d'origine, Monaco, accanto alla sua famiglia, senza mai aver cambiato nome. Come è potuto accadere? A rivelare la sua storia sono centinaia di documenti declassificati usciti dagli archivi del Bnd, i servizi segreti esterni della Repubblica federale tedesca, oggetto di un documentario andato in onda ieri su la tv pubblica «Ard». Dopo una comparizione al processo di Norimberga nel 1948 come testimone (non come accusato), in cui sostiene di non avere mai saputo nulla dei campi di sterminio, Huber entra nell'ombra. Nel 1955 viene arruolato dai servizi segreti esterni della Repubblica federale dove rimarrà in servizio fino al 1967. La sua vera identità come ex nazista era nota non solo ai suoi diretti datori di lavoro, ma in primis ai servizi statunitensi, riportano documenti datati ancora prima del suo «arruolamento» ufficiale. «Pur non essendo ignari dei pericoli che comporta mettere in gioco un generale della Gestapo» afferma un appunto della Cia del 1953 ripreso dal New York Times «crediamo, in base alle informazioni in nostro possesso, che Huber potrebbe essere usato in maniera proficua da questa organizzazione». Del resto «il contesto storico è che in un periodo di nascente "Guerra fredda" naturalmente si cercavano prima di tutto persone di provata fede anticomunista e purtroppo li si cercava e trovava troppo spesso tra gli ex nazionalsocialisti» racconta lo storico del Bnd, Bodo Hechelhammer. L'11 aprile ricorre il 60esimo anniversario del processo ad Eichmann a Gerusalemme, un processo per cui il comandante delle SS ha ricevuto la pena capitale in Israele. Qualche giorno fa è morto l'ultimo testimone oculare del processo ad Eichmann Mordechai Ansbacher. Ma la storia non sembra finita qui.

Morti gli ultimi due nazi condannati in Italia. Non hanno mai fatto un giorno di prigione. Stark, sugli Appennini, e Stork, a Cefalonia, colpevoli di orribili massacri. Massimo M. Veronese - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. «I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l'altro... prima li abbiamo perquisiti: togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato delle fotografie di donne e bambini, bei bambini...». I corpi erano quelli di 5mila soldati e ufficiali italiani, praticamente l'intera Divisione Aqui dell'Esercito italiano di stanza sull'isola di Cefalonia nel settembre di guerra del 1943. Alfred Stork, era un caporale dei Cacciatori di montagna tedeschi (Gebirsgjager) e a lui personalmente, e al plotone di esecuzione di cui faceva parte, fu attribuita l'esecuzione di almeno 117 graduati italiani «fucilazioni che andarono avanti dall'alba al tramonto» nella famigerata «Casetta rossa». Una responsabilità che ammise, accompagnata da racconti pieni di particolari agghiaccianti, ma che non ebbe mai il coraggio di ripetere in un processo. «Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori e gli ordini non si potevano discutere» si giustificò. Ma per quello che viene considerato uno dei peggiori crimini di guerra della seconda guerra mondiale Stork non pagò mai. Anzi ha sempre snobbato il processo e non ha nemmeno impugnato la sentenza di primo grado che lo ha condannato all'ergastolo, continuando a vivere impunito la sua vita nella villetta tutta fiori e decori di Kippenheim nel Land del Baden Wuttemberg. Considerava il processo «una farsa» e alla troupe del Tg1 che tre anni fa lo beccò sull'uscio di casa disse solo che non poteva pentirsi per «una cosa mai fatta». Non è l'unico impunito. Sono stati 60 gli ergastoli inflitti dalla magistratura militare italiana dopo la scoperta, nel 1994, del famigerato «Armadio della vergogna» che custodiva e soprattutto nascondeva centinaia di fascicoli di stragi nazifasciste con i loro colpevoli. Sentenze mai eseguite perchè sono sempre state respinte dalla Germania, ma non solo, le richieste di estradizione. Gli unici a pagare alla fine sono stati l'ex capitano delle Ss Erich Priebke, condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine, e il caporale «Misha» Seifert, il «boia di Bolzano», estradato dal Canada e morto durante la detenzione a Santa Maria Capua Vetere. Stork è morto il 28 ottobre di tre anni fa, a 97 anni, ma si è saputo solo adesso. Così come si è saputo solo adesso anche della morte, il 14 dicembre scorso, di un altro macellaio, Karl Wilhelm Stark, sergente della Divisione Corazzata «Hermann Goering» della Wehrmacht. Aveva sulla coscienza gli eccidi compiuti sull'appennino tosco-emiliano nella primavera del '44, in particolare quelli di Civago e Cervarolo, nel reggiano, due borghi dove furono trucidate una trentina di persone, tra cui il parroco, e quello di Vallucciole, nell'Aretino, dove cento tra uomini, donne e bambini vennero uccisi per rappresaglia. Anche lui: zero giorni di prigionia. Erano gli ultimi due nazisti superstiti condannati all'ergastolo per aver ammazzato militari e civili italiani. Difficile che la terra per loro sia lieve.

Letizia Tortello per “la Stampa” l'1 marzo 2021. «Richiamate i vostri uomini dai boschi e non vi succederà nulla. Fuori! O vi ammazziamo tutte, coi bambini». Le donne di Cervarolo, piccolo borgo agricolo dell' Appennino reggiano, si fidarono. L' ufficiale tedesco Wilhelm Karl Stark aveva poco più di vent' anni. Era il 19 marzo 1944. La divisione corazzata Hermann Göring era piombata tra le montagne, e nella vicina Civago, per una strage di civili dalla brutalità inaudita. «Fuori dai nascondigli!», urlava il comandante come una furia. È morto il 14 dicembre scorso, all' età di cent' anni e senza un giorno di carcere per l' orrore inflitto, né un grammo di peso sulla coscienza, ultimo nazista condannato all' ergastolo in Italia e mai estradato dalla Germania. Ora che non c' è più, le urla del passato, dal villaggio al confine tra Emilia Romagna e Toscana, risuonano ancora più forte d' ingiustizia e impunità. I maschi, quel giorno, spuntarono dai nascondigli, come chiedeva, e furono catturati. Tutti, compresi malati e disabili. Fucilati nell' aia in trenta, tra loro il parroco e il calzolaio, costretto prima a riparare le suole delle scarpe dei soldati della Wehrmacht. Le donne tornarono e trovarono un cumulo di cadaveri dei loro mariti, padri, fratelli, nonni. Cervarolo era diventato il paese delle vedove e degli orfani. Per volontà criminale dell' ex sergente hitleriano Stark, lo stesso che a Vallucciole, nell' Aretino, rastrellò e uccise barbaramente centodiciassette civili, tra cui 16 bimbi: il più piccolo aveva tre mesi. È la Storia del secolo scorso che non smette di rigurgitare le atrocità del nazifascismo e della guerra. Anche ora che Stark è deceduto - a Monaco di Baviera, colpevole per la vita secondo la giustizia italiana (il tribunale militare di Verona l' ha condannato all' ergastolo in contumacia nel luglio 2011), ma mai si è dichiarato colpevole -. «Il processo è una farsa!», urlò nel 2018.

Erano rimasti in due, ufficiali nazisti giudicati in via definitiva nel nostro Paese e mai consegnati da Berlino, che non li ha obbligati nemmeno a scontare la pena ai domiciliari. L' altro era Alfred Stork: il 24 settembre 1943 - l' armistizio era stato firmato da pochi giorni - massacrò centinaia di militari della divisione Acqui e civili italiani nell' eccidio dell' isola greca di Cefalonia. Lui sì, ammise di aver partecipato alla strage: «I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l' altro. Prima li abbiamo perquisiti togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato fotografie di donne e bambini, bei bambini», disse. Peccato che non lo ripeté davanti a un legale, e così la sua testimonianza non poté essere utilizzata dal procuratore militare Marco De Paolis, che nel 2013 a Roma gli ha comminato l' ergastolo. In quell' occasione, Stork nemmeno si presentò in udienza, snobbando le sue vittime senza pietà. Ha continuato a vivere in pantofole a casa sua, un suo legale un giorno ha domandato per lui l' assoluzione «perché aveva risposto a un ordine urgente del Führer di sparare agli ex alleati», e in caso di rifiuto «sarebbe morto lui». Era sottufficiale dei Gebirgsjäger (i cacciatori di montagna), solo di recente si è saputo che è morto novantasettenne il 28 ottobre 2018, senza andare in carcere. La magistratura militare italiana ha inflitto 60 ergastoli agli ex ufficiali nazisti dopo la scoperta, nel '94, del cosiddetto Armadio della vergogna, dove centinaia di fascicoli di stragi nazi-fasciste erano stati occultati nel 1960. Ma di fatto nessuno è stato eseguito. Gli unici a scontare le pene sono stati l' ex capitano delle SS Erich Priebke, faticosamente condannato all' ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine, e il caporale «Misha» Seifert, «boia di Bolzano», estradato dal Canada e morto durante la detenzione a Santa Maria Capua Vetere. Lo Stato tedesco, non perseguibile penalmente, è stato condannato civilmente a risarcire i familiari delle vittime, di questi «nazisti per sempre».

Leonardo Martinelli per "la Stampa" il 24 febbraio 2021. Lo scorso 3 febbraio, a Rodez, nel Sud della Francia, è stata la polizia a fare irruzione nella sede di una casa d' asta: hanno sequestrato 17 oggetti dell' epoca nazista, che dovevano essere battuti di lì a poco, compreso un busto in bronzo di Hitler e un servizio di posate (arrugginite) per il pesce, ognuna con la sua svastica stampigliata sopra. Il 16 febbraio a Lione dovevano essere messi all' asta altri oggetti, tutti militari questa volta, ancora un tripudio di croci uncinate e di aquile naziste. La notizia è iniziata a circolare ed è stato l'organizzatore stesso a decidere di ritirarli. Si è arreso. A chi? A una talpa, si fa chiamare Axel. Dall' inizio di gennaio va a caccia di aste, che propongano ogni sorta di paccottiglia hitleriana in Francia, una «moda» che negli ultimi tempi si afferma sempre più. In realtà la legge non ne proibisce la vendita (consentita dall' articolo R645-1 del codice penale), ma a certe condizioni, tipo non mostrare quegli oggetti prima delle aste, anche online. In questo caso si cade nell' apologia del nazismo. Ecco, Axel cerca di individuare qualche mancanza del genere. Oppure provoca un tale putiferio, chiamando giornali locali (queste vendite in genere si realizzano in provincia), così da impaurire le case d' asta, che preferiscono ritirare dalla commercializzazione quei lotti imbarazzanti. In un modo o nell' altro, la talpa ha già fatto annullare dieci aste. Sì, ma chi è questo personaggio? I giornalisti del quotidiano «Le Parisien» sono riusciti a incontrarlo. Non ne hanno rivelato le generalità, ma lo descrivono di stazza importante, un uomo di mondo, con la camicia bianca stirata, vive in una casa rivestita di marmo, nella regione di Parigi. Axel è nipote di antiquari e pure lui collezionista accanito. Nel suo ufficio ha due computer: uno gli serve per il suo lavoro, l' altro per collegarsi costantemente a interencheres.com, il sito francese che permette di tenere d' occhio tutte le aste in corso nel Paese. All' inizio dell' anno si è imbattuto nei lotti in vendita in un' asta a Soissons: una serie di bandiere naziste, fibbie di cinture militari della stessa epoca, pugnali con la svastica. «Questa gente ci prende in giro», ha dichiarato a «Le Parisien». Lui ha deciso di reagire. E ci tiene a precisare che «non sono ebreo. Voglio semplicemente giustizia e considero la mia un' opera civica e il dovere di un massone». Perché il nostro è affiliato al Grande Oriente di Francia, potente loggia in odore di sinistra. «Axel effettua un lavoro di ricerca importante. Noi lo aiutiamo sul piano giuridico», sottolinea David-Olivier Kaminski, avvocato del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche francesi. Nel caso dell' asta di Rodez, ad esempio, è stato proprio quest' organismo a segnalare delle irregolarità alla procura locale, dopo che Axel aveva allertato il Crif. La talpa si è messa in relazione pure con Serge Klarsfeld, il noto avvocato che, con la moglie Beate, ha consacrato la propria vita alla caccia ai nazisti sopravvissuti all' epoca hitleriana. Klarsfeld ha dato la sua benedizione ad Axel, che consiglia e che considera «una persona sincera ed efficace». Certe volte, però, la talpa non ce la fa. Il 6 febbraio scorso un' asta, prevista a Fécamp, ha avuto luogo davvero. La polizia non ha riscontrato irregolarità e gli organizzatori hanno voluto andare fino in fondo, proponendo addirittura una stella gialla a 6 punte in tessuto, cucita da un ebreo sulla propria giacca durante la Seconda guerra mondiale. Proposta inizialmente a 150 euro, l' hanno aggiudicata per 650.

Il mistero dell'uomo che fa "sparire" i cimeli nazisti. Da alcuni mesi a questa parte un uomo che si nasconde dietro il nome di "Axel" sta operando contro le case d'aste francesi che esibiscono cimeli del Terzo Reich. È un massone e un collezionista facoltoso, dicono i giornalisti che lo hanno rintracciato. Davide Bartoccini - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale. C'è una figura in Francia, forse francese, forse no, forse famoso, forse no, che celandosi dietro lo pseudonimo di Axel ha deciso di combattere una crociata singolare quanto lodabile - se si conosce devvero il fanatismo di alcuni collezionisti troppo nostalgici, che adorano la svastica inclinata al punto tale di investire patrimoni per esporre nei propri appartamenti dei veri cimeli nazisti: senza tenere realmente conto, alle volte, del peso storico che grava sulla svastica. Secondo quanto riportato dalla rivista Le Parisien, infatti, questa "talpa" che si agira nel mondo dell'antiquariato, della quale non si conosce né il nome né l'età, ha iniziato ad andare a caccia da alcuni mesi a questa parte de cimeli nazisti - un po' come la Simon Wiesenthal faceva con i nazisti in carne e ossa - per dare delle soffiate alla polizia e consentire, quando la situazione lo concede, il ritiro o addirittura il sequestro degli oggetti prima che vegano messi all'asta. Rappresentando - in spessi casi, ma non in tutti - il reato d'apologia di nazismo. "Non sono ebreo", ha dichiarato colui che viene già definito una sorta di "giustiziere mascherato"; ma è da gennaio che spende tempo e fatica a monitorare tutto il giorno i lotti delle case d'aste, o gli oggetti messi in vendita da privati, che comprendono questa merce assai ricercata per segnalarli alle autorità e consentire loro di appellarsi ad un cavillo legale che solleva la flagranza di "apologia". In Francia di fatto non è proibito vendere ed acquistare oggetti che raffigurano Adolf Hitler o l'antico simbolo pagano che però inclinato simboleggia il partito Nazionalsocialista da lui fondato: ma è vietato "esporli" e pubblicizzarli online. È attraverso questo "trucco" infatti che Axel ha fatto sequestrare lo scorso 3 febbraio a Rodez, nel sud della Francia, diciassette reperti risalenti epoca nazista - compreso un busto di bronzo raffigurante il führer e un servizio di posate da pesce con la svastica stampata sui manici leggermente arrugginiti - da una casa d'aste che era prossima a proporli al miglior offerente. Lo stesso è avvenuto a Lione appena dieci giorni fa; quando altri cimeli, questa volta uniformi e altri oggetti militari, sono stati identificati e ritirati dalla casa d'aste prima d'essere sequestrati. Tra le segnalazioni alle autorità competenti, e la minaccia di segnalare ai giornali locali l'imminente presentazioni di tali oggetti in catalogo, l'ormai famigerato Axel ha fatto annullare almeno una dozzina di aste; terrorizzando i proprietari che temono di perdere la simpatia degli acquirenti, oltre che gli oggetti che rischiano essere sequestrati. Ad ora nessuno sarebbe riuscito ad incontrarlo, sebbene i giornalisti lo descrivano come un personaggio da romanzo, a metà tra i cattivi di James Bond e il fratello maggiore di Sherlock Holmes. Di stazza considerevole, affiliato alla massoneria, con gli interessi tipici dell'uomo di mondo, elegante nello stile e nei modi, Axel pare configurarsi come il facoltoso nipote di alcuni grandi antiquari. Anche lui collezionista d'arte e di oggetti storici - motivo per il quale sa muoversi con destrezza nell'ambiente - abita una grande casa completamente rivestita di marmo nella regione dell' Île-de-France, e trascorre, almeno dall'inizio del 2021, le sue giornate davanti a due laptop: uno impiegato per il suo lavoro, l'altro per controllare gli oggetti "incriminati" che vengono caricati su interencheres.com, il sito francese che consente agli appassionati di "tenere d’occhio tutte le aste in corso nel Paese". Gli oggetti più ricercati spesso sono daghe e coltelli della gioventù hitleriana, le uniformi delle SS; mostrine, le fasce da braccio che riportavano la svastica, ma anche oggetti più particolari. "Voglio semplicemente giustizia e considero la mia un’opera civica e il dovere di un massone", ha dichiarato ai giornalisti che sono riusciti ad entrare in contatto con lui; apprendendo che membro del Grande Oriente di Francia. A coadiuvarlo, per quanto riguarda la parte legale, ci sarebbe un avvocato, David-Olivier Kaminski, che è parte del Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni ebraiche francesi. Axel si avvarrebbe inoltre dell’aiuto di Serge Klarsfeld, un noto avvocato francese che ha speso gran parte della propria vita a dare la caccia ai nazisti e ai collaborazionisti di Vichy che sono sfuggiti alle autorità dopo la fine della guerra. Come diceva Indiana Jones nell'Ultima Crociata, certi oggetti "Dovrebbero stare in un museo"; e perché solo in un museo possono essere contestualizzati, e perché non sempre si può contare sulla reale integrità morale del collezionista: che potrebbe esibire le uniformi riportanti svastiche o teste di morto, o addirittura le stelle gialle a sei punte che gli ebrei erano costretti a cucire sui loro abiti, come se fossero un vanto o peggio uno scherzo. Certo, è difficile pensare a qualcuno che voglia inneggiare al Nazismo mentre incide una trota o un branzino con un coltello da pesce che ha stampigliata una svastica. Ma sicuramente è un indizio. E in Francia l'antisemitismo non è uno scherzo.

Anche la Comunità Ebraica contro il sindaco di Milano. “Greta Thunberg come Anna Frank”, Beppe Sala nella bufera per il suo paragone. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Greta Thunberg come Anna Frank. L’appena 18enne attivista svedese è stata paragonata alla giovane ebrea tedesca deportata dai nazisti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen e autrice del celebre diario. E quindi: apriti cielo. La polemica è esplosa intorno alle parole del sindaco di Milano Beppe Sala. Il primo cittadino è intervenuto in un’intervista per Rai Documentari nell’ambito dell’anteprima al Piccolo Teatro del documentario #Anne Frank – Vite parallele, in onda su Rai Uno sabato 23 gennaio in occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio. Il paragone che ha scatenato un mezzo putiferio. L’intento del sindaco era forse avvicinare l’autrice della più potente testimonianza della Shoa e l’ideatrice del movimento ambientalista dei Fridays for Future per il loro impegno, il ruolo simbolico, la loro testimonianza. “Penso che Anne sia stata un’anticipatrice della presenza femminile in così giovane età. Viene naturale pensare a Greta Thunberg, perché sono due storie di coraggio enorme in cui si parte dalla cosa più semplice che c’è e si arriva a un risultato simile…”, aveva detto Sala. “Anne ha scritto un diario che poi è diventato uno strumento di educazione e di memoria per tantissime persone. Greta ha cominciato mettendosi lì con un cartello ed è diventata un simbolo di un movimento. Quando una donna, pure in giovane età, decide di intraprendere un’impresa apparentemente disperata, spesso ha più coraggio e quindi, anche da questo punto di vista, è un messaggio di grande contemporaneità”. Questi i virgolettati al centro della bufera. Il cartello di Greta come il diario di Anne. Un accostamento un po’ forzato, probabilmente fuori luogo. E quindi sono partite immediate le critiche. Beppe Sala ha voluto banalizzare “la immane tragedia della Shoah”, secondo il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino Fabrizio De Pasquale. Il consigliere regionale leghista Gianmarco Senna ha aggiunto che “con le sue parole Sala non soltanto insulta la memoria di Anne Frank, ma mette anche in difficoltà la stessa Greta Thunberg, strumentalizzandola”. Parole dure anche da parte di Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati: “Mettere sullo stesso piano la storia e il sacrificio di Anna Frank con la propaganda di Greta Thunberg non è solo offensivo, ma è anche un insulto alla tragedia che ha travolto milioni di persone. La campagna elettorale evidentemente ha offuscato la mente del sindaco Sala”. Non solo politica però: a strigliare il sindaco di Milano è anche il Consiglio della Comunità Ebraica di Milano con una nota pubblicata anche sui social. “Abbiamo già assistito alla banalizzazione e allo spregio di Anne Frank e di ciò che rappresenta – si legge – assistiamo tutti i giorni all’inaccettabile e reiterata violenza che popola il web nei confronti della Senatrice a vita Liliana Segre, alla quale va tutto il sostegno della nostra Comunità. Proprio a lei, vita parallela a quella di Anne, italiana, deportata a Auschwitz-Birkenau a 13 anni, dalla Stazione Centrale di Milano… Come può essere sfuggito al nostro Sindaco che nulla di tutto questo è paragonabile al coraggio di una ragazzina amata, libera e idealista come Greta Thunberg che si è messa con il suo cartello all’angolo di una strada della sua città sperando di scuotere le coscienze?”. “Se i concetti e le parole che vengono espressi dai nostri rappresentanti su un tema così complesso come la Shoah non vengono ben soppesati – conclude – gli sforzi di una vita dei testimoni come Nedo Fiano, Goti Bauer, Sami Modiano, Piero Terracina, Shlomo Venezia e la stessa Liliana Segre (solo per citarne alcuni) andranno perduti. Affogheranno sempre di più nella banalità dell’istante, in cui la storia si azzera e il passato si cancella. Vogliamo credere che le dichiarazioni rilasciate dal nostro Sindaco siano state solo un increscioso inciampo e che lui stesso saprà smentirlo al più presto”. Sala ha voluto quindi spiegare la sua uscita: “È più che evidente che non ci fosse la volontà da parte mia di fare un paragone, che del resto non avrebbe alcun senso, tra il dramma della Shoah e le vicende politiche dell’oggi Si parlava di coraggio di giovani donne e il giornalista mi ha portato sull’attualità, facendo un riferimento a Greta. Lo ribadisco con chiarezza: il dramma della Shoah è tragicamente unico e non esiste paragone possibile”. Questo ha scritto Sala a Milo Hasbaini, presidente della Comunità ebraica.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 22 gennaio 2021. Caro Dago, il Politicamente Corretto è anche, se non soprattutto, la perdita di qualsiasi minima gerarchia di senso, la rimozione della storia, per sostituirla con lo sciocchezzaio della cronaca riadattata alle esigenze di questa post-ideologia ubriaca. È il meccanismo, per intenderci, che rende possibile assaltare in nome dell’“antirazzismo” le statue di Abramo Lincoln, il presidente che per abolire la schiavitù dei neri imbarcò gli Stati Uniti in una devastante guerra civile, o di Winston Churchill, l’uomo grazie a cui l’Europa non si è trasformata in un protettorato del Terzo Reich. Per stringere l’inquadratura fino alle minuzie di casa nostra, periferia dell’impero politically correct, è lo stesso cortocircuito logico che spiega il seguente, grottesco se non fosse osceno, parallelismo imbastito dal sindaco di Milano Beppe Sala. “Penso che Anna Frank sia stata un’anticipatrice della presenza femminile in così giovane età. Viene naturale pensare a Greta Thunberg, perché sono due storie di coraggio enorme in cui si parte dalla cosa più semplice che c’è e si arriva a un risultato simile”. Sì, lo so, è più straniante di una pièce di Ionesco, il festival dell’assurdo spacciato per riflessione meditata, consegnata ai microfoni di Rai Documentari durante le riprese al Piccolo Teatro dell’anteprima del docufilm “#AnneFrank. Vite parallele”, in onda domani su RaiUno come accompagnamento verso la Giornata della Memoria del 27. Proviamo a scomporre il delirio, ehm la frase, nei suoi elementi basici. Anna Frank è stata un’anticipatrice del protagonismo femminile in “giovane età”, quasi la pioniera delle moderne influencer. No, Anna Frank è stata una povera e coraggiosissima ragazzina scaraventata all’inferno, quello vero sulla terra, non quello ipotetico nei cieli, che ha trovato nella scrittura di un Diario immortale il suo modo di relazionarsi con l’inferno. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, probabilmente l’anonimato di una vita indefinita, tutta ancora da scrivere, libera, era proprio ciò che le mancava tra le baracche immonde di Bergen-Belsen, dove non era mai anonima, al contrario per i suoi aguzzini era ogni secondo una sporca ebrea. No, non “viene naturale pensare a Greta Thunberg”, di fronte alla tragedia per sempre irriscattabile di Anna Frank, a meno di essere talmente intossicati dal talebanesimo ecologista da paragonare i sei milioni di morti della Shoah al mezzo grado Celsius in più. E no, ovviamente non c’è nessun “risultato simile”, è offensivo solo scriverlo, ci sono una sedicenne morta di tifo nel lager e una sedicenne che per un anno ha bigiato la scuola scorrazzando per il mondo sullo yacht di Pierre Casiraghi, maledizione. Niente da fare, Sala è affezionato all’analogia, sente di aver partorito una genialata perfetta per lo spirito arcobaleno del tempo, e insiste: “Anna ha scritto un diario che poi è diventato uno strumento di educazione e di memoria per tantissime persone. Greta ha cominciato mettendosi lì con un cartello ed è diventata un simbolo di un movimento. Quando una donna, pure in giovane età, decide di intraprendere un’impresa apparentemente disperata spesso ha più coraggio e quindi, anche da questo punto di vista, è un messaggio di grande contemporaneità”. L’impresa di Anna Frank non è “apparentemente” disperata, Dio mio, si ascolti quando (stra)parla, è purissima e abissale disperazione novecentesca, il crinale totalitario e genocida dell’umano. L’“impresa” di Greta Thunberg è saltabeccare da una conferenza all’Onu a un intervento al Parlamento Europeo, tra le foto per la prima pagina di Time e un documentario su Netflix, applauditissima, riveritissima, temutissima dal mainstream. Questa è la sua “contemporaneità”, la fiera della vanità radicalchiccosa. La “contemporaneità” di Anna Frank è la testimonianza insopprimibile e l’ammonimento perenne sull’orrore che l’uomo può sempre vomitare da un momento all’altro, l’ideologia applicata come pratica di sterminio. Cosa c’entrino l’una con l’altra, è mistero ancora più insondabile della città più avanzata del Paese in mano a Beppe Sala.

·        Prima del Fascismo.

La democrazia e il lungo cammino del movimento. Dalla grande guerra al Concilio, la meglio gioventù fece la storia. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 13 Luglio 2021. La prima guerra mondiale aveva sconvolto tutto. Anche dal mondo della cultura erano sorti nazionalismi distruttivi. Quello che non era stato quindi possibile negli anni della crisi modernista, raccordare Chiesa e mondo della cultura in uno spirito di ricerca internazionale, diventava ora fattibile. Partì quindi nel 1921 da tre Paesi già neutrali (Svizzera, Spagna e Olanda) la convocazione per la riunione di Luglio a Friburgo in cui nacque l’associazione mondiale Pax Romana degli universitari cattolici. Il nome riecheggiava il verso di Dante nel Purgatorio che richiama all’universalità del cristianesimo. PR svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci, ma per l’Italia non era un contesto facile. Quattro anni prima della Conciliazione la Federazione aveva posto quel Congresso sotto il patrocinio del Re al fine di proteggersi dalle minacce fasciste, ma questo creò un serio problema col Vaticano, che si risolse alla fine positivamente affidando a Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) e al brillante laico Righetti la guida della Federazione, ma che consigliò per gli anni successivi una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare un regime nazionalista. La vera internazionalizzazione vi fu dal 1939, quando si svolse il primo Congresso fuori dall’Europa, negli Stati Uniti, proprio nei giorni in cui scoppiava la guerra. Per certi versi fu frutto di quella coincidenza giacché il tedesco Rudi Salat, lì presente, decise di fare obiezione di coscienza alla guerra di Hitler, restò in America e da lì guidò la crescita di PR nella parte Sud del Continente. In questa fase iniziale i punti di riferimento erano soprattutto due: Giovanni Battista Montini, ormai non più assistente nazionale della Fuci ma in Segreteria di stato, e Jacques Maritain, esule anche lui in America. L’impostazione teorica era quella che troviamo nel volumetto montiniano del 1930 Coscienza Universitaria nonché in Cristianesimo e democrazia di Maritain. La Chiesa aveva perso influenza nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva una rilettura positiva della democrazia, cogliendo dietro di essa un’autentica ispirazione evangelica, anche se affermatasi spesso contro la Chiesa. Nel periodo di guerra dall’ufficio di New York lavorava padre Courtney Murray il gesuita che già in quegli anni si impegnava sul tema della libertà religiosa, per farla accettare positivamente da parte della Chiesa, come poi accadde col Concilio. Nel 1947 si aggiungeva un secondo ramo, quello dei Laureati, mentre nel 1946, con analoga ispirazione e durante un Congresso di PR -universitari era sorta anche la Jec internazionale (gioventù studentesca cattolica), che coinvolse anche studenti delle secondarie. Il Concilio fu il coronamento dell’influenza di PR: venivano da essa la gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Gimenez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’italiano Veronese, l’australiana Goldie e molti teologi che erano stati assistenti del movimento (Guano) o comunque vicini (Chenu, Congar, Journet). Alcuni frutti, sul piano civile, sarebbero stati colti anche più avanti. Come sottolinea Huntington per alcuni aspetti il Concilio aveva preso atto di alcune novità già intervenute con l’elezione di Kennedy e i successi dei partiti dc, ma per altro verso l’aveva anche promossa negli Stati ancora refrattari. Infatti la Terza Ondata democratica partì da Paesi cattolici, da Portogallo e Spagna, dove troviamo in primo piano esponenti di PR, ossia Ruiz-Gimenez in Spagna come animatore culturale, Pintasilgo e poi Guterres come Presidenti del Consiglio in Portogallo. Appartiene a PR anche Mazowiecky che qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino diventa il primo presidente del Consiglio non comunista nell’Est Europa. Dopo il Concilio Vaticano II l’internazionalizzazione di questi movimenti diventa più completa e trova un punto di riferimento soprattutto in Gustavo Gutierrez, assistente del movimento peruviano, il quale si propone di partire dall’impostazione maritainiana per superarla. In particolare nel suo volume Teologia della liberazione, Gutierrez segnala che la questione posta originariamente da Maritain, ossia “come un non cristiano possa far parte di un partito politico d’ispirazione cristiana” vada necessariamente capovolta partendo dalle “condizioni in cui un cristiano possa partecipare ad un partito politico indifferente, ed anche ostile, ad una visione cristiana”. Più in generale, secondo Gutierrez, il contesto post-conciliare si prestava male a rigide distinzioni quando il pluralismo delle realtà imponeva un metodo induttivo, quello che soprattutto “Octogesima Adveniens” di Paolo VI nel suo decisivo paragrafo 4 aveva impostato a partire dal modello della cosiddetta “revisione di vita” sperimentata dai movimenti di ambiente. Tale metodo era basato su tre verbi, ossia vedere, giudicare e agire, dove il primo si riferiva all’esperienza personale in un ambiente laico, Acquistano maggiore rilievo anche i richiami a Emmanuel Mounier e al suo invito ai filoni personalisti di collocarsi in modo creativo nello spazio politico della “sinistra non comunista” oltre l’orizzonte dei partiti dc. Questa internazionalizzazione effettiva non è stata esente da problemi, è valsa anche per PR l’osservazione della Octogesima Adveniens sull’estrema difficoltà di fare proposte universalmente valide e, spesso, passare dal vedere e dal giudicare all’agire si è rivelata più difficile del previsto. Peraltro coi due pontificati successivi il clima è andato più nel senso di una ribadita identità che non di una ricerca culturale spregiudicata. Esso è cambiato di nuovo ed è ridiventato decisamente sintonico con l’attuale pontificato, ma questa è una pagina di cronaca, non ancora di storia. Stefano Ceccanti

Margherita Incisa di Camerana: il primo ufficiale donna marciava a Fiume con d'Annunzio. Tenente degli Arditi e moglie dell'eroe Elia Rossi Passavanti. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Dopo il primo pilota militare nero del mondo - italiano e orgogliosamente fascista, tanto da diventare generale delle Camicie Nere QUI  - un altro personaggio manderà dallo psicanalista gli aedi della storiografia ideologizzata. Parliamo della marchesa Margherita Incisa di Camerana, il primo ufficiale-donna del mondo in età contemporanea: interventista, dannunziana, fiumana, monarchica e moglie di un podestà. Prima di lei, nel ‘7-‘800, già l’italiana Francesca Scanagatta, la russa Nadežda Durova, la prussiana  Eleonore Prochaska, la francese Marie-Thérèse Figueur avevano indossato l’uniforme, ma tranne l’ultima, (che restò sottufficiale), tutte dovettero dissimulare  il loro sesso.  All’epoca, infatti, gli eserciti non badavano molto alle autoconvinzioni degli arruolandi sul proprio genere. Nata a Torino nel 1879 dal marchese Alberto e dalla baronessa Amalia Weil Weiss, Margherita Incisa, dopo il collegio, si arruolò nelle Infermiere volontarie il 20 aprile 1909. “Interventista convinta - scrive Elisabetta David - prese parte attiva alla propaganda per la guerra a Torino contro il disfattismo giolittiano, avendo ereditato da suo padre il più profondo disprezzo per quell’uomo di governo”. Durante tutta la Grande Guerra, oltre ad essere dama di compagnia della principessa Laetitia di Savoia,  prestò servizio attivo al fronte in vari ospedali da campo e come addetta ai doni e alla propaganda per le truppe i prima linea. Ricorderà questa esperienza in un libro, “Nella tormenta”, pubblicato nel 1929. “La futura madrina degli arditi di Fiume – spiega lo storico della Grande Guerra Paolo Cavassini -  entra in contatto con le temibili “fiamme nere” già nel maggio del ’18. Incaricata di consegnare da parte delle donne di Torino un gagliardetto all’8° reparto d’assalto, gode da subito della stima e della simpatia dei vari comandanti degli arditi, dal generale Zoppi, al maggiori Freguglia, Nunziante e Vagliasindi.  Ritroverà questi ultimi fra i fedelissimi di d'Annunzio a Fiume. Nella travagliata atmosfera della “Vittoria mutilata”, l’ex crocerossina interventista s’infiamma di passione fiumana. “Ho parlato di Fiume – registra il 12 giugno 1919 -; mi si assicura che si stanno preparando bande di volontari per difendere la frontiera. Se potessi essere utile m’iscriverei anch’io”. L’occasione arriva esattamente te mesi dopo, quando il Vate, sollecitato dagli irredentisti fiumani, rompe gli indugi e  occupa Fiume avvalendosi soprattutto di arditi. Margherita, naturalmente, è fra di loro". Iniziava un sogno rivoluzionario che sarebbe culminato nella Carta del Carnaro,  un’epopea - come scriveva il legionario Eugenio Coselschi - composta da una variegata schiera di “uomini vivi, armati di armi vere e di sentimenti umanissimi”.  Ma non solo uomini, come dimostra la Incisa, che fu nominata Tenente degli Arditi, vale a dire il corpo precursore delle nostre Forze Speciali. Dal 4 ottobre 1919 fino all’11 giugno 1920, la marchesa fu all’ufficio propaganda del Comando, poi in forza alla compagnia della Guardia “La Disperata” con varie funzioni di “commissariato”. Scriveva di lei il poeta Leone Kochnitzky: “Fra gli Arditi c’è una donna che, sopra una succinta gonna grigio-verde, porta la giacca coi risvolti neri. Prende parte alla marce, alle esercitazioni; con una virile grazia, quest’anima ben temprata si piega alle necessità rudi del blocco vigilando alla salute morale e alla disciplina delle sue truppe”…Era, dunque, l’unica “ufficiala”, come qualcuno direbbe oggi, ma non unica donna. Spiega il presidente del Vittoriale Giordano Bruno Guerri: “Le donne  a Fiume venivano considerate legionarie alla pari degli uomini. Erano spesso mogli di legionari, o crocerossine, o signore che volevano partecipare all’impresa. Giravano con il pugnale e la pistola alla cintura e molte di loro combatterono anche durante il Natale di Sangue, quando l’occupazione dannunziana fu sgomberata dal Regio esercito italiano. La Carta del Carnaro anticipò di 26 anni il diritto per le donne di votare - ed essere votate - e di 70 anni quello di indossare le stellette. A Fiume potevano condurre una vita disinvolta e “da maschiacci”». Ancor più godibile, il fatto che uno dei moralisti-maschilisti più critici con la Incisa e le sue “commilitone” fosse un socialista, Filippo Turati, che, in una lettera alla compagna Anna Kuliscioff, scriveva: “Fiume è diventato un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high life. Nitti mi parlò di una marchesa Incisa che vi sta vestita con tanto di pugnale”. E proprio in quel crogiolo di animi ardenti Margherita conobbe il futuro conte Elia Rossi Passavanti. Era  uno degli eroi più decorati (e mutilati) della Grande Guerra, più giovane di lei di 17 anni, con il quale ebbe una splendida storia d’amore che, ad onta del bigotto Turati, regolarizzò un anno dopo con un matrimonio lungo e felice. “Dopo l’esperienza fiumana – spiega lo storico militare Leonardo Malatesta – la Incisa rientrò nelle Infermiere volontarie e fu ispettrice per la provincia di Terni; partì per l’Africa orientale insieme al marito e, al ritorno, lo aiutò a diventare deputato. Durante la Seconda guerra mondiale prestò servizio nella Campagna greco-albanese presso l’ospedale di Tirana e sulla nave ospedale “Trapani”. Dal dopoguerra fu attiva con associazioni monarchiche, civiche e benefiche. Morì a Roma il 5 febbraio 1964”. I cimeli di quest’eroina, come la divisa fiumana da tenente degli Arditi, sono conservati a Terni nella casa del marito che, amatissimo podestà della città umbra, alla sua morte, nel 1985, lasciò una  Fondazione, la Ternana Opera Educatrice, col preciso scopo di premiare i concittadini meritevoli e di aprire al pubblico la casa-museo. La sua volontà non fu mai esaudita: la fondazione, oggi legata alla Cassa di Risparmio di Terni, nonostante il bilancio da un milione di euro, sostiene che “mancano i fondi”. Ma i ternani vanno all’attacco con una sottoscrizione popolare QUI e, probabilmente, con la benedizione dal cielo di una coppia di soldati non da poco: Elia e Margherita.

I "disertori" riabilitati dopo un secolo. Al Senato passa la mozione che restituisce l'onore a 700 soldati italiani fucilati al fronte. Giordano Bruno Guerri - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. Della Prima guerra mondiale ci rimangono i monumenti ai caduti eretti in ogni città e paese d'Italia, ma non in tutti rimane il ricordo scolastico per cui quella «quarta guerra d'indipendenza» completò l'Unità con Trento e Trieste. Fu una carneficina. Seicentomila morti, tanti più feriti e mutilati, su una popolazione che nel 1915 era di 38 milioni. Per i fanti, un'orribile vita nelle trincee, in attesa di un ordine d'attacco che comportava buttarsi con fucile e baionetta contro le trincee nemiche, falcidiati dai cannoni e dalle mitragliatrici. Molti, per analfabetismo, non sapevano neanche dove fossero Trento e Trieste. Il risentimento popolare avrebbe poi adottato la definizione di «carne da macello» per i soldati buttati allo sbaraglio in un'avanzata a volte inutile, e che a loro lo sembrava sempre. Alcuni non ce la facevano, paralizzati dal terrore, più che dalla viltà: non uscivano dalla trincea, o si fermavano in mezzo agli spari, o tornavano indietro. A volte alcuni reparti di carabinieri, sulla cui disciplina si poteva contare, ricevano l'ordine di sparare a chi si fermava o arretrava. Per altri c'era un giudizio sommario e immeritato: fucilazione, da parte degli stessi commilitoni. Ufficialmente furono oltre 700 i ragazzi o i giovani uomini che subirono questa sorte, e non c'era pietà per loro, neppure postuma. Oggi abbiamo il dovere di manifestarla, quella pietà, attraverso un atto di giustizia. La paura è un umanissimo istinto di conservazione, e anche se in guerra non se ne ha diritto, sarebbe un'infamia continuare a bollare come traditori e vili chi per un attimo perse la virtù del coraggio e per questo perse anche la vita. Lo si può - e lo si deve - capire bene proprio quando, per paura di un virus, siamo disposti all'autoreclusione, a subire coprifuoco e limitazioni di ogni tipo. Benvenuta dunque la decisione della Commissione Difesa del Senato, che ha approvato all'unanimità (dopo vent'anni di discussioni in Parlamento...) la «Riabilitazione storica dei militari fucilati durante la Prima guerra mondiale». Anche il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé sottolinea che non si tratta di un atto di revisionismo storiografico, bensì di un atto di giustizia: quei soldati, sottoposti a un processo sommario e senza le garanzie di uno Stato di diritto, «finalmente potranno riposare in pace» e la loro memoria, alla vigilia del centesimo anniversario della traslazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria, in novembre verrà onorata con una lapide. Mi auguro che ci sia anche il presidente della Repubblica. Qualcosa di simile è già stato fatto da anni, con atti simbolici e solenni, in Paesi - Francia, Gran Bretagna, Germania - che hanno una tradizione bellica più severa della nostra. Noi ci abbiamo aggiunto una bella iniziativa: viene garantita la piena fruibilità degli archivi delle Forze Armate e dell'Arma dei Carabinieri sui documenti riguardanti la disciplina militare, e vengono incoraggiati gli storici a sviluppare ricerche sui militari condannati alla pena capitale. Qualcuno potrà dire (di certo qualcuno lo dirà) che il Parlamento perde tempo a occuparsi di simili quisquilie in tempi di pandemia. Non è così, è un atto di coraggio civile e di serietà proseguire la normale attività alla ricerca di giustizia per chi non ha mai potuto difendersi.

"Così fu abbattuto Baracca". L'ultima verità sull'eroe della Grande Guerra. Luca Sancini su La Repubblica il 3 marzo 2021. Nè sconfitto in duello aereo, né suicida. In un libro, lo studioso Mauro Antonellini ricostruisce la fine dell’aviatore romagnolo. Chi ha abbattuto Francesco Baracca ? L’asso romagnolo dell’aviazione italiana, mito della Grande Guerra, fu sconfitto in un duello aereo o fu colpito dalla contraerea? Oppure ancora, come sostengono alcuni, si suicidò per non cadere prigioniero degli austriaci? Alle tante ricostruzioni si aggiunge ora un libro “Francesco Baracca, morte di un eroe”, edito da Tipografia Faentina. Nelle pagine del libro curato da Mauro Antonellini forse c’è la pistola fumante che potrebbe chiudere definitivamente la disputa. A scovarla non poteva essere che Antonellini, lughese doc (dunque conterraneo dell’aviatore), appassionato di aeronautica e ora conservatore del Museo Baracca, nel centro della cittadina romagnola. Il Museo sorge all’interno della casa di famiglia del pilota, che ospita convegni, visite guidate ed è la cassaforte della memoria dell’asso dell’aviazione che - partito per fare l’ufficiale di Cavalleria - restò fulminato alla vista di quelle prime strane macchine volanti che un giorno scorse su un vasto prato a Centocelle, alla periferia di Roma. Divenuto pilota con un cavallino rampante disegnato sulla carlinga, secondo le statistiche militari sostenne 62 combattimenti con 34 nemici abbattuti, e fu ideatore di tattiche innovative per le sfide nei cieli fino al fatidico 19 giugno 1918, nei pressi del Montello, nel Trevigiano, poco distante dal corso del Piave. Le sorti della guerra erano ancora incerte, con gli austriaci che erano dilagati in tutto il Friuli e nell’alto Veneto. All’aviazione i comandi militari avevano chiesto uno sforzo ulteriore con mitragliamenti da effettuare a bassa quota: fu in questo tipo di pericolosa missione che Baracca trovò la morte, volando abbastanza basso per essere raggiunto da colpi sparati da terra. «Abbastanza per essere colpito da una sventagliata di shrapnel - sostiene Antonellini –. Qui al museo conserviamo un pezzo del tubo di scarico del motore, trapassato da un colpo sparato con traiettoria dal basso verso l’alto». Una rosa di proiettili che potrebbe far chiarezza su un’altra zona d’ombra. Cioè sull’ipotesi, nata da una profonda ferita al volto, che Baracca si sia sparato con la pistola d’ordinanza per evitare la resa, che tuttavia non si attaglia al personaggio: cadere nelle mani del nemico non era considerato disonorevole, e al di là degli imponderabili motivi che a volte muovono le decisioni degli uomini, non pare plausibile che un ufficiale arrivasse a un gesto così estremo. Da sempre gli storici austriaci sostengono che Baracca fu abbattuto da un loro aereo, ma non si è mai arrivati a una conclusione definitiva. Il libro, che contiene centinaia di immagini, articoli dell’epoca, documenti originali con le testimonianze d’allora, perizie, referti medici e documenti militari, serve anche - come sottolinea l’autore - a ricostruire i giorni trascorsi dall’abbattimento dell’aereo di Baracca, con le frenetiche ricerche del corpo che era caduto nella terra di nessuno che separava il fronte italiano da quello austriaco, dagli imponenti funerali a Lugo, con l’elogio funebre tenuto da Gabriele D’Annunzio. L’abbattimento in duello dell’invincibile Baracca era insopportabile per una nazione che temeva il crollo definitivo. Sul monumento nel centro di Lugo c’è incisa la scritta “Ala invitta d’Italia”, formula che indica il fatto di non aver mai perso un duello aereo tra piloti. Al di là della campagna di propaganda di allora, con ogni probabilità andò veramente così.

·        Comunismo = Fascismo.

Perché esiste il negazionismo. Il grande intellettuale Saul Friedlӓnder ha speso tutta la vita documentando l’Olocausto, cambiando il modo di studiare la storia. E di fronte alle irrazionalità di oggi, si interroga sul perché neghiamo.  Wlodek Goldkorn su L’Espresso il 29 settembre 2021. Saul Friedländer è l’uomo che, negli ultimi decenni, ha cambiato il modo di fare la Storia. Oggi 89enne professore emerito all’Università della California a Los Angeles, a partire dagli anni Settanta in una disciplina che cercava oggettività, aveva introdotto invece elementi di psicanalisi, ha valorizzato diari intimi mai pubblicati, lettere private e via elencando fattori di esplicita soggettività. Considerato il massimo storico della Shoah e dei genocidi, ha insegnato a Ginevra, Tel-Aviv, Gerusalemme, si è formato come studioso a Parigi, è di casa in quattro lingue: l’inglese, l’ebraico, il francese e il tedesco e questa conversazione in occasione del conferimento del premio Balzan (ogni anno ne sono attribuiti quattro, la metà della somma di circa 700 mila euro è destinata a progetti di ricerca) si svolge in video, in ebraico. La scelta della lingua non è casuale (ci torneremo), ma intanto cominciamo dall’inizio, dalla biografia del nostro interlocutore, se non altro perché il suo modo di fare Storia è legato alle esperienze da bambino e da ragazzo. Friedländer nasce nel 1932 a Praga, e gli viene dato il nome Pavel. Quando ha sei anni, e mentre la Cecoslovacchia è in pratica regalata a Hitler con il Patto di Monaco, la famiglia si trasferisce in Francia. Pavel diventa Paul. Ma anche lì arrivano le truppe naziste. I genitori affidano il ragazzino a un convento dove assume l’identità di Paul Henri‐Marie Ferland, bambino cattolico, mentre madre e padre tentano di passare il confine con la Svizzera. Respinti dai gendarmi elvetici, finiscono in un convoglio diretto ad Auschwitz. Nel frattempo il ragazzo cresce, vorrebbe diventare sacerdote, proseguire gli studi in un collegio di gesuiti, quando un prete, «un italiano, Pietro Lorigola» ci tiene a sottolineare, gli rivela che lui è ebreo e che mamma e papà sono morti. Paul Henri‐Marie decide di cambiare il nome in Shaul (diventato poi Saul), il contrario di un altro Shaul che sulla via di Damasco diventò Paolo. Raggiunge Israele, è comunista e sionista. In pochi anni cambia quattro volte nome e identità. Sullo schermo del computer appare la faccia di un signore mite, occhi che sorridono. Si scusa perché non sempre sente bene, e la distanza e il mezzo non aiutano. Alla domanda se, alla luce dell’uso che fa delle fonti e della sua biografia è concepibile l’oggettività nella Storia, risponde «certo che no». Fa una pausa: «Però uno storico deve cercare di avvicinarsi quanto più possibile a ciò che egli vede non come la verità storica, ma agli eventi come erano». Ride, perché la frase «gli eventi come erano» è una citazione di Otto Rank, psicoanalista viennese, allievo e assistente di Freud e l’uomo che applicò la psicanalisi allo studio della letteratura e delle arti. Chiarita e ribadita l’importanza del metodo che indaga il subconscio, Friedländer prosegue: «Lo storico deve essere conscio della sua posizione. E io parlo dalla posizione di una persona che da bambino ha vissuto nascosto e ha perso la famiglia. Sono conscio della mia soggettività, anche quando faccio il mio mestiere». Il riferimento è chiaro. Negli anni Ottanta la Germania fu teatro di quella che veniva definita la “Historikerstreit” (la lite degli storici: alcuni sostenevano che il nazismo fosse una reazione al bolscevismo con, a volte, allusioni alle origini ebraiche di quel fenomeno). Spiega Friedländer: «Molti storici tedeschi all’epoca pensavano di essere in grado di vedere il Terzo Reich da un punto di vista oggettivo, cosa che io cercavo di mettere in dubbio». Oggi invece tutti parlano della memoria, pochi della Storia «come è successa davvero». E allora qual è la differenza fra memoria e Storia? Friedländer risponde: «Lo storico dovrebbe allontanarsi dalla memoria, nonostante senza di essa non saprà scrivere la sua storia». Un paradosso che spiega così: «Io ho la memoria dell’epoca su cui lavoro. Per questa ragione ho capito che avrei dovuto includere nelle mie opere le voci degli ebrei che hanno scritto i loro diari e in maggior parte sono morti. Però, cerco di controbilanciare la mia memoria e i miei ricordi con gli strumenti classici dello storico». Prosegue parlando del ruolo dei testimoni. Infatti, il testimone raramente comprende il contesto, quello è un compito che spetta allo storico, appunto: «Io, nelle mie ricerche, ho usato spesso testimonianze di persone molto giovani che esprimevano tutta la loro soggettività, per esempio ragazzi comunisti del ghetto di Vilnius o di Lodz. Ma non cercavo le loro idee politiche, per me era ed è importante la loro testimonianza su quello che hanno visto, sui fatti concreti». Cambiamo tema. In Germania, in particolare, ma il fenomeno è comune a tutto l’Occidente, c’è discussione sulla unicità o meno dell’Olocausto rispetto ad altri genocidi e alla storia coloniale. «L’unicità della Shoah non è nel numero delle vittime, né nella sofferenza. Le persone soffrono tutte allo stesso modo e muoiono tutte da sole. La differenza sta nel contesto. Il contesto della Shoah è diverso da quello del genocidio degli armeni, dei tutsi, da quello perpetrato in Cambogia e della carestia in Ucraina negli anni Trenta. Prima di tutto c’è l’ossessione non tanto per gli ebrei, quanto per l’Ebreo e per l’Ebraismo. Si voleva “purificare” il mondo attraverso l’annientamento dell’ebraismo». Fa un esempio di quella ossessione: «Pensi che nel 1944, mentre l’Armata Rossa avanzava verso la Germania da Est e gli Alleati dall’Ovest, i tedeschi hanno pensato di radunare gli ebrei di Rodi e Kos, poche migliaia di persone, trasportarli ad Atene, da lì ad Auschwitz». Insomma, far sparire l’ebraismo dalla faccia della terra era quasi più importante della difesa del Paese. Continua: «La visione del mondo nazista era costruita sull’odio basato su una tradizione religiosa, cristiana, vecchia duemila anni. Non esiste una base di odio simile nei casi del genocidio coloniale, né ovviamente una simile ossessione». Quando parla dell’ossessione e cita i casi di Rodi e Kos sta dicendo che c’è una base di nichilismo radicale nel nazismo? «Non del tutto nichilismo», è la risposta, «visto che c’era un elemento di ideologia. Un’ideologia che contemplava il Male (l’ebraismo) e il Bene (la razza ariana). E che aveva una meta: il Reich millenario». C’era anche un’idea di Redenzione? «Sì, un mondo redento perché purificato dagli ebrei». Nei suoi lavori, Friedländer porta alla luce testimonianze di ebrei che non volevano vedere quello che stava succedendo, lettere in cui si dice che persone siano state mandate a lavorare all’Est, mentre sappiamo che la destinazione erano le camere a gas. Noi citiamo la testimonianza di Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia sui miliziani del Bund, il partito socialista degli ebrei, che salirono sui treni per Treblinka convinti di andare a lavorare (i tedeschi avevano distribuito loro un tozzo di pane e un po’ di marmellata). La domanda è sul meccanismo che uno storico esperto di psicoanalisi certamente conosce: la negazione della realtà, dell’evidenza, come tratto comune della condizione umana, in situazioni estreme. «Guardi», dice Friedländer, «negare la realtà non è un’esperienza solo delle epoche difficili. Ci sono cose che chiunque di noi non vuole o non è in grado di guardare, affrontare e immaginare». Vale anche per chi rifiuta le notizie sulla pandemia? Un momento di silenzio, poi Friedländer risponde: «Asteniamoci da paragoni con l’Olocausto. Però esiste il fenomeno del rifiuto delle notizie. Io non so quali sono le motivazioni intime di coloro che non si vaccinano. So però che si tratta di un fenomeno che ha un fondamento politico, di destra e delle teorie cospirazioniste». All’ipotesi che forse il problema è nel rifiuto delle teorie scientifiche, perché il sapere è sempre più frammentato e forse è in crisi lo stesso paradigma dell’illuminismo, con la sua fede nel Progresso e nell’emancipazione dall’ignoranza, Friedländer reagisce con un lungo silenzio. Poi sorride, guarda la moglie che sta non lontano ma fuori dal campo visivo della telecamera, fa un respiro e lentamente dice: «È un fenomeno che viene dalla visione disfattista della realtà e del mondo che ci circonda. Spesso anch’io trovo attrazione per il pessimismo e spesso sono profondamente pessimista, ma non sono negazionista né provo attrazione per qualunque negazionismo». Aggiunge: «È la postmodernità, il rifiuto della ragione». A questo punto è lecito fare un’altra ipotesi. Friedländer è un maestro (lui ride quando sente la parola maestro) che ha usato strumenti della postmodernità: fonti non ortodosse, massicce dosi di soggettività, ma a un certo punto si è fermato nell’opera della decostruzione. Ha capito che l’illuminismo va criticato ma che non possiamo farne a meno. Friedländer risponde così: «Sono d’accordo sul fatto che l’uso delle fonti non ortodosse che lei ha menzionato è l’unica strada per arrivare a quello che comunque vogliamo conservare. La cosa più importante per me è opporsi a ogni tentativo di banalizzare la Shoah. E quindi reagisco. Ma di tutto il resto sono stanco». Obiezione: per reagire deve ribadire che il metodo scientifico esiste, che la Terra è una sfera e non è piatta e che la fisica quantistica non abolisce il mondo sensibile e misurabile. Deve in altre parole usare la postmodernità per difendere la modernità. «Sì, mi piace la formulazione: usare la postmodernità per restare fedeli alla modernità», sospira. Si potrebbe chiudere qui ma vale la pena di tornare alle questioni di identità. Friedländer sarebbe potuto essere un prete: «Forse cardinale come lo fu l’arcivescovo di Parigi, e ebreo, Lustiger», scherza. «Quando padre Lorigola mi ha rivelato chi ero, avevo capito che tornare ebreo era la mia strada. Però per due anni ero ambedue le cose: cattolico ed ebreo». Ora scrive testi su scrittori di doppia e plurima identità, come Kafka e Proust (non tradotti in italiano, purtroppo). «Kafka faceva parte di un ambiente simile a quello di mio padre: Praga, ebrei integrati, lavoro per una compagnia di assicurazioni. Ma poi, avendo avuto un problema assai complesso di identità, mi sono sentito molto attratto da Proust con il suo ebraismo, qualche volta negato o rimosso. Mi interessava ovviamente l’aspetto della memoria. Molte cose su Proust le ho capite grazie alla mia attrazione per la psicoanalisi. E poi, ecco, il bacio di addio di mia madre quando mi lasciò nel convento mi ha fatto venire in mente la scena che apre la “Recherche”, il bacio della buonanotte della madre del narratore». E di Israele, che pare così importante per la sua identità che dice? «Speravo che non mi avrebbe posto questa domanda. Ma visto che insiste e che abbiamo scelto di parlare in ebraico rispondo: quando si tratta delle cose più importanti, essenziali, della questione essere o non essere, ecco in quei casi io sono israeliano. E sono contento che ci sia oggi un governo che sembra più normale di quello precedente. Pensi che fortuna che noi due parliamo mentre l’epoca di Netanyahu è ormai alle nostre spalle».

Luca Beatrice per “Libero Quotidiano” il 22 settembre 2021. Una rivoluzione liberale, per conquistare i diritti civili e contro ogni forma di dittatura. Si fa sempre bene a ricordare le repressioni che gli omosessuali sono stati costretti a subire dai regimi fascista e nazista, eppure si tende a svicolare rispetto all'analogo se non peggiore trattamento inflitto loro dal comunismo. Basterebbe ritornare a un episodio storico scivolato nel silenzio. Era il 1977 quando l'allora presidente Carlo Ripa di Meana dedicò la Biennale di Venezia ai dissidenti dell'Unione Sovietica, tra le polemiche dell'intellighenzia della sinistra e all'imbarazzo del Partito Comunista che portò alle dimissioni di Vittorio Gregotti e Luca Ronconi dal cda. Fu la Biennale del "caso Paradzanov", il regista cinematografico arrestato nel 1974 e condannato a cinque anni di lavori forzati per omosessualità. Quindici giorni prima dell'inaugurazione, Angelo Pezzana, leader fondatore del Fuori movimento per i diritti degli omosessuali, venne espulso dall'Urss, dove si era recato a sostegno dello stesso Paradzanov. La protesta di Pezzana proseguì a Venezia con un appello per la liberazione del regista e la libera circolazione dei suoi film. Basterebbe insomma conoscere la storia per provare un certo imbarazzo nei confronti della parola comunista, eppure Vladimir Luxuria, una delle più attive militanti per la causa Lgtb, non esitò a candidarsi nelle file del partito della Rifondazione. Decisione alquanto contraddittoria. Per sostenere una posizione così forte nell'Italia di cinquant'anni fa c'era bisogno di persone coraggiose ed eretiche, caratteristiche che ad Angelo Pezzana non sono mai mancate. Oltre al Fuori, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, è stato creatore delle prime librerie internazionali Hellas e Luxemburg, tra i promotori del Salone del Libro. Pezzana entrò in politica nelle liste del Partito Radicale, parlamentare per solo una settimana, e dovette affrontare diversi attacchi frontali per le sue collaborazioni giornalistiche a Il Giornale, Libero e Il Foglio, nonché per aver difeso le posizioni di Israele, altro tema scottante in seno alla sinistra. Non dovrebbe essere difficile capirne i principi che lo hanno distinto dal branco: la libertà e i diritti vanno sempre difesi contro ogni forma totalitaria e discriminatoria. Per quanto imperfetta, la democrazia è una conquista della specie umana e chiunque scende a patti con le dittature ne è in qualche modo connivente. La libera espressione dell'individuo sia il criterio sovrano da difendere, soprattutto se schierata fuori dal coro. Mezzo secolo fa a Torino, dunque, nacque il Fuori e oggi si apre una giusta celebrazione al Museo della Resistenza, della Deportazione, della Guerra dei Diritti e della Libertà presieduto dal filosofo Roberto Mastroianni. Giusta e necessaria analisi su un decennio, cominciato nel 1971, quando l'Italia si apprestava a entrare nel periodo più difficile e sanguinoso del secondo dopoguerra. Sotto forma di una rivista-bollettino militante, uscito per qualche tempo in edicola, Fuori raccontava con un linguaggio non troppo dissimile dalla sintassi politica postsessantottina le battaglie per difendere l'alienabile diritto alle proprie libere scelte. Lo faceva con toni talora aspri, scagliandosi contro il potere, contro la Chiesa, contro la famiglia e le istituzioni. Se il primo bersaglio era la Democrazia Cristiana e le forze più reazionarie e chiuse, trapelava il medesimo fastidio per l'ottusità e l'antimodernismo del Pci. Non per questo si poteva definire Fuori come un organo dell'estrema sinistra, nessun apparentamento con Lotta Continua, Fronte Popolare e gli altri giornaletti dell'epoca. Dissacranti, libertini e libertari insofferenti verso qualsiasi disciplina di partito o gruppuscolo; negli anni la rivista ha assunto un tono a tratti ludico, sarcastico, indisciplinato, senza per questo dimenticare la serietà delle battaglie su cui era impegnata. Vi parteciparono voci dissonanti: filosofi, scrittori, artisti (come non ricordare la genialità di Marco Silombria che trasformò la grafica da ciclostile in una rivista illustrata e trasgressiva in stile anni '80). Funzionava in particolare quando parlava esplicitamente di sesso, di letteratura, di poesia, di cultura insomma, superando le noiose diatribe interne alla sinistra impegnata a discutere su altri fronti paludati, l'omosessualità era troppo marginale per far parte di un programma ufficiale. A cominciare da Angelo Pezzana erano ragazze e ragazzi coraggiosi, fieri della propria differenza che portavano come uno stile di vita quotidiana, non allestita occasionalmente per la parata. Fu una rivoluzione necessaria anche per chi la pensava altrimenti e non a caso trovò autentica familiarità con le battaglie radicali di Marco Pannella, liberale, antifascista, anticomunista. La mostra dura un mese ed è accompagnata da un prezioso libro edito da hopefulmonster, tra testimonianza e attualità, in perfetta coincidenza con le elezioni comunali. Ecco, chi a sinistra teme passi indietro circa il rispetto dei diritti civili nel caso vincesse il centrodestra a Torino, si tranquillizzi pure. Considerare la libertà come il più prezioso dei beni nasce soprattutto dalle nostre parti.

Bernardo Attolico, il visionario dell’asse Roma-Mosca. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 2 agosto 2021. L’Italia può vantare di aver dato i natali ad alcuni dei diplomatici, degli strateghi e degli statisti più capaci che la Terra abbia mai conosciuto. Uomini che hanno reso possibile l’impensabile: dall’unificazione della penisola delle mille signorie sotto un’unica bandiera allo sventolamento del tricolore su Tientsin, giungendo successivamente, durante l’epoca della guerra fredda, all’egemonizzazione del Mediterraneo allargato e al ruolo di ponte tra i blocchi. Quella dell’Italia è la storia di una nazione che, benedetta dalla geografia – perché messa al centro del Mediterraneo – ma maledetta dagli eventi umani – perché circondata da grandi potenze che sognano di vassalizzarla –, viene periodicamente proiettata alta ad sidera dai suoi figli più estrosi, uomini di medio-bassa statura che non temono di competere con i giganti. E nel novero dei figli più geniali e temerari partoriti dal ventre dell’Italia va inserito il (quasi) dimenticato Bernardo Attolico, il diplomatico che sognava di dare vita ad una linea micaelica che unisse Roma e Mosca.

Origini, formazione e i primi passi nella diplomazia. Bernardo Attolico nasce a Canneto di Bari il 17 gennaio 1880. Viene allevato in una famiglia che valorizza lo studio e le attitudini individuali, trovando nei libri una ragione di vita e nel supporto dei genitori uno stimolo che lo avrebbe portato all’università La Sapienza di Roma. Dopo aver conseguito una laurea in giurisprudenza nel 1901, due anni dopo ottiene il titolo di insegnante di materie economiche negli istituti di istruzione secondaria superiore. Né la giurisprudenza né l’economia, però, ne soddisfavano gli appetiti di grandezza, perché Attolico, invero, voleva entrare nel mondo della diplomazia. Un sogno che avrebbe realizzato poco alla volta, a partire dall’anteguerra, quando viene inviato dal governo Giolitti IV tra Stati Uniti, Canada e Turchia per svolgere missioni attinenti alla sfera dell’emigrazione italiana all’estero. Forte di un curriculum internazionale, nel 1914, all’alba della Grande Guerra, gli viene affidata la segreteria della Commissione reale per i trattati di commercio. Un ruolo che gli permette di conoscere l’Inghilterra – nella quale viene inviato per rappresentare il ministero dell’agricoltura, dell’industria e del commercio –, di approfondire la sua conoscenza delle relazioni internazionali e di migliorare la sua immagine presso gli ambienti politico-diplomatici del regno d’Italia. Nel dopo-Caporetto, cause l’aggravarsi della guerra e il peggiorare delle finanze italiane, Attolico viene incaricato di attrarre aiuti di tipo economico e di reperire beni strategici utili alla prosecuzione delle ostilità e all’allontanamento dello spettro della bancarotta. Una missione che, svolta con solerzia, lo avrebbe fatto entrare nelle grazie dall’allora titolare del ministero del Tesoro, l’economista Francesco Saverio Nitti, e ne avrebbe cementato la fama di diplomatico sagace, integro e fedele alla bandiera. Molto presto, con la nascita di un nuovo ordine – il fascismo –, quella rinomanza acquisita negli ultimi anni dell’era giolittiana lo avrebbe condotto ai vertici della diplomazia italiana.

Sognando l'asse Roma-Mosca. La Grande Guerra è finita, sull’Italia aleggiano gli spettri della guerra civile e del collasso economico e una nuova forza politica va facendosi largo tra le macerie dell’epoca giolittiana: il fascismo. Servirà del tempo prima che Benito Mussolini si accorga di Attolico, che avrebbe trascorso il primo dopoguerra tra Francia, dove partecipa alla conferenza di pace di Parigi in qualità di consigliere tecnico della delegazione italiana, e Stati Uniti, dove viene spedito nelle vesti di commissario generale per gli affari economici e finanziari da Nitti, nel frattempo divenuto primo ministro. Oramai considerato all’unanimità un astro in ascesa del risorgente mondo diplomatico italiano, alla ricerca di rivalsa per la “vittoria mutilata”, Attolico, una volta tornato in Europa, passerà più tempo a Ginevra – presso la neonata Società delle Nazioni, della quale scalerà rapidamente i vertici, divenendone vicesegretario – che a Roma.

Il richiamo della patria è, però, più forte di ogni altra cosa, perciò Attolico cede alle lusinghe di Mussolini, che prima lo manda in Brasile per guidare l’ambasciata di Rio de Janeiro – l’allora capitale, poi sostituita da Brasilia nel 1960 – e dopo, nel 1930, gli affida l’incarico della vita: il dossier Unione Sovietica. Tra Roma e Mosca intercorrevano buoni rapporti – Mussolini riconobbe la legittimità della nuova entità statale nel 1924, ovvero nove anni prima di Washington –, il governo fascista abbisognava di alleanze funzionali ad aggirare le diffidenze dell’Europa occidentale e il fattore Terzo Reich non era ancora entrato in gioco: tutto sembrava lavorare a favore di una svolta diplomatica dalle implicazioni straordinarie. Attolico, un realista con l’acume per gli affari – si era formato, del resto, su tavoli negoziali incentrati su commercio ed economia –, non avrebbe tradito le elevate aspettative in lui riposte dal Duce. Nel 1933, dopo un triennio di residenza a Mosca in qualità di ambasciatore, Attolico porta a casa un pacchetto di accordi di cooperazione economica e mette la firma sul patto di amicizia italo-sovietico. Una missione delicata, quella di Attolico, alla luce delle profonde differenze tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica – sia in termini di ideologia sia in termini di politica estera –, ma che avrebbe esperito con la diligenza e l’avvedutezza tipiche del diplomatico, persuadendo le controparti a valorizzare i punti in comune in luogo di focalizzarsi sulle divergenze, a concentrarsi sull’immediato anziché sul lungo termine e a ricercare la cooperazione laddove possibile e desiderabile.

Una cooperazione limitata ma produttiva e guidata da un obiettivo comune – l’emancipazione dalla condizione di quasi-isolamento diplomatico a livello internazionale –, che, nell’ottica di Attolico, avrebbe potuto e dovuto spianare la strada ad una distensione allargata e durevole, facendo dell’Italia il ponte tra Ovest ed Est e mettendola simultaneamente al riparo da eventuali manovre sovietiche nell’Europa orientale.

La fine del sogno di un asse italo-sovietico e la morte. Completato l’incarico moscovita e accontentato il Duce, Attolico, nel 1935, viene nominato ambasciatore a Berlino. Anche in questo caso, operando la strategia già collaudata dell’adattamento al contesto unito all’immedesimazione nell’altro, sarebbe sceso a patti con la Germania nazista riconoscendole il titolo di erede dell’impero guglielmino (Drittes Reich) e la legittimità delle pretese sulla Mitteleuropa. Il futuro si sarebbe scritto più tra Berlino e Mosca che tra Parigi e Londra, Attolico ne era convinto, da qui la necessità di siglare dei patti di amicizia propedeutici allo stabilimento di alleanze suscettibili di trasportare Roma verso settentrione e levante, liberandola dall’infelice status di eterno Stato proletario. Pacifista convinto, Attolico avrebbe voluto estendere la “diplomazia dei patti d’amicizia” all’intero continente e accolse con freddezza la svolta hitleriana di Mussolini, palesata dall’adesione al patto anticomintern, perché consapevole delle conseguenze, in particolare la fine del sogno di un asse Roma-Mosca e la perniciosa ideologizzazione della politica estera italiana.

Ogni tentativo di impedire la satellizzazione dell’Italia fascista alla Germania nazista si sarebbe rivelato infruttuoso, così come improduttive sarebbero state le aperture di canali di dialogo con i diplomatici-ombra ruotanti attorno al Führer alla vigilia dell’invasione della Polonia – che Attolico aveva pronosticato con largo anticipo, mettendo in guardia gli increduli Mussolini e Galeazzo Ciano. Altrettanto inutili sarebbero state, infine, le pressioni esercitate sul Duce circa l’imperativo di non entrare in guerra, né a fianco di Berlino né di nessun’altra potenza. Pedinato dai tedeschi, perché consapevoli del suo lobbismo antiguerra, ed emarginato dagli italiani, perché alleati di Hitler, Attolico avrebbe trascorso gli ultimi anni di vita come ambasciatore presso la Santa Sede. Muore a Roma il 9 febbraio 1942, all’acme della seconda guerra mondiale, lasciando un legato dal valore inestimabile ai posteri che lo avrebbero succeduto. Posteri del calibro di Giorgio La Pira, Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, che nel 1975, in piena guerra fredda, avrebbero estratto dal bagaglio della tradizione diplomatica nostrana lo strumento preferito di Attolico – il patto d’amicizia –, impiegandolo per ritrovare un’amicizia perduta: quella con Mosca. 

Gennaio 1992, sulla Croisette di Cannes. Cronaca vera di un incontro segreto tra Nenni e Mussolini. Riccardo Nencini su Il Riformista il 30 Maggio 2021. Anatole France lo riceve sulla porta di villa Said in papalina e veste da camera. È così carico di gloria che è insensibile all’aroma d’incenso. Non così al profumo di donna. Le parigine più seducenti lo attorniano, pendono dalle sue labbra, aspettano un segno, almeno un bon mot su cui spettegolare nei salotti borghesi. Lui si dilunga nei baciamano e le fa arrossire con una battuta. Allontana il suo funerale giocando al gatto col topo. Nonostante l’età, non ha mai dismesso la vena polemica. Lo tiene in vita. Dopo aver cannoneggiato la Terza Repubblica difendendo Dreyfus, si è invaghito della Rivoluzione d’ottobre e per giunta ha vinto il Nobel. Se vuoi incontrare la Parigi che conta, banchieri e comunisti avvolti nel fumo del medesimo sigaro, devi vagare nelle stanze del papa laico. Discutono della Russia da dilettanti, tutti meno Rolland, il Nobel del secondo anno di guerra. Si sente rivivere al calore delle sue intuizioni. Al contrario del plenipotenziario di Lenin in Francia – Cachin “baffi a manubrio” – indaga senza tacerle le ombre del mito, gli errori, le ingiustizie, le crudeltà. È un idealista, Cachin un bolscevico fatto e sputato. Spesso allargano il cerchio per farlo sedere. Confidano nel cognac perché si avventuri sulle vicende italiane. Sono incuriositi dal duce. La vita al risveglio. Così gli apparve Parigi dalla redazione del “Populaire”. Vi arrivò da corrispondente dell’“Avanti!” nel marzo 1921 e vi scoprì, lui che era stato un rivoluzionario di provincia, quanto grande fosse la seduzione della cultura. Quando mai un figlio di contadini gettato da piccolo nella desolazione di un orfanotrofio, a Faenza, avrebbe fantasticato di polemizzare con due maestri della letteratura mondiale? Ha scritto molto, letto di più. A Parigi ha imparato che quel che si legge è più importante di ciò che si scrive. Marx, Lenin, Zola, anche Verga ora che è morto. Un tirocinio magnifico interrotto dagli incontri con le organizzazioni operaie e dai frequenti litigi con l’ala comunista. Fino a ieri, l’8 di gennaio. Il giorno in cui l’ha rivisto. Troppo pallido il sole di Cannes per illuminare la svolta. I Grandi si rinserrano in un palazzotto con l’orizzonte negli occhi, litigano per un’intera settimana perdutamente, si lasciano senza aver sciolto i nodi delle riparazioni di guerra e del ritorno in società della Russia dei soviet. Tutto rinviato alla Conferenza di Genova. Non è stato il caso a farli incontrare. La mascella quadrata l’avrebbe riconosciuta tra mille. L’appuntamento è venuto da sé, senza forzare, dopo un cenno fugace in sala stampa, uno a intervistare il presidente del Consiglio francese, Briand, l’altro sulle tracce della delegazione britannica. Finalmente è scesa la notte. Le tenebre si avvitano alle palme della Croisette, li nascondono a occhi indiscreti. Il duce a passeggio con un sovversivo è una notizia da prima pagina, come se Lenin sbucciasse una mela allo zar. Discutono in romagnolo, la lingua madre. Il dialetto riduce lo spazio tra il basco e il cappello a cilindro, li riconduce al passato comune: Pietro legge quel che il secondino gli passa, Benito si commuove alle risa dei bambini che giocano nel giardino confinante col carcere. La storia si è sedimentata nell’anima, pulsa, l’epica della giovinezza li lega ma ormai non è più né sangue né cuore. Semmai è un ricordo da mettere in naftalina, il maglione pesante di chi vive in riviera. Se hai sofferto nello stesso buco lo stesso dolore e marcisci in quel buco per un’idea, solo il tradimento recide il cordone. Ora le passioni confliggono, alle onde che sbattono sul litorale consegnano due visioni del mondo. Non c’è un testimone.

«Il tuo individualismo è sporco di sangue. Ignoro cosa diventerai, ma ricordo cos’eri. Ai giudici dicesti: “Se ci assolve te ci fate piacere, se ci condannate ci fate onore”. Preferirono farci onore. E ora, chi sei?»

«E l’Italia, dimmelo tu, che cos’è? Chi l’avrebbe salvata dai bolscevichi, dal burrone in cui si stava affacciando? Chi se non io?»

Si mitragliano con parole di fuoco, violente, definitive. Nenni non teme la differenza di età, non è affatto a disagio di fronte al capo politico. Ha tenuto in braccio sua figlia Edda, era di casa, lo ha perfino seguito nell’esperienza sansepolcrista. Benito ha rinnegato la causa, non solo, lo ha ingannato, è uno spergiuro. Mussolini è Caino.

«Di una cosa sono sicuro. Tutto quello che farai sarà bollato dal ferro rovente dell’arbitrio. Hai smarrito il sentimento più grande, Benito. Dov’è la giustizia che predicavi in Romagna?» La voce si altera. «Quando ho parlato di pace mi si è riso in faccia. Ho dovuto accettare la guerra.» «Falla finita! La pace che offri ai tuoi vecchi compagni comporta la rinuncia ai loro ideali. Loro non sono come te.»

Mussolini ha bisogno di tempo per allentare la morsa. Si slaccia il cappotto, sbottona il colletto della camicia, arranca, la strada si è incollata alle scarpe.

«Pietro, ma guardati intorno. Blateri di proletariato, di pace, ma dove vivi? Il secolo della democrazia è morto, l’entusiasmo per i miti sociali finito. La guerra ha liquidato il secolo delle maggioranze, della quantità.»

Nenni non molla, lo inchioda ai fatti. Basta con la filosofia.

«Ti sei venduto alla borghesia. Alle tue condizioni gli agrari patteggiano sì, e volentieri.»

«Li odio come te, gli agrari.»

«Ti pagano, tengono in vita le squadre fasciste. Rispondimi, perdio, rispondimi! Come fai a dimenticare i morti ammazzati? Sei cresciuto tra quei contadini…»

L’altro è alle corde. Si accende un toscano conficcando gli occhi nell’acqua. È solo un momento. Una rasoiata di luce sul volto scavato. Il tormento è scomparso.

«Torbidi di frontiera. Il mio regno è la politica, dovresti saperlo.»

«Come no… c’è qualcuno tra quei contadini, tra gli operai bastonati dalle camicie nere che è diventato socialista grazie a te. Eri tu il capo, e hai dimenticato anche questo. A Imola ti chiamavano duce.»

Mussolini si para di faccia all’amico, le mani sui fianchi. Sulla costa balugina il lume fioco di una barca di pescatori. Anche la luna si è spenta dietro un girovagare di nubi. Ora è pronto. La verità è una dura lezione di realismo politico.

Lo scambio è serrato sotto il lampione. I nottambuli ancora non sanno che nello sciabordio del mare di Cannes si legge il futuro.

«Bene, sono io il responsabile. La guerra civile è stata una tragica necessità. Lo Stato era andato a puttane. So che i morti pesano, eccome se pesano. Spesso penso al passato con malinconia…»

«… eri il loro idolo…»

«… Madonnimpestata, e alle centinaia di migliaia di morti della guerra tu invece non pensi? Anche questi vanno difesi. C’eri anche tu tra i volontari in caserma.»

«Già, ma io non ho mai tradito.»

Una risata di gola. Si fronteggiano senza sfiorarsi. Il guscio di una testuggine e occhi al confine con la tristezza.

«Nella vita non c’è posto per il sentimentalismo. Non siamo come le femmine. Tutte le passioni prima o poi si spengono.»

«No, tu le passioni le hai vendute a quelli che volevi impiccare con le loro budella.»

«Al di sopra delle classi c’è la nazione. Io servo l’Italia, Pietro, voi siete schiavi di Mosca» si incattivisce, toccato nel vivo.

«Io sto dalla parte degli ultimi. Finalmente sono arrivato nel posto da cui tu sei fuggito.»

Un gabbiano si posa su una panchina, sbatte le ali in un colpo di vento. Pietro inarca la schiena, si aggiusta gli occhiali. Le parole gli muoiono in gola. È troppo tardi per coricarsi. Dormire, e perché? Attardarsi sul campo di battaglia, e perché? La Croisette ha svelato l’enigma, non c’è più nulla da dire. Chi ha abdicato all’uso della ragione faccia la strada in compagnia dei suoi sensi di colpa, sedotto com’è dalla voracità di un insaziabile io. Chi ha tradito tradirà ancora se ha imboccato la via che ingrassa un’ambizione sfrenata. Attraversa il viale e digerisce l’addio sulla spiaggia. Sul viso una carezza di sale. Non si vedranno mai più. Riccardo Nencini

Le divergenze parallele di Mussolini e Bombacci. Il fondatore del fascismo e quello del Partito comunista d'Italia ebbero le stesse origini. E la stessa tragica fine. Roberto Chiarini, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Di Mussolini sappiamo molto e s'è scritto moltissimo. Di Bombacci sappiamo abbastanza e s'è scritto quanto basta, almeno per avere un'idea approssimativa del ruolo avuto da questo stravagante personaggio nella storia dell'Italia della prima metà del Novecento. Nessuno, fino a oggi, si era impegnato in un'analisi comparata dei due personaggi, nel considerare le scelte politiche e umane di due romagnoli doc, cogliendone gli incroci e gli scontri. Attraverso le loro biografie politiche è possibile illuminare una delle peculiarità (e dei paradossi ideologici) dell'Italia della prima metà del '900: il rigetto, condiviso da destra e da sinistra, della civiltà liberale. In un crescendo, a partire da inizio secolo e con una forza dirompente all'indomani della Grande guerra, l'idea di un progresso allargato alle classi popolari perde rapidamente credibilità fino a collassare. Crolla quella che lo storico marxista Eric Hobsbawm ha chiamato, dal titolo di un suo libro L'età del capitale: quel XIX secolo che aveva sancito il «trionfo della borghesia». L'ingresso delle masse in politica e il «contagio delle idee» di libertà e di uguaglianza sono il combinato disposto che mette fuori gioco, insieme, classi dirigenti, modello di società di mercato, democrazia parlamentare. L'Europa del dopoguerra diventa terreno di coltura ideale di progetti rivoluzionari e reazionari. Simmetricamente a destra e a sinistra crescono minoranze estremiste e violente, tra loro nemiche, ma - ecco il paradosso - promotrici concordi di un nuovo ordine i cui punti fermi sono il rifiuto della democrazia parlamentare e il superamento della società di mercato fondata sul profitto individuale. Su questo retroterra comune si sviluppano storie collettive parallele, volte entrambe a edificare regimi dittatoriali, il fascismo a destra e il comunismo a sinistra. Su questa stessa base si snodano anche storie individuali di giovani che nella loro esistenza abbracciano, in tempi diversi, opzioni opposte. Riprova, se ce n'era bisogno, che la matrice antidemocratica e anticapitalista era condivisa, e capace di produrre esiti di destra e di sinistra, indifferentemente. C'è un'intera generazione educata a «libro e moschetto» che negli anni Trenta s'infervora per la lotta alle democrazie capitalistiche nel nome del fascismo e a fine guerra s'infiamma per la stessa battaglia nel nome del comunismo. Sono i casi, esemplari e clamorosi, di Benito Mussolini e di Nicola Bombacci: il primo, da irruente propagandista di un socialismo rivoluzionario, diviene fautore di un ordine autoritario, ma sempre (velleitariamente) antiborghese. Il secondo, da esaltato apostolo del socialismo, tanto da diventare uno dei fondatori nel 1921 del Pcd'I, si ritrova transfuga dal partito di Bordiga e Gramsci, e infine fervente seguace del fascismo più oltranzista. Due storie parallele e insieme sovrapposte, quelle del «Lenin rosso» e del «Lenin nero», che vengono appassionatamente ricostruite da Alberto e Giancarlo Mazzuca in Mussolini-Bombacci. Compagni di una vita (Minerva, pagg. 372, euro 17). Mussolini e Bombacci sono figli della Romagna (Dovia di Predappio e Civitella distano trenta chilometri). Affrontano gli stessi percorsi educativi (allievi della Scuola Normale di Forlimpopoli) ed esistenziali nel segno di «una forte passionalità e veemenza in difesa delle loro opinioni». Le loro strade si separano allo scoppio della guerra mondiale. L'uno creerà una dittatura di destra, ammantata da socialismo nazionale. L'altro porterà alle estreme conseguenze il suo rivoluzionarismo antiborghese, provando a «fare come in Russia». Due storie parallele e antitetiche destinate, un ventennio dopo, a convergere in nome della comune avversione al comunismo stalinista e al «lurido tradimento» di Vittorio Emanuele III e di Badoglio. Tutto questo in nome - soprattutto - dell'edificazione di un nuovo ordine economico, fondato sulla socializzazione, sulla «gestione diretta delle imprese» da parte dei lavoratori, sul passaggio a una forma di comunismo (nel caso di Bombacci) che prevede l'esproprio di «tutta la proprietà edilizia destinata all'affitto», pagandola con titoli di Stato. La comune militanza giovanile nelle file del ribellismo antiborghese diventa la matrice che ricompone due scelte di vita alternative. La riconciliazione si completa sulle sponde del lago di Garda nei cupi giorni della Repubblica di Salò, quando ormai il sipario stava calando sull'ultima fase della dittatura fascista, e nel modo più tragico. Il «Lenin nero» e il «Lenin rosso» finiranno la loro esistenza l'uno a fianco all'altro, appesi al traliccio di Piazzale Loreto. Presagendo il destino, Bombacci stende un epitaffio in cui riannoda le radici lontane della loro esistenza alle scelte che avevano diviso le loro vite, ma che in quel tragico momento sembrano le sole a essere significative: «Un giorno gli storici si chiederanno, ma che ci faceva accanto a lui Bombacci, il fondatore del Partito comunista? Sai, diranno, erano romagnoli tutti e due Si volevano bene, erano stati a scuola insieme».

·        Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.

L’ultima illusione. Il sogno di Margherita Sarfatti di far alleare l’Italia fascista all’America. Gianni Scipione Rossi su L'Inkiesta il 2 Dicembre 2021. Stregata dal fascino di Roosevelt, nel 1934 la donna tenta, in via personale, una missione per avvicinare Roma e Washington, nella speranza di sottrarre l’Italia dall’influenza tedesca. Ma nonostante i buoni rapporti con il presidente statunitense, il suo viaggio fu un fiasco. Al di là della finalità dichiarata a posteriori, il viaggio americano della Sarfatti – pur motivato da una profonda curiosità intellettuale – ne assunse anche una politica. Vuole sondare la possibilità che la simpatia di Roosevelt per il fascismo possa evolversi in un rapporto politico e sottrarre l’Italia alla paventata alleanza con la Germania. È essenzialmente una sua idea, non il frutto di un incarico affidatogli nel quadro di quella diplomazia “parallela” e sotterranea che pure era nelle corde del “capo”. In questo senso il viaggio fu fallimentare. La simpatia di Roosevelt si fermava di fronte al carattere dittatoriale del fascismo. Tuttavia la Sarfatti prova a svolgere in proprio una missione di “avvicinamento”. Grazie ai rapporti amicali stretti già in Italia con il cugino del presidente, Theodore Roosevelt junior, Margherita viene ricevuta alla Casa Bianca con tutti gli onori, nel pomeriggio del 15 aprile. Come hanno ricostruito i suoi biografi americani, «alle cinque […] Margherita fu fatta accomodare. Entrò in un salotto e fu accolta dal presidente, da Eleanor Roosevelt, dal figlio James e dalla moglie. L’ambasciatore americano a Roma, Breckinridge Long, aveva scritto al presidente che Margherita era probabilmente “la donna meglio informata d’Italia”, una donna che conosceva intimamente il pensiero di Mussolini. Roosevelt si era perciò preparato al compito». Ma «i commenti di Eleanor sull’Italia non furono dei più diplomatici. […] sembra che la first lady facesse una serie di commenti imbarazzanti sulla natura del fascismo e della dittatura mussoliniana. Margherita fu sollevata quando il presidente, con grande tatto, rettificò le affermazioni della moglie e portò il discorso su altre questioni». Essenzialmente sugli strumenti economici adottati per superare la depressione.

La Sarfatti subisce il fascino di Roosevelt. E lo ricorderà, vent’anni dopo, in Acqua passata, ma – come vedremo – senza particolare entusiasmo.

Il sorriso – scrive per ora − è l’arma della sua cordialità pensosa. Alla tavola da tè, nella sua ristretta cerchia famigliare, ebbi l’impressione di una forza “gentile”, quietamente disciplinata, molto duttile, pronta a piegarsi senza frangersi, come temprato d’acciaio. Meglio, come l’acqua, che pare il più docile, ed è il più incompressibile fra gli elementi. Maravigliosa quantità e qualità di cose egli sa; coltura di gentiluomo, non superficiale, ma non aggressiva come la incivile coltura del pedante. Le nozioni e le idee, che ebbi il piacere di sentigli esporre con signorilità confidenziale mi apparvero improntate all’originale buon senso di chi ha molto studiato, molto veduto e ancor più riflettuto.

Non per caso, «l’America adora il suo “F.D.”, anche come malato che vince la malattia a forza di pluck, intrepida eleganza». In Acqua passata ricorderà: «Uscii dal lungo colloquio alla Casa Bianca come da un euforico bagno di fiducia, di speranze, di fede, e, sì, anche di carità. Ogni volta che poi lo vidi, Franklin Delano Roosevelt rinnovò in me quel benefico sortilegio».

Nonostante questo – e forse per il fallimento della sua iniziativa – la Sarfatti non manca di evidenziare quelli che considera i limiti e gli errori del New Deal, peraltro spiegabili anche con la mentalità americana, che ne ha impedito un’evoluzione in senso dittatoriale. In fondo il New Deal le appare come una imitazione timida, troppo prudente, del fascismo.

Wilson per via della guerra; Franklin Roosevelt per via della crisi, accrebbero con l’autorità della loro persona i poteri dittatoriali della carica. Oggi più che mai – riconosce − il processo continua, con le severe misure di polizia e di legge criminale unitaria, attuate dal Presidente perché i delinquenti non sfuggano alla rete della giustizia attraverso le maglie larghe delle frontiere, tra polizie autonome. E si estende al campo del denaro, tabù sin qui inviolabile della democrazia, della plutocrazia e dell’industria libera, attraverso il New-Deal di Roosevelt. L’economia programmata e accentrata nella N.R.A., il National Recovery Act, potere nuovo, degno di molta considerazione, se non altro come esperimento, sembrò morto. Ma Roosevelt con dolce ostinazione, e le circostanze con ferrea tenacia, gli risusciteranno un altro volto.

D’altra parte, «non vi è dubbio che molta forza del carattere americano è dovuta al frontierismo». «L’America è progressiva, espansiva, mobile e persino instabile; ma, se pur muta modi e lato, mantiene sempre volontà, fede e ottimismo indomabile di procedere oltre, sempre più innanzi». Ma – rileva la Sarfatti − «oggi la frontiera non esiste più, l’ottimismo è in ribasso». Nonostante Roosevelt, i segnali della crisi sono evidenti.

da “L’America di Margherita Sarfatti. L’ultima illusione”, di Gianni Scipione Rossi, Rubbettino, 2021, pagine 88, euro 14 

LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note Federico La Sala su lavocedifiore.org.

I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI. GRAMSCI: "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (1924). All’interno di uno straordinario articolo, scritto per celebrare Lenin (morto il 21 gennaio 1924), nella prima pagina dell’Ordine Nuovo del 1° marzo 1924, con il titolo “Capo” (ripreso, poi, nell’Unità del 6 novembre 1924 col titolo Lenin capo rivoluzionario), Antonio Gramsci - in contrapposizione - delinea con magistrale e storica lungimiranza i tratti essenziali del governo guidato dal “Duce”:   “Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso (...) Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Più di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff. Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia. (...) Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione più violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, più per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia...Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo” (Antonio Gramsci, Sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 223-229)

STORIA E STORIOGRAFIA: DE FELICE (1966). Renzo De Felice, nel capitolo quinto del volume della biografia del “Duce”, dedicato a “Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925” (Einaudi, Torino, 1966), scrivendo delle “prime esperienze di governo” del Duce, riprende e ricorda questo “noto articolo” di Gramsci e, pur apprezzandone la “lucida intuizione (al fondo della quale si sente l’antico socialista che aveva visto in Mussolini l’uomo nuovo del socialismo italiano e ne era rimasto deluso): Mussolini non era un «capo»” e pur esprimendo la giusta persuasione che questo giudizio “merita a nostro avviso di essere attentamente vagliato” (p. 464), mostra di essere assolutamente dimentico della nota iniziale dell’analisi gramsciana (“Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti”) e alla sua nota finale (“Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo”)! E, assunta a tutto solo una parte (“Mussolini [...] il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti”, p. 464) , così conclude:  “Detto questo ci pare ci si debba però guardare dall’accettare la tesi generale che sottende tutto l’articolo di Gramsci: che cioè Mussolini non fu un «capo» [...] Se si accettasse questa tesi generale si dovrebbe negare la qualità di vero «capo» non solo a Mussolini, ma - facciamo solo l’esempio più macroscopico - a Hitler, il che in sede storica sarebbe veramente un assurdo. La risposta alla domanda se Mussolini, come un qualsiasi altro uomo politico, sia stato o no un vero «capo» non può essere ricercata in banali formule e in facili sillogismi” (p. 464)!

DE FELICE (1975): IL MITO DELLA ROMANITA’ E L’AVVIO DI UNA “AUTOCRITICA”. Nel 1975, nell’intervista sul fascismo, De Felice (con alle spalle già gran parte della sua imponente costruzione biografica dedicata a Mussolini e al fascismo) ricorda che, nel 1961 (all’inizio del lavoro sistematico sulla figura del “Duce”), in occasione del lavoro per la “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” (Einaudi, 1961), ha avuto “la fortuna, più che altro sul piano della curiosità umana, di poter parlare a lungo - tutto un pomeriggio d’inverno - con Margherita Sarfatti, poco prima che morisse, in un appartamento d’albergo, in via Veneto a Roma”; e, al contempo, dichiara (e fa intendere in modo più che chiaro e forte) di non aver considerato a pieno o, meglio, di aver del tutto sottovalutato, relativamente al processo di conquista e di organizzazione del potere da parte di Mussolini, proprio il ruolo e la figura dell’autrice di “Dux”, la biografia ufficiale pubblicata con tale titolo nel 1926 (e già anticipata nel 1925, in una edizione londinese, con titolo “The life of Benito Mussolini”, con la prefazione dello stesso Mussolini):   “Da questa conversazione, attualmente, documentariamente, non ho cavato nulla. Mi è servita moltissimo, invece, per capire questa donna, per capire (...) il tipo di influenza che deve aver avuto per alcuni anni. Dopo quella conversazione mi sono chiesto, per esempio, quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità” (Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Bari, Laterza, 1975, pp. 12-13).

MARGHERITA SARFATTI (1880-1961), RENZO DE FELICE (1929-1996), E "LUCIFERO". Nel 1993, nella “Prefazione” del loro lavoro “Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce” (Mondadori, Milano), 1993), dedicato "a Renzo De Felice", Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan così scrivono:   “Abbiamo cominciato a scrivere questo libro per tentare di risolvere un mistero. In un piovoso pomeriggio di febbraio 1984 Philip Cannistraro raccontò a Brian Sullivan che forse le lettere di Benito Mussolini alla sua amante e confidente Margherita Sarfatti erano negli Stati Uniti. A rivelarglielo era stato l’anno precedente a Roma Renzo De Felice, il noto storico del fascismo italiano. (...) Seguendo gli indizi che ci fornì il professor De Felice, cominciammo le ricerche (...) Mentre eravamo alla ricerca delle lettere scomparse, scoprimmo Margherita Sarfatti. Come molte donne, Margherita era stata volutamente cancellata dalla storia. Mussolini non solo tentò di negarne il ruolo nella creazione del fascismo, ma dopo l’alleanza con Hitler non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una donna - un’ebrea - aveva contribuito quanto lui a costruire il regime fascista. Negli ultimi anni della dittatura ne fece una “non persona”. Lei, per salvar se stessa e la famiglia, si prestò al gioco. La conseguenza fu che ancora prima di morire, Margherita Sarfatti sparì nel nulla. A quei pochi che la ricordavano non sembrava altro che la protagonista della più lunga storia d’amore di Mussolini” (pp. 3-4). E nei “Ringraziamenti”, alla fine, gli Autori ancora precisano con chiarezza e forza: “Il professor Renzo De Felice, il maggior studioso del fascismo italiano, ci ha non solo suggerito l’argomento, ma ci ha ripetutamente dimostrato la sua simpatia e generosità fornendoci documenti, fonti e indicazioni preziose, e aprendoci, con la sua estesa rete di contatti, le porte degli archivi pubblici e privati. Il nostro debito nei suoi confronti è enorme” (p. 643). Nel 1993, De Felice - evidentemente molto segnato dall’incontro del 1961 - in una intervista con Stefano Folli (“La bella Margherita guardò Lucifero. Lì c’era scritto il destino di Benito”, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio 1993), ritorna ancora sul tema e fornisce ulteriori elementi relativi al “sogno” sarfattiano, del “rinato Sacro Romano Impero” (Gramsci), e della «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» (Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, la sera del 9 maggio 1936):  “Di Mussolini non parlava quasi mai negli ultimi anni della sua vita... Mi disse: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio». Il significato autobiografico era evidente. Lei si identificava in Livia. Come dire: finché lui è rimasto con me, io sapevo tenerlo sulla retta via (...) Conservò sempre un particolare riserbo (...) Quando la conobbi era già molto vecchia. Non molto ieratica ma certo una bella donna. Consapevole del suo passato. (...) Le idee guida della sua vita si erano trasformate quasi in ossessioni. La principale era la romanità. Cioè il senso delle forme classiche come motivo dominante della civiltà artistica (...)".

MARGHERITA SARFATTI E "IL CULTO DEL LITTORIO". E non ultimo, sempre nel 1993, Emilio Gentile, allievo di De Felice, presso Laterza, pubblica “Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista”. In questo lavoro, e in particolare in tutto il capitolo intitolato “I templi della fede” (pp.197-228), l’attenzione al ruolo e al contributo di Margherita Sarfatti comincia a essere portata al livello dovuto e a dare i suoi frutti, ai fini di una nuova e più profonda comprensione di come e quanto, “fin dai primi anni del fascismo al potere” - come scrive Gentile (p. 240) -, la “euforia per la «nuova Era» sbrigliò” non solo “la fantasia monumentalistica degli architetti”, ma la fantasia degli uomini e delle donne della gran parte della società italiana e delle sue Istituzioni (e non solo laiche, ma anche religiose)!

STORIOGRAFIA. Nel 2003, nella scia del lavoro di Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan e di Emilio Gentile, viene pubblicata la biografia di Simona Urso, “Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano” (Venezia, Marsilio, 2003): un lavoro fondamentale, per ripensare la figura di una protagonista della storia italiana e per ricominciare a riscrivere una più “felice” biografia sia di Mussolini sia del fascismo! Nel 2015, Rachele Ferrario,nella sua biografia “Margherita Sarfatti” (Mondadori, 2015), pur focalizzando maggiormente l’attenzione sull’aspetto di “regina dell’arte nell’Italia fascista”, riprende l’intervista di Stefano Folli e, così, continua e commenta:   “De Felice, che aveva colto la sensibilità di raffinato storico dell’arte della Sarfatti, vicino agli intellettuali europei - Focillon, Warburg, Le Corbusier -, era rimasto colpito dal racconto che Margherita aveva accompagnato con un gesto simbolico: «La ricordo benissimo nel vano della finestra aperta. Mi fece avvicinare e alzò un braccio esile, con un ditino lungo e un po’ arcuato. Per la precisione non indicò la luna, ma una stella. E con un tono concitato e allusivo sibilò: “Lucifero...”. Si riferiva, credo, alla stella del destino, che determina le azioni e la fine degli uomini» “(pp. 182-183).

MITO E STORIA: "LA STELLA DEL DESTINO" (1993). Delio Cantimori, nella prefazione al primo volume del lavoro di De Felice (“Mussolini il rivoluzionario 1883-1920”, Einaudi, Torino 1965), a solo quattro anni dall’incontro del suo allievo e amico con Margherita Sarfatti, già accennando alla “fine della carriera personale e individuale di Benito Mussolini” e all’ultimo volume di un’opera “così importante e di così ampio respiro” (p. XI), sottolinea la difficoltà del lavoro dello storico, richiama “la saga dei Nibelungi nella traduzione cinematografica di Fritz Lang, o, se si vuole, alcune pagine del vecchio Rovani”, e così prosegue: “[...] Nel giro della saga nibelungica Benito Mussolini era stato trascinato, durante gli ultimi anni della sua presenza sulla scena storica e politica, dal concatenarsi di eventi da lui in qualche modo presentiti [...] -Trascinato, in fin dei conti, e non sa da chi, né come: un uomo che cerca, - per usare un’immagine di De Felice, - e cammina seguendo una sua stella, - per usare un’immagine che fu attribuita a Mussolini -: la stella lo trae, - non si sa dove [...] ed osserviamo come ad un protagonista si addica non solo questo presentarsi quale uomo trascinato da questo o da quel «Fato» o «Destino», ma anche quel carattere generico e «classico» delle sue intuizioni politiche a lunga scadenza: propone e impone la direzione generale, e spesso vede o intravvede quel che c’è da fare in una situazione storica e in una data prospettiva, ma si lascia trainare dalla sua stella, non si occupa direttamente delle possibilità ed eventualità particolari” (p. XII).

PROBLEMA: "LUCIFERO!". Prima che a Stefano Folli, nell’intervista del 1993, del lungo incontro del 1961 con Margherita Sarfatti, a Philip V. Cannistraro (in un colloquio del 6 ottobre 1985) Renzo De Felice aveva già così raccontato: “[...] verso la fine della conversazione Margherita si alzò dalla sedia e andò alla finestra, che inquadrava la luna piena sullo sfondo del cielo scuro. Tornando verso il suo ospite, gli posò una mano ossuta sulla spalla. «Venga, venga, professore,» lo pregò. Quando con De Felice raggiunse la finestra, Margherita lentamente alzò il braccio sottile e con il dito lungo e ricurvo indicò la stella della sera ed esclamò: «Lucifero!»" (cfr. Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan, op.cit., p. 639). Con il suo tono sibilante o esclamativo, cosa Margherita Sarfatti avesse voluto indicare o significare con la evocazione di “Lucifero”, a De Felice non fu chiaro né quella fatidica sera, né nel 1985, e né nel 1993. Con il voler credere che ella si volesse riferire “alla stella del destino”, egli continuò a ingannare solo se stesso e - come era già avvenuto - il suo stesso maestro, Delio Cantimori! E, paradossalmente, finì col ripetere - nei confronti di Margherita Sarfatti - lo stesso gioco del «duce»!

«VENGA, VENGA, PROFESSORE»: LA “LEZIONE” DELLA SARFATTI. Dal resoconto del racconto (a e) di Cannistraro, si percepisce in modo chiaro quale sia stato il tono del colloquio: “Si incontrarono nelle stanze di Margherita all’Hotel Ambasciatori in una sera tetra, gelida, e parlarono per ore. Margherita non si offrì di mostrare documenti al giovane studioso, né gli fornì rivelazioni. Gli aprì però uno squarcio sulla propria influenza sulla politica culturale del fascismo parlando a lungo del classicismo, che negli anni del regime era stato per lei uno dei capisaldi della critica d’arte. Per definire, inoltre, il proprio ruolo accanto a Mussolini e le cause della sua caduta citò un episodio della storia romana: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio...» (op.cit., p. 639). Per De Felice, l’intervista concessa da Margherita, contrariamente a quanto forse all’inizio avrà pensato, alla fine si è risolta in una sorprendente lezione e, al contempo, in un vero e proprio trauma! Per lo storico che nel 1961 aveva già tutto impostato e “da poco cominciato lo studio sistematico di Mussolini e del regime fascista”, la “provocazione” della Sarfatti fu inaccoglibile - insopportabile! Nel 1965, infatti, fin dall’inizio del capitolo primo (“Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza”) del volume primo, con il titolo “Mussolini il rivoluzionario 1883-1920” (Einaudi, 1965), con una dichiarazione (carica di straordinaria “superficialità” e di “autoritario” sprezzo), nei confronti della Sarfatti e della sua biografia ( il “Dux” dell’edizione del 1932 alla 13 edizione - non del 1926, e senza alcun riferimento all’edizione inglese del 1925), così scrive (pp. 3-4): “I biografi di Mussolini, quelli che scrissero di lui dopo che egli era ormai divenuto il «duce» dell’Italia fascista, i Beltramelli [1923], le Sarfatti [1932], i De Begnac [1936], lo stesso Megaro [1947 (ed. inglese 1938)] - l’unico che per molti anni si sia posto di fronte alla figura di Mussolini non con l’animus dell’apologeta, ma neppure con quello del pamphlétaire, bensì con quello dello storico - hanno dato una grande importanza al fatto che egli sia nato e cresciuto in Romagna, alla sua «romagnolità»” (pp.3-4). Per De Felice, la reazione (o, meglio, la “negazione”) fu sì “naturale” (come se l’incontro non ci fosse mai stato, continuò “tranquillo” per la sua strada), ma noi, di "Lucifero!" - come della Romagna, di Mussolini, di Sarfatti, e dello stesso Fascismo - ovviamente, continuiamo a saper e a capire ancora ben poco!

L’ITALIA GIACOBINA, L’EFFETTO "LUCIFERO!" E “IL PREMIO NOBEL". All’incontro con Margherita Sarfatti, storica dell’arte, giornalista, scrittrice e intellettuale cosmopolita (e" ghostwriter del Duce", come hanno ben mostrato nel 1993 Cannistraro e Sullivan proprio sulle indicazioni di approfondimento dello stesso De Felice!), Renzo De Felice si era - per così dire! - preparato fin dall’inizio con il suo lavoro sul periodo della rivoluzione francese e dell’Italia giacobina, dalle tesi sulle "Correnti del pensiero politico nella prima repubblica romana" (1954), allo studio del "triennio giacobino in Italia (1796-1799)", alle ricerche "sugli illuminati e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)", all’evangelismo giacobino e altri studi. Nel saggio sulla "Opinione pubblica, propaganda e giornalismo politico nel 1796-1799", De Felice così scrive: "Ai giacobini italiani - in gran parte intellettuali e per il lungo esulato avulsi dalla vita e dal processo economico nazionale - mancò, oltre all’adesione delle masse e alla capacità di procurarsele, soprattutto una vera autonomia politico-sociale dal resto della borghesia. la loro grande forza fu una forza del tutto spirituale, psicologico-morale: fu la fede nella Rivoluzione e nella sua forza di rigenerazione. Nella loro azione è, da questo punto di vista, riscontrabile un che di religioso che inizia veramente il Risorgimento e inizia Mazzini. La loro grande debolezza fu di rimanere egemonizzati dal gradualismo della borghesia italiana del tempo" (cfr.: "I giornali giacobini italiani", a c. di R. De Felice, Milano 1962, p. 50). Se è vero, come è vero, che alla fine del suo percorso, "da molto, tempo, andava palesando la sua insoddisfazione per l’interpretazione del fascismo che aveva dato fino ad allora", sicuramente - e contrariamente a quanto ipotizza Emilio Gentile (“Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio”, Laterza, Bari 2003, p. 140) - "sarebbe tornato a studiare i «suoi» giacobini, come egli era solito ripetere con una certa civetteria", e avrebbe ripreso la sua strada in compagnia di Gramsci, proprio dal “Lucifero!” della Sarfatti (da tener presente: molto amica di Antonio Fogazzaro, convertita al cattolicesimo nel 1928), cioè, dal poeta dell’Inno a Satana, dal Carducci giacobino, a partire dalla nota sul racconto di Filippo Crispolti (giornalista, scrittore, e uomo politico, molto amico di Antonio Fogazzaro e cattolico favorevole alla collaborazione con il fascismo, in Parlamento fino agli ultimi anni della sua vita nel 1942 ): “Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti” (“Quaderni del carcere”, Torino 1975, I, p. 79)! Nel capitolo dedicato al libro della Sarfatti, "Dux", nel loro lavoro, Cannistraro e Sullivan, con grande acume hanno colto il filo di questo nodo: "Già nel 1919, al momento della fondazione del primo fascio, Margherita aveva insistito sul valore ideologico e propagandistico che avrebbe avuto l’associazione del fascismo con Roma imperiale. Margherita vagheggiava un capo che imponesse alla civiltà moderna un nuovo genere di cultura, una cultura che poggiasse sulle virtù romane dell’ordine e della disciplina. La concezione che Margherita aveva di Roma non derivava tanto dallo studio approfondito dei classici, quanto dalla letteratura italiana del tardo Ottocento, in particolare dal poeta Giosue Carducci"; e, brillantemente, cercano di chiudere il cerchio: "Una quarantina d’anni dopo uno studioso italiano [Renzo De Felice], intervistando Margherita, rimase colpito nel constatare quanto fosse ancora malata di romanità"(op.cit., pp. 337-338). “Carducci giacobino”: "Decapitaro, Emmanuel Kant, Oddio,/ Massimiliano Robespierre, il re" ("Versaglia. Nel LXXIX anniversario della Repubblica Francese", sulla "Plebe" di Lodi, 2 novembre 1871). Un tema carico di (storia e) teoria, su cui ricollegandosi al lavoro già di Gramsci in dialogo con Croce, Edoardo Sanguineti (anch’egli poco prima di morire, nel 2007) ha cercato ("Cultura e realtà", Milano, 2010, pp. 111-122) di chiarire con la sua straordinaria e viva intelligenza il "nodo epocale filosofico e politico", proprio per neutralizzare l’“effetto Lucifero” e, finalmente, uscire dall’inferno! Coraggiosamente: ha cercato, ha lottato, ma non è riuscito a venir fuori dal labirinto. La questione è filologica, certamente - ma non è solo storica: è filosofica, teologica, e antropologica - e bisogna scavare ancora nella direzione indicata da Gramsci (e Marx, e Feuerbach, e Kant: a riguardo, cfr., in particolare, le note su "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi"). E proseguire nel lavoro di De Felice - e dello stesso Sanguineti. Ricominciando, ovviamente, da "capo" - da Kant e Gramsci, dalla critica dell’ideologia dell’uomo supremo e del superuomo di appendice! Federico La Sala

Margherita Sarfatti, la musa del Duce e del Fascismo. Di Gino Salvi 29 Aprile 2020 su storiaverita.org. Chi era Margherita Sarfatti (Venezia, 8 aprile 1880 – Cavallasca, 30 ottobre 1961)? Come mai la sua figura è così poco conosciuta dal grande pubblico? La risposta è che la Sarfatti è stata volutamente cancellata dalla storia. Nonostante che fosse stata non soltanto l’amante ma anche il consigliere politico più fidato di Benito Mussolini, quest’ultimo, dopo l’alleanza con Hitler, non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una donna – un’ebrea – avesse contribuito quanto lui a creare il Fascismo. Perciò, fu una questione d’opportunità politica, insieme agli orrori della seconda guerra mondiale, al desiderio di gran parte degli italiani di dimenticare il passato fascista, all’imbarazzo della famiglia Sarfatti per il coinvolgimento personale e politico di Margherita con Mussolini a far sì che la memoria di questa donna venisse definitivamente seppellita. Invece, indagando nella vita e nella vicenda personale della Sarfatti si scopre che aveva esercitato un’influenza profonda su Mussolini e che molte delle sue idee avevano modellato il nascente movimento fascista e la sua ideologia. Margherita Grassini era venuta alla luce in un palazzo del Quattrocento, posto in quella parte di Venezia chiamata il Ghetto Vecchio. Era la quarta e ultima figlia di Emma Levi e Amedeo Grassini, due ebrei ricchi e colti della buona società veneziana. Margherita nel corso della sua vita professionale intensa, densa di impegni, è stata una giornalista, un critico d’arte e scrisse oltre una ventina di libri e migliaia di articoli. I Grassini, rispettando le consuetudini della loro classe, cercarono in tutti i modi di proteggere la figlia dal mondo esterno. Non le era concesso giocare con gli altri bambini del vicinato, né uscire dal giardino senza essere accompagnata. Perciò, a Margherita questo giardino, pervaso dal profumo dei ciliegi in fiore e dall’umida fragranza del canale lungo le Fondamenta della Misericordia, apparve come il paradiso terrestre. Uno dei punti di riferimento più importanti nei primi anni di vita di Margherita fu suo padre, Amedeo, il fulcro della famiglia e colui che fissava i principi a cui la famiglia doveva ispirarsi: il conservatorismo politico, il senso di responsabilità, la fede nell’autorità e nella religione. Margherita sbocciò in una adolescente straordinariamente bella, con lunghi capelli biondo rame e profondi occhi grigio – verde. Però la sua nota dominante era l’intelligenza. Come diceva Margherita stessa era “sempre stata una studentessa ma non sono mai andata a scuola”. Infatti, i primi passi della sua formazione intellettuale, Margherita li fece con la madre, Emma. La madre e l’istitutrice svizzera le insegnarono a leggere, a scrivere, a far di conto e i primi rudimenti del francese, dell’inglese e del tedesco. Insieme all’istitutrice, che era una donna dolce e affettuosa, passeggiava lungo gli angusti vicoli del Vecchio Ghetto, vedeva le case operaie umide, cadenti, popolate da sciami di bambini sporchi e di madri sempre incinte e cominciò a rendersi conto che altri erano meno fortunati di lei. Margherita, sempre in compagnia dell’istitutrice, visitava le innumerevoli chiese e i numerosi musei, gli edifici pubblici che esibivano i capolavori voluttuosi di Giorgione e Tintoretto. Ancora anni e anni dopo, le fantasie scintillanti dei mosaici bizantini, i marmi dalle ricche venature e i tetti di ceramica dei palazzi erano ancora vivissimi nel ricordo di Margherita che, come notò più di un suo ammiratore, sceglieva gioielli e abiti che ne sottolineavano la pienezza del corpo, gli occhi e i capelli, quasi a imitare volutamente Tiziano. Ogni estate la famiglia partiva per Conegliano, dove Margherita trascorreva momenti preziosi con i nonni materni, Dolcetta e Giuseppe Levi. Dolcetta, “piccola e grassa, come una palla”, aveva una personalità forte e lasciò in Margherita un segno profondo. La sua morte fu la prima vera tragedia nella vita della nipote, Margherita. In agosto, i Grassini lasciavano Conegliano per Bagni della Porretta, una nota stazione termale sull’Appennino, dove il padre asmatico di Margherita faceva le cure. Gli amici più cari qui erano i Marconi, e il figlio Guglielmo fu preso da passione per lei. Margherita non dimenticò mai le calde sere estive passate insieme sui colli, mentre Marconi le insegnava a riconoscere le stelle. La loro amicizia durò a lungo, anche quando Marconi, con l’invenzione della radio, divenne famoso in tutto il mondo. Nel 1894, Amedeo Grassini, decise di abbandonare il Ghetto Vecchio per stabilirsi in una casa che rispecchiasse meglio il prestigio crescente di cui godeva la sua famiglia. La nuova residenza era Palazzo Bembo, un edificio gotico, imponente massiccio, che si affacciava sul Canal Grande. Quando Margherita compì quattordici anni, i genitori decisero d’assecondare la sua sete di conoscenza tre tutori privati: Pietro Orsi, Pompeo Molmenti e Antonio Fradeletto. Orsi le spiegò che il progresso sociale e intellettuale era lo specchio della storia di una nazione almeno quanto lo erano le guerre e la politica: una lezione che Margherita non dimenticherà mai. Molmenti, invece, fece accostare Margherita all’idea che la pittura e la scultura rafforzano i valori civici. Mentre Antonio Fradeletto, segretario generale della Biennale, trasmise a Margherita, con la quale instaurò un rapporto intenso e vivacissimo, l’idea che lo spirito di collaborazione della società tradizionale si era infranto sotto l’impatto degli interessi egoistici di classe e l’eccessivo culto dell’individualismo che caratterizzavano il capitalismo moderno. Influenzato da Schopenhauer e Nietzsche, Fradeletto predicava la necessità di una volontà nazionale collettiva che ispirasse tutti gli italiani a cooperare alla grandezza del proprio paese. Prendendo a modello l’antica Roma, Fradeletto convinse Margherita che ogni forma d’arte veramente creativa nasceva da una cultura unificata, nella quale credenze, costumi e aspirazioni non fossero lacerati da dissensi e conflitti. Fu ancora Fradeletto a farle conoscere le opere di John Ruskin e, particolarmente, “Le sette lampade dell’architettura” in cui sosteneva che nelle chiese, nei palazzi, nelle case era iscritto il carattere nazionale di un popolo. Margherita collego il pensiero di Ruskin con l’idea di unità sociale di Fradeletto e concluse che l’arte poteva riformare lo spirito, la morale e la politica di un popolo. Dopo aver scoperto, a quindici anni, grazie al suo primo vero corteggiatore, un professore socialista di Firenze,il Capitale di Marx e le opere dell’anarchico russo Kropotkin, Margherita sposò, con rito civile, il 29 maggio 1898, l’avvocato Cesare Sarfatti. La coppia arrivò a Milano il 15 ottobre 1902, con i due figli, Roberto, nato nel maggio del 1900 e Amedeo Giosuè Percy nato il 24 giugno 1902. Nella città più tecnologica d’Italia, come la definiva il poeta Filippo Tommaso Marinetti, Margherita (che veniva chiamata la “Vergine rossa”, come Louise Michel che, nel 1871, aveva capeggiato l’insurrezione della Comune di Parigi) collaborava sia con “L’Unione Femminile” (ossia il giornale della Lega femminista milanese) che, dagli inizi del 1908, con l’”Avanti” (cioè il giornale ufficiale del Partito socialista). Il 22 gennaio 1909, Margherita partorì Fiammetta, la figlia che aveva sempre desiderato e, nello stesso anno, lei e Cesare si trasferirono dal modesto appartamento di via Brera in uno più grande e più elegante in corso Venezia. Margherita incontrò Benito Mussolini nel 1912, probabilmente, durante una delle sue rare apparizioni nel salotto di Anna Kuliscioff, che era la decana delle donne socialiste. Durante la crescente polemica tra riformisti e rivoluzionari che stava lacerando il Partito socialista, Mussolini militava tra gli estremisti e, nonostante il culto della violenza e l’indifferenza per l’arte, tra lui e Margherita un’attrazione profonda. Ciò porterà Margherita, che fino a quel momento non aveva preso posizione nelle dispute tra i fautori del parlamentarismo e quelli della rivoluzione armata, ad essere uno dei collaboratori principali di “Utopia”, apparsa il 22 novembre 1913, e che voleva essere la nuova rivista del socialismo rivoluzionario italiano. Dopo la pubblicazione, il 18 ottobre 1914, dell’articolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”, che segnò il passaggio di Mussolini nelle file degli interventisti nella prima guerra mondiale, e la sua successiva fuoriuscita dal Partito socialista, Margherita sostenne Mussolini. Pur, però, senza rompere, finora, apertamente con il socialismo. Nonostante che la sterzata interventista di Mussolini fosse stata accolta dai socialisti al grido di “traditore” è giusto dire che essa era propria di una visione politica socialista. E’ chiaro che il socialismo nazionale e popolare che permeava la scelta di Mussolini non aveva niente a che vedere con il socialismo marxista, internazionalista  e materialista, ossia con l’anima egemone nel Partito socialista. E’ vero che l’anima “nazionale” del socialismo è un filone minoritario all’interno del socialismo stesso. Però, si tratta di un filone che ebbe un ruolo non secondario nella storia politica italiana. Infatti, dopo la rottura del sindacalismo rivoluzionario nel 1908, con la fuoriuscita di Mussolini, questo socialismo “nazionale” emergeva prepotentemente nella storia politica del nostro Paese. Non ho usato a caso il verbo “emergere”. Perché questo socialismo, animato dal senso della nazione, attraversò proprio come un fiume carsico il fascismo (nonostante la confluenza dei nazionalisti, nel 1923, e la normalizzazione successiva alle “leggi fascistissime”, dopo il 1926, ossia i due momenti – chiave che sancirono il passaggio dal fascismo – movimento al fascismo – regime e che tesero a spostarne l’asse in senso conservatore) per riemergere, vigorosamente, con la Repubblica Sociale Italiana, dal 1943 al 1945. Sintetizzato, nella parte riguardante la proprietà privata, l’economia, il lavoro e la casa, nel “Manifesto di Verona”, emanato il 14 novembre 1943, e nel decreto sulla socializzazione delle imprese, del 12 febbraio 1944. E non soltanto questo, visto che secondo questo socialismo “nazionale, la prima guerra mondiale avrebbe segnato il coronamento del Risorgimento. Infatti, Giovanni Gentile (per il quale il fascismo era “la più perfetta forma del liberalismo e della democrazia in conformità alla dottrina mazziniana”) rivendicava la continuità del fascismo con il Risorgimento. Il fascismo rivendicava del Risorgimento il respiro della memoria storica, il primato italiano, la missione di Roma, il socialismo tricolore di Carlo Pisacane, l’unità mazziniana di pensiero e azione e, soprattutto, la forte identità nazionale. Infatti, Mazzini non era marxista e, anzi, aveva sconfessato la Comune di Parigi. Alla fine di questa digressione, possiamo affermare tranquillamente che la scelta interventista, in Mussolini, fu assolutamente coerente (tenendo sempre conto del fatto che, nel nostro Paese, la nascita delle ideologie politiche è sempre avvenuta nel segno dell’eresia e della sintesi) con la sua weltanschauung socialista e nazionale. Come non sorprende la scelta, altrettanto consapevole e conseguente, di Roberto Sarfatti, l’irrequieto e ribelle figlio di Margherita e di Cesare, di arruolarsi, a luglio del 1917, nel 6° Alpini, e di andare in quell’inferno che era la guerra di trincea. Roberto Sarfatti morì, colpito da una pallottola in pieno viso, nelle prime ore del 28 gennaio 1918, durante l’attacco, lungo il versante orientale del col d’Echele, per espugnare Quota 1039.  Margherita, nell’autunno del 1918, anche a  causa sia dell’acuto dolore dovuto alla morte di suo figlio, sia della profonda depressione di Cesare, si innamorò, appassionatamente e totalmente, di Mussolini. Così nacque, tra Margherita e Mussolini, un sodalizio sentimentale, politico e culturale. Un sodalizio che era, certamente, d’amore ma, anche e soprattutto, di condivisione delle idee e degli ideali.  Un sodalizio che portò Margherita a contribuire alla creazione del fascismo. Un fascismo che fu una rivoluzione conservatrice, cioè un regime, come lo ha acutamente definito Marcello Veneziani, “di partecipazione allargata e di decisione accentrata”, in cui confluivano, nietzscheanamente, “rivoluzione dall’alto” e, proudhonianamente, “rivoluzione dal basso”, il cui mito fondante era la Nazione. Comunque il sodalizio (che era assai più complesso d’una pura e semplice relazione e conteneva oltre ad una complicità profonda anche molti elementi di rivalità e di risentimento, come si evince anche dall’episodio del concerto del violinista Prihoda, che è stato riportato da Philip Cannistraro e Brian Sullivan) tra Mussolini e Margherita venne scandito da momenti culminanti come quando lei divenne la direttrice editoriale della rivista “Gerarchia”; quando fondò con il gallerista Lino Pesaro e gli artisti Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi, un gruppo artistico chiamato Novecento; quando scrisse una biografia di Mussolini, pubblicata in Italia, nel 1926, con il titolo “Dux”.  Dopo il 1932, per Margherita, arrivò il declino. Un declino che è stato dovuto sia alla fine del legame con Mussolini (e all’inizio di quello con Claretta Setacci), sia alle accuse di internazionalismo e bolscevismo che vennero scagliate da Roberto Farinacci contro il razionalismo del Novecento e, infine, alle leggi razziali. Dopo il declino, giunsero l’oblio, l’esilio e, il 30 ottobre 1961, la morte.

Bibliografia

“Margherita Sarfatti, l’altra donna del Duce”, Philip V. Cannistraro, Brian R. Sullivan, Mondatori, 1993.

“Margherita Sarfatti, dal mito del Dux al mito americano”, Simona Urso, Marsilio, 2003.

“Il fascismo nella sua epoca”, Ernst Nolte, Sugarco, 1993.

“La rivoluzione conservatrice in Italia”, Marcello Veneziani, Sugarco, 1987.

“La repubblica di Mussolini”, Giorgio Bocca, Mondatori, 1994.

“Né destra, né sinistra”, Zeev Sternhell, Baldini & Castaldi, 1997.

Una donna di potere nell’Italia fascista. Margherita Sarfatti. Anna Baldini su doppiozero.com il 28 ottobre 2018. Poco prima della fine del percorso espositivo della mostra dedicata a Margherita Sarfatti al Mart di Rovereto i curatori hanno esposto la gigantografia di una foto scattata alla Biennale di Venezia del 1930. Margherita Sarfatti è ritratta al centro dell’immagine, unica donna accanto a sei uomini. Di fotografie simili se ne trovano parecchie, sui tavoli documentari della mostra del MART come in quelli della mostra gemella al Museo del Novecento di Milano: foto di gruppo di comitati responsabili di mostre e manifestazioni culturali, ritratti istituzionali del sistema di gestione delle arti in Italia negli anni Venti e Trenta. Sarfatti vi appare regolarmente come la sola donna, e a ognuna di queste immagini si potrebbe accompagnare come didascalia una definizione tratta dall’incipit della biografia intellettuale che Simona Urso le ha dedicato: «l’unica donna, forse, cui nel periodo fascista fu permesso di avere peso politico e intellettuale pari a quello degli uomini». In effetti, solo cinque anni prima che fosse scattata quella fotografia alla Biennale, Sarfatti era stata la sola donna “parlante”, cioè invitata a tenere una relazione, al Convegno per le istituzioni fasciste di cultura di Bologna (29-30 marzo 1925): uno degli atti fondativi dell’organizzazione culturale fascista, dal quale sarebbe uscito il Manifesto di Gentile. In quel 1925 Sarfatti si trova all’apice del proprio potere culturale e politico. Le due mostre si occupano soprattutto del primo, dettagliando le fasi ascendente e discendente della sua influenza nel campo dell’arte, sia attraverso le opere degli artisti da lei fiancheggiati come critica e curatrice di mostre (oltre che come acquirente e mediatrice di acquisti per collezioni pubbliche e private), sia attraverso un ricchissimo apparato documentario proveniente dagli archivi di cui le due istituzioni sono depositarie (il Fondo Sarfatti, che insieme a una parte della sua biblioteca privata è conservato all’Archivio del ’900 del Mart, e il Fondo «Archivi del Novecento», conservato al Museo del Novecento di Milano). Sarfatti è la prima «critica d’arte donna» italiana (come recita la scheda informativa nella sala «Artisti allo specchio» della mostra del Mart): la ricostruzione dettagliata della sua traiettoria biografica è pertanto di estremo interesse, come lo sono tutte le vicende di rottura del “tetto di cristallo” che impedisce l’accesso al vertice delle gerarchie sociali ai dominati per genere, etnia o scarsità di capitali economici e culturali. E si tratta per di più di una donna che riesce a conquistarsi e a conservare potere per circa un decennio in un contesto all’apparenza ben poco favorevole: gli anni dell’ascesa e consolidamento del fascismo, un regime tutt’altro che disposto a concedere spazio alle donne al di fuori del loro ruolo tradizionale di vestali del focolare domestico. Quali sono le condizioni che permettono questa rottura del tetto di cristallo? Quali sono le “doti”, i “capitali” sociali che consentono a Sarfatti di occupare ruoli e posizioni ancora mai occupati da una donna? Innanzitutto, un notevole capitale economico e culturale: nata a Venezia da una ricca famiglia ebraica, i Grassini, in ottime relazioni con l’amministrazione e il patriarcato cittadini, Sarfatti riceve un’istruzione eccezionale per una ragazza della sua epoca. Grazie a una serie di governanti e istitutori privati (tra i quali il fondatore della Biennale di Venezia, Antonio Fredeletto) parla, legge e scrive inglese, francese e tedesco, e riceve una formazione letteraria, filosofica e artistica aggiornata ed estranea ai canoni e agli habitus mentali delle istituzioni scolastiche. Sposatasi diciottenne con un avvocato socialista, Cesare Sarfatti, di cui condivide la fede politica – anche se per entrambi si tratta di una scelta dettata più dall’ambizione che da un’effettiva condivisione dell’interpretazione marxista della società – si trasferisce nel 1902 a Milano, capitale del socialismo italiano, la città più pienamente moderna d’Italia, trampolino di lancio, di lì a pochi anni, del futurismo di Marinetti. Milano è la base su cui Sarfatti costruisce un capitale suo proprio, dopo quelli culturale ed economico ereditati dalla famiglia: un capitale di relazioni sociali che affonda le radici sia nel mondo dell’arte e della letteratura, sia nella politica – socialismo turatiano ed emancipazionismo femminile prima, socialismo mussoliniano, interventismo e fascismo poi. Al centro di questa rete di relazioni che da Turati Kuliscioff e Majno (presidente della Lega Femminile) si espande progressivamente a Notari (scrittore scandaloso ed editore intraprendente) Marinetti Boccioni e Mussolini, sta il salotto di Margherita, aperto ogni mercoledì dal 1909 in avanti: uno dei «più rinomati e frequentati» di Milano, secondo il giornalista Adolfo Franci, autore nel ’22 di un viaggio in Italia alla scoperta dei centri letterari e artistici della penisola. «La signora Sarfatti s’intende un po’ di tutto – le donne son terribili quando s’intendono di tutto –: pittura e scultura, critica e poesia. Possiede – dicono – una bella raccolta di quadri moderni, è valorosa scrittrice, delicata poetessa, traduttrice geniale e molte altre cose ancora. Per giunta ha tenuto a battesimo tutti i giovani promettenti. Nella sua casa ospitale si può sorseggiare una tazza di tè quasi caldo con crostini quasi imburrati e conoscere le più chiare personalità del mondo politico, letterario e artistico milanese» (A. Franci, Il servitore di piazza, Vallecchi, Firenze 1922, pp. 120-121). La descrizione di Franci, sotto il paternalismo e una punta di misoginia contro le intellettuali (e forse già di antisemitismo, nell’allusione alla tirchieria della padrona di casa), ci lascia intravedere il soft power dell’istituzione salotto, che all’inizio del ’900 già da più di due secoli è lo strumento con cui le donne della nobiltà e dell’alta borghesia – le dominate della classe dominante – si sono ricavate spazio e potere nel mondo delle arti, della cultura e della politica. Per Sarfatti, però, il salotto non è un punto d’arrivo ma di partenza, per accedere a posizioni intellettuali più moderne e istituzionalmente riconosciute: la critica d’arte e di letteratura sui quotidiani (dapprima su quelli più provinciali della sua città d’origine, poi su «L’Avanti!» e «Il Popolo d’Italia»); la cura di mostre, di cui firma l’introduzione ai cataloghi; la partecipazione a comitati organizzativi e giurie di premi d’arte in Italia e all’estero. Sarfatti incarna però soprattutto la figura moderna del critico d’arte che promuove e fiancheggia – e in larga misura crea – un movimento artistico: il «Novecento», dal 1926 «Novecento Italiano». Nel corso degli anni Dieci Sarfatti aveva avuto stretti contatti con i futuristi, pur manifestando una diffidenza per gli esiti più estremi delle avanguardie: in un articolo del 1913 aveva parlato, a proposito del cubismo, di un’arte destinata a rimanere senza pubblico in quanto «senza freni e senza misura nel desiderio incomposto del nuovo» (cit. in A. Negri, Margherita Sarfatti e Milano 1902-1923. Alcune osservazioni, nel catalogo unico delle due mostre). Negli anni dell’immediato dopoguerra, perciò, forte del capitale acquisito in relazioni sociali e legittimità intellettuale, e del capitale politico che le deriva dal legame amoroso e intellettuale con un Mussolini divenuto Presidente del Consiglio, Sarfatti si lancia nell’impresa di promuovere un proprio movimento artistico, legandolo al nome di sette pittori attivi a Milano – tra i quali il maggiore è, a suo parere, Mario Sironi – e inquadrandolo in quel “ritorno all’ordine” che caratterizza l’intero panorama artistico postbellico europeo. A contendere la primazia al Novecento di Sarfatti nel campo dell’arte, e, in particolare, nel campo dell’arte più prossima al nuovo potere politico, ci sono altri gruppi, altri movimenti – come quello, similmente orientato al “ritorno all’ordine”, ma non per questo meno antagonistico nei confronti di Novecento, radunato intorno alla rivista «Valori plastici» (1918-22) e che ha in Carrà il proprio leader; o i futuristi di Marinetti, forti anch’essi di un notevole capitale politico che deriva al movimento dall’interventismo, dai numerosi artisti caduti e feriti in guerra, dalla prossimità all’impresa fiumana e al sansepolcrismo; o infine i “toscani” supportati da riviste come «Il Selvaggio» e «L’Italiano» e raccolti intorno ad Ardengo Soffici, “rinsavito” dall’avanguardismo degli anni Dieci e fascista della prima ora. Il conflitto che negli anni Venti divampa per l’egemonia nel campo delle arti è ben inquadrato dai due biografi statunitensi di Sarfatti, Philip V. Cannistraro e Brian Sullivan: «Alla metà degli anni Venti Marinetti, Ojetti e Margherita erano i leader delle tre principali correnti artistiche del tempo, in competizione fra loro per affermarsi e conquistarsi il riconoscimento del Partito fascista. Quando il Novecento di Margherita cominciò ad assumere un’aura ufficiale, la seconda generazione di futuristi marinettiani si pone come una sorta di “opposizione di sinistra”, mentre Ojetti divenne il portatore dei classicisti accademici, ossia dell’“opposizione di destra”». Sebbene Mussolini partecipi, tenendo anche un discorso, alle prime due mostre di Novecento e Novecento Italiano nel 1923 e nel 1926, già alla Biennale di Venezia del 1924 Ojetti sottrae a Sarfatti uno dei sette pittori originari del gruppo, Ubaldo Oppi, che ottiene una propria sala personale con catalogo curato da Ojetti, mentre la sala dove espongono i «Sei pittori del Novecento» viene aspramente criticata, tanto che il gruppo finirà per sciogliersi nei mesi successivi. Sarfatti cambia allora strategia, allargando l’etichetta di «Novecento» (divenuto «Novecento Italiano») a comprendere un centinaio di artisti che espongono in due mostre alla Permanente di Milano nel 1926 e nel 1929 – tra questi, anche Carrà e Soffici, o altri pittori estranei al circuito sarfattiano come Casorati. Nel comitato d’onore di «Novecento italiano», oltre a Mussolini come Presidente, compaiono anche Marinetti e Ojetti, che, secondo Cannistraro e Sullivan, «avevano aderito al comitato, con riluttanza, per ragioni di opportunismo politico», mentre «Margherita li voleva nel suo gruppo per via di quella sua ambizione a diventare l’“impresario” indiscusso della cultura artistica italiana» (p. 345). La strategia non risulta però vincente. Per l’opposizione dei suoi rivali – tra cui sta acquistando potere il pittore Cipriano Efisio Oppo – Sarfatti non riesce a tenere a Roma, come avrebbe desiderato, la seconda mostra di «Novecento Italiano» del 1929; in quello stesso anno, Mussolini ripudia la connessione, suggerita a più riprese da Sarfatti, tra fascismo e Novecento. Mart, Sala «Da Dux a Acqua passata». Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti, Roma, 9 luglio 1929: «Gentile Signora, […] Questo vostro tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco!». Privata di legittimità in Italia, Sarfatti concentra le sue energie sull’organizzazione di mostre di arte italiana all’estero, ma non per questo cessano le campagne contro di lei, che fin al 1928-29, all’epoca dei primi rigurgiti di antisemitismo in concomitanza con i Patti Lateranensi, avevano cominciato a sottolinearne le origini ebraiche. Dopo la lettera di Mussolini del ’29, gli atti di ripudio e di esclusione si moltiplicano: nel 1932 non viene invitata all’inaugurazione della Mostra del Decennale della Rivoluzione fascista, le viene impedito di continuare a scrivere sul «Popolo d’Italia», le viene sottratto il controllo dell’organizzazione delle mostre di arte italiana all’estero; nel 1933 viene estromessa dal comitato organizzativo della Triennale di Milano; nel 1934 viene sostituita dal figlio di Mussolini Vito nella direzione di «Gerarchia», il mensile ufficiale del regime di cui era stata direttrice responsabile – ma in realtà vera direttrice –  fin dal 1922. Nel 1938 verranno le leggi razziali, che la spingeranno a lasciare l’Italia per Parigi e il Sudamerica, dove rimarrà fino al 1947. I germi della parabola discendente del potere culturale e politico di Sarfatti sono, quasi paradossalmente, contenuti nei presupposti che le avevano consentito di occupare posizioni di potere fin’allora impensabili per una donna. Come scrive Urso, Sarfatti «commette […] l’errore di non comprendere che in una società di massa il rituale va governato da istituzioni, non da singoli individui illuminati, sopravvalutando così il proprio ruolo» (Urso, cit., p. 14). Il percorso di Sarfatti, in altre parole, essendo costruito a partire da privilegi eccezionali, fondato su un indubbio merito personale ma estraneo ai percorsi legittimanti delle istituzioni scolastiche e culturali, era difficilmente compatibile con un contesto radicalmente mutato all’inizio degli anni Trenta, quando il sistema espositivo e del mercato d’arte italiano si struttura in una rigida gerarchia fondata sui Sindacati artistici e diretta da uno dei suoi nemici, Cipriano Efisio Oppo. È significativo che negli stessi anni in cui si svolge la parabola discendente di Sarfatti si avvii un altro percorso di “rottura del tetto di cristallo”, quello di Palma Bucarelli, di una generazione più giovane, prima direttrice donna di un museo italiano, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. A differenza di quella di Sarfatti, la traiettoria di Bucarelli è completamente interna alle istituzioni: dopo una laurea regolarmente conseguita, Bucarelli entra come funzionario nella burocrazia statale delle arti grazie a un concorso pubblico. Proprio a Bucarelli toccherà il compito di liquidare ufficialmente il «Novecento», con la stesura della voce dedicata nell’Enciclopedia italiana (1934): «in breve perfino la parola Novecento divenne anacronistica per essere caduta nella spicciola moda commerciale, così che si ebbero i tappeti novecento, i caffè novecento, i mobili novecento». Ma quanto ha contato, nella perdita d’influenza di Sarfatti, la fine della sua relazione con il capo del governo Mussolini, che i biografi collocano tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta? Di questa relazione, cominciata poco prima o durante la prima guerra mondiale, di questo rapporto che costituisce uno degli elementi chiave del soft power di Sarfatti, ho appena accennato, seguendo, in questo, la linea adottata dai curatori delle due mostre, che ne parlano pochissimo: nella mostra milanese ne rende conto soltanto la cronologia posta all’inizio del percorso espositivo; in quella di Rovereto si parla di un «legame intimo» con Mussolini soltanto nella scheda informativa presente nella sala «Da Dux a Acqua passata». Benché finora abbia seguito i curatori delle due mostre, non sono convinta che il passar quasi sotto silenzio un elemento biografico così importante renda un buon servizio alla ricostruzione della figura storica e del ruolo culturale di Sarfatti. È vero che, come scrive un’altra delle sue biografe, Rachele Ferrario, in un intervento pubblicato in catalogo, «è tempo di rileggere la sua figura di intellettuale che inizia il suo proprio percorso ben prima di affiancarsi a Mussolini» (p. 34) – è importante, insomma, far uscire Sarfatti dal cono d’ombra di Mussolini. Ma è anche vero che sminuire l’importanza della relazione tra i due comporta il rischio di non mettere in giusto rilievo il fondamentale ruolo svolto da Sarfatti nella genesi del fascismo, la sua funzione di «assistente modesta ma appassionata del nostro capo», come afferma lei stessa in un’intervista all’NBC del 1934. L’influenza politica di Sarfatti su Mussolini è importante sia a livello ideologico, e questo fin dagli anni Dieci (già nel 1913 Sarfatti condivide con Mussolini l’impianto della rivista «Utopia»), sia nella costruzione della mitologia mussoliniana in Italia e all’estero con la redazione della biografia Dux (pubblicata a Londra nel 1925, in Italia da Mondadori nel 1926), la cura dell’ufficio stampa estera della presidenza del consiglio, la redazione come ghost writer degli articoli firmati da Mussolini per i periodici statunitensi di Hearst. Le stesse mostre all’estero sono da leggere all’interno di un programma di «colonialismo estetico» e di legittimazione fuori dai confini del regime mussoliniano. Ad annebbiare, nelle due mostre, la relazione amorosa tra Sarfatti e Mussolini, non è tanto, credo, la discrezione nei confronti di un gossip, quanto una difficoltà maggiore. È possibile portare all’attenzione del pubblico contemporaneo un personaggio così fondamentale nella storia delle arti e nella storia delle donne, e insieme così implicato con il regime fascista? È necessario nascondere l’eccezionale importanza di una donna nella genesi del fascismo, per poterne riproporre la figura ai visitatori di una mostra nel 2018? Le risposte a queste domande non sono facili – anche quando, come fa il direttore del Mart Gianfranco Maraniello nella sua pagina d’introduzione al catalogo, si affermi decisamente che «le istituzioni museali in Italia hanno oggi il compito di mettere in prospettiva tali eventi e, soprattutto, le opere che ne sono testimonianza e opportunità per non proseguire nella più frequentemente adottata censoria latenza che, forse, ha significato anche diffusa incapacità di elaborazione del trauma» (p. 19). Un’affermazione così netta è però preceduta da una premessa che sembra deresponsabilizzare la protagonista dei due percorsi espositivi: «Come una falena che ha corteggiato pericolosamente il fuoco, il rapporto al fascismo e la vicinanza a Benito Mussolini sono stati – per usare un suo stesso titolo – la “colpa” che le ha però garantito di esercitare i propri talenti e di rimanere al centro della scena politica e culturale del Paese in un’epoca dove difficilmente si è potuto distinguere una dimensione dall’altra». Sarfatti la falena, Mussolini il fuoco. Non siamo ancora pronti – e pronte – per pensare che il fuoco, sotto certi aspetti, abbia potuto anche essere lei? 

Per saperne di più

Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo, a cura di D. Ferrari, con la collaborazione di I. Cimonetti e Archivio del ‘900, Mart, Rovereto, 22 settembre 2018-24 febbraio 2019

Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano, Museo del Novecento, Milano, a cura di A.M. Montaldo, D. Giacon, con la collaborazione di A. Negri, 21 settembre 2018-24 febbraio 2019

Il Catalogo unico per le due mostre, a cura di D. Ferrari D. Giacon, A.M. Montaldo, con la collaborazione di A. Negri, è edito da Electa, Milano 2018

Simona Urso, Margherita Sarfatti: dal mito del «Dux» al mito americano, Marsilio, Venezia 2003

P.V. Cannistraro, B. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Mondadori, Milano 1993, p. 345

Margherita Sarfatti: una donna affascinante, colta e intelligente che “inventò” Mussolini.  Da best5.it. il 20 marzo 2021. Margherita Sarfatti non era un gerarca e nemmeno un uomo, ma senza questa donna affascinante, colta e intelligente, forse il provinciale Benito Mussolini non sarebbe mai riuscito a conquistare il potere, diventando per vent’anni il Duce degli italiani. Margherita era nata a Venezia l’8 aprile 1880, dalla ricca famiglia ebrea dei Grassini. Caduta nell’oblio per decenni, la sua figura di raffinata intellettuale è stata ripescata di recente. Se non si fosse compromessa con il fascismo, Margherita Sarfatti sarebbe stata probabilmente una delle donne più ammirate e importanti del XX secolo, forse addirittura un’icona del moderno femminismo. Rimase invece nell’immaginario collettivo come l’amante ebrea di Mussolini, doppiamente tradita per un’altra donna e un’altra ideologia. Ma chi era veramente Margherita Sarfatti, questa donna affascinante, colta e intelligente? Scopriamolo insieme.

1. L’incontro fatale con Mussolini. Margherita era nata a Venezia l’8 aprile 1880, dalla ricca famiglia ebrea dei Grassini. La sua infanzia e la sua adolescenza trascorsero in un clima sereno e culturalmente assai vivace. Nel 1898 sposò l’avvocato Cesare Sarfatti e nel 1902 la coppia decise di lasciare Venezia per Milano, dove giunse alla metà di ottobre. Qui i due iniziarono a frequentare assiduamente gli ambienti socialisti, incontrandosi con Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Grazie a loro conobbero un’altra coppia di spicco nel panorama culturale milanese, l’avvocato Luigi Majno e la moglie Ersilia Bronzini, presidentessa della Lega femminista fondata nel 1888 dalla stessa Kuliscioff, con cui Margherita iniziò a collaborare attivamente. Nel 1908 i coniugi Sarfatti si trasferirono in un lussuoso appartamento di corso Venezia, dove Margherita aprì un salotto destinato ad accogliere in breve tempo i più bei nomi dell’arte italiana. Nel 1909 la coppia acquistò una residenza di campagna a Cavallasca, tra Como e la Svizzera, già appartenuta alla nobile famiglia degli Imbonati. Margherita la chiamò “Il Soldo”, facendone la casa di vacanza e una sorta di dépendance del suo salotto cittadino. Nel frattempo, il suo amore per l’arte si stava trasformando in professione: ormai scriveva regolarmente per l’«Avanti! della domenica», il supplemento settimanale del quotidiano socialista. Nello stesso periodo conobbe Umberto Boccioni, più giovane di lei di un paio d’anni, con il quale ebbe una fugace relazione. Ben presto il salotto milanese di Margherita divenne il centro del Futurismo italiano, nato nel 1909 e consolidatosi poi nel 1910. I pittori dell’avanguardia facevano la spola tra la casa dei Sarfatti e quella di Filippo Tommaso Marinetti, sempre in corso Venezia, e in quegli anni di straordinario fermento artistico Margherita entrò in contatto con i migliori intellettuali dell’epoca. Si arrivò così al 1912, l’anno fatale: a gennaio Anna Kuliscioff fondò il quindicinale «La difesa delle lavoratrici», e Margherita fece il suo ingresso nella redazione. In luglio, a Reggio Emilia si tenne in via straordinaria il XIII congresso socialista, motivato dalle divisioni che attraversavano il partito in seguito alla controversa Guerra di Libia, scoppiata nel settembre del 1911. Il congresso si concluse con la vittoria della corrente massimalista e l’espulsione dei riformisti, invocata a gran voce da un giovane socialista che si stava imponendo sulla scena italiana: Benito Mussolini, che a ottobre assunse la direzione dell’“Avanti!”. Il 1° dicembre s’insediò a Milano e Margherita, appartenente alla corrente turatiana riformista uscita perdente dal congresso, si presentò alla sede del giornale per dare le dimissioni. Benché il contesto non fosse ideale, tra i due nacque un’immediata simpatia, che non tardò a diventare una passione travolgente. La relazione, benché tempestosa, si sarebbe protratta per vent’anni, in un sodalizio sentimentale e politico che avrebbe impresso una svolta decisiva al destino di Mussolini e dell’Italia. Nel 1914, l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e della moglie Sofia a Sarajevo scatenò la Prima guerra mondiale, travolgendo con un drammatico effetto domino le potenze europee. L’Italia non entrò subito in guerra al fianco degli Imperi centrali, come prevedeva il patto della Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria; il Paese si spaccò tra neutralisti e interventisti, e Mussolini fu protagonista di un clamoroso cambio di casacca, passando dal neutralismo socialista all’interventismo sbandierato dai nazionalisti. Nel novembre di quell’anno Mussolini, lasciata la direzione dell’”Avanti!”, fondò un nuovo quotidiano, “Il popolo d’Italia”. Con lui, anche due donne: la sindacalista Maria Rygier e l’ormai inseparabile Margherita. Interventista convinta, la Sarfatti dovette toccare con mano la cruda realtà della guerra: nel gennaio del 1918 cadde il suo primogenito Roberto, di appena 18 anni. Il 15 dicembre 1917, sul “Popolo d’Italia” Mussolini aveva pubblicato un articolo intitolato Trincerocrazia, in cui sosteneva l’esistenza di una nuova aristocrazia, che «muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di “presa di possesso” delle posizioni sociali. È un travaglio oscuro, intenso, di elaborazione, che ricorda quello della borghesia francese di prima dell’89... Questa enorme massa — cosciente di ciò che ha fatto — produrrà inevitabilmente degli spostamenti di equilibrio. Il rude e sanguinoso tirocinio delle trincee significherà qualche cosa. Vorrà dire più coraggio, più fede, più tenacia». E fu con coraggio, con fede e con tenacia che Margherita scelse di restare al fianco di Mussolini, negli anni decisivi del dopoguerra.

2. “O marci o muori”. Il 23 marzo 1919 era in piazza San Sepolcro, a Milano, alla fondazione dei Fasci di combattimento, e nell’ottobre del 1922 fu al Soldo che si decise la Marcia su Roma. Nei giorni precedenti, mentre gli squadristi di Balbo e Farinacci erano in agitazione, Mussolini si riservava ancora di decidere il da farsi. Tanto che il 26 ottobre, mentre le camicie nere si apprestavano a convergere sulla capitale, si recò al teatro Dal Verme, a Milano, per la prima del Lohengrin di Wagner. Fece lo stesso anche la sera dopo, presentandosi al teatro Manzoni, dove si rappresentava un dramma di Molnár, Il cigno. A metà del secondo atto Luigi Freddi, giovane redattore del “Popolo d’Italia”, lo avvisò che a Cremona gli squadristi, con un anticipo di qualche ora sui piani, avevano «occupato il telefono, il telegrafo, la posta, la prefettura e altre sedi governative», mentre già si registravano una decina di vittime. Alla sede del giornale si preparavano le barricate, mentre partivano gli autocarri con le copie del manifesto, pronto segretamente da giorni, che la mattina seguente sarebbe stato affisso in tutta Italia. Al Manzoni, quella sera, c’era anche Margherita, alla quale Mussolini si rivolse invitandola a rifugiarsi al Soldo in attesa degli eventi, per passare in Svizzera nel caso in cui l’impresa fosse fallita. Al Soldo i due ci andarono davvero e fu lì che Margherita, si dice, convinse Mussolini a rompere gli indugi: «O marci o muori, ma so che marcerai». Il 28 ottobre Roma fu invasa dalle camicie nere guidate dai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi. Mussolini aveva lasciato il Soldo all’alba per recarsi a Milano. La sera stessa, dopo essere stato a teatro con la moglie Rachele e la figlia Edda, tornò alla redazione del “Popolo d’Italia”, presidiata in armi, dove trovò Margherita, che gli consigliò di accettare l’offerta, avanzata dal ministro Antonio Salandra, di entrare nel governo. Mussolini, però, prese tempo, e nella tarda mattinata del 29 ricevette una telefonata del generale Cittadini, che a nome del re lo incaricava di procedere alla formazione di un nuovo governo. Accortamente, la Sarfatti gli suggerì di farsi mandare un telegramma, temendo che la telefonata potesse essere soltanto un trucco per attirarlo a Roma. Il telegramma arrivò nel giro di venti minuti, e in serata Mussolini partì per la capitale. Vi giunse il giorno seguente, e il 31 ottobre giurò, come capo del governo e insieme ai suoi ministri, davanti al re. Il “Popolo d’Italia” titolava: «Mussolini riconsacra l’Italia di Vittorio Veneto, creandole un governo degno dei suoi immancabili destini». Da quel momento, Margherita entrò a pieno titolo nell’entourage di Mussolini, impegnata a riempire il fascismo di contenuti culturali. Nella foto sotto, Sarfatti ospite al Kulturbund di Vienna, dove parla dello stile di vita del 20esimo sec. sotto Mussolini – tra il pubblico anche A. Mahler e F. Werfel.

3. La donna del duce. Nel marzo del 1923, per il quarto anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, organizzò la prima esposizione del gruppo Novecento, fondato nel 1922 e composto da pittori e scultori fra i più validi del periodo: Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi. Se la guerra non se li fosse portati via prematuramente, tra loro ci sarebbero stati anche Umberto Boccioni e Antonio Sant’Elia, caduti rispettivamente nell’agosto e nell’ottobre del 1916. La mostra si propose come modello esemplare di “arte fascista”, che dispiacque ad alcuni artisti: gli stessi che qualche anno dopo, quando Mussolini si sarà imposto saldamente alla guida del Paese, faranno carte false per aggregarsi al gruppo, attratti dai vantaggi materiali e morali garantiti dal regime. Il 1924 fu un anno durissimo: nonostante il dolore per la morte del marito Cesare, avvenuta a gennaio, Margherita riuscì a restare accanto a Mussolini, invischiato nel tragico scandalo del delitto Matteotti. Ma le cose stavano per cambiare radicalmente. Nel 1923 Giuseppe Prezzolini, il fondatore della rivista «La Voce», era stato invitato a tenere un corso estivo presso la Columbia University di New York. Di ritorno in Italia, disse alla Sarfatti che sarebbe stata una buona idea scrivere un lavoro in inglese per illustrare oltre oceano la figura del nuovo primo ministro italiano. Lei seguì il suo consiglio, e cominciò a scrivere la biografia di Mussolini. Il libro, intitolato semplicemente The Life of Benito Mussolini, “La vita di Benito Mussolini”, uscì in Inghilterra nel settembre del 1925. L’anno seguente venne pubblicato in Italia dalla Mondadori con il titolo, assai più dirompente, Dux. Fu un successo strepitoso: diciassette ristampe in Italia, traduzione in diciotto lingue (compreso il turco), 300 mila copie vendute in Giappone. Margherita Sarfatti divenne per tutti “la donna del Duce”, compagna, consigliera e ispiratrice dell’uomo che teneva in pugno le sorti della nazione. Nel 1928 si trasferì definitivamente a Roma, stabilendosi non lontano da Villa Torlonia, residenza ufficiale di Mussolini e della sua famiglia, ma la sua stagione di ninfa Egeria del fascismo stava ormai per terminare. Non era soltanto il rapporto tra Benito e Margherita a essere cambiato, ma il clima generale del regime, sempre più orientato verso una retorica “imperiale” che la Sarfatti non condivideva e dalla quale mise in guardia più volte Mussolini, inutilmente.

4. La Petacci e le leggi razziali. Nel 1932 fu lui a imprimere una brusca svolta alla loro relazione, allontanandola dal “Popolo d’Italia”. Margherita approdò al quotidiano torinese “La Stampa”, dove pubblicò il suo primo articolo il 23 marzo. Un mese dopo ebbe luogo il fatale incontro di Mussolini con Claretta Petacci, e la Sarfatti lentamente uscì sia dalla vita sentimentale del Duce sia da quella politica del Paese. Ormai Mussolini non aveva più bisogno di lei, né come amante né come partner politica. Anzi, il carattere forte e l’indipendenza di giudizio di Margherita ne facevano una potenziale avversaria, e il Duce non poteva certo permettersi di tenersi accanto chi avrebbe potuto rivoltarglisi contro. Contraria all’imperialismo colonialista e alla guerra d’Etiopia, Margherita si recò diverse volte negli Stati Uniti cercando invano di aprire un canale tra Roosevelt e Mussolini. Le “inique sanzioni” del 1935 segnarono l’ineluttabile avvicinamento del fascismo alla Germania hitleriana, sancito dal viaggio di Hitler in Italia del maggio 1936. Nel settembre del 1938, le leggi razziali varate dal fascismo, scopertosi antisemita, decretarono la disgrazia definitiva della Sarfatti, che a novembre lasciò l’Italia per stabilirsi a Parigi e nel 1939 si trasferì a Montevideo, in Paraguay, risparmiandosi gli orrori della guerra (e verosimilmente la tragica fine toccata invece alla Petacci). Rientrò in patria nel 1947, nel disinteresse generale. Nel 1955 pubblicò Acqua passata, un libro di memorie in cui prendeva in qualche modo le distanze dal lungo periodo trascorso al fianco di Mussolini. Morì a Cavallasca, dove si era ritirata, il 30 ottobre 1961. Caduta nell’oblio per decenni, la sua figura di raffinata intellettuale è stata ripescata di recente: se non si fosse compromessa con il fascismo, Margherita Sarfatti sarebbe stata probabilmente una delle donne più ammirate e importanti del XX secolo, forse addirittura un’icona del moderno femminismo. Rimase invece nell’immaginario collettivo come l’amante ebrea di Mussolini, doppiamente tradita per un’altra donna e un’altra ideologia. Dopo la disfatta del fascismo, Margherita Sarfatti negò di aver mai pronunciato la frase «O marci o muori: ma so che marcerai». In realtà l’aveva detta Marinetti e l’aveva ripresa D’Annunzio, ma non è improbabile che potesse averla ripetuta anche lei. Pur sostenendo, in seguito, di non aver mai ricoperto un ruolo centrale nella fatale decisione presa da Mussolini, non rinnegò mai le proprie scelte: «Già nel 1919, immediatamente dopo la Prima guerra mondiale, l’Italia si avviava alla dittatura. Di un tipo o di un altro ma sarebbe stata una dittatura. Noi italiani abbiamo combattuto disperatamente contro questa sorte, ma era una lotta impari in cui il destino ci riservava un pessimo mazzo di carte. Avevamo solo due scelte possibili: anarchia immediata e sanguinosa con tutti gli orrori della guerra civile o la nascita di un governo forte in grado di cogliere ogni opportunità di trasformarsi in dittatura. Ancora oggi non credo che la maggioranza delle persone avessero torto quando istintivamente scelsero la seconda possibilità».

5. Quando il socialismo faceva cultura. L’«Avanti! della domenica» fu il prestigioso supplemento settimanale al quotidiano socialista “Avanti!”, che uscì dal 1903 al 1907. Sotto la direzione dell’intraprendente Vittorio Piva, morto ad appena 32 anni proprio nel 1907, la rivista fu la testimonianza più vivace del dibattito tra le due anime del socialismo di inizio secolo, il riformismo e il massimalismo. Piva riuscì nell’intento, apparentemente impossibile, di far dialogare le due correnti dando vita a un’esperienza culturale straordinaria, alla quale parteciparono gli intellettuali più brillanti dell’epoca: alcune copertine, per esempio, erano firmate da Umberto Boccioni e Mario Sironi, che di lì a poco sarebbero diventati esponenti di spicco del Futurismo. Sulle pagine del supplemento, nato in antitesi alle testate “borghesi” «La Domenica del Corriere» e «La Tribuna illustrata», scrissero, insieme a Margherita Sarfatti, anche Edmondo De Amicis, Guelfo Civinini (che fu librettista per Giacomo Puccini), Goffredo Bellonci, Tommaso Monicelli (padre del futuro regista Mario) e Gabriele D’Annunzio. La prematura scomparsa di Piva segnò la fine del supplemento, che non uscì più. Fece una breve ricomparsa nel 1912 e fu poi rifondato nel 1998 come organo dei Socialisti Democratici Italiani (Sdi), cessando definitivamente le pubblicazioni nel 2006. La relazione tra Mussolini e la Sarfatti fu sempre appassionata, nel bene e nel male. Gelosissima, Margherita giunse al punto di far scontare a Benito le sue numerose infedeltà infliggendogli una cocente umiliazione. Era il 1919, e il maestro Arturo Toscanini aveva da poco scoperto un giovane violinista ceco dallo straordinario talento, Váša Píhoda. La Sarfatti non si lasciò sfuggire l’occasione di invitare il musicista nel suo salotto di corso Venezia, organizzando un’esibizione privata per pochi fortunati. Tra i convenuti, naturalmente, c’era anche Mussolini. La performance di Píhoda entusiasmò tutti, ma cessati gli applausi Margherita annunciò che quella sera anche un altro violinista si sarebbe esibito: Benito Mussolini. Il quale sapeva suonare il violino e conosceva bene anche la musica, se è vero, come testimonia la stessa Sarfatti, che in sua presenza aveva letto a impronta uno spartito di Vivaldi, ma certamente non poteva reggere il confronto con il talentuoso ceco. Mussolini si schermì, ma non ci fu niente da fare: dovette suonare anche lui, nell’imbarazzo generale, e subito dopo abbandonare in tutta fretta casa Sarfatti adducendo improbabili scuse. La vendetta di Margherita si era consumata.

Margherita S., la donna che creò Mussolini. Pierre-Henry Salfati LA 1, giovedì 11 maggio, su rsi.ch. Margherita Sarfatti, “l’altra donna del Duce” ha avuto un’influenza molto grande nei confronti di Benito Mussolini ma è stata quasi dimenticata dalla storia. Nata nel 1880 da una ricca e nota famiglia ebrea, crebbe a Venezia, in un palazzo del XV secolo sul Canal Grande, palazzo Bembo, a pochi passi dal vecchio ghetto. Suo padre le offre i migliori precettori di Venezia; Margherita si nutre di letteratura, di storia dell’arte e di filosofia, conosce Fogazzaro e Gabriele d’Annunzio ma sarà attirata da altre idee meno classiche e conformiste. Margherita si trasforma ben presto una socialista militante e diventa uno dei membri più influenti del partito. È una femminista ante-litteram e il suo salotto milanese, intorno agli anni venti, è frequentato da intellettuali, compositori e scrittori. Da quando conosce Mussolini, nel 1912, ne diventa l’amante e la sua più stretta collaboratrice. Nel 1918 è redattrice de Il popolo d’Italia, quotidiano fondato e diretto dal futuro dittatore e nel 1925 scrive una delle prime biografie agiografiche, intitolata DUX. Per Mussolini, Margherita è la sua ombra, il suo pigmalione, l’autrice dei suoi discorsi, il suo fantasma. Lei gli resta vicino per vent’anni, sacrifica la sua vita per lui, ma è abbastanza consapevole da fuggire dall’Italia prima di diventarne una vittima.

Il Lario e la musa di Benito Mussolini: la storia di Margherita Sarfatti. Marco Guggiari  il 10 Settembre 2019 su corrieredicomo.it. Benito Mussolini dovette principalmente a lei la decisiva legittimazione di leader nel capoluogo lombardo. Grazie a Margherita Sarfatti e al suo salotto borghese di corso Venezia, il capo del fascismo fu “svezzato” e reso accettabile alla Milano “bene”. I due divennero amanti nel 1913 e il loro rapporto, travolgente e burrascoso, costellato di reciproci tradimenti, proseguì anche quando il duce prese la guida del governo. Margherita è stata definita un’anticipatrice del fascismo, ma di un fascismo borghese nel quale lei vagheggiava una rivolta etica e individuale. Vi aderì speranzosa di creare uno stile nazionale nell’arte e nella letteratura, i campi dei suoi principali interessi. La vicenda privilegiata e drammatica di questa donna nata nel 1880 in uno splendido palazzo del Quattrocento nel Ghetto Vecchio di Venezia, si intreccia con il territorio comasco, dove visse a lungo, morì e dove riposano le sue spoglie. “Il Soldo”, la dimora di campagna di Cavallasca, acquistata nel 1909 assieme al marito, fu sempre il rifugio sicuro di Margherita Sarfatti, il luogo a lei più caro. «Senza lussi, ma comoda, grande e tranquilla»: così la padrona di casa amava definire quell’edificio rustico a due piani, con persiane verdi e l’esterno in stucco rosso. Piazzato in cima alla collina, godeva di una vista invidiabile. Era impreziosito da un giardino rigoglioso di fiori e alberi da frutta, con il pozzo ombreggiato da un lauro, mentre all’interno travi irregolari a vista sul soffitto e mobili che profumavano di legno davano all’ambiente un gradevole tocco di calore. Adriana Turconi, di Cavallasca, ricorda che il nonno, Pietro fu custode al “Soldo” e racconta che quando Margherita Sarfatti arrivò volle eliminare ogni recinzione, a parte il muretto che dava sulla strada provinciale: «Prima c’era filo spinato ovunque. Lei disse: “Non ho comprato una prigione”». Quando Pietro morì, nel 1953, Margherita scrisse una lettera di suo pugno alla moglie Lucia. Un passaggio dice: «Pietro è andato a raccogliere il premio di tutte le sue opere buone e virtuose». Maria, la mamma di Adriana Turconi, aiutò nella cucina della villa. A proposito dei soggiorni del duce, disse alla figlia: «Arrivava a bordo di un’Alfa scoperta. Quando era in visita ufficiale, davanti al cancello era schierata la milizia». Al Soldo fu progettata la marcia su Roma; qui Mussolini si ritirò quando sembrava che re Vittorio Emanuele III avrebbe firmato lo stato d’assedio. La scrittrice e critica d’arte, dal canto suo, trascorreva al “Soldo” le vacanze ogni anno, da luglio a ottobre, eccezion fatta per il periodo dell’esilio che durò dal 1938 al 1947. Qui ricevette grandi personalità. Tra i tanti, gli scrittori Luigi Pirandello e Riccardo Bacchelli e lo scultore Medardo Rosso. E dopo il suo definitivo rientro in Italia, visse ininterrottamente a Cavallasca fino all’ultimo giorno: il 29 ottobre 1961, quando spirò nel sonno nella casa «ch’era un piccolo tempio dell’arte – scrisse in un articolo non firmato “La Provincia”, diretta all’epoca da Luigi Pozzoli – le pareti adorne di quadri preziosi dei più illustri pittori, da Picasso a Matisse, a Ronalt, a Cocteau, a Sironi, a Carrà, a Chagalle, dove si raccoglievano scrittori insigni e personalità del mondo letterario; e Margherita Sarfatti teneva il filo della conversazione, amabile e animatrice, sui più vari temi e sui più impegnativi interrogativi della storia e dell’arte (…)». Lo stesso giornale pubblicò in terza pagina, il 31 ottobre 1961, l’ultimo scritto della scomparsa, inedito e consegnato alla scrittrice comasca Carla Porta Musa, che le aveva fatto visita poche ore prima dell’improvvisa dipartita. Titolo: «Ma sono scoperte?». Oggetto: l’humour nelle declinazioni tipiche e diverse di vari popoli. Quella capacità di sorridere che, secondo l’articolo, era ormai carente negli scrittori, tutti presi da un “io” straripante. Eccone lo stralcio conclusivo, coerentemente improntato proprio a humour: «(…) Aspetto che qualcuno rida di me e delle mie favolose scoperte, o perché false ed errate, o perché note ed arcinotissime. E quando qualcosa di ciò mi verrà dimostrato, mi divertirò e riderò io pure di gusto, grazie a quel senso di humour, che è forma di umiltà, o almeno di modestia. Frattanto, mi pavoneggio con le mie forse false penne di pavone». Margherita Sarfatti collaborò anche alla storica rivista “Como”, allora diretta da Carla Porta Musa, che ha più volte raccontato l’ultimo sereno incontro, in nulla presago di quanto sarebbe accaduto, preceduto da un’affettuosa e perentoria telefonata: «Ti aspetto domani. Domani, hai capito? Non mi tradire. Vieni. Parto lunedì e desidero salutarti». La regina del “Soldo”, ricorda la sua amica, aveva una voce fresca, che non lasciava prevedere di certo quel repentino passaggio, aveva una energia, un entusiasmo, una voglia di scrivere ancora molto intensa. «Domani parto – ribadì all’ospite – ma sono soddisfatta. Ho scritto tre articoli in questi ultimi giorni. E non credere che non abbia ancora molte cose da dire: continuerò a Roma». La conversazione scivolò sul matrimonio. «Muoio col pentimento di non essermi risposata – disse Margherita a Carla Porta Musa – Perché il compagno di tutt’i giorni e di tutte le ore è il marito. Naturalmente dev’essere una persona educata». La stessa Sarfatti, poco tempo prima, aveva confidato alla nipote Magalì: «Gli unici due uomini che ho amato sono stati tuo nonno e Mussolini». Porta Musa concluse così la cronaca di quel pomeriggio: «L’ultimo giorno Margherita Sarfatti aveva dunque scritto, conversato, letto, pagato tutt’i conti – com’era solita fare ogni anno da cinquant’anni – alla vigilia della partenza. Aveva aiutato a preparare le valigie, riposto nelle varie buste i soldi, i gioielli, le carte, i libri (…) Si era coricata verso mezzanotte; in ginocchio sul letto aveva come ogni sera detto le preghiere; si era fatta portare un tè di tiglio, poi aveva spento la luce. La mattina dopo quando la cameriera era entrata in camera per aprire le persiane, l’aveva chiamata. Come al solito, poi più insistentemente del solito. Si era avvicinata al letto. Margherita era morta. Portava sempre con sé, da moltissimi anni, raccolte in un grosso volume le opere di Dante che consultava incessantemente. (Sapeva e recitava Dante a memoria). Coincidenza strana: ad ogni suo dubbio, perplessità, curiosità, trovava sempre nella pagina che apriva a caso, la risposta o il consiglio o l’insegnamento adatti. Vi sono in quel volume – consumato dal tempo, ma soprattutto dall’uso – parecchie annotazioni di Margherita. Le prime risalgono al 1925. L’ultima è delle ore 0,50 dell’8 aprile 1961 (il giorno del suo ottantunesimo compleanno). L’ho ricopiata – la mano un po’ mi tremava – col consenso di Fiammetta (la figlia di Margherita, ndr.): “Sì come pomo maturo dispicca dal suo ramo. Aristotele dice senza tristezza è la morte che è nella vecchiezza. Chiaro dunque che non vedrò il prossimo venturo 8 aprile 1962. Ma grazie a Dio dice che non soffrirò. Amen e così sia”». Margherita era la quarta, ultima e viziatissima figlia di Amedeo Grassini ed Emma Levi, una coppia di ebrei della buona società veneziana. La famiglia era ricca e prediligeva la cultura. Dal Ghetto passò alla “Casa Bembo”, un palazzo gotico sul Canal Grande dove fu installato il primo ascensore della città lagunare. Amedeo Grassini era ingegnere e fondò il sistema di trasporto dei vaporetti a Venezia. L’ultimogenita era intelligente e vivace. Stimolata dall’ambiente in cui viveva, andava regolarmente a concerti e all’opera nel palco paterno della Fenice. Divorava romanzi. Incontrava le numerose persone colte e raffinate che andavano e venivano per casa. Nel suo libro autobiografico “Acqua passata” scriverà di essersi ispirata fin da bambina, non per curiosità, né per snobismo alla vocazione di «collezionista di celebrità». Ebbe un tutore, Antonio Fradeletto, critico teatrale e brillante conferenziere. Appena quindicenne, ma già bellissima, un professore di mezza età si innamorò di lei. Lo spasimante era socialista e aprì a Margherita un mondo affascinante di idee nuove. La giovane le fece proprie e ben presto, nella Venezia di fine secolo, fu ribattezzata la “vergine rossa”. Dopo uno spettacolo alla Fenice, l’incontro con l’avvocato Cesare Sarfatti, un lontano parente di idee repubblicane, fece scoccare la scintilla dell’amore. Amedeo Grassini si oppose duramente a quella frequentazione, ma quando Margherita compì diciotto anni dovette rassegnarsi alle nozze, che furono celebrate soltanto con rito civile. Cesare continuava a non essere gradito alla famiglia della sposa a causa delle sue attività socialiste, condivise da Margherita che si batteva anche per la causa femminista e iniziava a scrivere critiche d’arte su “l’Avanti” e su altri giornali. Nacquero i primi figli, Roberto (1900) e Amedeo (1902) e i Sarfatti lasciarono la splendida, ma “provinciale” Venezia per Milano, moderna capitale dei socialisti. Dapprima abitarono in un modesto appartamento di via Brera. poi si trasferirono in corso Venezia. Qui, nel 1909, Margherita ebbe Fiammetta, la figlia sempre desiderata. Si scontrò ripetutamente con Anna Kuliscioff, compagna di Filippo Turati e il socialismo stesso fatto persona, che non mancava di rinfacciare alla nuova arrivata i suoi soldi e il suo attaccamento alle comodità borghesi. La svolta decisiva, nella vita della Sarfatti, venne con la conquista della direzione de “l’Avanti” da parte di Benito Mussolini. Tra i due nacque immediatamente un feeling, che si tramutò ben presto in passione reciproca. Margherita, con il suo corpo giovane e grandi occhi luminosi, alta, bionda, era definita dallo scrittore Nino Podenzani «una bellezza trionfante». Non furono però solo anni di felicità. Il 28 gennaio 1918, Roberto, il figlio di Margherita, morì in guerra appena 17enne in cima al Col d’Echele, sull’altopiano di Asiago, trafitto da una pallottola austriaca. Nel 1935, dopo il ritrovamento del corpo, la mamma volle in sua memoria un monumento, che lei chiamerà “il caro segno”, disegnato dall’architetto razionalista comasco Giuseppe Terragni. Pur devastata dal dolore, colei che era ormai un critico d’arte tra i più importanti d’Italia, continuò il suo rapporto con l’astro nascente della politica. Lo seguì anche nell’avventura del fascismo. Convinta che la cultura fosse un cemento di coesione sociale, vi intravide la possibilità di realizzare un sogno: riportare la grandezza nell’arte italiana, creando uno stile nazionale. A riprova della predilezione per l’ambito artistico, tentò di aiutare giovani di talento. Affittò dall’industriale Carlo Ravasi una villa a Rovenna, sopra Cernobbio, e la mise a disposizione di coloro che erano un tempo appartenuti al movimento futurista. Vi lavorarono per mesi Achille Funi, Arturo Martini e altri. Ogni sera dal 1919 al 1922, dopo aver chiuso il “Popolo d’Italia” di cui era direttore, Benito Mussolini incontrava Margherita in corso Venezia, vicino a casa Sarfatti. Quando l’amante divenne capo del governo, la sua musa toccò il cielo con un dito: ne influenzò sempre più il giudizio, guidò l’esperienza della rivista di teoria politica “Gerarchia”, scrisse la biografia “Dux”, che sarà poi tradotta in diciannove lingue. Il libro, uscito per la prima volta nel 1925, fu ristampato fino al 1982 e rese celebre la Sarfatti anche all’estero. Animò la “I Mostra del Novecento italiano”. Organizzò le interviste del presidente del Consiglio con la stampa estera, firmò articoli lusinghieri sul suo conto per giornali americani ed europei, gli riferì regolarmente i commenti dei giornali milanesi sulle principali questioni. Un inviato americano, che accostò entrambi, osservò: «Lui si beava del proprio potere. Lei, riconosciuta dai suoi luogotenenti come l’ispiratrice, si crogiolava nel riflesso della sua gloria, soddisfatta al pensiero di essere stata di stimolo a un superuomo e convinta dentro di sé che lui fosse in parte una sua creatura». La coppia clandestina comunicava attraverso messaggi cifrati, privi di saluti e firme. Il primo incontro a Roma costrinse il capo del governo a sgattaiolare di nascosto nell’albergo di Margherita e ciò mise in allarme i servizi segreti. Di ritorno da un viaggio a Londra, dov’era stato ricevuto da re Giorgio V, Mussolini giunse in treno a Milano e si recò in auto al “Soldo”. Ma non furono soltanto rose e fiori. Gli impegni di Stato portarono il primo ministro a trascurare Margherita, che però doveva essere sempre a sua disposizione. «La delusione di lei e la possessività di lui – hanno chiosato gli studiosi Philip V. Cannistraro e Brian R. Sullivan – furono spesso motivi di furiosi litigi». Rabbia, rimorsi e rinnovati slanci amorosi si alternavano, rinnovandosi. Quando Mussolini si convinse a prendere una casa a Roma, i bisticci tra i due giungevano alle orecchie della servitù e proseguivano in francese anche in presenza di estranei. Il duce la tradì ripetutamente e, sia pure in minima parte, fu ricambiato con la stessa moneta da colei che, nel frattempo, era rimasta vedova: l’avvocato Cesare Sarfatti era morto di peritonite. Vennero gli anni più cupi. Le leggi razziali non risparmiarono Margherita, che nel 1938 passò in Svizzera dal valico di Pedrinate. A Chiasso prese il treno per Basilea e, da lì, per l’esilio parigino. Tornò in Italia nel 1947, poi andò in Sudamerica, prima del definitivo rientro. Margherita Sarfatti riposa per sua precisa volontà nel cimitero di Cavallasca. La ricordano una lapide e la maschera ricalcata da una scultura di Adolfo Wildt, allegoria della “Vittoria”, che guarda verso il “Soldo”. Il buen retiro fu aperto al pubblico per un giorno, domenica 18 settembre 2011, nell’anno del 50° della morte di Margherita. In una tesi di laurea sulla figura della defunta, Simona Urso scrive: «Attraversò gli anni del riformismo turatiano, l’interventismo e il fascismo, mantenendo viva la propria immagine di donna pubblica e di intellettuale. Fuse mondanità, intellettualismo e compromissione con il regime: fu esemplare perché raccolse in sé le virtù della donna di cultura non provinciale e i vizi della intellighentia di regime, di cui fu un deciso intellettuale organico».

Margherita Sarfatti, la regina dell’arte che ha vissuto all’ombra del fascismo per amore. Comunemente ricordata come l'amante di Mussolini, Margherita Sarfatti è stata in realtà molto di più. Da dilei.it il 7 Ottobre 2020. Ci sono donne che hanno lasciato il segno, pur restando apparentemente nella penombra degli uomini e delle storie di vita che hanno vissuto. È questo il caso di Margherita Sarfatti. Conosciuta per essere stata la compagna di Benito Mussolini, in realtà Margherita è stata molto altro. La prima donna in Europa a occuparsi di critica d’arte, a lei il merito di creare e pianificare una politica culturale nei confronti di un Paese che l’ha poi rinnegata. Una storia la sua, degna di essere raccontata, per tutta quella passione che ha segnato una vicenda umana non priva di contrasti e vicissitudini, prima fra tutte, quella storia d’amore travolgente avuta proprio con Mussolini. Margherita era una donna ricca ed elegante, dotata di una grande intelligenza e competenza, ma comunemente ricordata come l’amante ebrea di Mussolini. Nonostante le sue origini, infatti, negli anni ’10 la donna inizia questa relazione, contribuendo alla definizione delle politiche fasciste fino a quando, con la svolta delle leggi razziali, andò via dall’Italia. Una contraddizione che si ripercuote, inevitabilmente, anche nel suo ruolo nella società: combatte contro la discriminazione sessista scrivendo e finanziando periodici femminili, ma non rinuncia al lusso e ai privilegi della casta, complice quell’amore inspiegabile nei confronti dell’uomo guida, come lei stessa definiva il suo amante. Sposati entrambi, Mussolini e Margherita si conoscono a Milano condividendo le posizioni socialiste dalle quali poi si allontanano. Morto il marito nel 1924, il ruolo di Margherita accanto al Duce è più saldo che mai, nonostante gli alti e i bassi che caratterizzano la relazione. Benito mio, mio adorato. È la mattina del 1 gennaio 1923. Voglio scrivere questa data per la prima volta in un foglio diretto a te, come una consacrazione e una dedicatoria. Benito mio adorato. Sono, sarò, sempre, per sempre tutta, di più tua. Tua. Innamorata di quell’uomo e del suo carisma, Margherita partecipa attivamente alla fondazione del fascismo, oltre a sostenere economicamente e moralmente la propaganda. La Sarfatti, infatti, è autrice di Dux, la biografia mussoliniana con cui “il capo” viene presentato ai governi stranieri. Descrive il suo uomo come vitale e spregiudicato, aggressivo e folle, l’incarnazione dello spirito italico. Il libro di Margherita, negli Usa è un successo. Sono orgogliosa di te, questo; ma per quello che sei, non per quello che appari. Sono orgogliosa di te sino al fanatismo e sino alla pazzia, ma per il tuo valore intrinseco, non per il feticismo che di te ha la folla. Ma il rapporto con il suo amante entra in piena crisi, soprattutto a causa del clima antisemita che Mussolini accoglie, passando da un’iniziale tolleranza allo sposalizio col modello nazista. Così Margherita gli dice addio, per salvare la sua vita e quella dei suoi figli nati dal precedente matrimonio. Ritornerà in Italia solo alla fine della Seconda Guerra Mondiale per trascorrere gli ultimi anni della sua vita lontana dalle luci della ribalta a Cavallasca, vicino al lago di Como. Per essere ricordata “solo” come l’amante di Mussolini. Non siamo illogiche, al contrario siamo molto più logiche degli uomini. Andiamo dritte all’obiettivo, guidate dall’istinto che ci indica la strada più breve e sicura anche se non è la principale.

La donna che inventò Mussolini. Fabio Lambertucci su ponzaracconta.it l'11 settembre 2020. In un commento al mio articolo Libri e film sulle vicende erotico-sentimentali di Mussolini e Hitler mi è stata giustamente fatta notare l’assenza, nella rassegna, della fondamentale figura della celebre scrittrice e critica d’arte veneziana Margherita Grassini Sarfatti (1880-1961) che, com’è noto, fu a lungo amante di Benito Mussolini. Cercherò perciò di fare ammenda ricordando, tra i tanti, due lavori ben documentati del giornalista storico e grande esperto del Ventennio fascista, Roberto Festorazzi (Como 1966): la biografia del 2010 Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini (Angelo Colla editore, Vicenza) e un articolo molto interessante pubblicato su “L’Espresso” del 6 marzo 2014 intitolato “007 Missione Duce“. Festorazzi ha basato la sua biografia della Sarfatti su due clamorosi documenti da lui ritrovati. Il primo è My Fault, un memoriale autobiografico inedito, retrospettivo e autocritico della Sarfatti, scritto in inglese nel 1943-44, che restituisce l’esatta figura umana e psicologica di Mussolini, tolta dal piedistallo della mitologia e delle demonizzazioni assolute. Nel memoriale la Sarfatti rivelava clamorosamente che in gioventù Mussolini aveva contratto la sifilide ed era stato un consumatore, precoce e temporaneo, di cocaina. Il secondo documento è invece dello scrittore tedesco barone Werner von der Schulenburg (1881-1958), antinazista e corrispondente della Sarfatti dal 1926, e rivela, secondo l’autore, il ruolo svolto dalla Sarfatti, nella seconda metà del 1933, per cercare di favorire la successione a Hitler alla Cancelleria di Berlino.

Riporto quindi l’articolo di Festorazzi intitolato “007 Missione Duce” pubblicato su “L’Espresso” del 6 marzo 2014: “La cognata dell’inglese Chamberlain. E la Sarfatti ex amante di Mussolini. Alleate per convincerlo a placare Hitler, nel ’38. Lo svelano due lettere inedite”. Tra il dicembre del 1937 e il febbraio successivo, un’inviata speciale del premier inglese Neville Chamberlain (1869-1940), compì una missione in Italia allo scopo di spianare il terreno a un’intesa globale tra il governo fascista e quello di Londra. Questa rappresentante del primo ministro della Corona britannica, era nientemeno che sua cognata, ossia Lady Ivy Chamberlain (1878-1941), vedova del fratellastro Austen (1863-1937), che fu ministro degli Esteri dal 1925 al ’29, Premio Nobel per la Pace 1925 e grande amico di Benito Mussolini. Lady Chamberlain a Roma incontrò il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano (1903-1944), il Duce e i più influenti esponenti dell’establishment fascista. Fu grazie alla sua missione che Italia e Gran Bretagna siglarono gli Accordi di Pasqua (stipulati il 16 aprile 1938 appianavano i contrasti nelle politiche medio-orientali dei due Paesi e garantivano il libero accesso al Lago Tana e al Canale di Suez – N.d.A.). Pochi mesi più tardi, quando la pace fu sotto la minaccia della crisi cecoslovacca, Neville Chamberlain pensò di ripetere la felice esperienza, ricorrendo nuovamente alle arti diplomatiche della cognata. Questa volta la posta in gioco era molto più alta: raggiungere un accordo di concordanza europea con Hitler. Il retroscena della seconda missione italiana di Lady Chamberlain emerge per la prima volta da un carteggio conservato nel Fondo Sarfatti del Mart di Rovereto (cfr. breve video da YouTube in fondo all’articolo). Si tratta di due lettere inedite che la vedova di sir Austen inviò alla scrittrice ebrea Margherita Sarfatti, e che arricchiscono il repertorio di documentazione storica finora prodotto sull’intenso lavorìo diplomatico sotterraneo compiuto dall’Inghilterra durante la crisi dei Sudeti (*) esplosa sul finire dell’estate del 1938. La Sarfatti, che era stata a lungo l’amante del Duce, era una donna colta e di mentalità europea. Aveva promosso il movimento artistico del Novecento italiano, e frequentava il jet set internazionale. Nel 1934, fu ricevuta per un tè alla Casa Bianca dal presidente Roosevelt. Chamberlain – e queste nuove acquisizioni lo confermano – fu molto più astuto e spregiudicato di quanto si è finora creduto. Mentre sui giornali montava d’intensità il dramma cecoslovacco, lo statista britannico aveva bisogno di lanciare Mussolini, nel ruolo di mediatore, in una grande maratona diplomatica destinata a passare alla storia. Ne sortì la Conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938 (*), che vide il Duce interporsi con successo tra Hitler, da una parte, e la Francia e il Regno Unito dall’altra. La pace fu salva, ma solo per pochi mesi, e al prezzo dello smembramento della Cecoslovacchia. Monaco aveva segnato la disfatta delle grandi potenze occidentali, che avevano accettato di piegarsi ai ricatti del Führer. Tanto che la conferenza del 1938 è divenuta, nel lessico contemporaneo, sinonimo della capitolazione delle democrazie nei confronti delle tirannidi.

I firmatari dell’accordo: da sinistra, Chamberlain, Daladier, Hitler e Mussolini; a destra, Ciano. In secondo piano, tra Hitler e Mussolini si nota Joachim von Ribbentrop, il ministro degli affari esteri tedesco.

A Monaco, Chamberlain, e il suo collega francese Edouard Daladier (1884-1970), non furono però deboli o codardi, come la più recente storiografia ha dimostrato, ma coscienti collaboratori del dittatore nazista. Da parte del primo ministro inglese, soprattutto, vi era la chiara volontà di pervenire a un accordo con il Reich, in chiave anticomunista. Pur di adottare il potenziale aggressivo di Hitler contro la Russia, i britannici erano disposti ad accettare una dominazione germanica che dilagasse nell’Europa centro-orientale: non solo in Austria e Cecoslovacchia, ma anche in Polonia e in Ucraina. Solo il patto nazi-sovietico dell’agosto 1939 ribaltò i giochi e le prospettive: la Gran Bretagna comprese che il Führer intendeva procurarsi una garanzia contro un attacco russo, mentre si preparava ad attaccare a occidente, e la guerra divenne a quel punto inevitabile. Nella tarda estate del ’38, per far ingoiare all’opinione pubblica democratica la spartizione che Chamberlain aveva sottoscritto segretamente con Hitler, bisognava salvare le forme. Ed ecco allora germinare nella mente dello statista conservatore il piano di una vasta collusione segreta con la Germania, di cui Monaco non rappresentò che un tassello. Lo scandaloso accordo anglo-tedesco fu consacrato da una dichiarazione solenne che impegnava le due nazioni a non aggredirsi.

Per poter pervenire a un tale risultato, il premier architettò la nuova missione di Lady Ivy in Italia. Se la cognata di Neville Chamberlain, giungendo a Roma, interpellò Donna Margherita, ciò significa che gli inglesi la ritenevano ancora capace di influire sul Duce. In realtà, in quel 1938, la Sarfatti era emarginata dal gioco politico. Mussolini non la riceveva più, e stava addirittura per intraprendere la via dell’esilio, a causa delle leggi razziali: espatrierà a Parigi nel novembre di quello stesso anno. Anche se non risultano documentati ulteriori passi condotti da Lady Chamberlain, durante il suo soggiorno romano, non si può affatto escludere che la rappresentante del primo ministro britannico possa aver incontrato alte personalità del regime, fino allo stesso Mussolini. E’ ragionevole pensare che sia andata così, perché l’incarico era della massima delicatezza: bisognava sondare la disponibilità del Duce a raccogliere un invito di Chamberlain a mediare nella controversia internazionale. La prima missiva di Lady Chamberlain, datata 17 settembre 1938, è precedente alla Conferenza di Monaco e contiene un riferimento ai voti augurali che la Sarfatti aveva formulato, in vista di una soluzione negoziata della crisi dei Sudeti. Segue un accenno agli incontri avvenuti, in Italia, tra le due donne, e un finale ottimista sull’esito: “Non vedo davvero l’ora che l’accordo tra le nostre due nazioni venga ratificato!”. Successiva a Monaco è invece la seconda lettera. Il documento, del 3 ottobre ’38, trabocca di compiacimento per il trionfo del Duce e del cognato, uniti nel compito di “salvare la pace in Europa”. Da questa corrispondenza traspaiono risvolti dell’amicizia tra le due figure femminili accomunate da un medesimo tratto distintivo: quello di essere patrone, nei rispettivi Paesi, del panorama artistico. Le due donne, probabilmente, si erano conosciute già in occasione delle visite di Austen Chamberlain a Mussolini a metà degli anni Venti. Lady Ivy aveva poi lanciato l’idea di una grande rassegna storica dell’arte italiana, che la Sarfatti inaugurò a Londra, nel gennaio del 1930. Otto anni dopo, quell’amicizia cementata dall’interesse comune per l’arte sembrò tornare utile alla Gran Bretagna, mentre già si stava accentuando la subalternità di Mussolini a Hitler: per ironia della storia, la seconda lettera della Lady all’amica ebrea è scritta proprio il giorno precedente (3 ottobre 1938) al discorso in cui il Duce a Trieste proclamò le leggi razziali. L’esposizione “Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo” è frutto di un progetto unitario tra Mart e Museo del Novecento di Milano, con un unico catalogo edito da Electa. Le due mostre, autonome e complementari, permettono di analizzare la complessa personalità di Sarfatti, con un affondo sull’arte degli anni Venti a Milano e una prospettiva sul ruolo di Margherita ambasciatrice dell’arte Italiana nel mondo.

Note

(*) Conferenza e accordo di Monaco (settembre 1938). L’oggetto della conferenza, avvenuta circa un anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu la discussione delle rivendicazioni tedesche sulla regione dei Monti Sudeti, posta in territorio cecoslovacco, ma abitata prevalentemente da popolazione di etnia tedesca (i Tedeschi dei Sudeti), e si concluse con un accordo che portò all’annessione di vasti territori della Cecoslovacchia da parte dello stato tedesco.

Appendice del 14 settembre (cfr. Commento di Sandro Russo). Antonio Scurati racconta. Mussolini e le donne: Margherita Sarfatti. Storie tratte dagli studi per la scrittura di “M. Il figlio del secolo”: il romanzo di Antonio Scurati, la storia della Storia che ci ha resi quello che siamo. «È possibile pensare Mussolini senza fallire, e se qualcosa lo può, lo può la Letteratura».

·        Claretta Petacci: l’Hitleriana.

Mirella Serri per il "Fatto quotidiano" il 13 maggio 2021. Erano un' antica famiglia di aristocratici, i Petacci. La madre Persichetti si vantava di essere una lontana parente di Pio XI , mentre il medico pontificio Francesco Saverio aveva come antenato Anselmo Petazzi o Pettazzi, che nel 1384 si era fatto notare per il suo coraggio da Leopoldo d' Austria. Circa cento anni dopo un altro nobile si era conquistato il castello di San Servolo vicino a Trieste. Per sottolineare le blasonate ascendenze, Myriam, attrice esordiente a Venezia, adotterà il nome di Miria di San Servolo, facendo sbellicare dalle risate la platea della Mostra internazionale d' arte cinematografica dal momento che l' isola lagunare di San Servolo ospitava il manicomio. Sebbene frequentasse il Duce da pochissimo tempo, Clara era già consapevole che la sua relazione non sarebbe stata solo un legame sentimentale ma che si sarebbe sviluppata come un fitto intreccio di interessi e di affari. Come reagiva il professor Petacci di fronte a una possibile ingerenza del presidente del Consiglio nel processo in cui era coinvolto? Il medico che lavorava Oltretevere era un gentiluomo all' antica, di maniere molto ossequiose, taciturno e severo professionista. Sembrava più interessato alla religione e alla dottrina di Esculapio che non ai profitti. In casa Petacci, più determinata appariva la mamma. Un donnone, così la descrive sua nuora Zita Ritossa, "sempre vestita di nero, dal colorito cadaverico, dal naso adunco e molto autoritaria". Comandava a bacchetta Clara che si consultava con lei su tutto, persino sull' abbigliamento più consono alle varie occasioni. Il padre però, nonostante il suo riserbo e il mutismo a volte esasperante, era desideroso di prebende ed era dotato di una volontà tenace e ostinata. Si era trovato in un contenzioso giuridico che lo opponeva alle Figlie di Nostro Signore al Monte Calvario (come registrano i documenti di archivio) presso la cui clinica Villa del Sole aveva lavorato per anni. Clara, nonostante non avesse ancora una assidua frequentazione con Ben, non ebbe alcuna remora nè pudore nel cercare di coinvolgere il presidente del Consiglio nonché capo del fascismo nei complicati affari privati di suo padre. Voleva far inclinare la bilancia della giustizia a favore del professore a scapito delle suorine. Di fronte al diniego di Mussolini di prender le parti del papà, Clara non si perse d' animo. Continuò a insistere perché il capo del governo ne sposasse la causa: "Le accludo la lettera di papà, che l' E.V. con tanto generoso interessamento ha richiesto". Alla fine di dicembre del 1932, Mussolini, non avendo nessuna intenzione di determinare il risultato del processo, cercò però di trovare nuove fonti di guadagno per il professore: la segreteria del Duce inviò una serie di istanze perentorie alla Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro, alla Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (che con regio decreto legge del 27 marzo 1933 sarà trasformata in Istituto nazionale fascista della previdenza sociale, Infps, di cui il primo presidente fu Giuseppe Bottai) e infine alla Croce Rossa italiana. La segreteria invitava tutti e tre gli enti a "trovare un incarico di consulenza o di altro" al dottore Francesco Saverio Petacci. Dalle direzioni degli enti arrivarono cortesi ma fermi dinieghi. La spiegazione? Non riuscivano a trovare un posto adeguato in organico. La burocrazia opponeva resistenza alle richieste della segreteria del Duce. Mussolini trovò alla fine un incarico per il professore: si trattava di una collaborazione con Il Messaggero. Gli sarebbero stati pagati ben due articoli al mese, ciascuno retribuito in un primo momento con mille lire, che poi saliranno a duemila nel1941. Era appena iniziata questa ben remunerata attività del professor Petacci quando un giovane cronista de Il Messaggero, arrivando nella sede del quotidiano romano in via del Tritone, chiese ad alta voce "di chi fosse quella pappardella che era stata pubblicata sul giornale il giorno prima". Nella stanza dei redattori vociante e rumorosa scese il silenzio, i colleghi abbassarono la testa picchiando con forza sui tasti delle Olivetti Lettera 42. Lo sprovveduto giornalista fu portato in un angolo e sottovoce fu informato da chi fosse firmato l' articolo che aveva definito pappardella. Il responsabile della gaffe si precipitò a prodigarsi immediatamente in grandi elogi nei confronti dell' autore. Non sapeva che, senza volerlo, aveva colpito una personalità ben più altolocata e prestigiosa del professor Francesco Saverio. Con il suo giudizio poco lusinghiero sull' articolo aveva offeso il Duce in persona. A intervenire, correggendo gli articoli del medico nei suoi esordi giornalistici, infatti fu lo stesso Mussolini. Ne rivedeva i testi: "Ho avuto un allievo, tuo padre. Gli correggo, tolgo le frasi di troppo, lo educo al giornalismo. Sono tanto contento di questo", confessò a Claretta. E promise: "Voglio fare senatore tuo padre gli farò fare delle conferenze. Bisogna che si svegli". Sul giornale capitolino il papà di Clara si schierò con dovizia di argomenti dalla parte del suo protettore e i suoi articoli affrontavano lo scabroso argomento della razza italiana e si spendevano in difesa del soldato italiano: "L' italiano di oggi dal polso fermo e dalla volontà di acciaio, ha di molto superato per la castigatezza e la temperanza le altre razze", scriveva offrendo fondamenti pseudoscientifici alle ideologie razziste. "Ogni accoppiamento tra una negra e un bianco è fonte di degenerazione" e il matrimonio tra "ebrei e ariani può risultare poco fecondo", infatti "la razza ebrea è stata indebolita da matrimoni tra consanguinei". Nei suoi interventi giornalistici sosteneva, sempre con motivazioni pseudoscientifiche, che il sacramento del matrimonio era indissolubile [entrambe le sue figlie si erano separate dai rispettivi consorti dopo pochi mesi dalle nozze. Claretta poi ottenne l' annullamento in Ungheria]. Il papà ripetutamente deplorava "che le donne moderne si siano allontanate dalla sacra missione della maternità arrendendosi a un nevrotico istinto di piacere e nell' ansia di vivere". Condannava gli appetiti femminili rivolti fuori dalle mura domestiche che facevano dimenticare alle donne i loro doveri di madri [entrambe le sue figlie avevano relazioni extraconiugali e non erano madri]. Durante la seconda guerra mondiale, il professore, pur essendo molto religioso, non denunciò mai stragi e violenze ed esaltò sempre l' operato bellico di Mussolini, come l' invasione della Grecia: "Perché nessuno più di un medico può apprezzare l' estensione e la grandezza di questa vittoria della civiltà riportata dal genio italico impersonato dal Duce". Mentre incoraggiava e sosteneva l' affettuoso rapporto di papà con il presidente del Consiglio, Clara introdusse a Palazzo Venezia anche mamma Giuseppina e suo fratello Marcello.

Costanza Cavalli per “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2021. Le intercettazioni telefoniche trascritte dalle stenografe del comando tedesco a Gardone Riviera, a noi prevenute grazie al lavoro di ricerca di Riccardo Lazzeri ci restituiscono, oltre agli umori di Benito Mussolini e ai rapporti politici e militari che egli intrattenne nei seicento giorni della Repubblica Sociale, anche spezzoni di vita sentimentale. Il fuoco di questa settima e  ultima puntata di pubblicazione è centrato sulla relazione fra il duce e Clara Petacci, cominciata nel 1936 e terminata con la morte di entrambi per mano partigiana. I due avevano residenza sulle sponde del lago di Garda a un' ottantina di chilometri l' uno dall' altra, lui a Villa Feltrinelli a Gargnano, lei a villa Fiordaliso a Gardone Riviera (almeno fino all' ottobre del 1944, quando si trasferì a villa Mirabella, al Vittoriale, dopo una celebre sfuriatadella legittima moglie del duce, Rachele, che era venuta a sapere dell' amante). Dalle intercettazioni si capisce che Clara è una giovane donna (nel 1944 ha 32 anni) dal carattere volitivo che vuol bene al duce, però mal sopporta di essere costretta a una vita ritirata sotto il controllo dei tedeschi, che le hanno assegnato come assistente personale il capitano Franz Spoegler, capo del servizio intercettazioni che ha gli uffici proprio a Gardone. Nelle con versazioni i due alternano battibecchi amorosi, in cui il duce cerca di frenare l' esuberanza della giovane amante e a tratti le confessa le sue stanchezze, a ragionamenti di carattere politico, in cui Clara dimostra conoscenza e discernimento e tien testa al suo interlocutore. Nella conversazione del giugno 1944 parlano delle difficoltà di Francisco Franco, dittatore di Spagna: con l' avanzare degli Alleati in Europa (lo sbarco in Nor mandia è del 6 giugno) la guerra sta cambiando volto, e probabilmente Mussolini si riferisce ai guerriglieri repubblicani che, mentre le forze del "caudillo" arrancano al fianco dei tedeschi sul fronte orientale, hanno ripreso fiducia e da rifugiati in Francia si apprestano a tornare a combattere in patria: in capo a tre mesi si riorganizzeranno, causando non pochi grattacapi a Franco.

CLARETTA AL DUCE, GIUGNO 1944

C. Pochi minuti fa siamo passati davanti a te con il motoscafo.

M. Pazzarellona!

C. È lo stesso. Volevo vederti, o che tu voglia o no. Del resto non mi lascio proibire niente, tu lo sai. Nella corsa ho visto la tua finestra ed anche una figura. Secondo me, eri tu!

M. Vedremo. Ti faccio sequestrare il motoscafo, capito!

(riattacca furiosamente) 

CLARETTA AL DUCE, GIUGNO 1944

C. Un grazie affettuoso per i fiori, grande è stata la mia gioia. Anche la tua lettera mi ha portato molte novità. Non mi è chiara la questione relativa alla lettera a Franco. Perché non la scrivi?

M. No, adesso non scrivo.

Franco ha anche lui grandissime preoccupazioni. Appena scampato un pericolo che già se ne annuncia un altro alla porta. Dal suo ultimo scritto traspare chiaramente che si trova sotto forti pressioni. Si deve muovere cautamente per non esporsi a dei pericoli, se non immediati, certamente futuri. 

C. Ha paura? 0 ha dimenticato?

M. Come potrebbe dimenticare. Noi e la Germania con il nostro aiuto alla Spagna abbiamo salvato lui e la Spagna dal bolscevismo. Nello stesso tempo anche noi altri, anzi l' Europa intera. I francesi e gli inglesi sanno, che abbiamo nel contempo salvato anche loro. Sapevano benissimo che i rossi in Spagna ricevevano aiuti e rifornimenti dalla Russia. Facevano finta di non saperlo. Condannavano noi, ma nel contempo temevano  un' invasione bolscevica che venne allora sventata da noi. In realtà l' invasione venne solo procrastinata per essere oggi addirittura richiesta dagli angloamericani. Oggi le porte d' Europa sono completamente aperte al bolscevismo. Aperte dalla testardaggine e miopia di francesi, inglesi ed americani. Una cosa è certa: gli Alleati non potranno sottrarsi alle proprie responsabilità dinanzi alla Storia! Vorrei vedere incisa questa mia affermazione. Nello stesso modo con il quale hanno sbagliato nel non voler vedere questo pericolo, è possibile che lo stesso errore lo facciano nei confronti della Spagna. Nutro dei timori! Perciò comprendo: Franco non ha dimenticato, no, tu pensi in modo sbagliato, totalmente sbagliato. Al contrario. Nell' attuale situazione un Franco completamente innocuo e discreto ci rende il miglior aiuto. Tu sai.

C. So come tu la pensi, ma non ne sono convinta. L' avvenire ce lo dirà. Forse avevo ragione io. 

CLARETTA AL DUCE, DICEMBRE 1944

C. Hai ricevuto la mia lettera?

M. Si, scrivi stupidaggini! Non incominciare di nuovo con Marcello. Non voglio sentirne più parlare.

C. Perché sei cosi? Dagli un impiego adeguato e vedrai cosa sa fare. Senza una qualsiasi attività non può sviluppare le proprie capacità, se lo si considera un buono a nulla, un pigraccio. 

M. Non parlarmi più di lui e non scrivermene. Ne ho abbastanza. Solo perché è tuo fratello, dovrei raccomandarlo?

No! Ne ho passate abbastanza con Ciano: mi è bastato ampiamente.

C. Oggi sei cattivo, molto cattivo. (riattacca) 

CLARETTA A MUSSOLINI, GENNAIO 1945

C. Ho una brutta notizia da darti.

M. Che c' è?

C. Ho perso l' anello con la croce uncinata che mi ha dato il Führer.

M. Peccato, non doveva succedere. Hai cercato dappertutto?

C. Continuo a cercarlo... sono veramente sconvolta.

M. Calmati...

C. Che devo fare? Doveva essere proprio il suo.

Lo avevo fatto vedere, proprio tre giorni fa, a Myriam e a Mancini.

Ne sono stati entusiasti, specialmente Mancini.

Non sapeva che Hitler mi ammira. Gli ho anche mostrato il biglietto d' accompagnamento del Führer.

M. Non avresti dovuto farlo. Tu sai bene come corrono certe notizie.

C. Impossibile.

Myriam è una tomba, non parla e Mancini è pazzo di lei. Senza di lei non potrebbe vivere.

M. Non fidarti troppo. Pensa alle tue e mie esperienze!

C. Hai ragione, ma alle volte ho bisogno di parlare con qualcuno delle miei gioie... Sarebbe disumano non parlarne con i propri cari.

M. Capisco, ma tu sai bene che questo regalo doveva essere un segreto, come da desiderio del Führer.

C. Lo so. Spögler me lo raccomandò, quando me lo porse.

M. Cerchi ancora?

C. Eccome, te lo farò poi sapere. 

CLARETTA A MUSSOLINI, GENNAIO 1945

C. Sempre io devo telefonarti. Mi avevi promesso..... M. Ho molta gente in anticamera. Proprio adesso stato qui il prefetto di Genova.

C. Buone notizie? È tutto calmo in Liguria?

M. Sì, calmo ma con le solite difficoltà con i tedeschi.

C. Che sfortuna. Non ti avevano promesso comprensione e moderazione?

M. Tra il dire ed il fare c' è di mezzo il mare.

C. Credi che anche il Führer abbia simili difficoltà? Di questo genere certamente no: lui decide e dà ordini. Fa anche tu cosi!

M. Ingenua! Anche se io ho in pugno la situazione mi devo sempre muovere entro uno spazio ristretto. Mi sembra di essere in un tunnel...

C. Mi fai pena...

M. Lascia perdere. Anche per noi tornerà a splendere nuovamente il sole. 

DUCE A CLARETTA, FEBBRAIO 1945

M. Sono io, ti sei calmata?

C. Cosa vuol dire "calmata". Non ti permetto di umiliarmi ed offendermi continuamente. Lo sai anche troppo bene che vivo solo per te, staccata dal mondo.

M. Non esagerare nuovamente. Giornalmente ti fa visita Spögler, quasi giornalmente il dottor Leppo, il dottor Apollonio, i tuoi, tuo fratello Marcello, che ogni settimana si accompagna ad una donna diversa, abita da te. E ciò la chiami vita da monaca?

C. Sei crudele con me!

D. Non puoi affermarlo. In ogni caso ripeto: Padre Eusebio non deve entrare nella villa Fiordaliso. Anche se tua madre lo desidera. Può incontrarlo dove le pare, ma non alla Fiordaliso. E con questo basta.

Dagospia il 20 aprile 2021. Mirella Serri, “Claretta l’hitleriana. Storia della donna che non morì per amore di Mussolini”, Longanesi  - Estratto. Come Ben svezzò la bambina. Il Duce fu molto orgoglioso di aver svezzato Clara e di essersi dedicato con solerzia alla sua «educazione sessuale»: «Quando venivi qua eri una bambina», le dirà qualche anno dopo. «E mi dicevo: ‘Non sarà amore, sarà affascinata dalla gloria’. Pensavo ti saresti stancata, temevo che il contatto crudo con l’uomo ti disilludesse. Poi è avvenuto ciò che doveva accadere.» Clara  aveva venti anni e aveva l’aspetto di una «bambina» ma non fu spaventata dal « contatto crudo »: fin dal  primo incontro e dalla prima lettera che inviò a Mussolini… lo sfidò nella competizione erotica, mescolando ingenuità e astuzia. Gran parte degli studiosi e dei biografi della Petacci sostengono che il vero rapporto amoroso tra il Duce e Claretta sia iniziato nel 1936, dopo quattro anni di «amore platonico», fino al momento in cui la Petacci divenuta signora Federici non ottenne la separazione dal marito. «Per quattro anni i rapporti tra Mussolini e la Petacci rimasero circoscritti a un’affettuosa amicizia», rileva Renzo De Felice… Ma non fu così. Dagli scritti di Clara si evince che un avanzato grado di intimità era stato raggiunto molto prima del 1936, quando invece si verificò il consolidamento della loro relazione. Claretta era perfettamente consapevole che il potere esercitato sull’amante era dovuto anche al suo tratto più infantile. «Ho preso centinaia di donne », le raccontò Mussolini, adombrando che forse erano state più di quattrocento. Fu Clara a sollecitare ripetutamente le attenzioni del suo stagionato corteggiatore. I primi approcci non disillusero la giovane, come temeva il Duce… Seguendo la palese inclinazione del quarantanovenne dittatore, si definiva sua figlia o la sua bambina… e alludeva a rapporti per nulla castigati ma incestuosi. Lo definiva «un raggio di luce» e confessava che avrebbe voluto sdraiarsi «sotto di lui » e assorbirne le emanazioni. « Non posso vivere senza il vostro calore », constatava.  A dicembre del 1932 le lettere traboccano dei baci di Clara: «Ancora bambina... sognavo di salvarvi la vita e, per sola ricompensa da voi, un bacio sul mio labbro morente ». Lo aveva incontrato poche volte ma le richieste erano  esplicite: « Ho desiderio di Voi » (il 22 febbraio 1933) oppure « Vi voglio bene ». Lui si schermisce, « pensa a voler bene al tuo fidanzato ». Poi aggiunge: « Io sono vecchio ». Lei scoppia in lacrime: «Fate conto che io sia vostra figlia » stimolando la complicità erotica del suo anziano « amico ». 

Dagospia il 24 aprile 2021. Mirella Serri, “Claretta l’hitleriana. Storia della donna che non morì per amore di Mussolini”, Longanesi  - Estratto.

Di pura razza antisemita. Clara nutriva una personale ostilità nei confronti degli ebrei. La sua famiglia, sosteneva, aveva connotati patrizi e si distingueva per la nobiltà del suo sangue, il mondo degli eletti non aveva soltanto il diritto, ma anche l’obbligo di sottomettere e di sterminare gli inferiori: «Io... sono antisemita per un istinto razziale, lo sono spontaneamente, antisemita, direi per dignità di razza, io sono veramente patrizia e sento tutto l’orgoglio del mio purissimo ceppo... per la nobiltà per la rettitudine per l’onestà». Gli ebrei erano presenze minacciose e attentavano alla sua vita e lo facevano persino nei suoi sogni. Ne fece partecipe Mussolini. Sarebbero finiti « sepolti dalle macerie provocate da negri ubriaconi, ebrei, plutocrati, da coloro vendutisi per piacere a questi preti senza Patria e senza religione ». I « negri» con gli sguardi annebbiati dall’alcol, gli ebrei con il volto da aguzzini, i ricchi capitalisti inglesi e americani dai comportamenti lascivi e dall’occhio lubrico, riempivano le sue notti.

Clara politica a tutto campo e la sua tragica fine. Dopo il trasferimento nella Rsi, quando iniziò quella che potremmo chiamare la sua seconda vita, Clara continuò a proporsi come « consigliera politica » di Mussolini. Ma lo fece con più convinzione e possibilità di manovra di quanto non le fosse stato consentito in precedenza a Roma: infatti i nazisti nello Stato fantoccio di Salo` le dettero il loro pieno appoggio. Clara riversò su Adolf Hitlerl’ammirazione che aveva nutrito per Mussolini, ora stanco e malato. Le alte sfere del Reich fecero affidamento sull’influenza di Claretta sul capo del governo per piegarlo ai loro voleri. La Petacci divenne il punto di riferimento del ministro plenipotenziario Rudolf Rahn, l’uomo più potente della Rsi, feroce persecutore di antifascisti ed ebrei, determinato a « spremere come un limone » lo Stato italiano. I partigiani che la misero al muro a fianco di Mussolini ben conoscevano l’operato di Claretta (e che successivamente fin dal 1946 è stato cancellato): “Fra me e Audisio non vi fu discussione a proposito della Petacci, tanto normale ci parve dovesse seguire la sorte di Mussolini», spiega Aldo Lampredi che comandava la spedizione incaricata di eseguire la sentenza nei confronti del “Duce e dei suoi accoliti”.

Dagospia il 22 aprile 2021. Mirella Serri, “Claretta l’hitleriana. Storia della donna che non morì per amore di Mussolini”, Longanesi  - Estratto.

Amore e manrovesci. Claretta, come conseguenza del malumore e del momento di incertezza politica (gennaio-febbraio 1938) che Ben stava attraversando, vide andare in pezzi l’armonia del 1937 e dei mesi in cui era aumentata la sua vicinanza al « Fondatore dell’Impero » ed era cresciuto, in parallelo a quello di amante, il suo ruolo di amica e di confidente…Dalla stagione della passione Ben era passato a quella della violenza fisica. Al primo inaspettato manrovescio, Clara avvert?` un ronzio confuso nel timpano destro... Mussolini l’aveva colpita con forza sull’orecchio e Clara temette di essersi giocata l’organo dell’udito. «Si esalta e fa una scena tremenda, dando dei colpi alla sedia, calci ai giornali, dicendo parole tremende che non trascrivo… E’ una furia scatenata senza più freni. Mi spavento e mi viene da piangere. Non riesco a calmarlo», scrisse sul diario la Petacci. Erano nel bel mezzo di un litigio che saliva come una marea. «Si monta, si sfoga. Vado via piangendo, lui dice che vuole andare a casa che é tardi... non mi vuoi più, io muoio, cado svenuta, non so più nulla.» Per via del ceffone ricevuto in piena faccia, piombando a terra aveva preso un gran colpo e un rivolo di sangue le uscì dalla narice destra. « Ti riempirei di calci », le grido`. La trascinò per un braccio per estrometterla dal loro nido d’amore... «Grida, mi offende, ansima, passeggia, è fuori di sé », annotò Clara che fu accompagnata a strattoni alla porta mentre il suo amante urlava: « Devo lavorare, ho da lavorare, non sono un garzone di bottega ».

La bella (gelosa) e la bestia. Nonostante i buoni propositi di moderazione nelle scenate di gelosia, Clara in ogni tradimento di Ben vedeva una trappola, un possibile attentato al loro rapporto, che per lei era come un abito sontuoso il cui tessuto di volta in volta veniva lacerato da uno strappo. « Vi sono decine di donne nella mia vita che io ho preso una volta sola e poi non ho più riveduto. Questa signora», spiegò contrito Ben a Clara a proposito del veloce amplesso consumato con una gentildonna torinese ricevuta in udienza privata, « non la rivedrò mai più. Piuttosto me lo taglio. … Io sono una bestia che non ragiona. Se tu mi vuoi lasciare, se non mi vuoi perdonare, dimmelo... ma credi alla mia parola... ho torto, ho torto... ma voglio essere creduto.» Le proteste di Clara erano violente e Ben ripeteva in un leitmotiv: «Sono troppo sessuato per essere monogamo». Bastavano pochi giorni, la « bestia » che era in lui lo aggrediva e lui ripiombava nei suoi soliti errori.

CLARETTA “L’HITLERIANA”. Marcello Sorgi per "la Stampa" il 19 aprile 2021. Quella forcina per capelli, trovata nel salone dell'appartamento di Palazzo Venezia, forse segnò la prima vera trasformazione del rapporto tra Claretta Petacci e Benito Mussolini. Trovandola in un pomeriggio del febbraio '37 in cui, come spesso accadeva, si era disposta alla lunga attesa del suo «Ben», ebbe uno sbotto d' ira. Sapeva di esser tradita dall' inizio della relazione, ma inciampare nella prova, proprio sul tappeto dove solevano giacere ogni giorno, aveva leso il senso esclusivo d' appartenenza che ogni donna esige dal proprio uomo. Clara, Clarice, Claretta, l' amante che condivise il destino del Duce fino alla morte e all' atroce esposizione dei corpi in piazzale Loreto, è uno dei protagonisti più studiati del fascismo. Se Mirella Serri si è decisa a una nuova ricerca sul personaggio (Claretta l' hitleriana, in uscita giovedì da Longanesi, pp. 281, 19), è perché, da storica, da studiosa di uno dei periodi più tormentati della recente storia italiana, non condivide l' immagine di lei tramandata fin qui. L' ingenua.

L' invasata. La sintesi perfetta di amore e morte, il connubio assai frequente dei nostri sentimenti. La donna che va incontro all' esecuzione finale nell' illusione di salvare, offrendo la sua vita, quella perduta del dittatore. Cadendo giovanissima, a soli 33 anni, giustiziata senza ragione.

Cinica e spregiudicata. Serri ha letto e studiato una messe di documenti originali per potersi opporre fondatamente a questa tesi. La sua revisione della vicenda parte dal momento in cui la passione ha inizio, fissata inderogabilmente dalla storiografia ufficiale al 1936, quattro anni dopo il primo incontro, e invece, spiega l' autrice, cominciata assai prima. Ci sono prove evidenti che il Duce non potesse resistere a una seduzione irrefrenabile, come quella di Claretta nei suoi messaggi. Bigliettini, lettere, «pizzini», consegnati ai collaboratori più prossimi al Duce (a partire dal fedelissimo usciere-cameriere Quinto Navarra), scritti con intenzioni inequivocabili da una ragazza di soli vent' anni che si accosta - inaudito per quei tempi - a un uomo di 49. E che uomo!

Sensuale, cinica, spregiudicata. Capace di vellicare l' attrazione di Mussolini scrivendogli che avrebbe voluto essere lei stessa quel cartoncino su cui scriveva e che lui «avrebbe tenuto tra le sue mani, e avere la carezza del vostro sguardo». Lo definiva «raggio di luce» e confessava di voler «sdraiarsi sotto di lui» e assorbirne le emanazioni: «Non posso vivere senza il vostro calore». «Amore mio grande, ti adoro, dal tuo volto maschio ieri sembrava lucessero faville di forza». I modi e il linguaggio sono assolutamente disinibiti. Si danno del tu fin dal secondo incontro. Si definisce «bimba», «figlia», solleticando le pulsioni piu basse di un uomo che si confessa sensualmente «una bestia», non in grado «di controllare i propri appetiti sessuali».

È gelosa. Punta, riuscendoci, a soppiantare l' amante storica Margherita Sarfatti, non solo nel cuore, ma anche nel ruolo di consigliera e - si direbbe oggi - regina delle pubbliche relazioni al fianco del Duce. Il quale per convincerla che solo di lei, Claretta, ormai si fida, poco prima dell' emanazione delle leggi razziali, le concede una confessione raccapricciante. Siamo nel luglio 1938, a pochi mesi dal 10 novembre in cui le leggi antisemite verranno emanate. Mattinata di sole a Castelporziano, nella tenuta reale in riva al mare. I due sono distesi al sole. «Ben» le chiede di togliersi il succinto due pezzi che indossa. Ma quando Clara, nuda e sicura della sua attraenza, gli si accosta per fare l' amore, lo trova ritroso, come se avesse appena soddisfatto il suo desiderio. Ne nasce una scenata di gelosia, dato che il Duce torna da un' incontro proprio con la Sarfatti. E lui, per giustificarsi, tornando sull' argomento del razzismo che è al centro dei suoi pensieri, rivela che ha avuto sempre difficoltà negli approcci amorosi con Margherita, che era ebrea, e addirittura di non esserci riuscito due volte: «Non potevo per l' odore, l' odore terribile che hanno addosso... sono una razza maledetta».

Pretese crescenti. Accanto a questa soffocante intimità, Clara mette l' abile curatela degli interessi della sua famiglia, del padre medico del Papa e del fratello affarista e imbroglione. Lo sfondo è la Roma impicciona e amorale descritta da Moravia ne Gli indifferenti. Gli interventi di «Ben» vanno dalla concessione di un permesso edilizio per la costruzione della villa della famiglia Petacci sulla Camilluccia, invidiata da alcuni gerarchi, al traffico di documenti falsi per ebrei che cercano la salvezza, a periodiche dazioni in denaro. Pretese sempre più stringenti, man mano che il sentimento si affievolisce, insieme all' attrazione che viene meno, e all' invecchiamento di Mussolini, ormai malato e sul viale del tramonto, che lo rende meno appetibile e potente. Claretta andrà a Salò anche contro il parere del Duce. E nei pochi mesi della Repubblica fascista e filotedesca che porterà alla tragedia finale proverà ad approfittarne per instaurare un prolifico rapporto con i tedeschi, che stanno addosso a «Ben» e non lo lasciano respirare, tentando niente meno che l' aggancio con Hitler e il nazismo. Piano fin troppo ambizioso, anche se le relazioni di Claretta con l' ambasciatore del Führer Rahn e con Eugen Dolmann, i controllori diretti del Duce, saranno eccellenti: non basterà a salvarla dalla tragica fine al fianco dell' amante.

«Stretto legame coi tedeschi». Qui il libro della Serri si conclude con un' ultima interessante rivelazione: l' imbarazzo iniziale del Pci a gestire la condanna a morte senza processo della donna del Duce a opera di partigiani comunisti, le tante differenti versioni ufficiali fornite dall' Unità, oltre all' autocritica di Sandro Pertini, uno dei capi della Resistenza. Fino alla spiegazione di Aldo Lampredi, il comandante partigiano che comandò materialmente il plotone d' esecuzione: «La Petacci non era soltanto un' amante, ma un elemento strettamente legato ai tedeschi, al cui servizio agiva influenzando Mussolini». Ecco perché Claretta «l' hitleriana» meritava di morire.

·        Achille Starace, il regista del fascismo.

Achille Starace, il regista del fascismo. Lorenzo Del Boca su Panorama il 5 dicembre 2021. Novant’anni fa, il 7 dicembre 1931, veniva nominato da Benito Mussolini segretario del Partito. E con lui, fedelissimo ma irrequieto, si compì la costruzione dell’immagine del regime.

Lui, traslocando dal mare di Gallipoli alla laguna di Venezia, un diploma di ragioniere riuscì a metterlo insieme. Ma, alla prova della vita, Achille Starace svolse il lavoro di regista del fascismo che modellò, con tutta quella pantomina di patacche da esporre in vetrina, per rappresentare il regime pubblicamente.

Con attenzione maniacale per le scenografie, portò gli italiani in parata, facendoli sfilare in reparti «quadrati». «Instivalò» gerarchi e studenti universitari. Allineò uomini delle corporazioni e ragazzi fin dalle elementari. Non si dimenticò del mondo al femminile al quale, anticipando le quote rosa, riservò un posto sollecitando la presenza di «giovani italiane» e «donne rurali».

Questo suo lavoro cominciò con la nomina a segretario del partito, al secondo posto nella nomenclatura fascista. Il 7 dicembre 1931 Benito Mussolini prese la decisione che divenne operativa il 10. Il 12, Starace firmò il primo documento «da diramare» alle federazioni. La scelta suscitò perplessità.

Alla fine chi era questo Starace? Fascista lo era, e certamente dalla prima ora. A Milano, nel 1914, vigilia dell’entrata in guerra, si lanciò contro i pacifisti che sfilavano invocando la neutralità dell’Italia e cioè la pace. Strappò loro la bandiera tricolore dalle mani: «Indegni d’innalzare il sacro vessillo per sollecitare il disonore della Patria». E fascista rimase con convinzione, senza intrupparsi in correnti, piccole oligarchie o modesti potentati di periferia.

La storiografia del poi ha costruito l’immagine del Ventennio come un blocco compatto. In realtà, quello fascista era un partito come tutti gli altri: attraversato da ambizioni personali, desideri di rivincita e gelosie nemmeno troppo mascherate. Starace era noto per la sua ortodossia ma non apparteneva a quella che oggi sarebbe la «nomenclatura». Non un carrierista capace di impegnarsi - sgomitando - per acquisire posizioni di vertice. E irrequieto, più che inquieto, lontano dagli onori che gli consentissero di esibire benemerenze. Appariva duro e un puro, infatti i camerati lo indicavano come «l’austero fesso».

Queste, probabilmente, le caratteristiche individuate da Mussolini per mettere ordine nel partito. I due predecessori non avevano dato buona prova e, per ragioni diverse, avevano finito per creare più problemi di quelli che avrebbero dovuto risolvere. Augusto Turati venne travolto da un’imbarazzante vicenda di pedofilia: colpa di per sé imperdonabile ma, se possibile, ancor più grave in un contesto culturale che esaltava il maschio conquistatore.

Dopo di lui, Giovanni Giuriati che non era stato squadrista e, al fascismo, era arrivato relativamente tardi. A lui Mussolini, reduce dalla vicenda del delitto Matteotti che l’aveva portato sull’orlo del tracollo, affidò il compito di «epurare il partito e snidare la zavorra perché il fascismo è un esercito in cammino da garantire con le più elementari misure di sicurezza». L’incarico venne preso alla lettera: 120.000 iscritti furono radiati e altrettanti furono consigliati a non rinnovare la tessera. Troppo. Mussolini fu costretto a correggere le disposizioni che, pur perentoriamente, aveva comandato. I reprobi, secondo lui, non dovevano essere più di 10.000.

Le due esperienze precedenti convinsero il duce che alla guida del partito occorreva un uomo obbediente, rispettoso dell’ordine gerarchico e senza atteggiamenti indipendenti. Insomma uno «yesman»: contesto che a Starace calzava a pennello. Un paio di settimane dopo la sua nomina vennero convocati i federali che, nell’anticamera, prima dell’incontro con Mussolini, furono istruiti dal neo-segretario. «Quando Mussolini apparirà sulla porta, io scandirò ad alta voce “saluto al duce” e voi, battendo i tacchi, con la mano aperta e il braccio in alto a 170 gradi risponderete “saluto al duce”...». Fu necessario provare e riprovare perché, sul principio, il sincronismo difettava.

Come non sorprendersi del fatto che i maggiorenti del partito fossero trattati da scolari indisciplinati? Carlo Scorza, nell’orecchio di Dino Grandi, sibilò: «Questo dura 15 giorni». Venne corretto: «Dura 10 anni». Previsione sbagliata per meno di due anni, come si vedrà. Era il tempo in cui il consenso al regime andava consolidandosi, vuoi per l’attitudine nazionale ad affezionarsi a chi vince, vuoi perché il fascismo riusciva a bilanciare la perdita di alcune libertà con l’acquisto di maggiori sicurezze. Starace diventò sacerdote e guardiano di un’Italia impegnata a «fascistizzarsi». In questo compito, si prodigò con l’impeto del bersagliere mettendo in riga i cittadini. Il culto dell’uniforme e quello per la forza fisica andarono a sovrapporsi.

I gerarchi dovevano sciare, pedalare in bicicletta, montare a cavallo e saltare nel cerchio di fuoco. I «fogli d’ordine» badarono al perfezionamento dei cerimoniali prescrivendo con pedanteria quali uniformi - e in quali occasioni - si dovevano indossare. Specificò quando ci si doveva presentare in camicia nera ma «senza inamidare il colletto», cosa considerata frivola. Divise, mostrine, palandrane, cordoni e pendagli e una serie di imposizioni grottesche.

Il «tu» e il «lei» vennero sostituiti dal «voi». Le parole con vago suono straniero depennate dal dizionario, con il risultato che Saint-Vincent fu modificato in «Santo Vincenzo» e Courmayeur si trasformò in «Cormaiore». I magazzini Standard diventarono (e restarono) «Standa» e mozzarono la desinenza alle sigarette Giubek per ridurle a «Giuba». Al posto dei menu presentarono la «distinta delle pietanze» e i cotillon presero la forma non felicissima di «cotiglioni».

Quando cominciò la guerra in Etiopia (1935), Starace chiese di poter partire per il fronte «anche senza gradi» e il fatto che Mussolini tardasse così tanto ad autorizzarlo indicò che il rapporto fra i due si andava affievolendo. Alla fine, dopo non poco penare, fu inviato in Africa al comando di una colonna che si lanciò alla conquista di Gondar per proseguire poi verso Tana e il Goggiam. Poca gloria militare ma, al ritorno, Starace mandò in stampa una sua pubblicazione su quell’impresa. Ebbe discreto successo editoriale ma non la prefazione di Mussolini, che preferì premiare il racconto autobiografico di Pietro Badoglio.

Avvisaglie del licenziamento di Starace che, come promosso senza preavviso, venne rimosso dall’incarico da un giorno all’altro. Trentun ottobre 1939: fine del numero due del regime che si trovò - dopo una breve parentesi come Capo di stato maggiore - senza lavoro, senza stipendio e totalmente isolato. Scrisse a Mussolini una quantità sterminata di lettere per chiedere ragione del suo isolamento. «Se lo vedete da queste parti» ordinò brusco il duce «buttatelo dalle scale».

Eppure Starace, che per mangiare, era costretto a rivolgersi alla mensa dei poveri, rimase fascista. A distanza di tempo, la figlia Fanny ebbe a confermare che «papà respirava per ordine di Mussolini». Il 28 aprile 1945 uscì di casa in tuta da ginnastica. La sola soddisfazione che gli era rimasta era correre per i viali della città e, come richiamato da una suggestione lontana, andò dirigendosi da corso Genova verso corso Monforte, dove si trovava la prefettura. I partigiani lo intercettarono, gli spianarono contro i mitra e lo spintonarono nell’aula magna del Politecnico. Processo sommario.

Da anni non aveva più incarichi, il regime l’aveva umiliato e lui era rimasto estraneo al governo della Repubblica sociale. Lo condannarono dunque a morte e la mattina del 29 aprile lo trascinarono a piazzale Loreto dove Mussolini era tornato già cadavere con Claretta Petacci e gli altri gerarchi fucilati a Dongo. Per scherno fu invitato a salutare il suo duce, cosa che Starace fece come migliaia di volte in passato: stessa postura, uguale determinazione, identica convinzione. «E voi» redarguì i «rossi» che gli stavano accanto «imbracciate il mitra come si deve e facciamo in fretta».

Mussolini e gli altri stavano appesi a testa in giù. Il gancio che sosteneva Francesco Maria Barracu si ruppe, e lui stramazzò a terra. In quel posto rimasto libero ci appesero lui. Aveva saputo morire meglio di come era vissuto.

·        Quel fascismo un po' liberale.

Ferrero, il genio liberale che scoprì il "cesarismo". Carlo Lottieri il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. Allievo di Lombroso, è stato tra i padri della sociologia. I suoi studi su Roma e su Napoleone hanno fatto scuola. Un secolo e mezzo fa, il 21 luglio 1871, a Portici nasceva Guglielmo Ferrero: uno degli intellettuali più originali del Novecento italiano e uno dei più fini analisti del fenomeno politico, da lui osservato per cinque decenni lungo molteplici prospettive. In effetti, Ferrero è un intellettuale che in inglese verrebbe definito polymath, dato che la sua produzione scientifica è particolarmente eclettica, spaziando da una disciplina all'altra. I primi studi furono in giurisprudenza a Pisa e Torino, oltre che in letteratura italiana a Bologna. Nel capoluogo piemontese Ferrero conobbe Cesare Lombroso e si trattò di un incontro decisivo da tanti punti di vista: l'avvicinò alla sociologia giuridica e all'antropologia, e favorì pure la sua adesione al socialismo. Un frutto di quella stagione è l'opera che Ferrero scrisse nel 1893, a quattro mani con Lombroso stesso, intitolata La donna delinquente. Qualche anno dopo egli sposerà proprio una delle figlie del maestro, Gina Lombroso. La militanza di Ferrero nella sinistra gli comportò una serie di guai giudiziari. Questo l'obbligò a lasciare il Paese e visitare varie realtà europee, dove sviluppò interessanti riflessioni sul mondo contemporaneo. Uno degli esiti maggiori si trova nel volume L'Europa giovane (del 1896), basata su una netta contrapposizione tra i Paesi europei latini e quelli settentrionali: nei primi prevarrebbero logiche clientelari e parassitarie, mentre nei secondi si sarebbe imposto un capitalismo industriale in grado di offrire opportunità di ascesa a tutti e favorire la massima collaborazione sociale. In tutti questi anni Ferrero opera fuori dall'università. Egli è un intellettuale di tipo nuovo, che pubblica libri e collabora con giornali, intrattenendo rapporti con studiosi di tutto il mondo. In questa fase egli inizia a lavorare all'opera che gli darà la massima celebrità: un lavoro monumentale intitolato Grandezza e Decadenza di Roma che si compone di cinque volumi pubblicati dal 1901 al 1907 e che sarà interamente dedicato al periodo segnato da Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. Lo studio, che ebbe un'enorme risonanza, sarà subito tradotto in lingua francese e il clamore suscitato da questa opera è confermato dal fatto che Ferrero fu invitato dal presidente Theodore Roosevelt negli Usa, dove tenne una serie di lezioni. Il prestigio dello storico italiano fu tale che nel 1910 il nostro governo provò a creare una cattedra di filosofia della storia appositamente per lui, ma non vi riuscì per l'opposizione di larga parte dell'intellighenzia italiana (e, in primo luogo, di Benedetto Croce). Questi sono anni duranti i quali Ferrero s'avvicina sempre più alle tesi liberali. Egli è uno dei principali artefici della Lega antiprotezionistica e quando Benito Mussolini prende il potere è tra i firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti. Per lui inizia un periodo difficile, durante il quale non gli è possibile esprimere le sue idee. Non per questo smette di scrivere, dato che negli anni Venti lavora lungamente a un monumentale lavoro di narrativa: La Terza Roma. Nell'insieme, si tratta di ben quattro romanzi che delineano un'autentica saga ambientata in parte a Roma e in parte nell'Africa della colonizzazione italiana. La vita di Ferrero conosce una svolta cruciale nel 1930, quando finalmente ottiene la nomina a professore di storia all'università di Ginevra. Rimarrà in Svizzera dodici anni, fino alla morte nel 1942, e in questo periodo si reinventerà una volta di più: esplorando temi nuovi, rafforzando i suoi convincimenti liberali (il socialismo giovanile sarà ormai davvero lontano), sviluppando una crescente ammirazione per la civiltà elvetica caratterizzata da pluralismo culturale, autogoverno cantonale, democrazia diretta. I lavori di questa fase della sua esistenza sono essenzialmente concentrati sulla storia europea tra fine Settecento e primo Ottocento. In particolare, egli indaga la campagna italiana di Napoleone (Avventura, del 1936) e il ruolo giocato da Talleyrand durante il Congresso di Vienna (Ricostruzione, del 1940). Le due ricerche storiche serviranno da base per quello che è l'ultimo e forse il più noto dei suoi libri, Potere, che uscirà postumo. In questo lavoro Ferrero porta a compimento la sua riflessione sul cesarismo, che trae origine non soltanto nei suoi studi sulla storia romana, ma anche in molte pagine di fine Ottocento contro l'Italia di Francesco Crispi. In sostanza, egli cerca di comprendere in che modo una società aperta e socialmente articolata possa essere egemonizzata da un singolo. Le sue analisi che affascineranno anche un sociologo come Luciano Pellicani, che contribuirà non poco alla Renaissance degli studi su Ferrero è focalizzata sulla paura che domina gli uomini di potere quando si ha una rottura di continuità. In Potere si sottolinea che tanto Napoleone quanto Mussolini furono in qualche modo costretti ad assumere atteggiamenti dispotici anche perché non avevano un passato: il loro potere non era protetto da alcuna tradizione e quindi la loro posizione poteva essere occupata da chiunque. All'indomani di ogni terremoto rivoluzionario, insomma, accedono al potere uomini nuovi che potrebbero essere sostituiti da qualsiasi altro e per questo motivo essi vedono nemici ovunque. In queste pagine Ferrero che morirà a Mont Pèlerin, proprio dove cinque anni dopo Hayek fonderà l'associazione che riunisce i liberali di tutto il mondo elabora una difesa della libertà individuale che ricorda il conservatorismo liberale David Hume e mostra una grande consapevolezza del fatto che la civiltà si delinea nel corso del tempo, mentre ogni frattura improvvisa rischia di far precipitare l'umanità nel dispotismo, nel caos, nella violenza. Carlo Lottieri

Il ritratto. Chi era Meuccio Ruini, il liberale anti Mussolini. Redazione su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Meuccio Ruini (Reggio Emilia, 14 dicembre 1877 – Roma, 6 marzo 1970) fu due volte ministro e presidente del Senato. Eletto deputato nel 1913 con la lista radicale, era vicino a Nitti, con il quale condivideva l’impegno per il Meridione. Interventista, si arruolò volontario allo scoppio della prima guerra mondiale. Antifascista, prese parte alla secessione dell’Aventino (1924) e si ritirò a vita privata per tornare in campo dopo il 1942, quando partecipò alla lotta clandestina contro il regime. Esponente del Partito democratico del lavoro, fu ministro dei Lavori pubblici (dicembre 1944-giugno 1945) e presidente del Consiglio di stato (1945-48: suo capo di gabinetto fu il giovane economista Federico Caffè). Nel 1947 presiedette la Commissione dei 75 incaricata di redigere la Costituzione. Presidente del Senato dal marzo al giugno del 1953, fu contestato per l’atteggiamento assunto sulla legge truffa. Dopo che questa passò con la fiducia, Pci e Psi annunciarono alla stampa la volontà di denunciare il costituente per attentato contro la Costituzione. Non accadde mai.

Quel liberale "collabò" che spiazzò Churchill. Nell'ottobre 1940 Louis Rougier fu incaricato da Pétain di ricucire i rapporti con gli inglesi. Francesco Perfetti - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Sul finire del 1921, in occasione del viaggio in Italia di Albert Einstein, venne pubblicato un piccolo volume di Adriano Tilgher dal titolo Relativisti contemporanei con una prefazione di Mario Missiroli. Il libro piacque a Mussolini che volle recensirlo per affrontare il tema del rapporto fra «relativismo e fascismo». Era stato colpito, Mussolini, dalla lapidaria definizione del fascismo come «l'assoluto attivismo trapiantato nel terreno della politica» che Tilgher aveva elaborato studiando un gruppo di pensatori eterogenei ma espressione della crisi morale e filosofica del primo dopoguerra. Tra questi c'era - accanto ad Albert Einstein, Hans Vaihinger, Oswald Spengler - Louis Rougier (1889-1982), filosofo allora poco più che trentenne, allievo di Henri Poincaré e autore di un saggio, Les paralogismes du rationalisme, che demoliva le secolari certezze del pensiero razionalista e apriva la strada a quel «relativismo», condito di scetticismo e attivismo, che affascinava un Mussolini alla ricerca di una spiegazione, o legittimazione, filosofica del suo movimento. Destinato a diventare celebre anche per le polemiche contro il neo-tomismo, Rougier non si interessava moltissimo di politica ma, in linea con il suo «relativismo», aveva una visione liberale sviluppatasi lungo la direttrice speculativa che, partendo da Montesquieu e Constant, giunge a Guizot e Tocqueville. All'inizio degli anni Trenta, un viaggio in Urss gli fece aprire gli occhi sull'economia pianificata e divenne uno dei padri del neoliberalismo contemporaneo, legato a von Mises e von Hayek, e fu tra i fondatori del Centre international d'études pour la rénovation du libéralisme. Nel 1940, però, questo pensatore liberale, che insegnava all'Università di Besançon e che potrebbe a buon titolo essere inserito nel filone dei cosiddetti «non conformisti degli anni Trenta», venne coinvolto in una missione politico-diplomatica di cui si sarebbe avuta notizia pubblica all'epoca del processo contro il Maresciallo Philippe Pétain: un episodio che finì fatalmente per influire sulla sua reputazione politica. La vicenda, tuttora poco nota se non agli specialisti, è stata raccontata dallo stesso Rougier nel volume Missione segreta a Londra. Gli inconfessabili accordi Pétain-Churchill (Oaks Editrice, pagg. LII-268, euro 24) che, apparso originariamente nel 1947, viene riproposto con un ampio saggio introduttivo di Fabio Andriola. Il contesto in cui si colloca la vicenda è quello di una Francia che, umiliata e sconfitta dai tedeschi, si trovò a sottoscrivere il 22 giugno l'armistizio. Sotto la guida di Philippe Pétain, l'eroe di Verdun chiamato a guidare le sorti del Paese in quei frangenti drammatici, lo Stato di Vichy accettò alcune clausole riguardanti il futuro della flotta francese, la più potente del tempo, che gli inglesi guardarono con sospetto e diffidenza e considerarono poco rassicuranti. Una parte della flotta sarebbe rimasta a disposizione del governo francese per la difesa dell'impero, mentre l'altra parte, la più consistente, avrebbe dovuto essere smobilitata e disarmata sotto il controllo della Germania e della Francia. Churchill condannò i termini di un armistizio che gli sembrava avesse messo «tutte le risorse dell'impero francese e della marina nelle mani del nemico per consentirgli di raggiungere i propri fini». Collegati a tali preoccupazioni - ma anche per l'evoluzione della situazione politica interna di Vichy - furono, prima, l'attacco inglese a unità della flotta francese rifugiate in alcuni porti del Mediterraneo e, successivamente, la dichiarazione del blocco britannico nei confronti della Francia e del suo impero. Confidando nel fatto di avere importanti conoscenze in campo politico e accademico - a cominciare dal rapporto con il grande economista liberale sir Lionel Robbins della London School for Economics - Louis Rougier ritenne di poter portare avanti una missione diplomatica segreta presso il governo inglese che servisse ad attenuare il blocco in cambio di garanzie sul fatto che la flotta francese non sarebbe stata mai consegnata ai tedeschi e a concordare una sistemazione dell'impero diviso fra i territori coloniali schieratisi con De Gaulle e quelli rimasti fedeli a Pétain. Rougier ottenne da Pétain il via libera alla missione, della quale era al corrente il ministro della Difesa generale Maxime Weygand, ma non Pierre Laval che già sosteneva posizioni anti-inglesi e filo-tedesche e a proposito del quale Pétain si espresse con il suo interlocutore in termini inequivocabili: «Laval è l'uomo che disprezzo di più al mondo, ma ne ho ancora bisogno. Dopo me ne sbarazzerò». A Londra Rougier incontrò prima sir Alexander Cadogan, poi lord Halifax e, infine, il 24 settembre, Winston Churchill che lo accolse cordialmente salutandolo come «il primo francese» che riallacciava un legame fra la Gran Bretagna e Vichy. I negoziati andarono avanti per qualche tempo, e in tutta segretezza, sulla base di un «protocollo» preparato da Rougier, poi rivisto e integrato direttamente da Churchill: un documento che reca la data del 28 ottobre e che avrebbe dovuto costituire la base per un gentlemen's agreement tra i governi di Londra e di Vichy. In esso, tra l'altro, si parlava di un allentamento del blocco nel caso in cui la Francia avesse contribuito, sia passivamente sia attivamente, alla vittoria inglese e si ribadiva, da parte francese, l'impegno ad «affondare le unità della sua flotta piuttosto che lasciarle cadere nelle mani dei tedeschi o degli italiani». Frattanto molte cose erano cambiate. C'era stato il 24 ottobre l'incontro, propiziato da Laval, fra Pétain e Hitler a Montoire che fece preoccupare gli inglesi. Quando Rougier fece ritorno a Vichy era l'8 novembre. Preparò all'insaputa di Laval una nota per Pétain che lo ricevette a lungo il giorno 11 e, stando alla testimonianza del suo consigliere Fonck, dette l'ordine di ratificare l'accordo. Che cosa sia accaduto da quel momento in poi è tuttora poco chiaro. Della «missione» di Rougier si ebbe notizia pubblica durante una delle udienze del processo intentato contro il Maresciallo Pétain. In quella occasione, il 7 aprile 1945, uno dei testimoni, l'ammiraglio Fernet, raccontò nei dettagli la vicenda provocando una serie di imbarazzati interventi e smentite, anche attraverso la pubblicazione di un «Libro Bianco», da parte inglese. Il volume di Rougier Missione segreta a Londra nacque come tentativo di raccontare, con la pubblicazione di documenti ufficiali e ufficiosi, una storia che avrebbe inciso profondamente, come una sorta di psicodramma, sulla vita del suo autore. Pur essendo, come si è detto, uno studioso di formazione liberale e liberista, tutt'altro che filo-tedesco, Rougier, venne «arruolato» nella schiera dei «collaborazionisti», epurato e guardato con sospetto per le sue posizioni sempre più politicamente scorrette. Negli ultimi decenni della sua lunga vita, infatti, egli si avvicinò alla Nouvelle Droite di Alain de Benoist, sviluppando una severa critica teorica al concetto di democrazia e sostenendo l'idea di una superiorità «pragmatica» dell'Occidente rispetto alle altre culture. Da un punto di vista storico, quali che ne siano stati i risultati concreti la missione di Rougier andrebbe inquadrata nel tentativo, peraltro velleitario, di Pétain di mantenere un timido dialogo con la Gran Bretagna sotto l'ombrello di una neutralità nella sostanza artificiosa. Ma tutto ciò, all'epoca e per i protagonisti, era difficile da cogliere.

Marongiu e quel fascismo un po' liberale. Gianni Marongiu, recentemente scomparso, è stato uno dei grandi e dei pochi docenti di diritto tributario di formazione liberale.. Nicola Porro - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Gianni Marongiu, recentemente scomparso, è stato uno dei grandi e dei pochi docenti di diritto tributario di formazione liberale. Sua figlia, Paola, ha avuto la cortesia di inviarmi due favolosi libri di storia delle finanze. Uno in particolare mi ha colpito: Il fisco e il fascismo (Giappichelli, 2020). Marongiu, come tutti i liberali doc, ha avuto una decisa allergia per il regime, la fascistizzazione dello Stato, le sue violenze, la guerra e Mussolini. Ma la sua analisi del periodo che qualcuno definisce del «consenso» è straordinaria. Il taglio è quello fiscale e coincide con il ministero di Alberto De Stefani. Il primo Mussolini, quello del 1919, quello sansepolcrista, è una via di mezzo tra il rivoluzionario e il socialista e il non ancora Duce che propone «l'espropriazione fiscale». Tutto cambia in un paio di anni: «ci opporremo con tutte le nostre forze ai tentativi di socializzazione, di statizzazione, di collettivizzazione - dice Mussolini il 21 giugno del 1921 alla Camera - . Lo stato ci dia la polizia che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia ben organizzata, un esercito pronto tutto il resto, e non escludo neppure la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo». Si tratta, dirà un gran liberale come Maffeo Pantaleoni, del discorso più manchesteriano (oggi si direbbe liberista) «mai fatto nel parlamento italiano». A Napoli nel 1922 Mussolini va oltre e parla di uno stato che «deve rinunciare a qualsiasi gestione di attività economica e restituire ai privati l'esercizio di quelle funzioni che aveva con il tempo usurpato». Il ministro De Stefani, fascista poi critico, lo seguì su questa linea. Per prima cosa «disboscò la legislazione fiscale bellica» fatta di numerose tasse e regole di emergenza. «Con riguardo alla riforma dell'ordinamento tributario - scrive Marongiu - non perseguì obiettivi redistributivi aumentò la pressione fiscale sulle classi agrarie con un alleggerimento su quello industriale». Istituì un'imposta personale, ma solo moderatamente progressiva, abolì l'imposta di successione. In pochi anni, tra il 1922 e il 1925 «la situazione della finanza pubblica migliorò, la scomparsa delle entrate transitorie di guerra fu compensata dalle entrate permanenti del tempo di pace, ma soprattutto diminuì la spesa pubblica che passò dal 35 al 13 per cento del reddito nazionale. E ritroviamo la più rapida ritirata dello stato dalla vita economica nazionale verificatesi nella storia d'Italia». Meno imposte, meglio distribuite, meno stato nell'economia, pareggio di bilancio e riduzione del debito pubblico che passò dal 148% del Pil del 1920 al 61% del 1927. Il sistema fiscale, in particolare quello locale, risultava ingarbugliato, e ci furono interventi e sussidi ad hoc, ma insomma parliamo di un miracolo. Che presto finisce. Passa l'era liberale, la gestione De Stefani, arriva il partito della Confindustria e dal manchesterismo intriso di libero scambio e mercato dei primi anni si passò al protezionismo, alla difesa della lira con i dazi. E questa è la storia economica in discesa, verso gli inferi, che ci racconta la seconda parte del libro di Marongiu.

·        Al tempo del Fascismo.

La storia segreta della guerra in Friuli. Andrea Muratore il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. La storia del piccolo e fugace "regno" dei cosacchi creato dai nazisti in Carnia è una delle più singolari tra quelle della seconda guerra mondiale. Nei mesi in cui il nazifascismo si avviava al suo crepuscolo e in Italia si preparava la definitiva caduta delle armate tedesche, una delle meno note e più interessanti operazioni mai tentate dalla Germania nazionalsocialista per consolidare il suo traballante dominio ebbe luogo nel cuore della Carnia prossima ad essere divisa tra l'Italia postbellica e la Jugoslavia, ed ebbe protagonisti i militari cosacchi che durante l'invasione dell'Unione Sovietica avevano scelto di stare con Berlino. Tra il luglio 1944 e il maggio 1945 un'unità di SS di etnia cosacca, il XV. SS-Kosakken Kavalerie Korps, fu installato nelle regioni di confine dell'Italia nord-orientale annesse dal Reich dopo la resa di Roma agli Alleati e inquadrate nella Zona di operazioni del Litorale Adriatico. Dislocati per la lotta anti-partigiana, i cosacchi ebbero la possibilità di creare un insediamento ad immagine e somiglianza delle loro istituzioni tradizionali dal comando tedesco in Italia, dal Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer e dal Comandante superiore delle SS e della polizia di Trieste, Odilo Globočnik, il "boia di Lublino" che fu il pianificatore della realizzazione dei campi di sterminio di Belzec, Sobibor, Treblinka, in cui oltre un milioni e mezzo di prigionieri, in larga parte ebrei e zingari, furono uccisi nelle camere a gas o morirono di stenti. Come mai il Reich pericolante accettò l'insediamento dei cosacchi, una popolazione di stirpe orientali ritenuta "inferiore" dalla narrazione propagandistica nazista, in una zona di diretta amministrazione da parte dello Stato tedesco, a due passi dall'Austria? Le motivazioni furono prettamente militari. Tra il 2 e il 9 ottobre 1943, nel pieno del tentativo tedesco di posizionarsi nell'Italia divisa dopo l'armistizio dell'8 settembre precedente, il Terzo Reich lanciò nel Nord-Est della penisola una dura operazione antipartigiana denominata Operazione Nubifragio. L'obiettivo era consolidare il controllo della regione, da Udine a Pola passando per Trieste, e le truppe del generale Paul Hausser, comandante del II SS-Panzerkorps in Italia settentrionale, si scontrarono duramente con i partigiani titini che impegnavano i tedeschi in un duello asimmetrico altamente logorante. La parallela pressione esercitata dagli Alleati in Italia centro-meridionale a Montecassino, l'avanzata sovietica a Est e le minacce del secondo fronte sul litorale francese portarono l'alto comando germanico a sfruttare con crescente intensità le truppe straniere alleatesi sotto le bandiere del Terzo Reich nella "crociata antibolscevica" del 1941 o attratte dalla retorica paneuropea con cui Berlino celava le ambizioni di dominio del governo nazista. Tra questi spiccavano i cosacchi del Don, del Kuban e del Terek a cui nel novembre 1943 un proclama ufficiale firmato dal Ministro dei territori occupati Alfred Rosenberg e del comandante della Wehrmacht Wilhelm Keitel prometteva concessioni territoriali dopo la fine della guerra in cambio di un arruolamento sotto i vessilli con la svastica. Larga parte di questi territori erano ormai tornati sotto il controllo dell'Armata Rossa di Stalin, dunque i cosacchi furono dirottati verso le pianure della Carnia attraverso l'Operazione Ataman, che nell'estate 1944 consentì di dislocare 22mila cosacchi e 4mila persone di etnia caucasica, per un totale di 11mila uomini combattenti assieme ai loro famigliari, vicino al confine italo-jugoslavo antbellico. Contro i partigiani comunisti di Tito, i nazisti schierarono un'unità militare formata da alcuni tra i più irriducibili avversari del bolscevismo sovietico. I soldati dai lineamenti caucasici con giubbe e caftani mai visti prima in Carnia, che portavano sul capo colbacchi con l’aquila e la croce uncinata nazista affiancata Šaška, la sciabola della Russia asiatica, miravano a far rivivere l'onore militare degli antichi cosacchi dello Zar, i più fedeli combattenti al servizio dell'Impero della Terza Roma caduto nel 1917. Come ricorda Pier Arrigo Carnier ne L’armata cosacca in Italia, i cosacchi ebbero il loro nuovo "atamano" nel comandante, Pëtr Nikolaevič Krasnov, il loro nuovo Don nel Piave e nel Tagliamento tornati a essere teatro di guerra, Tolmezzo come "castro pretorio" in cui insediare le loro autorità. Le città furono ribattezzate con foggia cosacca: Alesso fu ribattezzata in Novočerkassk, Trasaghis in Novorossijsk, Cavazzo in Krasnodar. Era di fatto nata la Kosakenland in Nord Italie.

Dato che, come riporta Patria Indipendente, "il contingente si articolava in due gruppi etnici distinti, caratterizzati da diverse tradizioni, usi e religione (la maggior parte dei cosacchi era cristiana ortodossa mentre molti caucasici erano musulmani), l’occupazione si articolò in due principali zone; la parte settentrionale della Carnia fu gestita dai caucasici del generale Sultan Ghirey-Kitsch, la parte meridionale fu occupata dai soldati cosacchi agli ordini dell’atamano Domanov". Da Berlino Krasnov coordinava le attività e, dal febbraio 1945, fu presente sul campo fino alla fine delle ostilità. Inoltre "Con i militari giunse un gran numero di cavalli ed anche una ventina di cammelli. I cosacchi appartenevano a estrazioni sociali e culturali diverse, ma si dimostrarono gelosi e fieri delle proprie tradizioni e non mancarono di esibire il loro caratteristico spirito d’avventura e l’atteggiamento guerresco". Nel quadro dell'impegno militare a fianco dei tedeschi l'8 ottobre 1944 i cosacchi parteciparono all’operazione Waldläufer contro la Repubblica partigiana della Carnia, dando sfoggio di brutalità nelle repressioni e di grande audacia sul campo di battaglia. I cosacchi si resero protagonisti delle ultime operazioni militari ai margini del fronte italiano e jugoslavo della seconda guerra mondiale, anche al di fuori della loro "piccola patria". A inizio 1945 li si sarebbe ritrovati a fianco delle armate tedesche impegnate nell'ultimo contrattacco al confine tra Serbia e Ungheria, l'offensiva nella zona del Lago Balaton che fu l'equivalente orientale della battaglia delle Ardenne, il colpo di coda finale con cui Hitler tentò di arrestare l'avanzata nemica. Per i cosacchi combattere con decisione era una questione di vita o di morte: Krasnov era ben consapevole del destino che sarebbe stato riservato loro in caso di resa ai sovietici e fece perciò di tutti, nelle settimane in cui la crisi del Reich si faceva irreversibile, per alzare bandiera bianca di fronte agli Alleati occidentali. A maggio del 1945, i cosacchi, accampati nel lato austriaco della Val Pusteria, depongono le armi di fronte agli inglesi ignari del fatto che, alla conferenza di Yalta, Winston Churchill e Stalin hanno già concordato la loro restituzione alla potenza socialista. Per molti dei cosacchi della Carnia la destinazione finale fu la morte per fucilazione o una lunga prigionia nei gulag di Stalin, una ferita che brucia ancora oggi nel ricordo di una tragica avventura che vide i cosacchi vittime due volte. Dapprima, delle illusorie promesse del Reich sul viale del tramonto; in seguito, del regolamento di conti contro i collaborazionisti seguito alla vittoria dell'Unione Sovietica. Ma nel ricordo degli abitanti della Carnia restò a lungo, piccola storia nella grande tragedia dell'ultimo conflitto mondiale, la memoria dell'esperimento di "colonizzazione" tentato dai duri e valorosi guerrieri provenienti dall'Oriente.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia e

Mirella Serri per “La Stampa” il 28 agosto 2021. La signora Elisa Fuà «durante un veglione tradì la fedeltà coniugale con un ariano»: l'industriale Oscar Morpurgo, divenuto così figlio illegittimo, concepito fuori del matrimonio, di un papà ariano, sfuggì alla rete della persecuzione antiebraica. Con decreto del 3 giugno 1941, al ricco ebreo anconetano, che assieme alla famiglia aveva sempre dichiarato la sua fedeltà alla dittatura, fu concesso di essere «discriminato» e «di essere classificato non rientrante nella categoria dei giudii». Morpurgo era un noto finanziere e un imprenditore: la discriminazione mise a rumore la pubblica opinione. La stampa di regime attivò un battage antisemita per dimostrare la falsità del presunto tradimento della mamma di Morpurgo. Il decreto che salvava Oscar fu annullato. Chi si preoccupò di dirimere la controversia e di occuparsi della pratica? Il Duce in persona. Siglò il documento con una «M» tracciata con la matita blu. L'iniziale del suo cognome sulle carte che decidevano la sorte degli israeliti aveva un preciso significato: a volte indicava la necessità di ulteriori ricerche e molte altre volte siglava la definitiva assegnazione alla «razza ebraica». A portare alla luce le «M» fino a oggi inedite di Mussolini, che finivano per indirizzare i cittadini israeliti verso un fatale destino, è Giorgio Fabre nel libro Il razzismo del duce. Mussolini dal ministero dell'Interno alla Repubblica sociale italiana (Carocci editore, pp. 549, 49), scritto con la collaborazione di Annalisa Capristo. Fabre smentisce la vulgata, diffusa per anni, che Mussolini non avrebbe dato un personale contributo alla destinazione finale degli ebrei. Al contrario, il leader fascista fu assai attivo e si occupò direttamente dei rapporti che designavano l'appartenenza razziale. Avvenne nel caso di Morpurgo, a cui il capo del governo era anche molto legato: l'industriale fu deportato. Salì sul medesimo treno dell'attuale senatrice Liliana Segre e finì ad Auschwitz, e dal 26 febbraio 1945 di lui non si ebbero più notizie. Non solo: fin dal 1938 il Duce si dedicò a dar vita a un «razzismo ministeriale e di Stato», osserva Fabre. Lo studioso fa emergere i documenti dell'organizzazione da parte di Mussolini - nei mesi che precedettero la legislazione razziale - di un'efficiente macchina statale che alimentò un razzismo burocratico di cui fino a oggi assai poco è stato raccontato. Con un decreto emesso il primo giugno 1938 il capo del governo istituì la commissione che doveva varare provvedimenti legislativi riguardanti «la difesa della razza italiana». I commissari erano sei e a loro poi si aggiunse Gaetano Azzariti, presidente del cosiddetto «tribunale della razza» che faceva capo alla Direzione generale per la Demografia e la Razza, la Demorazza. I solerti funzionari, di cui Fabre ricostruisce le biografie, ricevevano 25 lire per ogni riunione. L'ostilità agli ebrei di Mussolini, osserva lo studioso che si è occupato dell'argomento anche in ricerche precedenti, aveva origini lontane. Fin dal 1910, l'allora giovane socialista esaltava la teoria «pangermanista» della «razza bionda». Successivamente, catturato dalle teorie di Friedrich Nietzsche, più volte scrisse e ribadì, sulle orme del pensatore tedesco, che gli ebrei con la loro ricchezza e prepotenza «si prendevano una rivincita contro la razza ariana che li aveva condannati alla dispersione per tanti secoli». Quando il dittatore dovette confrontarsi con Alfred Rosenberg, il teorico più amato da Hitler per le speculazioni sui «popoli africani», considerati «una razza inferiore al pari degli ebrei», riprese in mano i propri scritti giovanili. Lo fece per dimostrare, dati alla mano, che il suo razzismo era antecedente e differente da quello dell'alleato germanico. La sperimentazione antisemita e la cacciata degli ebrei dai pubblici uffici fu messa in atto fin dal 1934. A fianco del Duce, a diramare circolari antiebraiche, erano il sottosegretario al ministero dell'Interno (il cui scranno era occupato dal Duce) Guido Buffarini Guidi e il capo della polizia Arturo Bocchini: dinamici e pronti a obbedire agli ordini, comandavano ai prefetti di effettuare controlli e di privare i singoli ebrei, non di rado fascisti della prima ora, degli incarichi di dipendenti o di stipendiati dallo Stato. Il «razzismo segreto», fatto di vessazioni individuali, scorreva in parallelo a quello pubblico. Nel dopoguerra tanti illustri componenti di commissioni e sottocommissioni, come Azzariti, riuscirono abilmente a sfuggire all'epurazione. Addirittura sostenendo di aver avuto, con il loro ruolo istituzionale, una funzione di protezione nei confronti degli ebrei. Azzariti negli anni in camicia nera confermò ripetutamente la sua avversione nei confronti dei «giudei» e si prodigò per le loro condanne. Dopo la fine del conflitto, però, collaborò addirittura con Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia. Per giunta nel 1955 venne nominato giudice costituzionale dal Presidente Giovanni Gronchi. Ancor più grave è il fatto che pure il coinvolgimento e le pesanti implicazioni di Mussolini negli arresti e nei trasferimenti nei Lager degli ebrei sono state per decenni ricacciate nell'ombra. Una verità che ora, dopo le carte fatte emergere da questa importante ricerca, non si può più negare

Storia di Peppino Jr. Garibaldi, che finì in cella con Pertini e Saragat. Il nipote dell’eroe dei due mondi fu arrestato dai nazisti e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Solo l’8 settembre lo salvò dal plotone di esecuzione. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 agosto 2021. Il Messico è pieno di vie e piazze dedicate a Garibaldi. Una si trova proprio al centro della capitale. Ma non è il Giuseppe Garibaldi che viene subito da pensare. Parliamo del nipote. Si chiama anche lui Giuseppe, ma veniva chiamato Peppino, naturalizzato in Josè. Suo padre, Ricciotti Garibaldi – nato in Uruguay – era il figlio, appunto, di Giuseppe Garibaldi e Anita. La storia di Ricciotti è degna di nota. Figlio quartogenito del grande eroe dei Due Mondi, era salito sul treno Roma – Sulmona per inaugurare la nuova impresa ferroviaria, in veste di deputato dell’appena nato Regno D’ Italia. Ma il treno si fermò in una minuscola stazione per ricostruire le sue scorte di carbone e intraprendere le nuove salite verso l’Abruzzo: Riofreddo. La temporanea sosta a Riofreddo, piccolo comune romano, bastò a Ricciotti per sceglierlo come luogo di un futuro investimento. Il figlio di Giuseppe Garibaldi comprò un terreno e iniziò a costruire le fondamenta per quella che doveva essere una dimora estiva. I fatti andarono diversamente. L’avventatezza di Ricciotti Garibaldi negli affari era proverbiale e in pochi anni costò al battagliero figlio dell’eroe dei Due Mondi, tutto il proprio capitale. Secondo la legge dell’epoca, a Ricciotti venne lasciata in dotazione solo la proprietà di minor valore, per permettergli di sopravvivere al proprio disastro. Per l’Italia, Ricciotti e la sua numerosa famiglia dovevano scegliere di vivere a Riofreddo oppure emigrare. L’arrivo nel piccolo paese della provincia romana venne però salutato con entusiasmo dal nucleo familiare. Ricciotti aveva sposato a Londra Constance Hopcraft, una donna dotata di grandissimo carattere, capace di sostenere spesso con le sue sole forze l’intera famiglia. E con lo stesso impeto, Costanza trasformò le tre stalle presenti sul terreno al momento dell’acquisto in quella che nel tempo sarebbe diventata Villa Garibaldi, oggi sede di un suggestivo museo. A pensare che prima ancora di conoscere sua moglie, a Londra Ricciotti ebbe la possibilità di andare a trovare Karl Marx e Engels. La sua popolarità fra circoli operai e anarchici aumentò e, dopo la morte di Giuseppe Mazzini, assieme a qualche mazziniano e a qualche garibaldino, fondò, nell’agosto 1872, riunendo 300 persone al teatro Argentina, l’associazione dei Franchi cafoni o “associazione dei Liberi Cafoni”, denominazione con richiami contadini, e probabilmente di ispirazione bakuniana con cui avrebbe voluto riunire i democratici italiani per organizzare la “democrazia pura”. Il nome dell’organo di stampa del movimento, “Spartacus”, è indicativo dei propositi rivoluzionari dell’associazione, che tra i suoi obiettivi poneva quello del suffragio universale. L’associazione ben presto assunse i caratteri di associazione di ideali socialisti finendo in poco tempo per essere disciolta dalla questura romana. Tutti i figli di Ricciotti mantennero fede al mito di nonno Giuseppe. Tutti si impegnarono, a vario titolo nelle cause indipendentiste, irredentiste, nazionaliste. Alcuni scelsero strade opposte, altri morirono da eroi negli assalti alla baionetta sul fronte trentino. Ma tra loro spicca il primogenito Giuseppe (detto Peppino), nato a South Jarra, in Australia, che fece dei viaggi e dell’impegno politico il proprio credo. Allievo del collegio tecnico di Fermo, fuggì per arruolarsi col padre nella spedizione del 1897 in Grecia durante la guerra greco- turca e in seguito si stabilì a Buenos Aires. Nel 1903 offrì i suoi servizi in Sudafrica nelle guerre boere come volontario per l’esercito britannico e poi combatté in Venezuela contro Cipriano Castro durante la cosiddetta Rivoluzione liberatrice. Arrivò in Messico all’inizio del 1911 per unirsi alle forze maderiste, quelle capeggiate da Madero, considerato un paladino della democrazia messicana e propugnatore di profonde riforme sociali. Partecipò a diverse battaglie nello stato di Chihuahua, tra cui la battaglia di Casas Grandes contro l’esercito federale di Porfirio Díaz, dopodiché raggiunse il grado di generale attirandosi persino le ire del celebre anarchico Pancho Villa, che gli giurò vendetta e tentò di addirittura di eliminarlo fisicamente. Successivamente fu nominato capo della cosiddetta Legione Straniera, che riunì una quarantina di individui e in cui lavoravano volontari di diverse nazionalità. Tanti erano italiani. Ma la sua designazione, inizialmente, creò malcontento. Quando trionfò la rivoluzione maderista, Garibaldi decise di lasciare il Messico. Andò in Grecia nel 1912 per combattere nella prima guerra dei Balcani contro la Turchia, e vi rimase fino al 1913. Ma non finisce qui. Ora viene il bello, ed è una storia poco conosciuta. Il buon Peppino decise di tornare in Italia nel 1922 e assieme a un altro nipote di Garibaldi, fondò il Movimento “Italia Libera” per opporsi all’avanzare fascista, che però non ebbe successo. A quel punto fondò anche una vera e propria banda armata con l’intento di uccidere Benito Mussolini e rovesciare il regime che si stava instaurando. Diverse qui sono le ricostruzioni storiche, ma pare che tale banda fosse appoggiata da Domizio Torriggiani, Gran Maestro della Massoneria Italiana e dal fratello Ricciotti. Un tentativo di colpo di Stato, intensificato dopo il ritrovamento del deputato socialista Giacomo Matteotti. Sul piano per eliminare Mussolini c’era pieno accordo tra i fascisti dissidenti e i partiti di opposizione. Il piano fallì, la dittatura si instaurò e Peppino fu costretto a fuggire negli Stati Uniti. Furono anni bui, rischiarati solo da un matrimonio, che sarà molto felice, con Maddalyn Nichols, una giovane americana appartenente ad una famiglia importante. Peppino dovette tuttavia condurre una vita modesta, e ricorse all’aiuto della sorella Josephine ( Giuseppina), per ritornare in Italia nel 1940. Il fratello Ricciotti tenta di riunire la famiglia sotto l’egida di Peppino per pesare sulla situazione interna italiana. Anche quello fu l’ennesimo fallimento. Nel 1943 Peppino Garibaldi fu arrestato per ordine della Wehrmacht tedesca e detenuto al carcere romano di Regina Coeli, in via della Lungara, a Trastevere. Da ricordare che in quel carcere romano, dalla caduta di Mussolini ( luglio 1943), vennero detenuti i vecchi fedeli del Duce, gerarchi e dirigenti. Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre invece, e la conseguente occupazione nazista di Roma, il carcere venne governato dalle SS tedesche che si impegnarono a torturare gli oppositori nel terzo braccio. In quel carcere vi rinchiusero giornalisti, politici, ebrei, scrittori, gente comune. Si ritroverà, nel sesto braccio, arrestato il 20 novembre del 1943, Carlo Ginzburg, scrittore, esponente del Partito d’azione. Non uscirà vivo di li. Morirà in seguito alle torture riportate dopo un pestaggio ad opera dei fascisti. Tra gli antifascisti chiusi nel sesto braccio c’erano anche Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, entrambi partigiani, socialisti, odiati dai fascisti e trasferiti in quell’ala del carcere in attesa della fucilazione. I due futuri presidenti della repubblica riusciranno ad evadere. Ma Peppino Garibaldi no e fu in attesa della fucilazione. Solo la liberazione di Roma lo salvò da una fine tragica. Dopo la guerra, condusse vita riservata e morirà a Roma il 19 maggio 1950. Da povero.

"Carri Ariete combattono": la resistenza eroica di El Alamein. Andrea Muratore il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. La resistenza della divisione "Ariete" segnò la battaglia di El Alamein e rappresenta una storia indimenticabile nella guerra degli italiani. "Carri Ariete combattono": è entrata nella storia militare italiana la breve e significativa comunicazione con cui, dopo l'accerchiamento ad opera delle divisioni inglesi nel settore di El Alamein, i carristi della divisione Ariete segnalarono al comando italo-tedesco la loro volontà di resistere fino alla fine nella giornata del 4 novembre 1942. Il fronte delle truppe di Erwin Rommel era in rotta, l'Armata Corazzata Italo-Tedesca batteva in ritirata verso la Tunisia e la Libia profonda, ma nei settori in cui la resistenza delle divisioni italiane fu più forte la prospettiva di una vittoria a mani basse degli uomini di Sua Maestà fu messa in discussione dalle armate del Regio Esercito. E se estremamente nota e romanzata è la storia dei paracadutisti della Divisione Folgore, tragicamente costretti a infossarsi nelle sabbie egiziane da decisioni strategiche insensate prese da Benito Mussolini e Adolf Hitler, meno conosciuta fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori è la tenuta delle forze corazzate della 132° Divisione "Ariete", che resistette fino al totale annientamento tra El Alamein e Fuka. Tra Bir el-Gobi, Sidi Rezegh, Tobruk e la prima battaglia di El Alamein gli uomini dell'Ariete, che Rommel avrebbe ricordato come "i nostri più vecchi camerati italiani" stimando profondamente la capacità degli uomini della formazione corazzata, si erano battuti con coraggio contro le forze inglesi, sostenendo a tutto campo le armate italiane e le meglio equipaggiate divisioni tedesche sfruttando un armamento molto spesso inferiore. Il nerbo della Ariete era costituito dai carri medi M14/41; nel corso di 14 mesi di guerra ininterrottamente combattuta nel deserto africano il reggimento corazzato più attivo della Ariete, il 132°, pagò un altissimo tributo di sangue con almeno 340 fra caduti e dispersi (40 ufficiali, 75 sottufficiali e 225 carristi), mentre furono ben 365 le decorazioni al valor militare concesse ai carristi di ogni grado del reggimento. Molte di queste furono associate all'ultima e più significativa esperienza di combattimento del gruppo italiano, nel quadro della rotta delle forze dell'Asse alle porte di Alessandria d'Egitto. Nel quadro della seconda battaglia di El Alamein l'Ariete, dopo essere stata schierata come formazione di riserva nei primi tre giorni di battaglia, il 26 ottobre fu spostata a Nord nella zona di Deyr el-Murra, dove, posizionandosi in assetto da combattimento, contribuì al tentativo di Rommel di controbattere l'avanzata delle preponderanti armate di Bernard Montgomery, cercando di colpire in particolare le divisioni di fanteria del Commonwealth. L'Ariete puntò da sud su Tel el-Aqqir, mentre la divisione "Littorio" e la 15ª Panzerdivision convergevano da nord. In questa fase, in pochi giorni la violenta reazione britannica costrinse le divisioni dell’Asse a ritirarsi e portò Montgomery a riprendere l'offensiva. Di fronte alle prospettive di un accerchiamento e del totale crollo del fronte le divisioni corazzate dell'Asse giocarono una partita di retroguardia per frenare l'avanzata del prudente gruppo multinazionale dell'Ottava Armata britannica. All’alba del 3 novembre l′Ariete, tornata a nord, si preparò a chiudere il varco aperto nella linea italo-tedesca, mentre nella notte tra il 3 e il 4, venne costituita una nuova linea difensiva dalle truppe dell’Asse, con i piccoli e medi carri italiani costretti a tener testa alle truppe corazzate britanniche armate con mezzi pesanti di produzione britannica o americana, compresi gli Sherman di ultimissima fattura. Paolo Caccia Dominioni, nel suo resoconto El Alamein, ricorda il clima che circondava l'Ariete: nel pieno della battaglia, di fronte all'avanzata britannica "carristi e artiglieri corazzati sanno che contro gli Sherman non sono efficaci altro che i pochi pezzi da 75, 90 e 100 disponibili". Per il resto le uniche bocche da fuoco a disposizione erano le innocue 47/32, "a titolo puramente sentimentale", e molti sapevano che il destino degli assetti italiani era quello di trasformarsi in “bare ardenti d’acciaio, carro dopo carro, semovente dopo semovente, autoblindo dopo autoblindo". Tuttavia il morale della divisione restò alto, complice il forte spirito di corpo. Caccia Dominioni ricorda uomini comuni divenuti loro malgrado eroi, soldati in larga parte senza volto trasformatisi in protagonisti, celebra "lo spirito del Maggiore Pardi, a distanza dalla sua morte, e del Colonnello Maretti, insostituibile, lontano per gravi ferite, del Maggiore Pinna e del Maggiore Prestisimone, siciliano, che cambiava carro a mano a mano che glielo uccidevano sotto”, come fosse un cavallo, fino a perderne tre uno dopo l'altro in una giornata. Nella giornata del 4 novembre, mentre contemporaneamente per quattro ore trecento carri britannici vennero trattenuti da trenta carri tedeschi a Nord della Ariete, sud la 10ª Divisione corazzata britannica dotata di carri medi M4 Sherman, Grant e Crusader si lanciava addosso al XX Corpo italiano incardinato sull'Ariete con i suoi M13/40, in un rapporto di forze che è difficile ricostruire ma che secondo diversi storici non fu, al limite, inferiore a quello delle truppe di Berlino. Arrivando a utilizzare ogni arma, dalle bombe a mano a molotov improvvisate, per fermare i carri armati britannici, l'Ariete impose un pesante tributo in termini di perdite ai nemici, ma fu infine costretta a ripiegare, travolta, sommersa. Menttre 30mila fanti italiani cadevano prigionieri, le forze dell'Asse iniziarono a ripiegare, sia per le capacità tattiche di Rommel, che per l'estrema prudenza di Montgomery, coperte dalla scelta di immolarsi delle truppe dell'Ariete. Alle 15.30 del 4 novembre al comando italiano arrivò il celebre messaggio del generale Francesco Arena: "Carri armati nemici fatto irruzione sud Divisione Ariete. Con ciò Ariete accerchiata, trovasi 5 km nord-ovest Bir-el-Abd. Carri Ariete combattono". Nella battaglia la divisione scomparve combattendo, furono annientati e dispersi tutti i battaglioni carri, tranne il XIII, il reggimento bersaglieri e le batterie di semoventi. Due giorni dopo anche il XIII Battaglione Carristi M, l'unico sopravvissuto con non più di venti carri all'azione dei giorni precedenti, subì la stessa sorte vicino a Fuka. L'Ariete, scrisse Rommel, aveva combattuto con coraggio e lo stesso generale svevo riconobbe che dai suoi uomini "avevamo sempre preteso più di quanto fossero in grado di fare con il loro cattivo armamento". Nella disfatta egiziana l'Ariete, assieme alla Folgore, fu la divisione che più si coprì di gloria militare. Una gloria tragica, figlia dell'impreparazione di buona parte delle forze armate italiane a un conflitto impari, ma che desta ammirazione per la sincerità del cimento dei combattenti italiani che, quasi settant'anni fa, sfidarono i giganti corazzati alleati sapendo di correre il rischio di andare incontro a una morte tutt'altro che incerta.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è

La Battaglia di Mezzo Agosto: l'ultima vittoria sul mare. Paolo Mauri il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Dopo la debacle subita nello scontro aeronavale di giugno, gli inglesi tentano una nuova operazione di rifornimento di Malta. Ma sarà una nuova (ultima) vittoria dell'Asse. Malta. La “spina nel fianco” dei nostri convogli che rifornivano la Libia, il fronte di guerra principale dell'Italia durante il secondo conflitto mondiale. La mancata presa dell'isola è stata spesso e volentieri indicata come una delle cause, se non la causa principale, della nostra sconfitta. In realtà, come abbiamo già avuto modo di dire, la storiografia post bellica ha ricamato molto su questo aspetto, per motivazioni diverse. Dal lato italiano forniva il paravento dietro cui nascondere le pesanti carenze dal punto di vista logistico (i nostri mercantili salpavano “a mezzo carico” diretti verso i porti libici), dal lato britannico si è volutamente calcata la mano sull'epopea di resistenza dell'isola per questioni di prestigio e propaganda, sebbene i comandi inglesi la considerarono quasi sempre secondaria, a tratti indifendibile. Nonostante queste considerazioni, Londra, animata dalla strategia di costante logoramento delle forze dell'Asse utilizzando qualsiasi mezzo, ha cercato, dall'entrata in guerra dell'Italia, di mantenere viva l'isola, da cui partivano sommergibili, velivoli e unità di superficie, per cercare di colpire le nostre rotte marittime con la “Quarta Sponda”. Proprio per cercare di rifornirla, e prolungarne la resistenza sino all'apertura del secondo fronte in Africa (operazione Torch, 8 novembre 1942) e alla controffensiva sul fronte egiziano, l'Ammiragliato britannico, nell'estate del 1942, predispose due grandi operazioni che determinarono due grandi battaglie aeronavali: della Battaglia di Mezzo Giugno ne abbiamo già parlato, oggi vi raccontiamo la storia della Battaglia di Mezzo Agosto. Dopo la debacle subita in mare nello scontro aeronavale di giugno, in cui i due convogli diretti a Malta vengono praticamente spazzati via dagli aerosiluranti italotedeschi e dalla Settima Divisione Incrociatori Leggeri della Regia Marina, gli inglesi tentano una nuova operazione di rifornimento di Malta. Un nuovo convoglio, chiamato Pedestal, composto da 14 navi da trasporto – tra cui una petroliera, l'Ohio, la più grande della flotta britannica – viene organizzato per cercare di far giungere sull'isola 85mila tonnellate di preziosi rifornimenti. Questa volta il gruppo navale partirà da Gibilterra, e in sostegno della Forza H di base nella piazzaforte britannica, vengono chiamate unità navali da altri teatri: dalla Eastern Fleet, ad esempio, giunge la portaerei Hms Indomitable, l'incrociatore leggero Hms Phoebe e i cacciatorpediniere Laforey, Lookout e Lightning; le corazzate Nelson e Rodney, che si trovavano a Freetown, vengono fatte giungere a Scapa Flow, da dove, il 31 luglio, salpano insieme alla portaerei Victorious, all'incrociatore leggero Syrius e ai relativi caccia di scorta, per congiungersi con la Forza H di Gibilterra, che vede la presenza della portaerei Hms Eagle, e alla Hms Furious. A questo dispositivo navale vanno aggiunti gli incrociatori Hms Nigeria, Kenya, Manchester, Cairo e Charybdis con relativa scorta oltre alle corvette della Forza R (Jonquil, Geranium, Spirea, Coltsfoot e Slavonia) insieme a una serie di sommergibili. La copertura aerea in quel "Mezzo Agosto" era affidata da circa 138 velivoli imbarcati sulle portaerei tra caccia e aerosiluranti (di cui 38 destinati a Malta come rinforzo) e altri 171 presenti sull'isola (100 Spitfire, 36 Beaufighter, 30 Beaufort, due Baltimore e tre Wellington). Dal punto di vista delle forze dell'Asse, nelle aree di agguato lungo la rotta di avvicinamento erano in pattugliamento 21 sommergibili (18 italiani e tre tedeschi) mentre nelle acque tra Capo Bon e Pantelleria vi erano 21 motosiluranti italiane e cinque S-Boote. Le unità di maggiore dislocamento erano rappresentate dalla Terza Divisione Incrociatori (Gorizia, Bolzano e Trieste) al comando dell'ammiraglio do squadra Angelo Parona (con sette caccia di scorta) e dalla Settima Divisione Incrociatori Leggeri (Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo) comandata dall'ammiraglio di squadra Alberto Da Zara con la scorta di quattro caccia. La scarsa disponibilità di carburante aveva forzato la decisione di non far intervenire le nostre corazzate (disponibili la Giulio Ceare, Andrea Doria, Caio Duilio e Vittorio Veneto). Per quanto riguarda lo strumento aereo la Regia Aeronautica e la Luftwaffe potevano disporre, sulla carta di un numero compreso tra gli 800 e i mille velivoli. Tuttavia, quelli realmente in efficienza, risultano essere 111 aerosiluranti italiani, 10 tedeschi, 41 bombardieri italiani e 130 tedeschi, 15 bombardieri in picchiata italiani e 26 tedeschi, 164 caccia italiani e 47 della Luftwaffe a cui si sommano 97 velivoli da ricognizione italiani e 14 tedeschi. La spina dorsale di questo dispositivo aereo è costituita, ancora una volta, dai trimotori S-79 che si accompagnano agli SM-84, ai Cant Z 1007 e ai tedeschi Ju-88 e He-111, accompagnati dagli Stuka che vestono i colori di entrambi gli alleati dell'Asse (il nomignolo affibiatogli nella Regia Aeronautica era “Picchiatello”).

La Eagle va a picco. La prima mossa della battaglia di Mezzo Agosto spetta però ai sommergibili. Nella prima mattina dell'11 agosto, lo Uarsciek avvista il convoglio inglese e lancia una salva di siluri, che però mancano i bersagli. Così non accade all'U-73, comandato dal tenete di vascello Helmut Rosenbaum, che colpisce la portaerei Eagle con quattro siluri mandandola a picco al largo di Algeri. Intanto la Furious, che ha lanciato i suoi 38 Spitfire di rinforzo per Malta, inverte la rotta e rientra a Gibilterra unitamente alla sua scorta, di cui fa parte anche il caccia Wolverine, che sperona il sommergibile Dagabur nella sua rotta verso la piazzaforte britannica.

Terrore dal cielo. Il 12 agosto due S-79, al mattino presto, avvistano il convoglio inglese mettendo in allerta i comandi dell'Asse, che ordinano attacchi aerei a ondate successive a partire dalle 9:14. L'attacco è talmente intenso che la corazzata Rodney decide di far fuoco coi suoi calibri da 406 in depressione per ostacolare l'avvicinamento degli aerosiluranti italiani sollevando alte colonne d'acqua coi suoi proiettili sparati in mare. Per la prima volta viene utilizzato anche un caccia, il Reggiane Re 2001 nella sua versione GV, come bombardiere: due velivoli riescono a sganciare una bomba speciale antinave, da 630 chilogrammi, sulla portaerei Victorious, che però non esplodono, ma producono solo danni leggeri. L'azione aerea italotedesca provoca gravi danni alle unità navali britanniche: anche la portaerei Indomitable viene danneggiata gravemente dagli Stuka tedeschi, il caccia Foresight viene azzoppato da un siluro lanciato da un S-79 e il mercantile Deucalion, fatto segno da bombe, deve ridurre la velocità a causa dei danni riportati. La furia degli attacchi fu talmente grande che l'ammiraglio comandante il convoglio Edward N. Syfret, ordina alla Indomitable di fare dietrofront insieme alla Forza Z con quasi mezz'ora di anticipo rispetto ai piani originari.

Il branco di lupi. Ma la mattanza era appena cominciata. La sera del 12 il sommergibile Dessié, in agguato davanti alla Tunisia, e operando insieme ad altri battelli italiani con la tattica assimilabile a quella del “branco di lupi” tedesco, lancia quattro siluri verso il convoglio e il Brisbane Star si vede la prua praticamente troncata. Poco dopo anche l'Axum lancia, da circa 1800 metri, con una geometria a ventaglio: l'incrociatore Nigeria, colpito, subisce danni talmente gravi che Syfret è costretto a trasbordare su un caccia mentre il Cairo, altrettanto malridotto, viene preso a cannonate per affondarlo. Colpita anche la petroliera Ohio, che però, incassa bene e resta a galla. Entra in azione anche il sommergibile Alagi, che nella mischia lancia i suoi siluri che colpiscono l'incrociatore Kenya, che però prosegue nella navigazione, e il mercantile Clan Ferguson. Il Bronzo, invece, colpisce affonda l'Empire Hope con tre siluri alle 23:45. Poco prima, alle 21:30, anche il mercantile Deucalion finisce a picco colpito da un unico siluro sganciato da un S-79. A fine giornata quattro mercantili, il Rochester Castle, il già citato Brisbane Star, il Cal Ferguson e il Santa Elisa risultano colpiti più o meno gravemente al punto da dover rallentare l'andatura e “rompere” il convoglio. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto entrano in azione le motosiluranti italiane e tedesche e anche l'incrociatore Manchester, insieme a cinque piroscafi, va a fondo, più un sesto colpito da un S-79. Da parte italiana vengono persi i sommergibili Dagabur e Cobalto, entrambi speronati dai caccia inglesi, e gli incrociatori Bolzano e Attendolo, colpiti dai siluri dell'Unbroken. Durante la giornata del 13, le motosiluranti dell'Asse non incontrarono nessuna unità navale nemica, e rientrarono in porto, mentre gli S-79 italiani continuano a ronzare sulle teste delle unità inglesi superstiti: alle 18:18, delle 14 navi mercantili salpate da Gibilterra, entrano nella Grand Harbor di Malta solo il Port Chalmers e la petroliera Ohio, talmente danneggiata che, una volta scaricata la nafta che trasportava, si spezza da sola e affonda mentre è ormeggiata.

Una vittoria inutile. La Battaglia di Mezzo Agosto si concludeva con una chiara vittoria delle forze italotedesche – la ultima sul mare – che però non si era tramutata in alcun vantaggio strategico: Malta riuscì a sopravvivere sino al mutare della marea in Nord Africa, sebbene gli inglesi avessero rinunciato a rifornirla con convogli sino al 1943, quando ormai l'ago della bilancia nel Mediterraneo pendeva decisamente in loro favore, e il lento dissanguamento del fronte africano non cessò, anzi, subì un'accelerata con la già citata operazione Torch – lo sbarco in Marocco – che portò rapidamente alla perdita dell'Africa Settentrionale e al conseguente sbarco in Italia. Con la Battaglia di Mezzo Agosto si chiudeva anche il ciclo degli scontri sul mare per opera delle unità maggiori della Regia Marina: la vittoria era stata ottenuta utilizzando unità sottili, sommergibili e aerei certificando una volta di più la fine di un'era, quella delle corazzate. 

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo (Anupsa). Attualmente scrivo per Gli Occhi della Guerra e ilGiornale.it. Appassionato di fotografia, storia e forze armate pratico la scherma a livello agonistico e sono anche istruttore regionale presso il Circolo della Scherma Lecco dove ricopro la carica di dirigente e addetto stampa 

Schiavi dei sogni o del potere: quegli autori persi nel Ventennio nero. Eduardo Savarese su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. Non temo di eccedere accostando l’immagine evangelica del Regno come un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche al libro di Antonio Di Grado Scrivere a destra (Giulio Perrone Editore, pp. 380, euro 18), che consegna al lettore una preziosa chiave di accesso alla conoscenza, di un tempo storico e letterario, di un intreccio tragico di esistenze e scelte ideali, di una pratica appassionata ed eroica dell’amicizia. In pagine che traboccano di sapienza spirituale, lo studioso catanese ci fa addentrare nella foresta notturna e intricata della letteratura durante il ventennio fascista: «Confido che sarà almeno un bel gesto di pietas non solo storiografica avventurarsi in quei binari morti, in quei sentieri interrotti, per sottrarre all’oblio un nutrito drappello di hommes des lettres privi di fama non di sventura». Ogni capitolo è un labirinto che setaccia di percorso in percorso un tema, una visione, un affanno e una speranza: ma chi ci guida con la lampada ferma della mitezza a ogni passaggio lancia il suo monito, nodo critico fittamente intrecciato di letteratura, etica, politica. L’orizzonte del libro è tracciato dall’urgenza di riportare alla memoria del lettore attuale scritture dimenticate, perché segnate dal marchio di infamia dell’aderenza al fascismo, oppure dal destino dell’incomprensione, allora e oggi (con la speranza di un oggi meno ottuso), oppure ancora ricondotte dalla critica e dalla storiografia a impoverite etichette unidimensionali. Scrivere a destra smuove lo stagno, con coraggio, con pietà, con l’amore per la densità feconda delle idee e della loro scrittura che, al fondo, solo conta e solo resta. I sentieri dei capitoli-labirinto sono moltissimi. E tutti palpitano di vita e pensiero. Scelgo i più amati. Le pagine su Concetto Pettinato, la rievocazione della sua scrittura, del suo fascismo ottocentesco e riformista con la radicale insofferenza per il capitalismo sono sbalorditive, perché, tra l’altro, gettano un ponte vertiginoso da allora a oggi su una (le parole sono di Pettinato) «Europa di burocrati, di chierici, di mercanti, di mercenari e di pensionati». Così, le pagine dedicate a Berto Ricci, alla sua «propensione spiritualistica sincera e sentita», «connaturata, piaccia o no, alle culture di destra». Ancora più potenti, perché commoventi nel pudore con cui raccolgono lasciti di pensiero ridotti a larve, le pagine del capitolo Le imperdonabili, il profilo di Margherita Sarfatti, intellettuale ebrea amante del duce e autrice di Dux, libro allora fortunatissimo subito tradotto in Inghilterra; le incursioni nei versi ora abbaglianti ora illividiti di Antonia Pozzi; la restituzione alla sua dignità rivoluzionaria di Paola Masino, del suo Nascita e morte della massaia. E, infine, le pagine dedicate alla letteratura che venne dopo la fine della guerra, e che veniva scritta tra divieti e censure da chi si era posto dalla parte dei repubblichini: Berto, Rimanelli. Qui l’autore sente di dover lasciare un segno di coscienza civile, che in Italia è sempre (o era?) segno di coscienza letteraria e artistica: la memoria divisa resterà tale, ma che non sia manichea! La maturità di una comunità verrà pesata – parafrasando Cioran – dalle lacrime versate per tutti i morti: a esse «è lecito scavalcare steccati e scompigliare schieramenti».

Eduardo Savarese

Simonetta Fiori per “la Repubblica” il 18 agosto 2021. Il nome non dice granché, oltre che tradire una radice laziale. Tra gli operatori dell'Istituto Luce, Alfredo Cecchetti non era il più quotato. Per le riprese sul balcone di Palazzo Venezia, gli veniva preferito un collega abile nel filmare di spalle Mussolini - al duce non piaceva essere ripreso da dietro - mentre Alfredo sistemava il cavalletto in piazza, attento alle oscillazioni della folla plaudente. Sapeva bene come si filma una dittatura. I maestri del Luce gliel'avevano spiegato con dovizia di dettagli. Gli obiettivi dovevano essere puntati, più che sul domatore seducente, su quella strabordante vitalità che affiorava dai volti adoranti e dal battimani ritmato. La folla, da destra, la riprendeva la cinepresa sotto la statua equestre del Vittoriano, il controcampo partiva dall'ultimo piano di Palazzo Bonaparte. Quanto a Mussolini, bisognava evidenziarne la mascella, orientando l'obiettivo sotto il mento. «Il duce inquadrato dal basso è la soggettiva della folla», si diceva tra sé Alfredo, ripassando una delle regole fondamentali della cinematografia di propaganda. Ma perché occuparsi di Alfredo, che non era neppure tra i più bravi? Se fosse rimasto "la cinepresa del duce", sarebbe stato uno dei tanti artefici della mitografia littoria. Ma un curioso destino lo trasformò nell'occhio dei totalitarismi del Novecento, capace con la stessa lente di filmare le adunate del fascismo e quelle delle dittature comuniste dell'Est.  Mandato a riprendere l'occupazione fascista a Durazzo, nell'aprile del 1939, in Albania avrebbe trascorso i successivi cinque anni, fino alla vittoria del partigianato rosso. Sotto il regime di Enver Hoxha, da operatore di Mussolini divenne senza soluzione di continuità il filmmaker del nuovo comandante comunista. E da dipendente dell'Istituto Luce fu costretto a reinventarsi come reporter del Minculpop albanese. Il mondo si rovesciava, ma le tecniche di ripresa erano perfettamente coincidenti. 

L'uomo e la folla. Certo non aveva mai letto Gustave Le Bon, il pragmatico Cecchetti. Ma pochi come lui conoscevano l'ipnosi collettiva in cui cadono le masse raccolte in una piazza. E pare di vederlo mentre sorride mite davanti al regista stalinista mandato da Mosca per insegnargli la retorica della persuasione. Se oggi sappiamo qualcosa dell'uomo che riuscì a filmare il secolo delle dittature è grazie al docufilm di Roland Sejko, prodotto da Cinecittà-Luce, che sarà presentato alla mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti Extra. Non è la prima volta che Sejko si misura con il tema della memoria storica. Da capo della redazione editoriale del Luce, conosce ogni segreto dell'archivio a cui attinge con sapienza anche per quest' ultimo La macchina delle immagini di Alfredo C. , modulato tra realtà e immaginazione. Nel nome di Cecchetti - interpretato da un bravissimo Pietro De Silva - si è imbattuto per caso, consultando i documenti dell'archivio albanese. E ne ha voluto ricostruire la storia che è anche la storia del suo paese, l'Albania, e dei 27 mila italiani tra soldati, tecnici, ingegneri, medici, operai e contadini, trattenuti nella penisola balcanica dopo la fine della guerra proprio in virtù delle loro competenze professionali e manuali. Tutti ostaggi del comunismo. «È una storia quasi dimenticata », racconta Sejko che s' è messo sulle tracce di queste famiglie. «Nel marzo del 1945 il governo italiano accettò che dovesse rimanere in Albania il personale italiano giudicato necessario per l'economia locale. L'accordo venne firmato dal sottosegretario della guerra Mario Palermo. L'operatore Alfredo Cecchetti era uno di questi italiani. Raccontare la sua storia mi dava l'occasione per riproporre l'intera vicenda in tutta la sua drammaticità. E per riflettere sulle tecniche della propaganda, sull'incombenza delle vicende storiche sui destini personali. E sulle responsabilità di chi produce le immagini, ieri come oggi». All'indomani di una ripresa "finta" di una seduta oceanica - questa volta Mussolini aveva parlato di sera tardi, a luci basse, e la folla fu ricostruita negli studi con i colleghi di Cinecittà, l'usciere con la moglie, le dattilografe, i montatori, gli impiegati della diffusione, i loro famigliari con il vestito della festa - Alfredo fu spedito in Albania per riprendere le prime immagini dell'occupazione militare italiana. La voce narrante ci avverte che l'operatore fece ripetere la scena ai soldati un paio di volte, anche i filmati restituiscono un'incertezza, ma forse è solo un'invenzione del regista per dirci che nessuno più di Cecchetti è capace di dare alle cose apparenza di realtà. Anche davanti agli accadimenti storici più emozionati, sa di dover mantenere freddezza. Per concentrarsi sul giro della manovella, ha una sua tecnica stravagante. Sul rumore di fondo della cinepresa - il suono che più lo rassicura - canticchia sottovoce "la vispa Teresa". Quel giorno di aprile del 1939, sulla banchina di Durazzo affollata di divise, anche la gentil farfalletta rabbrividì per un presagio funesto. Come un ammonimento di conseguenze terribili, impreviste. Per quattro anni, da responsabile della sezione albanese dell'Istituto Luce, Alfredo avrebbe filmato le nuove cattedrali littorie, i vialoni imperiali in forma di fascio, l'edificazione di ponti e strade con le scritte Dux e Rex. E poi tamburi, bandiere e parate. Ma con la vittoria del comunismo sopraggiunsero altri tamburi, altre bandiere ed altre parate. Il documentario accenna alla brutalità della guerra, sorvolando sulla repressione esercitata dagli italiani contro i cittadini albanesi. Un riflesso di quelle rappresaglie è nei volti avviliti del partigianato vittorioso che nel novembre del 1944 sfila nelle strade a passo lento, affaticato, «perfino i muli sembrano stanchi» è il commento del cineoperatore. Tra loro ci sono anche i soldati italiani che dopo l'8 settembre del 1943 s' erano rifiutati di arrendersi ai nazisti. Ma il filo della storia è affidato alla magnifica Parvo Debrie, modello L, numero di serie 9168, la macchina di Alfredo che aveva ripreso i bagni di folla del Mussolini trebbiatore o del Mussolini nuotatore e che ora cominciava a incamerare immagini di segno opposto ma in fondo eguali, con le piazze eccitate che inneggiano al nuovo comandante Hoxha, a Stalin, a Tito, a Karl Marx, alla dittatura del proletariato, ai tribunali del popolo. Anche Alfredo aveva subito un processo, sospettato di collusione con il fascismo. Ma il commissario valutò più opportuno promuoverlo sul campo "compagno operatore". Intanto molti altri connazionali erano stati trattenuti in Albania perché utili al regime. Alcuni finirono in galera con l'accusa di sabotaggio. Agli arresti e alle fucilazioni sono dedicate le ultime sequenze, inclusa l'esecuzione dell'ingegnere italiano di cui il figlio cerca ancora cerca le spoglie. Nella storia vera e fantastica narrata da Sejko, il cineoperatore Alfredo C. ripassa in moviola tutta la sua vita. E a tratti la memoria sembra un incubo disegnato da Escher, con i nastri della pellicola che invadono lo schermo al modo di tentacoli soffocanti. Come a dirci che dalla memoria bisogna anche difendersi, a patto però di non voltarle mai le spalle.

Mussolini e il potere di farsi e disfarsi da sé. Francesco Perfetti il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. La cura dell'immagine, la cultura da autodidatta e la scelta (autolesionista) di stare con i più forti. Come tutti i dittatori, Mussolini non aveva senso dell'umorismo, ma sapeva controllare le proprie emozioni. Adottava in pubblico una mimica teatrale con pose talora ridicole ma efficaci per la creazione e gestione del consenso. Tuttavia si lasciava andare, in privato, soprattutto di fronte a esponenti popolari, a comportamenti in apparenza semplici, cordiali, diretti. Che fossero sinceri o rivelatori del bisogno di sentirsi un capo autentico della nazione è, naturalmente, altro discorso. Il suo temperamento vigile e sospettoso, fondato sull'autocontrollo e sostanzialmente anaffettivo, lo portava a diffidare anche delle lodi degli ammiratori. Usava, consapevole o inconsapevole, la menzogna come strumento di dissimulazione o autoaffermazione. Per esempio, l'immagine, in seguito divenuta una vulgata, del «figlio del fabbro» era una piccola bugia che celava il fatto che egli, in realtà, non proveniva dal proletariato, ma da un ambiente piccolo-borghese. Il padre, in effetti fabbro e maniscalco, era divenuto un padroncino con operai e aiutanti alle dipendenze e aveva sposato con matrimonio cattolico una bella insegnante elementare di buona famiglia. Quell'immagine, grondante pauperismo e miseria, era funzionale al mito dell'uomo venuto dal popolo che amava il popolo. Che essa non corrispondesse alla verità lo notò presto - molto prima di Paolo Monelli, autore della gustosa biografia Mussolini piccolo borghese (1950) - Antonio Gramsci che già nel 1924 vide in Mussolini «il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce» in contrapposizione alla figura del vero capo proletario incarnato da Lenin. A svelare il volto genuino del fondatore e capo del fascismo, a scostare cioè la maschera che ne ha celato i lineamenti tramandandone un'immagine falsata dal mito, si è dedicato Maurizio Serra, accademico di Francia e diplomatico italiano, nello splendido libro Il caso Mussolini (Neri Pozza, pagg. 512, euro 19): un'opera, scritta con eleganza narrativa e finezza stilistica, che non è una biografia tradizionale, ma un itinerario alla scoperta del «mystére Mussolini» (come recita il titolo dell'edizione francese del volume, uscita il 2 settembre) concentrato sugli snodi essenziali della vicenda umana e politica del Duce e dello stesso regime. L'intento di Serra è anche esorcizzare sia lo spettro continuamente evocato di Mussolini - «quel morto tra noi», per usare la fulminante battuta di Leo Longanesi - come prototipo dell'«uomo forte», sia quello di un «pericolo fascista» troppo spesso utilizzato come «alibi per sviare l'attenzione dai ritardi e dai problemi effettivi del nostro sviluppo attuale». Serra introduce il lettore nella personalità di Mussolini, «falso proletario e vero piccolo borghese» che, «sedotto o quanto meno lusingato dalla frequentazione con le classi dirigenti tradizionali», appena giunto al potere cerca di «esibire un'immagine più rassicurante» e lontana da quella del capo delle squadre. Così si affida a diplomatici e maestri di cerimonie per apprendere i rudimenti del bon ton, si fa fotografare in cilindro in ritrovi mondani, si veste come un dandy conservando però «l'abitudine contadina d'indossare sotto la camicia una maglia di lana o di ruvido cotone». Mussolini era dotato per le lingue e lo si vide bene in occasione della Conferenza di Monaco del 1938. Aveva una cultura vasta pur se confusa, certo da autodidatta, ma la sua curiosità intellettuale era inesauribile. Leggeva di tutto e persino nell'ultima fase della sua parabola politica e umana, a Salò, riuscì a dedicarsi alla lingua spagnola, a interessarsi di letteratura russa e giapponese, a tradurre libretti di Wagner e capitoli di Il rosso e il nero di Stendhal. Non aveva, però, una filosofia politica di riferimento. Era, per così dire, un «cleptomane ideologico». Peraltro, su di lui ebbe influenza forte e duratura il sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel. Ma, soprattutto, era un realista e un tattico, non badava alle ideologie, però sapeva cogliere gli umori delle masse che gli garantirono il consenso. Forse furono il suo realismo politico e il suo tatticismo a evitare che il fascismo, a differenza del nazionalsocialismo o del comunismo, si traducesse in un regime di «totalitarismo perfetto». Su questa mancata deriva pesò anche il suo temperamento: egli, come ricorda Serra, «non fu mai capace di liquidare i suoi avversari o competitori interni in purghe simili alla notte dei lunghi coltelli hitleriana o ai processi di Mosca» e «non concepiva nemmeno la violenza astratta di un Lenin o di un Mao, pronti a utilizzare i milioni di morti delle carestie a fini politici». Maurizio Serra offre, prima di tutto, un ritratto suggestivo, e per molti aspetti sorprendente e inedito, di Mussolini, dei suoi amici più intimi, delle sue donne, dei gerarchi più vicini e di quelli che gli si schierarono contro. Ma offre anche molto di più: la ricostruzione dettagliata di com'egli sia riuscito a conquistare il potere costruendo un regime dittatoriale e, anche, di come abbia gestito (o cercato di gestire) la politica estera dell'Italia fascista. Nel volume di Serra - il quale, non dimentichiamolo, oltre che un diplomatico è un valido studioso di storia delle relazioni internazionali - i capitoli dedicati alla politica estera sono fra i più densi e innovativi dal punto di vista interpretativo e fanno la differenza fra quest'opera e altre biografie di Mussolini. In esso viene ridimensionata l'immagine corrente secondo cui Mussolini non aveva né un grande interesse per la politica estera, né una visione strategica dei rapporti internazionali. Serra mostra com'egli fosse «l'unico leader non provinciale emerso dai ranghi fascisti, l'unico che, come i rivali liberali Giolitti, Nitti o Sforza, potesse muoversi da subito e a suo agio nel contesto internazionale». Non solo: «lui e soltanto lui univa allora all'audacia manovriera in politica interna una conoscenza già sofisticata, maturata sin dal periodo svizzero, poi affinata a cavallo della Grande Guerra, dei meccanismi della politica estera». Se c'è un filo conduttore di politica estera in tutta l'avventura mussoliniana, secondo Serra va rintracciato nel «principio di schierarsi dalla parte del più forte, valorizzando il più possibile il proprio contributo», un principio che Dino Grandi sintetizzò nella formula del «peso determinante». Mai tentato o sedotto dall'idea della «sicurezza collettiva», che ebbe una breve stagione di popolarità internazionale, Mussolini, che non amava Hitler tanto che per lungo tempo si rifiutò di incontrarlo, finì per «infilarsi progressivamente, ineluttabilmente nel patto con Hitler, con molte esitazioni e qualche impennata, ma senza più poterne cambiare il corso». E fu l'inizio della fine: la sciagurata legislazione razziale, la velleitaria «guerra parallela», l'incredibile e inspiegabile dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, la catastrofe militare, il crollo del regime il 25 luglio, il triste tramonto come Gauleiter d'Italia e podestà di Gargnano, l'arresto e l'uccisione. L'ultima fase dell'avventura mussoliniana è costellata di misteri di fronte ai quali Serra prende posizioni probabilmente destinate ad alimentare polemica, come, per esempio, la dimostrazione della non plausibilità del carteggio Churchill-Mussolini. Ma, al netto di tutto, con questo suo bel libro Maurizio Serra si è proposto, a mio parere riuscendovi, non già di «blindare un feretro», ma di «cercare di capire Mussolini quale egli fu e le ragioni di un caso di indubbio rilievo nel Novecento italiano ed europeo». Il tutto inserendolo «nel contesto del suo tempo, lontano dalle pastoie e dai dubbi accostamenti del presente». Secondo la lezione di Renzo De Felice e di François Fejtö alla cui memoria il volume è dedicato con sentimenti di affettuosa discepolanza e amicizia. Francesco Perfetti

Nuovi documenti dall'archivio segreto di Mussolini: ecco cosa contengono. Lorenzo Vita il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. I documenti di Mussolini erano in possesso di un funzionario. Gli eredi li hanno consegnati all'Archivio dello Stato e riguardano in particolare gli internati italiani in Germania. Un carteggio che conferma pagine di storia. Quella degli ultimi anni del fascismo e di Benito Mussolini. Come riporta AdnKronos, l'Archivio Centrale dello Stato ha ricevuto 25 documenti provenienti dalla "Segreteria particolare del Duce, Carteggio Riservato - Repubblica Sociale Italiana". Stefano Vitali, sovrintendente dell'Archivio, ha spiegato nel comunicato stampa che non si tratta di documenti del tutto ignoti agli storici "poiché di quasi tutti ne esisteva una copia nei microfilm effettuati dalla Joint Allied Intelligence Agency". Tuttavia, avere finalmente la conferma cartacea di questi documenti aiuta a fornire un quadro più esauriente, a evitare malintesi, o a non mettere in dubbio l'esistenza di ciò di cui parlano. I documenti riguardano in particolare l'invio dei lavoratori italiani in Germania, uno degli accordi che Mussolini siglò con Adolf Hitler durante le fasi più drammatiche della guerra e che tanto ha pesato sulla vita di molti italiani. Tra questi concittadini, vi era anche il funzionario che era in possesso di questi documenti, e che ha deciso di tenerli fino alla morte. Forse proprio per il fattore umano oltre che storico che lo legava a quel carteggio. In quelle carte vi erano infatti i perché di una decisione del Duce che travolse la vita di un uomo mandato in Germania perché si era rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale. Insieme ai documenti sugli internati italiani in Germania, anche quattro lettere del ministro Alessandro Pavolini, un telegramma di Mussolini a Hitler, un memorandum d'intesa tra Mussolini e l'ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, e una serie di appunti dello stesso capo del Fascismo rivolti ad altre autorità del Partito e della Repubblica Sociale. Uno di questi, in particolare, sembra provenire dalle famose "Carte della Valigia", ovvero quei documenti che erano contenuti nella borsa che Mussolini non perdeva di vista un attimo e che per decenni ha acceso ipotesi e teorie sulla caduta del fascismo. Sul contenuto della valigia vi è ancora un alone di mistero. Una parte dei documenti non fu mai ritrovata. Quello che è rimasto dell'archivio che Mussolini portò con sé fino alla cattura fa ora parte di due raccolte, le "Carte della cassetta di zinco" e le "Carte della Valigia", i cui originali sono stati consegnati all'Italia dopo che gli Alleati li hanno più volte visionati e filmati. Documenti che raccontano la storia d'Italia, di Mussolini, degli ultimi anni del fascismo e della guerra e che oggi sono impreziositi da nuovi testi restituiti dagli eredi di un funzionario che aveva vissuto sulla propria pelle ciò che era contenuto in quell'archivio. Per ricordarci che la storia non è un insieme di dati, ma il ricordo di eventi che hanno segnato la vita di uomini come noi.

Lorenzo Vita. Nato a Roma il 2 febbraio 1991, mi sono laureato in giurisprudenza nel 2016 con una tesi in diritto internazionale. Dopo la laurea, ho conseguito un master in geopolitica e ho seguito corsi sul terrorismo internazionale. Lavoro per ilGiornale.it dal 2017 e seguo in particolare Gli Occhi della Guerra. Da settembre 2018 mi sono trasferito a Milano e lavoro nella redazione del sito. Mi occupo prevalentemente di Esteri, con un occhio di riguardo alla politica estera del Nostro Paese: fin troppo dimenticata negli ultimi anni. Passioni sportive? Solo la Roma.

Gli ultimi misteri dietro la caduta del fascismo. Paolo Cacace il 25 Luglio 2021 su L'Inkiesta. Secondo il libro dello storico Paolo Cacace “Come muore un regime” (Il Mulino), la seduta del Gran Consiglio fu solo l’atto formale che sancì una destituzione già fissata da tempo: a giudicare da alcuni documenti, a decidere i tempi e i modi del golpe sarebbe stato lo stesso re Vittorio Emanuele III. La data del febbraio 1943 segna un punto di svolta nella crisi del regime perché il terremoto governativo deciso da Mussolini con il licenziamento in tronco di nove ministri su dodici (tra cui Grandi, Bottai e soprattutto Galeazzo Ciano) rappresenta l’estremo, disperato, tentativo del duce d’invertire una rotta già segnata. O l’ultima illusione – se si vuole – di poter modificare il corso degli avvenimenti con un ennesimo coup de théâtre mirante, soprattutto, a scaricare su alcuni dei principali gerarchi le proprie responsabilità e, al tempo stesso, a dimostrare a uno Hitler allarmato per le sue precarie condizioni di salute e quindi sempre più diffidente sulla tenuta del regime, di avere ancora il pieno controllo della situazione. È inoltre un tentativo volto a recuperare consensi popolari e a contrastare quel clima di «disfattismo» che – a suo parere – prendeva sempre più piede nei gangli vitali del Paese. Ma l’operazione politica si rivelerà un buco nell’acqua e lo stesso Mussolini dovrà riconoscerlo; così, come vedremo, non avrà maggiore fortuna per le sorti del duce la decisione di nominare il generale Vittorio Ambrosio, fedelissimo del re, al vertice delle forze armate. Da quel mese di febbraio in poi, fino al pomeriggio del 25 luglio, il processo di caduta del regime diventa verticale e segue un ritmo accelerato i cui tempi sono scanditi non solo e non tanto dal logoramento del fronte interno quanto dalle sconfitte militari patite dall’Asse sui vari scenari bellici (orientale e nordafricano) e soprattutto dal trauma provocato dallo sbarco angloamericano in Sicilia. A nulla approdano i reiterati tentativi di Mussolini di indurre l’alleato tedesco a fermare le operazioni con la Russia staliniana con una pace di compromesso (magari con il supporto di una mediazione giapponese) e a concentrare, piuttosto, il suo interesse prioritario nel Mediterraneo, dirottando in tale area strategica una parte consistente delle proprie divisioni. È il tragico capitolo della cosiddetta «guerra lunga», la fase cominciata nel 1942 dopo l’intervento dell’Urss e degli Stati Uniti, che ha sconvolto le speranze di un conflitto «breve» coltivate dal duce nell’anno e mezzo precedente. Una guerra che condanna lo stesso Mussolini ad un ruolo sempre più subalterno rispetto a Hitler. Una guerra che, con i bombardamenti a tappeto angloamericani, diventa presto un incubo collettivo per l’intero Paese, diffondendo in tanti la consapevolezza che essa fosse irrimediabilmente perduta; un sentimento che fa anche da detonatore al coacervo d’interessi che teneva ancora in piedi il regime. La frustrazione condiziona i comportamenti di tutti i protagonisti della vita italiana (Corona, militari, gerarchi, industriali, Vaticano, oppositori prefascisti e antifascisti) e si traduce in una serie di contatti volti a cercare una via d’uscita attraverso approcci, in qualche caso romanzeschi o addirittura maldestri, con gli angloamericani per arrivare a una pace separata, cercando di aggirare il muro della resa incondizionata sancita da Churchill e da Roosevelt a Casablanca. Approcci sempre più pressanti che coinvolgeranno lo stesso Mussolini, il quale finirà per dare il suo assenso ad un tentativo in extremis di Bastianini di cercare, con la mediazione vaticana, un contatto con Eden. Questo libro si sofferma sulla condotta dei vari attori, protagonisti e comprimari, che dominano la scena nel semestre fatale, in un intreccio di posizioni e di iniziative non sempre di facile lettura. Fedele al principio vichiano secondo cui verum ipsum factum, cioè il fatto s’identifica con il vero ed è testimonianza di verità, l’indagine cerca di individuare e di discernere, senza pregiudizi di sorta – sulla base della documentazione e della memorialistica disponibile – gli aspetti abbastanza chiari rispetto a quelli ancora oscuri o misteriosi degli avvenimenti che hanno portato al crollo del regime fascista. Ebbene, i fatti dimostrano in maniera palese che – a mano a mano che la situazione militare peggiora – la capacità di Mussolini di controllare e di orientare gli eventi si riduce progressivamente e il ruolo del duce diventa sempre meno incisivo. Egli sembra conscio che la ruota della fortuna abbia cominciato a girargli contro e di essersi cacciato in un vicolo cieco. «Fin dall’ottobre del ’42 – scriverà nei Pensieri pontini e sardi – ho avuto un presentimento continuamente crescente che la crisi mi avrebbe travolto». Tuttavia, il dittatore non mostra mai propositi rinunciatari. Neanche durante e dopo la drammatica seduta del Gran Consiglio, poche ore prima del suo licenziamento. Afflitto dalle crisi ricorrenti provocate dall’ulcera duodenale, Mussolini appare instabile, alterna momenti euforici di autoillusione ad altri di cupo abbattimento. È sovente frastornato, stanco. Vive in sostanziale solitudine il suo crepuscolo e talvolta dà l’impressione di non rendersi conto di quanto avviene intorno a lui o alle sue spalle. Sottovaluta le «fronde» dei gerarchi e le congiure contro il regime che prendono consistenza tra le pieghe della crisi. Soprattutto quella dei militari che, dai primi mesi del ’43, avviano i preparativi del colpo di Stato, con l’impulso di Ambrosio, di Castellano, di Carboni e di altri generali che occupano posti chiave come Sorice e Hazon, in sintonia con il ministro della Real casa Acquarone, sotto lo sguardo costante di Vittorio Emanuele III. Si tratta, in questo caso, di un percorso accidentato, che deve fare i conti con le paure, le diffidenze, le ritrosie del vecchio monarca, il quale indugia a lungo prima di dare il via libera alla destituzione di Mussolini. Tuttavia è lui, il «piccolo re», che fissa i tempi dell’intervento dei militari suggerendo, su un altro versante, a Grandi la via di un voto del Gran Consiglio come «surrogato» di una delibera parlamentare di sfiducia nei confronti del duce, allora irrealizzabile; insomma, quella copertura costituzionale di cui aveva bisogno per conferire un’immagine almeno apparentemente legalitaria alla congiura. Ma l’input decisivo al colpo di Stato, con l’investitura di Pietro Badoglio quale successore del duce, precede e prescinde dalle iniziative di Grandi, Bottai e Federzoni per raccogliere adesioni intorno all’ordine del giorno che sarà poi approvato dal Gran Consiglio e avrà un valore aggiuntivo rispetto a una decisione già presa dal re. Per essere più chiari: non risponde alla verità dei fatti che il voto del Gran Consiglio rappresenti l’elemento necessario e determinante che spinge Vittorio Emanuele III a liquidare Mussolini; così come appare assai poco probabile che i gerarchi «frondisti» o almeno alcuni di loro non sapessero dell’imminente colpo di Stato sotto l’egida del sovrano e che ignorassero la scelta di Badoglio, sebbene non la condividessero. È una rilettura dei fatti, questa, che trova conferma da taluni documenti in gran parte inediti (come il memoriale di Leonardo Vitetti) ma anche dalla condotta di alcuni dei protagonisti della seduta del Gran Consiglio. Una ricostruzione che, ovviamente, nulla toglie al coraggio dimostrato da Grandi e dagli altri gerarchi dissidenti nell’affrontare a viso aperto Mussolini a Palazzo Venezia e quindi nel patire duramente le conseguenze della loro sfida. Certo, nell’indurre il monarca a sciogliere le residue riserve giocano anche altri fattori, a cominciare dalle minacce di un intervento militare di Hitler, soprattutto dopo il vertice italotedesco di Feltre. Né i punti oscuri relativi al crollo del regime si esauriscono in quei venti minuti in cui Vittorio Emanuele III congeda il primo ministro e autorizza il suo arresto. Ancora oggi è difficile comprendere come e perché Mussolini abbia liquidato come «romanzi gialli» tutte le voci che gli venivano puntualmente riferite sulle congiure ai suoi danni e non abbia preso alcuna contromisura. Possibile che sia stato rimosso senza che nessuno nel suo entourage sospettasse che egli non avrebbe lasciato Villa Savoia da libero cittadino? Possibile che il Sim, l’Ovra, con le loro reti capillari di spie, fossero totalmente all’oscuro dei piani dei militari «golpisti»? Stesso discorso può riferirsi, in qualche modo, all’alleato tedesco. Hitler e i suoi collaboratori sospettavano da tempo dell’esistenza di una congiura contro il regime fascista, eppure i loro rappresentanti a Roma si sono lasciati sorprendere dalla destituzione di Mussolini e dalla sua «scomparsa» malgrado la presenza nella capitale di migliaia di agenti della polizia segreta germanica infiltrati nei ministeri, nei comandi militari e persino nel Comando supremo. Sono interrogativi che pesano. Così come di quelle ore cruciali restano ancora insoluti altri aspetti misteriosi sui quali cercheremo d’indagare: dai possibili piani alternativi di Grandi al ruolo del Vaticano, dalle mosse del principe Umberto ai contatti interni e internazionali di alcuni dei principali esponenti del mondo antifascista, soprattutto di quello azionista, particolarmente attivo. Sullo sfondo c’è poi un ulteriore interrogativo che riguarda direttamente il sovrano e il suo rapporto con Pietro Badoglio. Scegliendo il successore di Mussolini, Vittorio Emanuele III ha agito in totale autonomia, ispirato soltanto dalla convinzione che, tutto sommato, il maresciallo godesse ancora di una certa popolarità soprattutto tra i militari oppure sono entrati in gioco altri fattori, legati magari alla presunta appartenenza di Badoglio (e – si è detto – anche dello stesso sovrano) alla massoneria? Qui siamo – occorre precisarlo – nel campo delle ipotesi. Le verifiche andranno compiute con molta cautela, evitando anzitutto le trappole dei presunti complotti giudaico-massonici alimentati dalla propaganda di Salò. Ma non c’è dubbio che l’ombra di una presenza massonica aleggi su gran parte dei protagonisti della congiura militare di Palazzo Vidoni. E troverà conferma anche nella testimonianza inedita di un personaggio che potremmo definire, in questo caso, presumibilmente informato dei fatti, cioè Dino Grandi. Un’ombra che non esclude il Quirinale, se lo stesso Vittorio Emanuele III – dopo aver scartato il nome di Caviglia come possibile successore di Mussolini per la sua presunta affiliazione massonica – sarà ripagato con la stessa moneta dal glorioso maresciallo, che lo accuserà di aver scelto Badoglio proprio per farsi perdonare dalla massoneria di averla «tradita» con Mussolini. Insomma, molte tracce sulla fine ingloriosa del ventennio fascista restano ancora confuse. Il regime si dissolve nel silenzio. Quasi nell’indifferenza di chi avrebbe potuto o dovuto difenderlo. Un disinteresse che contribuisce a certificare la morte politica di Mussolini, giacché quella dei venti mesi del duce redivivo, installato da Hitler a Salò, sarà tutta un’altra storia. da “Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio”, di Paolo Cacace, Il Mulino, 2021, pagine 360, euro 25

Mussolini, "Corrispondenze" dall'orlo dell'abisso. Roberto Chiarini il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Escono tutte le note scritte dal Duce nei 600 giorni di Salò. E lo statista al collasso si riscoprì giornalista. È il 23 settembre 1943 quando prende vita la Repubblica sociale italiana. È il nuovo Stato che può finalmente dare attuazione al fascismo integrale - repubblicano e sociale - delle origini? È la «Repubblica necessaria» che evita all'Italia di far la fine tragica della Polonia? O è, piuttosto, «lo Stato fantoccio» dei tedeschi, votato a scrivere la sua ultima e più atroce pagina di violenza? Su questa, estrema e disperata, reincarnazione del fascismo ci sono ormai poche zone d'ombra. Punti oscuri, controversie e interrogativi restano invece aperti sul ruolo svolto dal Duce che riappare quasi redivivo. La recente pubblicazione del carteggio tra Benito e Claretta ha già permesso di svelare «il Duce segreto». Ora, l'edizione completa delle note di agenzia, 66 fogli redatti personalmente da Mussolini, di cui tre inediti, e gli altri comunque a lui riconducibili (Corrispondenza Repubblicana, a cura di Giuseppe Parlato, Luni Editore) permettono di rivisitare «il Duce pubblico». Si tratta complessivamente di 102 note, che coprono praticamente tutti i 600 giorni della Repubblica di Salò. La prima è del 28 settembre, l'ultima del 22 aprile '45, solo tre giorni prima della Liberazione. Anche se il grosso di queste note era già reperibile nell'Opera omnia di Mussolini, l'intera silloge a disposizione in un volume singolo favorirà certo una più attenta valorizzazione di questa fonte sino a oggi trascurata.

Con la Corrispondenza Mussolini mirava, anzitutto, a coprire il vuoto di commenti e interventi specificatamente politici che denunciava la stampa di regime, in grave difficoltà dopo l'8 settembre a reperire notizie per la mancanza di corrispondenti e inviati. In secondo luogo il Duce si proponeva di supportare la campagna di stampa a sostegno delle ragioni fondanti della Rsi. Al contempo, il ricorso alla parola scritta significava per lui il gran ritorno a una passione mai dismessa per il giornalismo. Le note, rigorosamente anonime, passavano anche per radio, in genere la sera dopo il giornale radio, alle 20,30 o alle 21, sempre comunque sottoposte alla sua cura. Debitamente raccolte, le Corrispondenze vennero proposte anche in opuscoli mensili e, alla fine del primo anno, in uno specifico volume. Lo spunto per i commenti era offerto a Mussolini sia dalle intercettazioni delle radio nemiche che dalla stessa stampa badogliana e alleata. Un'attenta lettura del corpus di queste note aiuta a mettere meglio in chiaro non solo gli orientamenti che il Duce coltiva nel corso dell'intera vita della Rsi, ma anche le correzioni di linea politica che egli matura nel corso della guerra. Ben interpretate, come fa Giuseppe Parlato nella preziosa introduzione al volume, forniscono anche ulteriori utili indicazioni sul ruolo del Duce nella sua ultima avventura politica. I suoi commenti sono eloquenti, infatti, non solo per quel che dicono ma non meno per quel che nascondono. Finché resta una parvenza di plausibilità, se non altro propagandistica, all'ipotesi di «uscire da questo abisso» - com'egli è costretto ad ammettere nel suo primo intervento -, anche se «con le ossa rotte», Mussolini cerca di ostentare una forzata sicurezza nella vittoria. Dopo la presa di Roma e lo sbarco in Normandia, non si avventura più a spandere fiducia. Semplicemente archivia la questione. Cerca piuttosto di spostare l'attenzione sul teatro internazionale. Punta allora i suoi strali contro l'infame nemico interno e soprattutto contro quello internazionale, baluardo dell'odiata plutocrazia. Si scaglia contro «il re fellone», «Vittorio Emanuele III e ultimo», contro Carlo Sforza «guitto dell'avanspettacolo», contro Badoglio «duca di Caporetto», contro i giornalisti e i generali, fino al giorno prima da lui foraggiati e ora passati al nemico. Li tratta tutti come infami traditori, al cui cospetto risalta per contrasto la schiena dritta del dittatore, solitario e, per questo, più ammirevole nel suo ruolo di guida indomita di un'Italia «debole ma guerriera». Mussolini minaccia contro di essi severe punizioni, accusandoli di essere gli unici responsabili del disastro militare. Quanto ai nemici esterni, li irride, cercando al contempo di falsificare la loro illusoria promessa di regalare «presunte libertà» ai popoli sconfitti. Roosevelt è «l'anticristo del XX secolo» nonché «criminale di guerra n. 1», Churchill «criminale di guerra n. 2». Un trattamento di favore riserva significativamente a Stalin, anch'egli dittatore, ma anch'egli benemerito per aver tentato almeno di realizzare quella «rivoluzione» che in Italia a Mussolini sarebbe stato impedito di realizzare. Sul fascismo, sulla disastrosa guerra scatenata, sull'inferno procurato agli italiani, bocca cucita. Solo sporadici cenni al movimento partigiano. Mussolini si concentra preferibilmente sul «tradimento» del 25 luglio e dell'8 settembre, al cui confronto spicca la linearità, «la coerenza rivoluzionaria» del fascismo. Del regime Mussolini esalta in modo mirato le realizzazioni sociali. Insomma, il capo assoluto del nuovo stato fascista nulla dice di come intende far uscire il proprio Paese dall'abisso in cui l'ha cacciato. Preferisce ora il ruolo del commentatore, del polemista. Preferisce fare del giornalismo il suo ormai unico possibile «modo di esistere e di vivere». Tutto ciò mette ben in risalto come egli in questi anni si svesta dei panni del politico, tanto più di quelli dello statista, compreso della responsabilità del suo ruolo. La sua, a ben vedere, è una sorta di fuga dalla realtà che ci dice molto del suo sentimento di resa ai tragici eventi che stanno travolgendo lui e con lui l'Italia intera, di consapevolezza dell'irrimediabile capitolazione in arrivo, della sua ininfluenza a correggere il corso degli avvenimenti. Roberto Chiarini

"Testi cruciali per capire l'ultimo fascismo". Matteo Sacchi il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Lo storico che ha curato il volume: "Cosi ho ritrovato i tre documenti dimenticati". Giuseppe Parlato è professore di Storia contemporanea all'Università internazionale di Roma. È uno dei massimi storici del fascismo ed è il curatore, e prefatore, della Corrispondenza Repubblicana di Benito Mussolini appena pubblicata da Luni e di cui in questa pagina vi anticipiamo un estratto inedito. Lo abbiamo intervistato per capire l'origine e la storia editoriale di questi testi di Mussolini.

Professor Parlato, come nasce la Corrispondenza Repubblicana di Mussolini?

«Le note venivano prodotte da Mussolini e da ambienti del Minculpop. Al centro della ricerca delle fonti c'era anche l'ufficio intercettazioni e i suoi funzionari. Fornivano a Mussolini i materiali con cui elaborava le note che attraverso Barracu venivano fornite all'Eiar che trasmetteva in radio, spesso tra le 20 e le 21. Poi il giorno dopo arrivavano ai giornali tramite l'agenzia Stefani».

Qual è la storia editoriale di questi testi? Nel volume avete anche raccolto tre inediti...

«Novantanove note erano state pubblicate nel 32º volume dell'opera omnia di Mussolini pubblicata da Edoardo e Duilio Susmel. Quel volume non è facile da reperire anche in biblioteca e quindi abbiamo pensato di renderle più fruibili a lettori e studiosi. Poi ho rintracciato altre tre note che non erano conosciute».

Dove le ha trovate?

«Una su un giornale dell'epoca, Il Lavoro fascista, le altre si trovavano nelle carte della Segreteria particolare del Duce conservate all'Archivio Centrale dello Stato. Non deve stupire che documenti pubblicati dalla stampa siano a lungo sfuggiti agli studiosi. I giornali della Rsi sono andati spesso perduti e anche chi ci ha lavorato non ha mai avuto particolare interesse a conservarne la memoria».

La nota che pubblichiamo parzialmente in questa pagina è particolarmente interessante.

«Sì, le note di Mussolini rientrano quasi tutte in due categorie. Attacchi al Re, a Badoglio e al Regno del Sud che nella sua ottica sono traditori. E poi valutazioni relative alla politica internazionale. Questa nota intitolata Ancora Mosca rientra nella seconda categoria. Stigmatizza il fatto che gli Alleati avessero fatto una alleanza innaturale con una dittatura come quella di Stalin, alla faccia della lotta per la democrazia... Invece per Stalin si nota una certa ammirazione, visto che è riuscito a compiere quella rivoluzione che Mussolini sente di aver fallito».

Che Mussolini esce da questi testi?

«Un Mussolini che si riscopre giornalista. Già nella primavera del 1944 ha chiaro che i margini politici e militari che gli restano sono minimi, fatica persino a controllare il partito fascista repubblicano. E quindi torna alla penna, ritorna il giornalista caustico e sarcastico delle origini. E più la sconfitta diventa certa più si concentra sul panorama internazionale preconizzando per l'Italia un destino di irrilevanza».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini, in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o… 

Stalin è un dittatore ma le plutocrazie fanno finta di niente. Benito Mussolini il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell'editore Luni uno stralcio della nota Ancora Mosca del 5 novembre 1943.

Benito Mussolini 5 novembre 1943. In questi giorni molto fosforo cerebrale viene distillato e molto inchiostro di calamai e di rotative viene consumato per commentare la conferenza di Mosca. Anche la nostra radio vi ha dedicato alcune note, ma forse non è superfluo riprendere in esame l'argomento ora che abbiamo sott'occhio il comunicato nel suo testo integrale. Naturalmente le stilografiche si dividono in due grandi categorie: quelli che esaltano e quelli che minimizzano. Noi non apparteniamo né agli uni, né agli altri, ma alla categoria di coloro che vedono le cose come sono e non già come si vorrebbe che fossero e riteniamo in ogni caso che sia pericolosa tattica polemica quella di considerare bagatelle le faccende ingrate che bagatelle non sono. Ora la conferenza di Mosca è un avvenimento di innegabile portata politica, almeno nella fase attuale della guerra, e, per quello che si è deciso, e reso di pubblica ragione, e per quanto forse è stato deciso ed è rimasto segreto. Non è senza importanza che la conferenza ha avuto luogo a Mosca, nella capitale del comunismo, nella città che fu considerata fino a ieri, specialmente in Inghilterra e in America, come un temutissimo e terribile centro d'infezione morale per tutti i popoli della terra. È vero che oggi Stalin non porta più il berretto da operaio bensì quello da Maresciallo: tuttavia, salvo poche concessioni di carattere tattico, la sua dottrina è quella del grande profeta Lenin cioè anti-capitalista, anti-democratica, anti-liberale, e persino anti-socialista. Non risulta che a tutt'oggi il bolscevismo abbia aggiunto a se stesso un'altra parola come liberale, democratico o socialista. Il bolscevismo, insomma non è diventato meno totalitario di ieri o si è battezzato liberal-bolsce vismo per far piacere alle casseforti della City o di Wall Street. È praticamente quello di prima e di sempre, ma da due anni è diventato esigente e prepotente perché si batte: anche gli altri si battono, ma su una scala molto minore. Così stando le cose non c'è da stupirsi se Stalin ha atteso immobile come Budda che le montagne si muovessero. Che per il giovinetto Eden la tratta Londra-Mosca non rappresenti una impresa eccezionale non è da stupire, tanto più che egli da pellegrino ha già percorso altra volta la stessa strada; ma per Corder Hull, già entrato nella tarda vecchiaia, il viaggio costituisce un primato. Egli ha varcato con disinvoltura un oceano e tre continenti per conoscere e riverire Stalin e magari riceverne gli ordini. Ammettiamo, con spirito di cavalleria, che in questo ragazzo di settant'anni c'è della stoffa, almeno dal punto di vista della fisica vigoria. Siamo così dinanzi ad un indiscutibile clamoroso successo del Cremlino, non soltanto dal punto di vista della forma, ma della sostanza. Giunti a questo punto non ci avventuriamo a esaminare la portata delle sette dichiarazioni programmatiche. Sono importanti e impegnative per le tre Potenze che riaffermano la loro comune volontà e solo il dinamismo della guerra ed eventi impreveduti possono modificare o capovolgere i loro piani. La storia, soprattutto la recente, è un ampio melanconico cimitero di comunicati. Molto più interessante è, per noi italiani, constatare che i tre personaggi hanno dedicato molto del loro tempo all'Italia e per sollevarli un poco da questa fatica è intervenuto anche un quarto signore, il Ministro della Cina di Chiang Kai-shek. Naturalmente i quattro hanno dichiarato, dogmaticamente, che bisogna distruggere il Fascismo. Pare che questo Fascismo sia veramente duro a morire. Hanno creato inoltre una commissione consultiva per le questioni italiane. Ne fanno parte le tre Potenze più la Francia (quella di De Gaulle), la Grecia e la Jugoslavia, la quale però sino ad oggi è defunta. Il cobelligerante Vittorio Emanuele è graziosamente ignorato, né potrebbe essere altrimenti. Dall'8 settembre, data infame nella nostra storia, l'Italia non è più soggetto ma semplicemente oggetto della politica altrui. Ecco la constatazione che dovrebbe penetrare come un ferro infuocato nelle carni degli italiani. Conosciamo gli appetiti territoriali delle genti d'oltre Dinariche. Una rinata Jugoslavia chiederà che i suoi confini siano portati per lo meno al Tagliamento e nell'Adriatico ci verrà forse lasciata Lissa per ricordarci la disfatta navale del 1866. Benito Mussolini

Ingiustizia capitale nell’Italia fascista. Bernardo Valli su L'Espresso il 12 luglio 2021. “Porte aperte”, capolavoro di Sciascia e di Amelio al cinema, racconta come la dittatura usava la pena di morte per la sua politica di propaganda. A Palermo nel ’36, con una freddezza e una rapidità che devono avere stupito anche i sicari della mafia, Tommaso Scalia uccide tre volte, a breve distanza e senza nascondersi, rinunciando così a dichiararsi poi innocente. Anzi dirà subito di essere colpevole auspicando che gli venga inflitta la pena di morte, vale a dire la fucilazione alla schiena in vigore per i reati più gravi, inclusi quelli politici, o di tradimento. Assisto alla ricostruzione cinematografica del triplice delitto in una sera afosa, seduto in uno spazio che si spalanca tra le tante chiese del castello di Lipari, dove giovani intelligenti dell’associazione Magazzino di Mutuo Soccorso installano ogni estate una rassegna cinematografica, un cineclub all’aperto. Quest’anno seguo appunto la rievocazione sullo schermo di quel fatto di sangue realizzata, con grande intelligenza (artistica e politica) da Gianni Amelio, che alla sua opera ha dato lo stesso titolo del libro di Leonardo Sciascia da cui ha tratto il film: “Porte aperte”. Da un racconto tra i più belli di Sciascia, pubblicato nel 1987, Amelio ha ricavato quello che credo sia il suo miglior lungometraggio, ampiamente premiato nel 1990 quando è uscito nelle sale di mezzo mondo. Verso la fine degli Anni Trenta il fascismo usufruisce delle glorie imperiali etiopiche, e dell’effimera popolarità che ne deriva. Da questa posizione di forza incontestata impone che la sua macchina giudiziaria si manifesti: quindi, sin dall’inizio, sull’affare palermitano aleggia la pena di morte. Secondo alcuni critici è un crimine casalingo, siciliano, atroce e folle, di cui è protagonista «un personaggio vissuto come quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di Pirandello». Il regime dice che in Italia si dorme con le porte aperte. Da qui il sarcastico titolo di Sciascia e di Amelio. Era una delle massime più sinistre dell’epoca fascista: in mancanza della libertà, si teneva a sottolineare il culto dell’ordine. Ma in Sicilia, e non soltanto nell’isola, le porte che restavano aperte erano quelle della propaganda. Prevaleva allora un’ambiguità di rapporti che inquinava gesti, parole, decisioni. In questa situazione, prima Sciascia nel libro, poi Amelio nel film, danno spazio al giovane giudice a latere, Vito Di Francesco (l’eccellente Gian Maria Volonté), che si trova impegnato in un processo al quale le autorità fasciste volevano che venisse applicata la pena di morte. Lui si oppone. Si oppone alla negazione della giustizia, che è quel verdetto scontato. Torniamo al triplice delitto. L’assassino uccide la moglie, e uccide anche l’uomo che aveva preso il suo posto nell’ufficio dal quale era stato licenziato, e, ancora, uccide l’uomo che al vertice di quell’ufficio aveva deciso di licenziarlo. E si trattava di un gerarca fascista. L’omicida è reo confesso e dichiara di avere agito con premeditazione. Si profila il delitto passionale. La moglie uccisa, ma prima violentata dal marito per sfregio, era l’amante del gerarca fascista? Questo aspetto rimane nel vago. Tommaso Scalia riconosce i fatti, non insiste sui motivi. Accoltella la moglie, dopo averla stuprata in una strada deserta tra gli ulivi, poi l’avvocato Spatafora viene abbattuto da un colpo di pistola. Perché era l’amante della moglie o perché lo ha fatto sostituire nell’organizzazione sindacale fascista, dove era un funzionario. La terza vittima sarà proprio il suo sostituto. Il giovane giudice a latere, Di Francesco, detesta l’idea stessa della pena di morte ripristinata dal fascismo, la considera una prova di inciviltà giuridica e scava nella vita dell’imputato e delle vittime, per evitare che venga applicata. Solo un giurato, di nome Consolo, si dichiara d’accordo con lui. È un bibliofilo, che con citazioni letterarie, cerca di limitare il verdetto all’ergastolo. Ed è quel che accade nel processo di primo grado. Ma il successo costerà al giovane giudice a latere il trasferimento in una sede secondaria, di provincia. E in appello a Tommaso Scalia verrà comminata la pena di morte, subito eseguita.

Mirella Serri per “La Stampa” il 7 luglio 2021. È stato uno dei grandi padri della storia del colonialismo italiano. Angelo Del Boca è scomparso ieri a 96 anni nella sua casa di Torino. Nato a Novara il 23 maggio 1925, giornalista e inviato speciale, è stato docente di Storia contemporanea all'Università di Torino, ha ricevuto tre lauree honoris causa e ha diretto la rivista di storia contemporanea I sentieri della ricerca. Il suo temperamento era apparentemente tranquillo e riservato ma in lui covava un fuoco segreto, una passione per la ricerca, per i documenti inediti e il lavoro d'archivio. Non temeva le polemiche, nemmeno le più accanite. Giovanissimo, Del Boca visse un'esperienza terribile che lo segnò per tutta la vita. Per evitare l'arresto del padre fu costretto ad arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana. Venne inviato in Germania e assegnato alla 4ª divisione alpina «Monterosa», ma riuscì a disertare e a rientrare in Italia, attraverso mille peripezie, nell'estate 1944. Come disse e scrisse più volte, si sentì «finalmente un uomo libero» arruolandosi nella 7ª brigata alpina della 1ª divisione Giustizia e Libertà «Piacenza». Le sue avventure, le notti all'addiaccio, il terrore dei rastrellamenti, gli incendi delle abitazioni dei contadini e le esecuzioni sommarie saranno raccontate nel libro Nella notte ci guidano le stelle (Mondadori, 2015). Con la sincerità che lo connotava confessò che a spingerlo all'azione resistenziale era «il desiderio di rivedere mia madre». Nel dopoguerra, Del Boca si iscrisse al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup) e si dedicò a libri di memorie come Dentro mi è nato l'uomo (Einaudi, 1947) ma cominciò a coltivare l'interesse per la ricerca storica. Redattore capo del settimanale socialista Il Lavoratore di Novara, successivamente fu inviato speciale della Gazzetta del Popolo e del Giorno di Enrico Mattei. Nel 1981 abbandonò il quotidiano diretto da Italo Pietra. Sulla Gazzetta del Popolo, pubblicò un'inchiesta a puntate che divenne un'importante opera edita da Feltrinelli, nel 1965: La guerra d'Abissinia 1935-1941. Questo volume mise a rumore non solo il mondo della storiografia ma anche l'opinione pubblica italiana. L'autore raccontava, utilizzando una larga messe di documenti, i crimini compiuti dai militari italiani. In particolare sfatava il mito degli italiani brava gente» mettendo in luce l'uso, da parte dell'esercito fascista, di gas tossici vietati dalle convenzioni internazionali. Da queste rivelazioni nacque una lunga disputa con Indro Montanelli, il quale metteva in dubbio le scoperte di Del Boca e parlava di un colonialismo «all'acqua di rose», mite e comprensivo delle ragioni degli indigeni. Al contrario lo studioso, con la sua produzione accompagnata da accesi dibattiti, faceva conoscere ai connazionali (e non solo) gli orrori compiuti dell'esercito del Duce in Africa Orientale, l'impiego massiccio di armi chimiche, la creazione di veri e propri campi di concentramento, le deportazioni e le uccisioni di massa. In particolare rivelò la strage di civili nella capitale etiope a seguito della rappresaglia scatenata dagli italiani dopo l'attentato del febbraio 1937 al generale Rodolfo Graziani, e il massacro di monaci copti nella città-convento di Debra Libanòs nel maggio dello stesso anno voluto e rivendicato dallo stesso Graziani. La gran massa di materiali storici sancì alla fine la vittoria di Del Boca su Montanelli: il grande giornalista nel 1996 dovette addirittura fare autocritica. Tra le opere di Del Boca che svelarono, con grinta e determinazione, il vero volto delle truppe di Mussolini, spiccano Gli italiani in Africa orientale (quattro volumi editi da Laterza tra il 1976 e il 1984, che poi Mondadori ristamperà), Gli italiani in Libia (due tomi pubblicati da Laterza nel 1986 e poi da Mondadori) e Italiani brava gente? Un mito duro a morire (Neri Pozza, 2005). Seguirà la bellissima biografia dedicata all'ultimo monarca etiope Hailé Selassié, il negus (Laterza, 1995). Infine gli interessi di Del Boca si rivolgeranno a un argomento a lui più contemporaneo: la storia della vita del dittatore libico, Gheddafi. Una sfida dal deserto (Laterza, 1998).

Il grande narratore del colonialismo italiano. Aldo A. Mola il 7 Luglio 2021 su Il Giornale. Morto a 96 anni lo storico piemontese Angelo Del Boca, pioniere degli studi sulle imprese del fascismo in Africa. Giornalista, saggista e memorialista Angelo Del Boca, morto ieri, a 96 anni (era nato a Novara nel 1925), è stato uno storico documentato, coraggioso, caparbio e onesto perché ha sempre motivato i frutti della ricerca con le sue personali convinzioni. Un «moralista» che ha nutrito le sue opere con una costante vena di indignazione. È, e rimarrà, famoso soprattutto per i quattro volumi su Gli italiani in Africa Orientale (Laterza, 1976-1984), che gli sono valsi plausi e critiche feroci. Documentò le contraddizioni della politica coloniale italiana da Depretis e Crispi a Mussolini e per primo denunciò l'uso dei gas nella guerra d'Etiopia del 1935-1936, la feroce mattanza dopo l'attentato a Rodolfo Graziani e l'ingiustificabile massacro dei monaci copti di Debrà Libanòs: errori clamorosi che resero ardua l'opera del suo successore, Amedeo di Savoia Aosta, viceré d'Etiopia, deciso a intraprendere il dialogo con i capi abissini e tuttora ricordato con rispetto dagli etiopici colti e non prevenuti. Nelle sue molte e importanti opere, Del Boca ha messo molto della sua esperienza personale. Arruolato nella Repubblica sociale italiana e milite nella «Monterosa», poi passato in una banda di «Giustizia e Libertà» (ne scrisse in La scelta e in Nella notte ci guidano le stelle), iscritto nel dopoguerra al Partito socialista italiano e giornalista (prima a Il Lavoratore di Novara, poi alla Gazzetta del Popolo di Torino, di cui fu inviato speciale), Del Boca ha alimentato la sua produzione saggistica e storiografica con una tensione morale personale, anche polemica e quindi fomite di contrasti anche aspri, che lo contrapposero all'antico ministro Alessandro Lessona, a Indro Montanelli e all'autorevole opera della storica Federica Saini Fasanotti Etiopia: 1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'Esercito italiano, pubblicato dall'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Con la rivista «I sentieri della ricerca» Del Boca ha dato voce a studiosi di varie tendenze, accomunati dal gusto per la libertà di indagine, non senza qualche azzardo interpretativo. Nella corrispondenza intrattenuta con lui emerse la mai spenta vocazione dello storico deciso a verificare «sul campo» l'oggetto della sua ricerca. Sotto questo profilo la sua produzione saggistica evoca quella di Franco Bandini. Apprezzato da Aldo Garosci, che scrisse la prefazione al suo saggio su L'altra Spagna (1961), da Italo Pietra e da studiosi di rango, quali Nicola Labanca e Giorgio Rochat, Del Boca non ha mai nascosto la sua vis polemica sin dai titoli delle sue opere più famose e discusse, quali Italiani brava gente? (Neri Pozza, 2005) e A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell'occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini (2007). Volle anche incontrare personalmente Gheddafi. «Storia» del resto vuol dire «vedere» per capire. Di Del Boca (tre lauree honoris causa e una docenza all'Università di Torno) rimane infine memorabile un giudizio: «Gli italiani non sono peggio degli altri. Sono al livello di inglesi, portoghesi, spagnoli e di tutti coloro che hanno commesso grandi genocidi laddove sono andati a far conquiste». Come fecero tutti gli altri popoli nel corso della storia. Ma gli italiani (come e meglio di altri «conquistatori») hanno anche realizzato opere di civilizzazione, come onestamente Del Boca non mancò di ammettere nei capitoli migliori della sua vastissima produzione.

Colpiti e divorati dagli squali: l'orribile fine di 651 italiani. Davide Bartoccini l'1 Luglio 2021 su Il Giornale. Silurati e condannati alle onde a causa dell'"ordine Laconia", i prigionieri di guerra italiani vennero divorati dagli squali. Si stima che almeno un quarto di loro finì nelle fauci dei temibili pinna bianca. C'è una ragione precisa se Jacques Cousteau ha definito lo squalo longimano come "il più pericoloso di tutti gli squali", ed è il terribile destino che ha raggiunto nelle acque del Sud Africa quasi 800 prigionieri di guerra italiani, che, come i ben più noti marinai della Uss Indianapolis, rimasero alla mercé degli squali dalla pinna bianca per ben due giorni. Seicentocinquantuno perderanno la vita, molti di loro vennero divorati davanti agli occhi dei superstiti, che nel mortale gioco combinato da guerra e natura, assistettero inermi al banchetto tra le urla strazianti dei vecchi compagni in armi. Quando il 28 novembre del 1942, il comandante del sommergibile tedesco U-117 inquadra nella croce di collimazione del periscopio l'unità nemica, a bordo del RMS Nova Scotia, piroscafo di seimila tonnellate di stazza requisito dal Ministero dei Trasporti di Guerra all'inizio del conflitto per essere convertito in trasporto truppe, ci sono 1052 anime. Nessuno a bordo del sommergibile poteva immaginare, però, che quasi 800 di loro erano "alleati". Prigionieri di guerra italiani, reduci dalla campagna perduta nell'Africa Orientale. Imbarcati forzatamente al porto di Massaua, in Eritrea, per essere internati nei campi di prigionia sudafricani. Alle 7:07 del mattino, quando il Nova Scotia è quasi in prossimità della sua meta, viene raggiunto da tre siluri lanciati dall'U-Boot tedesco che centrano lo scafo e lo lasciano affondare in appena dieci minuti. I sopravvissuti lasciano la nave in fiamme sulle lance di salvataggio disponibili, ma sono più che altro membri dell'equipaggio della Marina mercantile britannica e soldati dell'esercito sudafricano. I prigionieri italiani, liberati per mettersi in salvo, dovranno accontentarsi di arrancare tra e onde, aggrappati ai salvagenti e ai pochi oggetti galleggianti che il relitto non porta con se nelle profondità degli abissi. L'U-Boot, riemerso dopo la sua caccia, non può fare altro che accorgersi del danno inflitto e di lanciare un SOS alle marine neutrali per trarre in salvo i superstiti. Restare lì significherebbe l'affondamento o la cattura da parte degli inglesi. Un increscioso incidente avvenuto quello stesso anno di guerra ne ha dato prova.

Il precedente del Laconia. A bordo di un sommergibile non c'è spazio per accogliere superstiti e nella flotta del Reich era ormai ben noto l'incidente del Laconia e il relativo "Triton null": l'ordine emesso dall'ammiraglio Dönitz in seguito ai fatti. Dopo il siluramento del Laconia, unità per il trasporto truppe analoga al Nova Scotia, tre sommergibili tedeschi conversero nel settore interessato per trarre in salvo i superstiti - anche in quel caso vi erano numerosi italiani - ma vennero bombardati dall'aviazione britannica nonostante i numerosi messaggi inviati, la presenza di croci rosse sui ponti. In seguito a questo incidente il vertice della Marina tedesca ordinò ai comandanti di U-Boot di "non prestare soccorso ai naufraghi delle navi affondate", per non rischiare di perdere unità da guerra impreparate a combattere. In virtù dell'ordine impartito dall'alto comando della Kriegsmarine, il capitano del sommergibile Robert Gysae ritirò l'U-177 dall'area dopo aver tratto in salvo solo due ufficiali, e aver trasmesso al Befehlshaber der U-Boot (BdU) le coordinate dei superstiti. Proseguendo il suo pattugliamento nell'Oceano Indiano. La richiesta di soccorso venne trasmessa al Portogallo, che inviò la fregata NRP Afonso de Albuquerque, schierata nelle acque di Lourenço Marques, nel vicino Mozambico portoghese. I superstiti, sarebbero rimasti in balia delle onde, ma soprattutto degli squali che giù nelle prime ore, iniziarono a mietere vittime. Silenziosi e letali, gli squali longimano, lunghi tra i tre e quattro metri, con una stazza di oltre 250 chilogrammi, iniziarono ad attaccare i naufraghi facendone strage. Quando la fregata inviata dai portoghesi raggiunse le coordinate, alle 5:45 del 30 novembre, erano solo 181 i sopravvissuti. Secondo le testimonianze, almeno un quarto di loro venne sbranato dagli squali. L'Italia piangeva 651 uomini. A ricordo dei sopravvissuti del Nova Scotia venne eretto dei pochi superstiti, alcuni dei quali stabilitisi in Mozambico dopo essere stati sbarcati e curati, un monumento alla memoria visibile presso il cimitero di Asmara. Una stele commemorativa venne eretta anche a Durban, la meta della salvezza che quei prigionieri sfortunati non raggiunsero mai.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

La prima grande vittoria degli italiani. Paolo Mauri il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. La Battaglia di Mezzo Giugno, nel 1942, dimostrò per la prima volta l'efficacia dello strumento aeronavale delle forze italiane e tedesche.

Giugno 1942. La Germania sta preparando da mesi l'operazione Barbarossa, l'invasione dell'Unione Sovietica, e nel Mediterraneo Centrale la pressione delle forze aeree dell'Asse sull'isola di Malta va diminuendo: il II Fliegerkorps tedesco ad aprile viene spostato dalle basi nel Mare Nostrum all’est Europa, e gli inglesi colgono la palla al balzo per cercare di rifornire l'isola che da mesi è allo stremo colpita dai bombardamenti delle forze aeree italotedesche.

La guerra dei convogli. Nell'Ammiragliato nasce così l'idea di condurre un'imponente operazione di rifornimento da due fronti, per sorprendere le forze navali italiane che, pensavano gli inglesi, non sarebbero state capaci di parare questo doppio colpo. Prima di procedere nella narrazione della battaglia che seguì questa decisione, è bene fare una precisazione storica: Malta, troppo spesso, è stata indicata come il principale fattore della nostra disfatta sul fronte africano. Non è propriamente così e cerchiamo di spiegare rapidamente il perché. Il compito strategico della nostra flotta era quello di fornire la scorta ai convogli per la “Quarta Sponda”, in quanto il nostro fronte di guerra principale era quello nordafricano. La nostra flotta era costretta, quindi, ad essere quasi sempre in mare, mentre quella inglese godeva del vantaggio tattico di poter scegliere come e quando colpire le nostre linee di rifornimento, riservandosi di compiere azioni particolari (come il bombardamento navale di Genova o quello aeronavale di Taranto) per minare il morale e la capacità delle nostre forze. Diciamolo subito: la guerra dei convogli fu persa non per causa dei colpi inglesi. Il 94% dei materiali inviati dai porti italiani arrivò a destinazione in Libia. Il problema era che i piroscafi ed i mercantili partivano a mezzo carico, mentre quelli inglesi, per fare un esempio, navigavano “alla linea di galleggiamento”, una disparità che alla lunga portò all’inversione della marea nel Mediterraneo ed in ogni altro fronte di guerra. Una questione quindi di approvvigionamenti “alla fonte”, unita ad altri fattori, come le carenze infrastrutturali nei porti libici che non erano in grado di accogliere e smistare un gran numero di mercantili bloccandoli così in rada ed esponendoli agli attacchi aerei inglesi. L'incidenza di Malta nella guerra dei convogli fu quindi marginale, e dipendente dalle contingenze: quando le armate italotedesche guidate da Rommel si spinsero sino all'Egitto, l'isola fu praticamente tagliata fuori. Anche ad inizio della guerra gli inglesi la consideravano indifendibile, aspettandosi un nostro sbarco anfibio (l'operazione C3) e sostanzialmente la abbandonarono al suo destino. Quando si accorsero che l'invasione non arrivava, decisero di rinforzarla impiegando il minimo delle loro forze: i carichi venivano inviati con sommergibili o incrociatori veloci (come l'Hms Welshman capace di 40 nodi di velocità). Ma, come detto, ad aprile la pressione aerea sull'isola stava sensibilmente diminuendo, e pertanto gli inglesi presero la decisione di tentare una prima grande operazione di rifornimento: l'operazione Harpoon da Gibilterra e la Vigorous da Haifa, Alessandria e Port Said.

Un arpione diretto a Malta. Nonostante la penuria di naviglio pesante, gli inglesi da Gibilterra seppero mettere insieme una flotta numericamente importante: la Royal Navy schierava nella Forza T, che doveva arrivare sino al Canale di Sicilia ed invertire la rotta, una vecchia corazzata, la Malaya, due portaerei (Argus e Eagle), tre incrociatori (Kenya, Charybdis e Liverpool) e otto cacciatorpediniere; nella Forza X, quella adibita alla scorta sino a Malta, erano presenti un incrociatore leggero contraereo (Cairo) e nove cacciatorpediniere oltre ad undici unità minori. A questa flotta si affiancava il Western Convoy composto dai mercantili Troilus, Burdwan, Chant, Tanimbar, Orari e dalla cisterna Kentucky. Infine la Forza Y composta dalla cisterna Brown Ranger e da due corvette. Le tre flotte erano agli ordini dell’ammiraglio Harwood, al vertice della Mediterranean Fleet, mentre il comando in mare era affidato a vice ammiraglio Curteis a bordo del Kenya. La battaglia si infiamma appena il convoglio si avvicina al mare al largo della Sardegna. Già il 13 un primo gruppo di aerosiluranti italiani decolla dall'isola per cercare di colpire le navi inglesi, ma non le trova e deve tornare indietro. Il 14, invece, le operazioni aeree sono più coordinate e arrivano i primi colpi a segno: a sera il bottino italiano è di un incrociatore gravemente danneggiato (il Liverpool) ed un mercantile colpito poi affondato dai bombardieri Cant-Z 1007 Bis (il Tanimbar). Il 15 giugno arriva il momento, per la nostra flotta, di passare all'azione. La Settima divisione incrociatori leggeri composta dall’Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli scortati da cinque cacciatorpediniere al comando del vice ammiraglio Alberto Da Zara salpa da Cagliari che è ancora notte, e alle prime luci del 15 giugno piomba sul convoglio inglese. Alle 5:39 del mattino la Forza X si trova davanti la divisione di Da Zara che apre subito il fuoco contro i cacciatorpediniere inglesi, lanciatisi a tutta forza contro le nostre navi. A causa della disparità di calibri il fuoco italiano colpisce ed immobilizza immediatamente due caccia inglesi: il Bedouin, poi silurato da un Sm-79 pilotato dal sottotenente Martino Aichner facente parte del 132esimo gruppo autonomo dell’asso Carlo Buscaglia, ed il Partridge, che però riesce ad essere recuperato. Da Zara decide di continuare nell'affondo e dirige il fuoco sulla principale unità nemica, il Cairo, che riceve alcuni colpi che lo costringono ad accostare. Un destino peggiore attendeva le navi da carico del convoglio: di tutti i mercantili che lo compongono, solo il Troilus riesce ad arrivare incolume a Malta. Da parte italiana i danni sono minori sui due incrociatori mentre il caccia Vivaldi, colpito pesantemente, riesce a restare comunque a galla e a far ritorno in porto.

Vigorous non passa la "Bomb Alley". Il 12 giugno, dai porti inglesi nel Mediterraneo Orientale, salpano 11 mercantili (City of Pretoria, City of Calcutta, Bhutan, Potaro, Bulkoil, Rembrandt, Aagtekirk, City of Edimburgh, City of Lincoln, Elizabeth Bakke ed Ajax) scortati da otto incrociatori (sei pesanti il Cleopatra, Dido, Hermione, Euryalus, Arethusa, Coventry e due leggeri il Birmingham e il Newcastle) e 25 cacciatorpediniere che prendono il mare da Alessandria il 13. Il comando sul campo è affidato al vice ammiraglio Sir Phillip Vian coadiuvato dal vice ammiraglio Tennant al comando della 4th Cruiser Squadron. Non disponendo di corazzate gli inglesi cercano di ingannare la nostra ricognizione camuffando una vecchia nave bersaglio, la Hms Centurion, come se fosse una corazzata della classe King George V, la Hms Anson. Ad ulteriore protezione di questo imponente convoglio erano stati disposti a ventaglio nelle acque tra la Sicilia e la Sardegna una serie di sommergibili in modo da intercettare la nostra squadra navale una volta uscita dai porti. Anche qui la reazione degli aerei italotedeschi è pesante: gli attacchi arrivano a ondate, in quella che gli inglesi definiscono la "Bomb Alley" (il corridoio delle bombe), e le bombe e i siluri piovono come grandine sul convoglio britannico. Ma Vian prosegue: Malta deve essere rifornita. Tra il 14 e il 15 giugno la nostra squadra navale esce dal porto di Taranto per intercettare gli inglesi: al comando dell'ammiraglio Angelo Iachino ci sono due corazzate (Littorio e Vittorio Veneto), quattro incrociatori (Gorizia, Trento, Garibaldi e Duca d'Aosta) e 12 cacciatorpediniere tra cui il Legionario che era alla sua prima uscita operativa dotato di radar tedesco tipo De.Te. Nello Ionio, inoltre, vengono schierati una serie di sommergibili coadiuvati da naviglio sottile tedesco e sei U Boot. Lo scontro aeronavale si fa sempre più pesante man mano che il convoglio si avvicina all'isola: colpiti numerosi caccia e incrociatori (Birmingham e Arethusa gravemente colpiti ed Hermione affondato), persi per bombardamento aereo e siluramento quattro mercantili, Vian dà ordine di fare dietrofront facendo finta di non aver ricevuto il messaggio dell'Ammiragliato che gli ordinava di proseguire: una decisione che risparmia la sua menomata flotta dal finire sotto i calibri da 381 delle nostre corazzate uscite da Taranto. Nel momento del cambio di rotta, la sera del 15, gli inglesi perdono un altro incrociatore, il Newcastle, silurato dai tedeschi, e affondato un altro caccia. Gli italiani in quella parte dello scontro lamentano una sola grande perdita: l’incrociatore pesante Trento che viene silurato e affondato dal sommergibile Umbra, dopo che era stato immobilizzato da un siluro sganciato da un bombardiere Beaufort quella stessa mattina. La Battaglia di Mezzo Giugno si conclude così con una netta vittoria delle forze dell'Asse che, per la prima volta, dimostrano di poter mettere efficacemente in pratica i principi dello scontro aeronavale.

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo (Anupsa). Attualmente scrivo per Gli Occhi 

Giugno di fuoco nel Mediterraneo: la battaglia degli aerosiluranti italiani. Paolo Mauri il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. La "Battaglia di mezzo giugno" fu il primo vero scontro aeronavale nel Mediterraneo e si concluse con una netta vittoria dell'Asse. L'arma aerea, dal momento del suo apparire sui campi di battaglia, ha rapidamente rivoluzionato il concetto di guerra. Se la Prima Guerra Mondiale, da questo punto di vista, ha svolto il ruolo sperimentale, coi timidi approcci al bombardamento tattico e strategico, la Seconda ha costituito la palestra in cui è maturata l'aviazione militare. E se è ben noto il concetto di “superiorità aerea”, di bombardamento strategico e di appoggio ravvicinato, non va dimenticato che fu importantissimo – e ancora lo è – il connubio tra aereo e siluro.

Nasce il primo reparto. L'Italia, colpevolmente, capì tardi l'importanza dei reparti aerosiluranti: il 25 luglio del 1940, quindi dopo più di un mese di guerra, a Gorizia venne costituito il Reparto Speciale Aerosiluranti il cui primo nucleo di addestramento venne ufficialmente inaugurato il 28 ottobre dello stesso anno, sotto il comando del tenente colonnello Carlo Unia. La notte di Taranto era distante solo pochi mesi da quel giorno di luglio, ma gli inglesi già sapevano padroneggiare una specialità che si rivelerà cruciale per le battaglie sui mari al pari del bombardamento in picchiata. A tal proposito ricordiamo, oltre a quella maledetta notte del 12 novembre in cui i biplani Swordfish misero fuori combattimento tre nostre corazzate, che fu un unico siluro, sganciato sempre dal medesimo tipo di velivolo decollato dalla portaerei Ark Royal, che a maggio del 1941 azzoppò la corazzata tedesca Bismark in Oceano Atlantico permettendo così alle navi della Royal Navy di completare l'opera e colarla a picco. La Regia Aeronautica, vista soprattutto l'inefficacia dei bombardamenti effettuati contro bersagli navali, che venivano condotti in quota e in volo livellato come quelli terrestri, cercò quindi, frettolosamente, di mettersi “in pari”, e ci riuscì grazie alla volontà e al genio del colonnello Unia e di un altro personaggio quasi mitologico: il maggiore Carlo Emanuele Buscaglia, che terminerà il conflitto con al suo attivo oltre 100mila tonnellate di naviglio nemico affondate. Il nuovo reparto, così rapidamente creato, venne subito messo alla prova: la sera del 15 agosto cinque Sm-79 armati di siluri decollarono per il porto di Alessandria d'Egitto dove cercarono, fallendo, di colpire le unità inglesi alla fonda. Tra di essi anche Buscaglia.

Obiettivo degli inglesi: rifornire Malta. La storia che andiamo a raccontarvi, però, avvenne all'inizio del terzo anno di guerra e più precisamente tra il 13 e il 16 giugno del 1942 che rappresenta, forse, una delle più cruente battaglie a cui i nostri aerosiluranti hanno partecipato: la Battaglia di mezzo giugno. Il piano inglese prevedeva il rifornimento della piazzaforte di Malta tramite due convogli distinti che avrebbero preso il mare contemporaneamente: l'operazione Harpoon da Gibilterra e la Vigorous da Alessandria. Il dispositivo aeronavale britannico per quella che sarebbe stata la Battaglia di mezzo giugno era imponente. E l'Ammiragliato pensava che le forze italotedesche non fossero in grado di parare questo “uno/due” sul mare. Per dare un'idea delle forze inglesi in campo nella Battaglia di mezzo giugno, ricordiamo che da Gibilterra partirono, nella Forza T, una vecchia corazzata, la Malaya, due portaerei (Argus e Eagle), tre incrociatori (Kenya, Charybdis e Liverpool) e 8 cacciatorpediniere; nella Forza X, quella adibita alla scorta sino a Malta, c'erano un incrociatore leggero contraereo (Cairo) e nove cacciatorpediniere oltre a undici unità minori, mentre da Alessandria salparono otto incrociatori (sei pesanti il Cleopatra, Dido, Hermione, Euryalus, Arethusa e Coventry e due leggeri il Birmingham e il Newcastle) e 25 cacciatorpediniere. I nostri aerosiluranti vengono chiamati in causa per contrastare i convogli inglesi quasi da subito: la sera del 13, su ordine di Superaereo (il comando della Regia Aeronautica di Roma), decollano dalla Sardegna sette Sm-79 per la massima distanza, ma non trovando i bersagli rientrano alla base. Il giorno successivo il comando organizza operazioni in massa: sono disponibili in Sardegna 63 aerosiluranti con 48 siluri mentre in Sicilia 14 con 18 siluri. In totale, insieme agli altri velivoli da bombardamento, nelle basi delle nostre isole ci sono 347 aerei pronti per la battaglia che diventerà famosa come la Battaglia di mezzo giugno. I nostri velivoli martellano la flotta inglese a ondate successive: la prima azione avviene alle 9 del mattino, ma infruttuosa, poi arriva il grosso delle forze composto da Sm-79 e Sm-84 (questi ultimi del 36esimo stormo) che tra il mattino ed il pomeriggio non dà tregua ai marinai inglesi. Il valore dei nostri equipaggi, però, non viene ripagato: scarso è il bottino di questo primo giorno di Battaglia di mezzo giugno con un incrociatore gravemente danneggiato (il Liverpool) ed un mercantile colpito poi affondato dai bombardieri Cant-Z 1007 Bis (il Tanimbar). Verso le 20:30 del 14, buona parte della scorta inglese, più o meno all'altezza del Golfo di Tunisi, inverte la rotta per tornare a Gibilterra. Resta la Forza X che finirà sotto i cannoni della Regia Marina in quello che viene definito come lo scontro di Pantelleria. La VII Divisione Navale, infatti, aveva preso il mare per intercettare il convoglio britannico e alle 5:30 del mattino, avvistatolo, apre subito il fuoco dagli incrociatori Eugenio di Savoia e Montecuccoli che colpiscono immediatamente i cacciatorpediniere Bedouin e Partridge. Lo scontro navale durerà circa 10 ore, con diverse fasi e intervalli, a cui partecipano anche aerosiluranti e bombardieri italotedeschi. Gli Sm-79, Sm-84 e Stuka martellano i piroscafi tanto che, a sera, solo due risulteranno indenni: il Troilus e l'Orari.

La storia di Martino Aichner. In questa giornata avviene una storia molto particolare e forse unica nel suo genere: tre Sm-79, di cui uno pilotato da Buscaglia che silura un piroscafo già in avaria, incappano nel cacciatorpediniere Bedouin, danneggiato il giorno precedente e preso a rimorchio da un'altra unità. Ai comandi di un Gobbo Maledetto c'è l'ufficiale pilota di complemento Martino Aichner che, visto il caccia in difficoltà, si getta a pelo d'acqua per attaccarlo. Lasciamo la parola allo stesso Aichner per ricordare quel singolare episodio. “Mi metto in rotta d'attacco e mi abbasso, ma quello spara con tutte le armi di bordo. Lancio a circa 600 metri e quasi nello stesso tempo mi colpiscono a un motore. Sono troppo sotto e non riesco più a fare la virata di scampo. Non mi rimane che passare sopra l'unità inglese e incasso altri colpi. Sono costretto ad ammarare a due miglia dalla mia vittima”. Il Bedouin, colpito dal siluro di Aichner, dopo essere sbandato sulla sinistra, affonda verso le 13, mentre il pilota ed il suo equipaggio vengono raccolti vero le 20 da un nostro idrovolante di soccorso. Forse è il primo e unico caso in cui un pilota dà il colpo di grazie a un'unità nemica ed assiste al suo affondamento dal battellino di salvataggio dopo essere stato abbattuto dalla stessa unità che ha silurato. Intanto la nostra squadra navale, al comando dell'ammiraglio Da Zara rientra in porto a Napoli ma gli attacchi aerei non si fermano e a fine giornata solo due piroscafi del convoglio partito da Gibilterra riescono ad arrivare a Malta.

Dietro-front in mare. Il convoglio da Alessandria non conobbe sorte migliore. Gli aerei italotedeschi si alternano in ondate successive, a volte senza successo, ma gli attacchi sono così violenti e coordinati che bombe e siluri vanno a segno menomando la flotta britannica. Nel pomeriggio del 15, mentre la nostra Squadra Navale esce da Taranto con una corazzata e quattro incrociatori, un gruppo di 10 aerosiluranti decollati da basi diverse, per puro caso si ritrovano contemporaneamente sui loro obiettivi: un piroscafo va a picco e vengono colpiti due incrociatori anche se i rapporti inglesi negano. È a questo punto che l'ufficiale comandante il convoglio, l'ammiraglio Phillip Vian, dà l'ordine definitivo di fare dietro-front temendo anche di entrare in contatto con la squadra navale italiana uscita in mare. Se non l'avesse fatto le sue navi sarebbero finite sotto i 381 della corazzata Littorio. Complessivamente, nella Battaglia di mezzo giugno vengono affondati un incrociatore, cinque cacciatorpediniere e sei mercantili, e vengono danneggiati gravemente cinque incrociatori, tre caccia, una corvetta, un dragamine e tre mercantili. Le perdite da parte italotedesca ammontano a 28 velivoli abbattuti ed un numero imprecisato di danneggiati, ma la nostra flotta perde l'incrociatore Trento, e la corazzata Littorio ha danni a bordo per una bomba e un siluro, mentre il caccia Vivaldi e gli incrociatori Eugenio di Savoia e Montecuccoli sono leggermente danneggiati dal tiro navale britannico. La Battaglia di mezzo giugno si conclude, così, con una netta vittoria delle forze dell'Asse che dimostrano, per la prima volta – e tardivamente – di essere in grado di effettuare una battaglia aeronavale, se pur ancora con qualche pecca dal punto di vista del coordinamento tra le forze aeree e quelle navali.

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo (Anupsa). Attualmente scrivo per Gli Occhi della Guerra e ilGiornale.it. Appassionato di fotografia, storia e forze armate pratico la scherma a livello agonistico e sono anche istruttore regio

Da "ilgiornale.it" il 14 giugno 2021. Per gentile concessione dell'editore Adler, pubblichiamo la prefazione del libro di Franco Cardini "Hitler e Mussolini. Lettere, documenti, intercettazioni telefoniche". E’ vero. Per ridicolo e umiliante che possa sembrare, e magari in verità essere, da chiunque oggi si appresti a scriver qualcosa che riguardi il fascismo o la figura di Adolf Hitler (un po’ meno quella di Mussolini), per corrette e innocenti - e soprattutto non apologetiche - che siano le sue intenzioni, ci si aspetta almeno una preliminare giustificazione: solo quanti (ed è un paradosso nel paradosso) intendono parlarne per un qualche motivo di scoop o per ricavarci un profitto, oppure vogliano aggiungere la loro pietra al mucchio di contumelie e maledizioni che già ricopre quegli oggetti e la loro memoria, ha il diritto di non scusarsi. E già in queste brevi righe ho coscienza, come studioso e come cultore di storia, di essere incappato in almeno un’ambiguità, in almeno un atto implicitamente arbitrario. Ho accostato la parola “fascismo” al nome di Adolf Hitler. Mi sono in altri termini comportato come chi sia acriticamente convinto - e molti lo sono, o fingono di esserlo, o ignorano il problema - che fascismo e nazionalsocialismo siano una stessa cosa, o che il secondo termine sia una sorta di peggioramento del primo. Non sono affatto dell’avviso che sia così: e so perfettamente di essere in più ampia compagnia di quanto possa apparire. Dal canto mio, mi schiero - con la coscienza che il mio parere non ha in materia autorevolezza alcuna - tra coloro che preferirebbero semmai parlare di “fascismi”, al plurale, e che rilevano come siano esistiti (esistano?) anche “falsi fascismi”, regimi cioè che si fondano sulla forza e magari sulla violenza e che di simile al fascismo (o ai fascismi) presentano una più o meno sincera o più spesso ostentata coscienza patriottica tesa fino al nazionalismo, ma che mancano di due connotati senza i quali il fascismo non sussiste: una politica sociale nonché una forte e coerente “organizzazione del consenso” fondata su una costante mobilitazione delle masse (il che configura molti elementi, primo fra tutti un’adeguata politica culturale). Questi due connotati sono invece comuni al fascismo e al nazismo: ma a distinguerli e a differenziarli sono il razzismo indirizzato principalmente in senso antisemita (che il secondo riuscì a proporre/imporre al primo sulla base di un preciso iter storico e socioculturale) e l’atteggiamento dinanzi al tema dell’ “uomo nuovo”, che il fascismo - almeno quello “primigenio”, l’italiano e mussoliniano - condivise piuttosto con il bolscevismo e che fa di esso un movimento socio-economicamente parlando “di sinistra”, mentre nel nazionalsocialismo l’ispirazione tipicamente atavica e il radicamento nel passato magari manipolato e distorto in senso atavistico-völkisch hanno prodotto una costante tensione vòlta all’ ”uomo arcaico” (ma in entrambi i casi il risultato è stato quello di un atteggiamento anticristiano in genere e anticattolico in particolare, che pure certe forme di “fascismo” storico hanno corretto: si pensi alla Spagna, al Portogallo, all’Austria, alla Croazia, alla Romania, al Belgio, alla Francia stessa, pur ammesso che in quei casi si possa davvero in una certa misura parlare di movimenti e/o di regimi “fascisti”). Quel che si può comunque affermare è che, nei confronti di fascismo e di nazismo, il discorso storico, anziché concluso - com’è invece avvenuto nel caso del “socialismo reale” in Unione Sovietica, mentre perdura in Cina -, è stato interrotto dalla sconfitta militare e spazzato violentemente via: il che a rigore, non consentendoci di apprezzarne la completa parabola, mantiene aperto un inquietante ma anche affascinante interrogatorio su un processo di sviluppo che non ha avuto luogo. Né il fascismo “primigenio” né il nazionalsocialismo hanno potuto sopravvivere alla tragica fine dei loro rispettivi ideatori e fondatori. Certo è che il fascismo italiano, come tutti i movimenti in qualche modo al suo modello ispirati, è stato indotto/costretto da un certo momento in poi a subire la cogente influenza del nazionalsocialismo soprattutto in quel ch’esso aveva di peggio (ma, ohimè, anche di più qualificante) il razzismo: che ad esso ha consentito di sopravvivere in qualche modo, magari caricaturizzato, anche ben altre il suo decesso storico. I suoi tragicomici epigoni americani e perfino sudafricani e australiani ne sono stati la prova. Non c’è comunque dubbio che origine e “brodo di coltura” del fascismo e del nazismo, non meno che del bolscevismo/sovietismo, siano analoghi: la temperie evoluzionistico-decadentista europea, anzitutto; quindi l’irrisolto nodo della “questione sociale” e il suo radicarsi e ramificarsi nel fallimento sociale di quelle istanze capitalistico-liberiste che pur l’avevano generata senza riuscire né a risolverla, né a contenerla; il dramma della prima guerra mondiale con i suoi milioni di morti e l’aberrante sviluppo sia di varie forme di degenerazione etico-sociale (milioni e milioni di disadattati usciti dalle trincee senza lavoro e senza prospettive sociali); la risposta disordinata e disorientata di masse disoccupate o sottoccupate dinanzi al fenomeno di un sistema capitalistico-liberista che, pur fallito sul piano sociale (e sia la guerra, sia le sue conseguenze, ne sono prova), era risultato paradossalmente vincitore di quello politico e militare senza però riuscir a risanare i mali che pur aveva provocato; il fallimento delle parole d’ordine wilsoniane fondate sulla pacificazione generale e sull’autogoverno dei popoli e delle “cattive paci” generate dalla conferenza di Parigi del 1919-20. Un sistematico lavoro di depistaggio-repressione a livello politico e intellettuale messo in opera dai ceti dirigenti di quei paesi usciti vincitori dal conflitto del 1914-18, ma che non erano riusciti a dissimulare la loro mancanza forse di volontà, certo di capacità necessarie a correggere il fallimentare sistema di disuguaglianza e d’ingiustizia socioeconomica sul quale si mantenevano, finì col provocare - diciamolo “alla” Toynbee - una risposta drastica e drammatica, ma per più versi terapeutica: il totalitarismo, l’autentica novità del XX secolo. La maggior parte degli osservatori storici ha dissimulato tale realtà sostenendo che esso nacque dalla volontà aggressiva di fermare il socialismo; un grande storico conservatore, Ernst Nolte, ha viceversa affermato che il totalitarismo “di destra”, il fascismo e poi il nazismo, sorse come reazione rispetto al sovversivismo comunista. Nessuno ha osato osservare, con libero e pacato realismo storico, che il totalitarismo fu il rimedio - drastico, crudele e in ultima analisi fallimentare - nato dall’esigenza di rispondere con una qualche cura efficace al disastro mondiale causato dal capitalismo e dal colonialismo liberisti con la concentrazione della ricchezza e la proletarizzazione delle masse che ne aveva costituito l’esito. Che poi i due fronti “opposti” (!?) del totalitarismo si siano scontrati fra loro, e che di tale scontro abbia finito con l’avvantaggiarsi l’ipercapitalismo abbandonando le pur parziali terapie keynesiano-fordiste emerse all’indomani della crisi del ’29 - e dai totalitarismi affrontate con maggior successo - ed evolvendosi poi in quello che uno studioso che ne è pur stato un difensore, il Luttwak, ha definito “turbocapitalismo”. La cattiva coscienza di chi comunque, compresa la realtà, ha fatto in modo di grottescamente camuffarla per negarla, è emersa in una pervicace volontà - solo in apparenza “superficiale” - di sottolineare le “somiglianze” delle differenti forme assunte sotto il profilo storico dal totalitarismo, cercando di presentarle come casuali se non addirittura “estetizzanti”. D’altronde, è un fatto che fra il turbocapitalismo e le forze che in vari modi gli si sono opposte sia in atto un conflitto che ha interessato entrambe le due guerre mondiali (fino a poter essere denominato “guerra dei Trent’Anni” del XX secolo) ma è poi continuati in Asia, in Africa e in tutto il mondo poiché gli squilibri dei quali oggi tutti noi siamo ancora vittime derivano in gran parte dalle “cattive paci” del 1919-20. E questo è uno dei motivi per i quali ancor oggi Hitler, Mussolini e anche Stalin sono, per la storia contemporanea, un “passato-che-non-passa”: e che a lungo continuerà a non passare. Ed eccoci approdati ai due protagonisti del nostro libro: due personaggi per molti aspetti (a partire da quelli psicocaratteriali) reciprocamente estranei per non dire addirittura opposti e incompatibili: e Mussolini, già maldisposto a causa della sua germanofobia congenita nei confronti del suo interlocutore, come si rese conto durante il breve incontro di Venezia del ’34 e come espresse rigorosamente l’anno successivo durante la conferenza di Stresa, nella semindifferenza inglese e britannica). Due protagonisti di una “paradossale amicizia”: pressoché coetanei eppure separati da ambienti sociali diversi, da un differente training scolastico che li aveva spinti ad esperienze entrambe marginali (migrante l’uno, déraciné l’altro), da rispettive esperienze che del romagnolo avevano fatto un esperto giornalista, un buono scrittore e un capo riconosciuto della sinistra socialista italiana avevano reso l’alto-austriaco un solitario e solipsistico egocentrico. Eppure, molti e magari inaspettati erano i punti di contatto: entrambi anticristiani e anticattolici (anche se al materialista e bestemmiatore Benito si rispondeva, da parte di Adolf, con una sorta di naturalismo darwinistico tinto di misticismo pagano), entrambi amanti della musica e musicisti dilettanti, entrambi innamorati di Nietzsche, entrambi avversari accaniti del vecchio severo ordine asburgico e valorosi combattenti feriti e graduati della Grande Guerra, entrambi continti - e non a torto, sia pure per diversi motivi - che i loro rispettivi paesi fossero stati maltrattati dai trattati di pace che li riguardavano e pertanto ben decisi a radicare il loro nazionalismo nel terreno comune delle pretese “revisionistiche”. Il dopoguerra li aveva indotti a trasformarsi in animatori di gruppi di ex combattenti restii a deporre le armi e a tornare alla normalità e caratterizzati da comuni istanze “rivoluzionarie” indirizzate però in senso antibolscevico (una scelta, questa, che non era stata ad esempio recepita né dal mainstream del “legionarismo” fiumano, come si verifica nella Carta del Carnaro, né da alcuni ambienti magari marginali dello spartachismo tedesco che avrebbero dato vita ai conati nazional-bolscevichi poi confluiti nella “sinistra” nazista dei fratelli Strasser). Ma Hitler aveva in un primo tempo fallito nei confronti degli ambienti borghesi-conservatori di Weimar, mentre Mussolini era riuscito a diventare il leader di fiducia di un mondo “borghese” che avrebbe continuato dal canto suo a disprezzare e i privilegi del quale avrebbe in parte salvato costringendolo a camuffarsi da rivoluzionario. Che l'Hitler frustrato dopo il Putsch di Monaco vedesse nel trionfatore della marcia su Roma un ispiratore e un Maestro, e ne scimmiottasse perfino comportamenti e ritualismi politici, è comprensibile; ma ci sarebbero volute tutta l’ottusità e la miopia dei “moderati” francesi e britannici per arrivare alla “perfezione” demenziale dello spingere quell’avventuriero italiano che pur molti dei loro esponenti di punta apprezzavano - Churchill fra gli altri e più degli altri - per gettar nelle braccia di quel goffo e ridicolo agitatore austriaco colui che dopo Venezia lo aveva definito un isterico mattoide, che odiava in quanto mandante dell’assassinio del suo amico Dollfuss e che aveva inutilmente denunziato a Stresa in quanto responsabile del riarmo tedesco. Ma le sia pur tardive e criminali ambizioni colonialistiche italiane avevano provocato da parte delle potenze liberali una risposta grossolana e maldestra, aumentando in progressione geometrica la popolarità del Duce presso gli italiani ch’era sostenuta anche da una massiccia organizzazione del consenso e da una politica di opere pubbliche e dalla costruzione di un welfare state che gli aveva procurato l’ammirazione dello stesso presidente statunitense Roosevelt nonché di Keynes e di Ford. D’altra parte, sotto il profilo delle politiche sociali ed economico-finanziarie il dirigismo hitleriano, sostenuto da un gigante dell’organizzazione bancaria come Hjalmar Schacht e puntando sulla scomparsa della disoccupazione e sulla disciplina del lavoro sostenuta dal sindacato unico militarizzato - l’Arbeiterfront - e da una solida rete previdenziale e dopolavoristica, avevano attratto sulla Germania nazionalsocialista l’attenzione del mondo intero, confermata dall’esito trionfale delle Olimpiadi berlinesi del ’36. Il restringimento delle libertà civili, l’inizio ancora in sordina della persecuzione sistematica antisemita e soprattutto il crescere colossale del debito pubblico - una conseguenza della crescita esponenziale degli armamenti - erano passati in sottordine: ed è stato osservato da studiosi di vario orientamento politico che, se il Duce e il Führer fossero scomparsi per un incidente o per una malattia fra ’36 e ’38, essi sarebbero forse ricordati oggi coma i salvatori dei loro rispettivi paesi, alla stregua di un Cavour o di un Bismarck. Ma intanto il Totentanz europeo, determinato dallo spregiudicato comportamento di Hitler al quale Mussolini si era andato adeguando mentre le potenze occidentali lo subivano interdette, si era già avviato. Dopo l’avventura coloniale italiana fu la volta della guerra civile spagnola, quindi dell’Anschluss e, dopo i patti di Monaco il cui deus ex machina e “salvatore della pace nel mondo” era stato Mussolini nonché della scomparsa di quella creatura di Versailles ch’era stata la Cecoslovacchia, poi dell’occupazione italiana dell’Albania che metteva in crisi la “Piccola Intesa” balcanica, si era arrivati a un nuovo conflitto che aveva visto Hitler meravigliato - anche a causa dell’incapacità del suo ministro degli esteri, von Ribbentrop - dinanzi alla reazione francese e inglese a un’invasione della Polonia che il Führer stimava (non senza discrete ragioni) ben meno grave dell’esito del trattato di Monaco. Frattanto Stalin, dopo aver a lungo cercato di scuotere le potenze liberali dalla loro catalessi nei confronti di Hitler, aveva pensato bene di evitare l’isolamento diplomatico e di mettersi nel contempo al riparo da quelle che conosceva bene come le ambizioni estreme dei nazisti (il Drang nach Osten contro l’Unione Sovietica) negoziando con Berlino un trattato di non aggressione che gli avrebbe di lì a poco permesso di metter la mani sulla metà della Polonia, cancellando un’altra delle labili costruzioni originate dalla cattiva pace di Versailles. Sono questi alcuni degli antefatti che consentono di comprendere nel suo autentico, prezioso significato il valore di un libro come questo, che rivede la luce dopo l’edizione rizzoliana del 1946 grazie alle cure di Paolo Sebastiani. Si tratta della presentazione sostanzialmente fedele e accurata di 67 documenti - in parte in edizione originale italiana, in parte in traduzione dal tedesco - che vanno da un messaggio telefonico del ministro degli esteri del Reich von Ribbentrop trasmesso all’ambasciatore tedesco a Roma von Mackensen il 2 agosto del ’39 con l’ordine d’immediata consegna al Duce e contenente soprattutto una serie di precisazioni a proposito del trattato a una serie nutrita di lettere, messaggi fonografici, mozioni di governo, intercettazioni telefoniche, note, verbali di riunioni, relazioni e comunicati vari fino agli ultimi quattro, drammatici “pezzi” che documentano l’eclisse di Mussolini e la sua uscita di scena, quanto meno fino al settembre del ’43. Si tratta di una tesissima nota del Duce, il 14 luglio di quell’anno, sulla situazione quattro giorni dopo lo sbarco alleato in Sicilia; di due relazioni sul convegno di Feltre del 19 successivo, allorché il Duce incontrò il Führer e il feldmaresciallo Keitel (commovente la presenza del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, ufficiale addetto al Comando Supremo, che sarebbe caduto otto mesi dopo sotto il piombo tedesco alle Ardeatine); e infine di una penosa relazione dei colloqui tenuti tra Feltre e Tarvisio pochi giorni dopo, il 6 agosto, assente per note ragioni Mussolini (era già prigioniero a campo Imperatore in Abruzzo) nell’agosto, presenti un Keitel e un von Ribbentrop semiostili e sospettosi e due generali italiani, Ambrosio e Guariglia, spaesati e non troppo convincenti per quanto non sappiamo se e fino a che punto consci del tradimento che stava per verificarsi. Una storia triste, che si legge con un senso di disagio e di umiliazione. Tra i documenti qui editi, i più interessanti riguardano senza dubbio lo scambio epistolare fra i due statisti. Nell’arco di quattro anni, e pur tenendo presenti l’irregolarità della corrispondenza e l’eterogeneità, a tratti il disordine degli argomenti trattati - che per un corretto uso storico di questi documenti richiedono pertanto al verifica di molte altre fonti -, emerge come gradualmente il senso di rispetto e a tratti quasi di devozione con cui Hitler si rivolge a Mussolini (e che sarebbe del resto rimasto nella sostanza costante prova, se non più di ammirazione, quanto meno di un senso di amicizia e se vogliamo di simpatia che, dall’altra parte, non erano ricambiate se non in modesta misura) sembra nel corso del conflitto, e dinanzi alla sfavorevole dinamica degli eventi, attenuarsi per dar luogo invece a rilievi e a critiche non sempre - forma a parte - granché dissimulati, mentre nel Duce l’iniziale prudenza cede gradualmente il passo a sentimenti e ad atteggiamenti che mutano con una certa rapidità nel tempo. Si trattava, nei primi mesi dopo lo scoppio della guerra, prima di convincere Hitler che l’Italia, pur avendo tutta l’intenzione d’intervenire nel conflitto, non avrebbe potuto esser pronta prima di qualche mese (si parlava del ’41, ma il governo italiano puntava in realtà al ’42; e d’altra parte era conscio che, per godere dei vantaggi della vittoria, era necessario entrare almeno formalmente sul campo); quindi di gestire i tempi iniziali di una drôle de guerre durante la quale sembrava non succedere nulla. Poi arrivò la primavera, l’assalto tedesco alla Norvegia, la penetrazione al di là della Linea Maginot, la marcia su Parigi: a questo punto l’esitante Mussolini si rende conto che il problema dell’inadeguatezza militare rimane ma che a prevalere c’è quello politico. Bisogna entrare in guerra, mettere sul piatto della bilancia della storia un mucchietto di cadaveri: il meno possibile, ma tanti da consentirci di sedere al tavolo dei vincitori. E avviene: ma le cose cominciano presto a non andare. Sul fronte greco l’esercito italiano trova una resistenza inattesa e si rende conto di non essere troppo più moderno e ben equipaggiato del nemico; le cose non vanno bene neppure in Africa; il Duce moltiplica con il Führer gli appelli antisovietici, sostiene che bisognerebbe romperla con i bolscevichi e che tutto il partito fascista la pensa così (sa che in realtà non è vero, però mira a indurre Hitler a tentare ancora una volta la strada di una pacificazione con l’Inghilterra per quanto sappia che in ciò v’è se non altro l’ostacolo insormontabile di Winston Churchill. E’ inquieto, insoddisfatto, la sua ulcera si fa di nuovo sentire accompagnata in parte da disturbi forse psicosomatici; e moltiplica intanto le richieste d’aiuto militare e logistico. Il suo interlocutore germanico si mantiene cortese e sollecito, s’informa della salute del collega, ma i suoi consigli sono sempre più delle direttive e le direttive si trasformano in qualcosa che somiglia agli ordini. Qua e là, balena nella sua prosa lo Hitler più irremissibile, più terribile: elogia il “fanatismo”, non esita a parlare di “vendetta”, rimprovera le carenze delle armi italiane specie in rapporto agli aerei e ai carri armati pesanti, dei quali gli italiani non dispongono. In Russia le cose non vanno bene, le possibilità d’indurre Franco a scendere in guerra per consentire all’Asse d’impadronirsi di Gibilterra sono sfumate. Così, giorno dietro giorno, i documenti ci parlano il linguaggio della fine delle illusioni. Solo noi, arrivati a leggere dell’agosto del ’43, sappiamo che le cose non erano ancora arrivate all’epilogo e che, per il protagonista di questo libro, il peggio doveva ancora venire. Nessuno di questi documenti è nuovo, nessuno inedito. Li conoscevamo da tempo, e chi vuole può consultarli pubblicati nella serie Documenti diplomatici italiani. E’ stato tuttavia molto opportuno ripubblicarli: e conservare sia l’Introduzione, sia le brevi pagine di prefazione a ciascuna delle sei sezioni nelle quali il libro si articola, nonché le stringate ma utili note. Tutto l’apparato critico è dovuto a una penna illustre, quella di Vittorio Zincone. E’ ovvio che si tratta di giudizi espressi tre quarti di secoli fa, e per giunta quando le ferite del conflitto erano ancora aperte, le ceneri ancora calde. Ma proprio per questo, dati per scontati i progressi in questi anni compiuti dalla letteratura critica in materia, stupiscono l’adeguatezza e la serenità di molti giudizi. Richiamo il lettore ai 9 punti con i quali Zincone, spiega perché in fondo gli alti comandi militari italiani, in quelle difficili circostanze, non potevano far molto più e molto meglio di quello che fecero. La gente era stanca, voleva la pace. Ma sottovalutava che l’Italia era ormai teatro di guerra e lo sarebbe rimasta: gli alleati insistevano per la “resa incondizionata, ma i tedeschi avevano da tempo approntato il “Piano Walkiria” per l’occupazione della penisola in caso di bisogno, l’armamento e il morale delle truppe italiane erano di livello molto basso e una parte dei militari in servizio apparteneva all’ex Milizia fascista e non si sapeva che cos’avrebbe fatto se e quando si fosse loro comandato di deporre le armi o di resistere alle truppe germaniche. Un libro amaro, in fondo. Ma che contribuisce a chiarirci le idee sulla complessità della storia, dove il torto e la ragione non stanno mai tutti insieme da una parte sola.

Il racconto del segretario del partito socialista. Giacomo Matteotti, il riformista radicale volontario della morte. Corrado Ocone su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Una vita come un romanzo, seppur con esito tragico in questo caso. Non è un modo di dire ma è la modalità narrativa che Riccardo Nencini, senatore socialista nel gruppo di Italia Viva, ha scelto per raccontare la vita pubblica e privata di Giacomo Matteotti: Solo, Mondadori, p. 619, euro 22. Ed è una scelta che, alla prova dei fatti, risulta efficace. Lo è perché ci fa entrare nella psicologia e nel carattere dell’uomo, attraverso la sua semplice vita quotidiana e i suoi affetti e passioni, ma anche perché ci immerge come d’incanto in anni tumultuosi: insieme lontani e vicini (il “noi diviso” dell’Italia sembra essere sempre lo stesso), quelli che vanno dal 1914 al 1924, dai prodromi della Grande Guerra (Matteotti era contro l’intervento) all’affermarsi come regime del fascismo. Perché, anche se la storia raccontata da Nencini si ferma ovviamente a quel 10 giugno dell’agguato fascista al deputato di Fratta Polesine, fu proprio da quell’omicidio, che vasta indignazione e commozione suscitò in tutto il Paese, che gli avvenimenti subirono una rapida e incontrollabile accelerazione. Approdando infine al discorso che Mussolini, il 3 gennaio del 1925, fece alla Camera assumendosi la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto; e alla successiva e definitiva soppressione delle libertà fondamentali garantite dallo Stato liberale. Prima che il romanzo si dipani cronologicamente, Nencini fa un breve prologo; aula di Montecitorio, 30 maggio 1924, il giorno in cui, appena insediatosi il nuovo governo, Matteotti pronuncia un duro e circostanziato discorso sui brogli elettorali che, diffusi un po’ ovunque nel Paese, avevano contrassegnato le elezioni de 6 aprile. È un un discorso duro, circostanziato, pieno di dettagli; interrotto continuamente da fischi e urla; e da un nervosismo mal celato di un Mussolini che ascolta con finta indifferenza. Da quella tornata, anche grazie alla legge elettorale fortemente maggioritaria approvata nel novembre 1923 (la cosiddetta “Legge Acerbo”), era uscita vittoriosa la Lista Nazionale (il “listone”) guidata dal Duce e composta non solo da fascisti ma anche da tutti coloro, pur di altra formazione, che si erano detti disposti a “collaborare” con lui. Questo discorso, con cui Matteotti segnò probabilmente la sua fine (“il volontario della morte” lo definì Gobetti), fu uno degli ultimi atti di un atteggiamento che non aveva fatto mai concessioni al movimento di Mussolini. E che anzi si era battuto pervicacemente, all’interno del Partito Socialista Unitario, di cui era segretario, contro le tendenze collaborazioniste che spesso emergevano. Matteotti conosceva molto bene Mussolini, aveva militato con lui quando il futuro Duce era socialista: entrambi erano figli di una stessa temperie culturale, che però interpretavano in modo del tutto diverso. L’influsso di Sorel e Bergson, quindi l’insistere sull’attivismo e sulla priorità dell’azione, in Mussolini assumeva una spregiudicata curvatura irrazionalistica e nichilistica, che in qualche modo voleva servirsi ecletticamente di un po’ tutte le idee sul campo; mentre in Matteotti si esplicitava in un fastidio per le dispute ideologiche e i dottrinarismi e in un concentrarsi sui problemi concreti delle classi lavoratrici. Da qui la sua straordinaria capacità amministrativa, che gli altri esponenti socialisti, tutti impegnati sui “massimi sistemi” non avevano (la capacità ad esempio di leggere un bilancio e di intervenire con cognizione di causa quando si discuteva quello dello Stato); e da qui anche la sua attenzione ai sindacati, ai corpi intermedi, e alle rivendicazioni salariali che erano per lui il compito impellente che avevano i socialisti. Era sicuramente un riformista, da questo punto di vista, anche se poteva sembrare spesso un radicale per l’intransigenza con cui concepiva le sue idee e combatteva ogni tipo di “cedimento opportunistico”. Era, nello stesso tempo, fra i leader socialisti, il più aperto al mondo (aveva rapporti e viaggiava spesso in tutta Europa) e il più attento al proprio territorio (il Polesine con la sua povertà e le lotte agrarie). Ed era un’altra contraddizione. Come lo era il suo essere di famiglia borghese e benestante, il suo essere intellettuale, ma pure attento e compartecipe ai problemi della povera gente, con cui parlava in dialetto. Tutto questo viene ben tratteggiato nel libro di Nencini, così pure il suo amore per Velia, la donna che sposò e poi ne avrebbe difeso per tanti anni la memoria. Per chi studia gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale, l’impressione è di un intreccio inestricabile di passioni e idee, da cui deriva l’impossibilità di separare con un taglio netto le vicende ma anche le idee dei protagonisti. L’ideologia, in tutte le parti politiche, la faceva da padrona, ottenebrava le menti. Matteotti fa in qualche modo eccezione per coerenza e capacità di visione. Forse fu la capacità di stare coi piedi per terra la cifra ultima del suo riformismo e anche della sua intransigenza antifascista. Il suo radicalismo riformista è molto diverso dal riformismo tout court di Turati. Lo strano impasto di “virtù conservatrici” e “sovversivismo”, per dirla sempre con Gobetti, suscita indubbiamente interesse. E anche un certo fascino intellettuale. Corrado Ocone

Mirella Serri per “la Stampa” il 14 maggio 2021. La discussione su quanti furono i combattenti che si schierarono a fianco di Benito Mussolini a Salò continua ancora oggi a dividere gli storici, mentre cova sotto la cenere ed è pronto a riaccendersi il dibattito sulla guerra civile e sulle ragioni di chi scelse di stare dalla parte della Resistenza e di chi da quella della Rsi. Questo si verifica anche perché sull' esperienza repubblichina mancano ancora dati certi: così ci avverte Gianni Oliva nel libro La bella morte. Gli uomini e le donne che scelsero la Repubblica sociale italiana (Mondadori, pp. 312, 22). Lo storico torinese ripercorre i tragici mesi della guerra di Liberazione in cui molti si arruolarono per «cercar la bella morte», come recita il titolo del racconto di Carlo Mazzantini che si unì alle camicie nere. Oliva ci restituisce la gran varietà delle cifre che riguardano i militi saloini e che vanno da quelle ipotizzate nel 1944 da Mussolini, il quale parlava di 780 mila uomini a lui fedelissimi, a quelle della pubblicistica nostalgica di Giorgio Pisanò, che indicherà in 850 mila il contingente degli adepti del Duce. Ma alcuni ricercatori affermano che le forze repubblichine erano invece composte da 573 mila unità, anche se Alessandro Pavolini sosteneva che nelle sole Brigate nere c' erano 110 mila individui. Bisogna inoltre conteggiare anche le novelle amazzoni, ovvero le ausiliarie che, secondo la fondatrice Piera Gatteschi Fondelli, furono circa seimila, a cui si aggiunsero i 13 mila militari che entrarono nelle SS italiane. Lo storico precisa che «al di là delle quantificazioni, emerge tuttavia un elemento incontrovertibile: i volontari di Salò non possono essere liquidati come un fenomeno residuale e almeno sino alla tarda primavera-inizio estate del 1944 rappresentano una scelta di campo più diffusa rispetto a quella antifascista». Continuare a sottovalutare il numero dei repubblichini, come fanno molti studiosi, non giova a placare risentimenti e rancori che ancora sono presenti tra noi, che vengono usati strumentalmente nel dibattito politico e che riappaiono come rigurgiti di antiche divisioni. Per far chiarezza sulla lotta che dilaniò l' Italia dal 1943 al 1945, Oliva fa apparire, con dovizia di testimonianze e di ricerche, gli stati d' animo, la psicologia, le motivazioni intellettuali e sentimentali delle varie categorie di coloro (militari, fascisti di vecchia data e di nuovo conio, funzionari, intellettuali, donne le quali decisero di partecipare alla guerra in prima persona) che si orientarono verso il fascismo repubblicano. Chi furono i primi a aderire alla Rsi quando era ancora in gestazione? Furono i paracadutisti, i cosiddetti «arditi dell' aria» che incarnavano le élite e combinavano slancio eroico e modernità tecnologica. «L' onore perduto l' 8 settembre non può essere recuperato che con militari che combattono contro il nemico» sostenne il maggiore Mario Rizzatti il quale, in Sardegna, decise addirittura di unire i propri uomini a quelli della Wehrmacht. Provò a ostacolarlo l' eroico tenente colonnello Alberto Bechi, capo di stato maggiore della «Nembo», che venne ucciso (insieme a uno dei carabinieri della sua scorta) da altri commilitoni che si erano schierati dalla parte dei nazisti. Questo fu un episodio emblematico della tragica disgregazione che dopo l' armistizio con gli Alleati segnò tutta l' Italia. Ma vent' anni di educazione alla guerra fascista non si azzeravano tutto d' un tratto. Entusiasti della Rsi furono gli aderenti della prima ora al fascio che erano animati dalla volontà di vendicarsi degli opportunisti della dittatura. «Nei vent' anni di regime fascista si è verificata, in uno spaventoso crescendo, la valorizzazione di ladri, farabutti, traditori di ogni risma e di ogni colore», scriveva un seniore della milizia. Consistente fu poi la presenza di ragazzi e di fanciulle: nella federazione del partito fascista risultarono iscritte 3.948 donne, di cui 3.133 tra i 17 e i 25 anni, tutte spinte all' azione da accese passioni. Giorgio Almirante, futuro segretario del Movimento sociale italiano, partì senza salutare il padre, «dominato da una poderosa forza interiore, desideroso di trovarmi in prima linea, carico di un entusiasmo tanto più singolare quanto più privo di speranza nel successo». E testimoniò anche quanto nella Rsi fosse importante lo «slancio razzista»: segretario di redazione della rivista La difesa della razza, illustrò la necessità di «fare del razzismo cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia sia viva in tutti la coscienza della razza». Il libro di Oliva ci fa attraversare in maniera esaustiva tutto il territorio del fascismo repubblichino e al contempo ci fa capire come mai, ancora oggi, sopravvivano le motivazioni degli schieramenti l' un contro l' altro armati. Ben lo chiarisce la splendida risposta che l' antifascista Vittorio Foa diede all' ex repubblichino Pisanò il quale gli aveva chiesto di imboccare un percorso di riconciliazione: «Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano». «Certo", disse Foa, «rispettiamo i morti di entrambe le parti. Ma solo questo, dal momento che avendo vinto noi tu sei potuto diventare senatore ma se avessi vinto tu io sarei ancora in carcere».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 19 maggio 2021. Certe vite si spiegano meglio se lette dalla fine. A maggior ragione se la fine è un lungo e scintillante crepuscolo come quello di Gabriele D' Annunzio, che trascorse i suoi ultimi 15 anni nella «forzata clausura» del Vittoriale di Gardone Riviera. E ancor più se su quella fine è possibile avanzare nuovi interrogativi, ipotesi sconvolgenti e non del tutto infondate come quella di un suo possibile avvelenamento. È quanto fa il riuscitissimo film Il cattivo poeta, in uscita domani, del regista Gianluca Jodice e con un' interpretazione magistrale di Sergio Castellitto nei panni del Vate, incentrato sugli ultimi due anni di vita del poeta, allorché lui, per via della posizione eterodossa rispetto alle scelte del Duce, fu messo sotto rigida sorveglianza da parte del regime fascista attraverso l' invio al Vittoriale del giovane segretario federale di Brescia, Giovanni Comini. La forza del film è in primo luogo nella sua ambientazione, dato che buona parte delle scene sono girate all' interno della casa-museo di D' Annunzio, «fatto mai accaduto in un' opera cinematografica», come sottolinea il presidente della Fondazione del Vittoriale degli Italiani Giordano Bruno Guerri, che rende ancor più veritiera la narrazione oltre a contribuire al fascino della visione. E contesto significativo a livello simbolico, visto che quest' anno si celebra il secolo esatto dall' arrivo del Vate a Gardone Riviera, anniversario ben ricordato nel libro di Valentina Raimondo Cento anni di storia del Vittoriale. L' incantevole sogno ( Silvana Editoriale). Un altro elemento di forza del film è il suo attingere a una bibliografia storica consolidata: il personaggio del federale Comini è ispirato al libro, appena ristampato, di Roberto Festorazzi D' Annunzio e la piovra fascista ( Il Silicio), in cui se ne ricostruisce il ruolo di controllore del Vate, su mandato del segretario del Pnf Achille Starace. La figura del D' Annunzio crepuscolare e la suggestione sulla sua morte per avvelenamento fanno invece riferimento a due libri di Guerri, ossia D' Annunzio. L' amante guerriero e La mia vita carnale. L' aspetto dove però il film è impareggiabile è nell' immortalare la tragica e disperata grandezza dell' ultimo D' Annunzio: un poeta minato nel fisico, deluso e amareggiato per la sua emarginazione politica, e segnato da debolezze, ossessioni e dipendenze, come l' abuso di cocaina e la vita erotica sfrenata. E nondimeno un uomo ancora capace di slanci lirici e trascinato da un' insopprimibile passione civile. Un intellettuale che, per quanto in esilio, non poteva fare a meno di manifestare la sua posizione sulle vicende dell' Italia contemporanea, di esprimere il suo disappunto per la rozzezza di certi militanti fascisti, da lui definiti «camicie sordide», e anche per la «prepotenza» del Duce e dei suoi gerarchi, da cui ben sapeva di essere spiato. Con quella stessa lucidità D' Annunzio palesava la sua diffidenza rispetto alla guerra coloniale in Etiopia e alla partecipazione dell' Italia a sostegno dei franchisti, e soprattutto la sua contrarietà all' alleanza con la Germania di Hitler, per lui niente più che «un ridicolo nibelungo truccato alla Charlot», a causa del quale l' Italia sarebbe andata «verso il baratro». Una preveggenza che D' Annunzio avrebbe comunicato a Mussolini in un incontro nel 1937 alla stazione di Verona, dicendogli: «Sei andato a Berlino a scavarti la fossa». Un' intuizione lungimirante che potrebbe però essergli stata fatale. Nel film si racconta infatti come D' Annunzio possa essere stato ucciso dalla governante-infermiera-amante altoatesina Emy Heufler, probabilmente una spia inviata dal Terzo Reich per accelerare la fine di un uomo ormai debole e nondimeno scomodo ai fini dell' alleanza fascismo-nazismo. La Heufler avrebbe non solo accresciuto la dipendenza del Vate dalla cocaina ma gli avrebbe somministrato anche del veleno, fino alla dose letale del 1° marzo 1938. Naturalmente, a sostenere questa ipotesi, non ci sono prove. Ma è una curiosa coincidenza il fatto che, dopo la morte del Vate, la Heufler sia passata al servizio di von Ribbentrop, ministro degli Esteri nazista. Così come è ragionevole pensare che il fascismo abbia visto la morte del poeta come una liberazione, tanto che all' annuncio della dipartita di D' Annunzio, in una conversazione telefonica tra il Duce e il prefetto Rizzo, si sentì pronunciare l' espressione «Finalmente!». Inviso a Hitler, sopportato con fastidio da Mussolini, emarginato dalla sua patria negli ultimi anni di vita, il Vate torna, anche grazie a questo film, a guadagnarsi a pieno l' amore degli italiani. Il cattivo poeta mostra l' umanità di un gigante in cattività, depurandone l' immagine da ogni presunta cattiveria.

Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” il 19 maggio 2021. Prima biografo di Gabriele d' Annunzio, poi presidente della meravigliosa casa che donò agli italiani, negli ultimi anni ho dedicato molte energie per rendere la casa e il parco sempre più belli e visitati. E per liberare l' immagine del poeta dalla patina di pregiudizi che lo avvolge (sempre meno). Figurarsi la mia allegria quando, nel 2018, arrivò la richiesta di girare un film su d' Annunzio proprio al Vittoriale degli Italiani. Le carte che la produzione metteva sul tavolo erano eccellenti. Sergio Castellitto è un attore colto, e sa interpretare i personaggi da dentro. Il regista Gianluca Jodice, giovane e all' esordio con un lungometraggio, aveva già dato prova di maestria. Il produttore Matteo Rovere aveva appena girato, anche come regista, lo straordinario Il primo re, racconto non convenzionale e realistico della nascita di Roma. Restava da leggere la sceneggiatura, ma alla fine mi brillavano gli occhi, come in trasparenza al testo luccicavano le tesi che avevo esposto in D' Annunzio, l' amante guerriero e in La mia vita carnale. Il Vate venne bollato come perversamente stravagante dalla borghesia piccina e provinciale dell' epoca per i suoi amori liberi, la sua passione per il lusso, il suo passaggio politico di fine Ottocento da destra a sinistra. Il marchio gli è restato, anche se era, da bravo genio, un precursore: noi oggi amiamo il consumismo, desideriamo il lusso e rivendichiamo la libertà sessuale anche grazie a lui.

Quanto ai passaggi politici. Nel 1921 quando arrivò in quello che sarebbe diventato il Vittoriale, cento anni fa d' Annunzio era anche stato un supereroe di guerra, aveva conquistato una città senza sparare un colpo e l' aveva tenuta per sedici mesi, primo e unico poeta al comando di uno Stato, sfidando il mondo intero e tentando una rivoluzione globale. La costituzione che scrisse per Fiume è una delle più avanzate e democratiche del Novecento. Ma Mussolini lo tradì e Giolitti lo prese letteralmente a cannonate. Decise di ritirarsi, e assistette incredulo al trionfo del duce, che lo considerava «come un dente guasto, o lo si estirpa o lo si copre d' oro», mentre d' Annunzio gli ricordava che «sei vetro contro acciaio». La sua presunta adesione al fascismo è un falso storico: rispetta il duce, il demiurgo che ha saputo conquistare il potere, ma non ama i fascisti («camicie sordide») e detesta il fascismo, accettandolo soltanto per il comune nazionalismo e perché lo onora in ogni modo. Però la misura è colma quando, nel 1937, si avvia l' alleanza con la Germania nazista. Il Vate definisce Hitler «ridicolo imbianchino». E qui comincia il film, che non mente: la sua influenza, ancora enorme, mina i piani del regime e Achille Starace ordina al giovane federale di Brescia, Giovanni Comini (un eccellente Francesco Patanè), di aggiungersi alle molte spie che Mussolini ha messo intorno a d' Annunzio. Di inventato ci sono una storia d' amore di Comini e l' anfiteatro del Vittoriale, che vedrete quasi completo ma che allora non c' era, l' abbiamo terminato l' anno scorso. Per il resto è tutto vero e ben raccontato: l' architetto Gian Carlo Maroni, Luisa Baccara padrona di casa e compagna in bianco da molti anni, l' oggetto del desiderio Aèlis Mazoyer, governante e amante, e la cameriera-amante-infermiera Emy, arrivata da poco, che si sospetta sia stata messa lì dai tedeschi per neutralizzarlo in qualsiasi modo, sesso, droga e forse veleno. Non farò lo sgarbo si raccontare il resto, concludo con i miei timori prima di decidere se dare il permesso. Si trattava di chiudere il Vittoriale per quasi un mese, tranne le domeniche, ma gennaio-febbraio è il periodo di minore afflusso. Occorreva anche lasciare che una vastissima schiera di tecnici invadesse una casa che contiene fitti fitti, uno sopra l' altro ventimila oggetti, molti preziosi di per sé, tutti per il loro valore storico, ognuno ormai unico e irripetibile. Una notte, prima della firma, ebbi un incubo: «Ahò, passame er cavo», diceva un elettricista, e nell' impeto abbatteva una fila di splendidi elefanti orientali in ceramica di antica e raffinata fattura, precipitandoli sulla scrivania nella stanza della Zambracca, dove d' Annunzio morì il 1° marzo 1938. Reclinò il capo, gli caddero gli occhiali, e gli occhiali sono ancora lì, niente è stato più toccato da quel giorno, se non per pulire meticolosamente e rimettere tutto a posto. Dopo l' incubo, la realtà non fu da meno. Per girare un dialogo in una stanza, prima ne svuotavano metà, poi la rimettevano com' era, e svuotavano l' altra metà, in un groviglio di cavi e macchinari, ordini e pericoli. Ebbene, però, ogni cosa è tornata a posto, non c' è stato il minimo danno, e lo dobbiamo alla cura di chi ha lavorato sul set, i tecnici del cinema e i miei collaboratori, che vegliavano l' eredità degli italiani come chiocce sui pulcini. Adesso, con un anno e mezzo di ritardo, anche Il cattivo poeta ha battuto il covid. Andate a vederlo, poi venite a vedere il Vittoriale - o viceversa - e vi sembrerà di fare un sogno nel sogno.

Costanza Cavalli per “Libero Quotidiano” il 19 maggio 2021. In un appartamento non grande e stipato di appoggi come si conviene a una persona anziana, comò con larghi ripiani, sedie, poltrone, tavoli e tavolini, cosicché non occorre che girarsi per trovare le cose all'altezza delle mani, Riccardo Lazzeri, 94 anni, vive con la sorella quasi coetanea a Desenzano del Garda, in un quartierino residenziale defilato dal centro. Era arrivato a Libero via posta un plico a sua firma che conteneva un fascio di fogli battuti a macchina e legati con una spirale da copisteria, intitolato "Storia segreta della Repubblica Sociale". I fogli erano ingialliti e cominciavano a fare la polvere della carta vecchia: su quelli Lazzeri aveva riordinato molta parte di un archivio recuperato in decenni di ricerca, in parte ricevuto dalle mani del comandante delle SS in Italia Karl Wolff, contenente le intercettazioni da parte dei tedeschi delle conversazioni che Benito Mussolini intratteneva per telefono con i suoi collaboratori, con i capi militari della RSI, con Clara Petacci, con la figlia Edda, con i gerarchi nazisti di stanza in nord Italia, con Adolf Hitler. Il valore storico di questo plico potrà essere verificato dagli specialisti del periodo: una parte di queste intercettazioni è nota (alcune sono comparse sul settimanale Gente nel 1959, altre sulla Domenica del Corriere nel 1973), mentre altre ci risultano inedite. I fatti accaduti nei convulsi diciotto mesi della Repubblica Sociale, dalla sua nascita il 23 settembre 1943 al 25 aprile 1945, sono stati più volte studiati, sezionati, manipolati. Non è farne un'ulteriore versione revisionista il nostro proposito. Ma dopo aver letto poche pagine non abbiamo potuto negare che il plico che stavamo sfogliando sembrava aver preso vita per sé, grazie al ritmo dei discorsi diretti, l'uso di parole e interiezioni del vocabolario parlato. Queste intercettazioni "intercettano" soprattutto lo spirito del momento. Per questo, dopo aver rintracciato con una certa fatica Lazzeri, che aveva dimenticato di allegare il suo numero di telefono, siamo andati a fargli visita. Sul ripiano di un grande mobile del soggiorno ha impilati e affiancati mazzetti con centinaia di fogli dattiloscritti. Ha il buon ordine nel sangue, di mestiere è stato un contabile, dopo la guerra ha lavorato in Svizzera per una società di avvocati d'affari - «quelli che custodivano i soldi fatti uscire dall'Italia, quanti evasori» - ma intanto coltivava la passione per la ricerca storica, che lo aveva contagiato dopo un fatto drammatico avvenuto nel 1944, quando era studente in una scuola di ragioneria a Piacenza, dove nel 1943 la sua famiglia si era trasferita dalla nativa Trento: la sua giovane insegnante di Merceologia, Giovanna Capello, che non aveva ripudiato il fascismo («vestiva di nero e al bavero portava il distintivo littorio») il 12 marzo fu uccisa da un gruppo di partigiani che fecero irruzione in casa prima che si recasse a scuola. «Questo fatto mi colpì nel profondo. Appena mi fu possibile, cominciai a cercare che cosa era davvero successo in quegli anni in cui ero troppo giovane per farmi un'idea personale». Lazzeri ha scritto alcuni libri, "La scuola italiana durante la Rsi", "Economia e finanza nella Repubblica sociale italiana", e nelle pause che il lavoro di contabile gli concedeva si mise "in caccia" dei testimoni in vita che potessero aiutarlo a chiarire di prima mano i fatti del passato. La terra che ha smosso ha dato vari frutti: negli anni Settanta è entrato in contatto e poi in confidenza con Wolff, che incontrò in Baviera, a Chiemsee, dove visse i suoi ultimi anni. Wolff era un generale fedelissimo a Hitler, perlomeno fino agli ultimi mesi. Nel 1943 era stato nominato governatore militare nel nord Italia e comandante supremo delle SS dal numero due del Reich Heinrich Himmler. Wolff, che Lazzeri ha indicato come la fonte materiale di molte delle trascrizioni che leggerete, ebbe un ruolo di spicco nell'ultima parte della guerra. Probabilmente avendo capito che era perduta, all'insaputa di Hitler fu uno dei protagonisti delle trattative di resa con gli angloamericani, attività che gli fruttò il proscioglimento a Norimberga. Fu però condannato a 15 anni nel 1962 per aver avuto parte nella deportazione di 300mila ebrei al campo di concentramento di Treblinka. Dopo sei anni fu scarcerato per motivi di salute e visse in Baviera fino alla morte, nel 1984. L'anno precedente aveva incontrato, con l'intercessione di Lazzeri, il giornalista Luciano Garibaldi, al quale in un'intervista di quattro puntate sul settimanale Gente, raccontò gli stessi fatti che riscontrerete nelle intercettazioni, nonché la vicenda che lo vide incaricato da Hitler di fare prigioniero Papa Pio XII, cosa che Wolff non voleva assolutamente fare, per cui traccheggiò finché gli sviluppi del conflitto non distrassero il Führer dal suo intento. Un secondo contatto diretto Lazzeri lo ebbe con il tenente delle SS Franz Spögler, che al tempo di Salò era l'ufficiale di collegamento fra Mussolini e il comando tedesco, nonché l'attendente personale di Clara Petacci. Spögler dalla fine del 1944 fu il responsabile del servizio intercettazioni telefoniche a villa Maria Elisabetta, a fianco del Grand Hotel Fasano di Gardone Riviera che era adibito a ospedale militare tedesco, e dopo la guerra tornò alla sua attività di albergatore a Longomoso, in Alto Adige. Nelle pagine che oggi e che nei prossimi giorni pubblicheremo potrete "leggere la voce" di un Mussolini indebolito ma non privo di un suo seguito, a tratti ancora "capo di governo", in cerca fino all'ultimo giorno di una soluzione, stretto fra tedeschi allo sbando e le convulse trattative incrociate per la resa, a volte tagliato fuori dagli avvenimenti, in altri momenti ribelle e orgoglioso; leggerete anche di un uomo che in Clara Petacci ha un'amante "vivace" con la quale spesso battibecca. Nella drammatica conversazione notturna con Wolff in cui Mussolini chiede consiglio all'ufficiale tedesco, l'unico di cui pensava di potersi fidare, su che cosa fare della vita di Galeazzo Ciano (ne sono uscite varie versioni, Lazzari afferma che questa è la trascrizione originale), emerge tutta l'incertezza dell'uomo; ma anche che, al contrario di quanto da più parti sostenuto, i nazisti non ebbero parte diretta nella questione né fecero pressioni, cosa che secondo Lazzari dimostra l'indipendenza della Rsi dagli alleati tedeschi, che pure lo sorvegliavano da vicino.

Da “Libero Quotidiano” il 19 maggio 2021. NOTTE TRA IL 9 E 10 GENNAIO 1944.

M. Camerata Wolff, perdonate se la disturbo a quest' ora. Tramite mia moglie ho ricevuto una lettera da mia figlia Edda. Ne conoscete il contenuto?

W. Sì, Duce. Lo conosco ed è per questo che ho provveduto al suo inoltro a lei.

M. Che ne dite?

W. Sono desolato, ma non ho niente da dire. Si tratta di una faccenda privata della famiglia Mussolini ed ho ordini precisi da Hitler di non immischiarmi in questa faccenda. Anch' egli la considera una questione prettamente interna che riguarda l' Italia.

M. Che cosa mi consigliate?

W. Duce. Le ho già detto di aver avuto le più severe istruzioni dal Führer di non occuparmi affatto della questione, essendo competente esclusivamente per questioni puramente militari e di sicurezza, ma non sono autorizzato a darle consigli in una questione eminentemente intima e familiare. Me ne duole immensamente, abbia comprensione. Ripeto mi dispiace per lei, sono scosso dal contenuto della lettera, ma non posso darle alcun suggerimento.

M. Camerata Wolff, abbiamo lavorato così bene insieme e siete stato per me un giovane aiutante comprensivo, quando persi il potere. La prego, non mi abbandoni. Comprendo che lei adesso si trova in un conflitto di coscienza, tra me e gli ordini di Hitler. Ma a lui va certamente meglio di me ed io mi trovo in una terribile situazione, perché i figli di Ciano sono i miei nipotini ed inoltre la mentalità italiana è diversa da quella tedesca.

W. Lo so benissimo ed è appunto per questo, che mi guardo bene dal darle dei consigli.

M. Ma non potete dirmi qualcosa o aiutarmi in modo che io possa prendere una decisione più giusta e migliore?

W. Duce, lei sa come io la Veneri e soprattutto ora non voglio deluderla o abbandonarla in quest' ora difficile. Non posso agire apertamente contro un ordine del Führer, ma dinanzi alla mia coscienza le faccio una proposta. Se ben comprendo è importante per lei di sapere quali ripercussioni un' esecuzione della sentenza od una grazia avrebbero su Hitler, comandante supremo del popolo tedesco e su Himmler.

M. Le sono grato, vedo che lei intende aiutarmi. Camerata Wolff, mi rivolgo a lei, privatamente, come ad un amico. Che cosa si aspetta Hitler da me? Che io faccia fucilare Galeazzo o che lo faccia fuggire? Ditemelo.

W. Hitler non crede ad una esecuzione della sentenza.

M. Camerata Wolff, se non faccio eseguire la sentenza il mio prestigio presso il Führer ne risentirebbe?

W. Francamente sì. D' altra parte non pretende da lei che prenda una decisione contraria ai sentimenti del popolo italiano.

M. E che cosa ne penserebbe Himmler, il Reichsführer SS?

W. Duce, vuol conoscere la verità?

M. Sì, naturalmente, per questo lo chiedo, perché è molto importante per me.

W. Il Reichsführer crede e spera - questa è la pura verità - che lei tragga la logica conseguenza degli errori del passato e che lei possegga la vera grandezza, come padre della patria, di anteporre la "res publica"ad ogni altro interesse umano e familiare, affinché il popolo possa convincersi che Mussolini è ancora il duce ed antepone gli interessi dell' Italia a quelli della propria famiglia. Himmler ritiene, che Galeazzo Ciano, una volta all' estero, passerebbe al nemico, consegnando i diari per motivi venali.

M. Grazie, camerata Wolff. Mediterò su quanto sentito. Le auguro una buona notte, nel caso lei possa ancora dormire.

IL DUCE A WOLFF, FEBBRAIO 1945.

M. Generale, le devo parlare.

W. Posso venire anche subito.

M. Molto bene, caro generale. Dobbiamo trattare della parte militare di un discorso che terrò sabato al Vittoriale dobbiamo rispondere ai cantastorie britanni ci. Un' Inghilterra vittoriosa - ammettiamo per ipotesi assurda - non mi perdonerebbe le difficoltà geo strategiche che ho loro riservato nel Mediterraneo.

W. Non sono affatto convinto della saggezza dei piani inglesi.

M. parlavo appunto di assurdità e sono certo delle nuove armi del Führer.

W. Certo. Anch' io ne sono sicuro. La tesi di Morgenthau non si realizzerà. Nello stesso modo con il quale la Russia cesserà di essere il granaio dell' Europa.

M. Chi vivrà, vedrà, caro Wolff la prego di venire presto.

WOLFF A MUSSOLINI, APRILE 1945

W. Duce, i miei servizi di sicurezza (SD) mi informano che da qualche tempo in qua diramate dal vostro quartier generale delle disposizioni che non corrispondono agli accordi stipulati.

M. Caro generale, il Gauleiter Rainer ha iniziato una politica filo-slovena che, a priori, non corrisponde affatto ai nostri accordi. Si è messo apertamente contro il comando della Decima Mas W. Rainer ha dovuto tirare le redini al Comandante della Decima Mas. Non è proprio tempo di piccole diatribe. D' altronde le varie divergenze sono state chiarite. Tanto più che sulla "Linea Gotica" sono in corso enormi sforzi per arginare gli attacchi angloamericani.

M. ritengo giuste le misure adottate dal Comandante Borghese, che ha sempre dimostrato la sua disponibilità ad una leale collaborazione W. Il Feldmaresciallo Kesselring si trova al fronte, cosicché sono il responsabile: esigo ubbidienza e disciplina.

M. Scusate generale, ma non potete garantire nemmeno la vostra sicurezza, come potete assumere la nostra? Qualora la lenta ritirata si dovesse trasformare in fuga disordinata, chi potrebbe sventare il pericolo di "terra bruciata"?

W. Le ho assicurato che abbiamo rinunciato alla distruzione di fabbriche, comunicazioni ferroviarie, ponti e strade.

Ho delle riserve solo per quanto riguarda il porto di Genova che esula dalla mia sfera di competenza.

M. Speriamo che sia così. La prego di venire da me, è necessario uno scambio di vedute.

W. Bene Duce, le va domani mattina alle 9?

M. Grazie, l'attendo

IL COMMIATO, APRILE 1945

W. Duce, io parto per Berlino dove sono atteso dal Führer. È un viaggio pericoloso per diversi motivi, il cui risultato rivestirà, grande importanza anche per lei, Duce, credetemi. Sarò assente 5 o 6 giorni e mi permetto ricordarle la sua parola d' onore: fino al mio ritorno non deve allontanarsi da qui per nessun motivo. Sono al corrente dei suoi contatti con il Cardinale Schuster e la sconsiglio di proseguire per questa via.

M. Generale Wolff, qui è tutto finito non so se il suo viaggio a Berlino sfocerà nel risultato sperato. La mia fiducia vacilla se dovessero presentarsi delle possibilità anche per me non posso e non voglio ignorarle e tantomeno respingerle W. Duce, di queste possibilità ne parleremo al mio ritorno. Questo fu l'ultimo colloquio tra Mussolini e Wolff. Il 17 pomeriggio il Duce lasciava Gargnano per recarsi a Milano.

Da “Libero Quotidiano” il 19 maggio 2021. Ecco una delle conversazioni tra Benito Mussolini e Guido Buffarini Guidi, ministro dell'Interno della Repubblica Sociale Italiana. È il 23 marzo 1944, il giorno prima dell'eccidio delle Fosse Ardeatine attuato dai tedeschi in risposta all'attentato partigiano di via Rasella, a Roma. Si discute delle decisioni dei tedeschi e del ruolo del comandante della SS, Karl Wolff

23 MARZO 1944

M. C'è qui da me Bevilacqua (sottosegretario del ministro interni). Perché non siete venuto voi stesso? La questione è troppo importante e soprattutto delicata.

B. Non potevo venire subito. Se voi lo desiderate, vengo ora.

M. Sì, è necessario. Sto preparando una dettagliata relazione per Berlino. Siamo costretti, in un modo o nell'altro di prendere posizione sull'attentato di Roma. Non possiamo farne a meno. Con un colloquio telefonico con Himmler non possiamo considerare chiusa la faccenda. Soprattutto perché nessun Comando tedesco in Italia vuole intervenire. La Wermacht passa la cosa alle SS, queste a sua volta allo SD, l'SD alla polizia e così via.

B. Molto indicativo. In altri casi tutti vogliono considerarsi competenti, i Comandanti militari, i Plenipotenziari. E Wolff?

M. Naturalmente anche lui.

B. L'ho sempre detto, Duce. Wolff si comporta a seconda dei casi: come "lupo" o come "volpe".

M. Nel caso in questione anche gli altri si comportano così. Del resto conoscete la mia opinione su Wolff. Per l'Italia, per la mentalità italiana e per la nostra collaborazione è l'uomo giusto, perché non è solamente un rigido militare ma anche un diplomatico.

B. Diplomatico, questo si! Lo dimostra il suo comportamento instabile in molte occasioni. Una nuova prova sono le mie supposizioni, che prendono sempre più consistenza dei suoi rapporti con il Vaticano

M. Buffarini, sapete molto bene in che conto io tenga delle supposizioni. E proprio voi continuate a parlare di sospetti. Portatemi delle prove, prove! Attenetevi una volta per tutte a questa regola!

B. Le prove le porterò certamente

M. Alla fin fine le porterete forse ma ricordatevi: solo quando avrò delle prove in mano potrò agire. Vi attendo quindi subito. B. Sono subito da voi, Duce.

Costanza Cavalli per “Libero Quotidiano” il 19 maggio 2021. Continuiamo la pubblicazione delle intercettazioni che riportano le conversazioni telefoniche di Benito Mussolini durante i mesi della Repubblica sociale raccolte in ricerche durate decine di anni e consegnate a «Libero» da Riccardo Lazzari. Si tratta delle trascrizioni, tradotte in italiano, dei documenti stenografati dal servizio di intercettazioni tedesco, che era dislocato al Grand hotel Fasano di Gardone Riviera, sul lago di Garda. Oggi riportiamo le conversazioni che il duce ebbe in tedesco con Adolf Hitler fra il 1944 e il 1945, dalle quali emerge che, per quanto tenesse alla stabilità dell'alleanza, nei confronti del collega tedesco non avesse alcuna riverenza, tanto che a tratti Hitler, per rassicurare Mussolini sulle sue intenzioni, sembra nascondersi dietro la figura del suo vice Heinrich Himmler. Nella telefonata del 2 agosto 1944 Hitler sogna ancora di ribaltare le sorti del conflitto, e sembra confortato dalla consistenza dell'esercito della Repubblica Sociale, che in quel momento conta circa duecentomila soldati comandati dal generale Rodolfo Graziani. Ma in una conversazione dell'ottobre 1944 Mussolini è contrariato per i rastrellamenti di cittadini italiani da parte delle SS, che avvengono senza che egli ne sia informato, e pretende di aver voce in capitolo soprattutto quando si tratta di decidere pene capitali, anche quando si tratta di partigiani. A dicembre, forse incoraggiato dal fatto che gli Alleati erano fermi da oltre un mese sulla Linea Gotica, annuncia al Fürer l'intenzione di tenere un discorso a Milano, che gli pare una piazza matura per un'estrema chiamata alla difesa dell'Italia settentrionale. Il Duce pronuncerà il "discorso della riscossa" il 16 dicembre al teatro Lirico, essendo la Scala stata abbattuta dai bombardamenti. A questo proposito, Mussolini e Hitler, in una telefonata del febbraio 1945, avvenuta dopo i due spaventosi bombardamenti che rasero al suolo Dresda (13 e 14 febbraio) criticano l'indiscriminata distruzione dei monumenti nazionali e concordano sul fatto che i bolscevichi sono una minaccia di cui gli Alleati non si avvedono. Nel discorso al Teatro Lirico, Mussolini si disse favorevole a trattare con gli angloamericani ed ebbe parole dure contro Badoglio. Fu l'unica uscita pubblica del Duce dopo la caduta del Fascismo. Nell'ultima telefonata fra i due leader, datata 10 aprile 1945, Hitler è nel bunker di Berlino assediata, è infastidito dalle parole dell'alleato e sembra non voler prendere coscienza della realtà che invece è ben chiara a Mussolini. Il giorno dopo le forze statunitensi passano l'Elba e puntano sulla capitale. Solo il 22 aprile Hitler ammetterà che la guerra è perduta.

AGOSTO 1944

M. Passatemi il Führer. (La telefonata viene passata)

M. Vi ringrazio per il vostro ordine di pronto impiego. Ne siamo tutti felici.

H. Sono io a ringraziarvi Duce. Avete ottenuto con grande tenacia, fatica e lavoro strenuo ciò che molti e lo devo ammettere, me compreso, non ritenevano possibile. Sono convinto che i vostri soldati riusciranno a riparare il danno che il traditore Emanuele ha arrecato all'Asse.

M. Certamente Führer. Tutti i benpensanti sanno che la maggioranza degli Italiani ripudia tale atto di infedeltà ai patti. Una cosa è certa: i Savoia pagheranno il fio dei loro atti. Il futuro lo confermerà. Le ricostruite divisioni dimostreranno dinnanzi ai Tedeschi, anzi dinnanzi al mondo intero che l'Italiano non è né traditore né vigliacco.

H. Ne sono sicuro. Prometto ogni aiuto alle vostre truppe sia di armi che di altro materiale necessario. Il comando del Gruppo d'Armate Sud ha ricevuto ordine della più stretta collaborazione con le vostre truppe. Vi prego da parte vostra di impartire le stesse disposizioni al Generale Graziani. Tenetemi informato su tutto e vi ringrazio.

M. Grazie.

OTTOBRE 1944

M. Ho appena ricevuto la vostra risposta alla mia lettera. Temo che non abbiate interpretato bene il mio pensiero per quanto riguarda la lotta antipartigiana. È lungi da me prenderne le difese o addirittura proteggerle, ma esigo di essere informato dei procedimenti giudiziari contro i partigiani, soprattutto in casi di sentenze capitali. Il mio ministro agli interni ha già reclamato ripetute volte presso le vostre autorità di polizia.

H. Come risulta dalla mia lettera ho incaricato Himmler di perfezionare la collaborazione tra i nostri comandi in Italia con le autorità italiane. D'ora innanzi verrete sempre tenuto al corrente di tutto. Vi faccio tuttavia presente che le leggi marziali devono essere applicate con la stessa severità come da noi.

M. Certamente, su questo non ho nulla da obbiettare. Non tollero tuttavia di venire informato di esecuzioni di sentenze nei confronti di cittadini italiani già avvenute precludendomi in tal modo ogni possibilità di intervenire.

DICEMBRE 1944

H. Ho ricevuto in questo momento il vostro rapporto Ve l'ho già detto e scritto: agite secondo il vostro parere. Oggi stesso Himmler riceve l'ordine di andare al fondo della cosa Presto sapremo dove si nasconde l'ostacolo. Non possiamo permetterci nessun ritardo, sarebbe un errore. Quando parlo di errori, penso a Calais.

M. Nei prossimi giorni mi recherò a Milano e parlerò i milanesi. Milano è matura. Parlerò della difesa dell'Italia settentrionale.

H. Ne garantisco la difesa. L'Alto comando dell'armata del Sud ha ricevuto precise istruzioni. Riceverete presto il piano di difesa, così come stato preparato ieri al quartier generale. Posso assicurarvi che lavoriamo giorno e notte. Come va la salute?

M. Grazie, alquanto meglio. Il dottor Zachariae è un fedele custode della mia salute.

H. Sono lieto. Allora, oggi stesso chiedo un rapporto dettagliato al comando d'armata. Darò ordine che non ci siano dubbi in proposito. Duce, tenetemi, vi prego, al corrente su tutto. La nostra collaborazione è oggi più necessario che mai.

M. Volentieri, Führer. H. Arrivederci. M. Arrivederci. Mussolini si recherà a Milano il sabato mattina del 16 dicembre, dove alle ore 10 terrà al teatro lirico l'ultimo discorso pubblico, noto come il "discorso del lirico".

FEBBRAIO 1945

H. Parte in questo momento la mia risposta alla vostra lettera, punto per punto. Avrei delle domande a due delle questioni da voi sollevate che prego di rispondere a giro di corriere speciale. Trattasi dei punti 2 e 4.

M. Lo farò. Ritengo che gli americani presteranno orecchio ad un'istanza internazionale. Lo abbiamo già constatato diverse volte, chiarissimamente al 17 agosto 1943 in occasione della nostra protesta a seguito della distruzione della scala di Milano. Ad opere d'arte insostituibili gli americani non attribuiscono, alcun valore. I nuovi casi di distruzione indiscriminate (città di Dresda il 13 e il 14 febbraio 1945) ne sono una riprova.

H. Allora non ci resta altro da fare che rappresaglie! Sono chiaro abbastanza nella mia lettera, Duce.

M. Anch' io non vedo altra via d'uscita. Ci costringono addirittura ad agire in questo modo. Che razza di testardi questi anglosassoni. Non capiscono che stanno preparandosi la fossa, soprattutto gli Inglesi. O credono costoro che la sperata vittoria possa fermare i bolscevichi sul canale della manica. Sarebbe da miopi.

H. Non miopi, ma ciechi sono gli Inglesi! Possibile che non vedono il colosso russo? O sono agli estremi?

M. Già anni fa Churchill riconobbe il pericolo, però Führer, voi lo sapete.

H. Sì, lo so, conosco le circostanze. Però, Duce, questa è una spada a doppio taglio E fintanchè è così non dobbiamo usarla. Vi ricordate delle mie parole?

M. Me ne ricordo ed attendo sempre la vostra approvazione. Non dobbiamo lasciarci sfuggire il momento opportuno. Abbiate fiducia in me! H. La mia fiducia in voi è fuori discussione. Se io tuttavia (Linea interrotta. Mussolini tenterà ancora lungo di riottenere la comunicazio ne, inutilmente).

Nota: La conversazione è avvenuta dopo i due bombardamenti consecutivi su Dresda del 13 e il 14 febbraio 1945

APRILE 1945

H. Duce, la vostra lettera dell'altro ieri mi ha alquanto irritato. Non siate sfiduciato! Io faccio e continua a fare di tutto per riabilitarvi. Duce, se dopo il vostro arresto e traduzione a Ponza avessi deciso l'immediata occupazione di tutta Italia e non mi fossi lasciato ingannare dalle promesse false di Badoglio, dalle sue parole vuote di prosecuzione della guerra fianco a fianco, non credete che la vostra situazione sarebbe oggi diversa?

M. Una tale eventualità non sarebbe stata da escludere. E voi mi ponete oggi una domanda simile? Che ne sarebbe successo di Vittorio Emanuele? Che ne avreste fatto di lui? Non avete mai pensato ad un eventuale insurrezione popolare? Comunque sia A che serve oggi rivangare al passato o addirittura incolpare qualcuno. Pensiamo all'oggi e al domani: entrambi sono foschi e pieni di incognite!

H. Il vostro pessimismo è deprimente, butta a terra. Oggi stesso vi invio un mio messaggio personale. Il "messaggio personale" verrà poi pubblicato dal "Corriere della Sera" il 25 aprile 1945.

Il fato di un gerarca riluttante: vita e morte di Galeazzo Ciano. Francesco Perfetti il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. Mazza racconta gli ultimi mesi del genero di Mussolini in un romanzo-verità avvincente e ben documentato. Alla vigilia della seduta del Gran Consiglio del Fascismo che, nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943, avrebbe provocato la fine del regime fascista, il tessitore della «congiura», Dino Grandi, fece di tutto per consigliare Galeazzo Ciano a non scendere in campo in prima persona: «Restane fuori non ti conviene firmare l'ordine del giorno», gli disse sostenuto da Giuseppe Bottai. Il presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Grandi appunto, forse temeva che potesse rivelarsi controproducente l'adesione al suo ordine del giorno da parte di Ciano, già ministro degli Esteri, genero del Duce e considerato suo potenziale «delfino». Pensava che, nel corso della seduta, uno sguardo o un cenno o una battuta di Mussolini potessero influenzare Ciano e spingerlo a tirarsi indietro con conseguenze imprevedibili sulle scelte degli altri «congiurati». In realtà, Ciano aveva manifestato. già da tempo, sentimenti sempre più decisamente ostili ai tedeschi e, soprattutto, alla prosecuzione di una guerra il cui destino sembrava ormai segnato. Le note che, quotidianamente o quasi, vergava sul suo diario lo dimostrano, insieme a tante confidenze a mezza bocca ad amici e amiche del suo ampio entourage politico-mondano. Ambizioso e salottiero, finito in diplomazia e in politica non per sua volontà avrebbe voluto fare il letterato, il critico o l'autore teatrale - Galeazzo non era neppure, a guardar bene, un fascista vero e proprio ma era piuttosto un conservatore ritrovatosi, soprattutto dopo il matrimonio con la figlia del Duce, al centro di una attenzione che lusingava la sua vanità. Poco alla volta si era convinto di essere davvero, come gli sussurravano gli adulatori di turno, il successore predestinato del suocero. E ciò era talmente vero che egli, forse inconsciamente, aveva finito per imitarlo, nei gesti e nel portamento. Eppure, l'uomo era tutt'altro che stupido e, certamente, più coraggioso, indipendente dalla volontà di Mussolini, deciso nella difesa delle proprie idee, ma anche più ingenuo di quanto credessero i suoi amici «congiurati», a cominciare da Grandi. Lo si vide sia nella seduta del 24-25 luglio sia negli avvenimenti successivi culminati nel processo di Verona e nella fucilazione. Un tentativo, a mio parere ben riuscito, di cogliere la personalità complessa di quest'uomo e la drammaticità e complessità delle vicende nelle quali fu coinvolto è il bel volume di Mauro Mazza intitolato Diario dell'ultima notte. Ciano-Mussolini, lo scontro finale (La Lepre edizioni, pagg. 368, euro 25): un volume classificato dall'editore come «romanzo» ma che, in realtà è qualcosa di diverso, una specie di «racconto-verità» basato su una puntuale ricostruzione storica dei fatti reali accompagnata da un tentativo di introspezione psicologica dei protagonisti. Non si tratta, quindi, di un «romanzo storico» nel senso classico del termine, quanto piuttosto della narrazione di avvenimenti reali che trovano il loro contrappunto in una cornice di fantasia. Nella fattispecie l'elemento di fantasia, che rappresenta l'accorgimento letterario dell'autore, è il diario di un giovane miliziano fascista appena diplomato che si trova a far da carceriere ai prigionieri e che vive con angoscia crescente il dramma della guerra civile: questo breve e appassionante diario, spezzettato in tanti brevi capitoli, è stato inserito dall'autore all'interno della narrazione tradizionale degli eventi come efficace artificio narrativo. La vicenda raccontata nel «romanzo storico» di Mauro Mazza si concentra in un arco di tempo relativamente ristretto, quello che va dalla seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943 all'esecuzione della condanna a morte dei «traditori» l'11 gennaio 1944. Tuttavia, attraverso opportuni flashback, essa si proietta all'indietro fornendo elementi utili per cercare di comprendere stati d'animo e comportamenti dei protagonisti. È un modo per riproporre i tanti interrogativi ai quali gli storici di professione non hanno saputo fornire risposte definitive che non fossero soltanto risultato di congetture troppo spesso arbitrarie. Perché, per esempio, Mussolini decise all'improvviso di convocare la seduta del Gran Consiglio? Come si spiega il suo atteggiamento durante la riunione? E che cosa pensa Ciano, in quel frangente, del suo rapporto con il suocero? Che cosa lo ha spinto, davvero, a operare una scelta di campo così gravida di conseguenze? E via dicendo. Certo, Galeazzo è il protagonista principale con i suoi dubbi e le sue debolezze, ma anche con le sue ambizioni e la sua ingenuità politica, e forse con la volontà di riscattare una immagine di servitore del Duce in attesa di potergli succedere, che egli ha cominciato da tempo da quando i suoi sentimenti antitedeschi si sono consolidati e lo hanno spinto a posizioni di fronda anche nelle frequentazioni ad avvertire troppo pesante. Ma, naturalmente, non c'è soltanto lui nel libro di Mazza. Ci sono Mussolini stesso e i suoi familiari, a cominciare dalla moglie Rachele e dai figli Vittorio ed Edda. Soprattutto quest'ultima, la consorte di Galeazzo, impegnata nel tentativo disperato di salvare il marito dall'esecuzione, diventa il fulcro di un vero e proprio dramma familiare che si traduce nella rottura insanabile con il padre del quale era, notoriamente, la prediletta: la vicenda di Edda, che mette in salvo i diari del marito, inseguita dai servizi segreti di ogni colore e aiutata dalla generosa abnegazione del devoto marchese Emilio Pucci, è di per sé una storia di avventura. E poi, ancora, nel libro di Mazza, c'è la bellissima spia Frau Beetz messa dai tedeschi alle costole del gerarca detenuto nel carcere di Verona per carpirgli i diari e divenuta protagonista di una struggente vicenda d'amore. Infine, ci sono gli altri «congiurati» e i giovani fascisti repubblichini combattuti tra il desiderio di vendetta nei confronti di chi ha provocato la fine del regime e l'orrore per una guerra civile che si annuncia sempre più sanguinosa. Insomma, una storia vera e drammatica che ha il sapore di un romanzo corale scritto con uno stile coinvolgente e con il ritmo incalzante del thriller. Al di là del taglio narrativo, il libro di Mauro Mazza è, sotto un certo profilo, anche un lavoro che contribuisce davvero vorrei dire alla conoscenza di un drammatico capitolo della nostra storia più recente: esso, pur costruito sulla base di una ricchissima documentazione storiografica e memorialistica, finisce, infatti, per sottolineare l'importanza degli individui e dei loro sentimenti e comportamenti nello svolgersi dei fatti storici. Che è un modo per avvicinarsi alla verità storica senza cedere alle ideologie.

Sacrificio per la Regia Marina: così si è immolato Teseo Tesei. Paolo Mauri il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. Luglio 1941. Malta. Nel tentativo di mettere a segno un colpo mortale agli inglesi, perde la vita Teseo Tesei, il "filosofo dei maiali". “Occorre che tutto il mondo sappia che vi sono italiani che si recano a Malta nel modo più temerario; noi affonderemo qualche nave, oppure no... non ha molta importanza. Quel che importa è che si sia capaci di saltare in aria con il nostro apparecchio sotto l'occhio del nemico”. Queste parole di Teseo Tesei possono tranquillamente essere state le stesse pronunciate da un pilota kamikaze giapponese durante il conflitto nel Pacifico: del resto l'uomo aveva sempre dimostrato lo stesso animus pugnandi di un samurai. Forse le parole del “papà” dei “maiali”, i mezzi d'assalto coi quali la nostra Marina Militare è passata alla storia durante il Secondo conflitto mondiale, vanno anche al di là dello spirito dei piloti suicidi: Tesei, qui, dimostra che l'eventuale fallimento della missione non ha alcuna importanza, mentre per i piloti nipponici morire per l'Imperatore senza aver colpito una nave nemica, sarebbe stato comunque un disonore. Quello che contava, per il maggiore del Genio Navale, era dimostrare al nemico lo spirito combattivo degli italiani, e dimostrarlo là dove si sentivano più sicuri: nella munitissima base navale di Malta, che in quel momento della guerra era diventata “la spina nel fianco” dei nostri convogli che rifornivano la Libia. Siamo a luglio del 1941. La guerra per l'Italia è cominciata da più di un anno e in Libia è arrivata l'Afrikakorps da pochi mesi. Il generale Rommel, comandante del corpo di spedizione tedesco, era passato subito all'offensiva ed insieme alle truppe italiane aveva riguadagnato il terreno perso ma segnava il passo davanti alla piazzaforte di Tobruk, che cadde solamente quasi un anno dopo, il 21 giugno del 1942 dopo la battaglia di el-Gazala. Le linee marittime di rifornimento del fronte africano andavano protette dalle incursioni della flotta e dell'aviazione inglese, che potevano godere di un vantaggio tattico non indifferente: oltre ad avere l'iniziativa, potendo scegliere quando e come colpire i nostri convogli, gli inglesi avevano decrittato i codici tedeschi (e italiani) già da mesi (fattore cruciale per la tragedia di Capo Matapan), ed erano al corrente non solo di quando la nostra flotta prendeva il mare, ma anche dei suoi spostamenti e della sua consistenza. Da Malta, quindi, si muoveva il dispositivo aeronavale britannico per spezzare le nostre linee di rifornimento marittimo. Bisognava fare qualcosa, anche per il morale delle truppe italotedesche che vedevano l'isola resistere nonostante i bombardamenti della Regia Aeronautica coadiuvata dal X Fliegerkorps; bombardamenti peggiori anche di quelli su Londra messi in atto dalla Luftwaffe. Supermarina, il comando della Regina Marina, decide di attaccare Malta il 26 luglio. Un'operazione che definire ardita è dire poco: la notte estiva del Mediterraneo è corta, il tragitto da fare è tanto, e bisogna oltrepassare difese tra le più munite che ci siano. Quella data viene scelta perché nel porto dell'isola sarebbe arrivato un convoglio, e quindi gli obiettivi sarebbero stati numerosi. Alla missione viene assegnato l'avviso scorta “Diana” (al comando del capitano di fregata Muro), due Mas, il 451 e il 452 comandati rispettivamente dal sottotenente di vascello Sciolette e dal tenente di vascello Parodi, un motoscafo con a bordo il capitano di corvetta Giobbe vicecomandante della X Flottiglia Mas. Ideatore dell'impresa il capitano di fregata Vittorio Moccagatta, anche lui a bordo del Mas 452. L'idea era di utilizzare forzare il porto di Malta con i barchini esplosivi – caricati sul “Diana” -, gli stessi che ebbero successo nella baia di Suda, a Creta, affondando l'incrociatore inglese York. Inizialmente non avrebbero dovuto essere utilizzati i Siluri a Lenta Corsa (Slc), i "maiali" di Tesei, ma il "papà" ottenne di partecipare alla missione coi due suoi "figli". Per facilitare il compito degli assaltatori, viene concordato di effettuare tre pesanti incursioni aeree notturne sull'isola: la prima all'1:45 su La Valletta, per costringere gli inglesi ad accendere le fotoelettriche e così facilitare l'avvicinamento al porto, la seconda, la più pesante, alle 2:30 e la terza , in coincidenza con l'attacco dei barchini, su Luqa alle 4:30. Il “Diana” raggiunge, come da programma, il punto di messa in mare dei mezzi d'assalto – chiamato “punto C” - ma gli inglesi sanno del suo arrivo. Il radar di Mdina Rabat lo ha sugli schermi da mezz'ora. L'effetto sorpresa è ormai svanito. Gli inglesi hanno tutti i pezzi della batterie costiere puntati e attendono. Dopo aver scaricato il barchini l'avviso scorta si allontana, come previsto, e gli incursori si avvicinano, a lento moto, verso il porto. Ad un certo punto due fotoelettriche si accendono puntando la luce verso il mare, ma da parte inglese non si spara nemmeno un colpo. Forse una tattica inglese per guastare la visione notturna degli incursori di Marina. La piccola flottiglia, composta da 8 barchini esplosivi e due maiali, si avvicina verso il punto convenuto per forzare il porto: il ponte di Sant'Elmo, scelto perché nell'imboccatura principale erano presenti ostruzioni che non potevano essere superate dai mezzi d'assalto. Dal ponte pende una pesante rete di protezione, a sbarramento, che tocca il fondale che in quel punto è profondo 40 metri. È il momento di Tesei e di Costa. I “maiali” vengono messi in acqua, ma quello Costa resta appoppato e non si riesce a metterlo in assetto di navigazione. Viene abbandonato da Costa che si offre di fare da secondo a Tesei, ma questi rifiuta e procede da solo. Il “papà” dei maiali dice al suo collega “è troppo tardi, sono le 4:10, vado solo e faccio saltare la rete del ponte, deve saltare alle 4:30 precise, Salterà... te l'assicuro, se sarà tardi spoletterò al minuto”. Sono le ultime parole del maggiore Teseo Tesei. Cosa sia accaduto dopo non si sa, ma sappiamo che riesce a giungere allo sbarramento del ponte e a fissare la carica. Alle 4:25 viene udita un'esplosione, senza colonne d'acqua, probabilmente gli inglesi hanno sganciato una piccola carica di profondità. Arrivano le 4:30. E passano. Nessun segnale. Alle 4:40 gli assaltatori vedono accendersi le fotoelettriche di una delle piste dei campi di aviazione: un aereo italiano aveva sorvolato La Valletta sganciando alcune bombe. Per il comandante Giobbe è il segnale, nonostante non sia sicuro che l'esplosione udita poco prima fosse quella della carica di Tesei. “Frassetto in testa, poi Carabelli... vi lancerete. Se il passo è ancora chiuso, farete saltare l'ostruzione col barchino. Gli altri sei, con Bosio capofila, si infileranno sotto il ponte a qualche secondo di distanza. Ricordate la consegna: perché uno arrivi in porto, tutti, se necessario, dovete sacrificarvi per aprire il varco. In bocca al lupo!”. Questo l'ordine del capitano di corvetta ai suoi uomini. Parte Frassetto che a cento metri dal ponte si sgancia dal barchino e accende una lampada per indicare la via agli altri. Il barchino non esplode. Tocca a Carabelli, ma gli inglesi, udito il rombo dei motori, sono pronti ad aprire il fuoco. Il barchino di Carabelli arriva sotto il ponte ed esplode contro l'arcata, portandosi via la vita dell'incursore. La detonazione innesca le cariche del barchino di Frassetto e del Slc di Tesei. Ne scaturisce un'esplosione immane che fa crollare il ponte, ostruendo il passaggio definitivamente. La reazione inglese ormai è furente. Tutti i proiettori sono accesi e tutte le batterie aprono il fuoco. Bosio, il capofila, ordina di di invertire la rotta allargando a nord, ciascuno alla velocità che può. Ma quello che doveva essere un assalto di sorpresa si trasforma in una strage. Gli inglesi colpiscono i barchini uno per uno. Intanto sale l'aurora ed entra in azione anche la Royal Air Force. Decollano i caccia che si gettano nella mischia mitragliando. Capriotti, di riserva col suo barchino, si finge ferito spingendo avanti verso il porto. Incontra per un caso il “maiale” di Costa che esplode senza raggiungere il bersaglio. Costa ed il suo gregario raggiungono la riva ed in seguito vengono fatti prigionieri dagli inglesi. La mattanza però non è ancora terminata. Al largo, sui Mas, il CC Giobbe guarda sgomento quanto sta accadendo davanti ai suoi occhi. Decidono di ripiegare, inermi e impotenti, ma gli Hurricane inglesi sono sopra le loro teste. Il Mas 452 viene colpito per primo e si porta via il comandante Moccagatta, il capitano di corvetta Giobbe e altri 5 uomini dell'equipaggio insieme a Bruno Falcomatà, il medico della base che aveva voluto seguire ad ogni costo “i suoi ragazzi”. Gli otto superstiti del 452 riescono a raggiungere a nuoto il motoscafo e a ricongiungersi al “Diana”. Il Mas 451 subisce la stessa sorte, ma almeno riesce, con le armi di bordo, ad abbattere un Hurricane: il comandante Sciolette e altri 9 uomini del suo equipaggio si gettano in mare e vengono raccolti poco dopo dagli inglesi usciti dal porto, inviolato, di La Valletta. La nostra caccia interviene con dieci caccia Macchi MC 200 “Saetta” ma si trovano impegnati da trenta Hurricane britannici: ne abbattono tre ma perdono due velivoli e ripiegano verso la loro base in Sicilia. L'azione su Malta si conclude con una pioggia di Medaglie d'Oro al Valor Militare alla memoria. Perdono la vita in quindici, tra cui Tesei, l'ideatore dei Siluri a Lenta Corsa che avranno il loro più clamoroso successo pochi mesi dopo, quando il comandante Borghese progetterà l'assalto al porto di Alessandria d'Egitto, dove De la Penne, Bianchi, Marceglia, Schergat, Martellotta e Marino affonderanno due corazzate inglesi (la Hms Valiant e la Hms Queen Elizabeth) e una petroliera. A Malta, i mezzi d'assalto non torneranno più, un po' per l'esito infausto dell'azione (che aveva praticamente decimato la X Flottiglia Mas) un po' per gli eventi bellici: la rottura del fronte da parte delle armate italotedesche e l'arretramento sino ad el-Alamein dei britannici, insieme all'esito della Battaglia di Mezzo Agosto (11-13/08/1942) avevano ridimensionato il ruolo di Malta. Gli inglesi, infatti, smettono di rifornire l'isola sino al 1943, quando le sorti della guerra ormai avevano cominciato a pendere dichiaratamente in loro favore.

Uno, nessuno e fascista: così Pirandello appoggiò il regime. Lorenzo Catania su La Repubblica il 24 marzo 2021. Il 17 settembre del 1924, nel momento storico in cui Mussolini appariva isolato e il fascismo perdeva colpi in seguito al rapimento e all'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, Luigi Pirandello scriveva al Duce una lettera in cui chiedeva l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Con il peso della sua notorietà internazionale il drammaturgo veniva in soccorso del regime non ancora consolidatosi. Gli organi e la stampa di opposizione si mostrarono disorientati di fronte a un gesto che apparve estemporaneo e autolesionistico. In realtà la coraggiosa decisione di Pirandello era coerente con la biografia intellettuale di chi, figlio di un ex garibaldino, disprezzava la classe politica "liberale", rivelatasi non all'altezza delle idee e dei propositi di rinnovamento che avevano guidato il moto risorgimentale, e riteneva, con accenti non privi di qualunquismo, la democrazia, cioè il governo della maggioranza, la causa vera di tutti i mali, come si legge in un passo del romanzo "Il fu Mattia Pascal" ( 1904): " Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà ". Per tanto tempo, intorno al rapporto tra Pirandello e il fascismo si è scritto molto, badando soprattutto a sottolineare che, pur senza esplicite prese di posizioni pubbliche, il drammaturgo apparve, negli anni del consolidamento del regime, sempre più distante da una reale partecipazione politica. Confuta, invece, questa tesi il recente libro di Piero Meli, Luigi Pirandello. " Io sono fascista" ( Salvatore Sciascia editore, 147 pagine, Caltanissetta- Roma, 2021), che mette a disposizione dei lettori una ricca messe di informazioni tratte da pagine di giornali d'epoca e notizie di cronaca dimenticate, e riscrive in maniera non reticente un tassello di quel capitolo di storia politico- culturale del nostro Paese che vide personalità di alto profilo come Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Gioacchino Volpe e lo stesso Pirandello dare il loro contributo quando Mussolini prese il potere. È vero infatti che qualche mese dopo la marcia su Roma, in una intervista apparsa sul "Giornale di Sicilia" nel dicembre del 1922, Pirandello si dichiarava un precursore del fascismo e affermava: " Io non sono un uomo politico e quindi esprimo un impressione piuttosto che un giudizio. Attribuisco un grande valore psicologico al trionfo del Fascismo e, per ciò stesso, al suo metodo di azione". Nell'ottobre del 1923, dopo essere stato invitato a colloquio da Mussolini ( sarà ricevuto poi per quattro volte tra il 1932 e il 1935), Pirandello andrà in America per presenziare il 1° gennaio 1924 alla inaugurazione della stagione pirandelliana organizzata dal Foreign Press Service, e qui si impegnerà, come farà in seguito quando sarà all'estero, con discorsi e conferenze nei circoli sociali e intellettuali per dissipare le diffidenze del popolo americano sul fascismo e sulla figura di Mussolini. E questo perché Pirandello trovava nel fascismo e nel suo fondatore l'ideologia politica più aderente al suo pensiero: "Io sono fascista perché credo soltanto nella creatività dei singoli e non in quella delle masse. L'umanità è fatta di creatori e di materia inerte. Le masse costituiscono la materia, non hanno né una volontà né una forza propria e sono soltanto materia nelle mani di un grande creatore. Il creatore imprime una forma e un movimento a questa materia inerte. L'Italia di oggi non è più quella di ieri, perché uno spirito l'ha ricreata". Allo scopo di ridimensionare l'immagine di Pirandello fascista, gli studiosi del drammaturgo ne hanno esaminato l'opera alla ricerca di allusioni, indizi, prove, episodi che potessero dimostrare il contrario. Lavoro sterile, dice Meli, perché non c'è niente di antifascista nella produzione letteraria di Pirandello ( a differenza di quanto credeva Leonardo Sciascia, che ha interpretato in questo senso la novella "C'è qualcuno che ride"), così come non c'è niente di fascismo, poiché Pirandello fu apertamente contro un'arte fascista. In quest'ambito lo scrittore rivendicò sempre la propria autonomia di fronte al regime e non si allineò alle sue direttive. " L'arte - diceva Pirandello - è il regno del sentimento disinteressato", pertanto "non si può per intenzione, fare dell'arte fascista; facendola, si fa della polemica e nient'altro". Pur avendo subìto qualche affronto dal fascismo, come quando Mussolini nel marzo del 1934 fece ritirare dal cartellone del teatro dell'Opera di Roma l'opera musicale di Gian Francesco Malipiero "La favola del figlio cambiato", su libretto di Pirandello, colpevole di avere creato un incidente diplomatico con il governo della Germania a causa della storia del bimbo brutto e nero, figlio del re di una Nazione cultrice della pura razza ariana, lo scrittore non prenderà mai pubblicamente le distanze dal regime, che con le sue istituzioni continuerà a fargli giungere riconoscimenti, ricambiati dall'artista con la sua militanza politica che registra episodi clamorosi: l'accettazione del ruolo di guardia d'onore al Palazzo delle Esposizioni nel 1935 e l'offerta della medaglia del Nobel contro le "inique sanzioni", senza dimenticare la sua adesione al manifesto degli intellettuali fascisti. In questo senso, a ulteriore prova della sua ostinata fede politica, è utile riportare quanto si legge nel libro dello storico americano John Patrik Diggins, "L'America, Mussolini e il Fascismo", Laterza, 1972: "Quando nel 1935 Pirandello arrivò negli Stati Uniti, parecchi commediografi, tra i quali Clifford Odets e John Howard Lawson, andarono a trovarlo nel suo appartamento al Waldorf Astoria. Essi cercarono di indurlo a sconfessare il fascismo e a ripudiare l'invasione dell'Etiopia. Ma Pirandello invocò l'autonomia dell'arte dalla politica, e il colloquio terminò in uno stato d'animo di reciproco rancore ( NyT, 24 luglio 1935)". Al momento della morte Pirandello, con le sue disposizioni testamentarie - far passare sotto silenzio la sua morte, carro di infima classe, divieto a parenti e amici di seguirlo, dispersione delle ceneri al vento - dribblava la "bella morte" fascista e lasciava uno sberleffo postumo e inaspettato a Mussolini. Ma qui Meli, instancabile esploratore del materiale pirandelliano, ci riserba una sorpresa: scrive che il presunto testamento " antifascista" dello scrittore era un foglietto ingiallito e sgualcito dal tempo che risaliva al 1911. Il grande commediografo ci dimostra così che la vita è, come lui la vedeva, " una cruda e buffa opera teatrale".

Dove venne incarcerato il Duce. I giorni di Mussolini sul Gran Sasso, prima in una villetta degli anni Trenta - ora all'asta - poi nell'albergo di Campo Imperatore, a 2.130 metri di altitudine. Mariangela Garofano - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Campo Imperatore, sul Gran Sasso, fu teatro di uno degli eventi più significativi per l’Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale. Come riporta Il Messaggero, è infatti all’Albergo di Campo Imperatore che Benito Mussolini fu detenuto per dieci giorni, prima di essere liberato dai tedeschi. Prima di essere trasferito a più di 2000 metri, nell’albergo che il Duce definì “la prigione più alta del mondo”, Mussolini passò qualche giorno in una villetta anni trenta, alla base della Funivia del Gran Sasso. Oggi quella villetta è stata messa all’asta, su decisione del Tribunale dell'Aquila, secondo il prezzo base stabilito, di poco inferiore al milione e duecento mila euro. Ma l’ultima parentesi della vita del Duce inizia molto prima, quando il 25 luglio del 1943 a Villa Savoia Re Vittorio Emanuele III gli comunica che il Gran Consiglio del Fascismo ha imposto la nomina del generale Pietro Badoglio. Mussolini viene arrestato e trasferito dapprima sull'isola di Ventotene, poi a Ponza e a villa Weber alla Maddalena, in Sardegna. Ma l’Odissea delle prigioni del Duce non finisce qui. Dalla Sardegna, il 28 agosto viene portato sui monti, più precisamente sul Gran Sasso, dove soggiorna una settimana nella famosa Villetta, in attesa che la sua vera prigione venga preparata. Il 6 settembre il Duce viene trasferito a Campo Imperatore, a 2.130 metri di quota, dove sorge l'unico albergo della stazione sciistica, l'Amedeo di Savoia, che, per ironia della sorte, fu fatto costruire proprio dal Regime. Ma il“soggiorno” montano di Mussolini durò appena dieci giorni: il 12 settembre infatti la Wehrmacht, attraverso quella che in codice fu chiamata “Operazione Quercia”, lo prelevò su ordine di Adolf Hitler. Con un blitz a dir poco spettacolare, che ebbe luogo a 2000 metri proprio sul Gran Sasso, il Duce venne prelevato da un “Cicogna”, un aereo da ricognizione leggero e liberato. Trasferitosi a Salò, dove fu a capo della Repubblica Sociale Italiana, il Duce trascorse sul lago di Garda l’ultimo capitolo della sua vita, che ebbe fine il 27 aprile 1945 quando fu catturato a Dongo, sul Lago di Como.

Ma in quel "Diario" non c'è tutto. Ecco ciò che manca sul regime e il Duce. Dopo la pubblicazione del testo di Ciano, sul "Gazzettino Sera" nel '46 uscì un memoriale anonimo. Ma dietro (forse) c'era Orio Vergani. Addetto Diplomatico - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. Sapeva di giocare, ormai, un giuoco di vita o di morte. Nell'ambiente di Palazzo Chigi, Ciano aveva qualche amico filotedesco con cui scherzava sull'argomento. «Impiccheremo prima te!». «No! Stai attento che prima i tedeschi impiccheranno te!». Queste battute abbastanza macabre erano molto frequenti. Ciano sapeva che l'opinione pubblica volgeva sempre più verso una esplicita opposizione. Gli amici glielo riferivano regolarmente. Le donne egli le frequentava molto lo tenevano al corrente dell'atteggiamento del cosiddetto «gran mondo». Gli era notissimo il frondismo degli intellettuali e molte volte intervenne in aiuto di qualcuno di essi che era stato arrestato, ottenendo che le condanne fossero mitigate e che gli anni di detenzione fossero trasformati in anni di confino. Qual era l'opinione della reggia? Ciano sapeva che la posizione del re era molto difficile. In caso di sconfitta, o anche di trattative per una pace di compromesso, era fatale, o almeno sembrava così, che il re giungesse all'abdicazione. La sconfitta doveva essere evitata, magari con un rovesciamento del fronte, a qualunque costo. A questo, libero Mussolini, non si poteva giungere. Mussolini doveva essere allontanato. Come? Era ben difficile dirlo, nell'inverno '41-42! Ma la storia non poteva essere fermata. L'allontanamento del duce voleva dire anche l'abdicazione del sovrano a scadenza più o meno lunga. Si poteva pensare a una successione del Principe Umberto? A Palazzo Chigi, fin dalla primavera del 1942, si sapeva che in «altra sede» si preparava la successione a Vittorio Emanuele, all'insaputa probabilmente dello stesso sovrano.

Se qualche anno prima al tempo della crisi etiopica si era parlato di una defenestrazione di Mussolini e di un governo Badoglio Federzoni, prima che Badoglio fosse compromesso con la nomina a comandante delle truppe in Africa, adesso si parlava di contatti fra membri della casa reale e personalità dell'opposizione per studiare la soluzione attraverso la creazione di una reggenza. Si diceva che a questo proposito la principessa di Piemonte si fosse incontrata con Bonomi e che essa fosse al corrente del pensiero di Croce, favorevole, si diceva, a una soluzione attraverso la saggezza.

Ciano, uomo di regime ma che non fu fascista. Tra il giugno e il novembre 1948 sul settimanale umoristico Il Travaso delle Idee diretto da Guglielmo Guasta apparve una spassosa serie di articoli dal titolo "La mia vita col puzzone. Diario di Tobia, il gatto di Mussolini". Francesco Perfetti - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. Tra il giugno e il novembre 1948 sul settimanale umoristico Il Travaso delle Idee diretto da Guglielmo Guasta apparve una spassosa serie di articoli dal titolo «La mia vita col puzzone. Diario di Tobia, il gatto di Mussolini». Si trattava di una satira, un po' goliardica e irriverente, sulla corsa di giornali e riviste ad accaparrarsi memoriali e diari, veri o apocrifi, di personalità dell'ormai defunto regime fascista. L'autore del gustoso «gattiloscritto», Tobia, figlio di una procace gatta romagnola e del gatto di un fabbro, si era ritrovato a Villa Torlonia alla corte del Duce entrando nelle grazie dei coniugi Ciano: «Galeazzo Ciano, con me, fu sempre amico. Se avesse trattato il Padrone come trattava me, non sarebbe finito a cavallo sella sedia». La mania dei memoriali era scoppiata da quando era stata pubblicata, nell'aprile 1946, la prima edizione italiana del Diario 1939-1943 di Galeazzo Ciano. Il volume comprendeva le agende messe in salvo da Edda Ciano nel gennaio 1944 al termine di una vicenda rocambolesca che aveva visto impegnati in una vera e propria caccia ai diari del genero di Mussolini i servizi segreti tedeschi e quelli americani. La storia di questa caccia costituirebbe da sola la sceneggiatura di un film ad alta tensione in cui si intrecciano tante vicende: da quella romantica della spia Felicitas Beetz inviata dai tedeschi nel carcere veronese dov'era rinchiuso Ciano per carpirne i segreti e poi innamoratasi di lui a quella delle peripezie di Edda che, accompagnata dall'amico Emilio Pucci, il futuro grande stilista, alla guida di una Topolino Balestra, riuscì ad arrivare in Svizzera superando insidie e avventure di ogni genere. La pubblicazione del Diario di Ciano sia pure incompleta le annotazioni relative agli anni 1937-1938 erano finite in mano tedesca e sarebbero state pubblicate in seguito destò subito vasta eco anche perché, non essendo possibile accedere alla documentazione diplomatica ufficiale, l'opera fu naturalmente destinata a diventare una fonte storiografica sulla politica estera del fascismo. Accanto a coloro la grande maggioranza degli studiosi di storia delle relazioni internazionali che ne sottolinearono l'importanza non mancarono quanti, per motivi politici o personali, ne misero in discussione, peraltro senza prove decisive, autenticità e attendibilità. E si scatenò quella moda dei memoriali che il settimanale umoristico romano avrebbe preso in giro pubblicando il «gattiloscritto» di Tobia. L'intento irridente era confermato da una vignetta, in testa alla serie di articoli, che mostrava due omini impegnati in questa conversazione: «Lei crede che i memoriali pubblicati dai quotidiani siano più autentici di questo?. Perché, si vede dalla faccia che sono fesso?». Circa un mese dopo l'uscita in volume del Diario di Ciano apparve a puntate sul quotidiano veneziano Gazzettino sera, pubblicato con risalto in prima pagina, un lungo memoriale dal titolo Quello che il Diario di Ciano non dice. Si trattava di una testimonianza molto diversa dalle altre, anche per la qualità letteraria della scrittura, per le informazioni e gli aneddoti che vi si trovavano oltre che per il tentativo di offrire un ritratto psicologico del genero di Mussolini. Indizi, questi, che rivelavano come l'autore, evidentemente, fosse stato fra gli intimi di Ciano. Gli articoli erano firmati «L'Addetto Diplomatico» ed erano preceduti da un distico che qualificava l'autore come un «funzionario di Palazzo Chigi» che aveva raccolto dalla viva voce di Ciano «una quantità di fatti e giudizi» che non figuravano nel «sensazionale, ma frettoloso ed incompleto documento lasciato dal genero di Mussolini». Questo testo, dimenticato dagli studiosi, è stato casualmente rintracciato da Giovanni Tassani che lo ha riproposto integralmente sul nuovo numero della rivista Nuova Storia Contemporanea (Le Lettere editrice) nel contesto di uno «speciale» dedicato a Galeazzo Ciano. Tassani è riuscito a individuare l'autore del testo che si celava sotto lo pseudonimo di «Addetto Diplomatico». Si tratterebbe di una delle più grandi firme del giornalismo italiano, Orio Vergani, che era stato un grande amico e confidente di Galeazzo Ciano fin dagli anni giovanili quando questi non pensava ancora di dedicarsi alla carriera diplomatica o alla politica e sognava invece una carriera di giornalista, autore teatrale e scrittore. Dopo la caduta del fascismo e la conclusione della guerra, Vergani come altri illustri giornalisti coinvolti con il fascismo a cominciare da Giovanni Ansaldo, «il giornalista di Ciano», già direttore del quotidiano di famiglia non poteva firmare con il proprio nome. In attesa di rientrare, grazie ai buoni uffici di Gaetano Afeltra, al Corriere della Sera, Oriani fu costretto a collaborare saltuariamente a riviste come L'Illustrazione Italiana e Oggi e a cercare ospitalità sul quotidiano di area moderata Gazzettino sera di Venezia dove, appunto, apparvero gli articoli dedicato al Diario di Ciano. In seguito, mutato il clima politico, già qualche mese dopo, Vergani avrebbe scritto, questa volta firmandoli, un'altra serie di articoli dedicati al genero di Mussolini sul settimanale Omnibus poi confluiti nel volume postumo dal titolo Ciano, una lunga confessione (1974), curato dai figli del giornalista. Tassani ha fatto giustamente notare come i due testi, posti a confronto, non siano affatto sovrapponibili perché nel primo memoriale, per ragioni comprensibili, Vergani preferì soffermarsi sulle comuni amicizie giovanili e, assai meno, su aspetti che potessero portare alla «identificazione» dell'autore. Gli articoli pubblicati sul quotidiano veneziano, tuttavia, al netto delle preoccupazioni del loro autore, sono importanti. Vi si trova la conferma che Ciano aveva «molte reticenze» e che il diario era stato pensato e scritto in origine «come una larga traccia per una vasta opera futura», come il «taccuino degli avvenimenti laterali, l'annotazione quotidiana della vita e della vita minore ai margini del grande conflitto». È una tesi, questa, in qualche misura confermata da un saggio, pubblicato anch'esso in forma anonima su L'Illustrazione Italiana nel giugno 1948, da Giovanni Ansaldo, che fece notare come Ciano fosse combattuto fra il timore che il Diario potesse essere letto da Mussolini e il desiderio che esso fosse invece conosciuto da altre persone. Non è un mistero che Ciano facesse cenno a molti suoi interlocutori dell'esistenza del Diario. Peraltro, egli, come si legge nel testo attribuibile a Vergani, «non parlò mai agli intimi del diario come di un documento preparato per avere un giorno un documento a propria discolpa». Il fatto che nel Diario molte cose non fossero registrate dipendeva dalla circostanza che Ciano si rendeva ben conto che sarebbe stato bene «non lasciare nel diario prove delle sue speranze e dei suoi contatti» che lo avrebbero reso «un documento eccessivamente compromettente». Di qui le «reticenze» segnalate da «L'Addetto Diplomatico» in un testo che, letto in controluce, anticipa il giudizio che, molti anni dopo, avrebbe dato Renzo De Felice della personalità di Ciano parlandone come di un personaggio che «si considerava un conservatore borghese, tipico rappresentante di una nuova aristocrazia del potere» e che «tutto era salvo che un vero fascista» perché «il fascismo lo aveva solo sfiorato anche se ne aveva fatto uno dei massimi esponenti del regime».

Dagonews il 15 febbraio 2021. Arriva finalmente per il pubblico in occasione del 14 Febbraio, il San Valentino di tutti gli innamorati, BACI RUBATI - Amori omosessuali nell'Italia fascista, il film documentario di Fabrizio Laurenti e Gabriella Romano, prodotto e distribuito da Istituto Luce-Cinecittà, già presentato con vivace attenzione al Bellaria Film Festival, e al Florence Queer Festival – dove ha ottenuto una Menzione speciale della giuria. Baci rubati racconta la condizione degli omosessuali durante il fascismo, usando principalmente la voce di chi ha vissuto in quegli anni. Il film offre un mosaico sfaccettato e complesso che mette in evidenza la persecuzione che i gay e le lesbiche italiani hanno subito, ma allo stesso tempo smonta gli stereotipi e ricostruisce la molteplicità delle loro esperienze, gli svaghi, le amicizie, gli affetti, gli amori e le consuetudini. Sull'argomento si sa ancora oggi molto poco poichè il silenzio che ha circondato l'omosessualità si è protratto ben oltre il Ventennio. Pur sottolineando la persecuzione e le numerose restrizioni e sanzioni imposte dal regime agli omosessuali, l’intento è quello di riportare in luce per la prima volta alcune storie di chi, nonostante tutto, ha “resistito” ed è riuscito a vivere seguendo le proprie scelte. "Chiunque (...) compie atti di libidine su persona dello stesso sesso, ovvero si presta a tali atti, è punito, se dal fatto derivi pubblico scandalo, con la reclusione da sei mesi a tre anni."  Così enunciava nel 1927, in prima stesura, l'articolo 528 del nuovo codice penale Rocco riguardo la repressione dell'omosessualità, che veniva in tal modo per la prima volta contemporaneamente riconosciuta e sanzionata. Sul sanzionarla tutti d'accordo, ma sulla necessità di riconoscere che in Italia fosse diffuso il "turpe vizio" - come veniva allora definita una relazione non eterosessuale - mai e poi mai! Sarebbe stata messa in discussione la virilità stessa del maschio italiano. Così il film interpella storici che si sono occupati di omosessualità durante il regime di Mussolini.  Ma predilige le voci dei protagonisti che raccontano le proprie vicende, sentimenti ed avventure. Tra il serio ed il faceto, il sentimentale e lo sfacciato, si alternano pagine di diari, lettere, poesie e ricordi di amori proibiti, osteggiati, censurati, ma esistiti, vissuti, cantati e ricordati con orgoglio. Sono così di notevolissimo interesse le parole di scrittori assoluti come Aldo Palazzeschi, de Pisis, Sandro Penna, Radclyffe Hall, posti accanto agli inserti di letteratura "scientifica" dell’epoca; e più di tutto interessante che il film raccolga voci di estrazioni sociali, mentalità, esperienze differenti. Parole che nel film vivono dell’interpretazione da manuale di Luca Ward, che restituisce con sottigliezza sulfurea la prosa scientifica sul "problema" degli omosessuali, accanto alle voci partecipi e coinvolgenti di interpreti popolari come, Valentina Cervi, Sabrina Impacciatore e Neri Marcorè. Attraverso le parole dei protagonisti, il film documenta alcuni aspetti della repressione dell’omosessualità come gli arresti, l’internamento in manicomio, le ammonizioni, le indagini dei commissari, le dichiarazioni dei prefetti, le violenze degli squadristi. Baci Rubati si avvale di materiali di repertorio molto preziosi provenienti da collezioni private, interviste radiofoniche risalenti all’inizio degli Anni Ottanta e brani di diari inediti, a cui fanno da controcanto le immagini ufficiali del regime, quelle dei cinegiornali Luce, che illustrano l’ideale fascista di virilità e femminilità. Un montaggio serrato di immagini di repertorio illustra il culto della virilità del regime, il clima delle sue campagne di moralizzazione, la creazione dello stereotipo dell’uomo “effeminato” e della donna “mascolina” ed al contempo racconta il vissuto di omosessuali e lesbiche, testimoniato da fotografie e filmati provenienti da archivi privati. Attraverso questi materiali preziosi e inediti il film celebra il coraggio di chi ha affermato le proprie scelte di vita, nonostante l’azione repressiva della dittatura. L’uscita on demand su piattaforma dal 14 febbraio, giorno di San Valentino, è una dedica speciale al coraggio e alla libertà di tutti gli amori.

Uno Sparviero sparito nel deserto: il mistero degli italiani in Libia. Uno "Sparviero" della Regia Aeronautica scomparve nelle sabbie della Libia. Lo ritrovò dopo anni una squadra dell'Eni: ma resta il mistero su quella tragedia. Davide Bartoccini - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. Libia, 5 ottobre 1960. Da qualche parte oltre le dune, nella terra che una volta fu colonia italiana - e che oggi è campo di battaglia per generali golpisti, tribù berbere, mercenari russi e turchi, forze speciali francesi e servizi segreti italiani - un gruppo di esploratori dell’Eni scorge una gobba di ferraglia che affiora dal mare di sabbia. Quello che a prima vista sembra essere un vecchio aeroplano argentato si rivelerà un famigerato bombardiere della Regia Aeronautica. Un triplano per esser precisi: Savoia-Marchetti S.M. 79; nato come bombardiere medio, ma ottimo nel ruolo di aerosilurante; secondo alcuni soprannominato dai piloti britannici il "Gobbo maledetto" per la sua particolare fusoliera, ma più noto per il soprannome di "Sparviero". La livrea mimetica è andata via con il vento e con il tempo. Chi lo ha portato fin lì, invece, è rimasto. Nella cabina di pilotaggio lo scheletro del comandate siede ancora al suo posto. Un altro corpo scheletrito siede su un seggiolino, appoggiato alla fiancata. Appena sotto l'ala, semi sepolti da vent'anni di tempeste di sabbia, sono i resti di altri due membri dell'equipaggio, che di norma allora contava sei anime. Non ci sono piastrine di riconoscimento, non ci sono oggetti personali che possano essere d'aiuto per identificare nessuno di loro. I predoni del deserto hanno spogliato il relitto di ogni parte utile o riutilizzabile, solo una mitragliatrice è rimasta al proprio posto, sul dorso, dove si accenna la tanto famosa "gobba": puntava al cielo da una piccola eternità. Sarà la matricola del velivolo a svelare almeno in parte quell'enigma: a dire che quello, infatti, era un aerosilurante. Ma perché uno Sparviero che va andava a caccia in alto mare era finito nel bel mezzo del deserto?

Un "aerosilurante" nel cuore del deserto. Il codice MM 23881 apparteneva ad uno Sparviero inquadrato nella 278ª Squadriglia Autonoma Aerosiluranti. Quella dei "Quattro gatti", che nello stemma se ne stavano belli in fila su di un grande siluro sospeso tra le nuvole. Una squadriglia che faceva base in Sicilia, ma che aveva velivoli dislocati in diverse basi sparse sulle coste del Mediterraneo. Pronti a colpire dove serviva. Il nostro era decollato base di Berka, nei sobborghi di Bengasi, il 21 aprile 1941, per colpire un convoglio di navi inglesi. Dopo il presunto attacco (il siluro era stato sganciato), era scomparso senza lasciare traccia. "Comunicato dalla 278^ Squadriglia Aerosiluranti a Ministero Difesa Aeronautica. Comunicasi che giorno 21 aprile at ore 17:25 apparecchio S-79 mm 23881 partito da Berka seguito comando 5^ Squadra Aerea per attacco convoglio scortato segnalato quadratino 5881 precedente rotta Uno-Zero-Cinque velocità otto miglia, non è rientrato.", era stato telegrafato la sera dal comando. Ma un bombardiere con 6 uomini a bordo - il capitano pilota Oscar Cimolini, il tenente di vascello osservatore Franco Franchi, il maresciallo pilota Cesare Barro, il sergente maggiore marconista Amorino De Luca,e gli avieri Quintilio Bozzelli e Giovanni Romanini - non può scomparire nel nulla. E infatti ricomparve, nelle sue spoglie metalliche e mortali, quando Enrico Mattei si aggiudicò la “Concessione 82”; ossia l'estensione per cercare il petrolio in un'area considerevole che distava ben 500 Km dalla costa, nel mare di sabbia che divide le oasi di Gialo da Giarabub. Si nascondeva lì lo Sparviero scomparso, distante e dimenticato dal mondo. Ma non da chi conosceva e amava quei sei aviatori che mai smisero di pensarli.

Fu quasi per caso poi, che a novanta chilometri da quel relitto, una distanza che poteva essere considerata come almeno cinque giorni di marcia a tappe forzate senza viveri e con pochissima acqua, che vennero trovati il resti di uno quegli avieri sfortunati - Giovanni Romanini - forse l'unico a non aver riportato fratture e ferite nell'impatto con i suolo; e per questo inviato a cercare soccorsi. Crollò stremato a soli 8 chilometri dalla pista che collegava Gialo-Giarabub. Ignorando, per sua disdetta un deposito d'acqua del Long Range Desert Group: gli incursori inglesi che vivevano come topi del deserto. Uno sforzo disperato e vano, che comunque si sarebbe rivelato inutile: è meglio ammarare che cadere nel deserto, dove nessun tipo di aereo può atterrare. Mentre in Libia, in quel periodo, i carburante scarseggiava, ed difficilmente una spedizione di soccorso sarebbe arrivata a destinazione senza incappare nel nemico.

Dispersi in un mare di sabbia. Secondo le ricostruzioni successive ( presentate nel libro “L’aereo perduto nel deserto” di Claudio Sommaruga), è possibile, quanto probabile, che il pilota dello Sparviero sia stato dominato dai venti nord-sahariani che in totale assenza di visibilità devono averlo portato fuori rotta. Nella totale oscurità della notta e nella concitazione del momento; senza la traccia del radiofaro di Bengasi e senza radio, la distesa di dune del deserto sahariano deve essere stata confusa per un mare “immobile”. Così un comandante troppo preoccupato a riportare a casa il suo equipaggio. Finito il carburante, smarrita la rotta, giunti di fronte al tragico epilogo, pilota e copilota decisero di tentare un atterraggio di fortuna. L'impatto fu violento - considerato lo stato delle eliche e la posizione dei motori, nonché le condizioni carrello che secondo quanto riportato "sfondarono" la superficie "superiore dell'ala”. Questo spiegherebbe perché il pilota venne lasciato al suo posto (forse per via delle fratture e delle ferite riportate); perché il copilota venne sistemato e ritrovato fuori, ferito anche lui ma liberato dall'abitacolo; e perché gli altri due uomini fossero rimasti lì con loro, per poi morire stremati dal caldo e dalla mancanza d’acqua. Solo due superstiti potevano affrontare una marcia disperata nel deserto, uno di loro non venne mai ritrovato. Il fatto che Romanini avesse due orologi al polso però, suggerisce che sia morto di fatica nel viaggio; e che l'aviere avesse preso in consegna quel ricordo da dare alla famiglia nel caso avesse raggiunto la salvezza. Non ebbe fortuna neanche lui. Sparò l'unico razzo di segnalazione della sua pistola nell'ultima notte della sua vita, forse al passaggio di un aereo, forse in vista di un lontano convoglio. Così si concluse un'altra sfortunata storia di piloti di guerra.

Le navi bianche che salvarono gli italiani fuggiti dall'Africa. Per salvare gli italiani dell'Africa Orientale, fu inviata una flotta di vecchi transatlantici incaricati di riportare in Italia donne, bambini e anziani. Una storia dimenticata. Davide Bartoccini, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Dopo una lunga e sofferta trattativa tra il governo Londra e quello di Roma, furono quattro bastimenti di oltre ventimila tonnellate di stazza ciascuno, dipinti interamente di bianco con grandi croci rosse sulle murate - la Saturnia, la Vulcania, la Caio Duilio e la Giulio Cesare - a riportare in patria decine di migliaia di uomini anziani, donne a bambini italiani che erano rimasti prigionieri in quella che un tempo era nota come AOI, l’Africa Orientale Italiana: possedimenti coloniali che caddero pezzo dopo pezzo in mano ai britannici pronti ad internare militari e civili nei campi di internamento sparsi sul continente. Una pagina della nostra storia poco conosciuta. Un'odissea lunga e pericolosa che prevedeva la circumnavigazione del "continente nero” - dato che non venne concesso dagli inglesi di attraversare il canale di Suez. Iniziata nel 1942, quando le "Navi bianche" salparono per la prima volta dai porti di Massaua e Berbera al suono della marcia reale, e terminata solo nell’agosto del 1943 con l'ultimo attracco nel porto semidistrutto di Taranto. Questo mentre nelle acque del Mediterraneo incombeva la guerra; i sommergibili, gli aerosiluranti, e gli incrociatori delle due fazione si davano battaglia; e i britannici minacciavano di abbordare le navi bianche alla minima comunicazione di carattere “bellico” con la Supermarina italiana. Sarebbe stato considerato come un atto di ostile che avrebbe privato del lasciapassare neutrale il convoglio. Cinquanta giorni in mare. Per coprire oltre 10mila miglia dalla costa orientale fino a Capo di Buona Speranza, e poi su, fino a Gibilterra. Ammassati, logorati nel morale per la separazione dai cari e per il futuro incerto, spossati dal caldo africano, dalle privazioni e dai malanni: fu' questo il riassunto dei diari di bordo compilati in quattro viaggi dai comandanti e dai medici imbarcati, che raccontarono quella prima “grande missione umanitaria” che permise i rimpatriati da Etiopia, Eritrea e Somalia e mise definitivamente la parola fine al colonialismo italico. Quello era solo il "secondo" passo verso una madrepatria distante, diversa, che molti non avevano nemmeno mai visto: una madrepatria in larga parte affamata e affaticata, ridotta allo stremo, che non sapeva come e dove accogliere altri sfollati. I "rifugiati nazionali", così vennero chiamati, furono: "costretti ad abbandonare case e averi, concentrati dai britannici in campi provvisori e da lì inviati a Berbera (in Somalia, o a Massaua in Eritrea, ndr) direttamente per l’imbarco", scriveva nel suo saggio lo storico Emanuele Ertola. "Affaticati e storditi dopo un lungo viaggio attraverso l’Etiopia in treno e camionetta, i rimpatrianti dovevano quindi sopportare la lunga attesa per salire a bordo”. A bordo delle navi bianche, vecchi transatlantici riconvertiti in navi ospedale, la situazione non era rinfrancante: "Ricordo i bambini più piccoli che morivano per infezione diarroica; ricordo l’epidemia di tosse convulsa che imperversava tra i bambini più grandi. Ricordo la madre disperata che aveva assistito alla fine del suo piccolo; ricordo che le donne in stato di gravidanza erano terrorizzate e ricordo che non c’erano più letti disponibili nell’infermeria strapiena", raccontava Maria Gabriella Ripa di Meana a Massimo Zamorani, storico inviato del Giornale che scrisse il libro Dalle Navi Bianche alla Linea Gotica. Secondo le ricerche effettuare dagli storici sarebbero stati almeno 40.000 i rifugiati che si ritrovarono in una patria spezzata a metà dalla guerra - che aveva visto la caduta di Mussolini, la firma dell'armistizio del 8 settembre e la nascita della Repubblica fascista di Salò. Alcuni poterono contare sul sostegno di lontani parenti; altri sull'accoglienza di quegli italiani "brava gente” che erano disposti ad aiutare i “compatrioti”; ma molti, rimasti senza niente e senza nessuno, vennero lasciati a loro stessi, unendosi ai già numerosi sfollati che avevano perso tutto a causa della guerra. Si rifugiarono nelle baraccopoli, ai margini dei centri urbani, e dopo la guerra in luoghi di raccolta per sfollati e orfani come l'ex campo di concentramento di Fossoli. Vennero descritti a lungo tempo come esseri spezzati: “apatici, imbelli, interessati solo ai sussidi, portatori di un passato dubbio se non oscuro”, dirà Pamela Ballinger nel suo recente saggio. Uno stato dell’esistenza che si attenuerà solo con il miracolo economico del dopoguerra. Per alcuni. Per altri una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. Tra quei rifugiati c’erano volti noti come Hugo Pratt, all’epoca appena adolescente che dopo essere stato internato nel campo di Dire Daua, aver perso il padre ed essersi arruolato nella Xª Mas, racconterà l’Africa nei suoi leggendari fumetti. O donne normali, come Anna Maria, che pubblicherà un diario dal titolo Africa come amore, e dirà:“ ..guardo gli ultimi lembi della terra d'Africa, che ormai lascio per sempre. Laggiù, nell'interno lascio Carlo, che forse non sa ancora che io sto tornando in Italia. Come l'avevo immaginato diverso questo ritorno. Quante vicende, quanto soffrire: ripartivo come un emigrante, sola. Ma eravamo vivi. Molte partivano lasciando in Africa una tomba e quindi a me non restava che ringraziare Dio per la sua benevolenza”. Lasciando anche a noi che leggiamo dopo così tanto tempo da quella commozione, uno strano senso di malinconia e profondo mal d’Africa.

Il fardello dell'uomo Churchill. Una vita a caccia di grandezza. Andrew Roberts ricostruisce, anche con fonti inedite, l'esistenza del politico che salvò la Gran Bretagna. Francesco Perfetti, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Quando, nel gennaio 1927, sir Winston Churchill, che si trovava in Italia in visita privata insieme alla moglie Clementine e ai figli Sarah e Randolph, ebbe l'opportunità di incontrare Benito Mussolini, rilasciò alla stampa una dichiarazione che in seguito gli venne rimproverata, da molti connazionali, come sconveniente. Disse che il fascismo aveva «reso un servizio al mondo intero» e precisò: «se fossi un italiano, di certo sarei stato al vostro fianco con tutto il cuore fin dall'inizio alla fine della lotta trionfante contro gli appetiti e le passioni bestiali del leninismo». Ma aggiunse una battuta che tanto biografi dimenticano di citare e che, a ben vedere, ridimensiona l'apprezzamento per il fascismo: «In Inghilterra non abbiamo dovuto affrontare questo pericolo nella stessa maniera micidiale. Noi abbiamo un nostro modo di fare le cose». Churchill, peraltro, in occasione della crisi di Corfù del 1923, si era espresso in termini assai negativi nei confronti di Mussolini arrivando a definirlo «un maiale» per come l'Italia aveva gestito quella crisi che, a suo parere, avrebbe dovuto essere risolta in maniera completamente diversa senza far ricorso alle armi e affidandosi alla Società delle Nazioni. Poi il giudizio sul capo del fascismo era cambiato al punto che, in taluni ambienti, si cominciò a parlare di una «amicizia» fra i due e della esistenza di un carteggio politico scottante. All'inizio degli anni cinquanta Indro Montanelli, che si trovava in Costa azzurra nella villa di Lord Beaverbrook, ebbe occasione di incontrare Churchill, che era anch'egli ospite del grande editore e politico inglese, e affrontò con lui il tema del rapporto con il Duce. Ebbe la conferma che per il Mussolini d'anteguerra, Churchill aveva avuto davvero «simpatia sia pure corredata da un certo disprezzo» per l'Italia e gli italiani e raccontò che «di Piazzale Loreto parlava con un miscuglio di rabbia e di pietà». A proposito del mutamento di giudizio di Churchill nei confronti di Mussolini, lo storico inglese Andrew Roberts nel suo recente e monumentale lavoro intitolato Churchill. La biografia (Utet, pagg. 1406, Euro 46), dopo aver osservato che «sarebbe stato meglio per la sua reputazione» se avesse mantenuto la sua iniziale opinione negativa riguardo al dittatore italiano, spiega che egli, poco alla volta, cominciò a considerare il dittatore italiano «un baluardo contro il comunismo, di cui temeva la diffusione in Occidente nell'Europa del dopoguerra». Nel 1927, in effetti, quando ebbe luogo il primo incontro fra i due, Mussolini era all'apice del suo successo: aveva superato la crisi del delitto Matteotti, si era liberato delle opposizioni e stava consolidando la costruzione del regime. La frase di Churchill deve essere contestualizzata in questa situazione: non già, quindi, un elogio a quel tipo di regime ma piuttosto la presa di coscienza che il fascismo era riuscito a sconfiggere il comunismo sia pure con mezzi che gli inglesi non avrebbero utilizzato. Sotto un certo profilo, dunque, le parole dello statista britannico, che all'epoca era Cancelliere dello Scacchiere, ne dimostrano la spregiudicatezza e il pragmatismo che caratterizzarono la sua azione politica. La bella e simpatetica biografia che Roberts ha dedicato a Winston Churchill è, per molti aspetti, definitiva perché ne tratteggia in maniera mirabile la sfaccettata personalità senza tacerne i lati più discutibili e problematici e senza nasconderne taluni errori politici. Rispetto alla accurata e gigantesca biografia «ufficiale» di Martin Gilbert completata nel 1988 e a quella dell'americano William Manchester le due più significative di una immensa bibliografia l'opera di Roberts si caratterizza per l'utilizzazione di materiali e documenti inediti, a cominciare dai diari privati del re Giorgio VI messi a disposizione dell'autore dalla regina Elisabetta II. Essa ripercorre l'intera vita di Churchill, rampollo di una antica e nobile famiglia, dalla nascita nel 1874 nella principesca dimora del Blenheim Palace fino alla morte, avvenuta nel 1965 nella sua casa londinese, e lo fa con efficace verve narrativa e con rigore storico. Versatile ed eccentrico, Churchill era di bell'aspetto, alto e con gli occhi di un colore azzurro e d'uno sguardo intenso che aveva colpito la futura moglie Clementine quand'ebbe occasione di conoscerlo nel corso di una cena. Aveva avuto, in gioventù, una bella capigliatura dal colore biondo rossiccio che, con l'andar del tempo, si era diradata fino a fargli assumere l'aspetto che tutti conoscono: un volto rotondo, stempiato, con la fronte alta, pensoso e fermo ma sottilmente ironico. Dotato di autoironia e di senso dell'umorismo, uomo di profonda cultura umanistica, storica e letteraria, Churchill ebbe sempre di sé, sin dalla più tenera età, un'altissima considerazione al limite dell'egocentrismo. A sedici anni, per esempio, disse a un amico che avrebbe salvato la Gran Bretagna da una invasione straniera. Il suo patriottismo, l'amore per la Gran Bretagna cioè, era radicato profondamente in lui e si nutriva di un conservatorismo profondo e istintivo, retaggio di quella figura paterna alla quale Roberts (a differenza di molti altri biografi) attribuisce una grande importanza. Churchill, in fondo, fu sempre un conservatore di vecchio stampo alla Disraeli, anche quando si trovò a militare nelle file dei liberali. Credeva nel «destino» imperiale e nella grandezza «civilizzatrice» del suo Paese con quegli stessi sentimenti che avevano ispirato un grande scrittore a lui molto caro, Rudyard Kipling, a parlare del «fardello dell'uomo bianco». Di qui, probabilmente, certe sue affermazioni e posizioni che, anche recentemente e in ossequio al politicamente corretto, sono state bollate come «razziste» dimenticando che esse dovrebbero essere contestualizzate con il sentire dell'epoca e non giudicate anacronisticamente in base alle convinzioni di oggi. La sua vita incrociò i grandi avvenimenti dell'ultimo scorcio del secolo XIX e della prima metà del XX: la lotta di Cuba contro la Spagna, le rivolte in India e nel Sudan, la Guerra anglo-boera, il Primo conflitto mondiale e via dicendo. Il titolo originale della biografia di Roberts, Walking with Destiny (Camminando con il destino) rispecchia, sotto un cero profilo, il senso della vita di Churchill, che troverà il suo culmine nel 1940 nella nomina a primo ministro per guidare la lotta contro i nazisti. L'opposizione di Churchill al totalitarismo nazista non ammetteva cedimenti. Lo conferma una sua battuta: «Non odio nessuno, eccetto Hitler». Del resto di fronte alla politica di appeasement di Chamberlain culminata con gli accordi di Monaco era stato lapidario: «Poteva scegliere tra la guerra e il disonore. Ha scelto il disonore e avrò comunque la guerra». Ma accanto all' antinazismo c'era, in Churchill, una altrettanto forte avversione nei confronti del comunismo sovietico al punto che, una volta, egli disse che il buon Dio doveva esistere davvero perché «l'inferno per Lenin e Trotsky era indispensabile». Non è un caso che la «guerra fredda» ebbe simbolicamente inizio col discorso di Fulton del 5 marzo 1946 col quale Churchill denunciando la «Cortina di ferro» calata sul continente europeo da Stettino a Trieste decretava, in certo senso, la fine della grande alleanza di guerra fra democrazie occidentali e Urss in chiave antihitleriana. Che Churchill abbia compiuto errori o fatto scelte discutibili è comprensibile. Roberts, per esempio, osserva che egli sbagliò durante la crisi dell'abdicazione di Edoardo VIII, mentre altri studiosi (a cominciare da Enrico Serra) gli hanno rimproverato la pretesa di imporre all'Italia la resa incondizionata. Ma, al netto di tutto ciò, rimane il fatto che sir Winton Churchill è un gigante che ha salvato la civiltà occidentale e contribuito alla rinascita e al rinnovamento del conservatorismo. col trascorrere del tempo, ci si rende sempre più conto che, per usare le parole di Henry Kissinger, «i suoi giudizi sulle tendenze della storia erano sempre perspicaci e spesso profondi». Il che non è davvero poco.

Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” il 20 dicembre 2020. Nelle elezioni del novembre 1919 Mussolini prese, con i suoi Fasci di Combattimento, poco più di quattromila voti e nessun deputato. Meno di due anni dopo, alle politiche del maggio 1921, ottenne 35 deputati, lui in testa. Non avrebbe ottenuto un risultato così clamoroso se Giovanni Giolitti, capo del governo, non avesse accolto i fasci nei Blocchi Nazionali: il duce ebbe la sua fiducia anche tradendo Gabriele d' Annunzio, che dal settembre 1919 al Natale del 1920 aveva occupato Fiume con i suoi legionari. Fin dall' inizio dell' Impresa di Fiume, Mussolini aveva messo sé e i suoi uomini a disposizione del Vate e aperto sul suo giornale una sottoscrizione il cui ricavato terrà in gran parte per rafforzare i fasci. Nel 1920 il suo movimento poteva essere ancora considerato antigovernativo, almeno finché in novembre Giolitti concluse a Rapallo il trattato di pace con la Jugoslavia che stabiliva i confini fra i due Paesi. A quel punto doveva chiudere la vicenda di Fiume, ma il poeta non aveva intenzione alcuna di lasciare, per un trattato che considerava iniquo, la città dove aveva iniziato una rivoluzione politica, culturale, sociale che avrebbe voluto diffondere in Italia e nel mondo. Già in ottobre il duce aveva incontrato segretamente il prefetto di Milano, Alfredo Lusignoli, intermediario privilegiato tra lui e il governo. Si videro in prefettura, nello stesso palazzo di corso Monforte da cui venticinque anni dopo Mussolini uscirà per cercare salvezza e trovare la morte. Mussolini propose soluzioni di accordo internazionale che di certo non sarebbero piaciute a d' Annunzio e le propose anche al ministro degli Esteri Sforza, che lo riceve in un giro di colloqui con i direttori dei principali quotidiani. Quando, poco prima di Natale, d' Annunzio mandò un emissario a Mussolini per assicurarsi il suo appoggio, il duce rispose: «Quel tuo poeta è grande, ma è pazzo! Noi i questurini li abbiamo alle costole giorno e notte... e ci arresteranno tutti da un momento all' altro...». Il Comandante, come chiamano d' Annunzio, ingenuamente crede si tratti di tatticismo politico e continua a contare, per resistere, sull' appoggio di Mussolini e dei suoi fascisti, oltre che sulla ribellione di una parte dell' esercito italiano. Giolitti alla vigilia di Natale ordina l' attacco militare alla città, contando sul fatto che il 25 e a Santo Stefano i giornali non sarebbe usciti. Mussolini ha dato ordine ai suoi uomini, specialmente a quelli di Trieste, di non intervenire. Dopo una tregua il giorno di Natale, alle 10 di Santo Stefano i regolari muovono l' assalto, e l' ammiraglio Simonetti, comandante delle forze di mare, prima fa puntare i cannoni sulle navi dei legionari, poi la corazzata Andrea Doria si dispone in posizione di tiro davanti al Palazzo del Governo. D' Annunzio sta organizzando la battaglia assieme ai suoi ufficiali, chino su un tavolo pieno di carte. L' architrave della finestra vola in pezzi, lui viene investito dai calcinacci che gli graffiano il cranio, quattro ufficiali irrompono nell' ufficio e lo trascinano via. Lungo lo scalone giace il corpo di un sergente, uno degli uomini di guardia, colpito da una scheggia nella schiena. D' Annunzio è sconvolto: l' esercito italiano - l' Italia - gli ha sparato, speravano di ucciderlo. Sparandogli, l' Italia ha dimostrato di non meritare la sua vita. Scrive, nel proclama Agli italiani del 28 dicembre: «O vecchia Italia, tienti il tuo vecchio che di te è degno. Noi siamo d' un' altra Patria e crediamo negli eroi». Alla resa, poco dopo, si calcola che la battaglia ha provocato più di 50 morti 25 soldati, 22 legionari, 6 civili - e oltre 200 feriti: niente rispetto alle carneficine della guerra, ma una cifra spaventosa in tempo di pace e in un combattimento fratricida anche se l' Italia, di lì a poco, si dovrà abituare a altre vittime in tempo di pace. Stanno per iniziare gli anni dello squadrismo fascista. L' accordo viene firmato alle 16.30 del 31 dicembre. Il 6 gennaio d' Annunzio convoca un ultimo gran rapporto con gli ufficiali del Comando. «Il fascismo uscì condannato dal discorso del Comandante», ricorda uno dei presenti, e il poeta vietò ai suoi di entrare nel movimento fascista. Non sarà così. Il Vate si sarebbe ritirato al Vittoriale, mai fascista ma godendo degli onori che il fascismo gli tributava. Il fascismo avrebbe preso da Fiume, più che uomini, riti e miti, ma ignorando il programma di rinnovamento radicale dello Stato sulla base della Carta del Carnaro, la costituzione avanzatissima che d' Annunzio aveva scritto per Fiume. Si dette così un' immagine eroica, ma mai si sarebbe sentito, durante il regime fascista, il saluto finale che aveva lanciato dal balcone del municipio di Fiume: «Viva l' amore. Alalà!».

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 20 dicembre 2020. Quando Galeazzo Ciano, da ministro degli Esteri dell'Italia fascista, veniva in visita a Berlino, la sera amava andare al cinema. Ma invece di scegliere il celebre Ufa-Palast am Zoo o le eleganti sale del Ku' damm, il genero di Mussolini era stranamente fissato con un piccolo cinema nel quartiere di Charlottenburg, il Kurbel. Arrivava quasi sempre accompagnato da un paio di diplomatici e dall'interprete, Eugen Dollmann. È stato quest' ultimo a rivelare nelle sue memorie che Ciano in realtà non fosse per nulla interessato al film. Non appena si spegnavano le luci infatti, il conte sgattaiolava da una delle uscite di emergenza per raggiungere la sua vera meta: situato a pochi metri dal cinema, al numero 11 della Giesebrechtstrasse, Salon Kitty era il bordello più lussuoso della città, tollerato e protetto dalle autorità naziste nonostante la prostituzione fosse illegale.  La visita del marito di Edda Mussolini nella maison durava più o meno il tempo della proiezione. Pochi minuti prima della fine, il ministro era di nuovo seduto in sala pronto a uscire insieme ai suoi accompagnatori. Ma Salon Kitty non era soltanto un Edel-Puff , una casa di tolleranza d'alto bordo. Era una vera e propria centrale di spionaggio del regime hitleriano. La storia non è nuova, ma è sempre stata circondata da miti e leggende, pettegolezzi e cose inventate di sana pianta, romanzata prima da Peter Norden nell'omonimo racconto del 1970 e poi banalizzata qualche anno dopo da Tinto Brass, nel film con Ingrid Thulin e Helmut Berger, un kitsch di svastiche, perversioni erotiche sadomaso e spie in guepière. Ora però due autori tedeschi, Julia Schrammel e Urs Brunner, hanno per la prima volta ricostruito la vicenda della maison basandosi su documenti, fotografie, memorie e sulle testimonianze degli ultimi superstiti. Appena uscito per i tipi di Berlin Story Verlag, Kittys Salon è il primo tentativo rigoroso di raccontare la verità, reale o intuita, di una delle pagine meno conosciute e più piccanti della dittatura nazionalsocialista. Bisognerebbe anche aggiungere una delle più ipocrite, visto lo scrupolo feroce con cui il regime metteva in campo le sue continue repressioni violente contro le prostitute. L'idea originaria venne nel 1938 a Reinhard Heydrich, generale delle SS, capo dei Servizi di sicurezza, fedelissimo di Himmler e soprattutto futuro architetto della Soluzione Finale, lo sterminio degli ebrei d'Europa. Fu lui insieme a Walter Schellenberg, che poi sarebbe diventato l'ultimo capo del controspionaggio di Hitler, a organizzare l'apertura di un bordello a cinque stelle con le più belle prostitute sul mercato, dove attirare diplomatici stranieri, imprenditori o anche alti papaveri del regime per carpirne confidenze e segreti. Avevano però bisogno di una madame complice che gestisse l'impresa. La scelta cadde su Katharina Emma Sophie Schmidt, meglio conosciuta come Kaetchen e poi come Kitty, amburghese d'origine e già tenutaria di diversi postriboli berlinesi, luoghi di piacere clandestini sempre a rischio di essere chiusi dal regime. Costringerla non fu difficile. Fermata al confine con l'Olanda mentre cercava di emigrare in Inghilterra con tanta valuta pregiata in tasca, Kitty venne posta di fronte alla classica offerta che non si può rifiutare: o accettava di cooperare con il piano o finiva in un campo di concentramento. Così Salon Kitty venne aperto sulla Giesebrechtstrasse all'inizio del 1939 e subito diventò l'indirizzo più hot e ambito dagli uomini di potere o di denaro, tedeschi e stranieri. Ci andavano i ministri in visita, gli ambasciatori e i loro sottoposti: Mario Luciolli, segretario d'ambasciata a Berlino tra il 1940 e il 1942 e futuro ambasciatore a Bonn, indulge nelle sue memorie sulle ore passate al Salon Kitty in un'atmosfera quasi familiare. Ma utente affezionato era anche il capo della propaganda nazista, Joseph Goebbels, notorio puttaniere. Distribuito su due piani, il bordello era arredato con opulenza, serviva solo champagne, aveva nove boudoir con salottino e vasca da bagno ed era infestato di microfoni e cimici collegati a una stanza d'ascolto nel seminterrato. La vera attrazione erano venti ragazze di rara bellezza, che avevano una tariffa più alta delle altre e che erano state scelte una per una dopo una grande retata in tutta Berlino.  Furono addestrate per quasi due mesi: dovevano essere brillanti, saper conversare in almeno due lingue tra inglese, francese, italiano e spagnolo, vestire con eleganza seducente, truccarsi in modo non volgare, ma soprattutto dovevano saper riconoscere le uniformi militari, ammaliare i diplomatici di rango, farli bere e parlare senza remore. Nessuna di loro sapeva dei microfoni, ma dopo ogni incontro dovevano fare un rapporto scritto. Solo quando il cliente era Reinhard Heydrich, i microfoni venivano spenti e il resoconto non era dovuto. Una delle ragazze era Liesel Ackerman. Aveva 27 anni nel 1940 quando il commissario di polizia che l'aveva arrestata per esercizio della prostituzione la mise davanti all'alternativa: lavorare in una fabbrica di carri armati o entrare nella maison di Kitty. Non ci pensò a lungo. È stata lei a raccontare in una testimonianza del 1976, ora ripresa nel libro di Schrammel e Brunner, che Galeazzo Ciano, pur «tenero cavaliere», a letto non si toglieva mai i calzini neri. Ciano però non diede grandi soddisfazioni a Heydrich e Schellenberg, a parte ammettere in una conversazione registrata che lui e il suocero prendevano spesso in giro Hitler chiamandolo «piccolo clown». In realtà, il ministro italiano sembra aver avuto contezza delle trame ordite in Salon Kitty: «Heydrich dev' essere scemo se pensa che io non sappia dei suoi scherani nascosti nella stanza accanto. Non dovrebbe mettere i microfoni proprio sotto il cuscino», avrebbe detto una volta a Dollmann, almeno stando a quest' ultimo. Salon Kitty godeva della piena protezione della Gestapo, che nella sua dettagliata lista di bordelli clandestini operanti a Berlino fingeva di ignorarne l'esistenza. Gli affari andavano a gonfie vele. Solo nel 1940, raccontano gli autori, ebbe 10 mila clienti, una media di 30 al giorno. Talmente forti erano le coperture e i mezzi finanziari che quando nel 1943 l'appartamento fu colpito da una bomba alleata, Kitty Schmidt poté subito trasferirsi su un altro piano e continuare l'attività. E questo nonostante un anno prima Heydrich, il primo protettore, fosse morto in un attentato dei partigiani cechi a Praga. Più longevi del Reich millenario, Kitty e il suo Puff andarono avanti ben oltre la Stunde Null , la sconfitta tedesca del 1945. In pratica la « madame » non chiuse mai battenti, sia pure cambiando nome e accogliendo i clienti prima nella Kunstlerpension , pensione degli artisti, e poi nella Pension Florian fino al 1954, quando si spense all'età di 72 anni.

Skorzeny, il nazista che liberò il Duce e lavorò per Cia e Mossad. L'epopea di Otto Skorzeny, il fanatico nazista che liberò Mussolini, lavorò per la CIA, e finì a uccidere per conto del Mossad. Scrisse un libro sulla sua vita, lo intitolò "Vivere pericolosamente". Davide Bartoccini, Giovedì 31/12/2020 su Il Giornale. Alto, quasi ingombrante, con una lunga e profonda cicatrice da Mensur - il duello degli accademici pangermanisti - che gli solca la guancia destra e un sorriso fanciullesco. Otto Skorzeny, austriaco di Vienna e nazionalsocialista della prima ora, calpesta con una certa baldanza il prato di Campo Imperatore. Accanto a lui, incede un commando di paracadutisti che rispondono direttamente ai servizi segreti del Reich, e un uomo importante, vestito di nero, con l'espressione sommessa e imbarazzata di chi, per la prima volta, è il complemento e non il soggetto. Sotto il cappello a falda nera, infatti, si può intravedere il sorriso intimidito di Benito Mussolini: il Duce degli italiani che in quell'estate del 1943 era stato destituito dal generale Badoglio, e che per ordine diretto del führer - "Lei salverà un mio amico", gli disse - è stato appena "liberato" dall'uomo più pericoloso d'Europa, che con i suoi diavoli verdi è planato su ali d'aliante nell'Italia oramai cobelligerante degli Alleati. Sebbene gli storici si contraddicano riguardo al merito di quel successo, fu il colosso Skorzeny l'eroe di quel giorno; il protagonista autoreferenziale dell'Operazione Quercia: l'impresa storica sulla quale avrebbe costruito un'invidiabile e rapida ascesa militare. Arruolatosi con la velleità di diventare un pilota da caccia della Luftwaffe - velleità svanita tra il suo metro e novantadue d'altezza e i suoi cento chili di peso, che non erano proprio contemplati dai progettisti di aerei - entrò nelle Waffen-SS, il corpo combattente del squadre di sicurezza di Hitler per poi finire a guidare i meno noti commando nazisti, emuli delle squadre britanniche che facevano infuriare Hitler con i loro missioni di sabotaggio. Promosso al grado di tenente colonnello, dopo aver salvato il Duce con un colpo di mano che era stato glorificato dal führer, riceverà una serie di incarichi "particolarmente pericolosi". Incarichi che lo vedranno sempre a capo di reparti Brandenburg - inquadrati nell'Abwehr, i servizi segreti tedeschi comandati dall'ammiraglio Canaris - formati per portare a termine missioni estremamente complesse: dal rapimento del figlio del reggente d'Ungheria, alla temeraria conquista di obiettivi strategici come i ponti sulla Mosa che vide l'impiego di soldati tedeschi esperti nella lingua e negli slang degli "yankees" con indosso uniformi americane, per portare a termine una serie di incursioni e operazioni di disturbo dietro le linee nemiche. Azioni decisive e inaspettate nella prima fase della battaglia delle Ardenne. Sopravvissuto alla guerra, come tutti gli ufficiali della macchina dello sterminio nazista viene arrestato e processato per crimini di guerra a Norimberga. Verrà accusato principalmente della violazione delle convenzioni di Ginevra, per aver utilizzato quelle uniformi americane per ingannare gli Alleati e portar battaglia dietro le linee nemiche. Ma saranno gli stessi americani a rendergli salva la vita: in parte perché anche gli alleati impiegarono quello stesso escamotage per colpire alle spalle il nemico; in parte perché l'Oss (che pochi anni dopo sarebbe diventato la Cia) gli aveva già messo gli occhi addosso, per usarlo, come valse per molti altri nazisti, contro i sovietici. In quel conflitto bipolare che già incombeva sul mondo. Condannato comunque a scontare una breve pena in carcere, riuscì ad evadere con l'aiuto di alcuni conniventi non meglio identificati, per fuggire nella Spagna franchista, dove si erano già rifugiati altri ex-nazisti come lui grazie alla cosiddetta organizzazione "Ragno": azione finalizzata ad emulare "Odessa", la migrazione dei superstiti nel regime nazista in Sud America. Lì si rifarà una vita, prendendo moglie dopo essere stato - si mormorava - uno degli amanti di Evita Peron. Una vita appartemente tranquilla, almeno fin ad una calda giornata dell'agosto 1962, quando due uomini presentati come agenti della Nato, si riveleranno essere due spie israeliane che si sono prese la briga di andare a cercarlo fino a Madrid. Seduto davanti al loro, nel salone della sua villa, chiederà senza scomporsi, ma con un revolver carico nella mano: "Siete venuti per uccidermi, come avete fatto con Eichmann?". La risposta di Zvi Zamir (futuro capo dei servizi segreti israeliani) lo sorprenderà. Il Mossad voleva comprarlo, per uccidere altri nazisti in cambio di una promessa: la garanzia di non fargli fare la fine di tutti i nomi che compaiono nell'elenco dell' "Istituto" e dei cacciatori di nazisti della Wiesenthal. Del resto, Skorzeny aveva dimostrato di essere "al corrente" delle vendette ebraiche, e della fine che spettava agli uomini come lui. L'obiettivo della sua nuova missione pericolosa è Heinz Krug, uno scienziato tedesco che aveva lavorato al programma missilistico nazista nella base di Peenemünde - dove venivano sviluppare le bombe volanti V1 e V2. L'uomo aveva rifiutato l'offerta di Von Braun di passare dalla parte degli americani, preferendo il programma missilistico egiziano. Se Il Cairo avesse raggiunto una supremazia strategica nel Medio Oriente, per prima cosa avrebbe spazzato via il neonato Stato Ebraico. E quello era uno dei primi problemi del Mossad. Così l'ex eroe nazista, insieme a Yitzhak Shamir, futuro premier di Israele, e Zvi Malkin, membro della squadra che rapì Eichmann in Argentina, farà "sparire nel nulla" lo scienziato, per giustiziarlo con un colpo alla testa in una foresta alla periferia di Monaco, davanti agli occhi dei suoi nuovi reclutatori. Un metodo che le Ss conoscevano bene - soprattutto quelle che come Skorzeny avevano servito sul fronte Orientale. Non sarà l'unico nazista ad essere intercettato dagli israeliani con l'aiuto di Skorzeny. La collaborazione tra lui e il Mossad durerà fino al 1965, quando la sua gola profonda in Egitto viene smascherata dal mukhabaràt. Ma non è quella la fine della sua vita pericolosa. Ciò che intriga maggiormente del personaggio, a tutt'oggi, sono infatti alcune testimonianze pervenute in un secondo momento sul ruolo di Skorzeny come fiancheggiatore della Cia. E alcune informazioni che avrebbe ottenuto nel contesto della Guerra Fredda, e delle reti occulte che si movevano nel cuore delle Nato per contrastare, in caso si fosse giunti alla guerra, l'invasione comunista. Membro dell'organizzazione Ragno, stimato nei circoli degli ex-nazisti e dai nuovi volti della destra sovversiva italiana per via delle sue "azioni di guerra", spia capace e doppiogiochista all'occorrenza, Skorzeny non aveva alcuna difficoltà ad avvicinare gli uomini chiave che avevano combattuto dalla sua stessa parte. E quella era una qualità che i servizi segreti americani avevano riscontrato in lui già nel 1947, quando venne assolto a Norimberga. Secondo alcune testimonianze, tra le quali compare quella di Adriano Monti - complice di Junio Valerio Borghese nel tentato golpe del 1970 -, Skorzeny nel dopoguerra sarebbe stato uno gli uomini di Reinhard Gelhen, capo dell'intelligence della Germania Ovest che fiancheggiava le operazioni della CIA. Sebbene dopo i primi anni '50 non sia mai tornato in Germania, Skorzeny avrebbe ugualmente intrattenuto rapporti con l'intelligence tedesca, e probabilmente americana. L'uomo sarebbe stato per questo al corrente di strategie anti-comuniste che avrebbero interessato il blocco occidentale. Tra queste il succitato colpo di stato progettato del principe Borghese, anche lui esiliato in Spagna. Secondo una dichiarazione di Skorzeny, il "garante politico" dell'operazione abortita sul nascere sarebbe stato Giulio Andreotti. Lo stesso anno del golpe borghese, uscirà in Italia il libro autobiografico scritto dall'ex eroe nazista. Intitolato "Vivere pericolosamente". Un incipit adeguato, per il racconto della vita di un uomo che aveva iniziato a praticare il duello "alla misura" da adolescente; che era stato commandos nazista e informatore fidato di Hitler, fonte dei servizi segreti americani durante la Guerra Fredda, doppiogiochista all'insaputa dei suoi ex camerati, e killer per conto del Mossad.

Tutta la verità sulla fine dello Scirè, il glorioso sommergibile dei "Maiali". Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 gennaio 2021.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Era il terrore degli inglesi e, quando fu a tiro, la Royal Navy volle prendersi tutti i meriti del suo affondamento. Gran parte di quanto sappiamo sulla fine del nostro sommergibile Scirè si deve allo storico e subacqueo Fabio Ruberti che, in un volume di 350 pagine appena pubblicato, raccoglie i risultati di più di 12 anni di ricerche sul relitto. L’autore ricostruisce minuto per minuto (su documenti inglesi e italiani) la missione e il combattimento, avvenuto il 10 agosto 1942 davanti al porto di Haifa, nell’allora Palestina Britannica, oggi Israele. Lo Scirè è il simbolo di un’Italia che, con scarsi mezzi, inventiva e coraggio oltre le possibilità umane riusciva ad ottenere risultati strabilianti.  Il battello era stato adattato per trasportare i famosi “Maiali” o Siluri a lenta corsa (SLC), sistemi d’arma geniali messi a punto da Teseo Tesei ed Elios Toschi, che venivano guidati da due subacquei sotto le chiglie avversarie per minarle con una carica esplosiva. Sia lo Scirè che gli SLC appartenevano alla X Flottiglia MAS della Regia Marina; nel settembre ’41 arrivano i primi successi con due navi cisterna e un cargo armato britannici affondati/danneggiati gravemente nel porto di Gibilterra. Tuttavia, la missione più famosa dello Scirè fu in dicembre, sotto il comando del principe Junio Valerio Borghese, contro la base di Alessandria d’Egitto quando i Maiali riuscirono a penetrarvi sorpassando mine e recinzioni subacquee e a danneggiare gravemente due corazzate: la Valiant, la Queen Elizabeth, il cacciatorpediniere Jervis e la petroliera Sagona, incendiata. I Britannici vivevano, quindi, con l’incubo di essere affondati persino nei loro stessi porti. Nell’estate del ‘42, temendo l’avanzata di Rommel in Egitto, la Royal Navy trasferì gran parte della propria flotta dal porto di Alessandria a quello di Haifa. La Regia Marina progettò contro questo, per agosto, la Missione S.L.1  affidandola allo Scirè, sotto il comando del Capitano di Corvetta Bruno Zelik:. Si sarebbero impiegati non gli SLC, ma gli Uomini-Gamma, una nuova specialità della X MAS: undici subacquei incursori che, a nuoto, avrebbero minato le navi inglesi ad Haifa, così come avevano già danneggiato quattro grossi piroscafi a Gibilterra il 14 luglio. I britannici, però, stavolta intercettano e decrittano con il sistema “ULTRA Secret” le comunicazioni italo- tedesche, preparando un’imboscata. Fra le scoperte di Ruberti – autore anche della prima accurata elaborazione in 3D del relitto – c’è che, per proteggere il porto di Haifa, gli inglesi disponevano anche di un segretissimo sistema antisommergibile: un sistema di cavi speciali depositati sul fondo, denominato indicator loops, che individuavano tramite le variazioni elettromagnetiche il passaggio di grosse masse metalliche. Innumerevoli reperti di questi cavi sono stati infatti ritrovati collegati in mare e in terra alle casematte di rilevazione. Considerando che gli Uomini Gamma si sarebbero mossi a nuoto, lo Scirè doveva avvicinarsi al nemico più che nei casi in cui lanciava gli SLC; in tal modo passò sopra gli indicator loops dai quali partì l’allarme sulla presenza di un sommergibile proveniente da 357° (nord). Dal porto inglese fu inviato in caccia il peschereccio armato  Islay che cominciò a sganciare bombe di profondità: una di queste danneggiò lo Scirè a prua, costringendolo a riemergere. I tre cannoni inglesi da 155 mm del 14° Reggimento Artiglieria Costiera, posizionati sul Monte Carmelo e già pre-allertati, fecero fuoco con due salve e centrarono il battello con un colpo a proravia della torretta. Lo Scirè cominciò a inabissarsi di prora e, dato che il fondale era di appena 33 metri, prima si impuntò sul fondo e poi, in otto minuti, affondò. Gli uomini che si erano salvati dalle esplosioni si radunarono a poppa, qualcuno tentò di uscire dallo scafo, ma il repentino affondamento impedì ogni salvezza. Alla Royal Navy, poi, occorreva “spargere il sale” sul nemico vinto e inviò alcune ore dopo, al ritorno da Beirut, due cacciatorpediniere, il Croome e il Tetcott a scaricare altre bombe di profondità sul relitto per “accertarsi che la distruzione dello Scirè fosse definitiva”. Per decenni la marina britannica ha tenuto segreto sia l’intervento dell’artiglieria costiera (per non dividere il merito con l’esercito di Sua Maestà?), sia il fatto che avesse affondato il sommergibile grazie alla capacità di decrittazione delle macchine Enigma e di altri sistemi. Fino agli anni ’80, infatti, molti paesi continuavano a usare la macchina crittografica tedesca e la Gran Bretagna voleva continuare, indisturbata, a sfruttare questa superiorità di intelligence. Nel 1984, la nostra Marina recuperò gran parte dei resti dell’equipaggio dello Scirè: furono trovati tutti a poppa, uno nella garitta di decompressione, morto nel tentativo di uscire, ma sedici membri dell’equipaggio sono tuttora dispersi fra le lamiere. Negli anni ‘60, parti di scafo furono sezionate ed oggi si trovano ben conservate in vari musei italiani, fra i quali il Sacrario delle Bandiere al Vittoriano. La mitragliera antiaerea Breda Mod. 31 da 13,2 mm, invece, nonostante le segnalazioni di Giulio Cozzani, fondatore del Comitato “M.A.S.-Valorizziamo Bocca del Serchio”, continua, invece, ad essere divorata dalla ruggine all’aperto fra le erbacce di un bastione della Fortezza di Pistoia. Ne abbiamo già scritto qui. Una protezione istituzionale, mediante accordi bilaterali italo-israeliani, sarebbe indispensabile, anche per i resti dello Scirè sui fondali dove riposa dal ‘42.

L'incubo italiano degli inglesi: chi era Amedeo Guillet, il "comandante Diavolo". Leggende e battaglie del "Comandante Diavolo" Amedeo Guillet nel pieno della campagna d'Africa Orientale. Andrea Muratore, Mercoledì 30/12/2020 su Il Giornale. 17 maggio 1941: il Duca Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia e comandante delle forze italiane in Africa Orientale, si arrende assieme alla guarnigione dell'Amba Alagi di fronte a soverchianti forze britanniche e dei reami del Commonwealth guidate dal generale Alan Cunningham, sancendo l'inizio della fine della breve avventura coloniale italiana nell'ex Abissinia, occupata tra il 1935 e il 1936 su ordine di Benito Mussolini. Molto spesso dimenticata dalla storiografia maggioritaria, però, è l'epopea personale degli ufficiali e dei combattenti italiani e coloniali che, dopo la sconfitta del Regio Esercito, non capitolarono assieme al resto dell'armata in Africa Orientale ma condussero, nei mesi finali della campagna e in quelli successivi, guerriglie personali contro le forze britanniche ed etiopi fatte di azioni "mordi e fuggi", raid e azioni diversive. Quando il viceré si arrese ai britannici la più celebre di queste bande combattenti era già attiva e mobilitata, operando sotto il comando del tenente Amedeo Guillet. Piacentino, classe 1909, proveniente da una nobile famiglia piemontese, formato all'Accademia Militare di Modena come cavalleggero e divenuto tra i maggiori talenti italiani dell'equitazione, Guillet vide i suoi destini legati inscindibilmente all'Africa da quando, nel 1935, fu chiamato a comandare un reparto di spahis libici nelle azioni d'apertura della campagna italiana in Africa Orientale contro l'impero di Hailè Selassiè. La guerra impedì, peraltro, a Guillet di partecipare alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Tra la Libia, l'Africa orientale e la Spagna, nella cui guerra civile fu al comando di un reparto di cavalleria marocchina, Guillet si plasmò come uno dei migliori ufficiali della cavalleria coloniale del Regio Esercito. Un particolare pregio apprezzato dalle truppe coloniali al comando di Guillet era la sua profonda conoscenza del mondo islamico, la padronanza della lingua araba e dei costumi delle società di provenienza delle sue truppe (in larga parte beduini) e il rispetto per le differenze tra popoli e culture. Nel 1937 il governatore della Libia Italo Balbo scelse, a tal proposito, proprio Guillet per organizzare la celebre cerimonia in cui a Mussolini fu conferita la spada dell'Islam durante una visita a Tripoli. L'uomo che nel 1939 fu chiamato dal viceré Amedeo a comandare in Etiopia un reparto di truppe indigene eritree era dunque un ufficiale unico nel suo genere nel panorama italiano. Il tenente Guillet plasmò così il Gruppo Bande Amhara, un reparto forte di 1700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita inquadrati da ufficiali italiani. Guillet raccolse sotto i comuni simboli della croce cristiana e della mezzaluna islamica, preferiti ai simboli del fascismo, le identità minori di un'Africa orientale ai bordi del Secondo conflitto mondiale e le strinse in un manipolo compatto che vive oltre la battaglia e le sue regole

Comandante estremamente empatico e diverso dagli ufficiali coloniali medi del tempo, scevro da qualsiasi pregiudizio razzista o da pensieri concernenti presunte superiorità etniche o morali dei colonizzatori sui colonizzati, Guillet forgiò un forte spirito di corpo che tornò utile alla sua unità quando, tra la fine del 1940 e l'inizio del 1941, l'impero africano dell'Italia iniziò a esser travolto dalla marea montante dell'offensiva britannica in seguito alla dichiarazione di guerra di Mussolini del giugno 1941. Guillet capì che di fronte alla minorità italiana e alla preponderanza di mezzi e risorse del nemico l'unica soluzione per le sue forze poteva essere l'avvio di campagne di guerriglia e di incursioni contro le avanguardie britanniche, costituite dalla potente "Gazelle Force". "Il 19 gennaio, la IV e la V Divisione indiana", racconta John Keegan in "La Seconda guerra mondiale", "attraversarono il confine a Nord del Nilo Azzurro e incontrarono scarsa resistenza, anche se a un certo punto vennero caricate da un ufficiale italiano su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri Amhara lanciata alla disperata contro le loro mitragliatrici". Quell'ufficiale era Amedeo Guillet, che andò vicino a travolgere e catturare il comando nemico. Colpendo con sciabole, pistole, bombe a mano le truppe appiedate e i reparti blindati britannici, attaccando di sorpresa e dando vita all'ultima carica di cavalleria della storia africana Guillet e i suoi, con un conto di perdite salatissimo (800 tra morti e feriti) evitarono la rotta delle truppe italiane permettendone la ritirata verso la piazzaforte di Agrodat. Montando il suo cavallo bianco Sandor e colpendo retroguardie, colonne logistiche e reparti isolati Guillet e la sua armata contribuirono nelle settimane successive a dare fiato alle truppe italiane tagliate fuori da ogni collegamento con la madrepatria. Scriveva nel 2004 Il Foglio: "Le imprese del Cummundar-as Sbeitan, il Comandante Diavolo, e dei suoi cavalieri del Gruppo Bande Amhara, danno molto filo da torcere agli inglesi che gli dedicano tuttora ammirati articoli di giornale. Amedeo Guillet è l'italiano che smentisce il luogo comune, ben diffuso tra i britannici, secondo il quale gli italiani sarebbero "useless in combat", inetti in battaglia, mentre "The Italians' last action hero" è il titolo con cui l'Observer ha presentato la biografia di Guillet scritta dal giornalista Sebastian O'Kelly e intitolata "Amedeo. A true story of love and war in Abyssinia". Mentre le fortune italiane in Etiopia andavano declinando, ad aprile Guillet prese la decisione di condurre in Eritrea un'estrema resistenza organizzata, assumendo il nome di battaglia di "Cummandar es Sciaitan" (Comandante Diavolo), radunando attorno a sé un centinaio di suoi fedelissimi ex-soldati indigeni e dando continuamente filo da torcere alle truppe di Sua Maestà. Guillet fu oggetto di timore e ammirazione tra i britannici, come detto in precedenza stupiti e irritati dalle azioni coraggiose di un imprendibile maestro della guerriglia. Specie considerato il fatto che altri gruppi simili a quello di Guillet andavano costituendosi in Africa Orientale, dai Figli d'Italia, formati da reparti di camicie nere, al Fronte della Resistenza composto da militari sbandati del Regio Esercito. Quando a ottobre 1941 l'Impero di Mussolini era ormai un ricordo e anche per l'Italia le sorti della guerra iniziavano a farsi pericolosamente preoccupanti, Guillet pensò che tentare il ritorno in patria e non sottoporre ulteriormente i suoi uomini a sacrifici e rischi ulteriori fosse la scelta migliore. Si installò in Eritrea, sotto falso nome, nella città di Massaua. Ahmed Abdallah al Redai, questo il suo pseudonimo, lavorò come scaricatore di porto, subì rapine e pestaggi da parte di contrabbandieri, raggiunse infine il neutrale Yemen. Qui, prosegue Il Foglio, "raggiunta Hodeida Guillet va a Sanaa dove è ricevuto dall'iman Yahiah che gli offre ospitalità, protezione e il grado e lo stipendio di colonnello yemenita. Per l'iman l'Italia è un paese amico, il primo ad averne riconosciuto l'indipendenza dalla Turchia". Guillet lavora al fianco della famiglia reale, fa il precettore dei principi per un anno ma nonostante sulla sua testa penda la condanna a morte degli inglesi per il suo ruolo di "bandito", vuole tentare il ritorno in patria: "con l'aiuto dell'iman si imbarca infine per Massaua, nel giugno del 1943. Da lì come clandestino sale sull'ultima delle tre navi della Croce Rossa Italiana; per non essere riconosciuto dalla scorta britannica, con la complicità del capitano, viene nascosto nel reparto dei malati di mente". Tornò in Italia il 3 settembre 1943, mentre a Cassibile veniva firmato l'armistizio siglato dal governo Badoglio. Dopo il suo annuncio, cinque giorni dopo, la fedeltà al giuramento per il Re ebbe in lui la meglio: attraversò la linea Gustav, giunse a Brindisi e si arruolò nelle forze italiane che lavoravano alla nascita dell'esercito post-fascista. Guillet lavorò fino a fine guerra nel Servizio d'informazioni militari (Sim) e, dopo la fine della guerra e della monarchia, nel 1947 iniziò una lunga carriera diplomatica che lo avrebbe portato a essere incaricato d'affari nello Yemen che lo aveva accolto e poi ambasciatore in Giordania, Marocco, India. Senza mai scordare la terra in cui costruì la sua leggenda militare, quell'Eritrea che lo avrebbe riaccolto, oramai novantenne, come un antesignano della lotta di liberazione nazionale. Strinse la mano al presidente Isais Afewerki e incontrò, per l'ultima volta, gli ex compagni d'arme sparsi tra Asmara e Massaua. Guillet morì più che centenario nel 2010, dopo esser stato onorato del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Militare d'Italia dal presidente Carlo Azeglio Ciampi. Di lui restano i ricordi e l'epopea romantica di un ufficiale che seppe negare sul campo il mito dello scontro di civiltà e tenere alto l'onore militare dell'Italia e di un'armata abbandonata al destino della disfatta da un regime imbelle e lontano. Il Comandante Diavolo costruì una di quelle leggende contemporanee che solo l'Africa è capace di creare e seppe conquistare, sul lungo periodo, l'onore e il rispetto di quei nemici che lo avevano a lungo cercato invano. Vittorio Dan Segre, biografo di Guillet, scrisse che "Lawrence d'Arabia aveva dietro di sé un impero che lo sosteneva e milioni di sterline d'oro con cui comprava la fedeltà. Amedeo Guillet non aveva un becco d'un quattrino, non aveva il sostegno di nessun impero e di nessuna forza politica". Ma seppe creare un'epopea militare e umana contemporanea. Andando oltre e mostrando la pusillanimità di qualsiasi retorica che parli di scontri di civiltà.

·        Le cose buone.

Black pass. La vera dittatura sanitaria e le cavie umane di Mussolini. Riccardo Chiaberge su L'Inkiesta il 27 Luglio 2021. Dal 1925 al 1929 il Duce diede l’autorizzazione a due oscuri ricercatori iscritti al partito, Giacomo Peroni e Onofrio Cirillo, di condurre un esperimento su larga scala a spese di centinaia di persone povere e vulnerabili, in violazione di ogni norma di etica professionale. I salutisti romani di Casa Pound e dintorni, che vanno in piazza con la stella gialla dei non vaccinati, i grillocomunisti torinesi che vedono nel green pass uno strumento subdolo di esclusione sociale e i travaglisti che contestano la competenza di Mario Draghi in campo medico, avrebbero tutti bisogno di un ripassino di storia. Perché una dittatura sanitaria (e non solo) in Italia l’abbiamo avuta, ed è stata quella del capo del fascismo ed ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini. Allora, al posto del Covid, c’era la malaria. E nel 1925, con il pretesto delle ricorrenti epidemie, il Duce da tre anni al potere diede l’autorizzazione a due oscuri ricercatori iscritti al partito, Giacomo Peroni e Onofrio Cirillo, di condurre un esperimento su larga scala a spese di centinaia di persone povere e vulnerabili, in violazione di ogni norma di etica professionale. Un’impresa degna del dottor Mengele (ne parla lo storico di Yale Frank M. Snowden nel suo straordinario libro La conquista della malaria, Einaudi 2008). I due scelgono un gruppo di duemila lavoratori impiegati nella bonifica di aree malariche in Puglia e in Toscana, gli levano il chinino (un farmaco usato per decenni contro la malattia, e che si era dimostrato efficace nel ridurre la mortalità) e gli somministrano del mercurio, un rimedio già ampiamente bocciato dalla comunità scientifica e dal Consiglio Superiore di Sanità. Obiettivo dell’esperimento, in linea con le aspirazioni del regime, è dimostrare che l’Italia può curare la malaria senza dover dipendere dall’estero (all’epoca i Paesi Bassi hanno il monopolio della produzione di chinino). Una terapia alternativa, autarchica, per fare dispetto a Big Pharma. I prodi camerati dividono le loro cavie in due gruppi: il primo è abbandonato all’infezione, viene cioè mandato a lavorare all’aperto in un ambiente infestato da zanzare anofele senza protezione alcuna, per capire come la malattia si evolva naturalmente nel corpo umano. Al secondo vengono praticate delle iniezioni intramuscolari di mercurio. Quella che i malariologi del littorio chiamano «saturazione» va avanti per quattro anni, fino al 1929. Non si sa di preciso quante vittime e quante sofferenze abbia provocato l’ardito esperimento, anche se Peroni sostiene che i risultati sono stati «splendidi», tanto da proporre di «mercurializzare» l’intero esercito italiano. Di opposto parere il Consiglio Superiore di Sanità: i partecipanti all’esperimento si sono ammalati tutti e il mercurio iniettato si è dimostrato totalmente inefficace. Ma questi per il fascismo sono dettagli, quisquilie rispetto agli interessi superiori della nazione. Anche la bonifica integrale delle paludi pontine, orgoglio dell’impero, «tornante della storia», una delle «cose buone» fatte dal Duce secondo i nostalgici, ha avuto un costo elevatissimo in termini di vite umane. Masse di disperati, disoccupati ed ex combattenti da tutta Italia aderiscono alla chiamata del regime e si riversano in quel lembo di terra desolata, accampandosi in modo precario e in condizioni igieniche disastrose, e sottoponendosi a fatiche disumane in mezzo a nugoli di zanzare. Muoiono a migliaia per incidenti sul lavoro, tubercolosi e ovviamente malaria. Ma che importa: dice Mussolini che la bonifica è come una guerra, e i lavoratori sono soldati che hanno il dovere di morire in battaglia.  Prima della marcia su Roma la lotta alla malaria era stata una delle bandiere del movimento socialista, oltre che dei liberali giolittiani al potere. Per promuovere il chinino di stato nelle campagne, vincendo resistenze e superstizioni, si mobilitavano medici, insegnanti, attivisti e dirigenti di partito, femministe come Anna Kuliscioff e sindacalisti come Argentina Altobelli, leader delle mondine di Federterra, una valorosa riformista che al famoso congresso di Livorno del 1921 si schiererà con Turati contro i comunisti. Nei primi anni del Novecento questione sociale, questione femminile e questione sanitaria sono strettamente intrecciate (come oggi, del resto). La campagna per il chinino trasforma i rapporti di potere, indebolendo i latifondisti e facendo crescere la coscienza di classe dei contadini, ma migliorando anche le loro condizioni di vita e di salute e la loro capacità di difendere i propri diritti.  La dittatura fascista fa tabula rasa di tutto questo, ma costruisce i suoi successi su decenni di impegno militante e di faticose riforme delle odiate élite liberali e socialiste. Archiviata la stagione dei diritti e ridotte al silenzio le poche voci di dissenso, Mussolini era libero di intervenire arbitrariamente su tutto, anche in materia sanitaria, fregandosene della scienza e della competenza. Lo chiamavano il Grande Medico. E se dicevi che il Duce non capiva un cazzo non ti invitavano a Otto e mezzo, ma ti davano prontamente il green pass (anzi il black pass) per una indimenticabile vacanza a Ventotene.

Uccidete Gentile per educarne cento. Marcello Veneziani, La Verità/marcelloveneziani.com 15 aprile 2021. C’è una data, un simbolo e un atto da cui prende origine la cancellazione del pensiero avverso, l’eliminazione con disprezzo di chi non si conforma e l’egemonia culturale. È il 15 aprile del 1944. In quel giorno viene ucciso un filosofo, forse il più grande filosofo italiano del Novecento e il più grande promotore di cultura in Italia. Giovanni Gentile fu filosofo del fascismo e la definizione è vera ma riduttiva: la sua filosofia era già compiuta prima che nascesse il fascismo, la sua impronta culturale va ben oltre il regime; fu gran ministro della pubblica istruzione, fece una vera riforma della scuola, fondò l’Enciclopedia italiana, fondò e diresse istituti di cultura. Fu ucciso da un commando di partigiani comunisti. Non ricostruirò la storia dell’assassinio, i retroscena, i colpevoli. Il miglior libro sul tema, il più onesto, resta quello di Luciano Mecacci, La ghirlanda fiorentina, edito da Adelphi. Eravamo in guerra, il clima era feroce. Ma a Gentile, prima che il suo passato di ministro e di fascista, non si perdonò il suo appello alla pacificazione e a sentirsi italiani prima che fascisti e antifascisti. Inviso anche ai fascisti più fanatici, fu proprio quel suo appello alla concordia a renderlo ingombrante; avrebbe favorito una transizione meno feroce dal fascismo all’antifascismo. Non rivangherò le responsabilità comuniste, l’atto d’accusa di Concetto Marchesi prima dell’omicidio, la “sentenza di morte” emessa contro di lui, poi la dissociazione del Partito d’Azione; e non tornerò sul tema se il mandante fosse Palmiro Togliatti o l’Intellettuale Collettivo. Ne ho scritto abbastanza. Non ci sarebbe comunque da sorprendersi di Togliatti, considerando le sue responsabilità nel massacro degli anarchici da parte dei comunisti in Spagna, sui comunisti italiani rifugiati e trucidati in Unione sovietica, la complicità sulle foibe… Il suo cinismo e il suo allineamento a Stalin non ci impediscono di riconoscere la sua grande intelligenza politica, l’amnistia concessa da Guardasigilli ai fascisti, il suo ruolo di costituente e poi nella repubblica. Togliatti avrebbe potuto giustificare l’esecuzione come azione di guerra ma andò oltre, usando parole sprezzanti. Come sarà per Mussolini e i gerarchi, non bastò “giustiziarli”, ma vi fu lo scempio di Piazzale Loreto; così non bastò uccidere Gentile, si volle fare scempio della sua figura e del suo pensiero. Sull’Unità del 23 aprile del ’44 Togliatti rifiutò il tono rispettoso per un morto, volle scrivere “il necrologio di una canaglia”; “traditore volgarissimo”, “camorrista”, “corruttore di tutta l’intellettualità italiana” (compreso quella che poi passò armi e bagagli al Pci); “intellettualmente disonesto”, “moralmente un aborto”, “un gerarca corrotto”. Dopo di lui infierirono sul cadavere, con odio, Eugenio Curiel e altri intellettuali: “raccattato nell’immondezzaio”, “lenone”, “mediocre vacuo”…Gentile non aveva nulla da guadagnare nell’esporsi con l’ultimo fascismo di Salò, da cui era rimasto fino allora appartato: aveva tanti contro, non aveva mai amato l’alleanza con Hitler, detestava il razzismo; ma per coerenza e carattere non si tirò indietro, come scriverà in Genesi e struttura della società (un libro che ripubblicai con Vallecchi, ora uscito da Oaks a cura di Gennaro Sangiuliano). Si espose, accettò di presiedere l’Accademia e fu ucciso. Era stato fascista e mussoliniano, aveva avuto onori e onorari dal regime, e grande potere; ma era stato anche attaccato da molti fascisti e intellettuali, fu emarginato dal regime dopo i Patti Lateranensi. Per Gentile il fascismo passa ma l’Italia resta, lo Stato viene prima del Partito e la Nazione prima del regime. Aveva difeso e riformato la scuola e l’università italiana, la Normale di Pisa, aveva fondato l’Istituto di studi orientali, l’Ismeo, aveva creato quel monumento alla cultura che è l’Istituto dell’Enciclopedia, la Treccani. E aveva difeso tanti intellettuali antifascisti, dissidenti ed ebrei, ne aveva portati ben 85 – contarono i suoi detrattori in camicia nera – a collaborare all’Enciclopedia; protesse antifascisti militanti come Piero Gobetti che pure lo aveva attaccato e giovani docenti oscillanti tra l’ossequio al fascismo e il larvato antifascismo, come Norberto Bobbio. Era stato, si, paternalista, autoritario, passionale; ma anche generoso, educò ai doveri e al coraggio, difese e diffuse cultura e intelligenza. Il filosofo Antonio Banfi, diventato comunista, commentò sul giornale comunista La nostra lotta l’assassinio di Gentile; dopo una caterva d’insulti, ammetteva trincerandosi dietro un si dice: “Era, si dice, un onesto uomo, affabile, generoso di aiuto, molti protesse e difese in anni tempestosi… Era uno studioso, un filosofo”; ma i tempi erano quelli che erano, richiedevano atti drastici e spietati. E dire che Togliatti, come Gramsci, era stato gentiliano all’epoca di Ordine nuovo, come ammise il cofondatore Angelo Tasca. Dopo la guerra, quando curò per le edizioni di Rinascita il profilo di Marx scritto da Lenin, Togliatti cancellò il riferimento a Gentile, unico citato da Lenin tra i filosofi viventi. La censura ideologica cominciò allora…Uccidere Gentile fu una bestialità coerente al clima generale. Peggio che sparargli fu però infangarlo e diffamarlo dopo morto, usare il suo assassinio come uno spauracchio, volere la sua eliminazione come premessa per instaurare l’egemonia culturale e liberare gli stessi intellettuali all’ombra del Pci dal debito imbarazzante verso di lui. Condannavano il filosofo della dittatura e poi si piegavano al partito di Stalin e al totalitarismo comunista. L’uccisione di Gentile fu un parricidio culturale e insieme un avvertimento e un esempio, da seguire seppure in forme incruente in tempo di pace: eliminare chi dissente, cancellare i non allineati; morte civile e infamia. I meriti, i valori, le verità non contano se sei dalla parte sbagliata. Cominciò così l’egemonia culturale…MV, La Verità 15 aprile 2021

Marcello Veneziani. Giornalista, scrittore, filosofo. Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai. Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani. È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.

Strapaese e stracittà nella musica degli anni Venti e Trenta del ‘900. Alfonso Piscitelli l'11 Marzo 2021 su culturaidentita.it. Tra sentimentalismo e modernismo le dolci melodie in camicia nera. Che l’America avesse aperto le porte del Novecento con un piglio da padrone di casa cominciò ad essere chiaro quando, all’indomani della prima guerra mondiale, l’Europa fu inondata da ritmi provenienti da oltreoceano: Charleston, Fox-Trot… Nei vecchi filmati color seppia risalenti ai primi anni Venti si vedono coppie che ballano con movimenti a scatto, con una volenterosa meccanicità. Le pellicole pionieristiche con i loro sbalzi ancor di più accentuano quel muoversi rimato, che trasmette contemporaneamente il senso di un entusiasmo e di una ossessione che sale dalle profondità organiche. A ben vedere quei movimenti così volitivi non erano solo appannaggio dei balli americani: qualcosa di simile si diffondeva nella società italiana all’indomani del biennio rosso, con l’approssimarsi della marcia su Roma. Vi era in fondo nel fascismo un elemento di dinamicità abbastanza simile a quell’americanismo musicale: un eccesso della volontà sul pensiero che di volta in volta si declinava come gioia di vivere e come spavalda affermazione sul nemico. Vi era poi l’Italia “strapaesana”, più impermeabile alle mode esotiche, e da quell’Italia campagnola, mediterranea emergevano altri ritmi, come quello del liscio romagnolo. Nel corso del Ventennio il confronto tra Stracittà (l’impulso alla modernità, il futurismo che esplodeva nelle grandi città) e Strapaese si verificò anche nel campo musicale. Il fiorire della grande canzone napoletana con motivi che sfidano il tempo (Reginella, ‘O paese d’ ‘o sole, I dduje paravise) si pone a cavallo tra i due schieramenti – quello “futurista” e quello “tradizionale” – come una sorta di terza via, dal momento che la melodia napoletana da un lato affonda le sue radici nel patrimonio popolare, dall’altro manifesta una straordinaria capacità di innovazione: si impone nei cafè chantant delle città, dà vita alla sceneggiata. Anche altre vene regionali, come quella della canzone romana, continuano ad esprimere straordinari valori artistici. La musica degli anni Venti e Trenta fornisce buone prove per quella interpretazione sociologica che ha descritto il fascismo come “totalitarismo imperfetto”, distinguendolo dalle più feroci dittature comunista e nazista. Dietro la facciata eroica del regime la canzone continuava ad esprimere sentimenti di quotidiana cordialità: la celebre “Mille lire al mese” dà voce al sogno piccolo borghese di un modesto benessere, di una vita coniugale soddisfatta nel nido di un appartamento urbano. In “Parlami d’amore Mariù” cantato da De Sica si insinua una vena di sensualità: la grande liberazione dei corpi e dei sensi che è cifra di tutto il Novecento si manifesta anche in Italia. Il fascismo – che non è un regime clericale-conservatore – mira a irreggimentare più che ad opporsi a queste nuove pulsioni. Vi è sensualità sublimata nelle sfilate, nelle manifestazioni ginniche, nelle ore di educazione premilitare. Mentre in Germania e Russia la musica di regime si manifesta con monumentale eroicità, in Italia sembra che il fascismo prenda proprio a prestito l’allegria ritmata della musica leggera: “Faccetta Nera” è appunto espressione di un avventurismo coloniale che vorrebbe andare in una direzione decisamente opposta a quella dell’apartheid inglese o delle sciagurate leggi razziali che verranno. Intanto nasce l’EIAR, la radio di Stato, e nel 1938 l’EIAR bandisce la prima gara nazionale di cantanti italiani… siamo a un passo dal Sanremo del dopoguerra.

Il primo pilota militare nero del mondo era italiano e... fascista. Basta mistificazioni ideologiche. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. Storici orientati e giornali mainstream tentano di farlo passare per “vittima di discriminazione razziale”.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Leggendo tra le pieghe della vulgata storiografica, ogni tanto spuntano fuori personaggi che creano dei veri cortocircuiti  mandando in tilt l’intero sistema. Uno di questi è Domenico Mondelli, nato Wolde Selassie, primo pilota militare di colore del mondo. Come mai questo afro-italiano, con due Medaglie d’Argento e due di Bronzo al Valor Militare, è così poco noto? Eppure, dovrebbe essere un orgoglio nazionale dato che, all’epoca, negli altri paesi, ai neri era preclusa l’aeronautica in quanto ritenuti “incapaci di gestire l’emotività”.  L’unica monografia dedicatagli è del sociologo de “La Sapienza” Mauro Valeri, già direttore dell’Osservatorio nazionale sulla xenofobia, che nel 2016 pubblica per Odradek edizioni “Il Generale nero”, un libro pesantemente ideologico, ricco di afflati deamicisiani, dove gli stessi dati riportati contraddicono, tuttavia, ciò che l’autore vuole dimostrare a tutti i costi, ovvero che Domenico avesse subìto discriminazioni razziali. Era il 5 aprile 1891 quando il parmense capitano di fanteria Attilio Mondelli, sulla strada per Adua, raccoglie un bimbo etiope orfano di 4 anni, Wolde, salvandolo da morte certa. Diventa suo tutore, gli dà il nome di Domenico (forse dal giorno in cui lo ha trovato) e, una volta adolescente, lo iscrive al Collegio militare di Roma. Il ragazzo è “nero come il carbone” e non somiglia affatto ad Attilio, confermando perché entrambi abbiano sempre parlato di adozione nonostante uno dei tanti certificati anagrafici scriva di paternità. Domenico primeggia fra i cadetti e, nel 1904, viene assegnato ai Bersaglieri. Nel 1912, entra nella Massoneria, loggia di Palermo del Grande Oriente d’Italia. L’anno dopo è nel Corpo Aeronautico, tra i pochi piloti militari italiani: è il primo di colore al mondo “ben prima dell’afroturco Celikten, dell’afroamericano Ballard e dell’afroinglese Clarke”. L’ambiente militare lo valorizza – ammette, a malincuore, Valeri - e, nella buona società, è ricercato e passa come un vero tombeur de femmes. Allo scoppio della Grande Guerra, alla cloche di un caccia Nieuport Ni. 80 compie azioni di ricognizione e bombardamento; si guadagna la prima medaglia di bronzo, così come altri ufficiali neri del Regio Esercito. Nel ’17, forse per aver involontariamente  bombardato truppe italiane, o per aver amoreggiato con qualche moglie o figlia di superiori, viene spedito in trincea. Lui si distingue prima fra i Bersaglieri e poi come ardito, alla testa del IX Reparto d’Assalto. Scriveva Paolo Caccia Dominioni: “Sulla nostra destra, il negro meraviglioso (sic) ha sfondato le linee nemiche…”. “E ‘ uno dei nostri ufficiali più amati – annotava Luigi Gasparotto – l’abissino negro, magro, ricciuto, dai denti candidi e dalla perfetta parlata italiana; odia la burocrazia e adora i Bersaglieri”. (Come si nota, la parola "negro" in italiano non ha mai avuto significato dispregiativo). Arrivano due medaglie d’argento (anche per una ferita all’occhio) e un’altra di bronzo, oltre alla croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Fin qui, ZERO discriminazioni, dunque. Ma è col Fascismo che, secondo l’autore, “arrivano i guai”. Dal 1925, il suo avanzamento al grado di colonnello subisce, infatti, uno stop: la legge Sanna imponeva una riduzione degli ufficiali superiori e le nuove norme per l’avanzamento richiedevano pubblicazioni scientifiche di cui Mondelli era privo. Del ’25, è anche la legge che rendeva incompatibile l’appartenenza alla Massoneria con l’impiego pubblico. Il provvedimento tendeva a evitare che, nelle Forze armate, un generale, ad esempio, prendesse ordini da un colonnello solo perché questi era più in alto nella gerarchia muratoria. Secondo Valeri, l’ufficiale “sfidò Mussolini” con tre ricorsi al Ministero della Guerra, tutti vinti, peraltro, nel corso di vari anni. Mussolini, evidentemente, non se la prese poi troppo dato che il Ministero  conferì a Mondelli nomine, decorazioni e una ricca pensione, fino al ‘43. Insomma, “discriminato come nero e come massone”, stando all’autore della biografia, Mondelli si dimette dall’Esercito e passa nella Riserva. Mauro Valeri però tralascia un dettaglio: il “moro” entra nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fascista. Ma come, tutte quelle discriminazioni subìte dal Fascio e poi si arruola nelle CAMICIE NERE? La MVSN era, infatti, la quarta forza armata, (come oggi, ad esempio, i Carabinieri) e i suoi militari giuravano fedeltà al Duce, non solo al Re. Mondelli entrò come console (colonnello) dato che nella Milizia si avanzava automaticamente di grado; poi divenne addirittura console generale (generale di brigata). Lo dimostrano due foto in divisa MVSN che Valeri spaccia per una riunione di ex-Arditi della Grande Guerra. Conferma lo storico Pierluigi Romeo di Colloredo, studioso della Milizia: “L’ufficiale abissino porta la frangia del fez in avanti sul fregio da console generale, mentre i consoli che lo attorniano, la portano di lato. Del resto, prima della legge del ’25, almeno 23.000 fascisti erano massoni, in quanto eredi della tradizione risorgimentale, interventista e fiumana”. In seguito il fenomeno rientrò, ma nella MVSN rimase, evidentemente, una certa tolleranza verso squadre e compassi. Se Mondelli fosse stato bloccato nella carriera per via di una legge fascista antimassoneria (e non per la riduzione dei quadri), stupisce che si sia arruolato tra i suoi oppressori e, quand’anche si fosse trattato di una finzione opportunistica, (come ventila Valeri) non si spiega perché nel 1946, Domenico si candida con il partito di estrema destra GPISAM - Gruppo Politico Italiani di Sicilia, d‘Africa e del Mediterraneo” dell’intellettuale fascista Vittorio Ambrosini. La MANIPOLAZIONE IDEOLOGICA del militare di colore è stata ripresa anche da Avvenire che, astutamente, rimuove in blocco la sua biografia dal ‘25 al ’59, così come altri quotidiani generalisti che, nel 2016, straparlavano di discriminazioni razziste sempre negate dallo stesso ufficiale. Mondelli terminerà i suoi giorni nel 1974 col grado (massimo) di Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito: un altro primato per un militare afroitaliano. Peccato che un eroe della Grande Guerra, un pilota simbolo di integrazione e orgoglio italiano a livello mondiale sia stato così sequestrato da una “memoria” adulterata che la dice lunga sulla storiografia tradizionale e sull’informazione asservita al pensiero unico.

Il Fascismo e le pensioni agli italiani. La verità è più forte delle bufale di Grasso. Redazione domenica 4 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Sulla prima pagina del Corriere della sera di oggi Aldo Grasso confuta la “bufala” (secondo lui) delle pensioni introdotte dal fascismo in Italia, spiegando ai lettori che tra le “cose positive” che il regime mussoliniano ha introdotto non c’è l’Inps, come alcuni ripetono senza documentarsi a dovere. E scrive che l’Inps nacque invece nel 1898, mentre la pensione sociale arriva solo nel 1969, quando il fascismo era caduto da un pezzo. Una ricostruzione non corretta, fa notare il giornalista e scrittore Gianni Scipione Rossi: “Aldo Grasso – scrive Rossi in una nota su Fb – dimentica la sostanziale differenza tra l’assicurazione pensionistica volontaria per operai e impiegati, nata in Italia nel 1898, e quella obbligatoria, nata nel 1919, dunque prima del governo Mussolini”. In ogni caso è ingeneroso saltare come fa Grasso dal 1898 al 1969 come se in mezzo nulla fosse avvenuto e come se nessun provvedimento fosse stato adottato in quell’epoca per i lavoratori. Può essere utile allora riportare qui le informazioni contenute nello studio di Stefano Vinci, Il fascismo e la previdenza sociale (Annali della facoltà di Giurisprudenza di Taranto, Cacucci editore, 2011). Vinci cita la legge n. 350 del 17 luglio 1898, che promosse la nascita della Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai, alla quale i cittadini italiani che svolgevano lavori manuali o prestavano servizio ad opera o a giornata potevano iscriversi liberamente e volontariamente. Dà quindi conto del dibattito che si sviluppa agli inizi del ‘900 per “organizzare l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e coordinarla con i servizi di assistenza medica e ospedaliera, di tutela della maternità e con l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e con le esistenti istituzioni di beneficenza e di mutuo soccorso”. Un dibattito dal quale scaturisce la legge 603/1919 che stabilì l’obbligatorietà dell’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia per tutti i lavoratori dipendenti da privati  ed unificò la Cassa nazionale infortuni e la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali nella CNAS (Cassa nazionale per le assicurazioni sociali). Si giunge quindi all’avvento del fascismo che da subito intende imprimere “una spinta di accelerazione al processo di unificazione degli istituti gestori delle assicurazioni sociali”. Lo stesso Mussolini in un discorso a Torino del 23 ottobre 1932 spiegò che il fascismo nel suo intento di nobilitare il lavoro si era sganciato “dal concetto troppo limitato di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall’assistenza dobbiamo arrivare all’attuazione piena della solidarietà nazionale”. “Dopo i primi provvedimenti del 1923 – scrive Vinci – con i quali fu stabilito il riordino del Fondo per la disoccupazione involontaria affidato alla CNAS, senza però finanziamenti da parte dello Stato, si assistette nel 1926 ad una forte espansione della «mano pubblica» con l’avvio del monopolio assicurativo attuato attraverso il riordino della Cassa nazionale infortuni (CNI); nel 1927 alla istituzione dell’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi estesa nel 1929 alle malattie per gente di mare; nel 1929 alla previsione dell’assicurazione contro gli infortuni anche per le malattie professionali”. La Cni venne sostituita nel 1933 dall’Infail  (Istituto nazionale fascista contro gli infortuni sul lavoro) e nello stesso anno viene costituito l’Infps (Istituto nazionale fascista della previdenza sociale). Segue nel 1935 la promulgazione di un testo unico sul Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale  che disciplinò il frammentato sistema previdenziale per l’invalidità e la vecchiaia, la disoccupazione, la tubercolosi e la maternità.  Alcune modifiche al sistema, si legge ancora nello studio, “furono apportate nel 1939, quando fu accolto il principio della reversibilità della pensione ai superstiti, rinviando al ’45 l’erogazione effettiva della prestazione, e fu abbassata l’età del pensionamento a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne, con aggiustamenti nella misura delle prestazioni, adeguate fino al 1943″. In quell’anno si tentò anche di realizzare l’unificazione delle assicurazioni per malattia con l’istituzione dell’Ente Mutualità “che, nei propositi della legge 138/1943 avrebbe dovuto condurre alla completa unificazione degli istituti di assistenza malattia, ma che di fatto non riuscì a realizzare tale intento”.

Un rilievo è d’obbligo: tutti capiscono la differenza tra una Cassa di previdenza cui si aderisce volontariamente e un sistema previdenziale pubblico che comincia di fatto nel 1933 con l’Infps poi divenuto Inps. Ciò non certo per fare apologia delle misure sociali introdotte dal fascismo ma per sottolineare che una bufala è anche raccontare la storia a metà, o manipolarla, o non valutarla con la serena obiettività che dopo 70 anni dovrebbe essere d’obbligo.

IL DUCE E IL VATE. La Cineteca mette in rete una nuova raccolta di pellicole e rari documenti che raccontano Mussolini e D'Annunzio tra arte e storia. Simone Finotti, Venerdì 15/01/2021 su Il Giornale. Figli entrambi di un tempo di profondi turbamenti, interpreti ciascuno a suo modo di una nazione che arrancava ad inseguire i laceranti mutamenti -e malcontenti- sociali che covava in seno, Gabriele D'Annunzio e Benito Mussolini erano separati da una generazione: il che permise al primo (nato nel 1863) di ispirare dapprima, imbarazzare poi ed essere infine temuto dal secondo (classe 1883), che come è noto trasse buon gioco dal lungo «confino» del Vate al Vittoriale. Come chi appare di pasta simile ma è nell'intimo sentire assai diverso, i due si studiarono a lungo, si parlarono, si compresero e forse anche si stimarono, senza però mai amarsi, almeno secondo la vulgata più diffusa. Ma eccoli ora di nuovo l'uno accanto all'altro, i «carissimi nemici» come non li abbiamo mai visti, nella splendida rassegna Mussolini e D'Annunzio, il dittatore e il poeta, eccezionale raccolta di pellicole e rari documenti sospesi tra cinema e storia, in streaming su Cineteca Milano a partire dal 15 gennaio 2021. Punto di partenza, non poteva essere altrimenti, è il mito postbellico della «vittoria mutilata», perché proprio lì trovarono terreno fertile sia il dannunzianesimo militante, sia la nascita, a Milano, dei Fasci di combattimento, che non a caso recepirono molti rituali e pose di ascendenza romano-fiumana, a partire dal saluto a braccio teso. La celebre avventura del poeta nella città croata viene immortalata da un filmato inedito degli anni Trenta, Gabriele D'Annunzio: Fiume. Il Comandante, si sa, fu anche colui che celebrò il matrimonio tra la poesia e il volo. Non solo nell'opera letteraria, ma nel concreto dell'azione, come testimonia Il volo su Vienna (opera di un anonimo del 1918): le immagini originali narrano l'eroica iniziativa di un intrepido D'Annunzio che sorvolò la capitale austriaca per lanciare migliaia di volantini che inneggiavano alla fine delle ostilità: «Noi voliamo su Vienna -si leggeva su uno-. Potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà». Una delle opere più iconiche del D'Annunzio militante è La Nave, originariamente concepita come rappresentazione teatrale: qui la vediamo nel film-tributo girato dal figlio Gabriellino e Marco Roncoroni nel 1921 (l'originale fu restaurato proprio dalla Cineteca nel 1999). La pellicola rappresenta l'edizione cinematografica dell'omonima tragedia sulle origini della città di Venezia. Un'opera che in quegli anni divenne manifesto e sprone delle ambizioni colonialistiche italiane, condivise fra l'altro dal cantore delle «piccole cose» Giovanni Pascoli, che nel 1911 smise i panni del «fanciullino» per infervorarsi nel celebre discorso di Barga. Sono immagini che ricostruiscono un'epoca, rivelandone volti, personaggi, inquietudini, contraddizioni, turbamenti. Una variazione sul tema del figlio illegittimo, già sviscerato dallo stesso D'Annunzio nel tragico romanzo L'innocente, è Cenere (Febo Mari, 1916), film muto di ambientazione sarda ispirato all'omonimo «racconto del dolore» di Grazia Deledda. Una vera rarità in quanto è l'unica prova sul grande schermo della diva teatrale Eleonora Duse, nota per la tormentata storia d'amore con D'Annunzio (è lei l'Ermione de La pioggia nel pineto). La macchina da presa, in quegli anni, fu anche una preziosa testimone della parabola fascista. Diverse, in rassegna, le riprese di notevole importanza storica: dai documenti amatoriali sull'affermazione del regime, come Campeggio dell'Opera Nazionale Balilla (1925), Nell'Agro Pontino Redento (1933) e Benito Mussolini alle gare di canottaggio sul Tevere, che mostrano aspetti inediti della propaganda di regime, ai filmati degli anni Quaranta, come Benito Mussolini sul fronte russo (1941) e Rodolfo Graziani: parata fascista al parco Sempione di Milano (1944), con rarissime immagini di un cinereporter indipendente. Ancor meno note al grande pubblico sono le scene immortalate in A Noi!(1923) di Umberto Paradisi, collage documentario che illustra le manifestazioni successive alla marcia su Roma. Senza dimenticare gli otto filmati, molti dei quali girati a Milano, de Il Duce fuori Luce, già disponibili dal giugno scorso, che si inseriscono perfettamente nel programma svelando lati meno ufficiali o più curiosi dell'iconografia fascista e di Mussolini. Ma la rassegna non si ferma alla caduta del regime: a raccontare gli effetti della Seconda Guerra Mondiale è Per noi la guerra continua (1950) di Ermanno F. Scopinich, testimonianza della drammatica situazione dei bambini mutilati nel secondo dopoguerra. Tutti i filmati sono disponibili gratuitamente, ad eccezione de Il Duce fuori Luce, Cenere e A Noi!, accessibili ad un costo di 5 euro sempre sulla piattaforma di streaming della Cineteca.

D'Annunzio e quel palazzo che indispettì il fascismo. Giordano Bruno Guerri il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Nel marzo del '24 il Vate tentò di comprare un edificio a Brescia per farne un teatro e una scuola popolare. L'immagine è arrivata via whatsapp dall'ingegnere Roberto Saccone, presidente della Camera di commercio di Brescia e membro del Consiglio di amministrazione del Vittoriale degli Italiani. A una prima occhiata sembra una delle tante lettere di Gabriele d'Annunzio (centinaia, migliaia, forse) che vengono incorniciate su una parete per reverenza al personaggio e alla sua bella scrittura. Ma questa lettera - inedita - ha un forte significato storico, che ho ricostruito con gli archivisti del Vittoriale, Alessandro Tonacci e Roberta Valbusa. Il documento è datato 15 marzo 1924, tre giorni dopo il sessantunesimo compleanno di d'Annunzio e meno di tre mesi prima del delitto Matteotti. Dimostra una palese ostilità verso il regime fascista che si sta instaurando, ponendosi invece nel solco della Carta del Carnaro, la costituzione scritta da d'Annunzio a Fiume, per la crescita della bellezza e della democrazia. Nel 1924 il Comandante così preferisce essere chiamato il Vate è pieno di debiti, tanto che per acquistare quello che diventerà il Vittoriale (una vecchia cascina con un po' di giardino) ha dovuto accendere un mutuo che non pagherà mai. Tuttavia in quel marzo del 1924 cerca di acquistare Palazzo Zoppola in via Marsala 33 a Brescia (oggi Palazzo Ferrazzi), ex Casa del Popolo sede dei socialisti. Vuole farne un teatro di cultura e una scuola popolare. L'acquisto della Casa del Popolo salda l'esigenza dei socialisti bresciani di salvare un cospicuo patrimonio economico con la volontà di Antonio Masperi, fidato amico di Gabriele d'Annunzio, di boicottare l'azione dei dirigenti fascisti bresciani, che vogliono il palazzo, e con aspirazioni del poeta a ergersi a difensore degli oppressi. A d'Annunzio deve essere sembrata un'occasione da non perdere, in un momento di crescente dissenso nei confronti del fascismo. Masperi, classe 1894, è un personaggio interessante, fra i molti che vagarono tra filofascismo, antifascismo, fascismo repubblicano. Bresciano, nazionalista, interventista, pluridecorato durante la Prima guerra mondiale, andò a Fiume con d'Annunzio, portando con sé madre e sorella. Il Comandante lo volle ufficiale della sua Guardia e gli affidò missioni importanti, e anche amene: fu lui, appassionato di sport, l'arbitro nella partita di calcio fra legionari e fiumani in cui per la prima volta venne appuntato lo scudetto tricolore sulla maglia della squadra vincitrice. Ostile al fascismo trionfante, al Vittoriale Masperi era vicinissimo a d'Annunzio, e nel 1923 tentò di fondare con il deputato socialista Domenico Viotto il Partito delle persone oneste, antifascista. È in questo periodo che si collocano i tentativi di acquistare Palazzo Zoppola. Con Masperi collaborano Viotto, che poi verrà arrestato e mandato al confino, e Dante Bravo, fotografo, gallerista e fornitore di d'Annunzio di oggetti d'arte e di molti contatti fra gli artisti contemporanei. Il 15 marzo 1924 nello studio di Masperi, che è avvocato e procuratore speciale di d'Annunzio, l'onorevole Viotto - presidente della Società cooperativa Casa del Popolo - collabora alla stesura del documento d'acquisto. Non disponendo della cifra necessaria all'operazione (400mila lire + altre 114mila per consentire alla Casa del Popolo di saldare le passività) il poeta accende un debito di 200mila presso il Credito agrario bresciano poi Banco di Brescia, poi Ubi, oggi Intesa - dando in garanzia cambiali avallate da Giovanni Battista Bianchi, industriale bresciano e sindaco di Maderno, e dallo stesso Masperi. L'iniziativa irrita i fascisti bresciani e da Roma arrivano chiare indicazioni politiche di impedire l'operazione. Nei giorni successivi l'onorevole Carlo Bonardi, sottosegretario di Stato, sollecita il prefetto di Brescia a nominare un commissario e il 21 marzo 1924 l'avvocato Perugino Sicilia viene incaricato di procedere a una inchiesta rigorosa per accertare la situazione patrimoniale e amministrativa della Società cooperativa Casa del Popolo: si sospetta che l'ammontare delle passività denunciate fosse gonfiato per ridurre al minimo la disponibilità da passare, secondo quanto stabilito dallo statuto, all'Unione cooperativa di consumo controllata ormai dai fascisti. Il progetto si arenò e nel frattempo avviene il delitto Matteotti, che d'Annunzio definì riferendosi al fascismo «fetida ruina». Il poeta si chiude nel silenzio, concentrando il suo impegno nel lavoro creativo e nell'edificazione del Vittoriale. I propositi di lotta a oltranza sono presto dimenticati: «Ho ripreso la mia opera d'artista... Tutto il resto cade», scrive a Mussolini il 16 maggio 1924. Ancora più esplicito il messaggio a Masperi del 4 giugno 1924: «Io - irrevocabilmente - sono ridiventato scrittore mero». Disperando di poter contrastare il fascismo, ne accetterà gli onori e le elargizioni per edificare il Vittoriale, ma in lui rimarrà sino alla fine l'impressione di una «fetida ruina». Masperi nel 1925 si mise a capo di Italia Libera, un'organizzazione antifascista, e il 5 gennaio 1925 venne arrestato insieme a un gruppo di Arditi del Popolo. Tornò fascista dopo l'8 settembre 1943, e fu ucciso dai partigiani nei giorni della Liberazione. Giordano Bruno Guerri

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2021. Portatelo nelle scuole, proiettatelo durante le ore di lezione, accompagnate con la sua visione lo studio dei libri di storia e letteratura. E magari, infine, accompagnate gli studenti in visita al Vittoriale. Il cattivo poeta sugli ultimi due anni di vita di D' Annunzio (con la regia di Gianluca Jodice e l' interpretazione maestosa di Sergio Castellitto nelle vesti del Vate), distribuito in 200 copie e proiettato ieri per il primo giorno in Italia, è il manifesto della capacità del nostro cinema di sfornare ancora prodotti di alta qualità e allo stesso tempo pop, attraenti per il grande pubblico. Ma è anche una denuncia indiretta delle lacune che continuano ad affiorare sui banchi di scuola, dove il racconto della vita e delle opere di D' Annunzio è ancora imprigionato in cliché, duri da sradicare. Alla fine della proiezione ieri al cinema Anteo di Milano ci colpivano le testimonianze di alcuni spettatori, giovani e anziani, che, da noi interrogati, ammettevano candidamente: «Ho visto nel film un D' Annunzio che non conoscevo e di cui non sospettavo l' esistenza». Si riferivano all' immagine, che emerge netta ne Il cattivo poeta, di un Vate ostile all' alleanza del fascismo con Hitler, critico, amareggiato e a tratti spietato nei confronti del Duce, e intollerante rispetto alla rozzezza delle camicie nere, da lui definite «sordide». Il quadretto fornito dai docenti è invece spesso quello di un D' Annunzio filo-fascista, profeta del regime e suo beneficiario, e comunque sodale del Duce, quasi cantore dell' Italia in camicia nera. E, come tale, cattivo poeta e cattivo maestro. Il film di Jodice sconquassa invece questi stereotipi e lo fa attingendo a una bibliografia attendibile, agli scritti di D' Annunzio, alle opere di storici più che autorevoli come Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, e studiosi di storia come Roberto Festorazzi. E mostra la verità, quella che per decenni, nei manuali e nelle antologie, si è voluta omettere, un po' per pigrizia un po' per disonestà intellettuale: D' Annunzio sapeva che l' asse Roma-Berlino sarebbe stato un disastro per il nostro Paese. Ma come, ci si chiederà a questo punto, dobbiamo riabilitare il Vate, fare revisionismo, dimenticando i vantaggi e gli onori di cui certamente godette grazie al fascismo, o ribaltarne la figura in quella di un antifascista? E invece no, non c' è nessuna forzatura in questa operazione perché D' Annunzio non fu né fascista né antifascista. Fu, semmai, un ante-fascista che ispirò, nello stile, nella gestualità, nei motti, nello spirito, una ritualità e un' estetica, ancor prima che un etica, poi fatte proprie dal Duce. Ma quindi fu al più Mussolini emulo (per molti versi deteriore) di D' Annunzio e non D' Annunzio devoto seguace dell' altro. Di cui, anzi, fu vittima, emarginato e sorvegliato nella prigione dorata del Vittoriale, e avversario, in modo spesso confessato. La facile dicitura del Vate come esponente dell' estetismo e intellettuale fascista con cui si tenta di liquidare la sua figura nelle aule scolastiche dimentica peraltro le molte sfaccettature dell' artista che affiorano nel film: la sua anima di politico lungimirante, in grado di governare una città, Fiume, secondo criteri civili e culturali all' avanguardia, in nome di una morale libertaria e con una Costituzione modernissima; il suo spirito visionario, veggente o preveggente, come capita solo ai grandi poeti, che gli faceva intuire le disgrazie cui sarebbe andata incontro l' Italia in caso di guerra; e ancora, la vocazione altruistico-comunitario-patriottica, votata all' amore per la nazione e per le future generazioni, e non tanto ripiegata in un narcisistico culto del Sé: quella propensione che lo indusse a lasciare una casa-museo che gli sopravvivesse, pensandola già in vita non come la sua dimora privata ma come il Vittoriale di tutti gli italiani. Ecco perché non sorprende - e la cosa è merito anche della Fondazione il Vittoriale che ha consentito che il film venisse girato in quegli spazi - che Il cattivo poeta porti a cercare il vero D' Annunzio non tanto nei lacunosi libri di scuola, quanto in quel libro vivente che fu la sua residenza sul lago di Garda. Gli stessi spettatori che confessavano ignoranza sugli ultimi anni di vita del Vate ci rivelavano la volontà di visitare il Vittoriale «per capire il genio di D' Annunzio dal vivo». Là, nelle pietre che eresse, negli oggetti che raccolse e tra gli elementi naturali dove pensò, creò e amò. Nella sua biografia incarnata. Pertanto suona una buona notizia l' uscita di questo film, che coincide con la riapertura di cinema e musei e invita ad affollare entrambi. In modo da preparare docenti e studenti sulla figura del Vate e da risparmiare loro altre figuracce.

Paolo Fallai per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 10 gennaio 2021. È alta 133 metri e ha un diametro che sfiora i 59. Per godersi la vista, dalla piccola terrazza della lanterna, bisogna avere il fiato per salire 551 scalini. E vale davvero la pena scalare la cupola di San Pietro, ma se non ce la fate (chiusure straordinarie a parte) non ve la prendete troppo: fa parte di quasi tutti i panorami della città, difficile non vederla. Lo sapeva Michelangelo Buonarroti che ne lasciò i disegni e la forma, che deve molto a Santa Maria del Fiore a Firenze, e che non riuscì mai a vederla finita. Fu Giacomo della Porta che portò a compimento il progetto tra il 1588 e il 1593. Ma quello che ci interessa questa settimana è l'immagine della basilica di San Pietro, con la straordinaria rivelazione che doveva sconvolgere i pellegrini nel trovarsela di fronte uscendo dal dedalo di piccole strade del rione Borgo. Né Michelangelo né Gian Lorenzo Bernini, che dal 1655 avrebbe progettato la magnificenza del colonnato, potevano immaginare che il rione prospiciente piazza San Pietro un giorno sarebbe scomparso per la megalomania mussoliniana della prospettiva. Via della Conciliazione nasce nel 1936 da uno sventramento che avrebbe demolito palazzi e chiese dell'antico Borgo realizzate tra gli altri da Bramante, Peruzzi, Antonio da Sangallo il giovane, Raffaello, Maderno. Poco importava a chi doveva celebrare se stesso e blandire la benevolenza vaticana, se per realizzare il progetto doveva scomparire un intero rione di Roma e soprattutto l'idea stessa di folgorante sorpresa che era alla base dei progetti originari. Così San Pietro, da luogo della rivelazione pieno di simboli e mistero, è diventato un perfetto soggetto per cartoline. Almeno fino a quando e-mail e internet non le hanno mandate in pensione. D'altronde che San Pietro potesse essere al centro di un gioco prospettico di immagine e attenzioni l'aveva capito, fin dal Settecento, un fine incisore e pregiato architetto come Giovanni Battista Piranesi. Alla sua fantasia sul colle Aventino, in piazza dei Cavalieri di Malta, dobbiamo una delle immagini più sorprendenti della cupola: Piranesi venne incaricato di ristrutturare l'edificio del Priorato dei Cavalieri e non mancò di inserire nella preziosa facciata un cancello di metallo con una particolare serratura per il chiavistello. Accostando l'occhio a questa serratura, sullo sfondo di una cornice verde formata dalle piante del giardino del Priorato, si staglia per l'appunto la cupola di San Pietro. Per l'emozione di curiosi e turisti e il proliferare di fotomontaggi per mostrare al mondo la cupola di San Pietro dal buco della serratura. Il nostro Claudio Guaitoli l'ha fotografata sul serio, ma potrà confermarvi che non è facile e ci è tornato tre volte. Perché il gioco di Piranesi era per l'occhio umano, non per altri obiettivi. Michelangelo ci avrebbe preso tutti per pazzi.

La dimenticata "Concessione" di Tientsin: il gioiello coloniale italiano in Cina. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 14 gennaio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Un paese comunista che restaura con cura una torre dotata di enormi fasci littori? Non è una scena tratta da una serie ucronica alla “The Man in the High Castle”, ma è successo davvero nella nostra ex-colonia di Tientsin, in Cina, la dimenticata “Concessione italiana” che, nel 2021, compie 120 anni. Già dal 1868, l’Italia, seguendo - come al solito in ritardo - l’esempio degli altri paesi occidentali, aveva allacciato relazioni diplomatiche con la Cina grazie al viaggio della pirocorvetta “Magenta” comandata dal capitano Vittorio Arminjon. Tuttavia, già da qualche tempo erano presenti a Shangai commercianti italiani e, soprattutto, missionari gesuiti, i quali però – come spesso accadde nella storia dell’ordine - non seppero farsi ben volere da una popolazione locale ferocemente attaccata alle proprie tradizioni. Anche per questo, nel 1900, esplose la Guerra dei “Boxer”: costoro erano lottatori cinesi di Kung-Fu che, sobillati da organizzazioni popolari, si ribellavano in modo violento a ogni tipo di infiltrazione occidentale. Il Regno d’’Italia, con altri otto paesi, inviò per proteggere i missionari, un contingente di 46 Bersaglieri di Marina tra i quali fu ucciso il sottotenente Ermanno Carlotto. Sedata la rivolta, nel 1901 l’imperatrice vedova Cixi, in premio, concesse ai paesi dell’”Alleanza delle otto nazioni” dei terreni sul fiume Hai-He per uso commerciale. L’Italia ottenne solo 46 ettari: una sorta di pantano usato dai locali come discarica e cimitero, ma situato in posizione strategica, sul fianco del porto. Grazie al primo piano regolatore realizzato dal tenente del genio Osvaldo Cecchetti, cominciarono a sorgere strade, palazzi, chiese, caserme, monumenti, banche, perfino una stazione del telegrafo. Dopo la vittoria nella Grande Guerra, l’Italia poté inglobare anche l’area dell’Austria-Ungheria ormai sconfitta. Nell’arco di quattro decenni, fino al 1943, i nostri connazionali faranno di questa Little Italy orientale un vero gioiello architettonico. Nella “Concessione aristocratica” – come fu chiamata - vi andarono a vivere importanti personaggi autoctoni come il drammaturgo Cao Yu e il presidente Li Yuanhong. I cinesi, con lungimiranza, hanno conservato fino ad oggi pressoché intatto questo straordinario palinsesto di stili, che va dall’umbertino, al Liberty, al modernismo alla Basile, per culminare nelle più audaci e imponenti costruzioni razionaliste di epoca mussoliniana come il palazzo del Forum (dotato, appunto, di quattro fasci sulla torre) e la Casa degli Italiani. Fu soprattutto durante il Ventennio che la Concessione esplose a livello edilizio divenendo un avamposto del buon gusto, della scienza costruttiva, dell’eleganza e della tecnologia made in Italy. La cittadella, delle dimensioni del quartiere Parioli di Roma, per intenderci, era al centro di scambi commerciali e diplomatici di alto livello e per questo gli Italiani, fin dall’inizio, avevano portato civiltà e buongoverno, creando un corpo di Polizia con personale autoctono. I militari di stanza, poi, assicuravano la pacifica convivenza tra occidentali (600 italiani e 700 europei)  e i 6000 cinesi che vi vivevano volentieri al riparo dalle lotte feudali che imperversavano nella Cina rurale. Una colonia, quella di Tientsin, che era stata elargita - non conquistata con la forza - nella quale i nostri connazionali pagavano le materie prime da importare con una certa equità, a differenza degli altri paesi "ospiti". Garante della pace e dell’ordine fu, per anni, il Battaglione San Marco sulla cui storia va citato il volume “Il San Marco, in Cina. Memorie dal 1868 al 1946” di Sergio Jacuzzi che documenta iconograficamente le navi utilizzate per il trasporto dei fanti di marina, ma anche tutto il movimento commerciale e militare creato dagli italiani in quel periodo. Il volume spiega anche come il Battaglione fosse il primo a ricevere gli equipaggiamenti più moderni per pubblicizzarli in sede internazionale. E’ il caso dell’ottimo elmetto M 33, ad esempio, il nuovo modello che sostituì l’Adrian di derivazione francese e che rimase in dotazione fino agli anni ‘90. All’inizio della Seconda guerra mondiale, con la Cina invasa dai giapponesi, il San Marco rimase confinato all’interno della Concessione, piuttosto tagliato fuori dalle comunicazioni col mondo esterno. Con l’8 settembre ’43, solo pochi militari scelsero di restare col Re e furono imprigionati dai giapponesi, mentre gli altri, avendo optato per la Rsi, vennero rimpatriati nel ’44. Tutte le concessioni straniere tornarono alla Cina dopo la guerra e vennero tutte rase al suolo per far posto ai grattacieli; solo quella italiana fu salvata e restaurata nel 2012. Insomma, quella di Tientsin è una storia scomoda per i sostenitori di quel contro-cliché che, in opposizione allo stereotipo degli "italiani brava gente”, citano meccanicamente i gas in Abissinia, parificando il colonialismo italiano a quello smaccatamente predatorio di altri paesi occidentali. No. Senza tirare in ballo presunte superiorità intellettuali o morali nostrane, il semplice fatto che, nella "corsa all'accaparramento coloniale" gli italiani fossero arrivati ultimi fece sì che dovettero accontentarsi dei paesi meno ricchi, civilizzati e progrediti. Per questo motivo fu necessario costruire in loco, dal nulla, infrastrutture che, in vari casi, durano ancor oggi. Il caso del pantano di Tientsin, fatto fiorire dagli italiani in un gioiello di architettura, dimostra come quella coloniale italiana sia una storia diversa dalle altre, che andrebbe finalmente riscritta “alla giusta temperatura”, intervistando i locali e superando ormai anacronistiche visioni ideologiche.

Fabio Isman per "Il Messaggero" il 28 dicembre 2020. Si chiamava Giacomo Palanti ed era un architetto milanese, d'origini cremonesi. Nasce nel capoluogo lombardo nel 1885, e vi muore nel 1978. Dal 1909, è in Argentina, e fa fortuna a Buenos Aires e a Montevideo: costruisce molto, con criteri alquanto eclettici; spesso, una torre in cima agli edifici. Nel 1924, torna in Italia. E propone a Mussolini l'immobile più elevato al mondo, da costruire, s'intende, a Roma. La Mole Littoria doveva innalzarsi per 88 piani: 330 metri, una superficie di 70 mila metri quadrati, ricoperta di bianchissimo marmo di Carrara. Le cupole della Capitale ne sarebbero state soggiaciute; e lo «skyline», assolutamente sconvolto. Il bello, però, è che dapprima, il duce è assolutamente entusiasta dell'idea; la vede, ed esclama: «Veramente impressionante e formidabile», concedendo alla pubblicazione la propria prefazione, nonché un tronfio e manoscritto «alalà».

IL NOME, I NEMICI. Anche il nome dell'edificio è un'invenzione mussoliniana: quello originale, invero non troppo modesto, era «Eternale». In pieno centro: tra il Corso e via di Ripetta; nell'immenso emiciclo alla base, previste «4.500 stanze, 100 grandi saloni»: il Parlamento, il governo, sale conferenza, palestre, una stazione telefonica e telegrafica, e pure un osservatorio astronomico. Palanti pubblica il progetto nel 1926: 136 pagine, con 44 tavole; all'inizio, sotto una propria foto, Mussolini scrive che Palanti «conosce gli ardimenti latini e romani della costruzione»: voleva spostare sull'altro lato dell'Oceano «la celebrità degli edifici americani». Però, Marcello Piacentini, allora un nume tutelare (pur se, per il Palazzo di Giustizia di Milano, reclamava il dieci per cento del costo dei marmi) decreta: «Mai un grattacielo a Roma». Così, l'architetto riduce le misure: da 330 metri, a trecento, a 130; infine, appena 80. Ma tutto è inutile: non se ne farà (per fortuna) nulla: il progetto, già spostato a viale Aventino, sarà alla fine surrogato dalla Farnesina, ora il ministero degli Esteri. Esiste pure un «rendering», e mostra la follia, per non dir peggio, dell'idea.

I SUOI SIMILI. A Buenos Aires, sull'Avenida de Mayo, Palanti aveva già innalzato Palacio Barolo, il più alto in Argentina; poi, ad esempio, a Mosca si sarebbero costruite le «sette sorelle» di Stalin: altrettanti falansteri, dai ministeri degli Esteri e degli Interni, all'Università, di 36 piani e alta 240 metri (il più alto edificio d'Europa fino al 1990); o l'Hotel Ucraina, di 34 piani e 206 metri. E presto, tutt' Italia sarebbe stata cosparsa di Torri Littorie: quella di Torino, del 1933, è ora la Reale Mutua, 109 metri su piazza Castello: fino al 1940, il più alto immobile italiano; e quella milanese, coeva e ideata da Gio Ponti, 108 metri, è invece diventata la Torre Branca, nel parco Sempione: per edificarla in ferro, bastarono 66 giorni.

IL FASCIO A ROMA. La sede nazionale del partito fascista non era certo un grattacielo: dal 1943, Palazzo Wedekind, a piazza Colonna, che già aveva ospitato le Poste del papa; dopo l'Unità, diverrà il ministero dell'Educazione; e più tardi, sede della «Difesa della razza»: massima rivista antisemita del regime. Quella del fascio era stata a Palazzo Vidoni e andrà alla Farnesina. Quella romana, invece, era nell'ultimo palazzo papale della Città eterna, voluto dai Braschi (Pio VI): in grosse difficoltà economiche, nel 1871 lo cedono allo Stato. Fortunatamente, è ora il Museo di Roma. Un'immagine iconica del regime lo mostra agghindato per le elezioni del 1934: l'immenso faccione del duce è circondato da infiniti «sì». Ma non era soltanto Palanti a nutrire idee faraoniche: Armando Brasini (1879 - 1965), nemico del razionalismo, suo ad esempio ponte Flaminio, pensava all'Urbe massima: città di archi e monumenti di «inaudite dimensioni», anche una «piramide dantesca» di 160 metri; e a una «Via Imperiale» dalla Flaminia all'Appia: in centro, il Foro Mussolini, spazzando via tutto da piazza Colonna al Pantheon. Ma per fortuna, questi edifici «monstre» (o mostri?) non hanno mai visto la luce.

·        Resistenza: la verità sui partigiani comunisti.

Partigiani tedeschi  della brigata Garibaldi (a sinistra Heinz Brauwers, a destra il suo amico Hans Juergens).  Dalla parte giusta. C’erano anche tedeschi brava gente. Furono diecimila i soldati della Wermacht in Italia a gettare la divisa e spesso a unirsi ai partigiani. Ora gli storici li studiano. Simonetta Fiori su La Repubblica il 20 Novembre 2021. Dopo ottant’anni escono fuori dal silenzio in cui erano stati seppelliti. Si chiamano Rudolf, Gerhard, Jakob, ma nei borghi dove è ancora viva la memoria partigiana sono evocati con i nomi più famigliari di Rodolfo, Gerardo, Giacomo. Nelle fotografie di gruppo colpiscono per i lineamenti affilati e il colore chiaro della pelle. Dimenticati dalla storia, furono capaci di un gesto inimmaginabile, in un punto cieco dell’esistenza stretto tra due alternative spietate: se continuare a vestire i panni dei carnefici o mettere a rischio la propria vita e soprattutto quella dei loro famigliari rimasti in Germania, esposti alle ritorsioni più orrende.

Per capire la Guerra civile è molto meglio "l'usato". Alessandro Gnocchi l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. I libri meno conformisti sulla nostra Storia non si pubblicano più. Tocca fare modernariato. Per un bibliofilo, ma anche per un lettore qualsiasi, la bancarella di libri usati è croce e delizia. Croce perché c'è bancarella e bancarella: quelle specializzate in rarità impilano tesori che talvolta l'appassionato non si può permettere e lasciano il rimpianto, una struggente nostalgia per il volume così vicino eppure inarrivabile. Delizia, quasi per lo stesso motivo: c'è sempre la speranza che, guardando bene, salti fuori l'inaspettato, il capolavoro misconosciuto in vendita a pochi euro. Inoltre, davanti a una bancarella rifornita, ci si può levare curiosità a lungo coltivate oppure nate lì per lì, davanti a una copertina o a un nome attraente. E si torna a casa con una pila di libri acquistati a poco prezzo. Ah, che bello comprare tutti gli Achille Campanile e Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano e Antonio Delfini e Giuseppe Berto e Giovanni Comisso che capitano sottomano. Che bello comprare le vecchie edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi, con il commento di Giuseppe e Domenico De Robertis. E poi Papini, Prezzolini, Longanesi... Che bello dare la caccia alle varie edizioni di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, una diversa dall'altra, anche nel contenuto. Che miniera di intelligenza può essere una bancarella. C'è un altro aspetto interessante. Sempre più spesso, capita al bibliofilo di imbattersi in libri che oggi nessuno pubblicherebbe, per i motivi più disparati. Chi stamperebbe oggi una edizione anastatica del manoscritto del Canzoniere di Umberto Saba? Chi fonderebbe una casa editrice (Aria d'Italia) per portare sugli scaffali le opere di un solo autore (Curzio Malaparte)? Chi farebbe una plaquette con un pugno di poesie di Pier Paolo Pasolini (Dal diario, Edizioni Salvatore Sciascia, a cura di Leonado Sciascia)? Per non dire dei fuori catalogo: Bagatelle per un massacro, il pamphlet antisemita di Luis-Ferdinand Céline, tanto spregevole nel contenuto quanto prezioso nello stile, si trova unicamente sulle bancarelle. Ci sono casi che lasciano perplessi, perfino sbalorditi. A cinque-dieci euro ti porti a casa un libretto di poche pagine ma sufficienti per fare una riflessione su come è cambiato il nostro Paese. Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allegò al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende dalle due parti della barricata»; testi che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche un esempio nei valori della Resistenza» . Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. Il volume era targato Mondadori, ed era in una collana di «testimonianze di prima mano». Era una raccolta «editorialmente corretta», che non metteva in discussione i capisaldi ideologici della Resistenza. Però dava la parola anche ai vinti, in particolare dava il giusto rilievo a un romanzo come Tiro al piccione di Giose Rimanelli, che raccontava con efficacia il punto di vista di un repubblichino anzi repubblicano: «È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d'Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l'Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione». Il romanzo, autobiografico, ebbe una vita editoriale travagliata. Fu preso da Einaudi ma l'editore torinese, quando il libro era già in bozze, fermò tutto nonostante questo parere di Cesare Pavese: un «giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un'idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci». Alla fine fu pubblicato da un editore ancora più grande: Mondadori, nel 1953. Ma rientrò nel catalogo di Einaudi nel 1991, l'anno in cui lo storico Claudio Pavone, da sinistra, recuperava il concetto di «guerra civile». Nello stesso anno Einaudi ripubblicò anche Un banco di nebbia di Giorgio Soavi, un'altra testimonianza dall'altra parte della barricata, anche in questo caso scartata (con qualche dubbio di Italo Calvino) da Einaudi e approdata a Mondadori nel 1955. Altri libri si sono poi aggiunti, in particolare quelli di Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte è in edicola allegato con il Giornale). La antologia curata da Carlo Castellaneta ci interroga fin dal titolo: quella «guerra civile» potrebbe incappare in qualche accusa di revisionismo. Il contenuto... Beh, come immaginate verrebbe presa una selezione che mette assieme, sullo stesso piano, Uomini e no di Elio Vittorini (manicheo fin dal titolo, proprio lui, Vittorini, che aveva tessuto l'elogio dello squadrismo nella prima edizione del Garofano rosso) e appunto Tiro al piccione di Rimanelli, che non ha certezze da esibire? La domanda è retorica: una antologia così finirebbe massacrata da qualche antifascista in assenza di fascismo, una specie intellettuale tornata in grande spolvero nell'Italia di oggi. Non è che, per caso, mentre eravamo distratti dalle guerricciole politiche, la cultura italiana ha fatto uno o due passi indietro al punto da apparire meno libera perfino rispetto ad anni di forti divisioni ideologiche dalle conseguenze tragiche? Non sarà, alla fine, un problema di analfabetismo di ritorno, forse anche di andata? Una o due generazioni di chierici sono convinte che i «fasci» (categoria che comprende chiunque abbia idee diverse da loro) devono tacere, e così negano, innanzi tutto a se stessi, la più umile e meno giudicante delle virtù: la conoscenza, che precede le nostre, personali idee per illustrarci la complessità del mondo. Ecco, proprio «complessità» è la parola ipocritamente sventolata dalle menti semplici, e irresponsabili, che vogliono rifarci combattere una guerra civile per fortuna terminata da un pezzo. Alessandro Gnocchi

8 settembre: i morti dimenticati di Arbe, il campo di concentramento fascista in Croazia.  Simone Modugno e Linda Caglioni su La Repubblica il 7 settembre 2021. Sull'isola croata di Arbe, in Dalmazia, c'è ancora traccia di una storia poco nota dell'occupazione della Jugoslavia, che sconfessa il mito del cosiddetto “buon italiano”. A partire dal 1942 i fascisti vi costruirono un campo di concentramento dove furono internate tra le 10 e le 15 mila persone tra croati, sloveni ed ebrei. Molti di loro vi morirono per malattie, infezioni e denutrizione. Dopo la firma dell'armistizio dell'8 settembre del '43, il sito venne smantellato in fretta e furia. La vicenda non ottenne mai particolare visibilità, benché quello di Arbe fu uno dei peggiori tra i campi organizzati dal regime fascista. Foto tratte dalla mostra "A ferro e fuoco. L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943"

Gianni Oliva per “La Stampa” l'8 settembre 2021. La memoria antifascista ha rielaborato l'8 settembre nella combinazione di sfascio e di rinascita: c'è un'Italia piegata, che si arrende agli angloamericani e naufraga di fronte al dilagare dell'occupazione tedesca, ma nella deriva della storia nazionale fiorisce l'Italia della scelta, quella che muove i primi passi verso il domani e stimola il Paese con l'esempio dei suoi uomini migliori. Le pagine di Roberto Battaglia (autore nel 1953 di una Storia della resistenza italiana che è stata per decenni manuale di riferimento) sono paradigmatiche: «quando andiamo a rintracciare l'inizio del movimento resistenziale, noi troviamo ripetersi dovunque lo stesso fatto: l'emergere dalle masse popolari di antifascisti, di militari, di giovani già decisi fin dal primo momento a impugnare le armi, a iniziare subito dopo l'armistizio e non domani la guerriglia, ad agire per una decisione spontanea che viene da un profondo istinto di ribellione». Confusione, indifferenza Prima di lui, Piero Calamandrei aveva parlato con intonazione poetica di un 8 settembre segnato dalla scelta corale dei tanti pronti a combattere per una stagione nuova: «era la chiamata di una voce diffusa come l'aria, era come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno». Sulla stessa lunghezza d'onda si sono espressi Guido Quazza («l'8 settembre è la data di nascita dell'antifascismo come forza decisiva») o Raimondo Luraghi («nel momento dell'armistizio, in tutte le fabbriche l'entusiasmo e lo spirito di lotta sono altissimi»). Queste ricostruzioni attingono a un elemento di verità, perché ci sono uomini che sin dai primi momenti intuiscono (come Giaime Pintor) che «un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere riscattato solo da una rivoluzione vera», ma si tratta di scelte individuali, numericamente marginali. Il tratto distintivo che avvolge l'Italia dell'armistizio è un altro: il silenzio, il silenzio della morale, della ragione, della volontà. Anche là dove brulica la confusione di soldati che si muovono senz' ordini o di cittadini che arraffano nei depositi abbandonati, la scena è dominata dalla paralisi delle energie e dall'esaurimento psicologico. La letteratura ha compreso e interpretato questo silenzio ben prima della storiografia. Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza, descrive il disorientamento di un reparto in servizio nella campagna romana: quando, dopo molte ore, giunge notizia dell'armistizio e dello sbandamento, c'è chi reagisce con rabbia («il comando non ci ha avvisati! Lascia che abbia un figlio e che la patria venga a chiedermelo soldato!»), chi si aggrappa all'ottimismo della volontà («io non ci credo, un esercito non si sbriciola così, andiamo»), sino a che si sentono gli echi di esplosioni e ognuno decide individualmente la fuga. Chi esita, come il protagonista Johnny, si ritrova solo in una camerata deserta: «Johnny risalì in camerata, nessuno dei suoi era rientrato. Ognuno si era già arrangiato da solo». Mario Tobino ne Il clandestino, descrive un 8 settembre antieroico, dove «l'esercito italiano avvilito non si diresse in alcuna direzione, tradì e non tradì, lasciò passare le ore rimanendo smarrito, non aggredì i tedeschi né si schierò con loro». Cesare Pavese in Prima che il gallo canti descrive una Torino quasi indifferente nella sua rassegnazione: «i giornali portavano in grossi titoli la resa, ma la gente aveva l'aria di pensare ai fatti suoi. Sbirciavo negli occhi i passanti: tutti andavano chiusi, scansandosi. Nessuno parlava di pace». Curzio Malaparte, corrosivo e iconoclasta, offre ne La pelle una descrizione di lucido cinismo: «tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a gara a chi buttava più "eroicamente" le armi e le bandiere nel fango. Finita la festa, ci ordinammo in colonna e così, senz' armi e senza bandiere, ci avviamo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati quella stessa guerra che avevamo già persa con i tedeschi». In questo disincanto amaro, la letteratura propone gli avvenimenti armistiziali con un realismo che è stato a lungo sconosciuto alla storiografia. Lo scrittore si avvicina ai fatti attraverso la propria sensibilità, li racconta come li ha visti, li ha ascoltati, li ha avvertiti sulla propria pelle: sono racconti che si sviluppano tra contraddizioni, sfumature, dubbi, perché il loro destinatario è l'emozione di chi legge e l'emozione non ha bisogno di grandi quadri esplicativi, né di un percorso di lettura predeterminato. Lo storico, invece, ha un approccio razionale, interroga il passato attraverso le domande poste dalle urgenze del presente, si muove in uno spazio stretto, dove le insidie dell'agiografia e della rimozione vanno al di là dell'onestà intellettuale del ricercatore. Semplificazioni e rimozioni Questo è ancor più vero quando il periodo che si affronta è un passato prossimo segnato da fatti traumatici: «storia», in questo caso, significa fondare la memoria e la legittimità di una stagione nuova, operazione che implica semplificazioni e rimozioni. Da qui nasce una «vulgata» dell'8 settembre così lontana dall'amarezza sofferta di Fenoglio o Malaparte e, indirettamente, un'indicazione: la letteratura spesso rappresenta gli avvenimenti meglio (e prima) della ricerca storica.

Quei martiri che hanno scelto di morire per l'Italia. Andrea Muratore il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Il martirio della divisione "Acqui" a Cefalonia fu una pagina tragica dei giorni della disfatta italiana. In cui furono però gettati i semi della rinascita del Paese. Cefalonia è un nome associato a una grande tragedia italiana, a una storia di tenacia e eroismo culminata in una delle pagine più buie del secondo conflitto mondiale: la resistenza dei militari della divisione "Acqui" all'offensiva tedesca avviata dopo la resa dell'Italia agli Alleati, avvenuta l'8 settembre 1943, e il suo successivo martirio. Sì, perché solo di un vero e proprio martirio in nome dell'onore e della dignità dell'Italia si può parlare leggendo, a oltre settant'anni di distanza, la pagina di resistenza dei militari della divisione guidata da Antonio Gandin, catapultati nel turbine della storia dall'incertezza dei comandi italiani, dalla pusallinamità della monarchia dei Savoia, dalla doppia resa dell'Italia in quelle complesse giornate. Un'Italia che capitolò dapprima davanti agli Alleati, con la firma dell'armistizio di Cassibile, e in seguito di fronte ai tedeschi trasformatisi da alleati ad invasori, la cui dignità e il cui buon nome furono difesi da militari rimasti in larga parte senza ordini e senza direttive. Dalla resistenza dei militari a Roma a Porta San Paolo al triste episodio della corazzata Roma, passando per la toccante esperienza delle unità della Regia Aeronautica mandate a combattere a tempo scaduto contro gli ex nemici a Salerno, le forze armate italiane scrissero una serie complessa di pagine di storia. Aventi il suo culmine nelle tre settimane di Cefalonia. Che cosa spinse i militari di una divisione tutt'altro che temprata da battaglie feroci e reduce da due anni e mezzo di occupazione delle isole greche a rifiutare gli ultimatum tedeschi di resa? Che cosa mosse i ragazzi della "Acqui" a scontrarsi contro gli Alpini della 1. Gebirs Division e gli agguerriti "cacciatori" della 104. Jager Division trasformatisi improvvisamente da alleati in aggressori? Che speranza avevano coloro che, dopo la resa di Cefalonia, furono trucidati o inviati nei campi di prigionia nelle autorità in via di disfacimento? Cefalonia ci insegna l'assurdità dell'eroismo, la grandezza dello spirito di corpo, il valore degli ideali patriottici e nazionali. Padre Luigi Ghilardini, che ha raccolto le testimonianze dei militari da lui assistiti durante la battaglia e l'eccidio condotto a sangue freddo dai militari tedeschi, ricorda nelle sue memorie che i soldati della Acqui cadevano invocando la propria madre e l'Italia. Cefalonia insegna la forza dello spirito di corpo dato che, come ricorda Alfio Caruso in Italiani dovete morire, inizialmente "la Acqui non fu per niente compatta nell'urlare il proprio 'no!' al tedesco" e "Gandin e i suoi collaboratori volevano giungere a un accordo" mentre solo gli elementi del 33°artiglieria e del comando di Marina "erano decisissimi a usare le armi contro l'odiato ex alleato". Furono i raid dei bombardieri Stuka a compattare Cefalonia sulla resistenza, a portare 11.700 militari a trasformarsi in guerrieri per tenere fede al giuramento alla patria sacrificando la vita. Splendeva un sole inclemente su Cefalonia il 13 e il 14 settembre, giorni in cui col "referendum" interno i militari della Acqui scelsero di non arrendersi ai tedeschi. E splendeva anche il 24 settembre, giorno in cui gli alpini sudtirolesi della 1° divisione Edelweiss fucilarono alla periferia di Argostoli 129 dei 164 ufficiali arresi dopo i combattimenti. Lungi dall'essere commessa da efferati reparti delle Ss, la strage di Cefalonia, che causò cinquemila delle 9.406 vittime accertate tra i militari della "Acqui", fu compiuta da militari della Wehrmatcht: chiamati a eseguire le leggi di guerra. Al processo di Norimberga il generale Telford Taylor definì il caso di Cefalonia come "una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato" perpetrata contro uomini che "indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra". Ciò ha influito notevolmente sul ricordo postumo della strage, sulla calata di un imbarazzante velo di silenzio rimasto steso per decenni sulla vicenda per non turbare la narrazione dei nuovi rapporti italo-tedeschi e sul mito che vedeva la Wehrmacht in larga parte esente dai più duri crimini compiuti dai nazisti. Ma a suo modo Cefalonia è stata una pagina scomoda anche per la narrazione resistenziale che ha pervaso la storia repubblicana, perché retrodata inevitabilmente l'inizio dell'opposizione italiana al nazismo e alla Germania e ci ricorda quanti semi del futuro d'Italia furono gettati nei giorni della resa. Giorni in cui mentre a Cefalonia si combatteva 600mila militari italiani, disarmati dalla Wehrmacht, scelsero la prigionia per prestare fede al giuramento verso l'Italia, preferendola alla continuazione della guerra a fianco dei tedeschi. I martiri di Cefalonia e gli internati militari italiani (Imi) salvarono, a prezzo di atroci sofferenze, il nome della nazione, mostrarono come anche nell'ora più buia della storia dell'Italia unita ci fossero uomini pronti a sacrificare la vita in suo nome, lanciarono un messaggio che a decenni di distanza scuote le coscienze. Dobbiamo a Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica che più si è impegnato sulla ricomposizione della memoria storica dei fatti più tragici del Novecento, la pubblica attestazione del fatto che Cefalonia fu l'inizio della rinascita dell'Italia. E non il punto più profondo della disfatta. Ciampi, il 1 marzo 2001, visitando Cefalonia commemorò quei soldati ricordando che "la loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza". "Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia", nazione debitrice di coloro che nel settembre 1943 si immolarono in suo nome. 

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di 

L’antipatia dei comunisti che li screditarono. Chi erano gli azionisti, i veri “giusti” della generazione antifascista. Filippo La Porta su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Ma chi erano mai questi azionisti? Potremmo così parafrasare il Gianni Morandi di “Dimmi chi erano i Beatles”. Componente decisiva della Resistenza, formano ai nostri occhi una galassia indefinita, un po’ nebulosa, che comprende – per usare categorie lievemente abusive – moderati ed estremisti, o meglio liberaldemocratici e liberalsocialisti (tutti accomunati però da una visione radicale della democrazia), erede agli inizi della Seconda Guerra Mondiale degli ideali di Giustizia e Libertà. Nell’immaginario politico oscillano tra una mitologia eroica e una immagine al tempo stesso nobile e alquanto screditata (alimentata dai comunisti). Se il fascismo era la “autobiografia della nazione” (Gobetti) loro apparivano – credo impropriamente, come tenterò di dire più avanti – come degli stranieri in patria, un corpo alieno. La tradizione che incarnano ci appare oggi quella giusta (Roberto Calasso nel suo autobiografico Memè Scianca – uscito il giorno della sua morte – li definisce appunto i «giusti, senza ulteriori specificazioni»): antifascisti democratici, intransigenti ma antitotalitari (anticomunisti), e dunque perciò sempre un po’ incompresi e diffamati nel nostro paese. Ora, un’occasione per averne invece una percezione assai concreta è questo libretto di Aldo Garosci, uscito nel gennaio del 1944 e pubblicato per la prima volta nell’Italia repubblicana: Profilo dell’azione di Carlo Rosselli e di Giustizia e Libertà (Edizioni di storia e letteratura, introduzione di Samuele Bertinelli). Garosci, militante e cospiratore giellino, era stato costretto ad espatriare nel 1932, poi rientrò in Italia 12 anni dopo, alla fine del 1943- sbarca in Sicilia provenendo da Tunisi – insieme a Leo Valiani e altri per combattere nelle file della Resistenza (e in Sicilia trova subito «un insospettabile fervore antifascista» tra i giovani, un clima incoraggiante nel quale scrive queste pagine). Ricordo come in quel momento si era appunto costituito il Partito d’Azione, dalle ceneri del precedente Giustizia e Libertà (il cui nome e simbolo riproduce nella sua bandiera rossa), e di quel movimento conserva l’impronta politica più di quella ideale (la quale resta un poco sullo sfondo a causa della urgenza della lotta armata). Usiamo allora queste pagine per ripercorrere la vicenda di Giustizia e Libertà. L’inizio è rocambolesco, già un romanzo d’avventura alla Victor Hugo: nell’autunno del ‘29 nasce GeL dopo che in estate Rosselli, Nitti e Lussu erano evasi da Lipari su un motoscafo che veniva dalla Corsica. Ma la gestazione del movimento risale almeno all’Aventino (1925), e avviene attraverso riviste, circoli, iniziative pratiche, etc.: si tratta di un’area politica ispirata dai due mentori, Gobetti e Salvemini, e subito perseguitata dalla violenza fascista. A Lipari il socialista già turatiano Carlo Rosselli aveva scritto il fondamentale Socialismo liberale, uscito nel 1930, e Bibbia del nascente movimento (particolarmente acuminate le pagine di critica al determinismo di Marx). Come sappiamo, quel titolo stesso stava a indicare per Croce (e non soltanto) un “ircocervo”, una creatura mitica, fantastica. Eppure si tratta, a ben vedere, dell’unica soluzione realistica del dilemma politico che attraversa tragicamente il secolo breve. Capi dell’organizzazione all’estero furono Rosselli e Lussu, in Italia Rossi e Bauer. GeL si diffonde velocemente, raccogliendo una concentrazione socialista-repubblicana-democratica: «non era una lega o un cartello di partiti ma un’accolita di uomini». Nella lotta al fascismo, condotta attraverso attentati, attività cospirativa e una opera di “controinformazione”, ci furono parole d’ordine poco felici, come il “non pagare le tasse” (nel momento in cui lo stato fascista si stava rafforzando, anche nell’opinione pubblica) ma anche metodi di propaganda innovativi e fantasiosi, come il lancio di volantini su Milano o l’idea di mettere gli slogan del movimento per gli ufficiali dentro le buste di “Nastro azzurro”. Nel 1932 viene messo a punto un programma del movimento, con una parte politica e una economica: richiamo alle autonomie, socializzazione della grande industria, terra a chi lavora mediante una moderata indennità… Certo, alcune parti del programma restano poco definite, forse anche confuse (ad esempio il tipo di equilibrio, in economia, tra i due settori, il privato e il socializzato), ma al suo centro troviamo la richiesta di una repubblica democratica che possa estirpare dalle radici fascismo e monarchia. Nel 1932 esce il primo dei dodici importanti “Quaderni”, mentre nel 1934 GeL si afferma come movimento politico indipendente, con a capo Rosselli , il quale dopo aver combattuto in Spagna, verrà assassinato in Normandia, insieme al fratello, nel 1937. Conseguente sfaldamento del movimento e sua parziale rinascita con l’azionismo all’inizio della guerra. Accennavo a un sistematico screditamento di GeL, specie ad opera dei comunisti, che ribattezzavano settariamente “socialfascismo” tutte le forme di antifascismo diverse dalla propria (i giudizi di Togliatti sugli azionisti furono sprezzanti e riduttivi: Rosselli era un “piccolo borghese presuntuoso”). Ripasso velocemente le accuse per tentare di ribaltarle. Erano, colpevolmente, predicatori, moralisti, astratti, professorali, elitari… Allora: non tanto “predicano” quanto agiscono, e da subito, con perdite e sacrifici individuali immensi. Lungi dall’essere astratti propongono invece riforme concrete, industriali e agrarie, e riconoscono, realisticamente, che solo una “rivoluzione” può impedire la imminente guerra europea. Non fanno mai la “morale” agli altri, e anzi sanno bene, come scrisse Carlo Levi (uno dei giellisti più prestigiosi) che occorre combattere il fascismo anzitutto “dentro di sé”. Non si pensano mai come élite, come avanguardia esterna che leninisticamente porta la coscienza alle masse, ma ci appaiono oggi quasi mistici della democrazia, con la fiducia nell’autogoverno, nelle forme di contropotere e autorganizzazione (“autonomia” è il mantra che ricorre in tutti i documenti: più Naomi Klein che un circolo snob di illuministi). Aggiungo solo che l’atteggiamento dei comunisti era ambivalente: ad esempio Rodano, eminenza grigia del “compromesso storico”, vedeva come bestia nera gli azionisti di sinistra mentre si sentiva vicino alla “rivoluzione democratica” dei La Malfa, Omodeo, Salvatorelli, etc. Il finale dello scritto di Garosci è insieme problematico e commovente. Sottolineando le affinità tra GeL e il Partito d’Azione si mostra preoccupato, in un momento di “dissoluzione sociale e morale”, dall’affievolirsi della identità azionista, tra il sostegno contraddittoriamente concesso a Badoglio e un approccio tutto verticistico e istituzionale alle questioni sul tappeto. Tanto da allontanarsi polemicamente dai partiti stessi, auspicando una “rivoluzione umanista”, libertaria, che si contrapponesse al fascismo non come forza politica ma come forza morale. Credo che gli azionisti, lungi dall’essere degli alieni, disegnino anch’essi una autobiografia della nazione. Solo che raccontano una nazione diversa da quella dell’eterno fascismo, una nazione più appartata, una umile Italia in parte inesplosa, eppure altrettanto reale. L’individuo prima degli apparati, le persone prima dei partiti, l’etica prima della tattica, il vero prima dell’utile, una idea di civiltà prima ancora dei programmi politici. Sì, erano i “giusti”. Filippo La Porta 

Catarsini, la guerra civile "dipinta" da chi la visse. Giordano Bruno Guerri il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Gli anni dal 1943 al '45 in Lucchesia, teatro di paure, atrocità, incertezze. E scelte politiche dettate dal caso. Nel 1943-45 l'Italia venne scaraventata indietro nel tempo e di colpo assunse di nuovo l'aspetto di Paese diviso in fazioni avverse, impegnate in battaglie ed eccessi barbarici, come in un ritorno al Medioevo. Non è stata ancora scritta un'analisi psicologica attendibile dei due anni in cui il popolo italiano si spaccò tra nord e sud, tra fascisti e partigiani, tra alleati e tedeschi. È certo però che la scelta non si basò sempre su motivazioni ideologiche ragionate, ma più spesso su fobie, vertigini, perdita di identità e, ancora più spesso, circostanze o coincidenze: «Per molti dei miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti ad un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall'altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile» (Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno). Anche Alfredo Catarsini (1899-1993) spiega bene che i più, in realtà, non scelsero. Fu la geografia a decidere per loro: chi stava nel Sud già liberato fu felice di rimanervi, chi stava al nord si sottomise alla neonata Repubblica Sociale Italiana in attesa della «immancabile vittoria» fascista o della ben più probabile avanzata degli eserciti alleati. Chi viveva nella fascia di mezzo al fronte, come nel romanzo di Alfredo Catarsini Giorni neri (uscito nel 1969, ora ripubblicato da La nave di Teseo) - dipendeva spesso dal caso e dalle circostanze. Solo una minoranza decise di schierarsi attivamente da una parte o dall'altra. Quelli che stettero con Mussolini erano sovente spinti, più che dalla fede nel fascismo, dal senso dell'onore, dal rispetto dei patti, della «patria tradita», dall'anticomunismo e dal disprezzo per le democrazie inculcato loro per vent'anni, a testimonianza che l'educazione del regime non era stata vana. Basti leggere il più bel romanzo sulla guerra civile vista da un giovane che aderì alla RSI, A cercar la bella morte, di Carlo Mazzantini, pubblicato nel 1986. Nella Resistenza l'idea di patria era più debole, specie se confrontata con quella di altri Paesi: era inevitabile, visto che per i partigiani cresciuti nel fascismo la patria era identificata con il regime fascista. Quelli che in seguito saranno genericamente indicati come antifascisti spesso erano tali in quanto odiavano i tedeschi, oppure amavano la monarchia, o sognavano una «dittatura del proletariato» sul modello sovietico: solo una minoranza si batteva per la libertà e basta. Il contributo militare che questi uomini portarono alla vittoria fu marginale: la Resistenza ebbe soprattutto valore morale e simbolico, perché significò che parte degli italiani si schierava, armi in pugno, contro un'ideologia che mirava a sottomettere l'intero pianeta ordinandolo sulla base di una gerarchia razziale. Le loro motivazioni erano fortissime perché, non educati né alla libertà né alla democrazia, le avevano scoperte e valorizzate da soli. E, conoscendole in autonomia, spesso credettero con ingenuità che il comunismo già dittatoriale ovunque si era affermato potesse rappresentarle. La maggioranza del popolo voleva semplicemente «Pane, pace e libertà», come qualcuno scrisse su un muro di Milano. Scritto nel 1968-69, molto prima che la storiografia delineasse più correttamente gli eventi della guerra civile, il libro di Alfredo Catarsini centra l'obiettivo di raccontare la tragedia di una lotta crudelissima fra uomini che, fino a poco prima, erano vissuti in pace e in vicinanza. È una storia di partigiani, fascisti, tedeschi, e soprattutto di sfollati, povera gente che la guerra ha privato di ogni cosa, sicurezze, cibo, case, padri e figli. Giorni neri è la versione narrativa, e quindi tanto più suggestiva, di un magnifico saggio di Miriam Mafai, Pane nero, uscito nel 1987. Catarsini era un pittore, un eccellente pittore, che oggi viene riscoperto e valorizzato, e adesso scopriamo che era anche uno scrittore capace di raccontare i giorni orribili della guerra civile con maestria. Nella nota introduttiva si chiede se è riuscito «a dare un carattere proprio ad ogni personaggio»: ci è riuscito benissimo, delineando il carattere comune, cioè l'ostinata volontà di sopravvivere fra passioni, ricatti, tradimenti, paure, fame con cui fare i conti ogni giorno. Ci riesce con l'arte del pittore, con la passione per il dettaglio schizzato rapidamente confrontate il testo con i disegni che lo accompagnano, qua e là, e vedrete che si somigliano: pennellate di scrittura rapide e sicure, ricche di parole che a molti sembreranno dialettali, e che invece vengono da un antico italiano che si è conservato solo in Toscana, e sempre meno: per esempio nella pagina che apre il racconto, «bianca come una saponata». E troviamo anche, fondamentale, il problema sociale di sempre: «Il ricco non vuol capire la lingua del povero», dice Nando, il protagonista che vi rimarrà nella memoria, «Lo so, lo so che corpo pasciuto non crede l'affamato». Giordano Bruno Guerri 

Chi liberò veramente l’Italia. Marcello Veneziani, La Verità/marcelloveneziani.com 25 aprile 2021. Si può celebrare in tanti modi la Liberazione dell’Italia nel 1945 ma ci sono dati, numeri e vite che non si possono smentire e che sono la base necessaria e oggettiva per dare una giusta dimensione storica all’evento. Dunque, per la Liberazione dell’Italia morirono nel nostro Paese circa 90mila soldati americani, sepolti in 42 cimiteri su suolo italiano, da Udine a Siracusa. Secondo i dati dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, furono 6882 i partigiani morti in combattimento. Ricavo questi dati da una monumentale ricerca storica, in undici volumi raccolti in cofanetto, dedicata a La liberazione alleata d’Italia 1943-45 (Pensa ed.), basata sui Report of Operations di diversi reggimenti statunitensi, gli articoli del settimanale Yank dell’esercito americano e i reportage dell’Associated press. E naturalmente la ricerca storica vera e propria. Più un’ampia documentazione fotografica. L’autore è lo storico salentino Gianni Donno, già ordinario di Storia contemporanea, che ha analizzato i Reports of Operations in originale, mandatigli (a pagamento) da Golden Arrow Military Research, scannerizzati dall’originale custodito negli Archivi nel Pentagono. L’opera ha una doppia, autorevole prefazione di Piero Craveri e di Giampiero Berti e prende le mosse dallo sbarco di Salerno. Secondo Donno, non certo di simpatie fasciste, il censimento dell’Anpi è “molto discutibile” ma già quei numeri ufficiali rendono le esatte proporzioni dei contributi. Facciamo la comparazione numerica: per ogni partigiano caduto in armi ci furono almeno 13 soldati americani caduti per liberare l’Italia. Senza considerare i dispersi americani che, insieme ai feriti, furono circa 200mila. E il conto risuona in modo ancora più stridente se si comparano i 120mila militari tedeschi caduti in Italia, soprattutto nelle grandi battaglie (Cassino, Anzio e Nettuno) contro gli Alleati e sepolti in gran parte in quattro cimiteri italiani. Naturalmente, diverso è parlare di vittime italiane della guerra civile, fascisti e no, di cui esiste un’ampia documentazione, da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa, per citare le ricerche più scomode e famose. Ma non sto parlando di fascismo e guerra civile, bensì di Liberazione d’Italia, ovvero di chi ha effettivamente liberato l’Italia dai tedeschi o se preferite dai “nazifascisti”. Pur avendo un giudizio storico molto diverso dalla vulgata ufficiale e istituzionale, confesso una cosa: avrei voluto dire il contrario, che l’Italia fu liberata dalla Resistenza, dalla lotta di liberazione, dall’insurrezione popolare degli italiani contro l’invasore. Avrei preferito, da italiano, dire che furono loro a battere i tedeschi, fino a sgominarli, come suggerisce la narrazione ufficiale e permanente del nostro Paese. Ma non è così; e se non bastassero i giudizi storici, la conoscenza di eventi e battaglie, le sottaciute testimonianze della gente, bastano quei numeri, quella sproporzione così evidente di morti, di caduti sul campo per confermarlo. Furono gli alleati angloamericani, sul campo, a battere i tedeschi; senza considerare il ruolo decisivo che ebbero i bombardamenti aerei degli alleati sulle nostre città stremate e sulle popolazioni civili per piegare l’Italia e separarla dal nefasto alleato tedesco. Si può aggiungere che la liberazione d’Italia sarebbe avvenuta con ogni probabilità anche senza l’apporto dei partigiani; mentre l’inverso, dati alla mano, è impensabile. Dunque la Resistenza può conservare un forte significato sul piano simbolico e si possono narrare singoli episodi, imprese e protagonisti meritevoli di essere ricordati; ma sul piano storico non si può davvero sostenere, alla luce dei fatti e dei numeri, che fu la Resistenza a liberare l’Italia. Nella migliore delle ipotesi è mito di fondazione, pedagogia di massa, retorica di Stato. Il mito della resistenza di cui scrisse uno storico operaista di sinistra radicale come Romolo Gobbi. Per essere precisi, la Liberazione non si concluse il 25 aprile a Milano come narra l’apologetica resistenziale, ma l’ultima, aspra battaglia tra alleati e tedeschi, sostiene Donno, si combatté nel comune di San Pietro in Cerro, nel piacentino, tra il 27 e 28 aprile. A San Pietro c’era anche il regista americano John Huston, inviato col grado di Capitano, a girare docufilm. Ma i filmati erano così duri che gli Alti comandi americani decisero di non diffonderli fra le truppe se non in versione edulcorata. Sulle lapidi dei cimiteri di guerra disseminati tra Siracusa e Udine, censiti da Massimo Coltronari, ci sono nomi di soldati e ufficiali hawaiani, australiani, neozelandesi, perfino maori, indiani e nepalesi, francesi e marocchini, polacchi, greci, anche qualche italiano del Corpo italiano di liberazione, e poi brasiliani, belgi, militi della brigata ebraica; ma la stragrande maggioranza sono americani, caduti sul suolo italiano. Molti erano di origine italiana: si chiamavano Ferrante, Lovascio, Gualtieri, Rivera, Valvo, Pizzo, Mancuso, Capano, Quercio, Colantuonio, Barrolato, Barone…“È stata e continua ad essere – dice Donno – una grande opera di mascheramento della “verità” quando non di falsificazione… i miei volumi hanno l’ambizione di rompere questa cortina di latta (che, ammaccata dappertutto, tuttora sopravvive nella discarica del tempo) facendo emergere dati e fatti oscurati ed ignorati”. Naturalmente possono divergere i giudizi tra chi considera gli alleati come benefattori e liberatori, chi come occupanti e nuovi invasori; chi avrebbe preferito che fossero stati i sovietici a liberarci; e chi si limita a considerarli combattenti, soldati in guerra e non eroi, soccorritori o invasori. La memorialistica sulla liberazione d’Italia minimizza e trascura l’apporto americano; invece, sottolinea Craveri, è evidente che furono loro i protagonisti della liberazione d’Italia. La verità, vi prego, sull’onore. MV, La Verità 25 aprile 2021

Marcello Veneziani. Giornalista, scrittore, filosofo. Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai. Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani. È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.

«Bella ciao» non sia obbligatoria ma non è un inno comunista. Aldo Cazzullo il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. Caro Aldo Cazzullo, per gli uomini del Pd che annaspano in cerca di idee, l’appiglio estremo è da 75 anni sempre lo stesso: l’antifascismo. Quando si tratta di frenare l’emorragia di consensi, la retorica antifascista e le note di «Bella ciao», inno dei partigiani rossi, devono ricordare a tutti da che parte sta la vera democrazia. Peccato che questo sia un falso storico. I partigiani che combatterono il fascismo furono i repubblicani, i liberali, i militari fedeli alla monarchia, i cattolici, gli azionisti seguaci di Pertini e Salvemini... I partigiani comunisti combatterono la dittatura fascista non per la libertà, ma per instaurare un’altra dittatura: la loro. Raffaele Laurenzi, Milano

Caro Raffaele, Non sono d’accordo con lei. I partigiani non avevano bollini, tanto meno rossi. Certo, c’erano i comunisti, i socialisti, i monarchici, i cattolici, gli azionisti. Ma la maggioranza erano giovani senza partito, che anzi dopo vent’anni di fascismo non sapevano neppure cosa fossero i partiti, e semplicemente rifiutarono di obbedire ai bandi Graziani, e quindi di combattere per Hitler e Mussolini. Sono certo che questo discorso vale pure per molti resistenti delle brigate Garibaldi. Detto questo, certo, c’erano i comunisti. Qualcuno pensava di costruire una democrazia. Molti sognavano di fare la rivoluzione come in Russia. Ma questo è un discorso perfetto per le polemiche politiche di oggi, magari per giustificare chi invece combatté per Hitler e Mussolini. All’epoca l’urgenza era di stabilire da quale parte stare: con chi mandava gli ebrei italiani nei campi di sterminio, o contro. Questo non toglie un’oncia alla gravità dei delitti commessi da partigiani comunisti nel triangolo della morte emiliano e altrove. Quanto a «Bella ciao», imporre di cantarla per legge è sbagliato. Ma non è una canzone comunista. È una canzone che parla di libertà. Ad Alba, città dove la Dc aveva il 60 per cento, il secondo partito era il Pli e il terzo il Pri, si cantava «Bella ciao» senza pensare di fare una cosa di sinistra. E comunque Giorgio Bocca raccontava di aver fatto la guerra di liberazione per quasi venti mesi senza mai intonarla.

"Una vergogna e uno schiaffo. Pietro Senaldi e il 2 giugno da cancellare: "Non riusciamo nemmeno a festeggiare una truffa, la nostra Costituzione è lettera morta". Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi commenta la Festa della Repubblica: "Anche questo 2 giugno ce lo stiamo togliendo dalle scatole. La festa della Repubblica è la data del referendum che abolì la monarchia e va beh che siamo italiani ma nemmeno noi riusciamo a festeggiare una truffa. Questa festa non è sentita perché la nostra Repubblica è un'eterna incompiuta: tutte le cose scritte nella Costituzione sono lettere morte, dalla magistratura al lavoro, che non c'è, fino alle aziende, cui vengono sempre messi i bastoni fra le ruote. Tanti auguri Repubblica, ci rivediamo l'anno prossimo e non sarà cambiato niente". 

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 7 giugno 2021. «Bella Ciao» come l'inno di Mameli, almeno il 25 aprile. Nelle cerimonie ufficiali della Festa della Liberazione, subito dopo l'inno nazionale, va intonata la canzone simbolo della Resistenza. Anche se in realtà, nella proposta di legge in cui viene motivata l'iniziativa, si sottolinea il «carattere istituzionale» di "Bella Ciao", il fatto che sia «un'espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica». Nel testo, a prima firma del deputato Pd Gian Mario Fragomeli, ma sottoscritto anche da nomi noti come Fiano, Fassino o Boldrini, si ripercorre la storia della canzone, cercando di dimostrarne la neutralità politica: «Possiamo affermare con certezza - scrivono i proponenti - che "Bella Ciao" non è espressione di una singola parte politica, ma che, al contrario, tutte le forze democratiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone». Una tesi che non fa breccia a destra, come spiega chiaramente Ignazio La Russa: «"Bella Ciao", non per colpa del testo, ma per colpa della sinistra, non copre il gusto di tutti gli italiani - spiega il senatore di Fratelli d' Italia - non è la canzone dei partigiani, ma solo dei partigiani comunisti. Se proprio si vuole tornare indietro nella storia, c' è la canzone del Piave per ricordare i caduti della guerra». Netto il giudizio negativo di Rachele Mussolini, nipote del Duce, che la definisce una «proposta divisiva, che non toglie o aggiunge nulla a quello che è lo stato attuale delle cose: l'hanno sempre cantata il 25 aprile e ora vogliono avere l'ufficialità di questo inno. Ce ne faremo una ragione». La legge, presentata alla Camera lo scorso 21 aprile, è sostenuta da Pd, Italia Viva e Leu, ma tra i firmatari c' è anche un deputato del Movimento 5 stelle. Da vedere se troverà il consenso necessario in Parlamento, il testo è stato assegnato alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio lo scorso venerdì, ma l'esame non è ancora stato avviato.

“Bella Ciao” obbligatorio? La Rai ci propina il documentario sul “mito” dei partigiani buoni…Monica Pucci lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Mentre impazza il dibattito sulla proposta di legge che vorrebbe ‘Bella ciao’ inno del 25 aprile, al canto popolare sarà dedicato per la prima volta un documentario, che dovrebbe andare in onda il prossimo 15 dicembre su Rai1. Benzina sul fuoco nel dibattito sull’inno “partigiano”, del quale la sinistra chiede un riconoscimento istituzionale rendendolo obbligatorio subito dopo l’Inno di Mameli, in occasione di eventi celebrativi, come il 25 aprile. La Rai, intanto, si è portata avanti col lavoro… Lo scorso 31 maggio è stato annunciato che ‘Bella Ciao’ diventerà un documentario coprodotto da Palomar Doc e Rai Documentari e diretto da Giulia Giapponesi con il titolo ‘Bella Ciao – La storia oltre il mito’. Con oltre un miliardo di visualizzazioni online, Bella Ciao è il canto popolare italiano più ascoltato nel mondo negli ultimi anni. Come canzone di lotta e resistenza è stata recuperata nell’ultimo quarto di secolo da decine di realtà di protesta, dalla primavera araba alle proteste #occupy Usa e #occupy Mumbai, dalla lotta alla globalizzazione alla lotta ai cambiamenti climatici, dai funerali dei vignettisti di Charles Hebdo alle rivolte in Sudan e ai movimenti di piazza in Libano, in Cile, in Turchia. Tutto fa brodo, quando c’è da cantare “oh partigiano portami via”, anche nelle fiction di successo, come “La casa di carta” di Netflix. Ma in Italia quel canto resta di parte e divisivo, non certo rappresentativo di tutti, visto che ha segnato le fasi più cruente della guerra civile e accompagnato le azioni vendicative dei partigiani italiani senza scrupoli. 

La tragica storia di Luisa Ferida: innocente, fu fucilata dai partigiani con il bimbo in grembo. Viola Longo venerdì 30 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Qualcuno l’ha ricordata in occasione del 25 aprile, per rammentare che anche ombre si affastellano su quella data. In molti sui social la stanno ricordando in queste ore, in cui ricorre l’anniversario del suo assassinio. Luisa Ferida, al secolo Luigia Manfrini Farné, era un’attrice di successo, aveva 31 anni ed era incinta a uno stadio avanzato quando il 30 aprile 1945 venne fucilata a Milano dai partigiani. La sua unica colpa era quella di essere la compagna dell’altrettanto noto attore Osvaldo Valenti, a sua volta giustiziato quel giorno: aveva aderito alla Rsi e si era arruolato nella X Mas «in quanto simbolo di dignità e onore». Tanto bastava.

Una sentenza già scritta. Per Valenti e Ferida, come per molti che fecero la stessa fine, i partigiani, che in questo caso erano quelli della divisione “Pasubio”, al comando di Giuseppe Morozin, che rispondeva al nome di battaglia di “Vero”, celebrarono un processo sommario, con una sentenza di fatto già scritta: morte. Secondo quanto riferito dallo stesso Morozin anni dopo, fu Sandro Pertini in persona a spingere per l’esecuzione. Anche per quella della Ferida.

L’ordine di Pertini: uccideteli. Fra i molti che hanno raccontato la storia tragica di Ferida e Valenti, c’è stato anche Raffaello Uboldi, giornalista di razza e autore, tra l’altro, della prima biografia di Pertini, Il cittadino Sandro Pertini, cui seguì poi il volume Pertini soldato. Ebbene, anche Uboldi, scomparso nel novembre 2018 e che di Pertini fu collaboratore e amico, scrive nel suo 25 aprile. I giorni dell’odio e della libertà, che Pertini «non muoverà un dito per salvare dalla fucilazione Valenti e la Ferida, nemmeno lei, che era colpevole di nulla; anzi, si sarebbe speso a favore dell’esecuzione». “Vero” Morozin nel suo Odissea Partigiana, del 1965, fu molto più netto, raccontando che Pertini lo chiamò tre volte, intimando di uccidere i due attori.

Luisa Ferida, fucilata dai partigiani «senza prove». Il racconto che Uboldi fa della loro condanna a morte è drammatico e, specie per la Ferida, carico di pietà. «La loro sorte è comunque segnata, li vogliono morti, sono considerati un simbolo, al di là delle colpe che vengono loro contestate senza uno straccio di prova. Vogliono morta anche lei, che un qualsiasi altro tribunale manderebbe assolta, per di più è incinta, attende un bambino, non c’è luogo al mondo dove la condanna non verrebbe sospesa. Non nella Milano di questo aprile 1945. E così Luisa muore con lui, uccisa senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia».

Poi lo Stato ammise: «Uccisa perché amante di Valenti». Undici anni dopo, nell’ottobre del 1956, la madre di Luisa Ferida, Lucia Pasini, ottenne che le autorità italiane scrivessero nero su bianco che la figlia era stata giustiziata senza colpa. La donna chiese e ottenne, infatti, una pensione di guerra, poiché Luisa era la sua unica fonte di sostentamento. Ne scaturì un’istruttoria da parte dei Carabinieri, che si concluse con questo rapporto: «La signora Manfrini Luisa, in arte Luisa Ferida, non consta abbia fatto parte di formazioni militari ausiliarie della Repubblica sociale italiana. Le cause del decesso della Manfrini devono ricercarsi nel fatto che la predetta era amante del noto attore Osvaldo Valenti». Una esecuzione partigiana, come scritto da Uboldi, «senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia». 

I ragazzi di Salò? Veri rivoluzionari. Un libro ribalta i vecchi tabù storiografici. Redazione martedì 7 Marzo 2017 su Il Secolo d'Italia. Di titoli sulla Rsi se ne contano a bizzeffe. Alcuni sono davvero illuminanti, altri si muovono nella dimensione – sia pure importante – della testimonianza, altri obbediscono a logiche di parte. C’è ora un libro in uscita per la casa editrice Il Mulino anticipato sul Corriere da un’analisi di Paolo Mieli, L’Italia di Salò 1943-45, che tenta di fare i conti oltre ogni pregiudizio con una pagina di storia fino ad oggi rimossa o deformata. Gli autori, Mario Avagliano e Marco Palmieri, ben sottolineano – scrive Paolo Mieli – “i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla "parte sbagliata"“.  Quella scelta fu per molti giovani e giovanissimi non una macchia, non una colpa ma – affermano i due autori del libro – “una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime”. Il tabù storiografico che considera i combattenti della Rsi “avventurieri” o “idealisti in buona fede” non è utile chiave di lettura per spiegare dopo decenni un fenomeno che attirò tanti giovani, molti dei quali destinati dopo la guerra ad una brillante carriera nel mondo dello spettacolo. Tra questi, oltre alla famosa coppia di attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, Giorgio Albertazzi e Dario Fo, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Mario Carotenuto, Mario Castellacci, Fede Arnaud Pocek e Raimondo Vianello, che meglio di altri seppe spiegare cosa lo spinse ad andare volontario nella Rsi, e cioè “un impulso di ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: ‘Vianello, si salvi chi può!’ “. Un esempio classico dello stile italiano del pavido voltagabbana, una cifra esistenziale che appunto i giovani della Rsi vollero respingere col loro esempio, pur se consapevoli di andare a combattere per una causa destinata a perdere. Mieli sottolinea inoltre che il libro dedica pagine particolarmente interessanti al fascismo clandestino nell’Italia liberata, ai “non cooperanti” – in particolare quelli del campo di Hereford – e ai gruppi spontanei che si organizzano nell’Italia meridionale e in particolare in Sicilia dopo lo sbarco alleato raccogliendo i fedelissimi del fascismo. Un capitolo dove spiccano i nomi di Dino Grammatico, Maria D’Alì, Salvatore Bramante, Angelo Nicosia. La storia della rete di non cooperanti e fascisti in Sicilia è ricca di episodi poco conosciuti e per nulla approfonditi. Nella fase finale della guerra, ad esempio, in Sicilia si sviluppa – annota Paolo Mieli -una protesta “contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatsiti e comunisti. Ci si batteva, con lo slogan ‘Non si parte’, per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi negli ultimi decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sgarestano Giovanni Criscione”. Il movimento “Non si parte” creò episodi insurrezionali in vari centri della Sicilia (Modica, Vittoria, Comiso, Giarratana) mentre la Occhipinti dopo la guerra sarà eletta deputata con il Pci. 

LE STORIE DIMENTICATE DELLA GUERRA CIVILE. Il sacerdote fucilato dai fascisti, il seminarista ucciso dai partigiani: segreti e verità della «guerra civile italiana». La storia di don Pasquino Borghi, torturato e ucciso dai fascisti, e quella di Rolando Rivi, seminarista, ucciso a 14 anni dai partigiani. Il vescovo di Reggio Emilia Camisasca: «Quel sangue è diventato luce». Aldo Cazzullo il 30 maggio 2021 su Il Corriere della Sera. I protagonisti della guerra civile se ne stanno andando, uno a uno. A volte con i loro segreti; a volte liberandosi di antichi fardelli. Don Pasquino Borghi, figlio di contadini, parroco di Scandiano, nascose nella canonica ex prigionieri alleati in fuga e i primi partigiani. Invitato da un confratello a essere più prudente, rispose: «Dove li mando questi poveri ragazzi? Possiamo anche dare la vita per la causa della patria, non è vero?». Fu arrestato, percosso, torturato, e fucilato nella notte tra il 29 e il 30 gennaio 1944 al Poligono di tiro di Reggio Emilia, con altri otto resistenti. Sua madre, Orsolina, volle perdonare il giovane fascista che aveva partecipato alla fucilazione del figlio, Sergio Paderni, e scrisse: «Sull’esempio eroico dell’amato figlio don Pasquino e in sua memoria, per la pacificazione degli animi da lui auspicata nel supremo istante del sacrificio della propria vita, perdono cristianamente all’autore materiale dell’iniqua sentenza». Sergio Paderni aveva appena quindici anni. Ebbe una vita lunga, diventò direttore generale della Programmazione sanitaria del ministero, fu uno dei padri del servizio sanitario nazionale. Il 30 gennaio 2021, nel giorno del settantasettesimo anniversario della fucilazione, ha scritto una memoria — poche settimane prima di morire, il 25 marzo scorso —, in cui cita un’espressione del vescovo di Reggio Emilia, Massimo Camisasca: «Il sangue di don Pasquino Borghi è diventato luce». Un documento firmato da lui, Sergio Paderni, insieme con i familiari del sacerdote: «Io, Sergio, allora quindicenne, fui certo del perdono di don Pasquino subito dopo la mia partecipazione alla fucilazione. Mia madre lo comprese subito e lo scrisse alla mamma di don Pasquino, ringraziandola per il suo gesto: “Mio figlio non potrà mai dimenticare quello che ha visto in quella tragica mattina, e quel ricordo sarà sempre di sprone a bene operare in ogni azione della sua vita”. Da quel momento, cercai di dare alla mia vita il senso di un servizio ai malati e ai bisognosi, ricordando e invocando ogni giorno nelle mie preghiere l’intercessione di quell’uomo, il cui sangue, come disse monsignor Camisasca, è diventato luce». Rolando Rivi era un seminarista di quattordici anni. Il mattino del 10 aprile 1945, di ritorno dalla messa, andò a studiare nel suo posto preferito, un boschetto vicino a casa. A mezzogiorno non si presentò a pranzo. I genitori trovarono i suoi libri sparpagliati a terra e un biglietto: «Non cercatelo. Viene un momento con noi partigiani». Dopo essere stato interrogato e torturato per tre giorni, il 13 aprile gli fu scavata la fossa. Il commissario politico dei rapitori, Giuseppe Corghi, gli sparò due colpi alla testa, troncando le proteste di alcuni dei suoi uomini, che facevano notare che in fondo era solo un ragazzo: «Sarà un prete di meno domani». Ora Rolando Rivi è beato. Ieri la sua festa liturgica è stata celebrata in tutto il mondo, anche nelle Filippine, dov’è nato un gruppo di «amici di Rolando», e in Vietnam. Da oltre trenta Paesi sono arrivate a Reggio Emilia richieste per avere sue reliquie; in tutto oggi sono 730 sparse per il mondo, quasi sempre un frammento della cassetta di legno in cui il corpo del beato è stato custodito. L’interesse attorno alla sua storia è cresciuto da quando tre anni fa Meris Corghi, la figlia del suo assassino, ha chiesto perdono per conto del padre. Giuseppe Corghi non aveva mai parlato in famiglia della guerra. Né del periodo trascorso in carcere, né della fuga all’estero. Solo prima di morire aveva confidato il proprio tormento alla sorella, che ne parlò con Meris, la figlia di lui. Da quel momento Meris Corghi, cresciuta in una famiglia atea, ha iniziato con un frate domenicano un percorso di conversione, culminato in una preghiera pubblica sulla tomba di Rolando Rivi, nella Pieve di San Valentino. La figlia ha chiesto perdono per il padre, con queste parole: «Cristo ha salvato tutti gli uomini. Prima di spirare sulla croce usò il suo ultimo fiato solo per perdonare i suoi carnefici. Ciò che l’odio del Separatore ha diviso possa riunirsi nell’amore del Sacro Cuore di Gesù. Che il sorriso di Rolando possa risplendere su tutti voi e, accanto a lui, anche quello di mio padre». È stato un buon padre ed era un uomo buono, accecato dall’ideologia, ha confidato Meris Corghi. Tra lo scoppio della guerra e il 1948, l’Emilia-Romagna ha avuto 64 sacerdoti fucilati o assassinati (oltre a 59 morti per cause belliche: 14 erano cappellani militari, 45 hanno perso la vita nei bombardamenti o sulle mine o per altri incidenti). Trentasette furono uccisi dai nazifascisti, ventisette da partigiani o ex partigiani comunisti. La diocesi di Reggio Emilia pagò un grave tributo di sangue. Il martirologio è impressionante. Don Giovanni Battista Pigozzi, parroco di Cervarolo, in montagna, messo al muro con ventidue suoi parrocchiani: «Vi accompagno io davanti al Signore».

Don Giuseppe Donadelli, parroco di Vallisnera, fucilato dai tedeschi con due giovani.

Don Pietro De Carli, picchiato selvaggiamente dai nazifascisti e gettato dentro un fienile in fiamme.

Don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, ucciso da due partigiani comunisti in quanto prete, nonostante accogliesse i resistenti feriti.

Don Aldemiro Corsi, parroco di Grassano, ucciso insieme con la sua perpetua; gli assassini non sono mai stati individuati.

Don Luigi Manfredi, assassinato dai comunisti sulla porta della canonica di Budrio.

Don Dante Mattioli, parroco di Cogruzzo, prelevato da un commando partigiano con il nipote e mai tornato; come don Giuseppe Iemmi, che aveva collaborato con la Resistenza ma denunciò dal pulpito l’assassinio di due padri di famiglia innocenti da parte di un gruppo estremista. Don Carlo Terenziani, rapito la mattina del 28 aprile 1945 mentre entrava nel santuario della Ghiara, la «Cappella Sistina» di Reggio.

Infine il caso più celebre: don Umberto Pessina, ucciso la sera del 18 giugno 1946 sulla soglia della canonica da assassini che confesseranno solo nel 1994. E negli ultimi anni sono emerse notizie di un prete, don Ennio Melioli, parroco di Montalto, morto il 27 maggio 1946 dopo una «sacchettatura», una tecnica che le frange irriducibili dei comunisti reggiani avevano mutuato dai titini: colpire con un sacco sottile pieno di sabbia, in modo da devastare gli organi interni senza lasciare tracce esterne.

Ora dal martirologio emergono due storie di pentimento e di perdono. Non si tratta di mettere sullo stesso piano i due fatti: un quindicenne che partecipa a un plotone d’esecuzione, e un commissario politico che spara alla testa di un ragazzino. E non si tratta di mettere sullo stesso piano i due fronti della guerra civile. Il fatto che vennero commesse atrocità da entrambe le parti non esclude che ci fosse una parte sbagliata, quella di Hitler e Mussolini, e una parte giusta, quella che combatteva il nazifascismo, e in cui militavano resistenti di ogni fede politica. E questo, sostiene Camisasca, era ben chiaro a quasi tutti i sacerdoti emiliani, già prima dello scoppio della guerra: «Dopo la proclamazione delle leggi razziali del 1938, anche se costretta al silenzio, la maggioranza pressoché assoluta del clero non ebbe più dubbi sul contenuto di odio e di negazione del Vangelo dei proclami del fascismo». È possibile sia custodire la memoria, sia coltivare la pacificazione. Le due cose non sono in contrasto, anzi si alimentano a vicenda. «Le storie di don Pasquino Borghi e del beato Rolando Rivi, e dei diversi tormenti dei loro uccisori, testimoniano che lo spirito di Dio è all’opera — conclude il vescovo di Reggio —. Sarebbe importante che la Chiesa pensasse a un processo di canonizzazione comune a tutti i preti uccisi nella nostra terra in odium fidei, per odio verso la fede. Se l’Italia è risorta dopo la guerra, lo si deve anche al sacrificio di questi nostri fratelli, che hanno vissuto alla lettera l’indicazione di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici”».

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2021. «Agli uomini e alle donne che sono stati portati nei campi di prigionia o in prigione senza accusa, alle persone che non sono più con noi per ascoltare queste scuse.... ai figli e ai nipoti che hanno portato la vergogna e il dolore di una generazione passata, e alla loro comunità, che ha dato tanto al nostro Paese, ci dispiace». Con queste parole il premier canadese Justin Trudeau, giovedì alla Camera dei Comuni, ha rivolto le scuse formali agli italo-canadesi internati durante la Seconda guerra mondiale nel Paese. «Erano imprenditori, lavoratori e medici. Erano padri, figli e amici - ha detto Trudeau -. Una volta arrivati in un campo, non c'era durata della pena. A volte, l'internamento è continuato per alcuni mesi. A volte, per anni. Ma gli impatti, quelli sono durati una vita». Ha aggiunto che il Canada era nel giusto ad opporsi al regime italiano che si schierava con la Germania nazista, ma fu un errore trasformare «gli italocanadesi rispettosi della legge in un capro espiatorio». «È ora di fare ammenda», ha concluso in francese. Nel 1939 al ministro della Giustizia canadese fu conferito il potere di internare, sequestrare proprietà e limitare le attività dei residenti nati in Stati che erano in guerra con il Canada, con l'intento di proteggere il Paese da tentativi di sabotaggio o sovversione. A farne le spese furono soprattutto i giapponesi. Dopo che Mussolini strinse l'alleanza con Hitler, circa 600 italo-canadesi vennero chiusi nei campi d'internamento, quattro donne finirono in carcere e circa 31.000 altri italo-canadesi furono dichiarati «alieni nemici», provocando maltrattamenti e discriminazioni. Nel porgere le scuse, il premier ha raccontato la storia di un uomo, Giuseppe Visocchi, arrestato nell'estate del 1940 durante un matrimonio a Montreal. La polizia disse alla sua famiglia che sarebbe tornato subito. Fu invece mandato in un campo di prigionieri di guerra a Petawawa, costretto ad indossare un'uniforme con un numero sul retro che lo contrassegnava come internato. Sono passati due anni prima che potesse tornare alla sua casa. «Questa non è la storia di un solo uomo, o di una sola famiglia», ha detto il primo ministro Trudeau. Quindi ha concluso ringraziando chi è rimasto, nonostante tutto. «Gli internati e le loro famiglie hanno mostrato la via: integrità, solidarietà, fede e lealtà al Canada. Per questo, il nostro Paese è loro grato». Oggi sono 1,6 milioni i canadesi di origine italiana - una delle più grandi diaspore italiane nel mondo - anche se molti sono discendenti da immigrati giunti in Nord America dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Pur non giustificando i campi di prigionia, alcuni storici criticano la lettura un po' troppo semplicistica di quanto avvenuto in quegli anni, ricordando che molti degli internati facevano propaganda attiva per il fascismo. Positivo invece il commento a caldo degli esponenti della comunità italo-canadese. Come James Malizia, ex vice-commissario per la sicurezza nazionale della Polizia reale canadese a cavallo, il cui nonno venne internato per tre anni: «È un momento di guarigione, le famiglie sono state finalmente ascoltate dopo essere state messe a tacere per molti anni», ha detto in un'intervista a CTV News Channel.

Marocchinate, la messa del Papa che fa infuriare tutti. Francesco Boezi il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. La Messa del Papa presso il cimitero militare francese scatena qualche polemica. E ora Fdi insiste sulla commissione d'inchiesta sulle "marocchinate". Fratelli d'Italia spinge sul piano politico affinché venga calendarizzata una commissione d'inchiesta sulle cosiddette marocchinate, ossia sulle violenze commesse dalle truppe coloniali dell'esercito francese durante la fase finale della seconda guerra mondiale. Il Basso Lazio è stato il tragico teatro di una pagina che, almeno sino a questo momento, non ha trovato molto spazio sui libri di storia e nel dibattito pubblico. L'occasione per insistere di nuovo su quella che il senatore Massimo Ruspandini ritiene una necessità, ossia l'istituzione di una commissione, è stata la Messa celebrata da papa Francesco presso il cimitero militare francese che ha sede a Roma. "Questa brava gente - ha fatto presente il Santo Padre Jorge Mario Bergoglio, recandosi presso il luogo citato - è morta in guerra, chiamata a difendere la patria, valori e ideali. E tante altre volte a difendere situazioni politiche tristi. Sono le vittime, le vittime della guerra che mangia i figli della patria", così come ripercorso dall'agenzia Nova. Frasi che non sono state recepite con condivisione da tutti. Le famiglie delle vittime delle marocchinate, infatti, hanno reagito alla scelta operata dal pontefice per la ricorrenza odierna, che riguarda tutti i defunti. Alcune dichiarazioni di persone che hanno avuto casi di "marocchinate" in famiglia sono balzate agli onori della cronaca riportata dall'Adnkronos: "Questa messa mi ha dato fastidio, almeno ci spieghino il motivo", ha fatto presente una donna. E poi un'altra parente di una vittima: "Il mio grande rammarico - ha sottolineato - è di non aver saputo prima delle marocchinate. Nonna ha sofferto tantissimo e non ne parlava mai. Io invece non mi stancherò mai di farlo, perché è giusto che si sappia". Insomma, il tema posto è anche questo: in quel cimitero sono seppelliti i Goumiers, che sono i responsabili di abusi ed omicidi passati in secondo piano, sotto il profilo storiografico. E il senatore Massimo Ruspandini incalza: "A quando - dichiara il parlamentare di Fdi - una Messa per le migliaia di vittime in tutta Italia dalle truppe coloniali francesi? Lo abbiamo ripetuto tante volte, troppe". Poi la specificazione: "Il fatto che nemmeno il Papa - ha proseguito il senatore - conosca la storia di migliaia di donne cristiane italiane stuprate dall'esercito coloniale francese - sostiene il meloniano - rende indispensabile l’individuazione di una commissione d'inchiesta per l'individuazione di una giornata per il ricordo delle vittime delle marocchinate come proposto da me e da Fratelli d'Italia in questi anni". Fdi punta dunque a due obiettivi: l'istituzione di una giornata ad hoc per le vittime delle marocchinate e la messa a punto di una commissione d'inchiesta che, stando all'opinione dei meloniani, dovrebbe finalmente rendere giustizia.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver se

Stupri, omicidi e saccheggi dalle truppe greche. Le altre “marocchinate” sconosciute contro gli italiani.

Andrea Cionci Libero Quotidiano il 26 agosto 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Non solo “marocchinate”: documenti appena ritrovati presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Esercito – che abbiamo pubblicato in esclusiva pochi giorni fa su Libero (cartaceo) – dimostrano che, durante la Seconda Guerra mondiale, stupri, saccheggi, rapine, omicidi furono compiuti a danno di civili italiani oltre che dalle famigerate truppe coloniali francesi del Cef (Corp expeditionnaire français) al comando di de Gaulle, anche dai 3000 soldati greci che operarono in Emilia Romagna e transitarono in Umbria, Molise, Campania e Puglia. La 3ª Brigata da montagna greca era stata aggregata, dall’agosto ’44, alla 2ª Divisione neozelandese del generale Freyberg, all’interno dell’8ª Armata inglese. I greci parteciparono all’offensiva sulla Linea Gotica e rimasero in Italia per cinque mesi. I fatti sono documentati da un carteggio fra il Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, Capo di Stato Maggiore Generale del Regno del Sud e il suo Segretario Generale degli Affari Esteri, Renato Prunas, insieme a centinaia di denunce ai Reali Carabinieri. Tuttavia, i reati, come avvenne per le marocchinate  (circa 60.000 crimini compiuti da 110.000 militari marocchini, senegalesi, francesi bianchi e algerini) furono molti di più rispetto a quelli denunciati – riferivano gli stessi Reali Carabinieri - dato che molti nostri civili non denunciavano le violenze carnali subite per paura o senso di vergogna. A trovare i documenti è stato un collaboratore dello studioso Massimo Lucioli, il primo ad aver scritto, insieme a Davide Sabatini, un libro sulle marocchinate, “La Ciociara e le altre” (1998). Più recentemente, Lucioli ha dimostrato con prove inoppugnabili (testimonianze di ufficiali francesi e fotografie) come il generale de Gaulle si trovasse, proprio in quei giorni, sull’altipiano di Polleca, che fu teatro delle più atroci violenze, e non poteva non sapere. Ecco, dunque, cosa scrive il 25 settembre ‘44 il Segretario Prunas a Messe: “Caro Maresciallo mi sono state riferite in questi ultimi giorni notizie tutt’altro che favorevoli circa il comportamento delle unità greche in azione le quali rivaleggerebbero con le recenti, dolorose gesta dei marocchini in fatto di rapine, stupri, saccheggi etc”. Risponde Messe il 2 ottobre: “Già qualche notizia mi era provenuta a riguardo, ma per il vero non molto precisa e la documentazione che finora ho potuto raccogliere a riguardo è ancora scarsa […] Tale problema forma oggetto della mia più vigile attenzione”. Così Messe il 4 ottobre scrive al Ministero dell’Interno facendosi inviare le denunce delle violenze, non solo per intervenire, ma anche perché “tale documentazione costituirà una inoppugnabile controprova da opporre ai tentativi di incriminare le nostre Forze Armate durante la guerra contro le Nazioni Unite”. Leggiamo, così, le tristi e dimenticate storie di Anita B. di Bellaria, che fu violentata in casa dei suoceri riportando lesioni al viso e al collo; di Nella P. che fu derubata di tutto, anello nuziale, biancheria, bovini e poi stuprata; di Cisborto Vittori che, a Riccione, fu mitragliato gratuitamente all’addome. A Gemmano, militari greci spacciatisi per “carabinieri” rapinano Guglielmo G. e ne violentano la moglie; nello stesso paese stuprano la moglie di Ugo B. davanti ai suoi occhi, minacciandolo con una pistola;  Ida T. subisce la stessa sorte da cinque greci; a Campomarino (CB) 1200 militari greci si accaniscono a fucilate contro i cittadini ferendo due civili, rapinando le case e tentando di assaltare la caserma dei CC;  a Spoleto, loc. Agro, tentano di violentare quattro  contadine; a Carbonara di Bari, in un negozio, accoltellano la moglie del proprietario; a La Barra (NA) militari greci aggrediscono senza alcun motivo , a colpi di bombe a mano, una casa, uccidono a pugnalate Lucia Cozzolini, ferendo cinque persone, e così via. Un altro documento fondamentale spiega come il Ministero della Guerra italiano  avesse inviato ben due lettere al Comando Alleato, il 27 ottobre e il 14 novembre ‘44. Il 10 dicembre, il colonnello Noakes dell’Alto Comando alleato risponde agli italiani scrivendo: “La questione è stata riferita al Comandante in Capo delle Forze Alleate in Italia (il generale inglese Alexander, che poco dopo sarà sostituito dall’americano Clark) il quale ha rilevato che, sebbene gli incidenti siano prospettati come fatti, in nessun caso si è data prova testimoniale che le azioni pretese siano state fatte da truppe alleate. Se il Governo italiano fornirà nomi di testimoni e di tutti gli altri particolari a sua disposizione, il Comandante in capo sarà pronto a disporre un’indagine approfondita”. Quindi, non è mai stata disposta un’indagine in tal senso ed ecco perché quei crimini sono rimasti dimenticati. “E’ stato storicamente interessante - commenta Massimo Lucioli – da parte delle commissioni parlamentari l’aver aperto il cosiddetto «Armadio della vergogna» (contenente circa 700 dossier sui crimini di guerra nazifascisti compiuti in Italia durante la Seconda guerra mondiale) ma ora si rende necessario andare a cercare nei nostri archivi come quello di Stato, quello dell’ufficio storico dell’Esercito e altri, dove sono sepolti migliaia di crimini commessi dalle forze angloamericane ancora tutti da studiare e da portare alla luce: le prove sono incontrovertibili, come nel caso dei greci, visto che la documentazione proviene dal Regno del Sud e non può essere certamente considerata «propaganda fascista»”. Ora, il prossimo studio di Lucioli, che ha appena pubblicato “1945 Germania anno zero” sui crimini alleati a danno di civili e prigionieri tedeschi, si occuperà di indagare quelli analoghi commessi in Italia dallo Sbarco in Sicilia, nel ’43, fino al termine delle operazioni militari nel 1945.

Marocchinate, la giunta rossa di Cassino celebra i criminali di guerra. FdI: “Indegni, dimettetevi”. Giovanni Pasero sabato 15 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. La giunta rossa di Cassino ha incredibilmente reso omaggio ai Goumiers, i soldati francesi che hanno partecipato alla battaglia del 1944 per la presa di Cassino e Montecassino e che si sono resi protagonisti di indicibili episodi di violenza. Carnefici che hanno lasciato il marchio di “marocchinate” alle vittime ciociare. Tragedia che ha ispirato anche il film La Ciociara con Sophia Loren. “La foto della Rocca Janula illuminata di blu diventa la foto simbolo della vergogna. La vergogna del comune di Cassino che si piega e si inginocchia alla violenza, alla superficialità, alla menzogna”. Lo scrive su Facebook il senatore Massimo Ruspandini (Fdi). “La scelta dell’amministrazione di Cassino – prosegue il senatore di Fratelli d’Italia – diventa simbolo di orrore, di offesa per la nostra gente stuprata due volte. Ieri dai Franco marocchini, oggi da queste associazioni, da chi ha avuto la brillante idea di premiare, di riabilitare, di omaggiare il generale francese Juin, il macellaio che regaló 50 ore di impunità assoluta a queste bestie feroci. Il premio per i liberatori venuti dagli altipiani del Marocco e dell’Algeria era la nostra gente. I francesi, sempre feroci dalle nostre parti e non solo, concessero alle loro truppe coloniali, libertà di uccidere, di depredare, stuprare, umiliare, evirare, saccheggiare”. “Cari amministratori di Cassino – prosegue – questa terra ne ha viste tante. Il Sacro Monte ne è la prova. Da lì San Benedetto e la sua regola, pensava l’Europa, quella vera. Siete riusciti ad omaggiare l’episodio più triste e vergognoso qui accaduto. Il più vile, il più ignobile in tanti millenni. Proviamo imbarazzo e vergogna per questa sinistra indegna, che è riuscita con un solo colpo a danneggiare l’immagine di Cassino che diventa con questo episodio, maglia nera nella coscienza degli eredi dei paesi della nostra terra e non solo”. “Dovreste dimettervi – scrive Ruspandini – Dispiace usare questi toni. Ma la nostra gente, donne di tutte le età, dagli 11 agli 80 anni, uomini e ragazzi considerati “il premio” per aver sconfitto il nemico, il bottino di guerra su cui sfogare il loro istinto bestiale, non meritava tanto. Avete celebrato chi ha stuprato e commesso crimini contro italiani e italiane (non solo in Ciociaria) che meriterebbero di essere processati per quello che sono: crimini contro l’umanità”. “Continuerò ancora più forte la mia battaglia per il riconoscimento di questa tragedia al senato della Repubblica per non consentire alla sinistra peggiore di sempre di cancellare il ricordo della barbarie delle Marocchinate dell’esercito coloniale francese. Gli italiani non sono tutti come voi. Noi non dimentichiamo”, conclude.

Il procuratore militare capo De Paolis al Secolo: “Le marocchinate? Furono crimini di guerra”. Antonio Pannullo mercoledì 12 Febbraio 2020 su Il Secolo d'Italia. Marocchinate. E’ con questo neologismo che si definiscono in Italia le atrocità consumate dai maghrebini del Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français en Italie – CEF ) nella Primavera del 1944 in varie zone della Penisola, ma soprattutto in Ciociaria. Si chiamano anche goumiers, ma il termine in realtà indicherebbe solo i soldati marocchini, mentre le atrocità su migliaia di civili riguardarono anche soldati africani di altre nazionalità, sempre provenienti dalle colonie francesi. Civili italiani stuprati, uomini, donne e bambini, torturati e anche uccisi. Spesso le famiglie venivano derubate. Vae victis? Non proprio, si trattò piuttosto di “diritto di saccheggio” (e non solo) per le truppe alleate d’invasione.

Marocchinate, le responsabilità del generale Juin. Comandava queste truppe il generale Alphonse Juin, poi successivamente Maresciallo di Francia, che quel maggio 1944 consentì alle sue truppe ogni tipo di abuso. Le cifre sono impressionanti: migliaia di donne, uomini e bambini violentati, molti uccisi. Esiste una corposa pubblicistica su quelle efferatezze. Ma la cosa che stupisce è che il generale Juin non andò mai alla sbarra per questi crimini di guerra. Dopo le proteste, tra gli altri anche del Papa, la magistratura francese aprì 160 provvedimenti. I francesi ritirarono i goumiers e poi li reimpiegò contro i tedeschi in Germania, nel 1945. Dove avvennero altri stupri e devastazioni documentati. Non si è a conoscenza di alcuna condanna per questi reati. Il generale Juin morì invece da eroe, è sepolto all’Hotel des Invalides e una statua lo ricorda a Parigi, proprio – ironia della sorte – in place d’Italie. A Roma c’è un cosiddetto cimitero dei francesi dove sono sepolti alcuni maghrebini, e in Ciociaria c’è un piccolo monumento che ricorda il Corpo di spedizione francese in Italia. La popolazione locale, si presume ha più volte distrutto questo monumento. Ma è sempre là. Come è noto, dopo la guerra ci furono processi per crimini di guerra, ma mai nei confronti degli Alleati. A Motta Sant’Anastasia, in Sicilia, riposa ancora oggi Luz Long, il tedesco famoso per essere stato amico di Jesse Owens alle Olimpiadi del 1936, Long, insieme con altri commilitoni, fu falciato dalla mitragliatrice di un sergente americano dopo che si era arreso. Il sergente fu posto sotto processo ma poi di lui si persero le tracce. Sembra che abbia combattuto su altri fronti e poi sia morto in tarda età.

De Paolis: anch’io indagai sulle marocchinate. Ma c’è invece, in Italia, chi i criminali di guerra continua a processarli. E’ il procuratore generale della Corte d’Appello militare Marco De Paolis, che in diversi anni ha fatto condannare all’ergastolo decine di nazisti responsabili di eccidi ingiustificati in molte parti d’Italia, ma non solo. Gli abbiamo chiesto come mai la magistratura militare non si è mai interessata dei crimini di guerra degli Alleati.

Dottor De Paolis, come mai la magistratura militare italiana non si è mai occupata delle cosiddette marocchinate?

Questo non è del tutto esatto. “Difficile rispondere per me che sono “giovane” rispetto a quei fatti; occorrerebbe porre la domanda a chi c’era prima di me, nel dopoguerra. Tuttavia qualcosa è stato fatto da me recentemente, nel mio precedente incarico di procuratore militare di Roma. A seguito di un esposto di un’associazione di vittime delle marocchinate (Associazione nazionale vittime delle marocchinate, ndr), aprii un fascicolo; ma poi non fu possibile trovare i riscontri necessari e così non potemmo procedere, malgrado i nostri sforzi.”

Ma Lei definirebbe quanto successo nel maggio 1944 in Ciociaria e altrove crimine di guerra?

Assolutamente sì. Quanto accaduto è ingiustificabile e inoltre ricordo che si tratta di reati imperscrittibili. In presenza di altre segnalazioni siamo pronti a procedere.

Quindi si tratta di crimini di guerra analoghi a quelli dei nazisti?

Chiarisco meglio. Premettendo che si tratta di crimini di guerra gravissimi e imprescrittibili sui quali è doveroso procedere – per obbligo di legge e per obbligo morale – occorre fare attenzione a trattarli per quello che sono e a non confonderli (magari secondo una strumentalizzazione ideologica che tende a svalorizzare la pericolosità del nazismo e del fascismo e a negare o ridimensionare l’olocausto) con i crimini nazisti. Tutti i crimini vanno perseguiti e i responsabili condannati: però vanno inseriti nel contesto storico e vanno valutati nella loro potenzialità negativa. È ovvio che uno stupro seguìto da un omicidio è grave; ma non ha la stessa pericolosità e la stessa valenza negativa di un omicidio inquadrato, ad esempio, in una attività terroristica o della criminalità organizzata. I responsabili hanno evidentemente una pericolosità per la società ben diversa. Tanto è vero che anche il regime penitenziario per essi è diverso.

Che esito hanno avuto le condanne contro i nazisti?

Va detto che abbiamo potuto accertare i fatti precisamente perché i tedeschi documentavano tutto, mentre per i marocchini la cosa non è così facile. E poi i responsabili nazisti, quelli sopravvissuti, sono in Germania mentre i goumiers chissà dove sono. Per rispondere alla sua domanda, la Germania,sia quella Federale prima sia quella riunificata poi, non ha mai dato seguito alle nostre condanne. Inoltre sono stati bloccati anche i risarcimenti alle vittime.

Cioè i mandati di arresto europei dei tribunali militari non hanno avuto seguito?

Proprio così. Né Austria né Germania hanno eseguito gli oltre 50 ergastoli richiesti.

De Paolis non perde l’occasione di sottolineare che la magistratura militare procede celermente. Ma i suoi sforzi sono vanificati dalla resistenza della Germania che non dà seguito ai provvedimenti.

Ma in presenza di denunce e prove certe, sareste disposti a procedere anche contro i crimini degli alleati?

Ripeto, ovviamente sì. Quelli commessi dai goumiers sono autentici crimini di guerra. Ma in realtà, per tutti questi crimini, si sarebbe dovuto agire qualche decennio fa. Ora comincia a essere troppo tardi.

Pertini: “La guerra travolge tutto”. De Paolis ha ragione. Su molti crimini di guerra, come le foibe o le marocchinate, diciamo noi, è calata nel dopoguerra una spessa coltre di silenzio, si è preferito dimenticare o nascondere quello che accadde. Perché si sa, chi vince ha sempre ragione e chi perde sempre torto. Ci sia consentito concludere questa intervista citando le parole di Sandro Pertini, già presidente della Repubblica ma prima attivo capo partigiano. Lui disse, a chi gli contestava i crimini dei partigiani, che era accaduto, ma che “la guerra travolge tutto”. E’ vero, in guerra succedono delle cose inqualificabili da ogni punto di vista ma è la guerra. Però, se la guerra travolge tutto, ciò dovrebbe valere erga omnes. Perché i nazifascisti hanno subito processi e i partigiani e gli alleati no, per i crimini commessi? Ma questo non riguarda il dottor De Paolis, e la sua chiosa è fondamentale: si sarebbe dovuto pensarci prima.

“Marocchinate”, un documento esplosivo conferma i crimini francesi in Italia nel ’44. Eccolo. Redazione venerdì 1 Novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Un nuovo documento sulle “marocchinate“: «Maltrattamento di popolazione civile». È l’oggetto del memorandum del 24 maggio 1944  firmato dal generale Alphonse Juin. Un documento che getta nuova luce sui crimini ai danni della popolazione italiana nel 1944 ad opera dell’esercito coloniale francese. Nel testo Juin mette nero su bianco (e comunica al Comando Alleato) l’arrivo di innumerevoli segnalazioni di «atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto» ai danni degli italiani. E ne individua la ratio in quelli che definisce i «nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia». L’Italia appunto, che il generale chiama «paese conquistato». L’eccezionale documento è stato trovato all’Archivio di Stato da Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle “Marocchinate”. Che da anni si occupa di tutelare i diritti delle donne ciociare stuprate dai goumier francesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia. Spulciando oltre 15mila fascicoli, Ciotti si è trovato di fronte a una carta «importantissima». Dice all’Adnkronos «che per la prima volta spiega perché le truppe francesi stupravano e uccidevano le donne italiane. In poche parole: risentimento nazionale per la dichiarazione di guerra dell’Italia».

Marocchinate: le “lamentele”. In particolare sulle marocchinate, nel memorandum il comandante del Corpo di spedizione francese in Italia Juin scrive di essere «stato colpito dalle lamentele a lui indirizzate dal A.M.G.. Relativo alle condotte di alcuni elementi francesi nei riguardi delle popolazioni civili italiane durante la recente avanzata. Sono stati commessi atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto contro le popolazioni che vivono nelle zone avanzate. E che si lamentano amaramente presso Autorità Alleate. Vi è certamente la possibilità di esagerare i fatti, comunque fanno correre il rischio di discreditare un esercito che è composto in massima parte di truppe coloniali».

Marocchinate, l’esercito francese sott’accusa. Dopo aver preso atto dei fatti, Juin ne spiega implicitamente le ragioni. «Comunque forti possano essere i nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia – scrive – noi dobbiamo mantenere un’attitudine dignitosa. L’esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano la considerazione di tutti. Sarebbe facile cementare questa reputazione adottando una scorretta abitudine in un paese conquistato. Verso un popolo che sta attualmente sperimentando tutti gli orrori della guerra e la cui responsabilità della sua amministrazione. Il Comandante Divisionale e il generale comandante dei Gaume – è l’esortazione del generale – prendano pertanto i necessari provvedimenti indispensabili per por termine a tutti quegli atti che vanno a detrimento della morale e della dignità del vincitore».

Crimini inauditi. «Questi soldati africani, inquadrati nell’esercito francese, si macchiarono di crimini inauditi – dichiara Ciotti, presidente dell’Anvm e nipote di un ragazzo che nel 1944 fu brutalmente assassinato dai coloniali francesi – in Francia possono definirli eroi, in Italia sono conosciuti come degli stupratori e degli assassini, poiché molti di loro si macchiarono di violenze di ogni genere contro la popolazione civile. Invece di esaltare le gesta dei coloniali, il presidente Macron chieda scusa all’Italia e alle vittime».

Le proteste contro Macron. Per questo l’associazione Anvm che da anni si batte per la verità sulle marocchinate (le vittime italiane delle truppe coloniali francesi) protesta contro Macron. Il presidente francese ha chiesto ai sindaci francesi di intitolare vie e piazze ai soldati africani ched parteciparono alla liberazione della Francia nel 1944. Questi militari, ha detto il presidente francese, «hanno fatto l’onore e la grandezza della Francia. I nomi e i volti di questi eroi africani devono far parte della nostra vita di cittadini liberi, perché senza di loro non lo saremmo».

La richiesta assurda. E poi ancora: «Faccio appello ai sindaci di Francia affinché facciano vivere con i nomi delle nostre strade, delle nostre piazze, dei nostri monumenti e delle nostre cerimonie la memoria di queste persone». Di fronte al presidente della Guinea Alpha Condé e a quello della Costa d’Avorio Alassane Ouattara, il capo dello stato francese ha reso omaggio ai «tiratori marocchini. Tunisini, algerini, ai senegalesi, soldati che provenivano da tutta l’Africa subsahariana».

Istituire la giornata delle vittime. Affermazioni contestate duramente, appunto, dall’associazione nazionale vittime delle marocchinate. «I soldati africani, provenienti principalmente da Tunisia, Marocco, Algeria e Senegal e in piccola parte da altre colonie francesi – continua Ciotti – erano inquadrati nel Corpo di Spedizione Francese in Italia. Le violenze contro gli inermi cittadini italiani, conosciute con il termine “marocchinate”, iniziarono con lo sbarco in Sicilia nel luglio del 1943. E proseguirono nel 1944 in Campania, Lazio e Toscana, raggiungendo l’apice in Ciociaria. Su richiesta dell’associazione molti consigli comunali italiani stanno deliberando affinché sia istituita una Giornata nazionale in ricordo delle vittime delle marocchinate».

L’appello. E ancora. «Per sollevare questo problema abbiamo atteso che si risolvesse la crisi di governo e fosse incaricato il nuovo Ministro degli Esteri», conclude Ciotti. «Ci rivolgiamo quindi al premier Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio, affinché intervengano nelle sedi istituzionali per riaffermare l’inopportunità dell’intitolazione di vie e piazze francesi a dei soldati. Che, in Italia nel 1943-1944, compirono delitti, razzie, stupri e omicidi e che ancora oggi sono ricordati con orrore dalle popolazioni che 75 anni fa subirono tali violenze».

“La guerra è finita”. Così un italiano fece gioire per primo il mondo. Mauro Indelicato su Inside Over il 7 maggio 2021. “L’Allemagne s’est rendue, la guerre est finie“. A pronunciare queste parole erano due soldati francesi stanziati ad Algeri, i quali stavano comunicando tramite una radio militare. A captare le frasi è stato, dall’altra parte del Mediterraneo, un giovane tecnico radio: Quintino Ralli. Era il 7 maggio 1945. L’Europa, distrutta e ridotta a cumuli di macerie dalla guerra, aspettava con ansia la notizia della fine delle ostilità. Per questo quando Quintino Ralli ha ascoltato le frasi dei francesi ha avuto come un sussulto. Balbettando si è recato dal direttore della radio in cui lavorava, Radio Sardegna. La sede era a Cagliari. E da quelle stanze il mondo ha appreso, venti minuti prima degli annunci di Radio Londra e con un’ora di anticipo rispetto alla Bbc, della resa tedesca e della fine della guerra.

La scoperta di Quintino Ralli. La storia di questa clamorosa “breaking news” è contraddistinta da uno specifico elemento: la passione di Quintino Ralli per la radio. Nato nel 1920 a Bore, in provincia di Parma, già da adolescente ha nutrito interesse per questo mezzo di comunicazione. É stato lui stesso alcuni anni fa a raccontare su Repubblica com’è nata la passione. Tutto ha avuto inizio quando studiava in Piemonte, lì dove ha conosciuto un certo don Manfredi, parroco interessato ad avvicinarsi al nuovo modo di comunicare tramite radio e telegrafo. La curiosità verso questo mondo, ha portato Ralli a studiare come radio elettricista montatore. Acquisito il diploma, l’esercito lo ha inviato così, nel luglio del 1943, in Sardegna. Qui, per la precisione a Bortigali, si stava iniziando già a mettere le basi per la futura Radio Sardegna. L’emittente aveva il compito di mettere in collegamento i militari stanziati sull’isola con il continente, dando proprie notizie anche ai familiari. Un obiettivo reso ancora più importante dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 e l’arrivo in Sardegna delle truppe alleate. Di fatto la radio è diventata la prima emittente sorta dopo la caduta di Mussolini. Quintino Ralli, grazie alle competenze acquisite, era stato destinato a tecnico manutentore della radio. L’importanza di questa emittente nel corso dei mesi era cresciuta talmente tanto che la piccola stanza ricavata nel rifugio antiaereo di Bortigali come sede non bastava più. Così nel 1944 Radio Sardegna ha iniziato a trasmettere da Cagliari. E qui a entrare in gioco è un altro episodio strettamente collegato alla passione di Ralli. In alcuni magazzini sia di Bortigali che del capoluogo sardo venivano custodite strumentazioni prese dagli aerei americani abbattuti. Spinto dalla curiosità per le apparecchiature radio, il giovane tecnico emiliano ha chiesto e ottenuto alcune cuffie usate dagli alleati per captare segnali anche a lunga distanza. Si è arrivati così al 7 maggio 1945.

Cosa è successo il 7 maggio 1945. L’Europa era in guerra da quasi sei anni. Il Vecchio Continente era stato ridotto allo stremo, la gente da troppo tempo non viveva più una normale quotidianità. Pochi giorni prima l’opinione pubblica aveva assistito al prologo della fine delle ostilità belliche. Il 2 maggio infatti i tedeschi si erano definitivamente ritirati dal nord Italia, in quella stessa data Berlino era caduta in mano sovietica. Mancava, per tornare alla normalità, la certezza della fine della guerra. A Reims, in Francia, nella notte tra il 6 e il 7 maggio è arrivata la svolta: su indicazioni di Karl Donitz, il generale Alfred Jodl alle 2:45 ha firmato la definitiva resa tedesca. La notizia però non è diventata subito di dominio pubblico. Queste perché i russi volevano prima un’altra cerimonia ufficiale, da tenersi alle porte di Berlino il giorno successivo. Ma in ambienti militari alleati già alle prime luci dell’alba la novità iniziava a diffondersi. Ed è qui che si è innestata l’intercettazione di Quintino Ralli: poco dopo le 14:00 il tecnico ha captato le frasi dei soldati francesi che subito hanno destato la sua attenzione. Pochi minuti dopo Ralli ha quindi avvisato il direttore di Radio Sardegna, Amerigo Gomez. Quest’ultimo, dopo aver ascoltato le frasi intercettate, si è precipitato nella cabina di trasmissione per proclamare, assieme all’annunciatore Antonello Muroni, la fine del conflitto: “A tutti voi che ascoltate, la guerra è finita!”, sono state le loro parole. Radio Londra ha dato l’annuncio venti minuti dopo. Nel resto d’Italia è stata invece la voce di Corrado a comunicare la fine del conflitto, ma era già sera inoltrata. Dunque per Radio Sardegna si è trattato di un primato storico. La notizia attesa da tempo da milioni di persone è stata data da un’emittente stanziata a Cagliari grazie alla caparbietà e alla passione di un giovane tecnico radio. É grazie a Quintino Ralli che il mondo ha potuto apprendere con anticipo del cambiamento del corso della storia. Un episodio più volte raccontato dal protagonista nel dopoguerra. Ralli si è spento nell’aprile del 2015, alla vigilia del settantesimo anniversario della resa. Con sé ha portato, oltre il ricordo di quel giorno, anche una passione mai terminata per la radio capace di fare iscrivere il suo nome per sempre nei meandri più curiosi della storia.

Arriva il kit del piccolo partigiano per bambini. FdI: “Propaganda da regime coreano”.  Angelica Orlandi venerdì 23 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Ci mancava solo il “Kit del piccolo partigiano” per proseguire con l’indottrinamento dei più piccoli nelle scuole. L’idea è infelice oltre che propagandistica. Accade a  Usmate Velate, comune della provincia di Monza e della Brianza.  Scoppia la bufera politica. Da una parte il Comune che ha promosso l’iniziativa in occasione delle celebrazioni del 25 aprile; dall’altra i rappresentanti di  Fratelli d’Italia e Lega che hanno apertamente contestato la scelta di inculcare un’idea divisiva e bellicosa a bambini dai 7 ai 12 anni. Il Comune guidato da Lisa Mandelli, esponente di una lista civica sostenuta dal centrosinistra ha rilanciato l’idea della compagnia teatrale Piccoli Idilli di ideare un “kit del nuovo partigiano”. Nel sacchetto  che si ritira gratuitamente presso la biblioteca, ci sono il testo e lo spartito di Bella Ciao, la bandiera tricolore, una nota descrittiva sul 25 aprile e sulla Resistenza, e un “tesserino dAnteprima(si apre in una nuova scheda)el nuovo partigiano”: sul quale si può incollare la foto del bambino con  l’indicazione del suo “nome di battaglia”. Si può scegliere tra i vari Folgore, Tigre, Noce, Luce, Settembre, Valaperta, Jazz, Colt, Mosca etc. Ci manca solo l’arruolamento e la follia è completa. La retorica di guerra, la mentalità divisiva, proprio perché destinate ai più piccoli, trovano sulle barricate i consiglieri comunali di opposizione. Vanessa Amati  di FdI al Giornale ha dichiarato: “Si tratta di indottrinamento scolastico. La Resistenza viene già insegnata sui libri di scuola. Non c’è alcuna necessità di ricevere in dono un kit per giocare alla guerra contro un nemico che non esiste più”. E ha aggiunto: “Con il kit del nuovo partigiano si entra in una propaganda politica e guerrigliera da regime nordcoreano”. Daniele Ripamonti (Lega) contesta la spettacolarizzazione della guerra: “Non se ne sentiva il bisogno – dice al Giornale.it – Tutti gli anni sia maggioranza che opposizione hanno partecipato insieme alle celebrazioni in Piazza del Comune. In questo modo invece la ricorrenza rischia di essere strumentalizzata, per di più di fronte a bambini di 7 anni. Questi argomenti sono già studiati ampiamente sui libri di scuola. Temiamo che dietro quest’idea si nasconda un intento propagandistico. Mi meraviglia, poi, che nella maggioranza siano presenti anche rappresentanti di quella che fu la vecchia Dc, in silenzio di fronte a un’idea da Giunta di monocolore rosso. La Resistenza non fu solo quella della Brigata Garibaldi. Anzi”. A queste accuse, l’assessore alla Cultura Mario Sacchi, risponde – sempre attraverso Il Giornale.it- che invece sì, “non c’è un nemico armato da combattere, ma c’è da tenera alta l’attenzione contro movimenti che si dichiarano apertamente fascisti”.

Il "kit del partigiano" per bambini fa infuriare Lega e FdI. Daniele Dell'Orco il 23 Aprile 2021 su Il Giornale. L'amministrazione comunale di Usmate Velate (MB) ha promosso l'iniziativa di un'associazione del territorio rivolta ai bambini tra i 7 e i 12 anni di ritirare sacchetti contenenti regali e gadget evocativi della Resistenza e della lotta partigiana. A pochi giorni dalla ricorrenza del 25 aprile, c'è chi ha pensato di rispolverare le reminiscenze belliche di 80 anni fa per avvicinare i bambini ai valori della Resistenza. Succede ad Usmate Velate, comune di circa 10mila abitanti della Monza e Brianza, dove il Comune ha sostenuto e rilanciato l'idea della compagnia teatrale Piccoli Idilli di ideare un "kit del nuovo partigiano" da destinare ai ragazzi dai 7 ai 12 anni. Si tratta di un sacchetto che contiene il testo e lo spartito di Bella Ciao, la bandiera tricolore, una nota descrittiva sul 25 aprile e sulla Resistenza, e un "tesserino del nuovo partigiano" sul quale apporre la foto del bambino e la scelta del suo "nome di battaglia" (si può scegliere tra i vari Folgore, Tigre, Noce, Luce, Settembre, Valaperta, Jazz, Colt, Mosca etc.). I sacchetti, che possono essere ritirati gratuitamente presso la biblioteca, per fortuna non obbligheranno nessun bambino ad armarsi e andare nei boschi, ma serviranno nell'intento del Comune ad arricchire l'iniziativa di più ampio respiro che prevederà delle "staffette" di membri della compagnia teatrale che fuori dalle abitazioni dei "nuovi partigiani", si esibiranno con spettacoli a sorpresa dedicati alla Resistenza. Per il Comune, guidato da Lisa Mandelli, esponente di una lista civica con connotati di sinistra, si tratta di un modo per "avvicinare i più piccoli ai valori della democrazia e della libertà mai così importanti come in questo momento. Ogni famiglia potrà sperimentare, divertirsi e riflettere in piena autonomia, avviando un percorso di costruzione della coscienza civica dei propri figli". Il richiamo alla retorica di guerra, specie poiché destinato ai più piccoli, non è piaciuto però ai consiglieri comunali di opposizione. Vanessa Amati (FdI), dice al Giornale.it: "Si tratta di indottrinamento scolastico. La Resistenza viene già insegnata sui libri di scuola. Non c'è alcuna necessità di ricevere in dono un kit per giocare alla guerra contro un nemico che non esiste più". Daniele Ripamonti (Lega), invece, precisa che la critica non è rivolta alla ricorrenza in sé, bensì alla spettacolarizzazione della guerra: "Non se ne sentiva il bisogno - dice al Giornale.it - Tutti gli anni sia maggioranza che opposizione hanno partecipato insieme alle celebrazioni in Piazza del Comune. In questo modo invece la ricorrenza rischia di essere strumentalizzata, per di più di fronte a bambini di 7 anni. Questi argomenti sono già studiati ampiamente sui libri di scuola. Temiamo che dietro quest'idea si nasconda un intento propagandistico. Mi meraviglia, poi, che nella maggioranza siano presenti anche rappresentanti di quella che fu la vecchia Dc, in silenzio di fronte a un'idea da Giunta di monocolore rosso. La Resistenza non fu solo quella della Brigata Garibaldi. Anzi". A queste accuse, l'assessore alla Cultura Mario Sacchi, risponde attraverso Il Giornale.it: "Ci accusano di propaganda da regime nordcoreano, in realtà questa iniziativa contiene anche dei semi per piantare un fiore e ricordare l'eccidio di Valaperta. Anziché scrivere sui social i membri dell'opposizione avrebbero dovuto ritirare un kit e studiarlo. Non pensiamo che ci sia un nemico armato da combattere, ma c'è da tenera alta l'attenzione contro movimenti che si dichiarano apertamente fascisti. Per noi si tratta di un'iniziativa culturale, ed è volta a veicolare i valori fondanti della democrazia. Se oggi qualcuno trova divisivo il concetto di libertà è bene che studi il regime nazi-fascista".

Il vero volto del 25 aprile. Matteo Carnieletto il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Croce disse (a ragione) che nessuno aveva vinto la guerra. Troppo odio e violenza avevano contraddistinto il nostro Paese. E la scia di sangue sembra non finire mai. "Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta 'tutti', anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l'ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente". Benedetto Croce pronunciò queste parole di fronte all'Assemblea Costituente in occasione della ratifica del trattato di pace, il 24 luglio del 1947. Nessuno vinse il 25 aprile del 1945. L'Italia era libera, certo. Ma a che prezzo? Il Paese era distrutto politicamente ed economicamente. Gli italiani mai così divisi. L'8 di settembre, infatti, aveva spaccato il Paese in due: 160mila persone avevano deciso di aderire alla Repubblica sociale italiana, 130mila alla resistenza. In mezzo, l'immenso mare grigio degli indecisi, di coloro che stavano da una parte o dall'altra senza prendere apertamente posizione. Di quelli che, seguendo la più italica delle virtù, decisero di stare alla finestra a guardare. Fu, quello che andò dall'autunno del 1943 alla primavera del 1945, un anno e mezzo di guerriglia, rastrellamenti e, anche (forse sarebbe meglio dire soprattutto), violenza gratuita. Da una parte e dall'altra. Solo che per lungo tempo si parlò solamente dei crimini di fascisti e nazionalsocialisti. Giusto e scontato, per carità. La storia, come è noto, la scrivono i vincitori a proprio gusto e, soprattutto, consumo. La neonata repubblica aveva bisogno di un mito sul quale poggiare e quel mito doveva essere, per forze di cose, quello della resistenza. Tutte le ére politiche, si pensi ad esempio alla nascita di Roma, necessitano di un tributo di sangue: Romolo deve uccidere Remo. Benito Mussolini, l'ormai ex duce, doveva essere brutalmente ammazzato ed esposto all'odio di piazzale Loreto. Un Paese intero aveva bisogno di vederlo non solo morto, ma sfigurato. Bisognava esorcizzare la paura di esser stati con quell'uomo, di essersi fidati di lui, di averlo seguito non per due mesi ma per ventidue anni. Del resto era stato Winston Churchill a dire: "Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti". Ed è proprio quello che accadde. La resistenza fu un fenomeno di minoranza (vi parteciparono solamente 130mila persone contro i 160mila volontari della Rsi) e solo dopo la fine della guerra divenne un'epopea. Si cercò in tutti i modi di cancellare i crimini compiuti dei partigiani. Per anni non si parlò, tranne in rare occasioni, del triangolo della morte in Emilia o delle foibe sul confine orientale. La resistenza non poteva esser macchiata da alcun crimine. Nonostante ce ne fossero molti, come ogni guerra, per di più asimmetrica, prevede. E questo almeno fino al 2003, quando Giampaolo Pansa scrisse Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile (Sperling & Kupfer). Il libro, va detto, non portava alcuna verità ulteriore dal punto di vista storiografico. Ma era il nome dell'autore, la sua provenienza da sinistra e la sua potenza mediatica a ribaltare il tutto. Nella prefazione, il grande giornalista piemontese scrive: "Se scruto dentro di me, m'accorgo che sono diventato meno manicheo. Prima ero incline a dividere il mondo in amici nemici. E a distinguere con intransigenza il bene dal male. A proposito della guerra civile, il bene era la Resistenza, il male i fascisti. Oggi non sono più sicuro di questa spartizione netta. Parlo della storia delle persone, naturalmente. Non della grande storia, ossia dello scontro fra democrazia e totalitarismo". Ecco, è questo il merito di Pansa. Di aver dimostrato che sotto la grande storia, dove è facile distinguere il bene dal male, esistono le vicende dei singoli, di coloro che, i più svariati motivi, decisero di combattere da una parte o dall'altra. L'immagine più drammatica, forse, ci è data da quattordici fratelli (7 + 7) che furono brutalmente sterminati. Stiamo parlando dei sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre del 1943, e i sette fratelli Govoni, seviziati e massacrati a guerra finita dai partigiani della Brigata Paolo. Due famiglie distrutte per mano dell'odio. Furono in pochi a vincere in quei mesi. Uno di questi fu Giovannino Guareschi, che aveva deciso, per restare fedele al giuramento fatto al re, di finire nei campi di concentramento tedeschi: "Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno". Pochi riuscirono a farlo. Ed è per questo che l'Italia non perse solo la guerra. Ma anche se stessa. Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo. Antonio Giangrande25 aprile. Non era guerra di Liberazione (ci hanno pensato gli Alleati) ma una miserabile guerra civile per il Potere. "La vita deve essere aperta al rischio.

Bella ciao, pochi partigiani l'hanno cantata. Antonio Cavallaro su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2021. Come reagireste se vi dicessi che “Bella Ciao” non è stato il brano più cantato dai nostri partigiani e che deve il suo successo a una vera e propria invenzione della tradizione che si è consolidata solo a guerra conclusa e con una serie di passaggi e stratificazioni successive? A raccontare la genesi e la diffusione del canto della resistenza italiano più noto al mondo è Cesare Bermani in un saggio dal titolo “Bella ciao, una canzone della Brigata Maiella”, contenuto nel volume Brigata Maiella, Resistenza e Bella ciao. Combattere cantando la libertà curato da Nicoletta Mattoscio e appena pubblicato da Rubbettino. Il termine “invenzione” accostato a “tradizione” non deve far saltare sulla sedia quanti hanno a cuore l’eredità culturale, politica e spirituale della Resistenza, né indurli a gridare alla lesa maestà. A scanso di ogni equivoco dichiaro subito che chi scrive è socio onorario ANPI nonché nipote di un fiero partigiano, scomparso due anni fa. Uso “tradizione inventata” nel senso in cui la usa Eric Hobsbawm nel celebre saggio L’invenzione della tradizione ossia come “un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale e simbolica che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato” insomma una sorta di mitopoiesi che dando origine a una storia collettiva e condivisa contribuisce a creare il senso di appartenenza. Ma torniamo a “Bella Ciao”. Stando a quanto scrive Bermani il canto era sconosciuto a molte formazioni partigiane mentre circolava diffusamente nel Modenese e nel Reggiano, a partire dal 1944. D’altronde lo stesso Giorgio Bocca ebbe a dichiarare pubblicamente “Nei venti mesi della guerra partigiana, non ho mai sentito cantare Bella ciao”. Dalle testimonianze raccolte dall’autore nel saggio pare che le versioni di “Bella ciao” che circolavano in Emilia e che venivano cantate dai patrioti della Brigata Maiella fossero in realtà diverse benché accomunate dalla melodia e da alcuni elementi simili che rimandavano tuttavia a un brano ancora più antico che avrebbe fatto da archetipo delle diverse varianti della canzone che sarebbero venute dopo. Il brano in questione era “Fior di tomba”, cantato principalmente nelle risaie padane e pubblicato per la prima volta da Costantino Nigra nel volume del 1888 Canti popolari del Piemonte. Successivamente il canto godette di una certa notorietà tra i soldati che parteciparono al primo conflitto mondiale. Leggendo il testo di “Fiori di tomba” è possibile intravedere gli elementi principali che avrebbero poi fatto da base per il riadattamento in chiave partigiana della canzone. “Stamattina mi sono alzata / un’ora prima che leva il sol / Mi san messa alla finestra / e mi go visto el me primo amar / l’era in braccio d’una ragazza / una ferita mi viene al cor. / Cara mamma serè la porta / che qua no entra mai più nisun / Cara figlia sta alegra e canta / sta alegra e canta sta qua con me / Farem fare una casetta / e ci staremo tutti e tre / Prima mio padre poi la mia madre / e il mio amore in braccio a me / E la gente che passeranno / dimanderanno cos’è quel fior / Quello è il fiore della Rosina / che Ve morta del troppo amor”. Lo stesso Bermani in un volume pubblicato lo scorso anno da Interlinea dal titolo Bella ciao: Storia e fortuna di una canzone racconta come questo canto d’amore già dopo la disfatta di Caporetto avesse conosciuto delle rielaborazioni in chiave protestataria. Ecco un frammento di una delle versioni dell’epoca riportato dallo studioso in cui si può osservare la comparsa dell’elemento “Bella ciao” che diverrà caratteristico del successivo canto della Resistenza: “Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, ciao, ciao o bella ciao, ciao ciao / una mattina, mi son svegliato / e sono andato disertor”. Bermani, nel saggio citato all’inizio di questo articolo, riporta poi il testo della canzone così come conosciuto e cantato dalla Brigata Maiella (ovviamente facciamo tutte le avvertenze del caso sulla mutabilità dei testi trasmessi principalmente per via orale): “Questa mattina mi sono alzato / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, / mi sono affacciato alla finestra / e ho visto il primo amor / / Io me ne vado lontano lontano / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / me ne vado lontano lontano / tra le palle di cannon. // E s’io morissi da patriota / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / mi seppellisce al camposanto / sotto l’ombra di un bel fior. // Tutte le genti che passeranno / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / tutte le genti che passeranno / diranno che bel bel fior // È questo il fiore della Maiella / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / questo è il fiore della Maiella / del patriota che morì”. Il canto, con i movimenti delle truppe partigiane, raggiunse poi il nord Italia negli ultimi mesi di guerra subendo ulteriori mutazioni e adattamenti. La storia di “Bella ciao” però non si esaurisce con la guerra, il testo che noi riconosciamo oggi come autentico e tradizionale è il frutto di elaborazioni successive, di adattamenti, di interpolazioni. Come spesso accade con le tradizioni e come il libro di Hobsbawm che abbiamo citato insegna, quelle che noi riveriamo come tradizioni antiche non sono che il frutto di un lento lavorio e di un successivo uso sociale che termina con una forma di cristallizzazione che, però, appare spesso anch’essa precaria. Come racconta Bermani, il canto comincia ad essere identificato quale canto simbolo della resistenza a guerra conclusa. Nel 1945 a Londra, i rappresentanti delle associazioni antifasciste di oltre 63 Paesi decidono di organizzare ogni due, tre anni un festival mondiale sui temi della pace. “Bella ciao” sarà uno dei canti più eseguiti, tradotto in più lingue, al festival di Praga del 1947, a quello di Budapest del ’49 e quello di Berlino del ’51. L’incredibile successo della canzone è certamente da ascrivere al ritornello facilmente orecchiabile che contiene due delle parole italiane più note al mondo “Bella” e “Ciao” e al battito di mani che ne accompagnava l’esecuzione e che certamente, in quel contesto, assumeva una funzione non solo aggregante ma, possiamo immaginare, quasi catartica. Anche grazie al suo successo internazionale il canto entrò a far parte dei repertori delle varie corali e a comparire nei vari canzonieri. Fu infine il festival di Spoleto a sancirne la definitiva consacrazione grazie allo spettacolo “Bella ciao” del 1964. Furono proprio gli anni Sessanta, spiega Bermani, quelli in cui il canto si diffuse capillarmente. Erano gli anni in cui la Resistenza e la guerra di liberazione cominciarono a essere sempre più identificati come il momento fondativo della Repubblica. La Resistenza veniva finalmente letta come momento che accomunava la Nazione e non solo una parte politica. In questo clima di ritrovata (o quanto meno di ricercata) pacificazione nazionale, “Bella ciao”, contrariamente a “Fischia il vento”, che pure era stata sicuramente la canzone più cantata dai partigiani al Nord (sotto nella versione cantata da Milva), si prestava a quella funzione ecumenica e identitaria di cui la società italiana aveva bisogno.

I comunisti nella Resistenza: combattivi ma inaffidabili. Marco Petrelli il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia 2020). Il ruolo dei comunisti italiani nella Resistenza assume una certa rilevanza sin dall’autunno del 1943. Insieme al Fronte Militare Clandestino i comunisti, nell’ambito della Resistenza che definiremo “civile" (per distinguerla da quello di Montezemolo), iniziano ad organizzarsi e a colpire già nelle settimane successive alla caduta di Roma. Sono tosti, questo nessuno poteva (e può) metterlo in dubbio, istruiti e formati da miliziani che hanno già combattuto una guerra civile, quella spagnola, dalla quale sono usciti sconfitti sul campo, ma non nella intenzione di perorare la causa comunista. In alcune realtà, come in Umbria ed in Abruzzo poi, i prigionieri di guerra jugoslavi evasi da centri detentivi quali Colfiorito e dalla Rocca di Spoleto, si uniscono alle formazioni locali recando con sé il know how di combattenti del disciolto esercito jugoslavo e dell’Esercito Popolare di Liberazione di Josip Broz. Capaci, dunque, ma poco inclini alla collaborazione. Nel 1944, quando le formazioni intensificano l’azione contro gli occupanti tedeschi, emergono le prime difficoltà con le altre anime della Resistenza, in particolare con i badogliani, con i militari e con gli autonomi. Qual è lo scopo della lotta? Colpire indiscriminatamente in nemico, causando però forti perdite fra i civili per rappresaglia o selezionare gli obiettivi? E ancora: come comportarsi con presunte spie e accusati di collaborazionismo? Processo o fucilazione sommaria? Domande alle quali non sempre si dà una risposta chiara, lasciando dietro di sé frizioni che portano alla conflittualità ed al sospetto reciproci. Se per i badogliani e per gli autonomi la sconfitta militare dei tedeschi e dei fascisti repubblicani ha la precedenza, per i comunisti la guerra di liberazione coincide con la guerra rivoluzionaria. Insomma, una replica di ciò che era già accaduto in Spagna quasi un decennio prima, con conseguente frammentazione del fronte repubblicano a vantaggio delle forze franchiste. “I compagni devono ricordare che esiste una sola bandiera, il Tricolore e che l’inno è il Piave non l’Internazionale” ammoniva così, Celso Ghini, i combattenti della Brigata “Gramsci”, operante fra le province di Terni e di Rieti. Niente bandiera rossa, dunque e rammentare che il Piave mormorava era l’inno ufficiale del Regno del Sud, l’entità statale combelligerante degli Alleati alla quale tutte le formazioni partigiane ed il Corpo Italiano di Liberazione dovevano prestare obbedienza e fedeltà. O, in altre parole, di quelle’Italia per la quale combattevano, divisioni a parte. Certo, difficile che ogni gruppo, specie nell’Italia centro-settentrionale, obbedisse agli ordini del Comitato Liberazione Nazionale e del Comando Supremo di Brindisi; tuttavia, seguire le direttive di quei due organi significava essere partigiani. Chiunque operasse al di fuori sarà stato anche combattente, certo non partigiano. È ciò che accade con gli slavi. Malgrado vi siano delegati dell’Esercito Popolare di Liberazione in seno al CLN, nelle realtà locali i partigiani jugoslavi rifiutano di prendere ordini da militari e da politici di un paese che, nel 1941, li aveva invasi insieme alla Germania. Inoltre, le maggiori aggressività e combattività, permettono loro di muoversi con maggiore autonomia, se non di imporsi sugli italiani certamente motivati, ma meno preparati. Nel ’44, a Salerno, Togliatti è chiaro: fino alla fine del conflitto le formazioni garibaldine devono concentrarsi sulla lotta a tedeschi e fascisti, sostenendo lo sforzo del Regno del Sud (riconosciuto, a marzo, anche dall’Urss) e degli Alleati. Come accennato, però, non va sempre così e le divisioni restano. Sempre a marzo, ad esempio, i gappisti romani - operando in modo autonomo - colpiscono i coscritti altoatesini del 6° Regiment-Polizei “Bozen”, causando 30 morti e provocando, così, la terribile rappresaglia che porterà all’orrore senza fine delle Fosse Ardeatine. Un eccidio tedesco, non ci sbagliamo! Ma la cui responsabilità non può - anche in piccola parte - non cadere su chi forse mancò di calcolare bene i rischi di quella sciagurata azione. I comunisti sono combattivi, ma fanno paura specie nel Friuli dove la convergenza con il IX Corpus sloveno porta le brigate autonome ed osovane a prendere le distanze dalle iniziative dei garibaldini e, soprattutto, a rifiutare la sottomissione ai titini. La strage di Porzus (che ancora fa sbuffare di noia le vestali della Resistenza) è in verità un fatto molto grave e non solo per i morti rimasti a terra. E’ la dimostrazione, chiara, che una consistente fetta di partigiani comunisti (non tutti per fortuna!) è più interessato a finalità politiche che non a difendere l’integrità territoriale della Patria. Saranno, d'altronde, gli stessi partigiani autonomi a costituire, nell'immediato dopoguerra, le primissime strutture di intelligence denominate stay-behind. Il generale Raffaele Cadorna (dirigente del CLN e capo del Corpo Volontari della Libertà) autorizza la formazione dell'Organizzazione "O" (Osoppo) sin dal 1946, con lo scopo di monitorare i confini orientali d'Italia. E di tenere sotto controllo l'ambiguo atteggiamento dei comunisti italiani. Forte di circa 4000 fra uomini e donne, erede delle tradizioni e del valore delle Brigate partigiane "Osoppo-Friuli", la "O" resta attiva fino al 1956 quando parte delle sue funzioni è trasferita alla struttura "Gladio", orientata su tutto il territorio nazionale. Ispirata alla Resistenza e con vertici partigiani, "Gladio" verrà sciolta, fra mille polemiche ed accuse infondate, agli inizi degli Anni '90. La Resistenza tradita Consapevole dell'impossibilità di una svolta rivoluzionaria ed ormai istituzionalizzato, nella Repubblica Italiana il Partito Comunista è il principale partito d'opposizione, ma con un peso ed una capacità di mobilitazione impressionanti. Consapevoli dell'importanza della memoria per un Popolo, i comunisti imprimono alla storia del movimento di liberazione un orientamento che li vede principali protagonisti di quella stagione di guerra e di libertà. Dimenticando si fosse trattato di una guerra... civile (termine che sarà accettato dalla storiografia grazie a Claudio Pavone e solo nel 1991), la Resistenza è stata trasformata in una sorta di mito fondante della Repubblica. L'importanza del Movimento partigiano non è mai stata messa in dubbio, ma la sua - poca - incisività sugli esiti della Campagna d'Italia ed il fatto che l'impegno dei partigiani non sia stato preso in considerazione dagli Alleati alla Conferenza di Pace, sono elementi tali da mostrare l'inconsistenza della sua apologia. Insomma, come in Spagna, la guerra sul campo era stata di fatto persa: gli eccessi, l'inaffidabilità e gli interessi, non sempre coincidenti con quelli nazionali, avevano finito per isolare i comunisti nello stesso movimento di liberazione. Per recuperare terreno e consenso, si combatté per decenni un'altra guerra, stavolta culturale, al fine di far passare l'idea che la Resistenza fosse a trazione "rossa". Un esempio? L'ANPI, principale sigla combattentistica, non è l'associazione di tutti i partigiani (malgrado così sia ormai conosciuta) ma di quelli legati all'area... diciamo socialdemocratica. Lo stesso Enrico Mattei, che ne era stato fondatore, se ne era discostato nel 1947 perché non in linea con le posizioni del direttivo. L'atteggiamento ostile e le accuse di revisionismo rivolte agli storici meno schierati hanno rappresentato e rappresentano, poi, ulteriori testimonianze di come quel capitolo, drammatico ed eroico della nostra Storia, siamo ormai considerato non patrimonio collettivo ma di una parte politica.

Vittorio Feltri: ecco perché il 25 Aprile ormai si è ammuffito. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Il 25 aprile 1945 l'Italia si liberò definitivamente del fascismo ed è normale considerarla una data importante, meritevole di essere ricordata. Ma bisogna vedere come. Da quel giorno sono trascorsi 76 anni e fatalmente la memoria si è offuscata. Tutti i protagonisti - tranne rarissimi sopravvissuti quasi centenari - della resistenza sono morti e non possono più testimoniare. Questo non implica che certe pagine della nostra storia debbano finire nel dimenticatoio, però sarebbe ora di ripulirle dalla muffa che su di esse si è stratificata. Sarebbe opportuno smetterla con la retorica e conferire alla ricorrenza un significato più vicino alla attualità, trasformandola in festa della libertà, della quale abbiamo bisogno anche in questo momento in cui gli italiani vivono praticamente in stato di segregazione, a causa del Covid che non è provocato da leggi di Mussolini bensì della nostra Repubblica democratica, si fa per dire. E invece questo non avviene poiché la sinistra continua a ritenere che i suoi nemici siano i fascisti inesistenti in quanto finiti al cimitero da tempo remoto. Organizzare ancora cortei e comizi per rammentare in piazza le eroiche gesta dei padri della patria è una operazione poco intelligente pure dal punto di vista propagandistico. Non c'è in giro un solo italiano che paventi il ritorno delle camicie nere. Chi parla di minaccia fascista mente sapendo di mentire, si inventa un pericolo che alberga soltanto nella mente malata di qualche comunista residuale il quale, puerilmente, gradisce combattere gli squadristi scomparsi per comodità: sconfiggere i fantasmi è molto facile. Oggi è giusto commemorare e rendere onore a chi si è sacrificato per abbattere un regime dispotico che trascinò per giunta il Paese in una guerra assurda e devastante, purché sia una cerimonia composta e svelenita, non consistente in una serie di frasi fatte dall'acre sapore nostalgico per un periodo di lotte fratricide. Mio padre fu un fascista della prima ora e un fratello di mia madre fu un partigiano, ma, a guerra ormai conclusa e quasi dimenticata, quando si incontravano brindavano insieme alla pace conquistata. Non mi pare un cattivo esempio.

25 aprile, la fine della Guerra civile si ricorda, non si "festeggia". Marco Petrelli su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Non è difficile leggere: "caduto contro le orde nazifasciste", "caduto combattendo l'oppressione nazifascista" sulle targhe commemorative o ascoltarlo in ricorrenze pubbliche. Nazifascismo: "Denominazione con cui è stata polemicamente indicata l’unione sul piano ideologico e politico del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco [...]" lo descrive l'Enciclopedia Treccani. E il suo carattere "polemico" è palesato dal frequente ricorso in manifestazioni o durante speech che hanno molto di politico e ben poco di accademico. Nazional-socialisti e non nazisti Ma chi erano i nazifascisti? Qualunque storico preferirebbe affidarsi alle definizioni ufficiali: Regno d'Italia e Terzo Reich (guerra 1940-1943); Repubblica Sociale Italiana o Fascismo repubblicano (guerra civile 1943-1945) alleato del Terzo Reich. Sì, perché "nazi" in realtà era allora usato dalla sola propaganda alleata, mentre nei documenti si indicavano i "tedeschi" o i "nazional-socialisti". Il partito di Hitler, d'altronde, era il NSDAP (Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi) i cui membri si chiamavano fra loro "nazional-socialisti", mentre i militari erano inquadrati nella Wehrmacht (Forze Armate) a sua volta divisa in Heer (Forze di terra), Kriegsmarine (Marina da guerra), Luftwaffe (Arma aerea). Altri erano arruolati nei reparti paramilitari SS e Waffen SS. Nazifascismo o, peggio ancora, "orda nazifascista" manca dunque di valore storico. L' "orda" in origine era il nome della suddivisione amministrativa dell'impero mongolo e, solo inseguito, ha  assunto l'accezione negativa di "accozzaglia" e "soldataglia". Nel suddetto caso sarebbe quindi come dire: "provincia o contea nazifascista". Liberazione, ma...  "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Amara constatazione e, purtroppo, vera quella di uno dei più spietati ministri dell'entourage di Hitler, quel Josef Goebbels che, da capo della propaganda, costruì ed alimentò l'odio razziale verso i "nemici" del Reich. La democrazia avrebbe dovuto insegnarci che il valore di una verità, pur di una verità ingombrante, è sempre da preferirsi alle più facili scorciatoie della menzogna. Il tentativo di analizzare la storia del fascismo e della guerra civile senza strumentalizzazioni e speculazioni ha invece sempre incontrato, in Italia, una certa opposizione politica ed accademica quasi come se l'approccio scientifico alla Storia suggerito da Marc Bloch fosse una eresia... Emblematico, a questo proposito, il caso della Liberazione. Cosa festeggiamo precisamente? Al Trattato di Pace ci siamo seduti dalla parte degli sconfitti né gli Alleati hanno tenuto conto dell'impegno della Resistenza e del Corpo Italiano di Liberazione, imponendoci invece durissime clausole nonché la perdita di territori italiani a vantaggio di Belgrado e di Parigi. Quanto alla guerra civile c'è, anche qui, poco da festeggiare: quel conflitto intestino divise intere famiglie, portando i padri a sparare contro i figli ed i figli a denunciare i genitori e i  fratelli. Se qualcuno si fosse preso la briga di far leggere ai nostri studenti Fenoglio (ex comandante partigiano ed autore di splendidi romanzi sulla Resistenza) i ragazzi avrebbero certamente compreso e condiviso il dolore del giovane Kim, personaggio terrorizzato all'idea di poter sparare al fratello, ufficiale della Guardia Repubblicana. Celebrare la fine di una dittatura e dell'occupazione nemica è dunque doveroso, ma tenendo conto di ciò che davvero rappresentò quella pagina, drammatica, del nostro passato: un bagno di sangue che lacerò il tessuto sociale ed umano di un Paese già distrutto dalle bombe e dalle rappresaglie. Celebrare, quindi, non festeggiare: nel primo caso vuol dire preservare, con razionalità e rispetto, la memoria di chi è caduto per l'indipendenza e per la libertà della Patria; nel secondo alimentare lontani echi di odio e di morte e contribuire a tramandare un'immagine della lotta partigiana che, 7 decenni di cattiva informazione, hanno trasformato da fenomeno umano e storico ad una sorta di epopea della frontiera. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 aprile 2021. Caro Dago, certo che il 25 aprile e dunque la sua commemorazione è una data che conta eccome nella storia del mondo e non solo in quella italiana. E’ il giorno che segna la “Liberazione” del suolo italiano dal tallone nazi. Solo che ci si deve intendere sulla valenza semantica di questo termine. Chi esattamente “liberò” l’Italia, un’Italia oltretutto spaccata in due dagli orrori della guerra la più atroce di tutti, quella guerra civile che mette fratelli contro fratelli? Vedo che su alcuni giornali italiani fa da foto di accompagnamento degli articoli sulla “liberazione” di Milano l’immagine di tre ragazze che per strada si avanzano munite ciascuna di un fucile più grande di ognuna di loro. E’ una foto suggestiva, epperò fuorviante. Quelle ragazze, e quei tanti uomini e donne che furono in prima linea nella lunga “resistenza” al nazifascismo, non avrebbero retto cinque minuti il confronto con i carri armati, le mitragliatrici e le truppe scelte del nazismo. Il loro peso militare fu di poco superiore allo zero. Nelle grandi battaglie sul suolo italiano che decisero l’esito della guerra a favore degli Alleati, il contributo della Resistenza fu minimo. La battaglia a conquistare Monte Cassino, la battaglia che aprì la strada che portava a Roma, vide in prima fila i soldati polacchi. Furono loro che misero piede per primi nell’Abbazia e che scoppiarono a piangere per questo. A spezzare la colonna dorsale ai nazi non furono certo gli agguati a uomo dei Gap nelle città italiane del nord e bensì le centinaia e centinaia di bombardamenti che rasero al suolo pezzi di città italiane. Il Gran Consiglio del fascismo, in cui 19 dei 28 membri votarono contro Mussolini era la diretta conseguenza dei 3000 morti romani a causa dei bombardamenti del 19 luglio. L’azione più spettacolare dei Gap romani, l’agguato micidiale di via Rasella che costò una rappresaglia di 335 uomini fucilati a gruppi di cinque nelle cave dette Ardeatine, non indebolì di una virgola la forza delle truppe nazi che difendevano Roma. Non di una virgola. Quella resistenza cadde il 4 giugno 1944 innanzi agli assalti e al coraggio dei tanti “soldati Ryan” che costituivano le forze angloamericane. Lo stesso dicasi dello sfondamento della Linea Gotica che nell’aprile 1945 aprì l’ingresso degli Alleati nella pianura padana e dunque a Milano. C’erano voluti mesi e mesi di attacchi forsennati di eserciti forti di centinaia e centinaia di migliaia di uomini, di bombardamenti mostruosi su militari e civili, altro che le tre ragazze armate di fuciloni della foto di cui ho detto. L’esercito alleato rimase paralizzato per tutto l’inverno. A Marradi, uno dei picchi della Linea Gotica, lo stato maggiore degli Alleati si piazzò nella casa natale di Dino Campana e siccome gelavano dal freddo andarono in soffitta e per riscaldarsi bruciarono un bel po’ di copie della prima edizione del leggendario poema “Canti Orfici” del 1914. Uno che nell’inverno 1944-1945 si era rifugiato in una casa di campagna veneta, il giurista e futuro (grande) scrittore Salvatore Satta in quei mesi non vide alcunché che attenesse alla Resistenza. Vide solo un aereo alleato che per 80 volte cercò di distruggere un ponte senza riuscirci. Quando nell’immediato dopoguerra si mise a scrivere quel “De profundis” che è uno dei libri italiani più belli sul tempo della Seconda guerra mondiale, della Resiistenza e dell’antifascismo di prima linea e di quelle tre ragazze col fucilone, non c’è la menoma traccia. La casa editrice Einaudi, e l’azionista Massimo Mila in prima persona, glielo rifiutarono. Tanto che i libro venne pubblicato nel 1948 da una casa editrice specializzata in edizioni giuridiche e divenne introvabile finché trent’anni dopo non lo riportò alla luce la Adelphi di Roberto Calasso. Questi sono i fatti. Quanto a quelli che commemorano il 25 aprile come se l’avversario di allora fosse ancora presente e minaccioso nelle odierne società europee, a loro va soltanto il mio disprezzo intellettuale. Nel terzo millennio in cui viviamo il termine stesso di “fascismo” non significa nulla di nulla, a meno di non confondere alcune pattuglie di ragazzotti semianalfabeti con la tragedia europea della Prima guerra mondiale con tutti i suoi annessi e connessi. Tragedia da cui promanò il fascismo storico e i suoi protagonisti, Mussolini, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Mario Sironi, Giovanni Gentile, Giacomo Acerbo, Filippo Tommaso Marinetti e ne sto dimenticando. Vi sembrano tipini che somigliassero agli odierni ragazzotti di Casa Pound che bastano un paio di idranti a cancellarli dalla scena delle città?

Quei 271 giorni della Resistenza nascosti dentro la Roma di oggi. Gli angoli di strada, i palazzi, i ponti, ma anche le imprese dimenticate, gli inciampi, il caso. Storia minuta dei nove mesi in cui la Capitale fu occupata, che salta fuori ripercorrendo le tappe – stesso giorno, ora, luogo – che l’hanno segnata: dal rastrellamento del Ghetto alle gesta del Gobbo del Quarticciolo, il delinquente partigiano. Susanna Turco su L'Espresso il 23 aprile 2021.

10 settembre 1943, ore 18 Porta San Paolo. L’8 settembre comincia la battaglia per la presa di Roma, che dura tre giorni e si conclude la sera del 10 settembre a Porta San Paolo, dove avviene l’ultimo tentativo di difendere la città dall’occupazione nazista. Tra le molte persone che combattono c’è anche Raffaele Persichetti, insegnante del liceo Visconti e partigiano del Partito d’Azione. Viene colpito a morte proprio nel punto in cui è stata scattata la fotografia. Doveva essere bellissimo il Portico d’Ottavia, persino in quell’alba terrificante. Settantacinque anni fa, il 16 ottobre del 1944, quando arrivarono al ghetto dormivano tutti. Erano le 5,30, shabbat, il cielo cominciava appena a schiarire, i camion si fermavano verso Monte Savello all’incirca dove oggi ci sono le colonnine della zona pedonale - e dove ai tempi dei romani partivano i cortei trionfali - il portico li guardava muto proprio come fa ora. Non esiste un giorno uguale all’altro ma, forse, adesso che i testimoni dei mesi dell’occupazione - «chi ricorda come era» nel verso di Wisława Szymborska - vanno via via scomparendo, non resta che inquattarsi nelle fessure delle pietre, piazzarsi nel punto esatto, per sapere, di nuovo, di cosa si trattava. Come a voler aprire un varco temporale attraverso la ricorrenza precisa - stesso giorno, stessa ora, stesso luogo: l’ha fatto Daniele Molajoli nel progetto fotografico che riproduciamo, in parte, in queste pagine -; un varco che riesca a svelare, ora, qualcosa di quei 271 giorni della Roma occupata, a riconnettere anni lontanissimi fra loro che però condividono lo stesso spazio, a provocare un corto circuito dissonante rispetto alla retorica dell’impresa e della Liberazione.

31 gennaio 1944, ore 11. Via Milano, all’angolo con via Nazionale. Alle 11 di mattina inizia una vasta operazione di rastrellamento organizzata da Kappler. Reparti di SS e militari tedeschi, aiutati da un battaglione fascista, chiudono una vasta zona. In poco meno di due ore i tedeschi rastrellano duemila persone e le portano alla caserma Macao di Castro Pretorio. Circa 800 uomini vengono mandati nei campi di lavoro in Germania, ad Hannover, o a costruire fortificazioni sul fronte di Anzio. Un collasso temporale del passato sul presente, che fa riprecipitare dentro le storie minute, i manifesti strappati, le pubblicità, gli inciampi, le sconfitte, le imprese dimenticate, la quotidianità, il caso. Di allora e di oggi. C’era quello stesso cielo appena azzurrato, e lo scorcio sul Teatro Marcello, quando per esempio Marco, 56 anni, padre di Settimia Spizzichino, avviato con la famiglia ai camion verso Monte Savello come altri 1.259 ebrei quel giorno (saranno 1.024, alla fine, i deportati) cogliendo al volo un momento di confusione riuscì ad allontanarsi con l’idea di andare ad avvertire l’unico figlio maschio, Pacifico, che dormiva nel quartiere Testaccio: «Allora mamma mia», ha raccontato Settimia, «acchiappò una vicina di casa, una ragazza, e gli fece “vallo a prendere, va’, sennò i tedeschi gli sparano!”. Invece di dirlo a una delle figlie lo disse a quella, lei andò dietro a mio padre e si salvarono tutti e due». Scampare la deportazione senza saperlo, senza averlo calcolato. La grazia dell’inconsapevolezza, che viaggia accanto alle scelte. In un’altra alba di quel lungo inverno Tommaso Moro (Vincenzo Guarniera), partigiano dei comunisti eretici di Bandiera Rossa, guidò una spettacolare impresa per liberare sette della sua banda: ma quando arrivò sul luogo della fucilazione, dopo aver rubato camion e divise alla Polizia d’Africa Italiana, aver sostituito con suoi uomini l’intero plotone d’esecuzione, aver ammazzato i nazisti invece dei prigionieri, si trovò davanti altri sette partigiani da liberare - non gli amici per cui aveva progettato l’intera impresa. Impreparato, persino lui che aveva annunciato spavaldo: «Tedeschi e fascisti, a Roma avrete la vita difficile». Nessun romano sapeva che avrebbe dovuto resistere per nove mesi, prima dell’8 settembre. La città era ripiegata su se stessa da vent’anni di fascismo, nessuno era pronto. «Pensavamo d’ave’ finito col 25 luglio», è l’illuminante sintesi di Spizzichino. Ugo Forno, ragazzino di seconda media della scuola Settembrini, a Salario-Trieste, non sapeva che sarebbe stato l’ultimo partigiano morto a Roma, quando il 5 giugno con altri cinque ragazzini sentì dalle chiacchiere di piazza Vescovio che, i tedeschi in ritirata stavano tentando di far saltare il ponte ferroviario sull’Aniene: quel ponte non sapeva che sarebbe stato salvato proprio da lui, dai ragazzini, e tutt’oggi se ne sta lì, abbastanza ignaro e seminascosto, a farsi passare sopra i treni per Orte, accanto alla ciclabile nuova, in mezzo alle sterpaglie a mala pena potate in un soprassalto assai recente di memoria cittadina – con tanto di murales dedicato a Ugo Forno, peraltro già vandalizzato come da tradizione. «I muri ricordano», recita il titolo di un vecchio librone dell’Anpi, dedicato alle epigrafi della Resistenza: ricordano, ma non lo sanno. E bisognerebbe chiedersi se l’unico palazzo di via Rasella ancora bucato dai proiettili dei tedeschi - spararono all’impazzata dopo l’esplosione che aveva ucciso i 32 soldati del battaglione Bozen - ricordi quel giorno meglio di quanto non possano fare gli altri, che sono stati restaurati, o addirittura meglio del muro di Palazzo Tittoni, il punto esatto in cui esplose il tritolo, ma tuttavia privo, anche oggi, di una lapide che ricordi un evento centrale nella storia della Resistenza. Di certo, a passarci alle 15,52 di un 23 marzo, può capitare di veder salire, invece che soldati tedeschi come fu quel giorno, studenti in fila a due a due. Oppure sconosciuti intenti a misurare, oggi, lo spazio della strada, proprio nel punto in cui Rosario Bentivegna piazzò il carretto da netturbino con l’esplosivo. Una specie di voragine invisibile che come una calamita attira alcuni elementi, più di altri, in una mescola incredibile di suggestioni e caos.

3 giugno 1944, ore 18,27. Porta Maggiore. Gli alleati stanno per arrivare e i tedeschi sfilano per la città abbandonando Roma. Un carro armato Tigre in avaria viene fatto saltare in aria dai tedeschi in ritirata, che non si premurano di far allontanare i civili. L’esplosione, moltiplicata dalle numerose munizioni presenti sul carro, causa la morte di trenta persone. A Porta Maggiore, proprio nel punto in cui il 3 giugno 44 i tedeschi fecero saltare in aria un carrarmato in avaria uccidendo 30 persone, è piantato da tempo immemore un chioschetto che vende panini e cornetti a qualsiasi ora della notte. Se sia poi uno scherzo del caso - o una sua intelligenza - non è dato sapere, fatto è che Radio Radicale racconta da decenni le efferatezze della politica e del sistema carcerario italiano dalle stesse finestre e stanze nelle quali Pietro Koch con la sua banda in quei mesi del 1944 inflisse le peggiori sadiche torture a centinaia di persone, nelle stanze di quella che, all’epoca, era la Pensione Oltremare – in origine una delle tante vicino alla stazione sorte a ospitare gli sfollati che arrivavano dai dintorni di Roma.

23 marzo 1944, ore 15,52 Via Rasella. Alle 15,52 Rosario Bentivegna fa esplodere un carretto da netturbino carico di tritolo in via Rasella 155. Lo scoppio causa la morte di 32 soldati tedeschi. All’azione prendono parte i Gap centrali del Pci comandati da Salinari e Calamandrei. Per rappresaglia Kappler comanda l’uccisione di 335 italiani, tra partigiani, ebrei detenuti e civili. L’eccidio avrà luogo la mattina seguente nelle cave di pozzolana in via Ardeatina. Dentro le mura di Forte Bravetta, sull’Aurelia, luogo prescelto per l’uccisione dei partigiani condannati a morte, il terrapieno utilizzato come sfondo alla fucilazione conserva ancora, in mezzo alle altre, anche le pallottole dei colpi andati a vuoto la mattina della fucilazione di don Giuseppe Morosini, quando dieci soldati del plotone della Pai, la Polizia dell’Africa Italiana addetta alle esecuzioni, sbagliarono mira apposta. Era il 3 aprile, lunedì di Pasqua. Adesso che la zona è diventata un parco pubblico, con le torrette mangiate dalla ruggine, l’assedio del supermercato accanto, il giapponese a prezzo fisso di fronte, il traffico infernale anche in tempo di Covid, l’ecomostro sullo sfondo di palazzi rimasti al livello scheletro, il Forte è chiuso, circondato dalla rete. Fa da sfondo a chi passa: come Adriano, 82 anni, seduto su una panchina alle spalle di una bomba piovuta dal cielo e conficcata così, a testa in giù da settantacinque anni. Quando qui si fucilavano i partigiani, lui aveva sei anni, giocava. Ricorda i soldati, sì, ricorda ancora meglio gli alberi: «Non c’erano alberi, niente di questa boscaglia. Qualche cespuglio. Era solo terra battuta». Il Forte Bravetta era un castello da scalare, coi suoi amici. «Che noi da regazzini entravamo dentro ar fossato, andavamo giù, e tornavamo su. Non c’era mica tutta quella vegetazione. Tutta sta roba è cresciuta dopo. Andavi in fondo e risalivi. Il divertimento nostro era quello. Scendere e risalire, tutto il giorno. Stavamo quasi in campagna, via dei Carafa non c’era niente, a Casetta Mattei quasi niente». Bisogna pensarla così, la Roma della Resistenza. Spoglia, deserta, anche al netto delle distruzioni e della fame, con meno alberi, molti meno palazzi, meno tutto. Più simile per certi versi all’ultimo anno, che ai precedenti settanta. Il silenzio, per dire. Il coprifuoco. I rumori, che con tanti spazi vuoti si sentivano ben oltre quel che si possa oggi immaginare: quando a novembre i gappisti fecero saltare un autotreno della Werhmacht, in via Claudia di fronte al Colosseo, il boato si sentì fin sulla Cassia, dalla parte opposta della città. Le borgate, cuori pulsanti della Resistenza proletaria, erano spesso circondate dal nulla. Persino la Garbatella, oggi quasi centro città, era «un deserto». All’alba del 17 aprile, quando cominciò il rastrellamento del Quadraro, il fracasso delle camionette si sentì fino a Torpignattara. L’operazione Balena fu la più imponente dei 271 giorni di Roma: duemila uomini catturati e portati in un teatro di posa di Cinecittà (744 i deportati), si trattava del resto di una punta di diamante della Resistenza romana, al punto che, nonostante il rastrellamento, la zona resterà terra off-limits per i tedeschi, fino alla fine. Quel giorno fu arrestato anche un personaggio mitologico, il Gobbo del Quarticciolo (Giuseppe Albano), che proprio il lunedì dell’Angelo, poche ore dopo la fucilazione di Morosini, aveva ammazzato tre tedeschi a pranzo in un’osteria del Quadraro. Preso mentre si stava rifugiando in un’azienda, insieme a un gruppo di Bandiera Rossa, fu incredibilmente non riconosciuto: forse anche perché, avendo i tedeschi emanato l’ordine di arrestare tutti i gobbi di Roma pur di prenderlo, la sua deformità paradossalmente non fu notata, tra le tante dei poveracci chiusi a Regina Coeli e Via Tasso. Questo salvò il Gobbo dalla fucilazione, non dal ritorno dopo il 4 giugno alla vita da criminale che lo ha condannato poi alla dimenticanza – come molti altri spezzoni che lottarono per la speranza, poi tradita, di un mondo nuovo - essendo in effetti uno dei più fulgidi esempi di quanto si potesse essere in quei giorni anche questo: eroe partigiano e delinquente insieme. Alla faccia del manicheismo e della retorica, in un mix tutt’ora quasi impensabile, in effetti.

Il tragico carnaio di Cassino: inferno all'ombra dell'abbazia. Cassino rappresentò uno snodo decisivo per il fronte italiano nella Seconda guerra mondiale, ma trasformò le zone vegliate dalla secolare abbazia in un inferno di fuoco e macerie. Andrea Muratore - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale.  La battaglia di Cassino infuriò ferocemente a partire dal 17 gennaio 1944 impegnando, nei quattro mesi successivi, i reparti alleati intenti a risalire l'Italia e a respingere le forze tedesche che dalla resa del governo Badoglio del settembre 1943 ne occupavano una parte sostanziale. Primo teatro aperto dalla coalizione a guida anglo-americana nell'Europa occidentale, la campagna d'Italia si era arenata dopo che allo sbarco di Salerno (8 settembre 1943) era seguita la pronta conquista di Napoli (1 ottobre). Considerata secondaria nel quadro di un disegno strategico che prevedeva come prioritaria l'Operazione Overlord (sbarco in Normandia) del giugno successivo, essa serviva in primo luogo a inchiodare oltre le Alpi consistenti forze e riserve tedesche. Il maresciallo britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, calcolò che nel 1943, in Italia, tredici divisioni alleate tenevano impegnate diciotto divisioni tedesche, di dimensione e organico mediamente ben più ridotte, che complice la natura geografica favorevole del contesto appenninico, che gli Alleati erano costretti a risalire, riuscirono a trincerarsi efficacemente.

La Linea Gustav. Il comandante tedesco del fronte italiano, feldmaresciallo Albert Kesselring, aveva predisposto una graduale ritirata delle forze del Terzo Reich dalla linea temporanea tenuta sul fiume Volturno alla più imponente Linea Gustav, che rappresentò una lungimirante intuizione in termini di ingegneria militare e strategia difensiva. La Gustav consolidava una piattaforma difensiva continua tra Mare Adriatico e Mar Tirreno collegante Gaeta, nel Lazio, e Ortona, in Abruzzo, in corrispondenza di uno dei punti di minore larghezza della penisola. Da costa a costa, la Gustav consisteva in una serie di fortificazioni poste su rilievi naturali, gole, strettoie volte a presidiare con il minor numero di uomini il massimo territorio facendo perno sull'ostile natura degli Appennini, sull'asprezza del territorio e sul controllo del passaggio obbligato rappresentato dalla serie di valli fluviali nel cuore dell'Italia centrale. Il perno di questo schieramento fu individuato in Cassino, nel Lazio meridionale, città che come ricorda Matthew Parker nel suo libro dedicato alla battaglia (Montecassino, Il Saggiatore, 2009) rappresentava la porta alla valle del Liri che avrebbe aperto agli Alleati la strada di Roma. Facendo saltare una diga ed esondare il fiume Rapido i tedeschi trasformarono in un pantano acquitrinoso il terreno attorno Cassino, e mentre in prima linea la la 29ª Divisione granatieri corazzati incorporata nella Decima Armata del generale Heinrich von Vietinghoff dettava con la sua ritirata ordinata i tempi dell'avanzata alleata nell'abitato sorto all'ombra dell'antica Abbazia di Montecassino venivano installati campi minati, nidi di mitragliatrice, capisaldi. Il generale statunitense John Lucas si lamentò il giorno di Santo Stefano dei ritardi nell'avanzata alleata: "L'offensiva è di una lentezza spaventosa, [...] non abbiamo truppe sufficienti per andare più veloci e temo che con il passare del tempo diventeremo più deboli, non più forti: sono convinto che questo stia diventando un teatro secondario". A fine gennaio era previsto lo sbarco di Anzio volto ad aggirare la Linea Gustav, ma la presenza di capisaldi e teste di ponte tedesche rendeva l'esistenza stessa della linea un grattacapo da risolvere per gli Alleati. Il comandante supremo Dwight D. Eisenhower espresse la sua personale visione ritenendo preferibile per gli Alleati inchiodare il maggior numero possibile di truppe tedesche sul suolo italiano e dare dunque fondo a tutti i reparti disponibili: nel corso dell'offensiva di Cassino agli anglo-americani si sarebbero aggiunti reparti del Commonwealth (Nuova Zelanda in primis), della Francia Libera e del governo polacco in esilio. Rendendo l'armata d'Italia un vero e proprio esercito multinazionale, il cui perno erano il II Corpo d'Armata Statunitense del maggior generale Geoffry Keyes, forte di quattro divisioni di fanteria ed una corazzata, e il X Corpo Britannico, dotato di tre divisioni. Il comandante tedesco nel settore di Cassino, guidate dal generale Fridolin von Senger, potevano invece contare su otto divisioni, di cui due (3° e 15°) di Panzergrenadier, mentre tra Cassino e l'Adriatico era schierata un'unità destinata a entrare nella storia della battaglia, la 1° Divisone Paracadutisti, i cui membri sarebbero stati soprannominati dagli Alleati i Green Devils, "Diavoli Verdi", per la tenacia mostrata nella lotta per Cassino.

Ritorno alla Grande Guerra. A inizio gennaio 1944 il contatto con la Linea Gustav fu raggiunto e iniziarono le schermaglie sul fronte appenninico. In quel contesto maturerà la situazione strategica che ben presto porterà all'inizio del carnaio di Cassino.

Gli storici dibattono da tempo su come la battaglia ebbe effettivamente inizio, ma è ormai appurato che fin dal contatto tra tedeschi e Alleati sul fronte della Linea Gustav la regione di Cassino, dall'inizio del 1944, fu oggetto di schermaglie, azioni di unità e commando, tentativi di aggiramento. Nei giorni successivi al 15 gennaio 1944 la pressione alleata si fece più forte: l'obiettivo di Alexander e del comandante statunitense Mark Clark era tentare l'avanzata mettendo sotto pressione i tedeschi e evitando che delle riserve si potessero sganciare per raggiungere la costa in visto dell'imminente sbarco di Anzio, con cui si sarebbe tentato l'avvicinamento a Roma aggirando la Gustav. Il meteo gelido, il terreno difficile e ostile, la scarsa preparazione degli Alleati al fuoco di sbarramento e alle efficaci trappole tedesche impantanarono fin dall'inizio la battaglia tra gli Appennini e la valle del Liri in una snervante guerra di posizione. Dalle loro postazioni i tedeschi erano in grado di mettere in campo efficaci contrattacchi e misure di alleggerimento: quando il 20 gennaio una task force americana tentò di costituire una testa di ponte oltre il Rapido, un contrattacco di fanteria e mezzi corazzati tedeschi la travolse nel giro di 48 ore, portando all'annientamento di due reggimenti e alla morte di oltre 900 militari a stelle e strisce, a fronte di 90 caduti per le truppe del Reich. Il contrattacco era stato reso possibile dal controllo tedesco sul paesino di Sant'Angelo, punto di osservazione privilegiato posto su una collina soprastante il corso d'acqua. Quando lo sbarco a Anzio comandato dal generale Lucas, iniziato il 22 gennaio, si palesò come un fallimento e la testa di ponte alleata sul litorale laziale non fu espansa fino alle dimensioni necessarie a consentire attacchi alle spalle della Gustav Cassino assunse ulteriore valenza strategica e politica. Da Londra Winston Churchill perorava un'offensiva costante per motivazioni militari e politiche, volendo sfuggire alle accuse sovietiche secondo cui Mosca stava sobbarcandosi un peso eccessivo nel conflitto con le potenze dell'Asse mentre gli Alleati occidentali rimandavano da mesi l'apertura del secondo fronte in Francia. La battaglia di Cassino riaprì per alcuni mesi negli incubi dei combattenti e dei comandanti i ricordi dei tempi della Grande Guerra. Il fronte appenninico presentava peculiarità della guerra di trincea del fronte occidentale (snervanti attacchi e contrattacchi, sostanziale sacrificabilità tattica delle unità di fanteria, assenza di reali punti decisivi in cui portare attacchi e offensive) e del fronte alpino (necessità di conquistare ridotti montani di difficile accessibilità, preponderante squilibrio a favore delle forze della difensiva nella conduzione tattica), e un paragone con la Somme fu avanzato dal veterano della Grande guerra von Senger. Questi, che continuava a nutrire dubbi sulla difendibilità di Cassino, fu però magistrale tra la seconda metà di gennaio e la prima di febbraio a contenere avanzate locali e iniziative autonome dei reparti alleati. Diversi battaglioni coloniali algerini della Francia Libera furono decimati, mentre tra il 17 gennaio e l'11 febbraio i britannici persero 4.000 uomini tra morti e feriti.

Il bombardamento dell'abbazia. Nel furore della battaglia, l'abbazia Montecassino svettava, a 516 metri di quota, silenziosa e indisturbata nel furore degli scontri. Troneggiando sul colle da cui San Benedetto da Norcia aveva, nel 529, iniziato la stagione di rinascita della cristianità dopo il tracollo dell'Impero Romano, Montecassino aveva più volte subito assalti, distruzioni, saccheggi. A distruggerla per primi erano arrivati i longobardi nel 580, seguiti tre secoli dopo dai saccheggiatori saraceni. Nel 1349, mentre in Europa infuriava la peste nera, a raderla al suolo era stato un terremoto. Resistente e tenace, Montecassino era risorta più volte, animata e vitalizzata dalla saggezza, l'impegno e la dedizione dei monaci benedettini, che l'avevano trasformata in un polmone culturale per l'intera civiltà cristiana, uno scrigno nella cui biblioteca i codici miniati testimoniavano la salvezza di un'antica saggezza che all'inizio del Medioevo rischiava di andar perduta. La storia avrebbe nuovamente messo alla prova Montecassino: dopo averne a lungo rispettato la neutralità e dopo che i suoi tesori erano stati portati al sicuro in Vaticano, i tedeschi iniziarono a valutare l'inserimento di Montecassino nel perimetro difensivo, mentre gli Alleati iniziarono a valutare l'ipotesi di utilizzare i bombardamenti strategici come arma per vincere la battaglia seppellendo Cassino e i suoi difensori sotto una pioggia di bombe incendiarie. Il generale neozelandese Bernard Freyberg, i cui uomini avrebbero avuto il compito di sferrare l'offensiva di metà febbraio, divenne il più caloroso sostenitore della necessità di radere al suolo l'abbazia per prevenirne l'occupazione da parte tedesca, sostenendo su informazioni ricevute dalle truppe indiane al servizio degli Alleati che postazioni militari erano già state installate nel colle. Clark, dopo aver a lungo tergiversato, cedette e acconsentì all'utilizzo della forza aerea statunitense. Il 15 febbraio, alle 9.45, un'ondata ininterrotta di bombardieri statunitensi (dai B-17 Flying Fortress ai B-24 Liberator), 229 in tutto, martellò Montecassino sganciando in totale oltre 350 tonnellate di bombe. Montecassino fu rasa al suolo, centinaia di civili sfollati al suo interno rimasero uccisi e l'attacco si rivelò una barbarie senza senso, oltre che una mossa spregiudicata e controproducente sul fronte militare. Tra le rovine dell'abbazia e dell'abitato i tedeschi ebbero gioco facile a portare nuove postazioni fortificate, i paracadutisti si installarono contendendo metro per metro le rovine agli alleati. L'assalto neozelandese degli uomini di Freyberg mandò al massacro le truppe maori sotto il suo comando, mentre analoga sorte subirono indiani e gurkha nepalesi impiegati nello scontro.

La battaglia si sposta in città. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana la guerra di logoramento alleata fatta di assalti, bombardamenti, raid, martellamenti aerei e di artiglieria iniziò a produrre i primi, ridotti, risultati. Con l'abbazia e Cassino ridotti a cumuli di macerie i tedeschi si erano potuti fortificare, ma la loro già fragile linea logistica iniziava ad assottigliarsi e i ricambi di uomini, mezzi e munizioni iniziarono a farsi sempre più difficoltosi. Il 14 marzo un nuovo bombardamento aereo massiccio fu seguito da un raid di artiglieria in cui 748 pezzi spararono sulla cittadina e sul monastero quasi 200mila proiettili. Il paesaggio della cittadina si fece lunare: macerie, crateri, postazioni improvvisate cancellate dai proiettili assieme ai loro occupanti e altre che si spostavano disperatamente da un punto di impatto all'altro. Ciò che restava degli edifici simbolo di Cassino (l'abbazia, stazione, l'Hotel Continental e l'Hotel des Roses) era saldamente occupato dai "Diavoli verdi", quelli che in un omonimo romanzo Sven Hassel definì "gli sporchi dannati di Cassino". Mortai, cecchini, bombe a mano, agguati, armi bianche: tutto valeva in un confronto che andava assumendo i toni della sanguinosa lotta affrontata dai tedeschi per tentare di occupare Stalingrado un paio di anni prima. A prezzo di durissime perdite, offensiva dopo offensiva gli Alleati avevano indebolito le forze dei tedeschi, i cui battaglioni constavano di 50-100 uomini in media. Il più realista era von Senger, che nonostante i successi difensivi dei suoi uomini lamentava la totale assenza dal campo di battaglia della Luftwaffe e pensava alla futura resistenza unicamente come a un fattore dilatatorio. Sul fronte alleato, dopo i fallimenti delle settimane precedenti Freyberg e gli altri generali del Commonwealth iniziarono a mostrarsi insofferenti nei confronti di Clark per la promozione della strategia della guerra di logoramento, che in ogni caso fu soprattutto frutto della volontà di Alexander. Ad aprile le forze effettive sul campo parlavano di 108 battaglioni alleati contro i 57 tedeschi, di una supremazia aerea di dieci a uno (3.000 contro 300) e dell'arrivo sul fronte di 1.600 cannoni e 2.000 carri armati. Il mese fu dedicato alla preparazione da parte alleata della quarta offensiva.

Lo sfondamento. Alle 11 del 12 maggio 1944 1.600 cannoni esplosero con tutta la loro potenza di fuoco sul fronte di Cassino. Fu il preludio del quarto e decisivo assalto, in cui le resistenze dei difensori di Cassino furono messe a dura prova dall'avanzata di una nuova forza nello schieramento alleato, la brigata polacca formata da uomini scappati all'occupazione e alla distruzione del loro Paese da parte della Germania nel 1939 e desiderosi di riscatto e rivalsa. Protetto dal fuoco di sbarramento il II Corpo d'armata polacco del tenente generale Władysław Anders con la 3ª Divisione di fanteria Karpackich e la 5ª Divisione Kresowa appoggiate da una brigata corazzata non scalò il colle dell'abbazia ma tentò di aggirarlo e fortificarsi attorno ad esso. In una riedizione delle prime battaglie della guerra, questa volta con i tedeschi sulla difensiva, le truppe di Anders furono respinte dopo limitate avanzate dal fuoco di sbarramento dei Diavoli Verdi, che però poco poterono con la seconda ondata rappresentata dal dirompente corpo d'armata francese del generale Juin. Il 13 maggio le truppe marocchine di Juin, espugnando monte Maio, il bastione meridionale della linea Gustav nella valle del Liri, fecero cadere un importante caposaldo difensivo tedesco, permettendo di minacciare con maggiore forza Montecassino. Al cui assalto tornarono i polacchi: il 17 maggio il colle fu espugnato dopo la ritirata degli ultimi difensori tedeschi, timorosi di un accerchiamento. Il collasso del fronte di Cassino portò alla ritirata tedesca. Espugnando il paese laziale la chiave di volta della Linea Gustav fu conquistata dopo inenarrabili sofferenze. Davanti agli Alleati si aprirono le porte di Firenze e Roma, in cui gli statunitensi fecero il loro ingresso il 4 giugno, prima che una nuova linea difensiva tedesca, la Gotica, sbarrasse loro l'accesso alla valle del Po fino alla primavera successiva. Lo storico John Ellis, nel suo resoconto particolareggiato dei combattimenti di Cassino, l'ha definita "una vittoria vuota" per i tremendi costi umani (55mila morti, feriti o prigionieri alleati contro i 20mila tedeschi), e anche Basil Liddell Hart non ha mancato di criticare l'ostinata volontà alleata di accanirsi contro un fronte così tenace in un teatro secondario per i fini del conflitto. Kesselring, per mezzo dei suoi comandanti locali, riuscì a salvare il salvabile, dilazionando al 1945 il crollo del fronte italiano, mentre la maggior problematica per i tedeschi fu l'impossibilità di distogliere dal fronte italiano riserve e truppe che avrebbero reso più complesse le operazioni alleate in Normandia a giugno 1944. In conclusione, la battaglia di Cassino, compiuta nel penultimo anno della guerra, riportò alla mente le immagini di massacri risalenti a un trentennio prima. Insegnò la durezza che poteva essere associata a conflitti tanto intensi, casa per casa, nell'era di armi avanzate e letali come quella del secondo conflitto mondiale. Ridimensionò le aspirazioni di coloro che credevano di poter vincere battaglie terrestri unicamente grazie ai bombardamenti strategici. Mandò in rovina, per l'ennesima volta, un capolavoro dell'umanità come l'abbazia. Le cui rovine, a mo' di contrappasso, furono difese con tanta tenacia da portare alla distruzione di più vite e mezzi alleati di quelli che Freyberg intendeva risparmiare accelerandone la distruzione e la conquista. E le immagini delle rovine fumanti di Cassino ricordano, a quasi settant'anni di distanza, l'assoluta follia e brutalità della guerra. In cui distinguere il bene e il male è, in certi frangenti, impossibile.

Il classico di Giovanni De Luna. “Il partito della Resistenza”, storia e rivincita degli azionisti. Corrado Ocone su Il Riformista il 26 Maggio 2021. Certo, il titolo con cui rivede la luce, per i tipi della UTET, a quarant’anni dalla prima edizione, un classico della storiografia italiana come la Storia del Partito d’Azione di Giovanni De Luna è impegnativo, e forse anche provocatorio. In che senso quel partito, che ha avuto una vita breve (dal 1942 al 1947) e misera (alle elezioni per la Costituente del 1946 ottenne appena l’1,5% dei voti), può dirsi addirittura Il Partito della Resistenza? E se la Resistenza è l’atto fondativo con cui si è legittimata la Repubblica, come può un partito così piccolo identificarsi con essa, con quella che la retorica (e uso il termine in senso avalutativo) ha designato come una “guerra di popolo”? In verità, fra i partigiani le formazioni di “Giustizia e Libertà” erano buon seconde numericamente rispetto a quelle comuniste: altrettanto coese, forse, sul piano militare, ma senza dubbio percorse da forti divisioni interne sul piano ideologico. Fra di loro c’erano i socialisti di Emilio Lussu e Vittorio Foa, i repubblicani di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, i liberalsocialisti di Guido Calogero e Aldo Capitini, a un certo punto anche gli eredi di Carlo Rosselli e del suo socialismo liberale (che era ben altra cosa idealmente dal liberalsocialismo). Le formazioni azioniste si distinguevano nettamente da quelle comuniste per la loro composizione sociale, che vedeva la stragrande maggioranza di borghesi e intellettuali fra le loro fila. Non è forse sbagliato chiamare quello azionista anche “il partito degli intellettuali”. C’era in verità un fattore comune che contraddistingueva l’impegno in politica di questi uomini di buona famiglia e solida cultura, anzi due. Il primo concerneva la loro scelta di campo: a sinistra, nel fronte progressista, con un’idea di trasformazione radicale dell’Italia che non contemplava nessuna continuità con quella che era l’età liberale prefascista. Radicale, ma non marxista. Da questa impostazione derivava una differente valutazione dei due “totalitarismi” (per usare la chiave interpretativa di Hannah Arendt e altri studiosi che muovevano le loro riflessioni proprio negli stessi anni, i cosiddetti “liberali della guerra fredda”). Gli azionisti tutti erano non comunisti, ma non anticomunisti. Rispetto ai fascisti (in senso stretto ma spesso ahimé anche in senso lato: tutta la destra veniva a volte sommariamente liquidata come tale) c’era una pregiudiziale, la cosiddetta conventio ad excludendum, mentre verso i comunisti si cercava il dialogo e si sperava in una loro “maturazione” democratica. Bisognava gettare verso di loro un “ponte”, come sottolineava il nome di una rivista che si proponeva questo scopo e che faceva capo a Piero Calamandrei. Il loro antifascismo era perciò quello che aveva tenuto unite forze politiche diverse nella Resistenza e nel CLN, e perciò da questo punto di vista la definizione di De Luna è calzante. Il secondo collante che teneva insieme tutti gli azionisti era una certa concezione morale, o addirittura moralistica, della politica. Che, in qualche modo, rifiutava del marxismo forse l’aspetto più vitale: quel realismo politico che aveva fatto sì che Benedetto Croce definisse Marx “il Machiavelli del proletariato” e che era impersonato in quel frangente storico da una certa ambiguità e spregiudicatezza (anche verso gli ex fascisti) di Palmiro Togliatti, alias Roderigo di Castiglia, contro cui l’azionista Norberto Bobbio avrebbe presto polemizzato. Ora, però l’aspetto che a me è sempre più interessato concerne l’atteggiamento di Croce, che ritorna nelle pagine di De Luna, nei confronti del Partito d’Azione: quel Croce che era stato maestro di antifascismo per tutti gli italiani e maestro di studi diretto di molti protagonisti del nuovo movimento (da Adolfo Omodeo a Guido De Ruggiero, da Carlo Antoni a tanti altri). Egli fu da subito e sempre fortemente critico verso gli azionisti, e ciò muoveva di pari passo con la consapevolezza che egli acquisì, a partire all’incirca dal 1942, della necessità di combattere il comunismo una volta sconfitto il fascismo. L’alleanza degli Alleati con l’Unione sovietica era per lui, detto in altre parole, tattica e momentanea. «Ho lavorato a dare – scrive il 13 novembre 1943 nei Taccuini di lavoro- chiari e saldi concetti su quel che è il liberalismo… ed ecco che mi è stato contrapposto un intruglio di colorito liberale ma di realtà comunistica o, a ogni modo, dittatoriale, che, non osando chiamarsi apertamente socialismo e socialismo rivoluzionario, ha adottato il nome di Partito d’Azione». C’è in questa pagina tutto lo sconforto del padre che vede i figli prendere strade diverse rispetto alla sua. Croce resta un isolato in campo culturale in Italia, nel secondo dopoguerra. Anche dopo la fine del Partito d’Azione, quelli che ne erano stati protagonisti contribuirono a dare alla nostra cultura un’impronta marcata a sinistra che si aggiunse e anche mescolò in qualche modo con quella più direttamente comunista. Tanto che Dino Cofrancesco ha coniato l’espressione “gramciazionismo”, sollevando non poche polemiche. L’aspetto più interessante da notare è che a partire da un certo punto, diciamo dagli anni Settanta del secolo scorso, in Italia e non solo, il filone radicale o eticista ha preso il sopravvento a sinistra rispetto a quello realista e marxista. E in Italia si è persino confuso col montante “giustizialismo” che ha accompagnato la fine della cosiddetta Prima Repubblica. Una rivincita postuma del Partito d’Azione, nonché il motivo della sua forte “attualità” rivendicata da De Luna e da Chiara Colombini (autrice della prefazione del libro)? Ed è un bene o un male per la sinistra? Chi scrive propende per la seconda ipotesi, pur non essendo mai stato comunista, ma il dibattito è aperto. Corrado Ocone

Così la Repubblica (minoritaria) cacciò Casa Savoia. Aldo A. Mola il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. Aldo A. Mola racconta ai lettori del "Giornale" l'ingiusta fine di un regno il 2 giugno 1946. Nel giugno 1946 l'Italia visse la svolta più profonda dell'unificazione nazionale. Ne furono protagonisti la Corona, il governo e la Corte Suprema di Cassazione. Il 2-3 giugno gli italiani scelsero la forma dello Stato ed elessero l'Assemblea costituente. Dal 4 al 10 re Umberto II e il Consiglio dei ministri procedettero su binari paralleli: colloqui e messaggi. Poi tutto precipitò, per crisi interna, non internazionale. Il 5 marzo a Fulton, presente Truman, presidente degli USA, il premier inglese Churchill aveva denunciato la cortina di ferro calata dall'URSS di Stalin dal Baltico a Trieste. Con la resa del settembre 1943, grazie a Vittorio Emanuele III e ai suoi generali/diplomatici, l'Italia era saldamente in Occidente. Ma per gli americani la monarchia non era indispensabile. Secondo l'Istat il 31 dicembre 1945 gli italiani con diritto di voto erano circa 28 milioni. Ai seggi ne andarono quasi 25 milioni. I 3 milioni mancanti non furono astenuti ma esclusi: i quasi 700mila elettori di Bolzano e della XII Circoscrizione (Venezia Giulia), ancora in discussione; quasi 300mila prigionieri di guerra o dispersi; 500mila privati del diritto di voto per motivi politici; 1,5 milioni non ricevettero il certificato elettorale. Sino alla sera del 4 la monarchia parve in vantaggio. Sull'inizio del 5 la repubblica passò in testa. Le edizioni mattutine di alcuni giornali e il ministro dell'Interno, Giuseppe Romita, monarcofago, affermarono che essa era in vantaggio di 2 milioni di voti. I decreti legge istitutivi e attuativi delle votazioni imponevano che gli Uffici elettorali circoscrizionali comunicassero i risultati a quello Centrale e che la somma dei voti venisse annunciata alla presenza della Corte di Cassazione. Il suo presidente, Giuseppe Pagano, magistrato integerrimo, la convocò nella Sala della Lupa di Montecitorio alle 18 del 10 giugno. Dall'8 sacchi di verbali e atti vari affluirono a Roma con tutti i mezzi disponibili. Nel frattempo le posizioni si cristallizzarono. I voti assegnati per la Costituente non lasciarono dubbi. Vinsero DC, PSI e PCI. I partiti dichiaratamente o tiepidamente monarchici ottennero pochi seggi. La Corona rimase indifesa. La sera del 5 la Regina, le figlie e il principe Vittorio Emanuele, di 9 anni, lasciarono il Quirinale per Napoli e l'indomani salparono per il Portogallo. Il segnale era chiaro. Re dal 9 maggio, quando il padre aveva abdicato, Umberto II andò in visita da Pio XII e convitò i parenti alla Mensa Nobile del Quirinale: quando fosse partito dall'Italia dovevano fare altrettanto. Il 10, ascoltata la litania dei voti espressi, Pagano ne prese atto, ma poiché mancavano i dati di un centinaio di sezioni rinviò l'adunanza al 18 giugno e, a sorpresa, chiese il rendiconto delle schede bianche e nulle. Nella notte sull'11 il governo dichiarò che ormai l'Italia era Repubblica. Dopo un braccio di ferro di 24 ore, alle 0.15 di giovedì 13, col voto contrario del solo Leone Cattani, esso conferì le funzioni di Capo dello Stato al presidente del Consiglio. Umberto II lo apprese mentre cenava a casa del senatore Alberto Bergamini. Che cosa fare? Tra quattro ipotesi (disconoscere il governo e formarne un altro, arroccarsi al Quirinale, trasferirsi da Roma in attesa degli eventi, partire dall'Italia e protestare) scelse la quarta. L'Italia era blindata contro ogni attacco esterno e gli anglo-americani avrebbero soffocato insurrezioni contro i poteri dello Stato, ma la contrapposizione sanguinosa tra monarchici e repubblicani avrebbe aperto ferite in un corpo già provato. L'ammiraglio Ellery Stone pilatescamente non garantì l'incolumità personale del sovrano: questione interna. Partito il Re da Ciampino alle 16 del 13 giugno, iniziò il computo affannoso delle schede bianche, nulle, annullate e non assegnate. Documenti prima inediti provano che, mentre l'Ufficio elettorale centrale esaminava (per modo di dire) 20mila ricorsi su 35mila seggi, i dati conteggiati alla carlona furono «avviati» alle calcolatrici. Un brogliaccio conservato all'Archivio Centrale dello Stato prova che mancavano i risultati definitivi di centinaia di sezioni. Poco prima della seduta del 18 giugno, respinti tanti ricorsi di vario rilievo, contro il voto di sei giudici compreso il Presidente, la Corte stabilì che votante significa voto valido, non chi va al seggio e vota: un colpo contro il dizionario della lingua italiana per chiudere la partita con 2 milioni voti di vantaggio per la repubblica. La massa di schede bianche e nulle disparve. La Corte non aveva poteri investigativi e da giorni Togliatti aveva insinuato che «forse» le schede erano già state distrutte. D'altronde ormai il re aveva lasciato l'Italia sciogliendo dal giuramento di fedeltà alla Corona (ma non alla Patria) quanti l'aveva pronunciato. Il 19 giugno uscì il primo numero della Gazzetta Ufficiale con l'annuncio della Repubblica, nata dal consenso del 46% degli elettori: 12.700.000 elettori su 28.000.000. Minoritaria. Settantacinque anni dopo, quel mese cruciale merita di essere ripercorso documenti alla mano.

La seconda guerra mondiale. Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati. Da Salerno a Milano e Bergamo. Così la storia in presa diretta smentisce la vulgata comunista. Francesco Perfetti, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. L' idea dell'unità della Resistenza a guida comunista come mito fondante dell'Italia post-fascista fu il grande capolavoro di quella cultura azionista e comunista che si era proposta, in linea con il progetto gramsciano, la conquista della società civile e politica. Tale idea presupponeva che la Resistenza fosse stata un movimento popolare di massa all'interno del quale le componenti non comuniste erano state inessenziali o marginali. Scomparvero, così, o furono minimizzati, in tanta letteratura storiografica, sia i contributi forniti alla Liberazione da parte di uomini o formazioni partigiane - cattolici, liberali, monarchici - che non fossero comunisti sia, ancora, quelli dei militari e degli internati nei campi di prigionia tedeschi. Persino in una opera celebrata come innovativa, quale fu il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, le cose non cambiarono troppo: anche in quel caso il contributo di alcune componenti alla Liberazione (si pensi, per esempio, alla monarchica e liberale Franchi di Edgardo Sogno) è marginalizzato mentre il contrasto fra partigiani di colore diverso culminato nella strage di Porzûs è confinato in qualche nota a piè di pagina. Non basta. La mitizzazione della Resistenza - enfatizzata retoricamente anche dalle e nelle cerimonie celebrative - ha finito per diffondere una idea falsa della realtà storica veicolando l'idea che la Liberazione sia stata opera esclusiva, o quanto meno prevalente, della Resistenza e ridimensionando, in tal modo, il contributo militare degli Alleati a un evento che, senza il loro intervento, probabilmente avrebbe faticato a realizzarsi. A tale visione, frutto evidente di «uso politico della Resistenza», assesta un duro colpo l'ultimo importante studio dello storico contemporaneista Gianni Donno dal titolo La liberazione alleata d'Italia 1943-1945 (Pensa Multimedia, 11 volumi in cofanetto, euro 275) impreziosito da un imponente apparato iconografico e da una eccezionale documentazione archivistica proveniente dagli archivi americani e fino ad oggi inedita. Arricchito da due introduzioni, di Piero Craveri e di Giampietro Berti, il lavoro mostra come la Liberazione sia avvenuta, proprio e soprattutto, grazie all'avanzata delle Forze Alleate lungo il versante tirrenico dallo sbarco di Salerno (settembre 1943) sino a Milano e Bergamo (aprile 1945). Una lunga e faticosa marcia ostacolata dalla resistenza delle truppe tedesche asserragliate lungo la Linea Gotica, ma anche dalle caratteristiche del territorio e dalle condizioni atmosferiche. La «campagna d'Italia», insomma, non fu affatto una passeggiata. Costò agli alleati circa 90mila morti in combattimento o a causa della guerra sepolti in 42 cimiteri sparsi in tutta la penisola. Un grande sacrificio di sangue, dunque, che per molto, troppo tempo la «vulgata» resistenziale ha lasciato in ombra per motivi esclusivamente politici. Un sacrificio che - pur senza nulla togliere al contributo di sangue dei partigiani, che secondo i dati riportati da Donno fu di circa 7mila morti - fa ben comprendere, come osserva giustamente Craveri, chi fossero stati davvero i «protagonisti» della liberazione d'Italia dal fascismo e dal nazismo. Rispetto ad altre opere storiografiche sulla campagna d'Italia, il lavoro di Donno è originale perché la ricostruzione dell'avanzata alleata dopo lo sbarco di Salerno è fatta utilizzando i Reports of Operations delle unità combattenti americane, cioè i rapporti stilati dai comandanti di pattuglie, compagnie, battaglioni al termine delle singole operazioni. Si tratta di una documentazione che l'autore integra, naturalmente, con le altre fonti tradizionali, ma che, con il suo linguaggio scarno ed essenziale, offre un suggestivo racconto in «presa diretta» e dà conto dei sentimenti di entusiasmo o paura, di aspettative o delusioni degli uomini inquadrati nella V Armata e impegnati nelle operazioni belliche. Al tempo stesso, questa documentazione aiuta a comprendere meglio la logica di certe scelte strategiche o tattiche suggerite da fattori imponderabili. Per esempio, le piogge torrenziali sull'Italia centromeridionale nell'ultimo trimestre del 1943 provocarono smottamenti di terreno e allagamenti che resero difficile, in qualche caso addirittura problematica, l'avanzata dei mezzi corazzati. Di tutto ciò, ed anche dei riflessi sul morale dei militari, si trova una precisa registrazione nei Reports of Operations. Di particolare interesse, lo sottolineo per inciso, è la riproduzione fotografica di alcuni numeri del settimanale Yank, un rotocalco che aveva come sottotitolo The Army Weekly e che era destinato ai soldati impegnati al fronte sia per offrire loro un aggiornamento periodico anche fotografico dell'andamento delle operazioni militari, sia per tenerne alto il morale e galvanizzarne gli spiriti. Nel complesso, dunque, il lavoro di Gianni Donno sulla liberazione alleata dell'Italia non è, come la maggior parte delle più conosciute opere sull'argomento, una «storia politica» o una «storia militare» di taglio tradizionale costruita con un approccio di tipo «macrostorico», ma è piuttosto una narrazione di tipo «microstorico» che consente in qualche caso di rivedere taluni giudizi consolidati o di spiegare certe situazioni o decisioni. Basterà un solo esempio. Dai Reports of Operations si comprende il motivo dell'uso massiccio della artiglieria pesante e dei bombardamenti alleati. Si trattò, infatti, di una scelta, in certo senso, obbligata dalla accanita difesa delle truppe germaniche che, utilizzando piccole unità e cecchini ben celati, riusciva a ritardare l'avanzata delle truppe americane in un territorio aspro e difficile provocando uno stillicidio di caduti tra le loro file. Al di là della ricostruzione degli aspetti militari della Campagna d'Italia, tuttavia, il lavoro di Donno finisce per avere una importanza che trascende la dimensione della «storia militare» propriamente detta perché contribuisce a demitizzare la vulgata resistenziale sulla Liberazione e a far comprendere come il contributo degli Alleati sia stato, davvero, fondamentale per le sorti del Paese.

"1945 Germania anno zero": Atrocità e crimini di guerra Alleati nel “memorandum di Darmstadt”. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 04 giugno 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Nè revisionismo, né negazionismo: i crimini di una parte non giustificano, né elidono i crimini dell’altra parte: la conoscenza completa e onesta del passato, oltre a consapevolizzarci sull’oscurità che alberga nell’uomo, può impedire l’uso strumentale della storia e quindi il perpetuarsi di spirali di odio, violenza e vendetta per i decenni successivi. Con questa ispirazione è nato “Germania anno zero” (Italiastorica) l’ultimo libro dello studioso Massimo Lucioli, (già autore di notevoli studi sull’ultima guerra), dedicato al cosiddetto “Memorandum di Darmstadt”. Il volume comprende una sconvolgente raccolta di immagini, di cui molte inedite. Nel 1946, il campo di internamento americano 91 a Darmstadt, in Assia, contava 24.000 prigionieri tedeschi. Qui, in segreto, durante il processo di Norimberga, un gruppo di avvocati internati raccolse per quattro mesi le dichiarazioni giurate di 6.000 testimoni sulle violazioni delle leggi e delle regole di guerra da parte degli Alleati: dagli eccidi sulla popolazione tedesca etnica in Polonia nel 1939 (che fornirono il casus belli a Hitler), alle uccisioni dei prigionieri di guerra germanici da parte sovietica prima –con casi di torture e mutilazioni – e Alleata poi. Si documentano le violenze sessuali e le brutalità dei soldati Alleati contro i civili tedeschi; gli stupri e i massacri di massa sovietici nelle province orientali della Germania nel 1944-’45; i bombardamenti incendiari sui quartieri popolari e centri storici delle città tedesche. Particolare attenzione è dedicata alle draconiane misure punitive concepite dal sottosegretario al tesoro americano Henry Morgenthau applicate - di fatto - nella direttiva JCS 1067. Questa circolare disciplinava la vita dei civili e prigionieri militari nella Germania occupata dagli Usa, ma fu poi recepita anche nei settori governati da francesi, inglesi e russi dopo la conferenza di Postdam del luglio’ 45. La popolazione tedesca, già stremata dalla guerra, fu sottoposta a privazioni tali da portare alla morte per fame, freddo e malattie centinaia di migliaia di civili – specie anziani, bambini e donne - con tassi di mortalità infantile, in alcune città, del 100%. Nel libro si tratta anche dell’ordine segreto emesso da Eisenhower il 10 marzo ‘45 con cui i prigionieri tedeschi venivano classificati come DEF (Disarmed Enemy Forces), perdendo il loro status di POW, (Prisoners of war): in tal modo, non potevano più godere delle garanzie di assistenza minima previste della Convenzione di Ginevra. In ordini successivi, Eisenhower autorizzò a sparare su tutti i civili tedeschi che portassero da mangiare ai loro compatrioti militari prigionieri, dato che questi “dovevano essere alimentati dal Governo tedesco”. Dettaglio: il governo tedesco non esisteva, e questo condurrà alla morte circa un milione di prigionieri di guerra germanici per fame, stenti e malattie nel periodo 1945-‘47. Il memorandum di Darmstadt, compilato in sei copie, doveva essere presentato da Hermann Göring al tribunale di Norimberga nel suo discorso di chiusura il 5 luglio del 1946. Ciò però non avvenne: gli Alleati sequestrarono e bruciarono il memorandum, tuttavia, una copia fu trafugata, pubblicata in Argentina nel ‘53 e successivamente in Germania.  Una pila di menzogne per difendere l’indifendibile? Le testimonianze dei prigionieri tedeschi trovano effettivo riscontro su tempi, luoghi, vittime, procedure e responsabili nei saggi del funzionario ONU, esperto di diritto umanitario Alfred M. de Zayas e dello storico Franz W. Seidler dell’Università Bundeswehr di Monaco. Altre testimonianze sono state verificate da Lucioli nell’archivio online del dipartimento Personenbezogene Auskünft di Berlino-Reinickendorf (con schede su 2,5 mln di caduti tedeschi).  "Devo ancora leggere il libro – commenta lo storico Franco Cardini all’Adn Kronos -  ma non è una novità che anche gli Alleati abbiano commesso atti infami. Il memorandum di Darmstadt lo conosco e ci sono invecchiato insieme. Lo dicevo da anni e qualcuno insorgeva contro di me. Ormai certe verità uniche e menzogne sono diventate patrimonio dell'umanità. Ci vorrebbe più coraggio a dirlo, nessuno ha tutta la ragione in tasca. E questo non significa ridimensionare i crimini del nazismo, sia ben chiaro. I vincitori, quando hanno vinto, hanno fatto di tutto per imbiancare le loro coscienze e annerire quelle dei vinti. Abbiamo immagazzinato una quantità infinita di errori e inesattezze storiche incredibili, una tale potenza di accuse nei confronti dei vinti, alcune anche calunniose, da far paura. Solo adesso, dopo 80 anni, si comincia a fare i conti con la verità. Attenzione, dire che Churchill sia stato un mascalzone, non significa dire che Hitler aveva ragione". Chiosa Massimo Lucioli: “Bisogna ricordare che gran parte di tali crimini sconvolgenti furono compiuti a guerra finita contro la popolazione civile tedesca. Non si può parlare, quindi, di crimini di guerra, bensì di crimini contro l’umanità: una forma di vendetta. Lo stesso John F. Kennedy nel libro “Profiles in Courage” del 1956 ebbe parole molto critiche sul processo di Norimberga: «Un processo tenuto dai vincitori a cari­co dei vinti non può essere imparziale perché in esso prevale il biso­gno di vendetta. E dove c'è vendetta non c'è giustizia. A Norimberga, noi accettammo la mentalità sovietica che antepone la politica alla giustizia, mentalità che nulla ha in comune con la tradi­zione anglosassone. Gettammo discredito sull'idea di giustizia, mac­chiammo la nostra costituzione e ci allontanammo da una tradizione che aveva attirato sulla nostra nazione il rispetto di tutto il mondo»”.

Insomma, “1945. Germania anno zero” farà parlare di sé.

Gli irriducibili intellettuali del Texas. Tra i "non cooperatori" (non solo fascisti) ci furono moltissimi giornalisti, scrittori, artisti. Luigi Mascheroni, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Fra i campi di prigionia allestiti negli Stati Uniti durante il secondo conflitto mondiale per rinchiudere i militari degli eserciti dell'Asse (solo i nostri soldati erano 50mila) ce ne fu uno molto speciale, la cui fama oggi trascende le vicende della guerra. Era in Texas. A Hereford. E fu destinato esclusivamente ai prigionieri italiani, tremila in tutto, catturati fra il 1940 e il '43 e che dopo l'armistizio rifiutarono di collaborare con gli americani. Li chiamavano gli «irriducibili». E, per un fenomeno particolare di «sincronicità casuale», erano in gran parte intellettuali: giornalisti, scrittori, pittori, latinisti, illustratori, musicisti... «Che miniera, quell'Hereford, di genii!», lasciò detto nelle sue memorie Aurelio Manzoni, reduce di quel campo. Rimasto nella memoria come «campo fascista», soprattutto per via del titolo Fascists' Criminal Camp che Roberto Mieville, fra i fondatori del MSI, diede al suo libro pubblicato nel '48, il centro di detenzione di Hereford fu qualcosa di più e di diverso. Lo spiega bene lo storico Flavio Giovanni Conti nel nuovo saggio Hereford. Prigionieri italiani non cooperatori in Texas (il Mulino) che ricostruisce la storia di quel particolare campo, la vita quotidiana dei detenuti, la presenza inusuale di molti uomini di cultura e i differenti motivi per cui rifiutarono di passare al nemico. Fra quanti scelsero di non cooperare con gli americani, infatti, non c'erano solo fascisti e repubblichini, ma anche apolitici, liberali e persino comunisti e socialisti (chiamati i «collettivisti»). In quanto militari, i prigionieri non vollero collaborare per un sentimento di coerenza e lealtà alla parola data nel momento dell'entrata in guerra. Tanto più che il governo italiano dopo l'8 settembre non diramò mai un ordine preciso in tale senso. Senza contare le pericolose conseguenze che la cooperazione avrebbe comportato, come ad esempio lavorare nelle industrie di armi che sarebbero state utilizzate contro la popolazione in Italia o il rischio di rappresaglie nei confronti delle loro famiglie in patria. Non tutti fascisti, quindi. Ma moltissimi intellettuali, grazie all'alto numero di ufficiali con un livello di istruzione generalmente elevato. L'aspetto più incredibile è che riuscirono non solo a sopravvivere, ma a scrivere e dipingere, nonostante in alcuni momenti le privazioni, la fame, le violenze fossero particolarmente pesanti. I più noti tra i prigionieri del campo di Hereford, «texani» destinati a diventare nomi di riferimento del '900 letterario e artistico, sono Giuseppe Berto e Alberto Burri. Il primo proprio qui orientò la propria scelta letteraria. Iniziò a collaborare con alcune riviste che venivano pubblicate nel campo - a volte in copia unica! - poi scrisse racconti e soprattutto il romanzo cui Leo Longanesi, che lo pubblicò nel '46, diede il titolo Il cielo è rosso. E il secondo nel campo, come riconobbe lui stesso anni dopo, capì che doveva fare il pittore. Già volontario nella guerra d'Etiopia (Burri non rinnegò mai a differenza di altri l'adesione al fascismo), nel 1940, ufficiale medico, fu inviato prima sul fronte jugoslavo e poi in Africa. Catturato in Tunisia nel maggio del '43, durante la prigionia a Hereford rinunciò a svolgere la professione medica per protesta contro le restrizioni imposte dagli americani, e decise che da lì in avanti si sarebbe dedicato solo alla pittura, diventando nel dopoguerra un nome di livello internazionale. Iniziò con opere figurative. Il primo quadro che dipinse, dal titolo Texas, un olio su tela, rappresenta ciò che vedeva dell'esterno del campo (molti dei dipinti riuscì a farseli spedire in Italia, ma li distrusse quasi tutti), poi quasi subito cominciò a utilizzare nuove tecniche e materiali, come i sacchi di juta recuperati nelle cucine. Da materiale povero e occasionale i sacchi divennero il suo segno artistico distintivo: l'espressione di una poetica e di una visione dell'esistenza. «Resistevamo alla fame e al freddo, e si lavorava accanitamente nonostante la debolezza: Medici scriveva musica, Berto il suo romanzo, Tumiati, Fioravanti, Buonassisi e il sottoscritto racconti, teatro, poesia: Selva, Ravaglioli, Dello Jacovo saggi politici, Burri dipingeva...», ricorderà più avanti Dante Troisi, scrittore (con L'odore dei cattolici nel '63 fu tra i finalisti del Premio Strega) e magistrato autore di quel Diario di un giudice, uscito nel 1955 prima su Il Mondo di Pannunzio e poi nei «Gettoni» Einaudi, che suscitò scandalo e gli valse una censura disciplinare per offesa alla magistratura....E gli altri? A Hereford c'era Giosuè Ravaglioli, «il dittatore intellettuale del campo», già giornalista del Piccolo di Trieste, uno degli uomini più colti della «squadra» texana, lettore severo di tutti gli scritti dei suoi compagni (diede anche consigli a Berto), antifascista, che dopo la guerra entrò nel PCI. C'era il giornalista sportivo Armando Boscolo, autore del libro più famoso uscito dal quel campo, Fame in America (1954). L'architetto e disegnatore Giovanni Rizzoni. Il giornalista e illustratore Ervardo Fioravanti. Il musicista Mario Medici, fondatore e direttore negli anni '60 dell'Istituto di studi verdiani di Parma. Il latinista Augusto Marinoni, fra i massimi esperti di Leonardo da Vinci. Il matematico Mario Baldasarri. Il gastronomo e conduttore televisivo Vincenzo Buonassisi. Diversi futuri politici, fra i quali Beppe Niccolai, deputato del MSI tra gli anni '60 e '70. E ancora. Vezio Melegari, disegnatore e caricaturista. Il repubblichino Gaetano Tumiati, giornalista, scrittore e critico letterario, direttore dell'Illustrazione italiana, poi vice di Lamberto Sechi a Panorama e vincitore del Premio Campiello nel '76 col romanzo Il busto di gesso. E il pittore, Dino Gambetti, uno dei nove prigionieri italiani, «italici milites», cui fu chiesto di affrescare la chiesa di St. Mary's a Umbarger, trenta chilometri da Hereford. Lo fecero - per spirito cristiano e in cambio di lauti pasti - fra l'ottobre e il dicembre del '45, decorando, dipingendo e intagliando legno. Ancora oggi i loro nomi sono incisi su una targa, nel portone della chiesetta. Circa la qualità degli affreschi, Mario Tavella ricorda nelle sue memorie: «L'opera conclusa è più che dignitosa e, tenendo conto dei loro parametri di giudizio, è considerata dagli indigeni alla stregua della Cappella Sistina».

Resistenza, un’altra voce fuori dal coro. Mieli: «Ecco al verità sui partigiani comunisti». Redazione martedì 26 Novembre 2021su Il Secolo D'Italia. Dall’agiografia alla storiografia. Meglio, dall’esaltazione faziosa della Resistenza alla sua rivisitazione “senza tabù”. L’invito a guardare senza lenti deformanti uno dei periodi più controversi e  cruenti della nostra pur tormentata vicenda nazionale arriva  dall’ex-direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli. Indubbiamente un atto di coraggio intellettuale. A distanza di oltre settant’anni la Resistenza resta infatti ancora una sorta di zona franca, off limits per l’approfondimento e l’indagine storiografica. Lo ha imparato a sue spese Giampaolo Pansa, ripetutamente insultato dal cosiddetto “popolo della sinistra”. La sua colpa? Aver sollevato il velo di reticenza sulle violenze partigiane negli anni 1944-46. Prima di lui, in verità, e in tempi ben più bastardi, lo aveva fatto Giorgio Pisanò, giornalista e senatore missino. Speriamo vada meglio a Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, autori della Storia della Resistenza.

Mieli elogia la Storia della Resistenza di Flores e Franzinelli. È il libro che Mieli invita a leggere senza pregiudizi. Di più: l’ex-direttore del Corsera ripercorre l’ultima fase della guerra civile seguita all’armistizio dell’8 settembre del ’43. Prima dell’aprile 1945, spiega Mieli, la Resistenza era stata caratterizzata da «conflitti interni generati da tentativi scissionisti per ribaltare gli assetti direttivi di un gruppo partigiano». Ma anche da «passaggi contrastati dall’una all’altra formazione, oltreché rivalità tra bande operanti nella stessa zona». Sarebbero proprio questi, sottolinea ancora Mieli, gli  aspetti «ignorati o sottovalutati» dalla storiografia ufficiale, spesso trasformatasi in agiografia. Storie di regolamenti di conti e brutale realpolitik rimaste nell’ombra. La ragione per Mieli è semplice: «Il timore di prestare il fianco ai denigratori della Resistenza». Ma, aggiunge, «è stato un grande errori. Gli italiani sarebbero stati in grado di capire».

I precedenti di Pisanò e Pansa. Da qui la necessità si svelare i passaggi cruciali del «biennio della guerra civile», un periodo reso «monco e poco credibile agli occhi dei posteri» dalla retorica degli storiografi di parte che ne hanno cantato solo le gesta eroiche. E così spazio a tradimenti, processi sommari, accuse di spionaggio, fango puro nei confronti di questo o quel partigiano “scomodo”, come nel caso di Dante Facio Castellucci. Pagine truci, come scontri a fuoco scatenati dai comunisti «che intendevano mantenere una supremazia numerica e politica su ogni altra forza», secondo la testimonianza di un militare di rango britannico. Non per caso, l’epicentro di tante violenze è l’Emilia-Romagna, cuore dei partigiani rossi, che non esitarono a venire a patti strategici con i nazisti per eliminare i partigiani «rivali».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2021. Così Ben e la Clara a Milano/ per i calcagni a Milano./ Che i vermi mangiassero il torello morto. Nulla meglio dei versi di Ezra Pound è riuscito a rendere l' atrocità dello scempio consumatosi in Piazzale Loreto. Nonché la sua oscenità, perché osceno fu il gesto di esibire come trofei e costringere al pubblico ludibrio i cadaveri di Mussolini, della Petacci e di alcuni gerarchi fascisti, infierendo su di loro. Ma tanto fu visibile e macabra quella esposizione, quanto furono misteriosi gli eventi che precedettero il tragico epilogo. Eventi sui quali ci è stata fornita da sempre una verità ufficiale, ma in merito ai quali non è ozioso indagare, anche per restituire umanità alle vittime e provare a non ucciderle una seconda volta. In questo sforzo si è cimentata la scrittrice Maria Pia Paravia che, con un paziente lavoro di raccolta di documenti e fonti vive durato due anni e mezzo, è approdata a un' altra versione dei fatti relativi alla fine della Petacci e di Mussolini, e ne ha tratto un libro, Il giallo di una vita spezzata, pubblicato dal geniale editore ebreo Graus (pp.64, euro 12) e presentato negli scorsi giorni in Senato. L'opera, scritta con tocco di grazia a mo' di un racconto dei cantastorie (in origine doveva chiamarsi Omissea apoetica), attraverso un io narrante che coincide con la stessa Petacci, tocca i momenti salienti del suo rapporto col Duce: dal loro incontro casuale, a bordo delle rispettive auto, lungo la strada per Ostia, all' esplodere di un amore da lei vissuto come un continuo esercizio di attesa e dedizione, fino a quel 25 luglio 1943, che comporterà l' arresto, oltre che di Mussolini, anche della Petacci e della sua famiglia: Claretta, con la sorella Miriam e la madre, vengono portate nel carcere di Novara, in una «cella fetida», tra le «sevizie» e le «offese indicibili» dei carcerieri, e qua costrette a sopportare le più drammatiche condizioni igieniche. Alla liberazione dal carcere, dopo l' 8 settembre, Claretta si trasferisce sul lago di Garda in una villa vicina a quella del Duce: «Vivemmo come clandestini la nostra ultima storia, io vivevo come reclusa in una villa isolata. I nostri incontri, sempre più radi, avevano il sapore salato delle lacrime», fa dire la Paravia a Claretta. Da ultimo, la tragedia degli ultimi giorni, dopo il 25 aprile 1945, quando alla famiglia Petacci viene ordinato di mettersi in salvo, riparando in Svizzera per poter poi giungere in Spagna. Ma, se la mamma e la sorella di Claretta riescono ad arrivare in Svizzera, per lei e suo fratello Marcello le cose non vanno come previsto. E qui comincia la contro-storia fornita dalla Paravia. Una versione consentita dalle testimonianze di un prozio della scrittrice, Alfredo Galdi, militare prigioniero degli inglesi e poi in contatto con ambienti del Msi, e di Roberta Cenciarelli, moglie di un gerarca fascista che, ci dice la Paravia, «sapeva tutto sulla fine di Claretta». Ma l' autrice si è servita anche di fondi documentari presenti in archivi privati in Inghilterra, Polonia e Bulgaria, nei quali sono affiorati «i racconti degli uccisori degli uccisori degli uccisori di Benito e Clara». Sì, perché «la morte del Duce e della sua compagna scatenò una catena di omicidi, verosimilmente ordinata dal Partito Comunista, in modo che la verità su quella storia venisse per sempre insabbiata». E allora ecco il racconto di quella vicenda, nella versione della Paravia. «Claretta e il fratello viaggiano in macchina insieme alla compagna di lui, Zita Ritossa, e ai loro due figli. Non è vero che sono nella stessa colonna di mezzi, tra i quali c' è la camionetta col Duce, come è stato sempre detto. Lungo il lago di Como l' auto dei Petacci viene fermata a un posto di blocco: Marcello si presenta come un diplomatico spagnolo, ma non viene creduto. I partigiani anzi riconoscono Claretta e la scaraventano fuori dall' auto. Si compie allora il massacro: la Petacci viene malmenata, violentata e seviziata, coi carnefici che le urinano e le defecano addosso, prima di fucilarla. Intanto suo fratello Marcello si tuffa nel lago per salvarsi, ma viene crivellato di colpi, mentre la sua compagna viene a sua volta stuprata, e i due figli assistono attoniti alla violenza. Nessuno da allora, né la Ritossa né i suoi figli, uno dei quali ancora vivo, hanno mai pronunciato alcunché su quella vicenda, forse perché costretti al silenzio». E Mussolini invece? «Il Duce», continua la Paravia, «il 27 aprile viene riconosciuto a Dongo e quindi, dopo essere stato derubato di preziosi documenti e di un ricco bottino, viene portato via su un automezzo da alcuni partigiani, che si atteggiano a carcerieri "amici". Lungo la strada tuttavia un' altra brigata partigiana ferma l' automezzo, trascina fuori il Duce, lo massacra con pugni e calci e lo fucila. A esplodere il colpo mortale è il Neri, nome di battaglia di Luigi Canali». Pertanto, secondo questa ricostruzione, Claretta e Benito non si sarebbero mai più rivisti dopo essere partiti da Milano né sarebbero stati portati, per la loro ultima notte insieme, nella casa di una coppia di coniugi di Bonzenigo di Mezzegra, i De Maria, come è sempre stato raccontato. Ma sarebbero morti in due momenti e luoghi diversi: la fucilazione del 28 aprile a Giulino di Mezzegra, passata alla storia come versione ufficiale dell' esecuzione dei due, sarebbe stata, secondo la Paravia, «solo una messinscena. Mussolini e Petacci erano già cadaveri: i loro corpi sarebbero stati crivellati di proiettili uguali solo per rendere più credibile quella versione. Nei giorni seguenti gli esecutori materiali delle uccisioni, tra cui il Neri, vengono giustiziati. E uccisi saranno anche gli uccisori degli uccisori, da parte di sicari arruolati dal Pci». Finora, è da notare, nessuno ha smentito questa versione sostenuta dalla Paravia.

I Dattiloscritti. Un' altra questione riguarda i diari dattiloscritti della Petacci. «Tutti», avverte l' autrice, «ritengono autentici i diari conservati presso l' Archivio centrale dello Stato, che hanno dato lo spunto per alcuni libri, in cui emerge il profilo di una Petacci fascista totale e mente politica, capace di fare da consigliere al Duce. Questa ricostruzione è servita a screditare l' immagine della Petacci post mortem, alimentando la leggenda nera sulla sua figura. Ma è lecito supporre che quei diari siano dei falsi, creati ad arte. Io ho potuto visionare alcune pagine dei diari autografi di Claretta, mai pubblicati e conservati dallo zio dell' oncologo novarese Francesco Brustia. In essi non c' è traccia di alcun interesse politico da parte della Petacci. Lei era una donna di pura emotività, amava Mussolini in quanto uomo e non in quanto simbolo di potere». Tra le tante presunte mistificazioni, ciò che più duole, secondo la scrittrice, è l' atteggiamento delle donne verso la Petacci. «Quando era in vita, la invidiavano o la denigravano. Da morta, l' hanno dimenticata: nessuna storica si è mai occupata della sua figura, contribuendo con questo silenzio ad avallare le falsità sul suo conto. Ecco perché Claretta è la donna più offesa d' Italia. Ed ecco perché ho cercato di riscattarne l' immagine, restituendo dignità e verità alla sua vita e alla sua morte».

Jolanda Crivelli, uccisa dai partigiani e lasciata giorni appesa a un albero. Redazione giovedì 27 Aprile 2021 su Il Secolo D'Italia.

Il 25 aprile abbiamo assistito a centinaia di celebrazioni da parte delle istituzioni per la cosiddetta liberazione, celebrazioni sistematicamente riportate da tutte le tv e grandi giornali. Nemmeno una parola di ricordo o di pietà per tutti coloro che combatterono dall’altra parte, per coloro che tennero fede alla parola data, per coloro che liberamente fecero delle scelte. Scelte che poi pagheranno carissime. Addirittura abbiamo assistito a proibizioni da parte delle autorità di tenere celebrazioni in ricordo di quei caduti dalla parte sbagliata. Finché si proseguirà con l’insegnamento e la propaganda di una storia a senso unico, manichea, nella quale tutti i buoni stanno da una parte e tutti i cattivi dall’altra, l’Italia non sarà mai veramente una nazione. E dopo il 25 aprile, vogliamo ricordare il 26 aprile, a guerra finita, a Italia liberata. Ecco cosa succedeva, ecco cosa facevano certi liberatori.

Jolanda Crivelli aveva vent’anni. La storia dell’ausiliaria della Saf (Servizio ausiliario femminile della Repubblica Sociale Italiana) Jolanda Crivelli. Aveva solo 20 anni ed era la giovanissima vedova di un ufficiale del Battaglione M, ucciso a Bologna durante la guerra civile, in un agguato dei “sapisti” (costola della banda comunista dei gap). Il 26 aprile Jolanda Crivelli raggiunse Cesena, la sua città natale, per tornare dalla madre, che viveva sola. Immediatamente, come capitava in quei terribili giorni, fu riconosciuta e additata da suoi concittadini ad alcuni partigiani comunisti:”È una fascista, moglie di fascista!”. Percossa a sangue, torturata, verosimilmente violentata, denudata, fu trascinata per le strade di Cesena tra gli sputi della gente. Davanti alle carceri fu legata a un albero e fucilata. Il cadavere nudo, rimase per due giorni esposto a tutti come ammonimento per tutti i fascisti. Poi fu permesso alla madre di seppellirla. Non abbiamo altre notizie di questa sfortunata ed eroica ragazza né del suo giovane marito. Non esistono cifre certe sul numero delle ausiliarie e comunque delle donne fascista o presunte tali assassinate dai partigiani prima e dopo questo celebrato 25 aprile 1945. Alcune fonti parlano di circa mille donne uccise in quei mesi, tutte giovanissime, moltissime torturate e violentate prima di essere assassinate. La cifra si riferisce non solo alle impegnate politicamente o militarmente, ma anche figlie, mogli, madri di soldati della Repubblica Sociale, colpevoli solo di questo. E moltissime di loro sono rimaste per sempre senza nome, ingoiate dai meandri della storia.

La Crivelli fu solo una delle tante donne assassinate. Ad esempio, nell’archivio dell’obitorio di Torino il giornalista Giorgio Pisanò scrisse di aver ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del Saf. Altre cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco poi, a Milano, sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Inoltre, dicono altre fonti certe, un numero imprecisato di ausiliarie della X Mas in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidii, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate. L’elenco è interminabile quanto atroce: Annamaria Bacchi era la sorella di un ufficiale della Gnr, la Guardia nazionale repubblicana. Il suo cadavere fu ritrovato in un campo del Modenese a due anni dalla scomparsa. Rosaria Bertacchi Paltrinieri e Jolanda Pignati, entrambe fasciste, furono prelevate dalle loro case, violentate di fronte ai mariti e figli e quindi sepolte vive. Ines Gozzi, 24 anni, fidanzata di un fascista, fu violentata e finita con un colpo alla nuca. Laura Rava, 66 anni, fu seviziata ed uccisa ad Ivrea con l’accusa di essere una spia. Come anche Camilla Durando Chiappirone, di 73 anni. Maria Deffar Delfino, 55 anni, fu assassinata perché madre di un marò della X Mas. E le stragfi proseguirono anche dopo la fine della guerra: Rosa Amodio aveva 23 anni quando fu assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado. Jole Genesi e Lidia Rovilda furono torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945 perché si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante. Angela Maria Tam, terziaria francescana, fu assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale. Adele Buzzoni, Maria Buzzoni, Luigia Mutti, Dosolina Nassari, Rosetta Ottarana facevano parte di un gruppo di ausiliarie catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza e messe al muro per essere fucilate. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca, ma non ci fu nulla da fare, morirono tutte. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Allora, quando si “festeggia” il 25 aprile, la liberazione, la fine della guerra, si ricordino doverosamente anche queste vittime innocenti: non è possibile che l’Anpi per giustificare questi crimini orrendi liquidi sbrigativamente la faccenda dicendo “c’era la guerra, erano tempi brutti”. Non basta per giustificare questi eccidi. Per qualcuno, i morti non sono tutti uguali, è ora di cambiare questa prospettiva e riconoscere onestamente gli errori fatti.

·        Dopo il Fascismo.

L’incredibile storia di Amedeo Guillet, il Lawrence d’Arabia italiano. Umberto Martuscelli su La Repubblica il 29 novembre 2021. La guerriglia contro gli inglesi, la fuga rocambolesca dall’Africa, l’amicizia con l’ufficiale nemico Harari, il servizio diplomatico nel dopoguerra. La vera storia di Amedeo Guillet, premiato infine da Ciampi come un simbolo dell’Italia repubblicana. Si siede alla sua scrivania. Sul piano del tavolo è depositato un pacchetto. Lui lo apre. Dentro c’è uno zoccolo di cavallo in argento con un’iscrizione: “Sandor. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – Giugno 1942”. C’è anche una foto: si vede il bel primo piano di un cavallo grigio affacciato alla porta del suo box. E una dedica autografa a penna: “Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso cavallo che fu causa della nostra amicizia”. Ad Amedeo… ma chi è Amedeo? E chi è la persona che gli invia questo oggetto così particolare? Facciamo un salto indietro nel tempo. Adesso siamo nel 1909. È il 7 febbraio, giorno in cui a Piacenza nasce Amedeo. Amedeo Guillet. Famiglia nobile di origine sabauda. Il piccolo Amedeo cresce e diventa ragazzo dall’animo sensibile e creativo: quando è il momento di fare la prima scelta terminata l’età della spensierata adolescenza è indeciso tra la carriera musicale e quella militare. Ma la carriera militare presenta un vantaggio esclusivo, ai suoi occhi: permette di rimanere a contatto con i cavalli praticamente ventiquattr’ore al giorno. La sua passione.

I cavalli, certo: elemento fondamentale e imprescindibile dall’inizio alla fine di una vita intera. Amedeo Guillet esce dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente nel 1931. Il Monferrato e le Guide i primi due reggimenti di cavalleria in cui presta servizio, probabilmente con l’idea di dedicarsi (anche) allo sport equestre come molti suoi colleghi d’arma: non dimentichiamo che in questo momento storico, infatti, l’equitazione agonistica è quasi esclusivamente cosa di militari. Ma il destino decide diversamente: nel 1935 Amedeo Guillet viene trasferito in Africa, dove nel mese di ottobre comanda un plotone impegnato nelle prime operazioni della guerra colonialista d’Etiopia e in dicembre viene ferito gravemente a una mano. Ed è a partire da questo momento che la sua vita smette di essere simile a quella di tanti altri ufficiali dell’esercito italiano per diventare la storia di un romanzo.

Nel 1937 Amedeo Guillet è in Spagna dove comanda un reparto di carri della divisione Fiamme Nere e poi un reparto di cavalleria marocchina durante la guerra civile spagnola; successivamente ritorna in Libia, quindi nuovamente in Eritrea dove prende il comando del Gruppo Bande Amhara, un’organizzazione militare che riunisce uomini di origine etiope, eritrea e yemenita. È qui che nasce il mito: nel 1939 durante un’operazione militare il suo cavallo viene colpito e ucciso e lui, illeso, ne monta immediatamente un altro per continuare la carica, ma anche questo secondo povero cavallo cade vittima del fuoco; Amedeo Guillet imbraccia allora una mitragliatrice e continua a piedi la battaglia senza alcuna protezione fino a conquistare il sopravvento sulle formazioni nemiche. I soldati indigeni che avevano combattuto con lui, sbalorditi per la sua apparente invincibilità, lo soprannominano Comandante Diavolo, ignari di consegnare così alla leggenda un ‘titolo’ che segnerà ormai per sempre la vita di questo personaggio straordinario.

Quando gli inglesi conquistano Asmara nell’aprile del 1941, Amedeo Guillet prende una decisione folle: se anche l’Italia si fosse arresa, lui avrebbe continuato la ‘sua’ guerra. E così accade: Guillet si spoglia della divisa dell’esercito italiano, raduna una formazione di suoi fedelissimi soldati indigeni e inizia una guerriglia senza quartiere, efficace al punto che gli inglesi mettono sul suo capo una taglia enorme. Invano, però: nessuno lo tradisce in nome del denaro, a conferma di quanto questa sorta di Lawrence d’Arabia italiano fosse amato dalle popolazioni locali. Ma in ottobre dopo una continua ed estenuante serie di operazioni Guillet capisce che non avrebbe più potuto andare avanti ulteriormente: significativo il fatto che la decisione di porre termine alla guerriglia venga da lui presa dopo la cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari, l’ufficiale inglese responsabile delle attività di ricerca del temibile Comandante Diavolo.

Amedeo Guillet dunque libera i suoi soldati e si nasconde a Massaua sotto la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, cosa resa possibile anche dalla sua capacità di parlare perfettamente l’arabo. Da lì raggiunge lo Yemen, inizia a lavorare come palafreniere nelle scuderie della guardia del re, l’Imam Yahiah, il quale lo prende a benvolere fino a nominarlo precettore dei suoi figli nonché istruttore delle guardie a cavallo yemenite.

Nel giugno del 1943, dopo aver trascorso un anno intero alla corte dell’Imam Yahiah, Amedeo Guillet riesce a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa italiana per infine rientrare in Italia dopo due mesi di navigazione. Grazie alla sua grande esperienza e alla sua conoscenza delle lingue, viene assegnato al Servizio Informazioni Militare per dedicarsi a operazioni molto delicate contro gli alleati angloamericani. Quando però l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, Amedeo Guillet ripudia Mussolini, rimane fedele al re d’Italia e si trasferisce a Brindisi dove si erano installati i componenti della famiglia reale. Amedeo Guillet diventa un agente segreto formidabile ed è proprio a lui che si deve un’operazione diplomaticamente di grande significato nel processo di riappacificazione tra Italia ed Etiopia: il recupero della corona del Negus, prima confiscata dalla Repubblica di Salò e poi nelle mani dei partigiani, e quindi riconsegnata al suo legittimo proprietario.

Finisce la guerra. Dopo il referendum che trasforma l’Italia da Stato monarchico in Stato repubblicano Amedeo Guillet – coerente con il suo giuramento militare di fedeltà alla corona Savoia – rassegna le dimissioni dall’esercito e diventa un cittadino italiano al servizio della Repubblica. Inizia così la sua seconda vita. Si laurea in Scienze Politiche, vince il concorso per entrare nella carriera diplomatica, nel 1950 è segretario di legazione all’ambasciata del Cairo, nel 1954 viene trasferito in Yemen dove ritrova i figli del vecchio Imam che lo accolgono come chi ritorna a casa dopo anni di lontananza, nel 1962 viene nominato ambasciatore e destinato ad Amman dove può condividere la grande passione per i cavalli e per l’equitazione con re Hussein di Giordania (padre della principessa Haya, che sarà presidentessa della Federazione Equestre Internazionale dal 2006 al 2014), nel 1967 è ambasciatore in Marocco, nel 1971 in India, per infine raggiungere il termine della carriera diplomatica nel 1975 e quindi stabilirsi in Irlanda in mezzo ai suoi amati cavalli.

Nel 2000 insieme allo scrittore irlandese Sebastian O’Kelly (autore della biografia di Guillet uscita nel 2002 con il titolo “Amedeo”), Guillet ritorna in Eritrea: viene ricevuto dal presidente della Repubblica che lo accoglie come un suo pari. Poi arriva il 2 novembre di questo stesso anno: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferisce ad Amedeo Guillet l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, uno dei più prestigiosi riconoscimenti previsti nel nostro Paese. Infine il 16 giugno 2010 il Comandante Diavolo ci lascia per sempre.

Questa per sommi capi e in estrema sintesi la vita di Amedeo Guillet. Ma tra le tante storie dentro questa straordinaria storia, ce n’è una che non può non emozionare chi vive per i cavalli e con i cavalli. La storia di un pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Una storia che sembra una favola, invece è la realtà di due persone che prima di essere soldati - e nemici - sono stati gentiluomini nell’animo. Loro: Max Harari e Amedeo Guillet. Proprio loro: il maggiore britannico e il Comandante Diavolo, cacciatore e preda a turno l’uno per l’altro sulla scena dell’Africa Orientale. Ebbene: negli anni Cinquanta, grazie anche all’attività diplomatica di Guillet, i due ‘vecchi’ nemici si incontrano, e tra loro nasce un’amicizia forte come solo l’aver condiviso quel pezzo di storia tremendo avrebbe potuto rendere possibile, seppure da acerrimi rivali. Un’amicizia vissuta nel nome di un cavallo: Sandor. Sì: perché è ovviamente Max Harari il mittente del pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Sulla scrivania del Comandante Diavolo.

Un errore rimuovere il fascismo dalla storia. Andrea Cangini il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. "Il fascismo non è stato un semplice incidente della storia, un regime autoritario che governava contro il popolo. Il fascismo ha goduto di un ampio, diffuso, radicato consenso nel Paese". «Il fascismo non è stato un semplice incidente della storia, un regime autoritario che governava contro il popolo. Il fascismo ha goduto di un ampio, diffuso, radicato consenso nel Paese. Rimuoverlo e cancellare l'analisi veritiera e onesta della sua natura ha reso fragili le basi della nostra democrazia». Uno storico revisionista? Un politico postfascista? No, a mettere nero su bianco questo giudizio è stato un uomo politico notoriamente di sinistra ed inequivocabilmente antifascista: Walter Veltroni. Analisi corretta, il resto ne consegue.

Aver rimosso dalla storia nazionale il ventennio fascista e aver impiegato quasi mezzo secolo per riconoscere, con lo storico Claudio Pavone, che tra il 43 e il 45 l'Italia fu dilaniata da una vera e propria «guerra civile» ha impedito allo spirito della Nazione di metabolizzare il trauma subìto e al corpo di cicatrizzarne le ferite. Non c'è, dunque, da stupirsi se nel pieno della peggior crisi sanitaria, economica e geopolitica del dopoguerra il dibattito pubblico italiano si sia incagliato sulle parole di un viceministro accusato di mussolinismo, sul giudizio di uno storico dell'arte riguardo le foibe, sulla carnevalata di un dirigente politico in divisa del Terzo Reich. È quel che accade quando non si fanno i conti con la Storia. Con la propria storia nazionale e con la dimensione tragica della Storia universale. Il primo è un problema tipicamente italiano, il secondo riguarda un po' tutte le democrazie occidentali. Anche e soprattutto gli Stati Uniti, patria non a caso della «cancel culture», da Obama in poi emblematicamente impegnati a ritirarsi dal mondo (e perciò dalla Storia). Il motivo è chiaro. È chiaro sin dai tempi del precipitoso disimpegno dalla Somalia che la principale potenza globale non ha più la forza morale e la tenuta sociale per sopportare la morte di propri soldati in guerra. Come se la guerra per uno Stato e la morte in guerra per un militare non fossero più eventualità possibili. Ne consegue che, come ha ricordato con amara rassegnazione Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di sabato, gli americani hanno appaltato a società private di contractor attività belliche da sempre in capo agli eserciti nazionali. E persino peggio ha fatto l'Italia ribattezzando «pace» la guerra. Ipocrisie che rendono insostenibile, perché ufficialmente privo di senso, qualsiasi sacrificio collettivo. Rimuovere i traumi nazionali, tacere la dimensione tragica della Storia, sostituire le «analisi veritiere» con rappresentazioni di comodo: sono questi i tre errori capitali che impediscono alla società Italiana di maturare e ad un Occidente tornato bambino di arrestare la propria, innegabile, decadenza. Andrea Cangini 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 agosto 2021. Grazie alle indagini sui social media di sua figlia, un veterano della seconda guerra mondiale di 97 anni si è riunito con i tre bambini che ha trovato nascosti in un cesto in un villaggio italiano mentre i nazisti si ritiravano nel 1944. Per più di sette decenni, Martin Adler ha custodito una foto in bianco e nero di se stesso che lo ritrae soldato ventenne insieme a tre bambini italiani vestiti in modo impeccabile. Lunedì, il 97enne ha incontrato di persona i tre fratelli, ora ottantenni, per la prima volta dalla guerra. Adler ha teso la mano per stringere quelle di Bruno, Mafalda e Giuliana Naldi per il gioioso ritrovamento all'aeroporto di Bologna dopo 20 ore di viaggio dalla sua casa di Boca Raton, in Florida. Poi, proprio come faceva da soldato ventenne nel loro villaggio di Monterenzio, a circa 19 miglia a sud di Bologna, ha distribuito tavolette di cioccolato americano. «Guarda il mio sorriso», ha detto Adler della tanto attesa riunione di persona, resa possibile dalla portata dei social media. È stato un lieto fine per una storia che avrebbe potuto facilmente essere una tragedia. La prima volta che il soldato e i bambini si videro, nel 1944, i tre volti fecero capolino da un enorme cesto di vimini dove la madre li aveva nascosti mentre i soldati si avvicinavano.  Adler pensava che la casa fosse vuota, così ha puntato la sua mitragliatrice sul cestino quando ha sentito un rumore, pensando che dentro si nascondesse un soldato tedesco. «La madre, la mamma, è uscita e si è messa proprio davanti alla mia pistola per impedirmi di sparare», ha ricordato Adler.  «Ha messo il suo stomaco proprio contro la mia pistola, urlando: "Bambinis! Bambinis! Bambinis!" battendomi il petto», ricorda Adler. «Quella era una vera eroina, la madre, non io. La madre era una vera eroina. Riesci a immaginarti davanti a una pistola e urlare: "Bambini! No!"» ha detto. Adler trema ancora quando ricorda di essere stato a pochi secondi dall'aprire il fuoco sul canestro. E dopo tutti questi decenni, soffre ancora gli incubi della guerra, ha detto sua figlia, Rachelle Donley. I bambini, dai 3 ai 6 anni quando si sono conosciuti, erano un ricordo felice. La sua compagnia rimase nel villaggio per un po' e lui passava e giocava con loro. Nell'aprile 1945, il leader fascista italiano Benito Mussolini fu catturato dalla resistenza italiana e giustiziato. Le forze tedesche in Italia si arresero finalmente il 2 maggio 1945, due giorni dopo il crollo di Berlino, secondo History Channel. Giuliana Naldi, la più giovane, è l'unica dei tre che ricorda Adler e il canestro. Ricorda di essere uscita e di aver visto Adler e un altro soldato americano, che da allora è morto. «Stavano ridendo», ricorda Naldi, che ora ha 80 anni. «Erano felici di non aver sparato». Lei, d'altra parte, non ha capito bene cosa succedeva. «Non abbiamo avuto paura di niente», ha detto. Ricorda anche il cioccolato del soldato, che arrivava in un involucro blu e bianco. «Abbiamo mangiato così tanta di quella cioccolata», ha riso. Donley, la figlia di Adler, ha deciso durante il blocco COVID-19 di utilizzare i social media per cercare di rintracciare i bambini nella vecchia foto in bianco e nero, a partire dai gruppi di veterani in Nord America. Alla fine la foto è stata notata da un giornalista italiano che aveva scritto un libro sulla seconda guerra mondiale. È stato in grado di rintracciare il reggimento di Adler - il 339° Fanteria, secondo il New York Times – e, grazie a un piccolo dettaglio della fotografia, anche dove era stato posizionato.  La foto è stata poi pubblicata su un quotidiano locale, portando alla scoperta delle identità dei tre bambini, ormai nonni a loro volta. A dicembre i tre hanno condiviso una riunione video e hanno aspettato che l'allentamento delle regole di viaggio della pandemia rendesse possibile il viaggio transatlantico. «Sono così felice e così orgoglioso di lui. Perché le cose avrebbero potuto essere così diverse in un secondo. La sua esitazione ha prodotto generazioni di persone», ha detto Donley. «Sapere che Martin avrebbe potuto sparare e che nessuno della mia famiglia sarebbe esistito è qualcosa di molto grande», ha detto Roberta Fontana, una dei sei figli, otto nipoti e due pronipoti che discendono dai tre figli nascosti nel cesto di vimini. «È molto emozionante». Durante il suo soggiorno in Italia, Adler trascorrerà del tempo nel villaggio in cui era di stanza, prima di recarsi a Firenze, Napoli e Roma, dove spera di incontrare Papa Francesco. «Mio padre vuole davvero incontrare il papa», ha detto Donley. «Vuole condividere il suo messaggio di pace e amore. Mio padre è tutto incentrato sulla pace».

Il caso: Mussolini è ancora cittadino onorario di Bologna. Marcello Radighieri su La Repubblica il 19 giugno 2021. Sette anni fa Repubblica raccontò che il Duce era rimasto nell’albo dal 1923. Fu annunciato che sarebbe stato cancellato, ma non è mai stato avviato l’iter. A sette anni di distanza dall'ultima polemica, Benito Mussolini è sempre lì. Il nome del Duce compare infatti da quasi un secolo nel lungo elenco di cittadini onorari di Bologna: subito dopo quelli di Giosuè Carducci, appena prima del gerarca fascista Leandro Arpinati (poi divenuto podestà e sottosegretario degli Interni) e a breve distanza dalla lunga sfilza di generali, colonnelli e maggiori dell'esercito Alleato divenuti "bolognesi" subito dopo la Liberazione.

Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” il 20 maggio 2021. Molti Comuni, in questi ultimi mesi, si sono accorti all' improvviso di avere concesso la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, quasi sempre più di novant' anni fa, e adesso se ne pentono. La prima domanda che viene in mente è: perché non ci hanno pensato nel 1945 quando tutta l'Italia, specialmente al nord, festeggiava la fine della guerra e la Liberazione dal fascismo? Novanta anni - novantasette nel caso del Comune di Asti, che ne ha discusso in questi giorni - sono tanti per avere un simile ripensamento. Possiamo supporre che nel 1945 si vergognassero, di avere concesso quel privilegio, oppure semplicemente che se ne fossero dimenticati, nell' euforia della libertà e dei festeggiamenti. Sì, ma dopo? Avrebbero potuto ripensarci durante il passaggio libertario postsessantottino, o a metà degli anni Settanta, quando Renzo De Felice ricordò e dimostrò agli italiani che eravamo stati quasi tutti entusiasticamente fascisti. Oppure negli anni di piombo, quando c' era da combattere il terrorismo rosso e quello nero, sarebbe stato un bel memento. Infine, perché non prendere una simile decisione in tempi più recenti, quando con i primi governi di Berlusconi in tanti avanzavano timori di una svolta fascista che non c' è stata? No, tutte quelle occasioni sono passate invano, e ci si sveglia soltanto adesso non per la risoluzione del Parlamento europeo che nel 2019 si espresse - pure lui in enorme ritardo - contro i regimi totalitari del presente e del passato. Ci si sveglia soltanto adesso perché si sta imponendo l' incultura della «cancel culture», che sarebbe meglio chiamare «cancellacultura», così apparirebbe meglio l' orrore del suo significato. Comunque la si chiami, la cancellacultura è figlia sciagurata di quella sciagura che è il «politicamente corretto», un tentativo di abolire il pensiero prima ancora che nasca. Certo, è brutto chiamare le persone con appellativi sgradevoli - nano, negro - come è brutto sentir dire da un bambino merda e cazzo (se vi appaiono asterischi al posto di lettere, non li ho messi io). I bambini devono imparare che le parolacce non si dicono, e quando le dicono li si corregge. Ma un adulto deve poter scegliere di prendersi la responsabilità delle parole che usa, e come e quando, senza essere bollato a priori di infamia. La cancellacultura, peggio ancora, è bollare di infamia a posteriori passaggi e fenomeni della storia, sparando a caso sulla vittima di turno, in genere la più debole. Cristoforo Colombo praticava lo schiavismo? Allora si abbattano le sue statue, senza tenere conto che all' epoca lo schiavismo era normale e accettato, che lui viaggiava per conto di una cristianissima regina schiavista e portava nelle nuove terre una croce a nome di un cristianissimo Papa schiavista. Che si abbattano dunque anche le statue e le grandi opere fatte realizzare da quei Papi, e si abbatta pure il Colosseo, dove avvenivano cose politicamente scorrettissime. Il fatto è che la storia non può essere cancellata, per il semplice motivo che è immutabile, quale che sia il nostro giudizio di oggi. E giudicare la storia con i nostri parametri attuali significa perdere a priori la possibilità di capirla, quindi di non ripeterne gli errori. Un autogol. Ritirare la cittadinanza a Mussolini non offende lui, offende i nonni dei cittadini di Asti che quella cittadinanza gli assegnarono, fieri di averlo come concittadino, almeno sulla carta. Sarebbe tanto più semplice e sensato che i consigli comunali si radunassero e deliberassero a maggioranza di non essere d' accordo con i loro avi. Ci si renda conto, soprattutto, che alla cancellacultura non c' è limite, se non quelli dell' ignoranza e della dimenticanza: cosa ci fa, se no, quella via dedicata al generale Bava Beccaris vicino a piazza del Duomo, a Milano? Fu lui, a fine Ottocento, a ordinare di sparare con i cannoni contro il popolo che protestava per l' aumento del prezzo del pane: 400 morti, pare, la cifra vera venne tenuta nascosta. Nascono anche, frutto della cancellacultura, le comiche alla Peppone e don Camillo: se tu cancelli quello, io cancello quell' altro, via le strade dedicate a Stalin e già che ci siamo anche quelle dedicate a Togliatti. Così, il consiglio comunale di Asti forse non revocherà la cittadinanza a Mussolini, perché il Pd locale non ha voluto che la mozione condannasse tutte «le persone organiche ai regimi dittatoriali» dal fascismo al comunismo. Hanno finito per dare la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto, figura retorica nobile ma - appunto - retorica. Oggi tutti sono d' accordo, ma quando un giorno si arriverà davvero alla conclusione che le guerre sono un orrore del passato da non ripetere mai, qualcuno proporrà di revocare la cittadinanza anche a Milite Ignoto, nel consiglio comunale di Asti del maggio 4838.

Afroamerica. Il libro di Giacomo Pacini. “La spia intoccabile”, come l’Ovra non morì con il fascismo. Salvatore Sechi su Il Riformista il 20 Maggio 2021. I libri di storia sul nostro passato, quando sono di buon livello, parlano al presente. Lo spiegano, in parte o in tutto. Di qui scaturisce l’argomento per cui il fluire della storia sarebbe un processo, e che a dominare sia la continuità invece della rottura. Questa biografia (appena pubblicata nella Collana storica diretta da Andrea Bosco) del prefetto Federico U. D’Amato, alla testa per molti cruciali decenni dopo la guerra di liberazione di un potentissimo organo del Ministero dell’Interno (Giacomo Pacini, La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati, Torino, Einaudi) è in controluce la storia di uno, ancora oggi, dei maggiori problemi dell’Italia repubblicana: il modo con cui, al di là degli esiti elettorali, è avvenuto l’isolamento del Pci. Alla base ci fu, immediatamente dopo la guerra di liberazione, un’intesa strettissima tra il capo dei servizi segreti Usa in Italia James Christ Angleton e il suo collaboratore D’Amato. A loro avviso il fascismo era stato una sorta di male minore e occorreva concentrare ogni sforzo nella lotta al comunismo. Il Pci era la principale forza politica e sociale dell’anti-fascismo, la meglio organizzata, con legami (compresi i finanziamenti regolarmente ricevuti) con l’Urss, una potenza straniera ostile alla Nato e all’alleanza atlantica. Per poterla arginare i governi, attraverso l’U.A.R. di D’Amato, hanno fatto ricorso sia agli Stati Uniti sia all’uso dei neofascisti. Il Msi e il Pci sono ormai fuori dai radar della politica, sostituiti da sovranisti e Lega. Ma per fare scemare, se non debellare, poteri e influenza dell’estrema destra e della sinistra comunista fino al 1974 ci sono voluti una quarantina di anni dopo la guerra civile del 1943-1945. In tale arco di tempo molte centinaia di migliaia di persone sono state assoggettate a controlli, schedature, intercettazioni ossessive. Non solo della loro vita privata, ma più a fondo, perfino dei costumi sessuali. È uno degli aspetti al limite della stessa costituzione assunto in Italia dall’anti-comunismo. A darne una vivida e inquietante testimonianza fu il rinvenimento in Via Appia Antica, in un deposito di materiale di servizio del Ministero dell’Interno, di registri di fonti e di molte copie delle schede personali redatte personalmente dal questore Silvano Russomando, stretto collaboratore di D’Amato. Si ebbe così la conferma di quanto da molto tempo si sospettava, cioè che l’attenzione dei nostri apparati di sicurezza era stata rivolta prevalente mente verso cittadini con un orientamento politico di sinistra. E che nei confronti dei neo-fascisti ci fossero stati controlli di minore intensità (salvo azioni plateali come la messa in salvo di Junio Valerio Borghese e in particolare lo scioglimento di due associazioni estremistiche come Avanguardia nazionale e Ordine nuovo ad opera del ministro P.E. Taviani nel 1973). Non escluse forme di collaborazione, se non di vera e propria complicità. Di queste ultime Pacini sembra volersi occupare in prevalenza nei capitoli che dedica accuratamente alle stragi di Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, alla strategia della tensione fino all’ecatombe-ancora sub judice-presso la stazione centrale di Bologna. In realtà, se si legge il suo prezioso lavoro tenendo conto della sessantina di fittissime pagine di note bibliografiche, la musica cambia solfeggio. Ciò che ne emerge è molto di più di quanto lo sguardo dello storico grossetano, pur muovendosi tra bolgie infernali ancora ribollenti di accuse e rancori, dà l’impressione (infondata) di voler circoscrivere ad alcuni episodi pur salienti. Lo fa con una scrittura e una metodologia sempre misurata, ma pervasiva, che si distende sull’intero scenario della vita repubblicana. L’U.A.R. e D’Amato sono lo spicchio di un’arancia più grande. I governi antifascisti (penso ai ministri Giuseppe Romita, socialista e soprattutto Mario Scelba, democristiano) si limitarono puramente e semplicemente a consegnare ai maggiori dirigenti degli apparati informativi, di prevenzione e repressione, del ventennio mussoliniano e della Repubblica di Salò la difesa dell’ordine pubblico e la cura della sicurezza (interna e internazionale) del regime repubblicano. Compiti e personale della disciolta PolPol (cioè della fascistissima Divisione della polizia politica, che svolgeva funzioni in gran parte confidenziali e impiegava informatori e amministrava fondi segreti) erano passati sotto il loro controllo. Nelle 12 cd Zone (e sottozone) Ovra fu assoldata una grande massa di confidenti, infiltrati, provocatori infilati nel cuore delle organizzazioni clandestine anti-fasciste. Grazie a Romita e a Scelba, funzioni, metodi e tecniche adottate da Bocchini, Senise e Leto furono trasferiti all’U.A.R. nel secondo dopoguerra. Il personale dell’Ovra, dopo essersi schierato non col governo Badoglio, ma con la Repubblica sociale, sarà anch’esso, in gran parte, reclutato dall’U.A.R. sancendo il principio della continuità istituzionale anche negli apparati di polizia. Resterà, questa, una ferita aperta nella storia appena cominciata della Repubblica. Si è, alla fine, rischiato di vedere l’ufficio di capo della polizia addirittura intestato allo stesso uomo forte dell’Ovra e dell’anticomunismo, cioè Guido Leto. Salvatore Sechi

Da Scelba a Mancino fino alla legge Zan. Quell’attrazione irresistibile per il reato “ideologico”. David Romoli su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Stando alle premesse e alle promesse di questo primo ventennio, il XXI secolo sembra essere, per la giustizia italiana, quello delle “aggravanti”, della casistica minuziosa che calibra le pene non sul reato ma sulla maggiore o minore censurabilità delle sue motivazioni, distingue le vittime tarando la pena sulla loro vulnerabilità e sull’allarme sociale che di volta in volta le circonda, si concentra sull’istigazione a delinquere allargando l’area a dismisura, sino a confinare e spesso sconfinare con la lesione delle libertà di pensiero e di espressione. I rami sono fioriti come in una foresta tropicale in questo secolo, ma l’albero era stato piantato alla fine di quello precedente, con la legge Mancino del 1993 che prende il nome dall’allora ministro democristiano degli Interni, poi presidente del Senato. In realtà Nicola Mancino si limitò a proporre una legge, il cui contenuto fu invece messo nero su bianco soprattutto dall’allora deputato del Pri Enrico Modigliani, nipote del premio Nobel per l’Economia, Franco Modigliani. Il clima di allarme sul quale la legge interveniva era dovuto all’intensificazione in quei mesi di manifestazioni neofasciste, soprattutto a opera di un gruppo che esisteva già da una decina d’anni ma che, nel tracollo della prima Repubblica, aveva conquistato maggior visibilità e assunto caratteri più minacciosi, il Movimento Politico Occidentale guidato da Maurizio Boccacci, che infatti fu sciolto subito dopo il varo della legge. La legge si ricollegava alla famosa legge Scelba del 1952 sul divieto di ricostituzione del Partito fascista, molto citata e lodata anch’essa negli ultimi anni dimenticando che Scelba abbaiava contro l’estrema destra solo per mordere la sinistra, contro la quale le sue forze dell’ordine usavano abitualmente non le leggi ma le armi da fuoco. Le novità della Mancino erano essenzialmente nell’articolo 1, che fissava una pena fino all’anno e mezzo di carcere per chiunque propagandasse idee di superiorità razziale o etnica e dai 6 mesi ai 4 anni per chi incitasse a commettere atti di violenza o di “provocazione alla violenza” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La legge Mancino, a tutt’oggi considerata ed elogiata come “il principale strumento contro i reati d’odio, fu una vera rivoluzione nella concezione del diritto. A essere sanzionati non erano i crimini e neppure l’istigazione a delinquere ma l’espressione di idee che avrebbero potuto portare a quell’istigazione e poi a violenze effettive. Per la prima volta, inoltre, la gravità del reato era misurata non sull’identità dei colpevoli, come nei casi del terrorismo o della criminalità organizzata, ma su quella delle vittime. Il rischio di degenerazione nella criminalizzazione non degli atti ma delle opinioni, la cui libera espressione sarebbe garantita, per quanto esecrabili, dall’art.21 della Costituzione, era evidente e fu segnalato sin dal primo momento. La legge del 2006 sui reati d’opinione intervenne infatti su quel testo modificandone in modo significativo i termini. La “diffusione” di idee razziste penalizzata dalla legge del 1993 fu sostituita con la “propaganda” delle stesse. A costituire fattispecie di reato non fu più l’ “incitazione” ma l’ “istigazione”. La legge Mancino restò più o meno lettera morta fino a che, nel nuovo secolo, le campagne contro i “discorsi d’odio” partite negli Usa, la diffusione dei social e il dilagare di umori ostili all’immigrazione a volte apertamente segnati e sempre venati dal razzismo, resero quella legge già vecchia lo strumento per intervenire su fenomeni nuovi. Nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Mastella propose una legge che punisse il negazionismo, cioè qualsiasi posizione negasse la realtà storica della Shoah. All’epoca ci fu una vera e propria insurrezione degli storici che in massa bocciarono la proposta, impugnando non solo la difesa della libertà d’espressione e di ricerca ma anche l’inopportunità di offrire ai negazionisti l’occasione per “ergersi a paladini” della stessa. Mastella ingranò la retromarcia, ripose nel cassetto la proposta. La riprese nel 2012 il Pd, senza riuscire a convertirla in legge per lo scioglimento delle Camere l’anno successivo e stavolta le critiche degli storici e anche di alcuni esponenti di rilievo della Comunità ebraica furono molto più fievoli della levata di scudi di 5 anni prima e comunque rimasero inascoltate. Riproposta nel 2013, la legge contro il negazionismo è stata approvata nel giugno del 2016. È una “estensione” della Mancino che punisce con la reclusione dai 2 ai 6 anni chiunque neghi “in tutto o in parte” la Shoah e i crimini contro l’umanità e di genocidio. Qui il confine tra sanzione contro il reato commesso o l’istigazione a commetterlo e il divieto di espressione letteralmente scompare. Ma in generale gli anni a ridosso della pandemia sono quelli della grande fioritura delle leggi eccezionali miranti a colpire le parole più che gli atti, le espressioni, per quanto aberranti, più che non le azioni criminali. Nel 2017 l’allora presidente della Camera Laura Boldrini invocò a voce altissima una legge severa contro gli hate speech, i “discorsi d’odio”, in rete. Chiese punizioni severe e per dare l’esempio spedì la polizia a casa di un ragazzo colpevole di aver diffuso in rete fotomontaggi da lei ritenuti offensivi. La richiesta, avanzata più volte e sostenuta da numerosi opinionisti e politici, non è mai diventata effettiva proposta di legge ma si tratta solo di una sospensione dovuta alla pandemia. La prospettiva resta ed è recentissima la rinnovata richiesta di una legge contro i discorsi d’odio in rete avanzata da un gruppo di senatori di LeU e del gruppo Misto dopo le minacce in rete contro il ministro della Salute Speranza. Era invece arrivata all’approvazione della Camera la legge contro l’apologia di fascismo proposta nel 2017 dal deputato del Pd Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz. Contava un solo articolo e penalizzava qualsiasi richiamo al fascismo, dall’oggettistica al saluto con il braccio destro teso. Bloccata prima dell’approvazione finale a palazzo Madama dalla fine della legislatura la legge, a differenza di quella sugli hate speech, potrebbe non risorgere, neppure in presenza di una maggioranza parlamentare disposta a votarla. Al momento l’ondata di panico da fascismo alle porte che per qualche anno ha percorso l’intera Europa, con qualche fondamento e molta esagerazione, sembra alle spalle. Certo bisognerà vedere quale sarà il quadro dopo la pandemia. Anche la legge approvata alla Camera e ferma al Senato per l’ostruzionismo in commissione Giustizia della Lega, quella Zan contro la transfobia, ha una lunga gestazione. Riassume infatti diversi ddl, a partire da quello presentato dalla Pd Paola Concia nel 2012. Anche in questo caso si tratta di una estensione della legge Mancino, che sfiora pericolosamente e forse oltrepassa i confini della libertà d’espressione costituzionalmente sancita in due punti chiave. Nel 2018 i contenuti della legge Mancino sono stati assunti dal Codice penale, in due articoli tra cui il 604-bis che penalizza la “propaganda di idee e istigazione a delinquere”. La legge sopprime la seconda parte della formula lasciando solo la propaganda di idee. Il testo assicura poi la piena libertà di esprimere opinioni “purché non idonee” a determinare il pericolo di conseguenti atti violenti. Formula, difficile negarlo, a maglie tanto larghe da rendere arduo determinare una casistica tanto precisa da escludere il reato d’opinione. Del resto la ratio delle leggi moltiplicatesi nell’ultimo decennio è proprio quella di “rieducare” a colpi di divieti e sanzioni, di intervenire sulle mentalità prima e più che non sugli atti. Con una missione non confessata ma neppure troppo nascosta simile: tracciare un confine preciso che metta al riparo dal reato d’opinione è semplicemente impossibile.

Ora accusano di fascismo pure i "maiali". La celebrazione dell'impresa di Alessandria scatena i perbenisti: "Combattevano per il fascismo". Ma una impresa militare resta un'impresa militare. Giuseppe De Lorenzo - Ven, 02/04/2021 - su Il Giornale. Ieri mi sono imbattuto in un pezzo su Domani. Non è un gioco di parole, solo che il quotidiano diretto da Stefano Feltri si intitola proprio così. Su Domani, dicevo, è apparso un articolo che ripercorre una polemica assurda scoppiata in questi giorni. La riassumo: la Marina Militare da qualche tempo sta pubblicando sul suo sito il racconto di alcune imprese militari (non tante) e avvenimenti importati che riguardano il corpo nel recente passato. A titolo di esempio possiamo citare l'elogio dei fanti di Marina che difesero la città di Venezia durante la prima Guerra Mondiale, oppure l'attacco alla Baia di Suda nel '41, la battaglia di Capo Matapan, l'evento "memorabile" della Beffa di Buccari e - ovviamente - l'impresa di Alessandria. Bene. Proprio il racconto entusiasta di questa azione militare ha fatto storcere il naso ai soliti perbenisti, scandalizzati dalla celebrazione delle "azioni militari della dittatura fascista". Per chi non lo sapesse, la notte tra il 18 e il 19 dicembre del 1941 sei incursori italiani riuscirono a colpire parte della flotta britannica nel Mediterraneo (qui tutti i dettagli). La storia è di quelle che mio babbo mi raccontava prima di andare a scuola, e in effetti è un po' strano, ma si tratta davvero uno degli eventi più leggendari delle forze armate nostrane. L'operazione fu condotta in parte sul sommergibile Scirè, comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese, in parte invece si compì a cavallo dei Siluri a Lenta Corsa, più noti come "Maiali". I sei incursori, a coppie, navigarono sotto il pelo dell'acqua (al netto di uno, che ebbe un malfunzionamento) e piazzarono ordigni sotto le navi avversarie riuscendo ad affondarne due e danneggiarne altrettante. Tutti catturati, i sei marinai ricevettero non solo il plauso di molti (Churchill: "Sei italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'Asse"), ma tra anni dopo ottennero pure la medaglia d'oro. Insomma: roba militare, da annali e libri di storia. Tuttavia, forse per colpa dell coinvolgimento di Borghese (famoso pure per il tentato golpe che porta il suo nome), forse per il fatto che l'impresa di Alessandria avvenne durante il Ventennio, fatto sta che sulla Marina sono piovute numerose critiche. La colpa sarebbe quella di aver ricordato l'azione militare senza contestualizzarla, cioè senza sottolineare che quei sei soldati combattevano sotto i vessilli dell'Italia fascista "al fianco del regime nazista". Deliri progressisti di cui ha già parlato qui ottimamente Lorenzo Vita. Mi premeva solo aggiungere una cosa, dedicata ai radical chic perbenisti che si stracciano le vesti. La storia è storia. Punto. Non si cambia, non si riscrive, la si studia. I sei incursori erano in guerra durante il Fascismo? Questo non toglie che l'impresa fu ammirevole, tecnicamente complicata, sicuramente pericolosa. Parliamo di uomini e delle loro storie, non di ideologie. Quella di Alessandria fu un'azione militare, e niente più, ricordata "per il sacrificio dei loro protagonisti, uomini in divisa, esempio di coraggio, capacità e tecnica, al servizio delle Istituzioni". È strumentale, come dice la Marina, "correlare il loro operato alla forma di governo allora vigente". Punto. Se invece l'antifona è questa, almeno applicate lo stesso metro in ogni occasione, e smettetela col moralismo a targhe alterne. L'Italia è il Paese dove ci sono strade dedicate a Stalin, Lenin e al Maresciallo Tito. Siamo il Paese dove è stata data protezione culturale ad assassini, terroristi e gambizzatori. Elogiamo appena possibile Palmiro Togliatti, uno che - scrive la Treccani - rimase "sempre profondamente legato all'Unione Sovietica", non proprio la patria della democrazia. Anzi: i Gulag, le purghe, le foibe. Il comunismo, è il caso di ricordarlo, in giro per il mondo ha sterminato milioni di persone. Morti che la sinistra ancora oggi in sostanza finge di non vedere. Quindi invece di continuare a "cancellare" a vostro piacere la storia, e a prendervela con sei eroici marinai, imparate a studiarla. O almeno a mostrare un po' di coerenza.

Gli altarini per Priebke e i riti pagani nazisti nella sede di CasaPound. Paolo Berizzi su La Repubblica il 27 febbraio 2021. Omaggi anche a Himmler in una palazzina posta sotto sequestro a Maccarese, a due passi da Roma.  Era occupata da un gruppo che ospitava i Fascisti del terzo millennio. Più che tartarughe, lupi. Uomini lupo, in tedesco werwolf. E chissà magari i fascisti del terzo millennio, quando alla fine delle riunioni veneravano i loro "santi" - dei criminali nazisti - , si sentivano come una specie di Werewolf: il reparto delle SS nato nel 1944 (su iniziativa di Hans-Adolf Prutzmann) alle dipendenze di Heinrich Himmler. I nomi del numero due della Germania nazista e di Eric Priebke, il boia delle Fosse ardeatine, erano scritti lì, nell'altarino accanto a pane, vino, ceri, incensi e materiale di propaganda fascista e nazista. L'ultimo velo su CasaPound cade a Maccarese, quattromila anime sul litorale laziale. Quando l'altro giorno i poliziotti sono entrati nella sede dell'associazione Fons Perennis - collegata a CasaPound e, di fatto, la base del movimento in zona - la scena ha lasciato spazio a pochi dubbi: accanto a un busto di Benito Mussolini e a stampa neonazista inneggiante agli squadroni della morte di Hitler, c'era un tabernacolo, utilizzato - ritengono gli investigatori - per delle messe in omaggio ai criminali di guerra nazisti. Quel Priebke morto ("mai pentito") l'11 ottobre 2013 all'età di cento anni a Roma e sepolto in gran segreto dallo Stato nel cimitero all'interno di un carcere. E Heinrich Himmler, il vice del Führer, nonché organizzatore della Soluzione finale all'origine dell'Olocausto. Al momento del blitz degli agenti nello stabile di Maccarese, di proprietà dell'Asl e sgomberato sulla base di un decreto di sequestro del gip di Civitavecchia, c'era solo il guardiano: ma è il materiale rinvenuto dagli agenti che interessa. Scopre, fuor di metafora, gli altarini di CasaPound. La sede di Fons Perennis - stando a quanto riportato dalla polizia - veniva utilizzata per incontri dai "leader nazionali" dell'ex partito (oggi di nuovo movimento). Ai vertici di CasaPound Italia ci sono il fondatore e presidente Gianluca Iannone, i due vice Andrea Antonini e Marco Clemente e il portavoce ed ex segretario politico Simone Di Stefano (Iannone e Di Stefano sono pregiudicati). A processo a Bari per tentata ricostituzione del partito fascista e violenze, le tartarughe frecciate dal 2003 occupano abusivamente a Roma la loro sede principale, in via Napoleone III, quartiere Esquilino, centro storico. Un edificio pubblico di 60 vani, composto da almeno una ventina di appartamenti. Una costante, quella delle occupazioni abitative. E occupata era anche la sede di Fons Perennis a Maccarese. Chi sono, quelli di Fons Perennis? Il simbolo è formato da due rune incrociate. "Lo scopo dell'associazione è promuovere la ricerca culturale tradizionale e l'incontro tra le persone al fine della crescita degli individui", si legge sul sito dove compaiono immagini di bandiere e di iniziative di CasaPound. "In una società come quella contemporanea, proponiamo un approfondimento al fine della conoscenza di noi stessi". Insomma, "un percorso di conoscenza" interiore. Che passava anche dall'ammirazione e dalla devozione per i boia nazisti. L'attività di Fons Perennis ruota intorno alla runologia esoterica e alla mistica del culto solare (un tempo rappresentata dalla svastica, simbolo della salvezza dalle tenebre portate dal male), e dunque gli immancabili solstizi d'inverno e d'estate, i campi invernali. Un programma che prevede anche alcuni rituali buddhisti. Il calendario 2015 di Fons Perennis? Una grafica con le due rune e la bandiera della tartaruga di CasaPound. Da parte dei vertici del movimento, per ora, non è arrivato nessun commento alla vicenda. La sensazione è che questa storia di pane, vino e nazismo rappresenti l'ennesima tegola sui "fascisti del terzo millennio" ("sì, siamo gli eredi del fascismo", disse Di Stefano). Dopo i flop elettorali, a giugno del 2019 i capi di Cpi hanno dichiarato conclusa l'esperienza politica come partito: le tartarughe nere sono tornate ad essere un movimento. Sempre più lontani dalla Lega di Matteo Salvini (con la quale dal 2014 al 2016 strinsero un'alleanza sovranista) e sempre più vicini a FdI. Che sosterranno alle prossime elezioni amministrative a Roma con la lista "Volontà romana". Ma la parabola di CasaPound dipenderà molto dall'esito del processo a Bari: un'eventuale sentenza che dovesse accertare la tentata ricostituzione del partito fascista potrebbe decretarne il definitivo tramonto. Forse le messe dedicate ai miti nazisti servivano a propiziare buona sorte.

La donna che sparò al Duce in odor di santità. Nel 1926 Violet Gibson, una donna di origine irlandese vittima di un esaurimento nervoso, attentò alla vita di Mussolini credendo di essere guidata dal signore. Ora a Dublino sono pronti a dedicarle una targa commemorativa per l'assassinio mancato. Davide Bartoccini - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. È sempre un terreno minato quello che vede notizie riguardanti Benito Mussolini e relativi pensieri o commenti; ma se il marito dell'autrice del documentario del 2014, The Woman who shot Mussolini (La donna che sparò a Mussolini, ndr) può abbandonarsi ad affermare: "Finalmente, la donna che sparò a Mussolini avrà il riconoscimento che merita. Un uomo, al suo posto, avrebbe da tempo una statua in suo onore"; è lecito rispondere che non ci risulta che il tentato assassinio - seppure di un dittatore - sia gesto tanto nobile da meritare una targa, o addirittura una statua. E per tale conclusione basta risalire al fatti storico non particolarmente noto alle cronache. Dublino, 1922. Mentre nel Regno d'Italia l'ex agitatore, giornalista e fervente socialista, Benito Amilcare Mussolini si prepara a marciare su Roma insieme ai quadrumviri e alle camicie nere per diventare il futuro Duce del Fascismo; una donna irlandese, Violet Gibson, è vittima di un grave esaurimento nervoso che si manifesta attraverso evidenti disturbi mentali in via di peggioramento. La Gibson, che all'epoca ha già quarantotto anni, conduce una vita monacale ed è convinta di parlare con il Signore, che a dir suo pare averle affidato un singolare compito in terra: compiere un sacrificio "uccidendo qualcuno". Trasferitasi a Roma presso un convento, la visionaria decide di prendere in parola le voci che la invitano a uccidere in nome di Dio, e nel 1925 prova a suicidarsi sparandosi al petto senza riuscire nel suo intento. Salva per miracolo e non contenta, l'anno seguente sceglie un obiettivo decisamente ambizioso per consumare la mattanza divina: vuole uccidere il Duce. Così il 7 Aprile 1926 si presenta in Piazza del Campidoglio, attende che Mussolini esca dall'edificio dopo aver presenziato ad un convegno con un’associazione di chirurghi, sfodera un vecchio revolver di fabbricazione francese - una St Etienne 1892 che tiene nascosta sotto la sua veste nera - e confondendosi tra la folla spara un colpo ben mirato che sfiora il Duce, ferendolo al naso. Pare che Mussolini, notato l'agguato, si sarebbe "scansato" all'ultimo momento. La Gibson premerà il grilletto altre due volte, ma sia il secondo che il terzo colpo fanno cilecca. Il vecchio revolver, forse un souvenir del primo conflitto mondiale, si era "inceppato". La polizia presente sul posto la arresta prima che venga linciata dalla folla che in quel momento ancora stravede per Mussolini. Secondo quanto riportato dai rapporti dell'epoca la donna dirà agli inquirenti di aver provato ad ucciderlo "per glorificare Dio" che le aveva "inviato un angelo". Verrà immediatamente estradata in Inghilterra, "a condizione di non venir mai rilasciata", e internata nell’ospedale psichiatrico di St Andrews a Northampton, dove troverà la morte nel 1956. Inutili saranno le lettere richiedenti la "grazia" inviate negli anni al primo ministro Winston Churchill e alla futura Regina Elisabetta - che nonostante lo scoppio della guerra combattuta su più di un fronte con l’Italia, onorarono la parola data o forse ignorano le farneticazioni di una donna che molti allora ritenevano "pazza". Ora che però i tempi sono cambiati, mentre a Londra imbrattano la statua di Churchill tacciandolo di razzismo e in America decapitano le statue di Cristoforo Colombo, qualcuno a Dublino crede sia giunto il momento giusto per riabilitare la figura dell'assassina mancata. Dedicandole una targa commemorativa per essere stata, citiamo testualmente, la persona che si è avvicinata di più ad attentare alla vita di Mussolini (se tralasciamo i partigiani della Brigata Garibaldi che lo fucilarono e poi lo appesero per i piedi a Piazzale Loreto, ovviamente), e che per questo "non può essere dimenticata". Ad affermarlo è stato infatti Mannix Flynn, consigliere regionale di Dublino che ha presentato la mozione per la targa commemorativa, senza mancare l'occasione porre l'accento sulla natura femminile dell'atto: "Come capitato a molti autori di gesti straordinari, soprattutto se donne, Gibson è stata dimenticata dall’establishment britannico e irlandese. Col tempo diventata una pazza da nascondere. Ma adesso basta". Un'affermazione che potrebbe tranquillamente appartenere ad una presunta sciroccata come la Gibson. Figura che fino a prova contraria ha solo tentato di uccidere il capo politico di una potenza straniera nel quarto anno del governo (seppur dittatoriale) da lui istaurato. Certo, è vero che se i colpi sparati dal revolver impugnato dalla "tiratrice divina" fossero andati a segno, sarebbe certamente cambiato il corso della storia. Ma lo stesso potremmo dire di Churchill: se nel 1899, durante la seconda guerra anglo-boera, il volontario italiano Camillo Riccardi non gli avesse reso salva la vita, forse non avrebbe ordinato con tanta veemenza la completa distruzione di città come Dresda nel 1945: incenerita insieme a buona parte dei suoi abitanti dalla famigerata "tempesta di fuoco". Forse avremmo dovuto o potuto auspicare anche l'avvelenamento del caffé di Harry Truman da parte di una delle sue domestiche: magari non avrebbe firmato l'ordine per sganciare le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. E ci saremmo risparmiati la Guerra fredda. O ne avremmo guadagnata un'altra "calda". O forse ancora avremmo dovuto sperare nell'infanticidio da parte di madre o di padre dell'anarchico serbo-bosniaco Gavrilo Princip: senza l'attentato ai danni dell'arciduca Francesco Ferdinando e di sua la moglie Sofia, non sarebbe esistito l'arcinoto casus belli che portò l'Europa e il mondo nell'inferno della Grande Guerra: quel prodromo di morte, vendette, malcontenti e revanscismi che gettarono le basi per l'ascesa di oscure dittature. E via dicendo, via dicendo, tra la fantascienza, la fantastoria, nell’inquietante necessità divenuta così à la page di celebrare il nulla rispolverando il niente.

Andrea Cionci per “Libero quotidiano” l'8 febbraio 2021. Lo spettro di Badoglio torna a far sentire la sua voce: non è una metafora per commentare l' attuale situazione politica, con "costruttori" e "responsabili" che cambiano disinvoltamente casacca, ma la cronaca dell' effettivo ritrovamento - ad opera di chi scrive - di un documento storico di cui si erano perse le tracce da 77 anni e che vi proponiamo in esclusiva. È il disco originale sul quale il Maresciallo d' Italia Pietro Badoglio, dal 25 luglio '43 capo del governo (dopo la deposizione - e l' arresto con l' inganno - di Mussolini) incise il famoso Proclama dell' Armistizio diffuso via radio l' 8 settembre. Per la precisione, si tratta di un "Decelith", il vinile autarchico del Terzo Reich - una tecnologia appena precedente al nastro magnetico, che consentiva di incidere il sonoro su un supporto pronta-resa. Il proprietario è l' architetto Roberto Cottini, nipote di Gino Orsini, all' epoca importante funzionario dell' EIAR che, nel dopoguerra, diverrà anche direttore tecnico RAI. La testimonianza di Orsini anticipa l' operazione di un giorno rispetto alla storiografia ufficiale. «Mio zio ci raccontava - spiega Cottini - che la mattina del 7 settembre '43, Badoglio si presentò alla sede Eiar, in Via del Babuino 9, accompagnato dalla scorta. Fece uscire tutti chiedendo a mio zio e a un tecnico del suono di registrare un messaggio. Una volta inciso il disco, Badoglio ordinò di trasmetterlo in radio solo quando sarebbe stato al sicuro e dietro precisa comunicazione. Così andò: l' 8 settembre mattina mio zio ricevette una telefonata - forse dallo stesso Badoglio - che diceva qualcosa come "lei sa cosa fare" e la sera il proclama fu diffuso dalla radio, una volta ogni quarto d' ora». Il proclama fu registrato in anticipo per dare tempo al corteo reale di fuggire a Pescara e da lì a Brindisi. Badoglio, addirittura, precedette il Re senza avvertirlo.

Il parere. Abbiamo sottoposto il Decelith ai tecnici della Discoteca di Stato di Roma che, con grande disponibilità, lo hanno riversato in digitale. Appena posata la puntina sul disco, siamo stati tutti proiettati in quei giorni convulsi: «Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell' intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". La voce è chiara, si percepisce un vago accento del Monferrato e l' incerta pronuncia inglese: "Aisenover". La resa incondizionata agli Alleati era stata firmata già il 3 settembre a Cassibile (ancor oggi l' anniversario viene incredibilmente festeggiato nella cittadina, persino con spontanee partecipazioni di mafiosi inneggianti a Lucky Luciano). Nonostante l' armistizio, dato che Badoglio tergiversava nel divulgarlo, gli Alleati, forse anche come "sollecito", bombardarono indiscriminatamente Frascati, quartier generale di Kesselring, uccidendo oltre 600 civili italiani. La sera, alle 18.00, l' emittente alleata Radio Algeri, annunciò l' armistizio con l' Italia che venne subito intercettato dai tedeschi. Alle 19.42 anche l' Eiar diffuse il comunicato di Badoglio. Sono le ultime dieci parole del proclama ad agghiacciare per la loro tragica ambiguità. Spiega lo storico Marco Patricelli, già autore di Settembre 1943 - i giorni della vergogna (Laterza): «L' ipocrisia della formula sugli "eventuali attacchi da altra provenienza" paralizzò le nostre Forze Armate, privandole di qualsiasi iniziativa. Il piano segretissimo OP 44, stilato pochi giorni prima per prendere le armi contro la Germania, non ricevette l' ordine esecutivo: Badoglio si illudeva che i tedeschi avrebbero semplicemente lasciato l' Italia e ne aveva una gran paura, tanto che a Crecchio disse, guardando meditabondo gli alberi: "Chissà a quale di questi ci impiccheranno". Quanto alla registrazione del proclama il giorno 7, è plausibile, dato che Badoglio si aspettava la pubblicazione dell' Armistizio, condivisa con gli Alleati, per il 12. Il Gen.Castellano, che non parlava inglese, a Cassibile aveva infatti equivocato. Il 13 ottobre 1943, il definitivo passaggio al nemico verrà comunicato con una dichiarazione di guerra alla Germania lasciata nella portineria dell' Ambasciata tedesca a Madrid, ma non avrebbe avuto alcun effetto giuridico, poiché il Regno del Sud non era riconosciuto da nessuno. L' Italia, infatti, a febbraio del '47 venne trattata solo ed esclusivamente da paese sconfitto. Un completo disastro».

Caporetto. Del resto Badoglio non è mai stato un personaggio limpido. Già nella Grande Guerra era stato corresponsabile della ritirata di Caporetto mancando di difendere con l' artiglieria il tratto di fronte a lui assegnato. Al processo, gli incartamenti su di lui sparirono misteriosamente, salvandolo, cosa che fece parlare di una protezione da parte della Massoneria. Nonostante le pesanti ombre sul suo conto, raggiunse i vertici della gerarchia militare e fece il pieno di onori, guadagnandosi i titoli di marchese del Sabotino e di duca di Addis Abeba. Nella Campagna d' Etiopia, usò il gas contro gli abissini per autonoma scelta; ne deportò 100.000 e anche in questo caso non verrà mai processato per crimini di guerra come chiesto dal negus Hailé Selassié. A fine 1940, Badoglio, criticato dal gerarca Farinacci per gli insuccessi nella guerra di Grecia - che, pure, aveva sconsigliato, ma senza far nulla per impedirla - diede le dimissioni da Capo di Stato Maggiore Generale (credendo che Mussolini non le avrebbe accettate) per tornare a galla solo nel '43 con questa presunta patente di antifascismo. È vero che è più difficile perdere le guerre che vincerle, ma la storia dovrebbe insegnare a respingere certi esempi. Forse per questo - quasi come un monito junghiano - è oggi riemersa questa "reliquia" dall' inconscio collettivo italiano? Chissà.

Fratelli Mattei, i ragazzi oltre la targa. Chi erano Stefano e Virgilio Mattei e perché vanno ricordati. Ce lo racconta Giampaolo, uno dei fratelli, a 48 anni dalla loro morte nel Rogo di Primavalle. Elena Ricci, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale.  Lo scorso mese di gennaio in Regione Lazio, l'aula del consiglio ha approvato un ordine del giorno che impegna il presidente della Giunta Nicola Zingaretti ad attivare le procedure per la realizzazione di un murales dedicato ai fratelli Stefano e Virgilio Mattei, morti la notte del 16 aprile del 1973, in quello che conosciamo come rogo di Primavalle. La violenza, di matrice politica, fu ad opera di alcuni esponenti di Potere operaio, movimento aderente alla sinistra extraparlamentare. L'opera muraria dovrebbe nascere su una parete, proprio davanti quella che era la casa dei Mattei in via Bernardo da Bibbiena. Quella notte, tutti riuscirono a mettersi in salvo tranne Virgilio e Stefano, rispettivamente di 22 e 8 anni, morti carbonizzati all’interno della loro casa data alle fiamme. Abbiamo incontrato uno dei fratelli Mattei, Giampaolo, che insieme a sua sorella Lucia, porta avanti l’associazione "Fratelli Mattei" con la quale, periodicamente, organizzano percorsi della memoria e incontri formativi con le scuole. A Giampaolo e Lucia non interessa che i loro fratelli vengano ricordati con una targa o un murales, a loro importa, così come avrebbe voluto anche la loro madre, che Stefano e Virgilio trovino il loro giusto posto nella storia della città. “Molte iniziative però, non seguono questo percorso – dice Giampaolo – anzi, le trovo ghettizzanti, strumentali e puerili per certi versi”. Ma chi erano Stefano e Virgilio? Per conoscere la loro storia e capire chi fossero, occorre dapprima capire chi era la famiglia Mattei: una famiglia umile, proletaria che abitava in quartiere, Primavalle, che in quegli anni non è come lo conosciamo oggi. Era un quartiere degradato e piuttosto isolato dal resto della città, tant’è che per raggiungere il centro d Roma quando c’era lo sciopero dei mezzi, si doveva ricorrere alle camionette della polizia o dell’esercito. Origini umili, di cui i fratelli Giampaolo e Lucia vanno fieri: “Siamo orgogliosi di appartenere a questa estrazione che è certamente modesta rispetto a quella degli assassini dei miei fratelli. Qui a Primavalle – continua Mattei – non c’erano le case che vediamo oggi. C’erano baracche, case fatte in legno. Oggi le chiamano ‘case ecologiche’, ma all’epoca erano case di sopravvivenza, di povera gente che tirava a campare e non aveva soldi per mettere un tozzo di pane a tavola ogni giorno”. Dunque, non una famiglia benestante e agiata, ma persone normalissime. Eppure, la rivendicazione dell’attacco che ha visto morire i due ragazzi, arriva dalla "Brigata Tanas", dalla cosiddetta "giustizia proletaria" che lasciò lì sul luogo del rogo un cartello che inneggiava alla morte dei fascisti. “Già da allora era evidente che fosse tutta una strumentalizzazione politica, un progetto politico che esiste ancora oggi. Si è passati dal dire che uccidere un fascista non è reato, all’atto pratico. E lo abbiamo visto con le sentenze, compresa quella definitiva”, Giampaolo Mattei lamenta di essere stato sempre ghettizzato con la sua famiglia solo perché vicino al Movimento sociale italiano che, per un rigurgito della resistenza, venivano percepiti come fascisti da abbattere: “Mio padre era un ex repubblichino, è stato prigioniero per quattro anni, torturato dagli americani perché non collaboratore. Non ha mai tradito le sue idee e ha insegnato la stessa cosa a noi figli, mai tradire idee, valori e famiglia e noi cerchiamo, per quello che possiamo, di portarlo avanti”. Giampaolo è cresciuto conoscendo suo fratello Virgilio attraverso i racconti dei suoi genitori e di chi lo ha vissuto: in molti lo hanno avvicinato dicendogli di aver conosciuto suo fratello Virgilio, ma nella maggior parte dei casi non era vero, poiché si trattava di persone nate poco prima o addirittura dopo il 1973: “E' imbarazzante, ma è anche bello vedere gente che si interessa alla nostra storia e che vuole comprenderla per quella che realmente è: Stefano era un ragazzino e Virgilio non faceva parte di nessuna corrente estremista. Non faceva parte di Ordine nuovo, non faceva parte di Avanguardia nazionale. Virgilio faceva solamente parte dei Volontari nazionali sotto il comando di Giorgio Almirante e chi conosce la storia del Movimento sociale italiano, conosce benissimo la differenza culturale all’interno del movimento, di queste tre fazioni. Io sono almirantiano oggi, perché mio padre me lo ha insegnato e perché l’ho vissuto sia nel privato che a livello pubblico. Quando oggi sento parlare di Stefano e Virgilio con l’etichetta di alcune ideologie, mi viene da sorridere ma lo accettiamo. Lo accettiamo perché la storia di Stefano e Virgilio è pubblica, anche se possiamo esprimere il nostro dissenso rispetto a certe azioni che non portano a nulla”. A tal proposito, Mattei ricorda un episodio avvenuto poco prima del lockdown. Era lì, in via Bibbiena con una scuola a ricordare i suoi fratelli, quando una residente di passaggio, sbotta per l’ennesima manifestazione blaterando che i Mattei avevano fatto tutto da soli: “Avrei preferito che avesse detto che i miei fratelli dovevano essere uccisi per un qualche motivo e che lo avesse argomentato, anche per rispetto degli studenti che si trovavano lì. Questo – dice Mattei – è un quartiere ancora chiuso agli anni Settanta, in cui si annida il pregiudizio ideologico e in cui vi è poca voglia di conoscere come sono andate le cose. Questo è dovuto alla politica locale e a chi fa politica locale”. Per Giampaolo e Lucia Mattei la gente deve capire che Stefano e Virgilio sono stati ammazzati, assassinati e non perché fosse giusto uccidere dei "fascisti". Il compito di Giampaolo e Lucia è far capire che Stefano e Virgilio erano due ragazzi che oggi non ci sono più, ai quali è stata strappata la vita, il futuro, la possibilità di farsi una famiglia e di commettere degli errori come tutti: “Questo è quello che facciamo con la nostra associazione, sensibilizziamo e facciamo attività sociali e solidali. Non mettiamo sempre in ballo la storia di Stefano e Virgilio, ma la nostra storia, perché loro si rispecchiano in noi e nel nostro quotidiano. Sono questi Stefano e Virgilio – conclude – la nostra cultura, la nostra dignità”.

Mirella Serri per “La Stampa” il 5 febbraio 2021. Scendono in campo l'un contro l'altro armati storici e legislatori. E non se le mandano certo a dire. L'ultimo fendente contro i politici che confezionano leggi che limitano l'indipendenza della ricerca l'ha vibrato lo storico Franco Cardini. Notissimo medievista, Cardini firma il saggio introduttivo al libro di Pierre Nora e Françoise Chandernagor che sta per uscire in Italia, Libertà per la storia. Inquisizioni postmoderne e altre aberrazioni (Medusa edizioni). Nel suo excursus il professore fiorentino spara a pallettoni contro i moderni legislatori i quali, con la serie dei provvedimenti penali contro chi nega la Shoah, hanno finito per sabotare la libertà degli studiosi. Il libro di Nora e Chandernagor è apparso nel 2008 in Francia ma rappresenta ancora oggi la risposta dell'associazione Liberté pour l'histoire alle «leggi memoriali», alle leggi che in Francia, dal 1990, colpiscono chi contesta l'esistenza dei novecenteschi crimini contro l'umanità, rinverdendo il «reato d'opinione». Cardini, sposando nell'introduzione le proteste dell'associazione francese, riapre così un dibattito che dal 2007 in Italia non si è mai sopito. Da quando l'allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, propose un disegno di legge che prevedeva la condanna e la reclusione per chi negasse l'Olocausto. Contro questo progetto vi fu la clamorosa levata di scudi della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (Sissco) tramite un comunicato sottoscritto da 28 accademici e a cui aderirono 100 storici. In tutta Europa, comunque, sempre più di frequente si levano voci di protesta contro la mannaia del legislatore. Così, per esempio, lo studioso Olivier Petré-Grenouilleau, in Francia è stato denunciato per negazionismo a causa della sua opera, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (il Mulino): sosteneva che lo schiavismo non poteva essere considerato un genocidio, dal momento che il mercante era interessato alla sopravvivenza della sua «merce» e non al suo sterminio. Metteva in evidenza anche le responsabilità africane e musulmane (e non solo quelle occidentali, come nella tradizione) nel traffico degli schiavi. Fu riammesso all'insegnamento universitario solo dopo l'insurrezione dei colleghi. Ugualmente assolto dall'accusa di negazionismo, è solo un altro esempio, è stato il tedesco, Heinz Richter. Nel suo lavoro Griechenland im Zweiten Weltkrieg 1939-1941 (La Grecia nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1941) aveva affermato che la terribile rappresaglia della Wermacht compiuta a Creta fosse stata motivata dai crimini contro l'umanità compiuti dai resistenti greci. Il processo terminato nel 2016 gli ha dato ragione. Il legislatore però non si arrende: l'ultimo «attentato» all'indipendenza degli esperti, è considerato dagli storici la legge presentata nel 2017 dal deputato del Pd Emanuele Fiano. «Un agguato fortunatamente sventato», sostiene Cardini. Passato alla Camera dei deputati, il disegno di legge di Fiano, infatti, non ha fatto in tempo a ottenere l'approvazione da parte del secondo ramo del Parlamento a causa della fine della legislatura. Fiano era intenzionato a far condannare come reato l'apologia e la propaganda fascista fatta anche sul web oppure tramite oggetti simbolo della dittatura. Una normativa questa che, per Cardini, ancora una volta impone uno stop alla circolazione delle idee. «Fiano parla di propaganda fascista che avviene tramite saluti romani o la vendita di materiali che evocano i regimi totalitari», osserva il medievista. «Ma se faccio riprodurre un ritratto di Mussolini dipinto da un'artista, per Fiano è esaltazione del fascismo? Oppure da cosa evinco che un braccio teso sia un saluto romano che rinvia al dittatore? Anche gli indiani Cheyenne erano soliti salutare così. Lo stesso ragionamento vale per gli storici: se come ricercatore curo e faccio pubblicare un testo che tesse le lodi di Mussolini, un giurista orientato dalla legge Fiano potrebbe considerare il mio lavoro apologia del fascismo». La questione, insomma, è più che mai aperta e la singolar tenzone continua a far scintille.

Emanuele Filiberto scrive alla comunità ebraica: "Chiedo scusa per le leggi razziali". Storica missiva di Emanuele Filiberto di Savoia, che da parte della Casa reale al Tg5 si scusa per la firma delle leggi razziali da parte di suo nonno nel 1938. Francesca Galici, Venerdì 22/01/2021 su Il Giornale. Il 27 gennaio è la Giornata della memoria e Mediaset lo ricorda con un approfondimento speciale del Tg5. Parole dal silenzio andrà in onda sabato 23 gennaio in seconda serata su Canale5 e proporrà al pubblico una storica lettera di scuse alle comunità ebraiche da parte di Emanuele Filiberto di Savoia per la firma alle leggi razziali di suo nonno Vittorio Emanuele III. Insieme all'intervista di Cesara Bonamici all'erede di casa Savoia, verranno trasmesse anche le testimonianze di Sami Modiano e di Liliana Segre. L'intervista integrale a Emanuele Filiberto di Savoia andrà in onda domani sera, il Tg5 ne ha trasmesso un estratto nell'edizione delle 20 di oggi, venerdì 22 gennaio. L'erede dei Savoia ha spiegato al Tg5 perché la lettera dopo così tanti anni: "Sento il bisogno di farla, è una ferita che ho sempre avuto nel cuore. Ritengo sia ora di prendere le mie responsabilità e di poter scrivere questa lettera alla Comunità ebraica per chiedere perdono per il peccato orribile, osceno, che è la firma di Vittorio Emanuele III in quelle infami leggi razziali. Perché Vittorio Emanuele III era il re di tutti gli italiani. Come un padre con i suoi figli, si sarebbe dovuto prendere cura di tutti gli italiani". La famiglia Savoia di oggi, quindi, si è dissociata dalle azioni dell'ultimo monarca italiano per mano di Emanuele Filiberto: "Vedere questa sua firma su queste leggi è un gran dolore per me e per Casa Savoia. Credo che qualche volta bisogna guardare al passato, analizzarlo e anche tirare fuori i propri sentimenti. È quello che oggi ho voluto fare. Oggi chiedo perdono ma non mi aspetto il perdono. Voglio solo dire alle Comunità ebraiche che possiamo oggi ricominciare un dialogo importante insieme e guardare insieme al futuro". "Mi rivolgo a tutti voi, Fratelli della Comunità Ebraica italiana, per esprimervi la mia sincera amicizia e trasmettervi tutto il mio affetto nel solenne Giorno della Memoria. Vi scrivo a cuore aperto una lettera certamente non facile, una lettera che può stupirvi e che forse non vi aspettavate. Eppure sappiate che per me è molto importante e necessaria, perché reputo giunto, una volta per tutte, il momento di fare i conti con la Storia e con il passato della Famiglia che oggi sono qui a rappresentare, nel nome millenario di quella Casa Reale che ha contribuito in maniera determinante all'unità d'Italia, nome che orgogliosamente porto", inizia così la storia lettera scritta da Emanuele Filiberto di Savoia a nome della sua famiglia. L'erede, poi, continua: "Scrivo a voi, Fratelli Ebrei, nell'anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, data simbolo scelta nel 2000 dal Parlamento della Repubblica Italiana, a memoria perpetua di una tragedia che ha visto perire per mano della follia nazi-fascista 6 milioni di ebrei europei, di cui 7500 nostri fratelli italiani. È nel ricordo di quelle sacre vittime italiane - si legge - che desidero oggi chiedere ufficialmente e solennemente perdono a nome di tutta la mia Famiglia". Emanule Filiberto ha fatto questo passo perché vuole che "la memoria di quanto accaduto resti viva, perché il ricordo sia sempre presente. Condanno le leggi razziali del 1938, di cui ancor oggi sento tutto il peso sulle mie spalle e con me tutta la Real Casa di Savoia e dichiaro solennemente che non ci riconosciamo in ciò che fece Re Vittorio Emanuele III: una firma sofferta, dalla quale ci dissociamo fermamente, un documento inaccettabile, un'ombra indelebile per la mia Famiglia, una ferita ancora aperta per l'Italia intera". Nella sua lettera, l'erede di Casa Savoia cita il "glorioso avo Re Carlo Alberto", che, continua Emanuele Filiberto, "Emanuele III fece nel 1904, dopo che il 13 gennaio dello stesso anno si disse addirittura favorevole alla nascita dello stato ebraico e così si espresse: 'gli ebrei, per noi, sono Italiani, in tutto e per tutto". Il nipote di Vittorio Emanuele III esprime il desiderio che "la Storia non si cancelli, che la Storia non si dimentichi e che la Storia abbia sempre la possibilità di raccontare quanto accaduto a tutti coloro che hanno fame e sete di verità. Le vittime dell'Olocausto non dovranno mai essere dimenticate e per questo motivo, ancor oggi, esse ci gridano il loro desiderio di essere giustamente ricordate. Anche la mia Casa ha sofferto in prima persona, sebbene per motivi politici, ed è stata ferita profondamente negli affetti più cari: come potremmo dimenticare la tragica fine di mia zia Mafalda di Savoia, morta il 28 agosto 1944 nel campo di concentramento di Buchenwald dopo un'atroce agonia?". Emanuele Filiberto, poi, ricorda la zia Maria di Savoia, che "fu deportata con il marito e con due dei loro figli in un campo di concentramento vicino a Berlino". L'erede, quindi, si rivolge di nuovo alla Comunità ebraica "con viva e profonda emozione nel lancinante ricordo del rastrellamento del Ghetto avvenuto il 16 ottobre 1943". Al termine della lettera, Emanuele Filiberto si scusa ancora "nell'angoscioso ricordo delle troppe vittime che la nostra amata Italia ha perso. Scrivo a voi questa mia lettera, sinceramente sentita e voluta, che indirizzo a tutta la Comunità italiana, per riannodare quei fili malauguratamente spezzati, perché sia un primo passo verso quel dialogo che oggi desidero riprendere e seguire personalmente. Con tutta la mia sincera fratellanza".

Mirella Serri per "La Stampa" il 24 gennaio 2021. «Dichiaro solennemente che non ci riconosciamo in ciò che fece Re Vittorio Emanuele III: una firma sofferta, dalla quale ci dissociamo fermamente, un documento inaccettabile, un'ombra indelebile per la mia Famiglia, una ferita ancora aperta per l'Italia intera». A nome di tutta la sua famiglia, Emanuele Filiberto di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele e di Marina Doria, pronipote del re Vittorio Emanuele III, ha scritto una sofferta lettera alla Comunità Ebraica Italiana nella quale si dissocia con grande determinazione dall'atto con il quale il bisnonno appose nel 1938 alle leggi razziali volute dal regime fascista e chiede «solennemente perdono». L'iniziativa su cui ha a lungo meditato. E che rende nota nella ricorrenza del «solenne giorno della memoria», anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. E' un mea culpa, quello di Emanuele Filiberto, che arriva molto tardi. Arriva dopo oltre ottant' anni da quando Benito Mussolini fece promulgare la legislazione razzista anche per compiacere il suo «unico amico», Adolf Hitler. Fra i motivi della sua condanna delle leggi antisemite, il 48enne Savoia cita anche la memoria «dei numerosi italiani ebrei che lottarono con grandissimo coraggio sui campi di battaglia dell'Ottocento e del primo Novecento da veri Patrioti». Emanuele Filiberto spiega questo suo gesto pure con la volontà che quelle pagine terribili della storia italiana non vengano rimosse, che «la Storia non si cancelli, che la Storia non si dimentichi e che la Storia abbia sempre la possibilità di raccontare quanto è accaduto a tutti coloro che hanno fame e sete di verità». Nella sua missiva l'erede dei Savoia ricorda che non sono stati pochi i meriti acquisiti dalla sua famiglia nella costruzione dell'unità d'Italia: in particolare rammenta l'azione del suo avo Carlo Alberto, che nel 1848 fu tra i primi sovrani europei a dare ai suoi sudditi ebrei la piena uguaglianza di diritti. Ricorda ancora che i nazisti non risparmiarono nemmeno la sua famiglia. Rievoca la scomparsa di Mafalda di Savoia nel campo di Buchenwald, dopo le atroci sofferenze a cui la condannarono le SS, e la deportazione di Maria di Savoia, anch' essa figlia di Vittorio Emanuele III, in un lager nei pressi di Berlino. Anche a proposito di Vittorio Emanuele III, Emanuele Filiberto spezza una lancia, perché il sovrano delle leggi razziali, 34 anni prima del l'«ombra indelebile» era andato in visita alla nuova Sinagoga di Roma e si era detto addirittura favorevole alla nascita di uno Stato ebraico, e aveva sostenuto: «Gli ebrei per noi sono Italiani, in tutto e per tutto». In effetti il Re, che fra l'altro aveva un ebreo come medico di corte, siglò la legislazione «sulla difesa della razza» piuttosto a malincuore. Come scrisse il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, il Duce si era indignato con Vittorio Emanuele per la sua «pietà» nei confronti degli ebrei e aveva sostenuto che «in Italia vi sono ventimila persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei». Il Re aveva affermato di essere tra coloro che si commuovevano. La remissività e la debolezza manifestate in quell'occasione dal sovrano in parte riflettevano specularmente anche il consenso di cui godeva in quegli anni Mussolini, definito dal papa «l'uomo della Provvidenza». Vittorio Emanuele III legato al suo ruolo di sovrano costituzionale chinò il capo e accettò tutte le condizioni. Al di là della timida espressione del suo disagio, la testa coronata non prese nessuna iniziativa clamorosa per ostacolare quel provvedimento che privava gli ebrei di della libertà e poneva le premesse anche per privarli in molti casi della vita. 

Giordano Bruno guerri per "Il Giornale" il 24 gennaio 2021. Quando in Italia vennero promulgate le leggi razziali, nell' estate del 1938, Vittorio Emanuele di Savoia era un bellissimo bambino biondo di un anno e mezzo, che il principe Umberto esibiva orgogliosamente come futuro re d' Italia e imperatore d' Etiopia. Non lo sarebbe mai diventato, per nostra fortuna, viste le poco brillanti prove regali che ha dato di sé nel corso della vita. Né lo sarebbe diventato suo figlio Emanuele Filiberto, noto più per le sue attitudini mondane e televisive che per le idee. Tuttavia a nessuno dei due si può imputare alcuna colpa per quanto fece il loro nonno e bisnonno, Vittorio Emanuele III, re vittorioso nella Prima guerra mondiale, poi responsabile di avere affidato il governo a Mussolini nel 1922 e di avere sottoscritto tutte le leggi del fascismo, quelle razziali comprese, nonché l' entrata in guerra al fianco di Hitler. Per non dire dell' obbrobrioso 8 settembre del 1943, con la fuga da Roma. In conseguenza dei provvedimenti razziali, i 47.000 ebrei italiani persero quasi tutti i diritti civili, il lavoro, i beni, la scuola. Poi vennero le deportazioni nei campi di sterminio nazisti. Di tutto ciò Emanuele Filiberto è innocente, e anzi ha subito per decenni un sopruso dettato nientemeno che dalla nostra Costituzione (la più bella del mondo), là dove era scritto che «Agli eredi di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l' ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale». Punizioni del genere si leggono spesso nell' Antico testamento, ma i sacerdoti depistano saggiamente l' attenzione dei fedeli da quei passi. Soltanto nel 2002 fu consentito ai Savoia il ritorno in Italia, grazie a un civile provvedimento del Berlusconi II. Ogni tanto Vittorio Emanuele si fa vivo con noi mancati sudditi, in genere nei periodi di grave crisi politica, per ricordare che in fondo il sistema monarchico non era così male e che la sua famiglia sarebbe pronta a riaccomodarsi sul trono. È un periodo di grave crisi politica anche questo, ma ora non voglio pensare male pure di suo figlio: mica per non fare peccato, perché sarebbe di cattivo gusto di fronte a una lettera limpida e ferma come quella che il mancato re e imperatore ha scritto alla comunità ebraica: alla quale «desidero oggi chiedere ufficialmente e solennemente perdono a nome di tutta la mia Famiglia. () Condanno le leggi razziali del 1938, di cui ancor oggi sento tutto il peso sulle mie spalle e con me tutta la Real Casa di Savoia e dichiaro solennemente che non ci riconosciamo in ciò che fece Re Vittorio Emanuele III: una firma sofferta, dalla quale ci dissociamo fermamente, un documento inaccettabile, un' ombra indelebile per la mia Famiglia, una ferita ancora aperta per l' Italia intera». «Chiedo perdono, ma non mi aspetto il perdono», ha dichiarato poi, ieri sera, in un' intervista al Tg5. Infatti i Savoia non lo avranno, quel perdono, tanto meno dalla comunità ebraica. Avrebbe dovuto chiederlo il suo bisnonno, nei quattro anni che sopravvisse alla caduta del fascismo, e non lo fece. E avrebbero dovuto chiederlo il nonno Umberto II e il padre. Che comunque non l' avrebbero ottenuto. Gli ebrei italiani pagarono con lutti e sofferenze troppo grandi e ingiustificati perché li si possa cancellare, e il riconoscimento di una simile colpa non cancella il passato, come non lo cancellarono le richieste di perdono di Giovanni Paolo II agli ebrei e a tutti i perseguitati dalla Chiesa, per secoli e secoli.

·        Gli eredi di Mussolini.

Atreju, delirio di Roberto Saviano contro Giorgia Meloni: "E' di sinistra". Dario Martini su Il Tempo il 12 dicembre 2021. Per chi non lo sapesse, «Atreju, "cresciuto da tutti", è membro della tribù pelleverde, non ha né madre né padre, nessuna sacra famiglia tradizionale, e non c'entra nulla con Bannon, Orban, e tutta l'accozzaglia sovranista». A fornirci questa lezione su "La storia Infinita", mitico libro fantasy e film degli anni Ottanta, è Roberto Saviano. Lo scrittore non si dà pace. Non accetta di vedere i big della sinistra sfilare sul palco di Giorgia Meloni. Non può digerire il fatto che Enrico Letta abbia accettato l'invito della leader di FdI. Così, dopo aver rivendicato il diritto di «odiare» gli avversari politici, si lancia in una lezione letteraria e cinematografica. Ecco che l'autore di Gomorra ci spiega la grande mistificazione compiuta da quei burloni di Fratelli d'Italia, che non si devono permettere di «usurpare simboli che non gli appartengono». Scopriamo, quindi, che Giorgia Meloni e i suoi compagni di partito usano impropriamente il nome dell'eroe del film per chiamare la loro storica festa in corso in questi giorni a Roma. Grazie a Saviano ora sappiamo che Atreju è di sinistra. Lo è sempre stato. Solo che i Fratelli d'Italia non lo avevano capito. Anche perché non può essere di destra uno che non ha i genitori. E che è stato allevato «da tutti». È impressionante il salto logico che compie Saviano, il quale utilizza la figura di Atreju per scagliarsi contro la «sacra famiglia tradizionale» tanto cara alla destra italiana e tanto invisa allo scrittore. Siccome, nel racconto, non aveva un padre e una madre, allora non può piacere ai militanti di un partito di destra. A questo punto, sarebbe interessante sapere se anche il Fortunadrago - il compagno di avventure di Atreju fosse di destra o di sinistra. Immaginiamo che, per il suo altruismo, l'amico dell'eroe fosse iscritto al Pd. Così come Bastian, il ragazzo che legge il libro magico. Come può essere di destra qualcuno che a scuola viene tormentato dai bulli? Il prossimo passo sarà indagare sulle simpatie politiche dei personaggi del Signore degli Anelli, altro romanzo epico caro alla destra italiana. C'è da scommettere che, per Saviano, anche Frodo, personaggio frutto della fantasia di Tolkien, era di sinistra. D'altronde, anche lui non aveva genitori, solo uno zio. E alla fine della storia lasciò la terra natia, la Contea, per imbarcarsi su una nave diretta verso l'ignoto. Non sappiamo se a salvarlo arrivò una Ong... 

Michele Serra per "la Repubblica" il 14 dicembre 2021. Più che alle saghe fantasy e ai voli alati, il buffo marchio Atreju fa pensare, in bocca romana, a un richiamo da vicolo: "' a Treiuuu, ma 'ndo stai?". Che Enrico Letta abbia sbagliato ad andarci, sia pure con una presumibile intenzione di fair-play politico, è confermato dalla stessa padrona di casa: appena il tempo di smontare il palco e riporre il sor Atreju in magazzino fino al prossimo meeting, ed ecco che, per Meloni, l'ex gradito ospite Letta diventa «procacciatore di interessi del governo francese», «Casalino di Macron» e insomma servo dello straniero e traditore della patria. Mentre la patria stessa agogna, con Meloni, a portare al Quirinale un patriota vero: per esempio Berlusconi, tutt' altro che un candidato di bandiera. Che cosa intenda Meloni per «patriota» è facile da capire: intende nemico dell'Europa e amico suo. Ma sentire applicare l'etichetta di «patriota» a Berlusconi, in costante conflitto con le leggi italiane, con la sua appiccicosa storia d'affari e di rapporti con figuri mafiosi, e soprattutto con la sua ineguagliata capacità di spaccare il Paese in due metà inconciliabili (solo il Mascellone seppe fare di peggio) è veramente troppo. L'uomo che voleva nominare Cesare Previti ministro della Giustizia, stoppato in extremis da quel galantuomo di Scalfaro (lui sì, un patriota), se salisse al Quirinale presiederebbe il Consiglio Superiore della Magistratura. Basta questo, ed è tutt' altro che un dettaglio, a rendere assurdo, e anche offensivo, ogni appoggio, patriottico o meno, alla candidatura di Berlusconi. A' Treiu, ma che stai a ddi'?

Stampa e democrazia.  La rivolta di Giorgia Meloni contro il mondo moderno, con parole sue. Marco Taradash su L'Inkiesta il 15 dicembre 2021. Analisi del discorso di Atreju che i giornali italiani, con qualche eccezione, hanno ignorato. Dal globalismo al Covid, i marchi distintivi di un’ideologia sicura di sé e molto pericolosa. Ho aspettato due giorni per commentare gli articoli della stampa scritta sul discorso conclusivo di Giorgia Meloni alla festa di Fratelli d’Italia.

Speravo che, passata la frenesia dei retroscena sulla caratura dell’intervento di Meloni in chiave Quirinale, qualcuno sarebbe tornato sulla scena. Non è accaduto. Le eccezioni sono tre, Stefano Feltri su Domani, Michele Prospero sul Riformista e Mattia Feltri sulla Stampa. Per tutti gli altri giornali è come se il discorso di Meloni fosse stato un comizietto di quartiere un po’ pompato per soddisfare una platea di sfaccendati e di curiosi.

Non è così, ovviamente. Meloni ha espresso, davanti ai suoi militanti e dirigenti, tutta se stessa, la sua sua passione, il suo cuore e la sua mente. Che nessuno la prenda sul serio dà il segno dell’indifferenza per la democrazia della stampa italiana, ridottasi a fungere da osservatore così neutrale (alias opportunista) da non osservare più nulla, con una attitudine che ormai rasenta il nichilismo culturale.

Che cosa ha veramente detto Meloni?

Polonia. «Esprimo la mia solidarietà al governo della Polonia contro le continue aggressioni di una Commissione Europea che non è in grado di riconoscere la sovranità nazionale». Si riferisce alla decisone della Corte Costituzionale polacca che, dopo la modifica della sua composizione operata dal governo di Mateusz Morawiecki, ha stabilito che parte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è incompatibile con la Costituzione del paese, laddove all’articolo garantisce il diritto a un processo equo, da parte di un «tribunale indipendente e imparziale».

Covid. «Prima dose, seconda dose, terza dose, fine dose mai… Perché non si può parlare di una cura per il Covid? Perché il governo non ci mette la faccia dichiarando di essere pronto a indennizzare qualsiasi italiano dovesse avere problemi col vaccino?». Sono i consueti argomenti che le consentono di avere il consenso dei no-vax e no-green pass, e che non hanno alcun fondamento.

Quanto alle cure ieri il professor Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, ha ripetuto per l’ennesima volta che «non esiste alcuna cura migliore di quella fornita dai vaccini. Le cure riguardano le persone che si ammalano. E se ne parla poco solo perché sono molto in divenire. Non ci sono certezze, insomma». Meloni dice poi – è un suo noto refrain – che non si vuole imporre l’obbligo di vaccino per non incorrere nel rischi degli indennizzi. In questo modo lascia intendere che siano così tanti coloro che restano vittime della vaccinazione al punto che lo stato non potrebbe sobbarcarsene il costo.

Il Patriota. «Vogliamo un patriota al Quirinale per conservare la nostra sovranità nazionale».

Vi è chiaro, amici giornalisti e direttori il significato politico del “patriota al Quirinale”? Un presidente che sappia contrapporsi all’Unione Europea (vedi sotto) e alla perfida Albione di un tempo, oggi identificata nella piovra francese (vedi sotto).

Unione Europea. «Noi siamo per un modello confederale fatto di stati sovrani che collaborano per alcune finalità comuni, contro una Europa che la sinistra ha cercato di trasformare in una sorta di superstato sovietico».

È una semicitazione del suo alleato Viktor Orbán, premier ungherese, teorico della democrazia illiberale: «Dobbiamo resistere alla sovietizzazione che Bruxelles vorrebbe imporre oggi all’Ungheria». Sovietizzazione da imputare comunque più al PPE di Ursula von der Leyen o al centro di Macron o Draghi che alla sinistra europea.

Gli interessi nazionali. «Basta con i partiti asserviti agli interessi stranieri! La sinistra ha fatto il procacciatore di interessi per lo Stato francese! Io cerco un capo dello Stato gradito agli italiani, non ai francesi, come dice la sinistra, il Pd. Hanno favorito la svendita ai francesi, hanno svenduto le telecomunicazioni, la Fiat, la Borsa, sono tutte aziende finite in mano francesi». E in sintesi «Palazzo Chigi è l’ufficio Stampa dell’Eliseo, Letta è il suo Rocco Casalino». Draghi il traditore della patria, della grande proletaria come di sarebbe detto un tempo, e Letta (la sinistra) il suo suggeritore insomma. L’avete chiaro il concetto, amici giornalisti che vi perdete nei giochi di ruolo sui quirinabili?

La Civiltà. «Noi rischieremo quel che c’è da rischiare per salvare la nostra civiltà».

Salvare la nostra civiltà da chi e da cosa? Il catalogo è lungo, e spazia dai miserabili della terra alle cuspidi del potere: «Difenderemo sempre i nostri confini dall’immigrazione, non saremo mai tolleranti con l’immigrazione irregolare di massa». Che ha i suoi sponsor: ad esempio il ministro Speranza che di fronte alla variante omicron del Covid ha bloccato i voli dall’Africa, e «ha dato in questo modo agli schiavisti il monopolio dell’ingresso in Italia».

Il Globalismo. «Concentra le ricchezze nelle mani di pochissimi e trasforma i popoli in milioni di nuovi miserabili … i giganti del web che uccidono il commercio, non pagano le tasse, non ceano posti di lavoro… il cibo delivery che strangola i ristoratori… il booking on line che taglieggia gli albergatori… i fondi speculativi stranieri che acquistano le nostre industrie e poi lasciano a piedi migliaia di persone… la concorrenza sleale dei negozi extracomunitari apri e chiudi… le multinazionali pronti a mettere le mani sulle nostre concessioni balneari o sulle licenze dei taxi… la guerra al contante che favorisce la speculazione e penalizza la nostra economia».

Altre (poche) cose le avete lette sui giornali, in particolare l’auto-attribuzione del concetto politico di conservatorismo. È quella di Meloni una accezione che non si ritrova in nessun partito conservatore europeo. Un conservatorismo non avverso al progressismo ideogico ma al liberalismo e alla democrazia liberale. Un “conservatorismo rivoluzionario” incardinato piuttosto nella “Rivolta contro il mondo moderno” di quello che è senza dubbio il suo maestro filosofico – non il nostro amato Prezzolini, tirato in ballo a sproposito un paio di volte, ma Julius Evola.

Cari amici giornalisti, prendetela una buona volta sul serio Giorgia Meloni. E, se lo incontrate, suggeritelo anche a Ernesto Galli della Loggia.

Lettera a “la Repubblica” il 15 dicembre 2021. Caro Merlo, nel cimitero del mio paese, sulla tomba di un giovanissimo partigiano c'è scritto "Patriota". Io, per merito anche di questa tomba, ho sempre associato all'aggettivo patriota i valori più nobili: coraggio, dignità, orgoglio E non ho mai sentito, mio padre e i suoi amici, partiti partigiani giovanissimi, attribuirsi questo aggettivo. Lo hanno sempre riservato, credo per pudore, ai loro amici caduti durante la lotta di Resistenza ai nazi-fascisti. Ora le chiedo: perché, sentendo dire a Giorgia Meloni che vuole un patriota a capo dello Stato, ho avvertito i sentimenti più avversi verso questo aggettivo e provato un discreto senso di nausea? Claudio De Stefano - Pinzano al Tagliamento (Pordenone)

Risposta di Francesco Merlo

Non mi piace chi grida al lupo al lupo, ma Giorgia Meloni, pur legittimata come gli altri politici italiani, dovrebbe avere più pudore degli altri nell'abusare della parola "patriota", che, come lei dice, caro De Stefano, è nell'accezione popolare un sinonimo di eroe. Meloni, che giustamente si offende quando dicono che è fascista, esordì giovanissima nella sezione missina di Colle Oppio, fu poi segretaria di Azione Giovani e ancora oggi vibra d'amore e orgoglio per i missini degli anni Settanta che lei racconta sempre e solo come vittime. È vero che ce ne furono anche tra quei giovani ed è giusto rendere onore, come fece Walter Veltroni da sindaco di Roma, alla memoria dei fratelli Mattei bruciati vivi da un commando di vigliacchi terroristi di Potere Operaio. Ma non sono un'invenzione della propaganda di sinistra i "picchiatori neri" che organizzavano spedizioni punitive e agguati: le famose immagini del 16 marzo del 1968 con Almirante che li guida all'università di Roma sono su YouTube. Qualcuno poi saltò in aria sistemando bombe: c'è stato un orribile terrorismo nero che ha molto ucciso e solo chi ha dimenticato gli Anni 70 può distinguere il manganello dal doppiopetto. Ecco: patriota fu certamente il giudice Vittorio Occorsio, che il 10 luglio 1976, fu assassinato da Pier Luigi Concutelli di Ordine Nuovo. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con quel terrorismo, ma ha nel Msi di Almirante i suoi modelli di patrioti: «siamo ancora oggi i custodi di un patrimonio valoriale che è stata la nostra giovinezza». Giudicato "revisionista" dalla destra più estrema, è vero che l'anziano Almirante abiurò l'antisemitismo, ma sempre esibì con fierezza il proprio passato, e ancora si emozionava al ricordo delle telefonate che, giovane addetto stampa a Salò, gli aveva fatto il Duce. Il 6 settembre del 1987, otto mesi prima di morire, chiuse la festa del suo partito con questa profezia: «Siamo fascisti, siamo il fascismo in movimento, il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro». Modelli più attuali di patrioti per Giorgia Meloni sono Orbán, gli spagnoli di Vox Lei dice: «nausea». Io: «inquietudine».

La sinistra anti italiana ora vuole dare lezioni sulla Patria. Andrea Indini il 15 Dicembre 2021 su Il Giornale. La parola "patriota" manda in tilt la sinistra: "Usata come sinonimo di camerata". Poi l'anatema contro la Meloni: "Una così non va legittimata". Alla sinistra proprio non va giù. Tutta questa storia del patriottismo la manda ai matti. Non si capisce bene però se a farla andare in tilt sia Giorgia Meloni, che chiede un'ovvietà (ovvero un capo dello Stato che faccia gli interessi dell'Italia e non delle consorterie internazionali) oppure lo spauracchio del fascismo. Non appena sentono la parola "patria", i progressisti con lo status symbol dell'antifascismo militante scattano sull'attenti e lanciano l'allarme. E così succede che, nel rispondere a un lettore che a Repubblica racconta di aver "provato un discreto senso di nausea" nel sentire la Meloni pronunciare la parola "patriota", Francesco Merlo inviti la leader di Fratelli d'Italia ad "avere più pudore" a usare certa terminologia e poi, rispolverando dal passato "i picchiatori neri che organizzavano spedizioni punitive e agguati", gli Anni di Piombo, il terrorismo nero e il discorso di Giorgi Almirante in cui diceva che "il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro", confidi ai suoi lettori di provare "inquietudine" nei confronti di un partito che oggi ha per modelli il premier ungherese Viktor Orbàn e gli spagnoli di Vox.

Da sempre la sinistra se ne va in giro a dare patentini. Adesso vuole mettere bocca pure sul dizionario italiano e decidere cosa è patriottico e cosa non lo è, chi lo è e chi non lo è. Ovviamente, a detta sua, la Meloni e i suoi Fratelli d'Italia non lo sono. Ancora di più. La Meloni userebbe la parola "patriota" per camuffare un'altra parola che oggi non può più dire. Tra i sostenitori di questa idea assurda c'è anche Gad Lerner. "Meloni adopera la parola 'patriota' come sinonimo di 'camerata', cioè come distintivo retorico della sua comunità - ha scritto su Facebook nelle scorse ore - ma il nazionalismo oggi è solo un ferrovecchio riciclato". Anche il Fatto Quotidiano è della stessa idea: è "una rimarcatura amnesica di ciò che ha portato la nazione alla guerra civile", e cioè (sentenzia Daniela Ranieri) "camerata, eroe, martire, con echi da crociata pre-battaglia di Lepanto". Una forzatura spinta da una sfrenata ideologia che, come spiega anche Francesco Giubilei su questo giornale, finisce per equiparare il concetto di Patria al fascismo nonostante decenni di storiografia abbiano ampiamente mandato al macero questo tipo di approccio che risulta non solo limitativo ma del tutto errato.

Per anni bastava parlare o scrivere di Patria per essere tacciati di fascismo. L'egemonia della sinistra nelle scuole, nelle università e nei media aveva del tutto messo al bando un concetto che dovrebbe ispirare solo ideali alti. Erano in molti a sognare la bandiera rossa al posto del Tricolore o Bella ciao al posto dell'Inno di Mameli. Quel bieco retaggio ce lo trasciniamo ancora oggi nell'odio che i centri sociali riversano contro le forze armate e le forze dell'ordine. I muri imbrattati con l'immonda scritta "10, 100, 1000 Nassiriya" sono frutto dello stesso humus culturale. La destra ha faticato a lungo a far uscire l'intero Paese da questo pantano. Oggi, fortunatamente, la gente comune usa il termine patriota in modo giusto. E cioè, come spiega la stessa Treccani, per riferirsi a una "persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando o combattendo per essa".

Alla sinistra, purtroppo, ancora non va giù. E non soltanto il fatto che la Meloni si riappropri di una parola ("patriota" appunto) che per certi pasdaran può essere attribuita soltanto ai partigiani che fecero la Resistenza contro il fascismo. A farla imbufalire sono i vari Enrico Letta e Giuseppe Conte che vanno a parlare ad Atreju. "Cari frequentatori della festa di Atreju, giornalisti inclusi che sfilano magari sperando in un posto in Rai nella prossima tornata di nomine, ma veramente volete legittimare una così?", scriveva lunedì scorso il direttore del Domani, Stefano Feltri, pronunciando l'anatema che tutti gli altri si limitano a sottendere: la destra non va legittimata, deve "tornare nelle fogne" come invocavano negli anni Settanta. Ecco che ora è tutto chiaro. È chiaro che quanti vogliono mettere il bavaglio alla destra sono gli stessi anti italiani che provano "nausea" e "inquietudine" quando sentono la parola patriota.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore). Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Michela Marzano: «Mio nonno era fascista» Michela Marzano su L'Espresso il 5 ottobre 2021. Un viaggio alla ricerca delle origini. La vergogna per la scoperta di un avo fervido seguace di Mussolini. Un romanzo che si interroga sul diritto e la libertà di raccontare. E il rispetto della verità storica.

Iscritto al P.N.F. il: 15/5/1919

Nonno, che ci facevi tra quei disperati che seguirono Mussolini sin dall’inizio? Me lo domando in maniera ossessiva. Con chi ce l’avevi? Sono giorni che non penso ad altro. Non poteva essere semplicemente per via della guerra o di quello che avevi vissuto al fronte, vero? Dovevi per forza avercela con qualcuno, non poteva essere altrimenti, solo chi covava dentro di sé una rabbia cieca poteva lasciarsi subito coinvolgere dai discorsi folli del Duce, no? Mi ostino. Erano la voglia di riscatto sociale e l’insoddisfazione? Perdo la pazienza. Era l’ambizione? Non riesco ad andare avanti nella scrittura. Ogni sera accendo il computer, apro il file “lamiastoria”, rileggo quello che ho scritto, cambio una virgola, una parola, una frase. Poi guardo di nuovo le foto della tessera del pnf, rileggo per l’ennesima volta la data di iscrizione, mi blocco. Quand’ero a Roma, ho chiesto a mio padre se avesse per caso conservato documenti e carte familiari degli anni Venti e Trenta, ma a quanto pare no, non ha nulla: niente lettere, niente foto, niente ricordi. Il passare del tempo sembra aver cancellato ogni traccia di quel periodo. E, anche se a me pare inconcepibile che papà non abbia mai cercato di indagare sul passato di suo padre, devo rassegnarmi all’idea che non lo fece. Mi ostino a riaprire il file che troneggia al centro della scrivania del mio Mac, ma non riesco più a scrivere. Sono paralizzata. «Inventa», mi dice Jacques. «Immagina, crea, racconta. Non stai scrivendo un libro di storia, stai scrivendo un romanzo». «È la mia storia, Jacques. È il passato della mia famiglia. A me interessa la verità, altrimenti che senso ha parlare di mio nonno?». Quando gli ho annunciato che volevo raccontare la storia della mia famiglia, ha detto che non gli sembrava affatto una buona idea. Ha detto che non capiva che cosa io cercassi esattamente di provare o comprendere. Ha detto: «Hai deciso di trovare il modo di farti del male anche quando scrivi? E poi, non sei tu la prima a sostenere che tra la verità storica e la verità narrativa c’è un abisso?». È vero, è così che gli ho detto quando ho provato a spiegargli il perché di questo libro: è soprattutto quando si racconta la propria storia che si inventa. Gli ho detto che il passato si muove e cambia di continuo, esattamente come il presente. Gli ho detto: «Sarà solo la mia versione dei fatti, niente a che vedere con ciò che, forse, è accaduto davvero!». Anni fa, per alcuni mesi, avevo accarezzato l’idea di scrivere un romanzo ispirato alla vita di Simone Touseau, la tondue de Chartres, una delle tante donne che, al momento della liberazione, vennero accusate in Francia di “collaborazione orizzontale”. E per questo rasate, incatramate, talvolta persino marchiate a fuoco sulla fronte con una svastica. Il 16 agosto 1944, Simone ha ventitré anni. Una foto ormai celebre di Robert Capa la ritrae con in braccio Catherine, la figlia di pochi mesi, circondata da una folla di uomini, donne e bambini che la scherniscono, urlano, ridono, lanciano pietre. Chi era davvero questa donna? Che fine ha fatto sua figlia? Cosa le è stato raccontato e cosa invece non le è mai stato detto? Avevo pensato che sarebbe stato bello raccontare di come Simone si lasciò pian piano morire, tra alcolismo e depressione, negando fino all’ultimo le accuse rivolte contro di lei: sì, aveva avuto una storia con Erich Göz, il padre di sua figlia; sì, aveva amato profondamente un nazista; sì, di quei giorni passati con lui non rinnegava nulla; ma la patria non l’aveva tradita, questo mai! E non fu lei a denunciare i vicini di casa come le venne invece rinfacciato, come avrebbe potuto denunciare i genitori delle sue amiche? Mi ero detta che mi sarebbe piaciuto far parlare in prima persona sua figlia, Catherine, la quale – dicono gli storici – a un certo punto decise di mettere un punto e andare a capo, senza mai parlare ai propri figli di sua madre. Avevo iniziato le ricerche, ero andata negli archivi, avevo preso appunti. Poi avevo deciso che non potevo: non avevo il diritto di raccontare questa vicenda. Anche se avessi cambiato i nomi e inventato un racconto tutto mio, ispirandomi alla storia di due donne realmente esistite, correvo il rischio di infangarne la memoria. Chi scrive lo sa bene che con i romanzi si fanno sempre i conti con se stessi, ci si imbatte nei propri fantasmi, si proiettano le proprie ansie e le proprie vergogne; ma che diritto abbiamo, per farlo, di ispirarci alla vita di chi, non essendoci più, non potrà mai dare la propria versione dei fatti? E mio nonno, allora? Dov’è la sua versione dei fatti? Chi potrà difenderne la memoria, se la nipote l’infanga? Perché penso di avere il diritto di raccontare la sua storia se sono convinta di non avere quello di narrare la storia di Simone Touseau? Che differenza c’è? Che cosa immaginavo quando ho iniziato a scrivere le prime pagine di questo libro? Che avrei potuto incastrare tra loro i vari pezzi del puzzle, via via che li rintracciavo, falsificandone magari qualcuno? Chi mi ha dato l’autorizzazione? Oppure volevo assolvere me stessa condannando i miei antenati? Forse mi illudevo di poter capire perché non avessi mai avuto figli attraverso la ricostruzione del mio passato. Sono queste le giustificazioni che mi sono data? 

Iscritto al P.N.F. il: 15/5/1919

Quel “15 maggio 1919” stampigliato sulla tessera mi sembra la prova evidente della colpevolezza di mio nonno. Parlando di lui, non posso utilizzare quelle attenuanti cui talvolta ci si appella per giustificare il passato fascista dei propri nonni o dei propri zii: a un certo punto, in Italia, quasi tutti lo divennero; ma tanti erano brave persone, non aderivano a tutto quello che diceva o faceva Mussolini; solo alcuni esagitati erano violenti, gli altri no, seguivano, si adattavano, non era come in Germania, vuoi mettere il fascismo con il nazismo? Parlando di mio nonno, non sembra esserci alcuna attenuante – che poi, di che genere di attenuanti stiamo parlando? Perché dovrebbe considerarsi meno grave essere diventati fascisti pian piano, seguendo gli altri o adeguandosi? E i resistenti? E i partigiani? E chi si oppose al regime perdendo tutto? Chi partì in esilio o venne ucciso? “Mostro”: è la parola che più ricorre negli appunti che ho preso negli ultimi giorni, nei commenti a margine di qualche documento. L’ho scritto in rosso, sulla copia stampata delle foto della tessera del pnf. È in nero, tutto in stampatello, sulla fotocopia dello stenografico della seduta del 26 novembre 1953 alla Camera dei deputati, quando mio nonno interviene in aula e, parlando delle «leggi eccezionali contro il fascismo», le definisce «aberranti». È di nuovo in rosso, sulle pagine in cui, accanto alla colonna con la cronologia del fascismo, anno dopo anno e mese per mese, annoto le tappe della sua carriera, le promozioni all’interno della magistratura, le onorificenze dell’Ordine della Corona e dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Mio nonno doveva essere un mostro. Ma è davvero questo che cerco di dimostrare? È questo che mi interessa? Dov’è che la parola continua a incastrarsi?

Mio nonno era un fascista ma non è (mai stata) colpa mia. Michela Marzano racconta di aver trovato nella casa di famiglia una teca di cimeli del Ventennio. Tracce di un passato squadrista di cui non sapeva e su cui fa luce sfidando la sua vergogna. Nadia Terranova su La Stampa il 2 Ottobre 2021. «Pensate che il passato, solo perché è già stato, sia compiuto e immutabile? Ah, no, il suo abito è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi»: questa frase di Milan Kundera mi è rimasta talmente impressa dalle letture dell’adolescenza da averla sottolineata, citata e ricopiata infinite volte. Sento un riconoscimento, quindi, trovando subito nel nuovo libro di Michela Marzano un esergo di Blaise Cendrars che ne è un’altra declinazione: «Il passato, come il presente, è in continuo movimento, e tutto ciò che ha vissuto vive ancora: cambia, muta, si sposta, si trasforma; la verità contraddice se stessa cento volte al giorno».

Cara figlia mia, non vergognarti di un papà fascista. Marcello Veneziani il 7 Febbraio 2014 su Il Giornale. Ritrovo una lettera che scrissi a mia figlia tredicenne, la dedico a Daria Bignardi che ha chiesto al grillino Di Battista se si vergogna di suo padre "fascista".

Ritrovo una lettera che scrissi a mia figlia tredicenne, la dedico a Daria Bignardi che ha chiesto al grillino Di Battista se si vergogna di suo padre «fascista».

«Cara Federica, sei tornata da scuola sconcertata perché la professoressa d'italiano ti ha chiamato in disparte e ti ha detto: hanno scoperto che sei la figlia di..., ne hanno parlato in consiglio d'istituto. Te la faranno pagare. Qui sono tutti dell'altra parrocchia. E l'anno prossimo che vai al liceo, mi raccomando, se ti chiedono se sei figlia di... nega, dì che è un caso di omonimia. Ti possono fare del male. Non dire ai professori né ai compagni di scuola chi è tuo padre... Cara Federica, non so se la tua professoressa abbia esagerato, soffra di mania di persecuzione oppure no. A me sembra impossibile che succedano oggi queste cose. Mi sembra impossibile che in una società liberale e indifferente, cinica e buonista, aperta a ogni diversità, che non crede praticamente in niente, ci sia qualcuno che crede ancora all'esistenza del diavolo di destra. Un male per giunta genetico, razziale, ereditario, se ricade su di te, ignara tredicenne, solo perché sei mia figlia.

Mi hai raccontato che un gruppo di tuoi compagni di scuola ti ha accolto una volta con canti e slogan antifascisti. E mi hai raccontato di un amico che è venuto a trovarti a casa e si è meravigliato di trovare così tanti libri in casa di un fascista, e per giunta molti libri su Che Guevara. Non conosceva gli altri autori, ma ce ne sono tanti di tanti diversi orientamenti. Ma a loro avevano raccontato che i fascisti leggono solo le massime di Hitler e in casa non hanno libri, solo manganelli. Per fortuna non hanno scoperto che tuo fratello è nato lo stesso giorno di Mussolini, un segno evidente di neo-fascismo ereditario.

No, Federica, non credere alla tua professoressa e nemmeno ai tuoi compagni. Non devi nascondere di essere mia figlia. Non devi vergognarti di tuo padre. Non solo perché non ci si vergogna mai dei propri padri, dei loro limiti, dei loro errori e della loro povertà. Ma anche perché non hai nulla di cui vergognarti. Devi sapere, Federica, che sarebbe stato assai tanto più facile per tuo padre professare altre idee. Avrebbe avuto la vita più facile se avesse scelto la via opposta. All'università, nei giornali, sui libri, nella vita.

Oggi a te chiedono di buttarla sull'omonimia; ieri a lui, e non solo a lui, chiedevano di firmare gli articoli con lo pseudonimo. Eppure tuo padre non ha mai ucciso, picchiato e minacciato nessuno. Non ha mai impedito a nessuno di esprimere le sue idee. Non ha mai derubato, corrotto e truffato nessuno, semmai ne è stato vittima. Non ha mai discriminato e rifiutato il dialogo con nessuno. Non ha nemmeno solo teorizzato di eliminare gli avversari né ha mai sottoscritto manifesti di cui debba vergognarsi. Non ha cambiato casacca, e nutre le stesse idee che aveva da ragazzo. Non è rimasto imbalsamato ma non è pentito di nulla, non ha dovuto rimangiarsi nulla e si professa di destra, per quel che può valere, oggi come allora.

Tuo padre ha creduto in idee che tu potrai liberamente accogliere o rifiutare, ma che hai il dovere di rispettare: perché sono idee e non mazzate, sono pensieri scontati sulla propria pelle e non su quella altrui. Un giorno capirai che l'amore aspro per la libertà, anche trasgressiva, era più dalla parte di tuo padre, il fascista, che dei suoi censori. Che gli negavano la libertà d'opinione nel nome della stessa. Alcuni lo fanno ancora adesso. No, Federica, non dire che è un caso di omonimia. Non ti chiedo di essere orgogliosa di tuo padre, ma di non nascondere le tue origini. Oltretutto un po' mi somigli, anche se la cosa ti fa inorridire. Non ci si deve vergognare dei propri padri».

P.s. Smettetela di tirare in ballo per ogni fesseria e per ogni torto subìto fascismi, dittature, colpi di stato. Non confondete miserabili farse con tragiche grandezze e meschine intolleranze con l'avvento di regimi dispotici. Abbiate rispetto per la storia, per chi la fece e per chi la patì. E la Bignardi si ricordi, essere figli di fascisti non è una scelta, mentre diventare nuore di Sofri sì. E poi, al di là di quel che dite, essere fascisti non è un crimine, uccidere un commissario di polizia invece sì.

Marcello Veneziani 

Veneziani, la lettrice e quella storia di dolcezza e morte che viene da lontano: "Quando la bellezza mi salvò dai partigiani". Marcello Veneziani il 9 Luglio 2021 su Il Giornale. Il racconto: "Stringe tra le mani una copia del Giornale come segno di riconoscimento, sono un'ex profuga giuliana. Ho visto le torture e le esecuzioni, eravamo condannati anche io e la mia famiglia, tante ragazze non tornarono a casa. Ma poi capitò che..." Vorrei raccontarvi una storia dolce e cruenta, tragica e lieve. Ma soprattutto vera. Giorni fa mi ha telefonato un' anziana signora, fedele lettrice del Giornale; si è presentata come profuga giuliana e ha chiesto di incontrarmi perché voleva darmi dei documenti sulla guerra civile del '45. Ha chiesto d'incontrarmi di mattina, perché così sarebbe sfuggita al controllo di figli e nipoti, mi ha detto col tono complice di un'adolescente. Ci siamo incontrati in un caffè. Stringeva tra le mani il Giornale, come un segno di riconoscimento e forse di riconoscenza, e tradiva una cordiale emozione, trattenuta al garbo di una stagionata educazione. Mi ha subito raccontato la storia che le gonfiava il cuore. Si era sposata assai giovane e suo marito, istriano, era morto combattendo in Africa nel '42, lasciandola vedova precoce con un bambino. Nel 1945 vennero a prenderla da casa i partigiani comunisti, con l'accusa di aver rifiutato di falsificare carte d'identità e carte annonarie dei gappisti. Non si era rifiutata per ragioni politiche, mi dice fissandomi con i suoi occhi di cielo, ma perché era stata educata a rispettare la legge. Suo fratello era morto da pilota della Repubblica sociale, a ventidue anni. Quando i partigiani se la portarono via, finse allegria per non impressionare il suo bambino che aveva poco più di otto anni. Se ne andò ridendo, quasi partisse per una scampagnata. Fu chiusa in una casa assieme a sua sorella e ad altre ragazze, accusate di essere le morose di alcuni soldati repubblichini. Sa, erano bei giovanotti in divisa, mi sussurra, che c'entra il fascismo. Al piano di sotto erano invece detenuti i ragazzi, in larga parte repubblichini. La sera sentiva gridare per le torture, mi dice mentre le sue mani tremano e il suo cappuccino deborda dalla tazza. Anche le sue compagne di stanza subivano sevizie: bruciavano loro i capezzoli con la candela e altro... In quei giorni arrestarono pure suo padre e avevano deciso di giustiziarlo: sa, era un borghese, era un imprenditore. Il suo bambino in bicicletta portava da mangiare a sua madre, a sua zia, a suo nonno in prigione. Neanche nove anni e una famiglia a carico... Ma a lei non fu torto un capello e a suo padre fu risparmiata la vita. Andò bene perché il capo dei partigiani si era innamorato di lei. Quella volta ero carina, sa?. Mi colpisce l'espressione che usa e lo sguardo improvviso di giovinezza che l'accompagna. Invece rintraccio nel suo volto i segni superstiti di una vera bellezza. Civettando con lui, salvai la vita a mio padre. E a se stessa: le altre ragazze infatti non tornarono a casa. Mi dà una copia dell'ordine di scarcerazione dei Gap l'8 maggio del '45. È firmato con la stella a cinque punte e lo slogan «Morte al fascismo, Libertà ai popoli» dal Comandante e dal Commissario politico, il suo ammiratore, Giordano S. Persero tutto, la loro casa, le loro proprietà, la loro terra. Lasciarono il loro paese. Anni dopo tornarono nella loro terra e la trovarono abitata dagli slavi. Avevano costruito sul loro giardino otto palazzine ma avevano lasciato alcuni alberi. C'era ancora un albero di loti che avevano piantato lei e sua sorella, da ragazze. Lei cercò di cogliere un pomo dall'albero. Fu scoperta e allontanata con durezza dai nuovi proprietari. L'albero dell'adolescenza aveva ormai frutti proibiti. A volte si diventa ladri in casa propria, per amore proustiano del tempo perduto. Il suo racconto finisce con il suo cappuccino. Restano di entrambi le ultime tracce di schiuma sui bordi. In fondo non aveva documenti da darmi, nessuna grande storia da rivelare. Voleva in realtà solo raccontare la sua vita, la bellezza dei giorni che furono, il dolore per le vite strappate, il travaglio e l'esodo, la memoria solare di un albero di cachi del suo paradiso perduto. Voleva dire, c'ero anch'io, ho vissuto anch'io ai bordi della storia; voleva lasciare a qualcuno una traccia discreta dei suoi giorni remoti, prima che venga la sera. Ma mi pregava di non pubblicare il suo nome, non voglio comparire, non voglio creare problemi e imbarazzi ai miei nipoti... No, signora, non c'è bisogno del nome. Lei ha raccontato la storia di un'italiana, come tante, come tanti. Storie che nessun regista, nessuno scrittore mai racconterà, anche perché non furono vissute dalla parte giusta. Eppure ha ingentilito l'orrore con la piccola storia di una santa civetteria, che ha fatto riscoprire l'umanità anche nel furore. Quel che al gappista era apparso probabilmente un cedimento di cui vergognarsi, era stata forse la sua azione migliore. Lei non serbava odio; al più si notava negli occhi, nella voce e nelle mani tremanti un filo residuo di paura. Aveva voglia di raccontare una storia finita bene, una vita passata indenne tra le atrocità per un filo d'amore, o forse solo di sesso. Da queste pause, a volte, è addolcita la storia. La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij: forse non è vero, forse non questo mondo. Ma la bellezza salvò una ragazza e suo padre. Il Giornale, 1 dicembre 2000 Marcello Veneziani

Tutte le Destre d’Italia. Nicola Porro il 15 Agosto 2021 su Nicolaporro.it. Hanno svolto un grande lavoro Giuseppe Parlato e Andrea Ungari per l’editore Rubbettino, raccogliendo ne Le Destre nell’Italia del secondo Dopoguerra, le diverse esperienze politiche in cui si è dissolta la destra ottocentesca e prefascista. «All’indomani del collasso del regime fascista tutta quell’eredità proveniente dal pensiero cattolico tradizionalista, dal liberalismo conservatore di matrice sonniniana-salandrina e dalla multiforme esperienza del fascismo si disperse nelle tante destre politiche del secondo dopoguerra … alcune di esse riuscirono a riciclarsi, seppur in posizione minoritaria, nell’area della governabilità, come la destra Dc e il Pli, altre, come quella qualunquista, monarchica e missina restarono ai margini del sistema, scontando prima, l’esclusione dall’esarchia ciellenistica, poi, dall’arco costituzionale nella cosiddetta Prima repubblica». I capitoli di questa storia vanno dall’Uomo Qualunque ai monarchici, poi confluiti nel Msi. C’è spazio per Guareschi, per la parabola del Borghese e i progetti della Grande Destra fino alla crisi del governo Tambroni. Forse si sarebbe potuto approfondire di più il fenomeno montanelliano, sia pure spesso citato, e della nascita del Giornale, così come l’humus da cui nacquero la maggioranza silenziosa e la marcia dei quarantamila. Ma in effetti saremmo forse usciti dal seminato, che poi alla fine è la storia della destra organizzata in partiti e movimenti. Ecco perché forse uno dei capitoli più interessanti risulta essere quello che riguarda l’evoluzione del Movimento sociale da Almirante a Fini, dal gigante custode della tradizione post fascista, al suo delfino che ha traghettato quel simbolo e quel movimento sulle sponde della liberal-democrazia. Almeno ci ha provato. Cosa difficile per la storia di quel partito, e per la sua classe dirigente, che a parte Fisichella e pochi altri, da quelle radici proveniva. La storia di quella evoluzione si nutre di tre passaggi fondamentali, scrive bene Andrea Ungari. La leadership di Fini fortemente voluta da Almirante contro una buona parte del suo establishment; lo sdoganamento a opera del presidente Cossiga e infine la candidatura a Roma e l’endorsement di un antifascista dichiarato come Silvio Berlusconi. Eppure «il passaggio da Msi ad An avvenne con troppa celerità, ciò impedì una seria riflessione sia sulle origini del Msi sia sul ruolo che tale partito avrebbe dovuto svolgere in futuro. E tale mancanza di riflessione va indubbiamente ascritta a Fini e alla sua classe dirigente… di fronte al successo elettorale si pensò ad An più come una tattica che come una strategia». Considerazioni che in fondo si possono porre anche oggi, con protagonisti mutati, ma con radici simili. Fratelli d’Italia di fronte al consenso di questi mesi (certificato dai sondaggi, ma non dalle urne) ha ben compreso la sua anima? Nicola Porro, Il Giornale 8 agosto 2021

Enea Conti per corriere.it il 21 maggio 2021. Riapre a sorpresa la cripta Mussolini al cimitero di San Cassiano di Predappio. Con un preavviso di tre giorni la decisione è stata comunicata da alcuni familiari, Orsola e Vittoria Mussolini, che non avrebbero espresso l’intenzione di organizzare manifestazioni pubbliche nella giornata di domenica, quando dopo anni saranno riaperti i cancelli. Non è previsto, almeno sulla carta, alcun pellegrinaggio di nostalgici neofascisti. La cripta in cui sono conservati i resti di Benito Mussolini era stata chiusa per lavori di restauro nel 2017. I lavori terminarono alla fine del 2018 ma fino ad oggi i familiari avevano scelto di tenerla chiusa al pubblico. Per la cronaca l’accesso era stato consentito nelle giornate del 28 aprile e del 27 ottobre, quando centinaia di nostalgici con tanto di camicia nera e fez arrivano a Predappio da tutta Italia in concomitanza, rispettivamente dell’anniversario della morte del dittatore e di quello della marcia su Roma.

Clima tranquillo. Il sindaco Roberto Canali si augura «che non ci siano in futuro disordini e regnino il massimo rispetto e la massima educazione ma sono fiducioso non credo ci siano rischi». Miro Gori di Anpi spiega che «eravamo e siamo contrari a un mausoleo, ma non lo possiamo essere verso una tomba». Nell’aprile del 2019, quando era in visita a Predappio Alessandra Mussolini per sostenere la campagna elettorale dell’attuale sindaco Roberto Canali aveva dichiarato di essere “orgogliosa, di questa cripta restaurata e messa nuovo, con un sistema di sicurezza a tutela di chi vi accederà in futuro – spiegava – perché presto, molto presto, verrà definitivamente riaperta”. Poi il covid rimandò tutto fino alla prossima domenica.

Polemiche sul custode. Alcune polemiche – poi sfumate- erano divampate anni fa quando la famiglia Mussolini chiese l’intervento del Comune per il restauro della cripta. Non se ne fece più nulla, la riqualificazione dell’edificio è stata sostenuta economicamente - circa 100.000 - proprio dalla fondazione Alleanza Nazionale. La scorsa estate un’altra polemica aveva anticipato l’apertura della cripta. I familiari avevano espresso tramite il loro legale la richiesta al Comune di sorvegliare l’edificio di un custode. Anche in questo caso non se ne fece nulla.

Marco Bilancioni per ilrestodelcarlino.it il 23 maggio 2021. La cripta di Benito Mussolini è stata riaperta. Il primo visitatore, un predappiese, è arrivato pochi minuti prima delle 8.30. Sul posto, le sorelle Orsola e Vittoria Mussolini, pronipoti di Benito (il loro nonno era Vittorio, il primogenito maschio del duce), che raccontano la loro "grande emozione" per una giornata che definiscono "un punto di partenza". Nella giornata di sabato hanno fatto riaprire la cappella di famiglia (quella in cui sono sepolti non solo il duce ma anche la moglie Rachele e molti altri) da un fabbro, sotto gli occhi dei carabinieri di Predappio: "Ci hanno detto che abbiamo fatto qualcosa di gravissimo, riaprendo senza un'intesa con gli altri eredi. Loro hanno fatto qualcosa di più grave, cambiando la serratura senza dircelo". Orsola ha anche formalizzato una denuncia contro gli altri familiari. "Ritirarla? No comment". Davanti alla cripta, nel cimitero di San Cassiano, Orsola comincia a spiegare la sua posizione. Si vede bene che sorride, nonostante la mascherina, nera come tutto l'abito. "La cripta è a norma. I lavori sono finiti nel 2018, anzi casomai ci sarà l'intonaco da riprendere. D'altronde stando sempre chiusa... Quando la famiglia ha deciso di non riaprirla alla fine del restauro, nessuno l'ha condiviso con noi. Ora, dopo che abbiamo dato uno scossone, hanno detto che riapriranno in estate. Vi possiamo assicurare che fino all'altro giorno non c'era questa ipotesi. Abbiamo risposte scritte". Lo scontro nella famiglia Mussolini è fortissimo. "Hanno detto che abbiamo dato le chiavi a sconosciuti. Le abbiamo lasciate a una persona di Predappio. E comunque avrebbero dovuto dirci che cambiavano la serratura e darci la possibilità di accedere. Sabato siamo arrivati qui e ci è stato impedito di omaggiare i nostri cari. Ma eravamo pronte a tutto quello che è successo". Secondo le pronipoti del duce, non ci sono impedimenti alla riapertura stabile, come era prima del 2017: "La sicurezza? Abbiamo fatto noi un'assicurazione che copre qualunque infortunio dentro la cripta, premesso che non è mai successo. Abbiamo un preventivo per le telecamere. Si scende 4 per volta al massimo in rispetto alle disposizioni anti-Covid". Una mediazione non è stata possibile. "Ci hanno detto di aprire oggi e richiudere domani. I loro tempi non sono i nostri". Lo chiosa evidenzia plasticamente la frattura: "Noi facciamo, loro hanno solo parlato". Eppure ci sarebbero alcuni punti in comune: "Anche noi vogliamo che si crei un'associazione per la gestione. Ma non ci sono riusciti in due anni, non potevano riuscirci adesso. Ora forse sì, dopo lo scossone che abbiamo dato... Per noi c'è un'unica condizione: si può fare tutto questo mentre la cripta è aperta". Servirà un custode fisso? "Aumentano i costi ma si può fare, noi ci staremmo". Ultima chiosa sul paese, Predappio: "Ciò che facciamo è importante anche per le attività economiche. Anche noi siamo partite Iva, gestiamo un negozio di ottica, anche noi abbiamo sofferto durante la pandemia".

Predappio, aperta (dal fabbro) la cripta Mussolini. Continua la battaglia tra gli eredi: questione anche di soldi. La Repubblica il 23 maggio 2021. Le pronipoti Vittoria e Orsola hanno trovato la serratura cambiata e hanno chiamato i carabinieri. Il business dei nostalgici. Non c'è pace per la cripta Mussolini. Spesso in mezzo alle polemiche per i raduni dei nostalgici, che si ritrovano ogni anno al cimitero di Predappio per commemorare nascita e morte del Duce e l'anniversario della marcia su Roma, ora la sua riapertura è al centro di una lite tra i discendenti, che non accenna a placarsi. Prima sembrava dovesse riaprire in modo permanente e non solo per le ricorrenze, come non succedeva dal 2017 quando erano iniziati alcuni lavori di ristrutturazione e come avevano annunciato nei giorni scorsi le pronipoti Orsola e Vittoria, figlie di Guido e nipoti di Vittorio, primogenito maschio del Duce. Poi ieri è arrivato lo stop da parte di altri parenti, con una nota firmata genericamente "famiglia Mussolini". In serata, un ulteriore strappo. Orsola e Vittoria sono arrivate al campo santo di San Cassiano e hanno scoperto che era stata sostituita la serratura della porta d'accesso alla cripta. Come riferito dal Resto del Carlino, hanno quindi chiamato i carabinieri, hanno presentato denuncia per la sostituzione, che ritengono illegittima, della serratura, e un fabbro che ha provveduto a ripristinare l'ingresso. Da questa mattina sono riprese le visite: alcune decine di persone, fra cui due comitive organizzate arrivate da fuori Romagna. A gestire l'accesso alla tomba un servizio d'ordine fatto da volontari e questo sembra essere l'intento organizzativo delle due pronipoti anche per il futuro. Dall'altra parte, però, ci sono altri eredi anche se non tutti finora hanno preso posizione. Tra chi ha condiviso il comunicato che sconfessava Orsola e Vittoria c'è Rachele, figlia di Romano e Caio Giulio Cesare, fratello delle prime due. "Orsola e Vittoria Mussolini - avevano scritto - non sono titolate ad effettuare nessun annuncio pubblico riguardante la Cripta senza la preventiva discussione e nulla osta da parte della maggioranza della famiglia. Purtroppo il loro poco provvido annuncio ha generato confusione e false aspettative. Ci rammarichiamo per questi inconvenienti. E' obiettivo di tutti i famigliari riaprire la Cripta, e a tal proposito stiamo concordando come poter gestire al meglio, in sicurezza e con buon senso la riapertura al pubblico a partire da questa estate". Si è formalizzato dunque un forte contrasto fra i discendenti Mussolini, con una eventuale non facile risoluzione per riconoscere a chi fra di loro spetti la preminenza decisionale sulla gestione del luogo. Sulla questione pende anche l'evidente volontà di parte dei famigliari di arrivare, magari tramite un'apposita fondazione, a un accordo con l'amministrazione comunale sulla gestione degli accessi, della sicurezza, dei costi di mantenimento della struttura e, eventualmente, sulla ricaduta economica provocata a Predappio e dintorni dalla presenza dei visitatori. Il sindaco Roberto Canali, eletto con il centrodestra in una roccaforte della sinistra, ha ribadito anche oggi all'Ansa che è una questione familiare e non sta al Comune mediare tra gli eredi.

Paolo Berizzi per la Repubblica il 28 aprile 2021. Occupa il primo spazio in alto a destra in una delle pagine dei necrologi e delle lettere. Sotto la scritta “anniversario”, eccola, la foto del duce. “S.E. Cav. Benito Mussolini. 28-04-1945 28-04-2021. Sempre in noi presente”. L’annuncio è apparso oggi sul Giornale di Vicenza: una triste consuetudine che va avanti da anni e con la quale i camerati manifestano il loro omaggio a Mussolini nell’anniversario della morte. Un appuntamento che continua a provocare polemiche e che, come vedremo, ha avuto anche risvolti giudiziari. Chi sono gli inserzionisti che hanno acquistato lo spazio sul quotidiano locale vicentino lo si vede dal messaggio che campeggia sotto la foto ritratto del duce. “Continuità Ideale R.S.I. e Fam. Caduti e Dispersi RSI ti ricorderanno con la recita del S.Rosario”. L’appuntamento – è scritto – è per domani (28 aprile, ndr): “Ci ritroveremo alle ore 19 nello spazio antistante la chiesa del cimitero Maggiore di Vicenza”. Ed è proprio il rosario per Mussolini il punto: due anni fa, dopo che le due solite associazioni avevano pubblicato il necrologio, e dopo il rosario celebrato sul sagrato del cimitero, la procura di Vicenza, su segnalazione della Digos e dell’Anpi, aprì un’inchiesta. Sette persone furono indagate per apologia di fascismo (violazione della legge Mancino): alcuni personaggi storici dell’estrema destra vicentina e un 72enne di Genova. Occupa il primo spazio in alto a destra in una delle pagine dei necrologi e delle lettere. Sotto la scritta “anniversario”, eccola, la foto del duce. “S.E. Cav. Benito Mussolini. 28-04-1945 28-04-2021. Sempre in noi presente”. L’annuncio è apparso oggi sul Giornale di Vicenza: una triste consuetudine che va avanti da anni e con la quale i camerati manifestano il loro omaggio a Mussolini nell’anniversario della morte. Un appuntamento che continua a provocare polemiche e che, come vedremo, ha avuto anche risvolti giudiziari. Chi sono gli inserzionisti che hanno acquistato lo spazio sul quotidiano locale vicentino lo si vede dal messaggio che campeggia sotto la foto ritratto del duce. “Continuità Ideale R.S.I. e Fam. Caduti e Dispersi RSI ti ricorderanno con la recita del S.Rosario”. L’appuntamento – è scritto – è per domani (28 aprile, ndr): “Ci ritroveremo alle ore 19 nello spazio antistante la chiesa del cimitero Maggiore di Vicenza”. Ed è proprio il rosario per Mussolini il punto: due anni fa, dopo che le due solite associazioni avevano pubblicato il necrologio, e dopo il rosario celebrato sul sagrato del cimitero, la procura di Vicenza, su segnalazione della Digos e dell’Anpi, aprì un’inchiesta. Sette persone furono indagate per apologia di fascismo (violazione della legge Mancino): alcuni personaggi storici dell’estrema destra vicentina e un 72enne di Genova. L’Anpi, in quell’occasione, si costituì parte civile davanti al giudice per il risarcimento. Adesso, in occasione dei 76 anni della morte del duce, il copione potrebbe ripetersi. Chi e come domani si presenterà fuori dalla chiesa è solo ipotizzabile. Ma una cosa è certa: “Il ricordo di Mussolini continua a far discutere, dentro e fuori i tribunali”. L’Anpi chiede che venga messa fine a una triste e vergognosa consuetudine, perché “l’apologia di fascismo e perché la tradizione partigiana e resistente di Vicenza non può più essere sfregiata da questo lugubre rito”. Alle proteste si associa Sandro Pupillo, consigliere comunale di centrosinistra: “Una vergogna non più tollerabile, un’offesa che arriva pochi giorni dopo il 25 aprile, festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo”. Da Bruxelles interviene anche l’eurodeputata Pd Alessandra Moretti: “Basta parate fasciste, basta ricordare e celebrare il passato più cupo e drammatico del nostro Paese”. Il Comitato di Redazione del giornale mercoledì ha pubblicato una nota: "Noi giornalisti del Giornale di Vicenza non abbiamo nulla a che fare con quella sezione del giornale", riferendosi alla pagina dei necrologi. "Si tratta di decisioni dalle quali ci dissociamo".

Edda Mussolini: «Papà Benito? Un debole di animo crudele, l’ho odiato». Gino De Sanctis il 28 marzo 2021 su Il Corriere della Sera. Pubblichiamo, per la serie di «7» dedicata alle firme storiche del Corriere della Sera, questo articolo del giornalista Gino De Sanctis uscito sul quotidiano di via Solferino il 12 luglio 1946. De Sanctis, scrittore, giornalista e sceneggiatore, conosciuto anche come Luigi De Santis, nacque a Lecce nel 1912 e morì a Roma nel 2001, a 88 anni. Nel 1967 vinse il Premio Selezione Campiello con il romanzo Il minimo d’ombra. Scrisse sul (all’epoca edizione pomeridiana del Corriere della Sera) nel 1946 e nel biennio 1958-59. Alla fine della scorsa estate, dopo aver partecipato alla guerra di liberazione, avevo ripreso la mia professione di giornalista e m’ero recato in Sicilia per un’inchiesta sul separatismo. Passando da Milazzo, in vista delle isole Lipari, pensai di andare a trovare Edda, colà confinata per provvedimento preventivo di polizia. Edda abitava una casetta a un piano, alla periferia dell’abitato. Dinanzi alla casa s’apriva un vigneto delimitato da un basso muro a secco. Sul muro sedeva, mortalmente annoiato, un agente di polizia in borghese. Edda venne ad aprire: «Mi fa tanto piacere vedere qualcuno - mi disse, invitandomi nella camera di soggiorno -. Tranne quei giornalisti che mi son capitati qualche giorno fa, qui non si vede mai nessuno».

Questo articolo del 1946 è tratto dall’Archivio del Corriere della Sera.

Riaprire gli occhi. Edda non era cambiata da qualche anno prima, forse un po’ più magra, un po’ più pallida e gli occhi parevan ancor più smarriti. Un giornalista aveva notato che il suo sguardo era quello della paura. Forse era vero: ma non era paura dell’avvenire, era paura del passato. Nello stesso tempo, per tutto il viso correva come una volontà di dominarsi. Il discorso si teneva sulle generali. «Ha notizie dei suoi figli, di sua madre?». «Non mi parlate di mia madre. Non posso ricordarla senza astio. Era giunta a odiare Galeazzo e credo che abbia avuto la sua colpa nella morte di lui. I figli sono in Svizzera: li misi al sicuro dopo l’8 settembre. Per fortuna riuscii a portare in Svizzera i miei gioielli. Li ho lasciati lassù ed ora servono a pagare le rette del collegio. La loro lontananza è la vera pena di questo esilio. Per il resto non mi lamento, sebbene non capisca perché mi tengano qui. L’ho scritto a Nenni che mi conosceva da bambina: non ho scontato abbastanza, con la tragedia familiare, le corresponsabilità nel regime? Mi si risponde che il confino è preventivo, che è per la mia incolumità personale».

«L’avevo tanto amato». «Quali sono oggi i sentimenti verso suo padre?». «Io l’ho odiato, l’ho odiato mortalmente. Ma ora il tempo passa e non posso non ricordarmi di lui, di tutta la nostra vita in comune. L’avevo tanto amato e tanto ammirato. L’avevo conosciuto, io sola tra i figli, al tempo della miseria oltre che al tempo della gloria. Se tanti Italiani hanno creduto in lui, potevo non crederci proprio io? L’avevo creduto un forte, un superuomo». «Lei ha sempre vagheggiato questo ideale nietzschiano». «È vero. Credevo che mio padre fosse il superuomo. Ora capisco che era un debole, senza carattere. E poi aveva qualcosa nell’animo che io non riesco a giudicare. Con me è stato crudele: mi ha promesso due volte solennemente che avrebbe salvato Galeazzo. Invece l’ha fatto uccidere, l’ha fatto uccidere lui. E Galeazzo era innocente. Galeazzo, il 25 luglio, aveva usato di un suo diritto legale ed aveva cercato di salvare l’Italia dall’estrema sventura».

«Faceva molto comodo ai padroni». «Che poteva suo padre dinanzi al potere tedesco?». «Tutto. Poteva farsi uccidere piuttosto che firmare la sentenza con cui si uccideva mio marito, il padre dei suoi nipoti. Era un fantoccio in mani tedesche, ma un fantoccio che faceva molto comodo ai padroni. Aveva ancora il suo peso». «Suo padre aveva ormai fatto il callo a firmare le pene di morte. Quanti innocenti sono caduti in questi anni!». Poi cambiò discorso: «Adesso mi sembra che ci sia il caos. Quanti partiti ci sono? Cinquantadue?». «I partiti, contati anche quelli ridicoli, sono forse più di cinquantadue - risposi - ma la colpa è del fascismo, è della guerra fascista. Non è possibile che una Nazione si rimetta in piedi dal giorno alla notte dopo un terremoto simile. Non è possibile che ci si abitui d’improvviso alla democrazia, dopo tanti anni di dittatura». «Bene, bene. Staremo a vedere questa democrazia» disse Edda, ma aveva l’aria scettica. «Ma lei - incalzai, infervorandomi - ha sentito che cosa tutti hanno sofferto con questa maledetta guerra, con questa guerra civile? Ha sentito lei le crudeltà senza nome che sono state commesse in nome del fascismo?». «Ho sentito tutto. Ma non ci saranno forse esagerazioni?». Mi adirai. «Posso essere testimone io, e come me migliaia di altri. Io ho risalito con gli alleati tutta l’Italia, da Salerno a Milano, ed ho visto con i miei occhi le camere di tortura, gli uccisi, i seviziati, gli impiccati. Ho visto i paesi distrutti dai Tedeschi con la dinamite, le famiglie decimate, i ghetti spopolati dai Tedeschi e dai fascisti». Poi parlammo d’altro. Smentì le voci del suo nuovo matrimonio col marchese Pucci, lo definì ridicolo. Tornò serena, riuscì di nuovo ad assumere un atteggiamento superficiale, quasi frivolo. «Ora - disse - la ruota della fortuna ha girato velocemente. Come sono stata sciocca a credere nelle stelle. Le stelle le abbiamo dentro di noi e sono le nostre responsabilità». L’altro giorno Edda, per effetto dell’amnistia, liberata dal confino, ha lasciato Lipari.

Giorgio Almirante. Giuliana de’ Medici racconta il padre Giorgio Almirante. E sfata anche la “leggenda” su Fini. Redazione De Il Secolo d'Italia lunedì 6 Settembre 2021. Il padre amorevole e il leader politico osannato; le piazze missine e il rapporto con gli avversari; l’adesione giovanile al fascismo e il convinto percorso democratico. E poi, ancora, gli anni di Piombo, vissuti con l’angoscia per i propri ragazzi; la disciplina di partito, che lo portò a schierarsi contro il divorzio anche se era a favore; il rapporto con Donna Assunta, che comandava in casa, ma non lo influenzava nelle scelte politiche. In una lunga intervista con il Quotidiano Nazionale, Giuliana de’ Medici ricostruisce la figura del padre, Giorgio Almirante, tra pubblico e privato, offrendo molti spunti di riflessione anche per la politica del presente. Intervistata da Raffaele Marmo, Giuliana de’ Medici, traccia l’identikit a tutto tondo di «un gentiluomo d’altri tempi», che seppe guadagnarsi una stima trasversale. Ne emerge il ritratto di un uomo che viveva con la stessa partecipazione, con lo stesso senso di responsabilità il ruolo di padre privato e quello di padre “pubblico” di quella comunità, il Msi, che «magari a differenza di altri partiti, era una sorta di famiglia allargata con un grande sentimento di comunità». Nei ricordi di ragazzina le vacanze del tutto private nell’amatissima Amalfi, dove il leader del Msi andava fin da ragazzo con il padre, o a Levico, dove gli Almirante avevano una casa, si intrecciano dunque con i fine settimana al seguito del segretario del Msi per quei comizi dove la richiesta della presenza sua e di Donna Assunta era motivata con un «se non venite voi, perché dovrebbero venire gli altri». Anche se, poi, alla prova dei fatti quelle piazze erano sempre e comunque piene.

Il rapporto di Almirante con la piazza

«Le dico un episodio che mi è rimasto impresso: eravamo in un hotel a Firenze e c’erano quelle porte girevoli che adesso non ci sono più. Mi divertivo con lui a girare dentro questa porta e lui era sorridente, rilassato. Giocava con me, anche se magari mancava poco a un comizio», ha raccontato Giuliana de’ Medici, ricordando che con la madre rimaneva tra folla per sentire Almirante. La figlia ne ha quindi ripercorso «la costante preoccupazione di tenere le situazioni sotto controllo». Di esercitare quel suo «potere enorme» sulla folla per «appassionare» ma «senza provocare azioni esagitate». «Erano gli anni di piombo, ragazzi che si uccidevano per strada e nelle piazze e le parole potevano essere esplosive, se mal controllate». Almirante, insomma, «era conscio della responsabilità che aveva nel parlare in pubblico, principalmente nelle piazze», che solo lui e Berlinguer, ha sottolineato Giuliana de’ Medici, riuscivano a riempire in quel modo.

La preoccupazione per i ragazzi del partito

«Mio padre – ha proseguito Giuliana de’ Medici – è sempre stato contro tutti i terrorismi di ogni colore e provenienza. La sua preoccupazione era continua e costante per i ragazzi del partito e del Fronte della Gioventù e ogni volta che succedeva qualche cosa di grave a uno di loro era un dramma per lui: era molto, molto dispiaciuto come se avesse perso figlio. Si sentiva molto responsabile della vita di questi giovani. Si rendeva conto che questi ragazzi davano la vita per un ideale senza avere nulla in cambio e quindi era molto, molto addolorato nel momento in cui succedeva qualche cosa a un ragazzo». Alla base c’era quel «sentimento di comunità», quel sentirsi «una famiglia allargata» che caratterizzava il Msi, anche a dispetto di una polemica interna che sapeva farsi anche molto accesa.

Il senso di fratellanza in «una famiglia bistrattata»

«C’era un senso di fratellanza tra loro, anche fra coloro i quali non la pensavano proprio nella stessa maniera», ha chiarito Giuliana de’ Medici, ricordando che quando Pino Rauti uscì dal carcere Almirante lo andò a prendere e lo accompagnò nelle incombenze immediate della ritrovata libertà. «Voglio dire che al di là delle discussioni interne (e dei congressi infuocati, ndr), tra di loro c’era questo spirito di mutuo soccorso, di aiuto reciproco, perché proprio appartenevano a una famiglia bistrattata e questo era un fenomenale collante».

La confessione di Giuliana de’ Medici sui concerti

Della ghettizzazione del Msi, lei, personalmente, non ebbe percezione diretta e immediata. Né in giro per l’Italia, né nelle scuole pubbliche che frequentò. Niente scorta, niente sensazione di pericolo, anche se agli ultimi anni del liceo, «intorno al ’74», subì delle minacce. E allora dovette dire addio al motorino, per essere accompagnata e ripresa «dall’autista di papà, il mitico Mario». Per il resto, Giuliana de’ Medici ha svelato di essere anche «andata a qualche concerto alle Feste dell’Unità quando c’era il cantante famoso». Ma suo padre «forse lo ha saputo dopo».

Per Almirante «senza Mussolini non c’era più il fascismo»

Quanto al rapporto col fascismo, Giuliana de’ Medici ha confermato quello che è noto a tutti, o almeno a tutti quelli che non vogliono fingere di non saperlo: l’adesione giovanile, la passione per il giornalismo, la «scelta di fedeltà» che lo portò nella Repubblica sociale e la convinzione a guerra finita che «il fascismo fosse legato a Mussolini e dunque che una volta che non c’era più Mussolini non c’era più il fascismo. Il suo motto era “non rinnegare, ma non restaurare” perché riteneva che non ci fosse nessuno che potesse restaurare il fascismo».

Un politico totalmente calato nel Dopoguerra

Dunque, chiede Marmo, il Msi non era per Almirante l’erede del fascismo? «Su questo  – ha risposto Giuliana de’ Medici – mi trova preparata non solo come figlia di Almirante: ho fatto la tesi di laurea proprio sulle origini e sulla nascita del Movimento sociale. No, il Msi non era e non poteva essere né storicamente né per mio padre l’erede del Fascismo. Era un’altra cosa tanto che se vogliamo trovare un legame, questo poteva eventualmente esserci con la Repubblica sociale italiana, ma solo sul piano ideale. Mio padre entra in politica per portare avanti le sue idee nel nuovo contesto storico del Dopoguerra».

«Il rappresentante di milioni di persone»

Libertà e democrazia erano per Almirante «elementi non solo giusti, ma essenziali della vita politica. Da politico e da leader ha sempre creduto nella democrazia e nel Parlamento nel quale, come è noto, è stato per quarant’anni e più, operando in un ambito assolutamente democratico. E, d’altra parte, ci è arrivato, con il suo partito, con milioni di voti, non – per fare una battuta – con una seconda Marcia su Roma. E lì è stato il rappresentante di milioni di persone che credevano nella democrazia».

Quel no al divorzio per disciplina di partito

Poi, di nuovo, si incrociano memorie pubbliche e private, come quelle sul divorzio. Almirante era separato e «anche a favore del divorzio, perché riteneva che fosse una legge giusta, tant’è vero che, una volta confermata, ne usufruì». Ma «si assoggettò alla disciplina di partito», ha spiegato la figlia, ricordando però anche che «quella battaglia era sì contro il divorzio ma era poi diventata uno scontro politico aspro contro la sinistra: insomma, aveva perso il senso sociale della legge e si era trasformata in una contesa contro l’avanzata comunista».

Gli incontri segreti di Almirante e Berlinguer

Gli altri, però, erano sempre avversari, mai nemici. E in particolare è noto il rapporto che coltivò con Berlinguer. «Mio padre e il segretario del Pci si incontravano segretamente a Camera chiusa, il venerdì pomeriggio, quando non c’erano altri parlamentari in giro e i corridoi della Camera erano praticamente deserti. Io ne ho sempre sentito parlare, ma chi è stato testimone oculare, anche se non ha mai sentito quello che si dicevano perché si metteva da parte, era Massimo Magliaro, il suo portavoce e capo ufficio stampa del Msi», ha riferito Giuliana de’ Medici, ricordando poi la stima che il padre aveva per Spadolini, il rapporto con Pannella costruito su scontri epici, il fatto che a Craxi riconosceva «di essere stato il primo a sdoganare il Msi, invitandoli alle consultazioni». «E, in realtà – ha aggiunto – non è stato Silvio Berlusconi a sdoganare i missini, ma il segretario del Psi».

La visita alla camera ardente del segretario del Pci

È soprattutto però il rapporto con Berlinguer a chiedere attenzione, anche per la visita, rimasta nella storia, di Almirante alla camera ardente del segretario del Pci. Dopo che qualcuno lo aveva riconosciuto in fila, cittadino fra i cittadini, «la voce della sua presenza arrivò ai piani alti del Pci» e Gian Carlo Pajetta scese per accompagnarlo personalmente, finché a visita finita Almirante uscì da una porta sul retro e raggiunse a piedi e «la macchinetta» che aveva lasciato poco lontano. Andò da solo, Almirante, «per un senso di personale raccoglimento». «È evidente – ha commentato Giuliana de’ Medici – che considerava Berlinguer un avversario non un nemico, ma questo dimostra anche quale fosse il carattere di mio padre, quello di un gentiluomo molto rispettoso delle idee degli altri».

Sentimenti che gli furono restituiti quando, nel maggio dell’88, alla sua camera ardente «vennero tutti. Il Presidente Francesco Cossiga venne a trovarlo addirittura in clinica. A Via della Scrofa arrivarono De Mita, Forlani, Fanfani, Pajetta, la presidente Nilde Iotti. Lo stesso Pannella. E tanti altri, di tutti i partiti».

Donna Assunta? «In casa era la leader, ma in politica…»

Infine, nell’intervista con il Quotidiano Nazionale, una risposta che sfata «una leggenda»: «Capisco che si possa pensare che mia madre avesse un ruolo di influenza politica su Almirante. E circola la voce che possa aver scelto addirittura lei Fini come erede. Ma posso garantire che si tratta di una leggenda. Onestamente non credo che mio padre si facesse influenzare da nessuno nelle sue scelte politiche. Tantomeno nella decisione su Fini, che fu sua, completamente sua», mentre «dentro le mura domestiche, non era mio padre il leader. La leader era mamma».

Donna Assunta, 100 anni vissuti in prima linea. Custode della memoria ma senza pregiudizi. Viola Longo mercoledì 14 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Compie oggi 100 anni Donna Assunta Almirante. Volitiva, elegantissima, spiazzante, nata a Catanzaro Assunta Stramandinoli, la vedova del segretario del Msi non è stata solo una grande testimone della storia della destra, ma un’interprete moderna e acuta delle stagioni del Paese. I tratti salienti della sua biografia sono noti: sposò a 21 anni il marchese Federico de’ Medici, lo lasciò una decina di anni dopo per Almirante, con il quale nel 1958 ebbe la figlia Giuliana. Il matrimonio con Almirante arrivò solo nel 1969, quando lei rimase vedova e lui aveva potuto divorziare in Brasile dalla prima moglie. Da quando lo scelse, Donna Assunta rimase sempre al fianco del marito, determinata e spesso determinante, nelle piccole e nelle grandi scelte. Dieci anni fa, in una intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale in occasione dei 90 anni, raccontò di come Almirante vestisse «malissimo, da vergognarsi, con la camicia alla Robespierre, i sandali e le unghie di fuori» e di come convertirlo al doppiopetto fosse stato «un lavorone. Ci ho pensato sempre io, ma era necessario stargli dietro. E poi era distratto, a volte tornava a casa con scarpe non sue perché in treno se le toglieva e poi si rinfilava quelle del vicino».

Contro il conformismo e… le femministe. Nemica giurata del conformismo, ha sempre detto di detestare le femministe. «Per carità, quelle non le ho mai sopportate. Che hanno conquistato dopo tante battaglie? Il nudismo?», disse ad Annalisa Terranova che la intervistò per il libro Camicette nere del 2007. «Io dico che devono andare avanti i migliori, donne o uomini non importa. Il discorso delle quote non lo condivido proprio. E che siamo mucche cui concedere le quote latte?».

A cena? «Con Meloni e Bertinotti». Custode instancabile della memoria del marito e dell’apporto che quel Msi diede alla storia del Paese, di se stessa disse in quell’occasione di essere «trasversale» e che «anche nella sinistra ci sono cose giuste». Anni dopo, nel 2016, al settimanale Oggi confessò che se avesse dovuto invitare qualcuno a cena a casa sua avrebbe chiamato Giorgia Meloni, Lella e Fausto Bertinotti, Bianca Berlinguer. Una cena assolutamente bipartisan, insomma.

«Io sono per gli uteri veri, quelli in affitto costano troppo». Non è stata certo l’occasione in cui ha spiazzato di più. Sempre nel 2016, stavolta intervistata da La Zanzara, fece gli auguri a Nichi Vendola per il figlio Tobia, nato da poco. «Io sono per gli uteri veri, in affitto costano troppo e il risultato non si capisce se è buono o no. Ma gli faccio gli auguri, ormai è il loro figlio». Sono stati invece Luciano Lanna e Filippo Rossi nel loro Fascisti immaginari del 2003 a ricordare che dei gay aveva detto: «Diciamoci pure la verità: hanno tanto più buon gusto di tanti cafoni eterosessuali. Io posso dire solo bene di quelle persone, ne conosce e ne apprezzo molte. Ci sono tanti uomini intelligenti tra di loro, magari condizionati dalla natura, ma che in nessun modo vanno messi in isolamento come appestati».

Il ricordo di Pizzi: «Non è mai stata ideologica». «Lei non è mai stata ideologica a tal punto da pensare “Chi non è con me peste lo colga”. In una festa si mise a cantare insieme a tutti, di destra e di sinistra, era una compagnona», ha detto il fotografo Umberto Pizzi, intervistato oggi da Formiche, che ricorda come il primo impatto non fu esattamente dei più cordiali: lei e Almirante uscivano da un ristorante, il marito le regalò una rosa, Pizzi li paparazzò, lei fece il gesto di picchiarlo con la rosa. Poi però Pizzi scoppiò a ridere e Donna Assunta anche. Da allora divennero amici. «Tutti la temevano, secondo me perché aveva un grosso potere e ascendente anche sul marito. E quel potere – ha concluso Pizzi – è rimasto e si conserva tutt’ora».

I cento anni di donna Assunta Almirante. Una calabrese capatosta missina. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 14 luglio 2021. Compie oggi cento anni donna Assunta Almirante, seconda moglie di Giorgio, il leader assoluto del Movimento Sociale Italiano. Primo nome Raffaella Stramandinoli, ma nota alle cronache politiche come donna Assunta Almirante. First lady nera, mediatica, carismatica, un passo sempre dietro Giorgio e custode della sua memoria. Al marito allacciava le scarpe, sceglieva le giacche (la svolta del doppiopetto firmata Litrico) ma era anche la sua coscienza critica. Spinse per la successione al giovane Fini, Giorgio era titubante. Lei lo sconfesserà dopo la vicenda della casa di Montecarlo. In casa missina, dove non mancava la maldicenza ad arte, con insistenza si spargeva veleno dicendo che donna Assunta fosse l’amante di Gianfranco. Nasce a Catanzaro. Scarse e frammentarie le notizie sui suoi primi trent’anni. A Sabelli Fioretti dice della sua infanzia: “Normale, felice, a Catanzaro, niente di particolare”. Sposa a 17 anni il marchese Federico de Medici, molto più grande di lei. Lei è di famiglia liberalmonarchica, uno zio è il deputato Dc Foderaro. Si trasforma in imprenditrice agricola occupandosi dei possedimenti del marito. Una rarità per quei tempi trovare una donna che comanda su degli uomini, vuole essere “una capobanda”. Galeotta fu Cirò Marina. 1951. Raffaella ancora non donna Assunta si reca presso un suo parente, il conte Sabatini, per vendere una grossa partita d’uva. Compare il giovane Almirante. Lui è sposato ed ha una figlia. Lei tre. Si piacciano, lei fa la sbarazzina. Lo accompagna all’aeroporto. Poco tempo dopo si reca a Roma per chiedere a Giorgio una raccomandazione per un concorso di una cugina. Diventano amanti. Amore celato al partito e alle famiglie. Ci vorrà il 1968 per unirsi. Almirante separato (dovrà molto arrampicarsi sugli specchi per difendere la sua scelta contraria al referendum sul divorzio) e lei resta vedova. Un raro caso, per l’epoca, di famiglia allargata. Lui la chiama “Zio Adolfo” per come s’impone, ma è un suo punto di riferimento e lo resterà nel tempo. Fino alla morte. Assunta non ha mai smesso di essere imprenditrice. Ha allargato i suoi possedimenti catanzaresi ad altre regioni d’Italia commerciando in tabacco, vino, frutta. Ed è stata tra le prime ad importare mucche frisone dall’estero. Con i suoi guadagni ha spesso finanziato la politica del marito. Icona di destra e della politica spettacolo. Si è sempre dichiarata “Italiana e calabrese” non disdegnando inviti elettorali e pubblici.  Ha scritto di lei Giuliano Ferrara: “È il tipo classico del potere carismatico: fosse vivo Max Weber, il grande sociologo della prima metà del Novecento, avrebbe studiato il suo caso”. Che centenaria donna Assunta. E che capotosta.

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 16 luglio 2021. «Calabrisella miaaaaaa», ha intonato sulla terrazza di casa addobbata come si conviene a un compleanno indimenticabile, con un acuto sorretto dal battimani degli affetti più cari e una voce squillante che non vuole pagare pegno ai tanti compleanni trascorsi. Il primo l'aveva celebrato che non era successa neanche la marcia su Roma; l'ultimo, ieri l'altro, col mondo intero che continua a combattere con una pandemia da film di fantascienza, guerra a cui lei stessa ha dato un contributo raggiungendo a piedi l'Auditorium di Roma per vaccinarsi. Davanti agli occhi, tra mille omaggi, le cento rose rosse che la vedova dell'ex ministro socialista Italo Viglianesi - una delle tantissime amicizie «non missine», come i coniugi Bertinotti e la famiglia Craxi - le ha fatto recapitare di buon mattino.  Una per ogni anno trascorso. Donna Assunta Almirante, nata Raffaela Stramandinoli, col secondo nome che ha finito per imporsi sul primo, compie cento anni. Catanzarese di nascita, romana d'adozione, vedova dello storico segretario del Movimento sociale italiano, per decenni è stata la regina madre della destra italiana, dispensatrice di ammonimenti e suggerimenti, stroncature feroci e carezze amorevoli, santa protettrice di carriere politiche e burbera censora di ogni atteggiamento liberticida, lei che libera lo è stata per una vita intera. Accudita dalla figlia Giuliana, con cui tre anni fa ha concertato un ritiro dalla scena pubblica «alla Greta Garbo», mai più interviste o dichiarazioni di quelle che un tempo erano in grado di provocare un terremoto politico, Donna Assunta vive una sorta di inconfessata malinconia per una destra che non le piace più. Che continua a votare, certo, l'ha fatto anche nel 2018; ma in cui forse non si riconosce nemmeno. Un distacco sofferto ma in fondo anche leggero, di quella leggerezza con cui il Nennillo di Natale a Casa Cupiello di Eduardo de Filippo rispondeva «no» tutte le volte che il padre gli chiedeva se gli piacesse 'o presepe. In cambio, i protagonisti di quella destra italiana che Donna Assunta ha visto crescere un po' hanno dato l'impressione di averla dimenticata. Ieri l'altro, nel giorno del centesimo compleanno, dei vecchi «colonnelli» di Alleanza nazionale l'hanno cercata per gli auguri soltanto in due: Francesco Storace e Ignazio La Russa. Nessun altro. A casa ha chiamato il governatore della Calabria Nino Spirlì, mai conosciuto di persona. Mentre il deputato leghista Mauro Lucentini, un passato tra i giovani del Fronte della Gioventù, ha chiesto a Giuliana il permesso «di poter passare solo per lasciare un mazzo di fiori, non vorrei disturbare»; è finita che Donna Assunta l'ha invitato alla festa, Lucentini le ha ricordato «le volte che da ragazzo la venivo a prendere e poi la riportavo a Roma dalle Marche dopo le iniziative politiche», a lei è uscita una lacrima di commozione e lui, Lucentini, si è inginocchiato per omaggiarla. In un secolo di vita, Donna Assunta di schemi ne ha rotti parecchi. Sposò Almirante, con cui stava dal 1952, soltanto nel 1969, dopo la morte del primo marito Federico de' Medici, da cui aveva già avuto tre figli. Ed è per questo che divenne una fervente sostenitrice del divorzio, difeso a spada tratta nel referendum abrogativo del 1974; il marito, che come lei difendeva la legge, per obbedienza alla disciplina del Movimento sociale - che aveva scelto un'altra linea, forse anche per metterlo in difficoltà - fece la campagna insieme alla Dc. Custode silenziosa di tutte le volte in cui Almirante incontrava di nascosto il segretario del Pci Enrico Berlinguer, negli anni più bui della Repubblica, poco prima della sua morte, nel 1988, ascoltò i suoi più oscuri presagi su quello che sarebbe capitato dopo. «Quando non ci sarò più, si dimenticheranno di me. E si dimenticheranno anche di voi», le disse il marito. Il telefono muto di ieri l'altro è la materializzazione plastica di quella vecchia profezia. Anche se Donna Assunta prima del ritiro ha fatto di tutto per esserci e c'è stata. Contraria alla svolta di Fiuggi che portò alla nascita di An, l'inizio della rottura col suo «pupillo» Gianfranco Fini, alle Europee del '99 minacciò che avrebbe votato per la sinistra per contrastare «l'orrido elefantino» del progetto politico di Fini e Mariotto Segni. All'ultimo secondo, poi, non ce la fece. Scrisse sulla scheda un gigantesco «evviva Almirante!» e annullò il voto. Avrebbe messo in riga, negli anni a venire, chiunque: da Fini a Berlusconi, dai colonnelli di An a Giorgia Meloni, come a voler rappresentare la smentita vivente di quel detto delle sue parti secondo cui solo chi si fa i fatti propri campa cent' anni. Lei li ha superati sulle note di «Calabrisella mia». Omaggio canoro a dove tutto era iniziato, un secolo e un giorno fa.

Donna Assunta Almirante, cento anni da protagonista. Francesco Storace su Il Tempo il 15 luglio 2021. Guardi Assunta Almirante e ne ammiri il portamento da Gran Signora che ha ancora molto da insegnare per il nostro futuro. Cent’anni madame, compiuti ieri e con il garbo severo e gentile maturato in una vita trascorsa con grandissimo stile. E auguri cari ad una donna che rappresenta ancora molto per la comunità della destra italiana ma non solo. Perché tutti – anche chi non ne ha le stesse idee – rispetta la straordinaria compagna di vita di un uomo come Giorgio Almirante. Non deve essere stato facile stare una vita accanto a quel leader che la volle con sé in seconde nozze. Entrambi erano stati sposati. Ma si innamorarono. Lui da Salsomaggiore, lei da Catanzaro, una scintilla che li accompagnò per decenni di vita trascorsa nella buona e nella cattiva sorte. Lei lo conquistò con le sue buone maniere e ancora oggi la osservi e resti incantato dalla bellezza di quei capelli color argento che ornano un viso ancora capace di sentimenti di affetto. Ti guarda e lo capisci. La forza dell’eloquio di lui, il fascino dei suoi cerulei entrarono nel cuore di Assunta. E oggi di quell’uomo resta vivissima la memoria proprio per la forza di una donna come lei che da quasi quarant’anni ne trasmette il ricordo a tutte le generazioni in ogni parte d’Italia. Assunta Almirante è amata da tantissime persone: il suo pellegrinaggio è in straordinaria continuità con il viaggio per cento volte in tutta Italia e in mille comizi che compì Giorgio. Apostolo delle idee che professava, moglie e sua seguace Assunta. Assieme a sua figlia Giuliana, donna Assunta – come tutti la chiamano con grandissimo rispetto – ha dato vita alla fondazione Giorgio Almirante e come sempre ha fatto nella vita senza mai rinunciare ad esprimere le sue opinioni ogni volta che senta l’obbligo morale di farlo, come custode vivente di un grande patrimonio politico e culturale. Non deve essere stato facile vivere con un uomo del carisma di Almirante, soprattutto per una donna di quel sud che faticava ad emergere nella vita sociale della Nazione. Almirante probabilmente direbbe oggi lo stesso di sua moglie, donna di fortissima e spiccata personalità. Leggendarie le battute riservate da donna Assunta ai massimi vertici del Msi di allora quando fiutava i soliti giochi politici che avrebbero potuto danneggiare il marito. Ma rispettata – e sempre – anche dalle “vittime” delle sue sfuriate, perché chiunque sapeva che non c’era malanimo. Il bene di tutti come obiettivo. Donna Assunta è una persona capace di stare a proprio agio in qualunque ambiente, potente o umile che sia, e questo la rende straordinaria da sempre. Alla vigilia dei cento anni si è anche sottoposta alla vaccinazione, nello scorso mese di aprile. Per farlo ha scelto l’hub anti Covid dell'auditorium Parco della Musica. Anche lì, una grande prova di vitalità. Donna Assunta si è fatta iniettare la dose del vaccino Moderna. In grande forma, il personale sanitario racconta di essere rimasto colpito per la capacità di camminare in maniera autonoma e l'energia dimostrata.  È bello raccontare di lei, e si potrebbe per mille episodi. Presente al congresso nazionale de La Destra nel novembre del 2008, spese all’epoca tutte le sue forze per tentare di unire, fin da allora e poi ancora per le politiche del 2013, quei mondi così lontani ma con lo stesso pensiero. Naufragò un incontro per un cammino comune tra chi scrive e Giorgia Meloni e non per colpa, diciamolo, della leader di Fratelli d’Italia. Fulminante la battuta di Assunta: “Centrodestra? No, cento destre…”, disse sconsolata con un’efficacia degna del miglior editoriale. A lei si attribuisce anche la scelta di Gianfranco Fini come successore di Giorgio Almirante e nessuno capirà mai se questa è davvero la verità. Certo è che anche con Fini non rinunciò mai a dire la sua anche se nei momenti decisivi è stata capace di straordinari slanci per aiutare e sostenere quello che in fondo considerava il “delfino” del marito. Donna Assunta è stata particolarmente importante nella vita di Giorgio Almirante in momenti terribili per l’uomo, quando cominciò la persecuzione giudiziaria sotto l’accusa di voler ricostituire il partito nazionale fascista e incredibili cose del genere. Con lui la magistratura non fu mai tenera, ma contro una persona immacolata non si poteva certo fare nulla di più. E poi ancora, quando fu pilotata dall’esterno una scissione dimenticata dai più, Democrazia Nazionale, che portò via al Msi la maggioranza dei suoi deputati e senatori. Momenti terribili, di grande sconforto per quello che era considerato un tradimento: donna Assunta affiancò il marito in tutta Italia per risollevare un mondo antico che non voleva accettare di perdere la rappresentanza di una comunità intera. E oggi si può dire che la scomparsa dei transfughi dal Parlamento nelle elezioni successive fu la più bella vittoria di una coppia straordinariamente unita. E chissà di quanti ricordi di vita e di politica è oggi gelosa custode Assunta Almirante. Protagonista di tantissimi incontri riservati e forse proprio per questo anche inaspettata ammiratrice di Bettino Craxi, il socialista che voleva abbattere il muro eretto contro la destra nazionale. Potrebbe raccontarli, scriverli, tramandarli quegli episodi con la lucidità che le appartiene, come la bella nonna di tutti noi. E anche per questo Il Tempo ne festeggia lo splendido centenario. 

Ignazio La Russa. Fabrizio Roncone per corriere.it il 2 agosto 2021. Giorni fa, alla presentazione del pediatra che il centrodestra vorrebbe far diventare sindaco di Milano, Luca Bernardo, Ignazio La Russa si è accorto che tutte le poltroncine della prima fila erano riservate a esponenti di Lega e Forza Italia. Ma non solo: Licia Ronzulli, ultima sacerdotessa berlusconiana (il tempio è quasi deserto, le luci sono spente) si stava cuccando pure l’unico strapuntino destinato a Giorgia Meloni, rimasto vuoto perché la Meloni, dopo le polemiche sulla Rai con gli alleati, era rimasta a Roma. A quel punto La Russa è scattato come un grillo (74 anni portati alla grande) e, charmant, ha urlato: «Questa sedia resta vuota! Non me ne fotte un cazzo!». La Ronzulli è scappata via impaurita e lui, con il vecchio ghigno luciferino, si è riseduto tutto soddisfatto d’essere ancora nei panni di “Gnazzzio!” (cit. Fiorello), che ai senatori grillini urlava “Giogaaati!” (Drogaaati!). Così è tornato sui giornali l’eterno La Russa, sopravvissuto a mezzo secolo di destra: i primi ricordi ormai in dissolvenza, con lui che, nella violenta stagione milanese Anni 70, quando era il temuto segretario del Fronte della Gioventù, veniva chiamato Ignazio La Rissa (esiste una strepitosa testimonianza, un suo comizio in piazza Castello con cui Marco Bellocchio, nel 1972, decise di far cominciare il film Sbatti il mostro in prima pagina). Gli anni roventi del Msi, poi An («Gianfranco Fini commise errori giganteschi»), infine il berlusconismo vissuto con trasporto (fu pure ministro) ma senza rinunciare ad essere uno straordinario animatore di serate mondane, mai visto arrivare dai paparazzi prima dell’una di notte. Ineffabile La Russa. Fatale La Russa. Che prima di tanti intuisce le rughe sotto i famosi due centimetri di cerone del Cavaliere e allora, con un saltello di nuovo a destra, diventa autorevole esponente di Fratelli d’Italia. «Tolga pure l’autorevole: io sono il fondatore del partito». Giorgia Meloni, in realtà, la racconta un po’ diversamente, perché fu lei ad avere l’intuizione che si dovesse riempire la voragine lasciata da An. Però è inutile, e un filo pericoloso, star troppo a sottilizzare con “Gnazzzio” («Rrrrongoneee, lei ha la capacità di scuotere il mio sistema nervoso» soffiò una volta, digrignando i denti. Ma c’era della simpatia, forse). 

La rete di Ignazio La Russa tra affari ed elezioni. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 17 maggio 2021. Ignazio La Russa. Il vicepresidente del Senato viene tirato in ballo per la bancarotta di un call center siciliano. E intorno al crac di Qè si muovono parenti, amici e professionisti di fiducia in una una famiglia allargata con agganci nell'ex impero Ligresti ed epicentro Paternò. Ignazio La Russa, piccolo azionista dell’Inter con 10 mila euro di capitale, ha festeggiato il diciannovesimo scudetto nerazzurro proprio mentre a Catania entra nel vivo il processo per la bancarotta di Qè, società di call center con sede nella zona industriale di Paternò, la città natale del vicepresidente del Senato. La Russa, insieme ad alcuni suoi parenti e amici, è stato tirato in ballo dal principale sospettato, l’imprenditore bresciano Patrizio Argenterio, che a dicembre del 2019 è finito agli arresti su richiesta del pm catanese Fabio Aliotta per il crac Qè. Nel processo che nasce dall’inchiesta “Who is”, il fondatore di Fratelli d’Italia con oltre mezzo secolo di attività politica alle spalle non è indagato e dichiara all’Espresso: «Non ho mai avuto alcun ruolo né interesse di alcun genere con il call center Qè». Da accusato, Argenterio ha il diritto stabilito per legge di mentire per difendersi. Ma dal suo racconto della vicenda, circostanziato e spesso riscontrabile con dati documentali, si delinea una gestione della politica fra la Sicilia e Milano che ha creato migliaia di posti di lavoro attraverso una rete di influenze. La gratitudine elettorale, in questo caso, è andata a braccetto con una bancarotta ma solo la seconda è perseguibile penalmente. La vicenda di Qè e di altri call center che in seguito hanno proliferato nel catanese è un caso da manuale di come ha funzionato per anni il “sistema Paternò” e di come continui a intrecciare clientele rese più facili dalla fame di lavoro grazie a rapporti alto-basso con l’aristocrazia finanziaria e l’imprenditoria borderline. La cittadina, che sfiora i 50 mila abitanti, è il punto di origine di un’epopea siculo-lombarda iniziata dall’avvocato Antonino La Russa, padre di Ignazio e dei suoi tre fratelli, in stretto contatto con un’altra famiglia locale, i Ligresti. Il risultato è una rete che ancora oggi, dopo la caduta dell’impero dell’ingegnere, costruttore e assicuratore Salvatore, tiene botta con la nuova generazione, che sta riemergendo a forza di assoluzioni dai suoi rovesci giudiziari. Ignazio Benito Maria La Russa, 73 anni di cui 29 consecutivi passati in Parlamento, ex Msi, An e Pdl, è oggi il personaggio di maggiore spicco del gruppo, con le sue relazioni decennali al massimo livello a Milano, dove ha ereditato lo studio legale del padre, e a Roma, dove è la mente strategica del partito di Giorgia Meloni, e l’unico all’opposizione nell’arco parlamentare, in crescita vertiginosa nei sondaggi. Tutto questo senza dimenticare le sue origini nel paese alle pendici dell’Etna dove il centrodestra, alle elezioni politiche, locali o europee, non sbaglia mai un colpo, forte delle migliaia di posti di lavoro dei contact center che lavorano per grandi committenti (Inps, Inail, Enel, Tim, Sky, Regione Lombardia) nell’area della città metropolitana di Catania. Non solo a Paternò, ma anche a Biancavilla, Misterbianco, Adrano, Belpasso, Santa Maria di Licodia, Motta Sant’Anastasia.

PARENTI SERPENTI. In attesa dell’udienza preliminare fissata ai primi di giugno il pubblico ministero Aliotta ha avuto a disposizione oltre un anno per sviluppare le indicazioni messe a verbale da Argenterio il 17 gennaio 2020, cioè quaranta giorni dopo l’arresto dell’imprenditore cresciuto, come tanti dalle sue parti, nel settore metallurgico (Zenith). Nelle prossime settimane si capirà se il buco di Qè è di 14 milioni di euro, secondo le valutazioni della procura e della Guardia di finanza, o di 1,4 milioni, secondo la tesi di Argenterio. Le radici della vicenda risalgono al 2009 quando Argenterio è ad di Wave contact, che fa capo a una holding di consulenza e servizi Ict con sede a Brescia e impiega un migliaio di dipendenti. Il grosso dei ricavi della società (50 milioni di euro nel momento di massima espansione) arriva dalle forniture al gruppo Fonsai di Salvatore Ligresti. Il gruppo Wave gestisce il sistema di informatizzazione sui sinistri auto della compagnia assicurativa, che ha 8 milioni di clienti. È un bacino enorme ottenuto grazie a uno dei soci di Wave, Omar Bonomelli, anche lui bresciano e al tempo consorte di Jonella Ligresti, figlia di Salvatore conosciuta sui campi di equitazione dove la coppia si esibisce con ottimi risultati. All’inizio del 2009 al gruppo dei bresciani viene proposta per l’acquisto la società milanese Midica, impiombata da milioni di euro non versati all’erario. È un’offerta che non si può rifiutare per chi deve commesse e carriera agli imprenditori di Paternò. Il principale azionista di Midica è infatti Gaetano Raspagliesi, nisseno di Mazzarino ma paternese acquisito in quanto marito di Emilia La Russa, sorella di Vincenzo, Romano e Ignazio che in quel momento è ministro della Difesa del governo Berlusconi. Anche Raspagliesi vive sulla bipolarità geografica tra Paternò e la Lombardia tanto che a seguire i suoi affari è il commercialista milanese Massimo Enrico Corsaro, ex assessore regionale che in quel momento è deputato del Pdl. La Midica ha sede nello studio milanese Corsaro-Ruberto di via Vittor Pisani dove non sono rare le visite di La Russa che dice: «Conosco bene Corsaro per antica e perdurante amicizia addirittura risalente ai nostri genitori». A marzo del 2009 Midica, a lungo schermata dietro la Compagnia fiduciaria nazionale, cede il ramo d’azienda del call center alla neocostituita Qè, sintesi fonetica della frase “chi è” in dialetto locale. In quel momento sia Midica sia Qè fanno capo a Raspagliesi che con i suoi debiti verso lo Stato rischia di procurare una brutta figura al cognato, esponente di primo piano del governo di centrodestra. Così parte una girandola di sostituzioni da fare invidia a un’amichevole di mezza estate. Durante il 2009 la neonata Qè cambia proprietari una mezza dozzina di volte. A marzo appartiene ai Raspagliesi con una quota di Marco Osnato, marito della figlia di Romano La Russa che in quel momento è capogruppo di An al Pirellone. Ad aprile arrivano due soci di minoranza lombardi, Pietro Mancini e Angelo Scorletti. In maggio Raspagliesi viene avvicendato in Qè dalla Midica, ossia da se stesso, e da Mancini.

COSCHE AL TELEFONO. Fra un “cu è” e un “mi dica” a metà maggio 2009 arrivano i bresciani di Argenterio con la loro newco Yukti che nel giro di pochi mesi (gennaio 2010) passa da una quota del 20 per cento al controllo totale. Il gruppo dei bresciani chiude l’accordo nello studio di Corsaro, dove si fa vedere un altro esponente illustre dei paternesi con il pallino dei contact center. È Giovanni Catanzaro che, dopo essere passato dalla Sai di Ligresti alla guida di Lombardia Informatica, a maggio del 2011 viene nominato nel cda di Finmeccanica su proposta dell’azionista pubblico, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, e su suggerimento di La Russa. Il prezzo per la cessione di ramo d’azienda è fissato in 3,4 milioni di euro che sistemano gli scoperti di Midica con il fisco. In contemporanea con l’accordo, nel 2010 Lombardia informatica apre un secondo call center nel catanese (Biancavilla) dopo quello paternese creato nel 2005 che ancora oggi gestisce il sistema di prenotazioni sanitarie della regione Lombardia. A Paternò e dintorni ormai si concentrano alcune migliaia di posti di lavoro nei contact center. Sono posti pagati poco ma creano occupazione nella fascia giovanile, la più critica. Per qualche anno Qè va bene. È in leggero utile e ricava intorno ai 10 milioni l’anno. Il tracollo avviene formalmente fra il 2014 e il 2015 quando il fatturato si dimezza ed emergono perdite superiori ai 6 milioni di euro, di cui 4 milioni dovuti a una «rivisitazione degli esercizi precedenti», come si legge nei bilanci. Nel frattempo, c’è stato il terremoto. Salvatore Ligresti e i suoi tre figli hanno perso il controllo della holding Premafin a favore di Unipol e sono finiti sotto inchiesta per falso in bilancio e manipolazione del mercato. I nuovi proprietari del gruppo assicurativo Fonsai tagliano la commessa alla società di Paternò. Secondo il controllo di gestione del gruppo bolognese, diretto da Maurizio Castellina, i servizi dell’azienda siciliana costano troppo. È il conto alla rovescia verso la fine, nonostante l’arrivo di un nuovo socio locale, Franz Di Bella, che finisce per litigare con la Yukti di cui pignora le quote. A giugno del 2017 per Qè arriva la dichiarazione di fallimento. Il 5 dicembre 2019 Argenterio è messo agli arresti e subisce il sequestro di 2,4 milioni di euro. Non va troppo bene neanche alla Midica che nel 2011 Raspagliesi cede a Paolo Ruffino, torinese con base nell’hinterland di Milano. Un altro Ruffino in affari con Raspagliesi, Andrea, l’anno dopo è arrestato e condannato per le infiltrazioni del clan ‘ndranghetista dei Bellocco di Rosarno nella sua Blue Call, un altro contact center a Paderno Dugnano. Nell’inchiesta partita nel 2012 dalle procure di Milano e Reggio Calabria Antonio Longo, fiduciario svizzero del boss rosarnese Domenico Bellocco, cita al telefono il motto «le azioni si pesano e non si contano». Ironia della sorte, la frase è attribuita a Enrico Cuccia, finanziere di Mediobanca e architetto dell’impero Ligresti.

GRADI DI SEPARAZIONE. Come nel film “American Graffiti”, è giusto chiudere con un breve resoconto sulla situazione dei protagonisti dopo i fatti. Jonella Ligresti, a lungo detenuta dopo essere stata coinvolta nel crac del gruppo paterno, ha avuto l’annullamento della condanna a Torino e ricomincia il processo a Milano mentre i fratelli Giulia e Paolo sono stati assolti. Anche Marco Osnato, genero di Romano La Russa, è stato assolto insieme al suocero da un’accusa per finanziamenti illeciti alle elezioni amministrative passati attraverso l’Aler, l’azienda milanese per l’edilizia residenziale di cui Osnato è stato manager. Imprenditore delle costruzioni, Osnato ha proseguito la carriera politica che è culminata nell’elezione alla Camera il 23 marzo 2018 nel collegio Lombardia 2. Manco a dirlo, con Fratelli d’Italia. Corsaro invece ha seguito La Russa dal Pdl a Fdi ma poi ha abbandonato il partito guidato da Giorgia Meloni a metà del suo ultimo mandato alla Camera, chiuso con le elezioni del marzo 2018. Nel 2015 è entrato nel gruppo Misto con il movimento Direzione Italia di Raffaele Fitto e poi, visto che il richiamo alla Nazione ci sta sempre, si è unito a Rifare Italia fondato pochi mesi fa da un’altra ex Msi-An-Pdl-Fdi, la bresciana Viviana Beccalossi, con l’ex direttore del Secolo d’Italia, Gennaro Malgieri. Alcune intemperanze verbali hanno nuociuto alla carriera politica di Corsaro, per esempio le sparate razziste contro il deputato democrat milanese Emanuele Fiano e l’allenatore serbo Siniša Mihajlovic, condite nel 2017 da un invito all’Isis affinché tornasse a Charlie Hebdo per finire il lavoro iniziato con la strage di due anni prima. Nonostante l’addio a Fdi il professionista milanese è rimasto in ottimi rapporti con il suo mentore politico. In effetti, i due sono anche soci da vent’anni. «Confermo», dice Corsaro a L’Espresso, «che è in essere dal 2001 la società Gibson Immobiliare partecipata da me e dal senatore La Russa, cui mi lega antica e solida amicizia». Gibson è una sas della quale è socio accomandatario Sergio Conti, carrozziere-ristoratore coinvolto nell’indagine “’ndrangheta Metallica”. Una volta l’immobiliare gestiva due locali milanesi dove spesso dietro il banco si faceva vedere Antonino Geronimo La Russa, figlio di Ignazio. Oggi l’attività commerciale è in affitto e Gibson è soltanto proprietaria delle mura. Per quanto riguarda le altre società di questa vicenda, Midica viene spostata di sede dallo studio Corsaro a Roma nel 2011, apre il fallimento nel 2013 e chiude i battenti una volta per tutte a novembre del 2019. Falliscono anche le bresciane Wave contact (maggio 2017) e Yukti (novembre 2018). Nel 2019-2020 Lombardia informatica, a lungo feudo paternese, confluisce in Aria insieme a Infrastrutture lombarde, dove Corsaro ha svolto il ruolo di consigliere di sorveglianza all’inizio degli anni Duemila. Infine, nel capannone della zona industriale di Paternò che occupava Qè oggi c’è un altro call center. Si chiama Netith e fa capo allo stesso Franz Di Bella che è stato socio di Argenterio in Qè per tre anni, fino alla lite. Il paternese Di Bella, 42 anni, è proprietario del capannone che fu di Qè e ha reintegrato l’80 per cento dei lavoratori reduci dal fallimento. L’azienda lavora in remoto e va abbastanza bene da non avere avuto bisogno della cassa Covid-19. Racconta un sindacalista della Cgil che, ai tempi dei bresciani, Di Bella aveva mollato Qè con una presa di distanze esplicita: «Io i miei dipendenti li incontro ogni mattina al bar». A Paternò non tutti possono applicare i gradi di separazione.

Maurizio Gasparri. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Maurizio Gasparri (Roma, 18 luglio 1956) è un politico italiano, ministro delle Comunicazioni dal 2001 al 2005, presidente del gruppo parlamentare de il Popolo della Libertà al Senato nella XVI legislatura e vicepresidente del Senato della Repubblica nella XVII.

Biografia. Nato da genitori di origini campane di Roscigno (SA), figlio del generale dei Carabinieri Domenico Gasparri (1920-2017) e di Iole Siani (1921-2009), ha un fratello, Clemente, Generale di Corpo d'Armata, già Vice Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri. È grande tifoso della Roma. Dopo la maturità classica conseguita presso il Liceo "Torquato Tasso" di Roma, si è dedicato alla politica. Negli anni settanta diviene segretario provinciale del Fronte della Gioventù. L'allora segretario nazionale Gianfranco Fini nel 1979 lo vuole come suo vice nel FdG. Dal 1982 al 1984 è direttore della rivista dell'organizzazione, Dissenso. Nel 1983, a 27 anni e già vice segretario del Fronte della Gioventù, è entrato nella redazione del Secolo d'Italia, organo politico del MSI-DN come praticante. Due anni dopo Gasparri è quindi diventato giornalista professionista, iscritto all’Ordine dei giornalisti del Lazio. A fine anni ottanta diviene presidente nazionale del FUAN, gli universitari missini. Nel 1991 diventò condirettore del quotidiano del MSI. Nel partito, Gasparri rientrava nella corrente, detta Destra in movimento, che appoggiava la leadership di Gianfranco Fini, ottenendo un ruolo di spicco a partire dal 1988, quando Fini fu nominato segretario politico. Nel mezzo dello sconvolgimento politico di tangentopoli che azzera una parte di classe politica, tiene un atteggiamento di totale approvazione e appoggio delle indagini portate avanti con fermezza dalla magistratura. Viene eletto deputato del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale nel 1992. Nello stesso periodo si mise in aspettativa come redattore, continuando tuttavia a dirigere il Secolo d'Italia fino al 1994. Allo stesso tempo, dal febbraio 1992 all'aprile 1994 è consigliere comunale a Fiumicino sempre per il MSI-DN. Confermato a Montecitorio nel marzo 1994 come parlamentare di Alleanza Nazionale, viene nominato sottosegretario all'Interno del governo Berlusconi I fino al gennaio 1995. Rieletto alla Camera nel 1996, ha ricoperto il ruolo di vicecapogruppo di AN. Nel 1998 ha fondato il sito internet di informazione politica Destra.it. Torna ancora alla Camera nel 2001 e a partire dallo stesso anno e fino al 2005 è Ministro delle comunicazioni nel governo Berlusconi II. Con Ignazio La Russa ha guidato una corrente di AN, Destra Protagonista, che faceva riferimento alla rivista politica "EuroDestra", fino al superamento delle correnti nel partito. Nel 2001 la sua carriera politica ha raggiunto il suo punto più alto quando è stato chiamato, sempre da Berlusconi, a ricoprire l'incarico di Ministro delle comunicazioni. In questa veste, Gasparri si è fatto promotore di una legge di riordino del sistema televisivo, nota come "legge Gasparri". La legge venne inizialmente rinviata alle Camere dal Presidente Ciampi dieci giorni dopo la sua approvazione al Parlamento nel dicembre del 2003, in quanto l'aumento del limite antitrust viola il principio del pluralismo sancito dall'articolo 21 della Costituzione ("Non c'è democrazia senza pluralismo e imparzialità dell'informazione"). Il governo Berlusconi si preoccupò allora di adottare subito un decreto legge (il decreto salvareti), che venne poi convertito in legge dal Parlamento il 23 febbraio 2004, aspramente criticato perché di fatto calpestava una sentenza della Consulta che ordinava la messa sul satellite di una rete Mediaset, ovvero Rete 4, con la conseguente perdita di pubblicità per Rai 3. Il nuovo testo della legge Gasparri è stato approvato in via definitiva il 29 aprile (dopo 130 sedute e la presentazione di 14000 emendamenti), e promulgato dal Presidente il 3 maggio 2004. Nel 2007 la Commissione Europea si è espressa in modo critico sulla legge con la motivazione che questa ha introdotto "vantaggi ingiustificati agli operatori analogici" già sul mercato, scoraggiando l'ingresso di nuovi operatori e ha perciò iniziato una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia, poi sospesa quando il governo italiano si è impegnato ad adeguare la legge alla normativa europea che garantisce l'assegnazione trasparente delle frequenze televisive. A gennaio 2009, con decisione n.242, il Consiglio di Stato (riprendendo la questione già parzialmente decisa con la sentenza non definitiva del Consiglio n. 2622/08 del 31 maggio 2008) dà sostanzialmente ragione ad Europa 7, concedendole una "vittoria di Pirro" (danni esigibili dallo Stato per un solo milione di euro e un canale preso dal VHF III). Si calcolano così quattro sentenze a favore di Europa 7 dopo quelle della Corte di Giustizia Europea, Corte Costituzionale, e del TAR del Lazio. Non è confermato ministro nell'aprile 2005, con Fini che gli preferisce Mario Landolfi. Rieletto alla Camera nel 2006, sempre in AN, diviene presidente della "Delegazione parlamentare presso l'assemblea dell'iniziativa centro-europea, fino alla fine della legislatura nel 2008. Nel 2007 entra anche nel CdA della società di telecomunicazioni Telit Communications in qualità di "director" (amministratore) non esecutivo. Per questa sua posizione viene coinvolto nell'inchiesta giornalistica di Report del maggio 2007 ("Il Mistero del Faraone"), che indagava sulla torbida vendita di Wind agli egiziani di Sawiris, e sull'uso dei cosiddetti "gsm-box", in quanto Telit era "presieduta da manager israeliani e che in Italia fa affari con Sawiris" (e con i gsm-box medesimi). Nel 2007 ha fondato l'associazione Italia Protagonista. A maggio 2007 ha pubblicato un libro, "Il cuore a destra", che ha presentato nel corso dell'estate in varie località d'Italia. Dalle elezioni politiche italiane del 2008 è eletto senatore ed è presidente del gruppo parlamentare Il Popolo della Libertà al Senato della Repubblica. Il 5 novembre 2008 nel corso della registrazione del Gr3 Rai, parlando del presidente eletto degli Stati Uniti e della lotta al terrorismo, ha dichiarato: «Con Obama alla Casa Bianca al-Qāʿida forse è più contenta». Gasparri dopo la sua dichiarazione ha avuto critiche dure da svariati esponenti del Partito Democratico, a partire dalla capogruppo al Senato Anna Finocchiaro. Nel novembre 2009 Gasparri è primo firmatario del disegno di legge "Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell'articolo 111 della Costituzione e dell'articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo", comunemente noto come Processo breve. Gasparri ha presentato il provvedimento come parte di un «decalogo sulla giustizia» che comprenda anche «nuove norme antimafia, riforma del processo civile, riforma della professione forense, intercettazioni e riforma costituzionale della giustizia», auspicando che «Per incominciare, i magistrati inizino a lavorare di più». Nel settembre 2010 non segue Fini nella scissione del PdL, che dà vita a Futuro e Libertà. Nel gennaio 2011 ha firmato, insieme a Roberto Formigoni ed altri, una lettera aperta per chiedere ai cattolici italiani di sospendere ogni giudizio morale nei confronti di Silvio Berlusconi, indagato dalla procura di Milano per concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. Alle Elezioni politiche italiane del 2013 viene rieletto senatore tra le file del PdL nella regione Lazio. Il 21 marzo 2013 viene eletto vicepresidente del Senato della Repubblica con 96 preferenze. Il 16 novembre 2013, con la sospensione delle attività del Popolo della Libertà, aderisce a Forza Italia. Il 24 marzo 2014 diventa membro del Comitato di Presidenza di Forza Italia. È inoltre membro del CdA della Fondazione AN. È candidato in Forza Italia ed è rieletto senatore alle elezioni politiche del 2018. Nel dicembre 2019 è tra i 64 firmatari (di cui 41 di Forza Italia) per il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari: pochi mesi prima i senatori berlusconiani avevano disertato l'aula in occasione della votazione sulla riforma costituzionale. Il mese seguente viene scelto come commissario romano di Forza Italia. Il 12 maggio 2020 Berlusconi nomina un nuovo coordinamento di 14 persone tra le quali c’è anche Gasparri. Il 3 luglio 2020 il Fatto Quotidiano rende noto che dal 1º giugno dello stesso anno, dopo 9 anni di lavoro e 28 di aspettativa, Gasparri risulta essere in pensione come giornalista in quanto ha maturato ed ottenuto i requisiti per la quiescenza ed il trattamento previdenziale. Gasparri si è dichiarato contrario ai matrimoni gay («sono contro-natura») e alle adozioni gay («la vita nasce dall'incontro di uomo e donna»). Partecipa anche ai numerosi incontri sulla salvaguardia della famiglia tradizionale conosciuti anche come Family Day.

Controversie giudiziarie.

Peculato. Nel dicembre 2013 Gasparri viene indagato dalla Procura di Roma per peculato. Secondo i magistrati della Capitale, il 22 marzo 2012 parlamentare si sarebbe appropriato - tramite la Banca Nazionale del Lavoro del Senato - di 600 000 euro (fondi del gruppo PdL a Palazzo Madama), utilizzandoli per l'acquisto di una polizza vita a lui intestata e i cui beneficiari, in caso di morte dell'assicurato, erano i suoi eredi legittimi. Gasparri aveva riversato la somma al gruppo PdL il 1º febbraio 2013. Il 17 febbraio 2014 la Procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di Gasparri con l'accusa di peculato. Il 16 aprile 2014 il Giudice per l'Udienza Preliminare di Roma accoglie la richiesta e rinvia Gasparri a giudizio. Il 6 aprile 2016 il Tribunale di Roma assolve Gasparri dalle accuse a lui rivolte perché "il fatto non sussiste".

Ingiuria. Il 30 agosto 2013, durante un'accesa discussione su Twitter, Gasparri attacca Riccardo Puglisi (ricercatore di economia dell'Università di Pavia e responsabile delle politiche economiche del movimento Italia Unica) scrivendogli un tweet con scritto "Ignorante presuntuoso, fai vomitare". In seguito a ciò Puglisi querela Gasparri per ingiuria. Il 25 maggio 2015 la procura della Repubblica di Pavia cita a giudizio Gasparri con l'accusa di ingiuria. Nel gennaio 2016, tuttavia, il decreto legislativo 7/2016 abroga il reato di ingiuria e lo trasforma in un illecito civile, punito con una sanzione pecuniaria. Il 2 maggio 2016 il giudice di pace di Pavia assolve pertanto Gasparri dall'accusa di ingiuria perché "il fatto non costituisce più reato".

Imitazioni. In televisione Gasparri è stato oggetto di una celebre caricatura ad opera dell'attore Neri Marcorè, apparsa su Rai 2 nella trasmissione L'ottavo nano, su Rai 3 nella trasmissioni Raiot e Parla con me, infine su La 7 nel programma The show must go off, e di una parodia di Crozza nel programma di Giovanni Floris Dimartedì su La7, in seguito alle sue dichiarazioni su due ragazze rapite in Siria dagli islamisti dell'ISIS e poi rilasciate, pare contro un riscatto.

Morto il generale dell’Arma Domenico Gasparri, padre di Maurizio. Redazione sabato 4 Marzo 2017 su Il Secolo d'Italia. È scomparso questa mattina a Cava de’ Tirreni Domenico Gasparri, padre del vice presidente del Senato, Maurizio Gasparri e del generale dell’Arma Clemente. Generale dell’Arma dei carabinieri in pensione, ha esercitato la professione di avvocato. Nato a Roscigno, in provincia di Salerno, aveva 97 anni. Molti i messaggi di cordoglio da parte dei colleghi. «Sono affettuosamente vicino all’amico Maurizio Gasparri in questo giorno di immenso dolore», scrive il ministro degli Esteri Angelino Alfano: «La scomparsa di un genitore è una perdita senza tempo, perché spezza un filo che però sopravvive comunque attraverso l’eredità impalpabile che ogni figlio raccoglie. Mi stringo con affetto a lui e ai suoi cari». «Sono vicino all’amico Maurizio Gasparri e mi unisco al cordoglio per la scomparsa del padre», dichiara il senatore di Forza Italia, Altero Matteoli. “Sono vicino in questo triste momento all’amico Maurizio per la perdita del suo amato padre e lo abbraccio con affetto, anche a nome dei senatori di Forza Italia”, ha dichiarato Paolo Romani, presidente del gruppo di Forza Italia al Senato. “Condoglianze, a nome mio e dei deputati del gruppo Fi Camera, per la scomparsa del padre. Un grande abbraccio all’amico Maurizio”, scrive su Twitter Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. Le esequie si terranno alle 15 nel Duomo di Cava de’ Tirreni. A Maurizio Gasparri giungano le più sentite condoglianze della redazione e della direzione del Secolo d’Italia e della Fondazione Alleanza Nazionale.

L'Arma promuove Gasparri ma è il fratello Clemente. Redazione 10 Marzo 2012 su Il Giornale. Su proposta del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola il Consiglio dei ministri ha conferito lincarico di vicecomandante generale dellArma dei carabinieri al generale di Corpo darmata Clemente Gasparri. Non è un caso di omonimia. Clemente è il fratello maggiore del presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri (nella foto con Clemente e il padre Domenico, ufficiale dei carabinieri a riposo, tra i due figli). Sessantadue anni, 7 in più dellesponente politico, il generale Clemente ha già alle spalle 44 anni di carriera militare. Dopo le esperienze Cuneo, Sardegna, Livorno e Montecatini, il generale Gasparri da qualche anno si occupava delle scuole allievi dei carabinieri. È stato collega di corso dei generali Giampaolo Ganzer, oggi al capo dei Ros e Leonardo Gallitelli, comandante generale dellArma. Appassionato di moto e pilota di elicotteri, ha due figli. La carriera dei due fratelli, come ogni tanto lui ricorda, si è divisa tanti anni fa: quando il fratello faceva a botte e lui indossava la divisa dellArma.

Gasparri, i trans e il fratello generale. Piovono rane di Alessandro Gilioli su L'Espresso il 31 ottobre 2009. «Il primo che scrive una riga fuori posto lo trascino in tribunale», ha detto Maurizio Gasparri smentendo preventivamente quello che nessuno aveva ancora scritto sulle sue presunte frequentazioni di viados. Un buon sistema, quello della smentita preventiva con minaccia di azione giudiziaria annessa: mai come in questi tempi gli editori sono preoccupati dalle cause - specie quelle civili - che rischiano di comprometterne i già fragili bilanci. Vediamo allora di scrivere qualche riga non fuori posto, ma forse utile a capire qualcosa di più. Maurizio Gasparri sostiene, nella sua ricostruzione fedelmente riportata dal Giornale - che un giorno della primavera '96 «stava facendo su e giù lungo quei viali pieni di circoli sportivi (c’è quello parlamentare, quello dei carabinieri, il Coni ecc) perché non conosceva l’esatta ubicazione del Circolo del Polo e a causa della scarsa illuminazione non riusciva a trovare l’entrata. Chiarito quello che poi lo stesso Gasparri ha definito un equivoco insignificante, non sappiamo se con l’aiuto degli stessi carabinieri o per conto suo, ha trovato la strada giusta ed è giunto a destinazione». La lettera (anonima: sia ben chiaro) pubblicata da Dagospia sostiene invece che «la sera del 29 aprile 1996 un notissimo esponente di quel partito (An) finì in una retata di clienti di travestiti a Roma e riuscì a salvarsi grazie al “lei non sa chi sono io” e all’indulgenza di troppi giornalisti della capitale che da allora sanno tutto ma sono rimasti muti. Firmato: Protosardo (che quella sera era in servizio)». Come vedete, la lettera non fa il nome di Gasparri, il quale quindi ha fatto una specie di outing, seppur con smentita annessa. Il Circolo del Polo sta in via dei Campi Sportivi 43, effettivamente a due passi dal Lungotevere dell'Acqua Acetosa, e oggettivamente in zona ci si può perdere. Per completezza dei fatti, tuttavia, è bene sapere che Maurizio Gasparri conosceva benissimo l'area, non solo perché ha abitato non lontano, ma soprattutto perché nella sua giovanile militanza nel Msi era noto per essere uno dei più attivi su quel territorio, e proprio nelle vie frequentate dai trans: Il Corriere della Sera del 15 marzo 1994 definisce Maurizio Gasparri, già militante del Fronte della Gioventù e del Fuan, «famoso per le sue battaglie a fianco di Teodoro Buontempo contro i viados del Villagio Olimpico», cioè proprio lì, dov'è stato fermato dai carabinieri. A questo, sempre per completezza delle informazioni, si deve aggiungere che Gasparri, figlio di un carabiniere, è fratello dell'attuale generale di Corpo d'armata Clemente Gasparri, comandante delle scuole dell'Arma. Nel '96 era colonnello. Come vedete qui non c'è una riga «fuori posto». Sicuramente Gasparri quella sera si è perso - ci si può perdere anche in una zona che si conosce da molti anni - e sicuramente quando è stato fermato dai carabinieri non ha fatto notare a nessuno che suo fratello era un alto ufficiale dell'Arma. Ps. Poi in questi giorni ci sono alcuni che si divertono a ipotizzare chi sia "Protosardo" - così si è firmato l'autore della lettera a Dagospia - e in che senso quella sera si trovava "in servizio". Pur non avendone la minima idea e lavorando solo per supposizioni - sia ben chiaro anche questo - vale la pena di ricordare che c'è un ex presidente della Repubblica molto orgoglioso delle sue origini sassaresi e mittente quasi compulsivo di lettere a Dagospia, come sa chiunque frequenti quel sito. E che con Gasparri ha un vecchio conto da saldare, per via di una specie di libro bianco scritto nel '90 dall'allora dirigente missino quando Cossiga - al Quirinale - venne da Gasparri accusato di essere un massone mezzo pazzo che portava pure jella. Il pamphlet si intitolava "Perchè Cossiga se ne deve andare". Amen.

Il flop di Gianfranco Fini: il “Che fai? Mi cacci?” che fu l’inizio della fine del delfino di Almirante. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Luglio 2021. L’Italia nel pallone che ha vinto a Londra è un perfetto misuratore dell’oggetto misterioso e controverso che è la destra sentimentale, diversa dalla destra economica. Cercherò di non perdere il filo del discorso originario di questi articoli che sta nell’idea annunciata da Silvio Berlusconi di voler procedere a una alleanza o confederazione con la Lega e altre eventuali forze di centro-destra come l’Udc, per arrivare a un oggetto nuovo e non al solito rito della fusione. La fine è nota: quando due partiti o movimenti si uniscono, il più grosso mangia il più piccolo, con violenta fuoruscita di fuggiaschi che si affrettano a coprire i vuoti lasciati aperti dalla fusione. Io ne ho vissuti due, di diversissima natura. Ero un giovane redattore del quotidiano socialista Avanti!, quando Nenni e Saragat decisero di riunire le forze socialiste che si erano separate dopo la scissione di Palazzo Barberini del 1947, quando Saragat abbandonò il Psiup che era legato ai comunisti di Togliatti, totalmente sdraiati sulla linea sovietica di Stalin. I due tronconi socialisti da allora si odiarono con furia razzista e quando nel 1966, mentre i due partiti già cooperavano nei governi della nuova coalizione di centro-sinistra, ci comunicarono che l’indomani sarebbero venuti a sedersi ai desk del nostro giornale “i compagni socialdemocratici”, si innescò un violento rifiuto umano, rancoroso e mai sanato. L’unificazione fu elettoralmente un disastro e si vide conti alla mano che uno più uno non faceva affatto due ma un po’ meno di uno. L’altra esperienza è stata quella della unificazione di Forza Italia con Alleanza Nazionale cui però io non partecipai essendo uscito dal partito di Berlusconi per protesta contro la condiscendenza nei confronti di Putin che aveva invaso la Georgia. Entrai nel gruppo misto e mi iscrissi al Partito Liberale, di cui diventai il vice segretario e poi Presidente dell’assemblea nazionale. Durante quel periodo assistetti dall’esterno al fallimento di un altro tentativo di fusione, quello dei liberali ed ex socialisti e democristiani di Forza Italia con gli ex neofascisti di Fini. Inutile ripetere la storia di quella vicenda recente e finita con il celebre “Che fai? Mi cacci?”, che determinò l’inizio della fine della vicenda politica di Gianfranco Fini che era stato il delfino di Giorgio Almirante, segretario del Msi e ai tempi della Repubblica Sociale sottosegretario del ministro di Mussolini Metasoma. Il legame diretto e storico di Fini con il fascismo era allora visibile e cronologico, anche se Fini tagliò quel cordone ombelicale e ne risultò alla fine la scomparsa dalla scena politica italiana. Il risultato finale delle somme, divisioni e separazioni fu che alla fine del ciclo, la lavatrice sputò le ultime scorie di una memoria politica ancora molto fascista, cosa che gli antiberlusconiani ossessivi dimenticano spesso: l’arrivo della leadership del Cavaliere ha prima agglutinato e poi espulso la presenza attiva del neofascismo italiano, ma pochi se ne sono accorti. Si può obiettare che esiste l’elemento tutt’altro che residuale del partito di Giorgia Meloni nel cui simbolo compare graficamente la fiamma missina che fu creata a suo tempo per rappresentare quanto di più macabro il post-fascismo seppe inventare: l’idea di un fuoco fatuo alimentato dai gas del corpo di Mussolini. Il frammento della destra rappresentato dalla Meloni è dunque almeno graficamente l’ultimo e unico che si trascina dietro una traccia iconografica neofascista, anche se Guido Crosetto, un industriale piemontese di grande intelligenza, assicura che la Meloni ha imboccato ormai un sentiero conservatore che non porta più all’incrocio con il Salvini sovranista di qualche anno fa e alla LePen, sonoramente sconfitta in Francia. La verità è che la destra italiana si nutre con una dieta molto elementare: quella reattiva all’immigrazione clandestina, che ha portato ai leghisti una quantità enorme dell’antica classe operaia comunista; e un vago nazionalismo identitario che si tiene però alla larga dalle tentazioni razziste. Sul razzismo degli italiani s’è detto molto e anche troppo, perché malgrado episodi marginali e banali, da stadio e da suburra, noi italiani non siamo istintivamente e animalmente razzisti. Neanche la nostra destra più rozza ha radici razziste. Ricordo, en passant, che nel suo Lessico familiare l’ebrea piemontese Natalia Ginzburg ricordava che per suo padre, un rigido conservatore ebreo, quando voleva alludere a qualcosa di inaccettabile e incivile, usava la parola (lessico famigliare) “negritudine”. Una questione razziale italiana storicamente non esiste come non esisteva nella Roma imperiale e persino a Venezia, dove c’era una classe mercantile e di “provider” di servizi nera, che compare nei quadri del Tintoretto. Per quanto oggi possa apparire grottesco e ridicolo, lo stesso fascismo scelse come canzone propagandista colonialista Faccetta nera che puntava su un “African Dream” in cui lei, faccetta nera, avrebbe ottenuto la cittadinanza italiana per entrare con il suo sex appeal nell’immaginario dei coloni italiani incoraggiati a far razza e figli. Quando facevo le scuole medie avevo parecchi compagni di scuola con nome e cognome italiano e neri di pelle e a nessuno saltava in mente di avere verso di loro un atteggiamento offensivo. Paradossalmente, ho sofferto molto più io il razzismo italiano per i miei capelli rossi, con minacce di stupro (“A’ roscio! passa domani che oggi è moscio”) e accuse diaboliche che portarono molti rossi al rogo: “El più brav’ de’ ross ha gettà su’ madre ‘n t’el foss”, con maledizioni oscure: “Roscio malpelo, schizza veleno, magna pagnotte e schiatta stanotte”. Nessuno ricorda nulla di simile sui neri, come invece accadeva nelle colonie americane dove esisteva l’intero ciclo delle canzoncine razziste su Jim Crow, il piccolo negretto stupido, scansafatiche e bugiardo, sempre pronto a ballare e sbafare, con una naturale attitudine a stuprare la donna bianca. Per non infastidire il lettore provo a riassumere la questione della destra, dell’essere, del sentirsi, dell’agire e dell’immaginare. Da lì eravamo partiti, e la questione razziale oggi, largamente importata dagli Stati Uniti dove ha una sua storia tragica e reale, costituisce una tappa obbligatoria nel vago e quasi disperato tentativo di definizione. L’uomo più di destra nel senso tradizionale e storico nel secolo scorso è stato certamente Winston Churchill, il primo ministro di ferro che pronunciò il celebre discorso “We shall never surrender!” (noi non ci arrenderemo mai), e non Adolf Hitler che fu uno dei più grandi killer di massa della storia. Può essere irritante da rievocare, ma il primo Paese che adottò la festa del Primo Maggio come giorno festivo pagato per tutti i lavoratori, fu il regime nazionalsocialista tedesco che, per quanto sembri assurdo e venga trascurato, era fortemente sostenuto dai sindacati dell’auto e metalmeccanici. Churchill invece fu il perfetto reazionario conservatore, nazicomunista radicale, fautore fanatico dell’imperialismo inglese e per questo anche molto odiato dagli americani. Era lui la destra. E considerava, almeno prima che venisse alla luce l’enormità della Shoah, i bolscevichi di Lenin prima ancora che di Stalin, come banditi internazionali. Accadde così che quando Stalin finalmente si convinse dopo dieci giorni di stordimento durante i quali non credeva all’invasione tedesca in corso (lo raccontò fra gli altri il maresciallo Zukhov) che era davvero in guerra con la Germania, Winston Churchill compì un viaggio aereo rocambolesco da Londra al Sud Africa a Teheran e poi a Mosca per battere l’americano Roosevelt e andare a mettersi d’accordo con il nuovo alleato, che era anche l’uomo da lui più odiato. Il sentimento era reciproco: Stalin considerava l’inglese come il più marcio rappresentante di un mondo capitalista corrotto e nemico della classe operaia e i due si guardarono e parlarono in cagnesco per due giorni, finché Stalin non ebbe l’idea di ammorbidire l’inglese con la vodka, operazione che riuscì benissimo, ma solo per il tempo necessario per finire la guerra. Al termine della quale fu Churchill a coniare l’espressione “The iron courtain”, la Cortina di Ferro come confine diabolico tra il mondo del bene occidentale e quello del male comunista e fu l’inizio della guerra fredda. Chi era più di destra fra i due? O più di sinistra? Il fatto è che la guerra, o per dir meglio la seconda parte del conflitto che si chiuse nel 1945, dette una potente rimescolata al mazzo delle carte che stabilivano le vecchie regole per distinguere ciò che è conservatore da ciò che è progressista. Erano entrate in campo nuove categorie armate, le ingegnerie con cui sopprimere o spostare o annichilire etnie, erano nati i militarismi rivoluzionari che stavano cominciando ad aggredire i resti degli imperi coloniali francese, inglese, belga, e dunque cambiava con tumultuosa rapidità la lista delle connotazioni consolidate e storiche. La nuova situazione determinata dalla caduta del fascismo, la guerra partigiana, l’avvio della nuova democrazia repubblicana, sfasciarono strutturalmente e anche emotivamente la destra che non sapeva più se riconoscersi o no nel decaduto regime e nell’ideologia fascista o se convertirsi al liberalismo o al comunismo, come invitava astutamente Togliatti, che fu il miglior cacciatore di idee e di talenti. La storia della nostra storia, in particolare quella della destra italiana si era fatta molto complicata e confusa, sicché ancora oggi risente di quelle caos terminale anziché originale, di cui parleremo nel prossimo articolo.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Francesco Storace. Tommaso Labate per corriere.it l'11 giugno 2021. L’istinto iniziale è quello che porta dritto all’«oddio, ma sono proprio loro?». Poi, quando si capisce che sono davvero loro, impossibile non pensare a quei sodalizi che si riformano all’improvviso dopo grandi rotture, perché il passato remoto è più forte del passato prossimo, e quindi puoi costruirci sopra un presente e magari un futuro. Come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia che si riappacificarono in diretta tv davanti a Pippo Baudo, come Stallio e Ollio che si rimisero insieme per un ultimo tour – due coppie affiatate e poi rotte e poi ricomposte – così Gianfranco Fini e Francesco Storace tornano a vedersi assieme dopo anni. Il capo e l’uomo comunicazione, l’artefice della svolta della destra italiana a Fiuggi e l’uomo che ne portava in giro il verbo, il «messaggio» fatto persona e il suo «messaggero». La foto l’ha pubblicata Storace su Twitter. «A pranzo con un Capo», scrive l’ex presidente della Regione Lazio, oggi vicedirettore de Il Tempo, che sceglie con cura la C maiuscola. «Con Gianfranco Fini ho lavorato fianco a fianco e poi l’ho combattuto. Ma il valore di un rapporto leale nei momenti belli e in quelli peggiori non si dimentica né si rinnega. E oggi due ore a pranzo sono volate via con l’affetto di allora», aggiunge. L’ultima volta che si erano scambiati messaggi in pubblico era successo a tarda sera, sempre su Twitter, come quegli ex fidanzati a cui scappa un messaggino notturno di cui poi si pentono. «Francesco, ricominciamo dalla Fondazione», aveva scritto Fini alle 23 e 46 del 14 novembre 2014. «Ho mille dubbi, Gianfranco», aveva risposto Storace. Poi il nulla, seguito evidentemente da una fiamma – il rimando al simbolo del Movimento sociale e di Alleanza nazionale è tutt’altro che casua – che forse non si è mai spenta. Oggi la si trova nel simbolo di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, nella cui biografia politica i capitoli «Fini» e «Storace» sono tutt’altro che laterali. Entrambi hanno creduto in lei, anche se l’hanno fatto in due momenti diversi. E nessuno dei due l’ha fatto oggi, mentre la stella dell’ex leader dei giovani di An brilla nei sondaggi. Ma questo c’entra poco, forse, con una reunion che scalda i cuori dei cultori della Seconda repubblica, che siano di destra o centrodestra poco conta. L’uno smilzo, l’altro robusto; l’uno timido, l’altro oltre ogni immaginabile idea umana di estroversione; l’uno che poi ha sposato la via della destra di governo, l’altro ancorato alla destra sociale; l’uno filo laziale, l’altro ultra romanista: dettagli non trascurabili dei protagonisti di uno di quegli amori politici che, come cantava Venditti, non finiscono. Al contrario, fanno dei giri immensi. E poi ritornano.

Tommaso Labate per corriere.it/sette il 27 giugno 2021. A proposito dei giri immensi che può fare un’amicizia svanita, prima di ritornare. «Poco più di dieci anni fa, mia figlia torna a casa e mi fa: “Papà, domani a scuola viene in visita il presidente della Camera”. “Ah sì? Allora ci vengo anche io”, le rispondo. Con Gianfranco Fini, all’epoca presidente della Camera, avevamo rotto da anni e non ci incrociavamo più. La mattina dopo, esco presto e vado in perlustrazione davanti scuola di mia figlia. Inizio a chiedere in giro: “Da quale ingresso entra Fini?”. Mi indicano una porta laterale, la raggiungo e mi piazzo là ad aspettare. Fermo, immobile e senza fretta, tanto era la cosa più importante che dovevo fare quel giorno. A un certo punto lo vedo arrivare, seguito dalla scorta. Mi passa di fianco, mi vede e mi dice: “E tu che ci stai a fare qua?”. Risposta mia: “Il disoccupato organizzato”. Dopo quel mezzo secondo di incontro, sarebbero passati altri anni senza nemmeno un contatto. Fino a quando nel 2013, entrambi usciti malissimo dalle elezioni politiche, non abbiamo ricominciato a telefonarci ogni tanto». Due settimane fa, ha destato parecchio scalpore la foto di Gianfranco Fini e Francesco Storace insieme. Un sodalizio, umano e politico, che per quasi trent’anni era sembrato indissolubile: il capo e portavoce, il messaggio fatto persona e il suo messaggero, quasi una cosa sola. Poi i due hanno rotto, com’era capitato a Stanlio e Ollio o a Franco e Ciccio. E ora hanno rifatto pace. Storace, oggi restituito al giornalismo (vicedirettore de il Tempo), ha abbandonato la politica. E ripercorre in questa intervista i dettagli di una storia che in fondo è la storia della destra post-fascista italiana; che a un certo punto, insieme a Berlusconi, arriva al governo del Paese. Il racconto, dal punto di vista dell’ex presidente della Regione Lazio, parte da molto lontano. Nel 1978 c’è la strage di Acca Larentia. Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta uccisi da mano ignota. Stefano Recchioni morto negli scontri con le forze dell’ordine qualche ora dopo. «Era il 7 gennaio del 1978. Quella era la mia zona. Ad Acca Larentia, quel giorno, non c’ero per puro caso».

Quante volte ha rischiato la vita?

«Una volta mi hanno sparato da due metri, mancato per miracolo. Un’altra mi hanno incendiato casa».

Prego?

«Suonano al citofono del palazzo in cui vivevo con la mia famiglia, fingendo che fossi io e facendosi aprire da un vicino. “Oh, so’ Francesco, ho scordato le chiavi”, il vicino ci casca e apre il portone. Salgono e cospargono di benzina l’ingresso del mio appartamento. In casa c’erano mia mamma e mio fratello. Pensi che mia mamma, per salvare mio fratello dalle fiamme, arrivò a un passo dal lanciarlo dal balcone. Arrivarono i pompieri prima che succedesse il peggio».

Lei dov’era?

«Con Michele Marchio, dall’altra parte della città».

Marchio era il capo del Movimento sociale a Roma. L’avrebbe portata al Secolo d’Italia a fare il giornalista.

«Lì c’erano tutti. Fini, Urso, Gasparri, Teodoro Buontempo capocronista. Vado alla cronaca di Roma: amavo e amo il mestiere di giornalista».

L’alleanza con Berlusconi e la vittoria del ’94 vi proiettano al governo del Paese. Lei, capo della destra in commissione di Vigilanza Rai, diventa il temutissimo «Epurator».

«Senta questa. Un giorno mi squilla il telefono. È uno dei più celebri corrispondenti della Rai dagli Stati Uniti, non le faccio il nome solo perché è morto da anni. Mi dice che dobbiamo incontrarci. Gli dico “va bene, appena viene in ferie in Italia organizziamo”. Macché, “subito”, insiste lui. Prende un aereo e si fionda a Roma. Ci vediamo alla sede di Alleanza nazionale in via della Scrofa; un posto dove uno del genere, prima che arrivassimo al governo, non sarebbe entrato neanche sotto tortura. Parliamo di uno talmente noto che uno della nostra Vigilanza stava per chiedergli un autografo».

Che cosa succede?

«Entra nella mia stanza e inizia a dirmi che finalmente con noi al potere si poteva sentire libero, che in Rai era stato penalizzato e ostacolato per anni. Avevo capito dove quel signore voleva andare a parare e mi ero preparato per tempo».

Dove voleva andare a parare?

«A un certo punto, con fare liberatorio, tira fuori dal taschino una foto in bianco e nero e, nel porgermela, mi dice orgoglioso: “Guardi qua. Questo era mio nonno in camicia nera nel giorno della marcia su Roma”…».

La adulava.

«Mostro uno sguardo inferocito, apro il cassetto della scrivania in cui avevo nascosto un libro con delle foto di partigiani e gli dico: “Questo era mio nonno. Un partigiano! Se ne vada! Esca subito dalla mia stanza!”». 

Ovviamente lei non ha mai avuto un nonno partigiano.

«Era la mia guerra personale a quelli che ci consideravano degli interlocutori solo perché eravamo diventati potenti. Infatti poi quel signore non l’ho visto più».

Quanto era leale a Fini?

«Tutte le volte che Berlusconi mi telefonava direttamente, tutte, io avvertivo il capo del mio partito, che era Fini». 

Gli altri suoi colleghi facevano lo stesso?

«Ci sono stati molti nostri dirigenti e parlamentari che hanno abbandonato Fini per Berlusconi. Logica vuole che non tutti fossero così leali come il sottoscritto. Pensi che io, a Berlusconi, non ho mai chiesto il numero del cellulare. Il capo del partito era Fini, quindi il mio destino lo decideva sempre lui». 

Ci faccia un esempio di lealtà.

«Dopo la sconfitta per il bis alla Regione Lazio, 2005, mi squilla il telefono. Era Berlusconi. Mi invita a casa sua a Palazzo Grazioli, “dai Francesco, ceniamo assieme e guardiamo la partita del Milan”. Fini era negli Stati Uniti ma io lo chiamo per dirgli “oh, mi ha cercato Silvio, che faccio?”. 

Dopo cena, lui, Gianni Letta e Paolo Bonaiuti iniziano a guardare ‘sta partita del Milan di cui a me non fregava nulla. Mi metto a scrollare il cellulare e vedo le agenzie di stampa con indiscrezioni che mi danno ministro. Faccio finta di niente fino a quando, a partita finita, Berlusconi non me lo chiede direttamente. “Francesco, abbiamo bisogno di te nel governo”. Gli rispondo: “Sì, ma devi parlarne con Fini”. Esco a notte fonda a Palazzo Grazioli e, sfruttando il fuso orario, telefono a Fini per dirgli della proposta che avevo ricevuto». 

Dove vuole arrivare?

«Gli altri big di An, volendomi mettere in cattiva luce con l’obiettivo di farmi fuori, sapevano la storia del ministero ma non immaginavano che ero stato così puntiglioso e corretto da avvertire Fini minuto per minuto. E fanno scrivere ai giornali che mi ero venduto a Berlusconi approfittando del fatto che Gianfranco fosse in America. Lui, che aveva prova provata del contrario, se li mangiò vivi. La rottura tra me e Fini fu solo per motivi politici, mai personali».

Il frasario dello Storace di quegli anni è micidiale.

«Non sono mai stato un orco cattivo. Anzi».

Un gruppetto di persone: «France’, dicci qualcosa di destra». E lei: «A frociii!».

«Me l’attribuì il giornalista Guido Quaranta, che non mi amava. Io, sinceramente, non ho mai ricordato dove posso averla detta». 

Ma potrebbe averla detta.

«Se l’ho detta, è stata col fare di uno che scherzava pronunciando un’idiozia».

Oggi la direbbe?

«No. Neanche per scherzo. Ciascuno ha diritto di essere chi vuole e di vivere come gli pare. E non vedo perché qualcuno, me compreso, debba andare a rompergli le scatole con frasi idiote».

Oggi spopola Giorgia Meloni ma lei fu…

«Esatto. Fui il primo a immaginare che la Destra italiana dovesse essere guidata da una donna».

La leader de La Destra, la forza politica che fondò dopo il divorzio da Fini, era Daniela Santanchè.

«Ma prima ancora avevo sostenuto anche molte campagne elettorali di Roberta Angelilli».

Le manca la politica?

«No. Faccio il giornalista. E non sa quanto mi piace, quanto mi è sempre piaciuto. Franco Bechis, oggi mio direttore a il Tempo, una volta mi disse: “France’, da un cecio tiri fuori una notizia”. Io, di fronte a una notizia, godo».

 Alessandra Mussolini. L'intervista a Vanity Fair. Alessandra Mussolini sgancia la bomba: “Sono una ragazza di sinistra, Ddl Zan è doveroso”. Vito Califano su Il Riformista il 12 Agosto 2021. Alessandra Mussolini è stata attrice e cantante, politica, donna di spettacolo, polemista, attivista, nipote della zia Sophia Loren. E soprattutto è stata sempre “la nipote di”: la nipote del Duce del fascismo Benito Mussolini. Ha 58 anni. Dopo 27 è fuori dalla politica e si dice più libera, alla domanda: “avrebbe mai potuto essere una ragazza di sinistra, se avesse voluto?” risponde così: “Ma lo sono! Sono una diversamente ragazza che ha fatto battaglie nelle quali ha creduto, al di là dei colori”. L’intervista, che sta facendo parecchio discutere, a Vanity Fair. “Fin da piccola ho visto le persone reagire quando pronunciavo il mio cognome. Non reagire a me, ma a quello che rappresentavo nel loro immaginario. Potevo chiudermi in me stessa, o andare avanti. Ho scelto di tirare dritto e fare tutto quello che non dovevo fare. Il cinema per mia zia, la politica per mio nonno”. La partecipazione a Ballando con le Stelle ha cambiato lei e la sua percezione presso il pubblico. Mussolini appoggia il Ddl Zan, la legge il disegno di legge contro le discriminazioni e la violenza per ragioni basate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Ha pubblicato un selfie su Instagram con la scritta “Ddl Zan” sul palmo della mano com’era tendenza qualche tempo fa. Una posizione che la destra, suo mondo di riferimento, non condivide. “Quella proposta da Zan è una legge doverosa perché è un semplice prendere atto di qualcosa che esiste già nella società. Per me la sessualità è un fatto personale, e anche temporaneo. Nella vita cambiamo tutti: in base alle esperienze, alle cose che ci accadono. Parlando con i miei figli ho capito che per i ragazzi l’orientamento sessuale non è nemmeno un tema: è come mettersi un abito che puoi cambiare, e a nessuno importa com’è”. E a proposito di libertà, della coscienza e dell’arbitrio nel mondo della politica: “Io certe cose le ho sempre pensate, ma siccome ero pur sempre in un ambito politico, non potevo dare loro spazio. Sono stata cacciata dalla Commissione affari sociali sulla procreazione medicalmente assistita perché ero per la diagnosi pre-impianto, che gli altri osteggiavano. Chiedevo: "Ma se gli embrioni poi non vanno bene?". Mi rispondevano: "C’è sempre l’interruzione di gravidanza". Come se il corpo della donna non contasse nulla, come se l’aborto non fosse un trauma”. Un’intervista piena di spunti e di riflessioni interessanti di una persona che dice di non aver mai avuto potere ma di aver sempre vissuto con il peso della “riconoscibilità” addosso: “Col mio cognome ho capito subito che ci dovevo convivere quindi per convinzione, o auto convinzione, ho deciso che era un dato che dovevo rendere positivo. Anzi di più: esaltarlo. Ma non è stato gratis: volevo studiare filosofia e mi fecero capire che era meglio che cambiassi aria. Allora mi sono iscritta a medicina. Un professore, dopo un esame, lanciò il libretto a terra. Ma l’ho accettato, ci poteva anche stare. Nella vita impari solo dai dolori e dalle delusioni atroci, quelli che io e mamma affrontiamo mettendoci occhi negli occhi, da sempre”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Silvia Nucini per vanityfair.it l'11 agosto 2021. Nella vita di ognuno c’è un quadro che un giorno si stacca. Quello di Alessandra Mussolini comincia a farlo impercettibilmente un pomeriggio dell’ottobre 2020. Lei e Maykel Fonts stanno provando un charleston per la successiva puntata di Ballando con le Stelle. La sequenza prevede che Alessandra cada all’indietro e il suo maestro la afferri al volo. Ma lei non ci riesce. «Devo vederti», gli dice. Chiede uno specchio, due specchi, che la coreografia venga cambiata, che si tolga quel passo. Lui dice no. «Alla fine lo faccio: sposto il peso, cado e lui mi prende. Mi potevo fidare di lui. E anche di me». Si fida e, settimana dopo settimana, va avanti: cade per davvero, sviene, piange, ride. Intanto il chiodo che regge quel quadro silenziosamente si muove sotto un peso che, semplicemente, non tiene più. Cede di schianto il 16 aprile 2021. Alessandra Mussolini prende un pennarello nero, si scrive Ddl Zan sul palmo della mano sinistra, si fa un selfie e lo posta su Instagram. E mentre la sua foto diventa una notizia, lei si sente leggera. Sul quadro caduto a terra c’è una donna che non le assomiglia più. Alessandra Mussolini ha 58 anni quasi tutti passati sotto un qualche tipo di riflettore, un’attitudine alla lotta e qualche cosa, nei fianchi, che ricorda che lei non è solo Mussolini da parte di padre, ma pure Scicolone da parte di madre: nei cromosomi aleggia zia Sophia Loren. Attrice e cantante agli esordi, politica (ovviamente di destra) per 27 anni della sua vita, quest’anno ha sorpreso tutti schierandosi a favore dei diritti della comunità LGBTQI+, una posizione non condivisa dal suo mondo di riferimento che però lei rivendica e che racconta come una tappa di un cambiamento più radicale. 

Sa che a molti quel suo post di Instagram è sembrato un fake?

«Lo so. Ma quella proposta da Zan è una legge doverosa perché è un semplice prendere atto di qualcosa che esiste già nella società. Per me la sessualità è un fatto personale, e anche temporaneo. Nella vita cambiamo tutti: in base alle esperienze, alle cose che ci accadono. Parlando con i miei figli ho capito che per i ragazzi l’orientamento sessuale non è nemmeno un tema: è come mettersi un abito che puoi cambiare, e a nessuno importa com’è». 

I suoi fan di destra si sono scatenati

«E che si scatenassero. Essere liberi di esprimersi vuol dire non pensare alla reazione degli altri. Prima mi preoccupavo di non deludere il mio elettorato, adesso: ciaone. Dopo una certa età è bello essere imprudenti».

Francesca Pascale ha detto che si sbattezzerà per protestare contro la Chiesa che osteggia il Ddl Zan.

«Sa, la Chiesa era anche contro la ferrovia. “E pur si muove”, rispose Galielo Galilei al tribunale dell’Inquisizione che lo accusava di eresia per le sue teorie sulla rotazione terrestre. La frase più potente della storia: dite quello che volete, ma è così».

È sempre stata così progressista e ce l’ha tenuto nascosto?

«Io certe cose le ho sempre pensate, ma siccome ero pur sempre in un ambito politico, non potevo dare loro spazio. Sono stata cacciata dalla Commissione affari sociali sulla procreazione medicalmente assistita perché ero per la diagnosi pre-impianto, che gli altri osteggiavano. Chiedevo: “Ma se gli embrioni poi non vanno bene?”. Mi rispondevano: “C’è sempre l’interruzione di gravidanza”. Come se il corpo della donna non contasse nulla, come se l’aborto non fosse un trauma».

Quanto l’ha costretta la politica?

«Tanto, ma non avevo la pistola puntata e l’ho fatta perché mi piaceva. Però ho capito presto di non essere libera. Se vuoi portare avanti le tue convinzioni, sei emarginata. Io spesso sono stata sola. Ne prendo atto senza nessun vittimismo. Io e la politica ci siamo lasciate di comune accordo e con serenità». 

Dopo 27 anni è fuori dai giochi. Non le manca il potere?

«Non ho mai avuto fascinazione per il potere. Ma forse perché vengo da una famiglia diversa».

Intende dire che il potere ce l’aveva già per il cognome?

«Potere no, riconoscibilità. Sono esposta da quando ero piccola, la mia vita è stata un Instagram ante litteram». 

Le è piaciuto?

«Essere riconoscibile è un’esperienza che screma: conosci meglio le persone, impari che esistono amici che quando le cose vanno bene ci sono, quando vanno male, spariscono. Fin da piccola ho visto le persone reagire quando pronunciavo il mio cognome. Non reagire a me, ma a quello che rappresentavo nel loro immaginario. Potevo chiudermi in me stessa, o andare avanti. Ho scelto di tirare dritto e fare tutto quello che non dovevo fare. Il cinema per mia zia, la politica per mio nonno».

Ha mai desiderato non avere tanti ingombri?

«Col mio cognome ho capito subito che ci dovevo convivere quindi per convinzione, o auto convinzione, ho deciso che era un dato che dovevo rendere positivo. Anzi di più: esaltarlo. Ma non è stato gratis: volevo studiare filosofia e mi fecero capire che era meglio che cambiassi aria. Allora mi sono iscritta a medicina. Un professore, dopo un esame, lanciò il libretto a terra. Ma l’ho accettato, ci poteva anche stare. Nella vita impari solo dai dolori e dalle delusioni atroci, quelli che io e mamma affrontiamo mettendoci occhi negli occhi, da sempre».

Il dolore primigenio: suo padre e sua madre si separano quando lei ha 4 anni. Poi lui si rifà una famiglia. È stato difficile?

«Molto». 

Non le è ancora andata giù?

«No. La famiglia allargata è una cosa bella, che può anche andare benissimo. E poi ci sono volte in cui la cosa non va». 

Ci ha provato, ad accettare?

«Sì, perché sono la primogenita. Mio padre con me faceva gli esperimenti: “Ale chiama”,  “Ale fai”. Una sera stavamo tutti a Villa Carpena, faceva freddo. Mio padre dice: “Mettiti il cappello”. Io penso: “Che premuroso”. Poi mi rendo conto che non parla con me, ma con l’altra figlia. La verità è che quando tu vivi con un figlio e con altri figli no, diventi più padre dei figli con i quali hai una quotidianità. È così».

Avrebbe mai potuto essere una ragazza di sinistra, se avesse voluto?

«Ma lo sono! Sono una diversamente ragazza che ha fatto battaglie nelle quali ha creduto, al di là dei colori». 

Per tanti concorrenti, lei compresa, Ballando è stato un momento di svolta. Come se lo spiega?

«Io non ho mai fatto psicanalisi. Ma ho capito che quando hai un occhio che ti guarda dall’esterno, ti puoi, paradossalmente, aprire di più. Io sono letteralmente esplosa. Magari ero pronta, magari ero stanca».

Come sta prendendo la sua famiglia questo cambiamento?

«Con sorpresa. Io ho sorpreso loro, loro hanno sorpreso me. Vede questo tatuaggio? È ghimel, la terza lettera dell’alfabeto ebraico che ha il valore numerico di 3. Sono i miei 3 figli Caterina, Clarissa e Romano». 

Che madre è?

«Molto ansiosa e per niente punitiva. Del resto nemmeno io sono mai stata punita. Tutt’al più mi menavano. Ricordo una volta mia nonna Romilda mi lanciò uno zoccolo di legno verde con le coccinelle. Mi prese in fronte. Ho vissuto in un matriarcato di necessità, nel senso che uomini non ce n’erano proprio. Pure i cani, i gatti e gli uccellini erano femmine a casa mia».

Com’è il suo rapporto con gli uomini?

«Da quando è nato mio figlio Romano ho capito che anche i maschi hanno le loro fragilità. Però è chiaro che siamo completamente diversi. Gli uomini a volte li capisco, a volte no, a volte mi chiedo: ma come facciamo a poter pensare di poter costruire qualcosa insieme nella società? Per questo mi piace questo presente così fluido, senza categorie. Pure io sono fluida». 

È fluida? Sessualmente?

«In questo momento, sessualmente, più che fluida sono disinteressata. Sono talmente poco interessata alla sessualità, che non capisco perché tutti gli altri ne siano, invece, così ossessionati».

Però fa la sexy.

«Ma va, faccio finta. Il sesso è sempre stata una cosa marginale nella mia vita. Perché, se proprio gliela devo dire tutta, penso che potevano farci diversamente. È un po’ troppo minuscolo tutto. Devi partorire? E fancell’ nu coso grande e elastico come la bocca del serpente di Gesù. Vuoi fare un clitoride? E faccelo, figlia mia, no ’sta cosa che lo devi andare a cercare nel mare magno. Quelle che dicono: “Ah, appena mi sfiorano ho un orgasmo!”. Che gli devi dire? Ma vattene via».

Siamo state fatte un po’ al risparmio?

«Brava! Perché nella pubblicità del gel lubrificante quella si deve buttare sul letto e contorcersi dal dolore? Perché la cistite viene solo a noi? Perché dopo la menopausa tutto si secca? Potevano farci una cosa “a soddisfazione”. Invece siamo a soddisfazione dell’altro».

Alessio Poeta per “Chi” il 22 giugno 2021. Alessandra Mussolini, negli anni, ha capito che la coerenza appartiene solo a chi non ha idee. Ha abbandonato la politica, ha trovato il suo equilibrio, si è interrogata spesso sul senso della vita e per questo ha scelto di supportare il Ddl Zan. «Non la chiamerei conversione, né redenzione. Sarebbe riduttivo. Io non faccio altro che analizzare le situazioni, senza barriere e senza essere condizionata, in alcun modo, dalle etichette. Eppure, ciononostante, viviamo una realtà così particolare dove la tolleranza non vale per tutti, ma solo per alcuni».

Domanda. La foto pubblicata sui suoi social con scritto Ddl Zan, sul palmo della mano sinistra, ha scatenato il putiferio e fatto il giro del mondo.

Risposta. «Ho aderito a una campagna per una battaglia che considero più che giusta. Niente di straordinario, tra l’altro, visto che è sempre stato il leitmotiv della mia esistenza. Oggi più che mai bisogna combattere tutti assieme le tante discriminazioni che, purtroppo, esistono ancora». 

D. C’è chi sostiene che questa sia una legge che limiti, in qualche modo, la libertà d’espressione.

R. «Sono dell’idea che, in questo caso specifico, la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri».

D. A sposare certe lotte, non ha paura di deludere i suoi sostenitori?

R. «La verità? No! Chi ha apprezzato e condiviso il mio spirito libero e liberale, nonché le tante battaglie fatte, sono sicura che continuerà a farlo. E poi, io, parlo per me in quanto cittadina. Non rappresento, né voglio condizionare nessuno».

D. L’Italia e gli italiani sono pronti?

R. «Occorre iniziare oggi per le generazioni future. Ogni rivoluzione culturale necessita di tempi molto lunghi e su questo dissento da chi vorrebbe cambiare sempre tutto e subito. Se si pensa che ancora oggi la donna viene accompagnata all’altare, dal padre, e viene consegnata al futuro marito...».

D. Fa strano sentirla parlare così visto che, nel 2006 ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, urlò a Vladimir Luxuria: «Meglio fascista che fr***o».

R. «Usai quell’espressione in risposta a una violenta provocazione sul mio cognome. Non volevo offendere, ma porre fine a una spiacevole discussione».

D. Ha mai chiesto scusa?

R. «Le basti pensare che io e Vladimir, oramai, siamo amiche. Ci troviamo spesso come ospiti nelle stesse trasmissioni televisive e non rinunciamo mai a due risate assieme». 

D. Sarebbe favorevole alle adozioni per le coppie dello stesso sesso?

R. «I bambini abbandonati negli istituti sono la peggiore sconfitta di ogni società. L’amore deve prevalere su tutto».

D. I detrattori delle battaglie arcobaleno usano la Gpa (gestazione per altri, volgarmente chiamata utero in affitto) per seminare dubbi.

R. «Non le nascondo che anche io, su questo argomento spinoso e delicato, nutro molte perplessità. Figuriamoci quando si parla di sfruttamento della donna dietro questa pratica». 

D. Se uno dei suoi tre figli, un domani le rivelasse la propria omosessualità?

R. «Per me conta, oggi più che mai, solo ed esclusivamente la loro felicità». 

D. E si è mai chiesta del perché molte famiglie siano così reticenti nell’accettare la sessualità dei propri figli?

R. «Perché, nonostante tutto, la nostra società non è così aperta come sembra, tanto che talvolta l’omosessualità di un figlio diventa un’onta per tutta la famiglia. Quando poi la sessualità non è nient’altro che la più intima condizione di ogni individuo sulla quale nessuno dovrebbe discutere. Invece oggi mi sembra ci sia una vera e propria ossessione».

D. Quando Platinette dichiara che “inserire l’identità di genere nei programmi scolastici è una violenza”, che cosa pensa?

R. «Mi torna in mente il mio disagio quando da bambina sulla pagella c’era scritto: “Firma del padre o di chi ne fa le veci”. I miei genitori erano divorziati e firmava sempre mia madre e questo non ha idea di quanto mi facesse soffrire». 

D. È più importante l’educazione in casa o nelle scuole?

R. «Senza alcun dubbio quella dei genitori».

D. Questo è il mese dell’orgoglio gay. Ritiene sia ancora utile marciare, tra carri e colori, sulle note di I will survive?

R. «Trovo che musica e colori siano la migliore cura dopo un periodo buio e triste come quello dal quale stiamo faticosamente tentando di uscire. Mi auguro che questo spirito si riversi in ogni manifestazione, politica e non».

D. Se venisse invitata come madrina?

R. «Madrina? Semmai padrina!». 

D. Il politicamente corretto e quest’attenzione maniacale alle desinenze affinché finiscano con la “a”, porterà a qualcosa?

R. «Trovo inutile e anche un po’ ridicolo cambiare al femminile un termine maschile. Non sarà mai questo a eliminare le disparità esistenti. E non è certo per questo che un sindaco, un notaio, un avvocato donna si sentono meno rappresentative della categoria». 

D. Ha mai ricevuto avance da parte di una donna?

R. «No, sempre e solo “disavance”». (Ride).

D. Sono stati più gli uomini o le donne, negli anni, a entrare in competizione con lei?

R. «In modo anche piuttosto preponderante gli uomini e, talvolta, usando anche mezzi abbastanza sleali, ma le dirò: meglio guardare avanti». 

D. E se le chiedessi di guardare al futuro?

R. «Mi fermerei al presente. La pandemia mi ha insegnato a vivere giorno per giorno».

D. E io che pensavo rispondesse, dopo questa intervista, “un ritorno in politica con il Pd”.

R. «Allora, come temevo, la strada che porta all’accettazione dell’altrui pensiero è ancora lunga. Molto lunga». (Sorride). 

D. Quando si guarda allo specchio, oggi, chi vede?

R. «Una donna soddisfatta di ciò che ha realizzato e che, con fatica, cerca di mantenere un atteggiamento di ottimismo nonostante quello che stiamo vivendo da oltre un anno».

D. Si piace?

R. «A fasi alterne». 

D. E se tornasse indietro poserebbe ancora per Playboy?

R. «Certo, a patto che venisse fatto un servizio anche per... Playgirl!».

Fratelli dell’arco costituzionale. Storia breve di come nacque, grazie anche a Berlusconi, Boldrini e Pd, il partito di Meloni. Bernardo Sciacchi su L'Inkiesta il 3 ottobre 2021. Tutti i favori parlamentari del centro e della sinistra che agevolarono, nel 2012, la nascita di una destra neo, ex, post fascista lontana dal moderatismo di Fini e, quindi, facile da bastonare e mandare a cuccia ogni volta che un cretino fa un saluto romano. L’errore della leader, oltre ad aver conservato le relazioni con i neri, è stato quello di aver vestito i panni cuciti dagli avversari. L’errore capitale della destra meloniana, fin dalla fondazione di Fratelli d’Italia, non è solo quello di aver conservato relazioni con i vitelloni della fascisteria milanese e romana, ma soprattutto l’aver vestito i panni cuciti da concorrenti e nemici. Silvio Berlusconi, grande sponsor della nascita dei Fratelli d’Italia, voleva una destra estrema, radicale, che potesse aspirare a posizioni di potere solo con la sua intermediazione e che non gli facesse concorrenza al centro. La sinistra adorava l’idea di una persistenza neofascista, che consentisse di sventolare il “pericolo nero” in ogni campagna elettorale, e insieme ad esso la necessità di fare diga contro i barbari (poi quel ruolo è stato in parte trasferito a Salvini, ma sono gli accidenti della storia). Fratelli d’Italia viene fondata nel dicembre 2012, al termine del governo di Mario Monti e alla vigilia delle elezioni politiche. La versione “ufficiale” dice: Giorgia Meloni e Ignazio La Russa sono stanchi del Pdl di Berlusconi, vogliono ricostruire una destra-destra, alleata e non succube del Centro. Insomma, una scissione. Ma la scissione, in realtà, piace così tanto a Berlusconi che i suoi danno battaglia in Parlamento per inserire in extremis, in uno degli ultimi decreti dell’esecutivo, una norma che esenterebbe FdI dal raccogliere le firme per presentare liste autonome alle Politiche ormai imminenti. Alla fine ci si accorda su un robusto sconto del 75% sul numero di sottoscrittori previsto in precedenza, e la corsa di Giorgia può cominciare senza rischi. Non è l’unico trattamento di favore concesso a FdI. In seguito beneficeranno della deroga che consente alla sigla di “fare gruppo” pur avendo solo 9 deputati contro i 20 richiesti, accedendo così ai consistenti contributi di Montecitorio e ottenendo un rappresentante nell’Ufficio di presidenza: l’upgrade viene votato da tutti con entusiasmo, Pd compreso. Poco dopo un altro regalo senza precedenti: Forza Italia (che è in maggioranza, col governo di Enrico Letta) cede a FdI (rimasta all’opposizione) uno dei suoi posti in Giunta per le Autorizzazioni, posizione delicatissima, a cui un gruppo così piccolo non potrebbe aspirare. Laura Boldrini, che presiede la Camera, in teoria arcinemica della destra, accetta lo scambio “in via eccezionale”. Viene scelto per l’incarico Ignazio La Russa. Qualche giorno dopo la Giunta lo eleggerà presidente, ruolo che spetta all’opposizione, a dispetto di M5S e Sel. I giornali sottolineano l’assurdo: non si è mai visto un “presidente di opposizione” che in realtà deve il suo incarico a una furberia di maggioranza. La cosa finirà lì, archiviata tra i tanti strappi della nostra storia parlamentare. Insomma, la destra-destra di Fratelli d’Italia, la destra che riporta l’orologio della destra al pre-Fiuggi, nasce non solo con la benedizione ma col fattivo aiuto dell’area moderata e della stessa sinistra. Ne facilitano il debutto, ne sostengono i primi passi, la incoraggiano nel suo percorso radicale, sovranista, estremo, malgrado i deludenti risultati ottenuti alla prima prova delle urne, la coccolano. Oggi che è al 20 per cento, Giorgia Meloni scopre due pessime cose. Primo, la “purezza” si paga: l’aver circoscritto la sua classe dirigente ai fedelissimi e agli antemarcia è un serio ostacolo alle ambizioni di governo persino nelle città, dove non riesce ad arruolare neppure un “civico” decente. Secondo: la limatura estremista che ha calamitato con la sua linea pre-Fiuggi può aprirle un baratro sotto i piedi. I vestiti cuciti dal Centro e dalla Sinistra per la leader di FdI si rivelano, così, una camicia di forza e rovesciano l’accusa classica che il mondo dei Fratelli ha fatto al moderatismo di Gianfranco Fini: lavorare per ottenere il gradimento della sinistra. Lo hanno ripetuto in mille circostanze, ogni volta che il loro vecchio leader si discostava dalla linea ultras sui diritti, sull’immigrazione, sulle regole costituzionali, persino nel giudizio sulle leggi razziali: “Ah, il solito Fini, che cerca l’applauso dei compagni”. Un errore blu nell’interpretazione del reale. La destra che piace alla sinistra è esattamente quella che vediamo in questi giorni: una destra facile da bastonare e mandare a cuccia appena un cretino fa un saluto romano; una destra che, se cresce troppo, può essere rispedita nel ghetto in cinque minuti, con il video di un cinquantenne sovrappeso che si fa chiamare Barone Nero.

Cinque sfumature di nero. Report Rai PUNTATA DEL 07/12/2020 di Giorgio Mottola, consulenza di Andrea Palladino, collaborazione di Norma Ferrara. Fratelli d'Italia non è primo solo nei sondaggi che riguardano il suo leader Giorgia Meloni, ma nell'ultimo anno e mezzo è il primo partito in Parlamento anche per numero di arrestati per 'ndrangheta. Quello dei rapporti con la criminalità organizzata è un problema che non riguarda solo i nuovi arrivati: coinvolge anche alcuni dirigenti storici del partito. Come l'ex parlamentare Pasquale Maietta, oggi autosospeso dal partito, definito da Giorgia Meloni "uno dei migliori dirigenti nazionali di Fratelli d'Italia". Mentre era deputato e tesoriere del partito alla Camera, intratteneva stretti rapporti con uno dei capi del clan Di Silvio, la famiglia mafiosa di origine sinti imparentata con i Casamonica. Pasquale Maietta è accusato di aver messo in piedi un sistema di riciclaggio e di evasione da oltre 200 milioni di euro, che avrebbe attuato anche mentre era tesoriere del gruppo di Fratelli d'Italia alla Camera e presidente del Latina Calcio. Report ha scoperto che alcune delle società che compaiono nelle carte dell'inchiesta, che vede Maietta sotto processo, avrebbero finanziato la campagna elettorale per la Camera dei deputati. La sua rete di riciclaggio arrivava fino in Svizzera e, secondo la Procura di Latina, sarebbe stata gestita dal figlio dell'avvocato di Licio Gelli. Negli ultimi tempi sembrano inoltre essere diventati più stretti i rapporti tra Fratelli d'Italia e Casapound, l'organizzazione neofascista che attraverso i suoi leader è riuscita a mettere in piedi un piccolo impero imprenditoriale che vale circa 2 milioni di euro all'anno. Durante la seconda ondata dell'epidemia, Casapound si è resa protagonista di alcuni scontri di piazza. Proprio come Forza Nuova, l'altro movimento neofascista che in questi mesi ha costruito una coalizione che comprende antivaccinisti, oppositori del 5G, negazionisti del Covid e le frange più violente del mondo ultras. 

NOTA DEL 10/02/2021. Nel servizio "Cinque sfumature di nero", andata in onda il 7 dicembre 2020 avevamo dato conto di una conversazione tra un boss della 'ndrangheta a Milano e l'attuale dirigente di Casapound Marco Clemente il quale, riferendosi a un negoziante che non voleva pagare il pizzo, avrebbe detto: "Spero muoia come un cane". Le parole riportate sono state attribuite a Clemente in un provvedimento ufficiale contro le cosche del tribunale di Milano. Il dottor Clemente precisa di "non essere mai stato intercettato telefonicamente in una conversazione con un boss della 'Ndrangheta; infatti una specifica perizia fonografia sulla voce presente nella conversazione intercettata ne esclude la seppur minima riferibilità a Marco Clemente. Quest'ultimo, per di più, disconosce le persone coinvolte e condanna fermamente, ora come allora, il tenore delle parole proferite. Si informa, in ultimo, che il signor Clemente mai è stato coinvolto, né in veste di invitato e neppure di persona informata sui fatti, nella vicenda giudiziaria nella quale l'intercettazione è stata riversata", come peraltro da noi precisato già nel corso dello stesso servizio. 

“50 SFUMATURE DI NERO” Di Giorgio Mottola Collaborazione Norma Ferrara Immagini Grafiche Giorgio Vallati Montaggio Andrea Masella

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Giorgia Meloni è il leader del momento. In testa a tutti gli indici di gradimento dei capi politici, sta spingendo il suo partito, Fratelli d’Italia verso vette di consenso che mai avrebbe immaginato. Radicato a Roma e fondato su una solida base di nostalgici della vecchia Fiamma, Fratelli d’Italia si sta trasformando sempre di più in partito nazionale. Sono davvero tanti i politici che, sulla spinta della crescita nei sondaggi, negli ultimi mesi sono saltati sul carro di fratelli d’Italia. Alcuni di loro però hanno portato in dote frutti che sembrano avvelenati. Come l’ex forzista piemontese Roberto Rosso.

ROBERTO ROSSO - EX ASSESSORE REGIONALE LEGALITÀ REGIONE PIEMONTE Noi ci auguriamo che sia possibile creare una condizione in cui Fratelli d’Italia diventi il vero amico del Piemonte, di Torino. Vero amico dei cantieri, delle imprese, del lavoro e della sicurezza naturalmente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’amicizia però è scattata con la ‘ndrangheta. Roberto Rosso infatti, viene nominato assessore regionale alla legalità per Fratelli d’Italia, ma poche settimane prima era stato filmato mentre pagava 10 mila euro a esponenti delle cosche piemontesi per acquistare un pacchetto di voti. Dopo l’arresto il coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia Guido Crosetto ne ha preso le difese.

GUIDO CROSETTO - COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA È uno che farebbe qualunque cosa per prendere un voto ma porterebbe a votare un moribondo ma non mi è mai sembrato uno che possa intrattenere rapporti con la mafia o con il racket.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E sempre per voto di scambio con la ‘ndrangheta, pochi mesi fa è finito in manette anche un altro acquisto recente di Fratelli d’Italia, Giuseppe Caruso, presidente del consiglio comunale di Piacenza, arrestato per aver aiutato le cosche ad accedere ai fondi europei. Un mese dopo è toccato invece a un consigliere comunale di Ferno, in provincia di Varese: Enzo Misiano. Responsabile locale di Fratelli d’Italia curava gli interessi delle cosche in comune e faceva da autista al boss.

GIORGIO MOTTOLA C’è un problema di selezione della classe dirigente?

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Che intende?

GIORGIO MOTTOLA Ne arrestano spesso, vengono indagati e poi quasi sempre per rapporti con la criminalità organizzata, ‘ndrangheta o altri clan.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Io ho cominciato a fare politica quando hanno ucciso Paolo Borsellino e l’ultima cosa che è possibile nella mia vita e nella mia attività politica è che qualcuno utilizzi i sacrifici che sto facendo per fare favori alla criminalità organizzata.

GIORGIO MOTTOLA Perché scelgono proprio Fratelli d’Italia?

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA No, guardi… scusi.

GIORGIO MOTTOLA Ad esempio a Ferno…

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Scelgono fratelli d’Italia, dai però… Voi siete il servizio pubblico, Mottola…

GIORGIO MOTTOLA E infatti… ho fatto una domanda.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Se siete il servizio pubblico, il lavoro lo dovete fare bene.

 GIORGIO MOTTOLA Statisticamente negli ultimi mesi… stiamo parlando di Fratelli d’Italia…

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Fate i seri ‘na volta tanto perché vi paga il servizio pubblico, vi pagano gli italiani. Quindi questa cosa qui voi non la dovete fare, va bene? Quando è accaduto a Fratelli d’Italia e vi siete accorti solo in questo caso che c’è un problema e sono contenta…

GIORGIO MOTTOLA Ne abbiamo parlato anche rispetto a tutti gli altri partiti, come lei sa. Lei sa bene che ne abbiamo parlato…

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Sarà mia cura… Non mi pare proprio.

GIORGIO MOTTOLA È record di uno arrestato prima…

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Tre casi, ci sono 3 casi.

GIORGIO MOTTOLA C’è Pitelli…

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA No, Pitelli, non stava in Fratelli d’Italia scusi, si informi meglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Giancarlo Pittelli è stato uno dei primi acquisti importanti di Fratelli d’Italia. Ex parlamentare calabrese di Forza Italia, nel 2017 Giorgia Meloni annunciò il suo ingresso nel partito con un tweet in cui definiva Pittelli un valore aggiunto per la Calabria e per l’Italia. Lo scorso dicembre è stato arrestato con l’accusa di essere l’elemento di cerniera tra la ‘ndrangheta, la massoneria e le istituzioni. E così ai 4 arresti del 2019, nel 2020 si sono aggiunti gli altri dalla Calabria. Innanzitutto Domenico Creazzo, consigliere regionale di Fratelli d’Italia. Eletto a gennaio, è stato arrestato prima che potesse insediarsi in consiglio. In carcere è stato preceduto da un altro consigliere regionale di Fratelli d’Italia Alessandro Nicolò, arrestato anche lui perché al servizio delle cosche.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Ma secondo lei io c’ho una sfera di cristallo? No mi dica lei come si fa. Allora, mi trovi lei la soluzione, mi dica lei come si fa a sapere che qualcuno semmai ha dei problemi quando non c’è un’indagine, a chi vai a chiedere non te lo possono manco dire se lo sanno comunque non te lo dicono. Per cui secondo lei io devo conoscere personalmente tutte le migliaia di candidati nelle liste di Fratelli d’Italia che ci sono in Italia? No!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO É ovvio che l’onorevole Meloni, alla quale riconosciamo il fatto che è tenace e comunque ci ha sempre risposto, nonostante i contrasti che abbiamo avuto in questi ultimi anni, non può conoscere tutti i candidati. E quello che vedremo questa sera – lo dico senza ironia – è avvenuto a sua insaputa. L’onorevole Meloni ha cominciato a fare politica quando sono stati uccisi i giudici Paolo Borsellino, Falcone e gli uomini della scorta. Ed è cresciuta animata da un sincero sentimento della legalità. Tuttavia, un leader deve sapere che quando un partito cresce a dismisura, è facile che possano salire su quel carro opportunisti, affaristi e criminali. Questo perché vogliono continuare, schermati dalla politica, a fare indisturbati i loro affari, a esercitare un controllo sul territorio che si traduce anche in voti. Per questo un leader deve essere attento. Giorgia Meloni ha scelto di candidarsi in un collegio blindato, quello di Latina; è blindato storicamente per Fratelli D’Italia. Ed è andata nel 2014 a omaggiare quello che considerava l’astro nascente della politica di Fratelli D’Italia: un giovane commercialista, Pasquale Maietta. La sua ascesa politica corrisponde a quella calcistica. Maietta entra nel Latina Calcio dopo il fallimento, quando dalla promozione poi lo porta alle soglie della serie A. Un successo che ha portato entusiasmo sportivo, ma anche politico: Maietta è un commercialista e gli viene affidato il compito da parte del partito, di tesoriere del gruppo di Fratelli D’Italia alla Camera dei Deputati. Ma tra vip e politici che frequentano la tribuna del Latina Calcio, nessuno si accorge che a bordo campo ci sono delle presenze ingombranti. La più ingombrante di tutte è quella di Cha Cha Di Silvio. É il capo di una famiglia omonima che è stata accusata per alcuni esponenti di associazione mafiosa. Di Silvio è stato condannato a 10 anni in appello per associazione per delinquere e, secondo alcuni collaboratori di giustizia il clan Di Silvio avrebbe dato il proprio sostegno alle campagne elettorali di molti candidati di Fratelli D'Italia. Ora i magistrati antimafia di Latina accusano Maietta di aver messo in piedi attraverso società fittizie e prestanomi, un sistema che ha consentito riciclaggio e evasione per una cifra impressionante, 200 milioni di euro. E questo riciclaggio e evasione sarebbe avvenuto anche mentre Maietta era il tesoriere alla Camera dei Deputati del gruppo di Fratelli D’Italia. E Report, il nostro Giorgio Mottola, ha anche scoperto che alcune delle società usate per riciclare e per l’evasione, hanno contribuito alla sua campagna elettorale. La pista dei soldi porta in Svizzera, presso un avvocato che è il figlio dell’avvocato di Licio Gelli. Ma è una pista che è insanguinata da due misteriosi suicidi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Latina è il feudo elettorale di Fratelli D’Italia e il collegio preferito di Giorgia Meloni, è infatti qui che si è fatta eleggere parlamentare alle ultime elezioni.

VIDEO DEL 2020 GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Questa è una terra nella quale si respira amore. Nella quale si respira patriottismo. Nella quale si respirano i valori fondamentali e tradizionali che noi continuiamo a difendere nonostante siano considerati politicamente scorretti: Dio, Patria, Famiglia! GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Latina è stata fondata da Benito Mussolini nel 1932 durante la bonifica dell’Agropontino.

BENITO MUSSOLINI (INAUGURAZIONE LATINA) Oggi è una giornata fausta per l’Agropontino. È qui che noi abbiamo conquistato una nuova provincia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da allora, la destra è rimasta sempre molto radicata da queste parti. E Fratelli d’Italia ne ha fatto il suo feudo elettorale. Qui c’è la classe dirigente fiore all’occhiello del partito di Giorgia Meloni.

GIORGIA MELONI - PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA 2 maggio 2014 Perché qui possiamo contare obiettivamente su quella che è forse una delle migliori classi dirigenti che Fratelli d’Italia e Alleanza Nazionale può vantare su tutto il territorio nazionale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla sinistra di Giorgia Meloni siede il senatore di Latina Nicola Calandrini, non risulta indagato, ma alcuni pentiti della mafia di Latina lo hanno di recente accusato di voto di scambio con i clan locali. A destra invece c’è l’allora sindaco di Latina, Giovanni Di Giorgi, arrestato per una serie di reati che vanno dall’abuso d’ufficio alla turbativa d’asta. Ma soprattutto c’è lui: Pasquale Maietta, considerato l’astro nascente di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni lo incorona come il migliore tra i migliori dirigenti nazionali di fratelli d’Italia.

GIORGIA MELONI - PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA 2 maggio 2014 Grazie a nove parlamentari straordinari che abbiamo e tra questi Pasquale Maietta è sicuramente uno dei migliori. Lo ringrazio anche perché noi con Pasquale ci prendiamo soddisfazioni di ogni genere. Ci prendiamo soddisfazioni politiche, soddisfazioni calcistiche. Io lo sto cercando di convincere ormai da un anno a comprarsi anche la Roma ma lui non ne vuole sapere niente e quindi noi veniamo a tifare Latina perché ci piace tifare il Latina calcio.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Presidente del Latina Calcio e deputato di Fratelli d’Italia. Pasquale Maietta ricopriva il delicato ruolo di tesoriere del partito alla Camera. La sua è stata una carriera politica fulminante, favorita anche dai successi della sua squadra di calcio.

 PASQUALE MAIETTA-VICE PRESIDENTE US LATINA E finalmente proveremo a portare per la prima volta nella storia il Latina nella serie A. Perché no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pasquale Maietta diventa il dominus assoluto del Latina Calcio nel 2010, dopo il fallimento della società e la ripartenza dalla promozione.

 GIORGIO MOTTOLA Cosa cambia con l’arrivo di Maietta?

DAMIANO COLETTA - SINDACO DI LATINA ED EX VICEPRESIDENTE LATINA CALCIO Hanno cominciato ad affacciarsi ai bordi del campo durante gli allenamenti queste persone, io l’ho segnalato…

GIORGIO MOTTOLA Che persone?

DAMIANO COLETTA - SINDACO DI LATINA ED EX VICEPRESIDENTE LATINA CALCIO Parlo di criminalità, parlo delle famiglie rom. Facevano parte appunto del clan Di Silvio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I Di Silvio, imparentati con i Casamonica, sono il clan di origine sinti che vive in questo quartiere di Latina. Per anni ha dominato incontrastato in città e in buona parte dell’Agropontino grazie al traffico di droga, le estorsioni e l’usura.

GIANLUCA DI SILVIO - CLAN DI SILVIO Noi semo disperati, semo gente onesta. Non ce la famo più. Semo esausti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Uno dei capi del clan era all’epoca Costantino di Silvio detto Cha Cha. Con l’arrivo di Maietta alla presidenza del Latina Calcio, diventa molto popolare allo stadio e all’interno della squadra di calcio.

CONSTANTINO DI SILVIO DETTO CHA CHA Pa, pa, pa, pa, pa…

GIORGIO MOTTOLA Quindi con Maietta nel Latina Calcio entrano anche esponenti del clan Di Silvio?

DAMIANO COLETTA - SINDACO DI LATINA ED EX VICEPRESIDENTE LATINA CALCIO Ci sono state anche le dichiarazioni del questore De Matteis, l’allora questore di Latina, insomma, che gli è capitato di essere ricevuto in tribuna da uno di questi capoclan insomma no?

GIORGIO MOTTOLA Ah, facevano anche gli onori di casa allo stadio?

DAMIANO COLETTA - SINDACO DI LATINA ED EX VICEPRESIDENTE LATINA CALCIO Eh in qualche modo sì. A quel punto vedendo una situazione poco chiara, con tutto il rispetto per chi è andato allo stadio. Io non sono più andato allo stadio.

LIVE TELECRONACA Ci siamo, è arrivato il momento decisivo, gli ultimi 90 minuti…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla partita dei playoff con cui il Latina manca per un soffio la promozione in A, è presente anche Giorgia Meloni. Ma in tribuna presenza fissa era allora anche Cha Cha Di Silvio, figura diventata sempre più ingombrante per la squadra di Maietta.

CONSTANTINO DI SILVIO DETTO CHA CHA Sto arrivando porco…! Nella fossa del gruppo!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questa foto il capoclan, con indosso la divisa societaria è in posa per un selfie scattato da Mark Iuliano, ex difensore della Juventus e della nazionale, per un paio di stagioni allenatore del Latina.

GIORGIO MOTTOLA Cha Cha Di Silvio era molto presente nella vita della squadra?

MARK IULIANO - EX ALLENATORE LATINA CALCIO Non so se era un tifoso, amico del presidente d’infanzia. Pensi che un giorno offrì la colazione a mia suocera, a mia moglie e a mio figlio, lo chiamai per ringraziarlo.

GIORGIO MOTTOLA E quindi l’ha visto spesso con Maietta?

MARK IULIANO - EX ALLENATORE LATINA CALCIO L’ho visto diverse volte con lui o con altre persone.

GIORGIO MOTTOLA Quando lei diventa presidente del Latina Calcio Cha Cha Di Silvio comincia a vedersi sempre più allo stadio, ha un ruolo, sembra proprio, all’interno della società.

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Perfetto. Nell’anno credo 2015-2016 partimmo per il ritiro, ok? In quel momento siccome avevamo una carenza di magazzinieri, io chiamai questa persona che era una persona di strada, gli dissi vuoi lavorare 20 giorni per il Latina Calcio a fare il magazziniere?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quello che Maietta non dice è che il magazziniere stagionale Cha Cha di Silvio era, all’insaputa di tutti, il vero proprietario dello stemma del Latina Calcio attraverso l’As Campo Boario, associazione calcistica che giocava in questo campo sportivo e di cui condivideva le quote con Gianluca Tuma, in stretti rapporti con la criminalità di Latina. Imputato per minacce a un giornalista, è stato processato e poi prescritto per aver dato una testata a un poliziotto all’interno della questura di Latina.

GIORGIO MOTTOLA Insieme a Cha Cha avevi lo stemma del Latina Calcio?

GIANLUCA TUMA Ma questa è un’altra cosa. Queste so cose commerciali. Cioè se loro so stupidi che non hanno registrato, io da imprenditore ho visto l’opportunità e sono andato a registra’…

GIORGIO MOTTOLA Chiaramente.

GIANLUCA TUMA Squadra arrivata in serie B…

GIORGIO MOTTOLA E anche tu come Cha Cha eri molto amico di Pasquale Maietta?

GIANLUCA TUMA Ma a Latina come facciamo a non conoscerci? Ci conosciamo tutti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I rapporti tra Cha Cha di Silvio e Pasquale Maietta sembrano diventare ancora più stretti dopo la sua elezione alla Camera dei Deputati con Fratelli d’Italia. Cha Cha di Silvio festeggia così la carica conquistata dall’amico.

COSTANTINO DI SILVIO DETTO CHA CHA Pasqualuccio è onorevole! Ciao Onorevole! Onorevole! Come va? Come la va onorevole? Onorevole, come la va?

GIORGIO MOTTOLA Ma lei nega di avere un rapporto molto stretto con Costantino di Silvio?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Ho avuto un rapporto di amicizia con questa persona. Un rapporto di amicizia nato sui campi di calcio e anche quando sono arrivato diciamo all’apice della mia vita dal punto di vista professionale e politico, non ho mai rinnegato questa amicizia.

GIORGIO MOTTOLA Di Silvio però era un capoclan a Latina. Gestiva delle attività criminali ed era uno dei criminali più pericolosi lì a Latina?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 È certificato che ha commesso dei reati? Li ha commessi per conto suo. Io non potevo essere con lui tutte le 24 ore. Io stavo con lui quei 10 minuti in cui lo incontravo al bar.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dai racconti che fanno in città risulta che si trattasse molto più di un caffè ogni tanto. Maietta si faceva vedere quasi tutti i giorni nelle vie dello struscio di Latina in compagnia di Cha Cha Di Silvio, frequentavano insieme i bar e i negozi del centro.

GIORGIO MOTTOLA Di Silvio veniva anche con Pasquale Maietta qui?

NEGOZIANTE Venivano come due amici che uno chiedeva un consiglio all’altro, capito?

GIORGIO MOTTOLA Capito.

NEGOZIANTE C’era questa amicizia tra loro due che era dai tempi della scuola. Quindi…

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Io pensavo che la politica potesse essere fatta per strada e quindi se io incontro una persona come Costantino Di Silvio che potenzialmente poteva essere uno che faceva reati, io ho sempre avuto il dovere morale di indurlo a fare una vita sana dal punto di vista morale…

GIORGIO MOTTOLA Quindi lo frequentava per redimerlo in qualche modo?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 No lo frequentava e non pensavo di redimerlo. Io avevo un rapporto con lui che se lo incontravo al bar gli dicevo: mi raccomando comportati bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E forse proprio per tornare sulla buona strada, Cha Cha Di Silvio inizia a frequentare le iniziative elettorali di Fratelli d’Italia. Nel 2014 è presente a Terracina a un comizio di Maietta, allora deputato e candidato alle europee per Fratelli d’Italia. Quella sera una persona tra il pubblico prova a fargli domande scomode. Mal gliene incolse.

ANGELO NARDONE - ASSOCIAZIONE CAPONNETTO TERRACINA Fui buttato fuori da un servizio d’ordine un po’ anomalo di cui a capo c’era Cha Cha, Costantino Di Silvio.

GIORGIO MOTTOLA Che era presenta nella sala?

ANGELO NARDONE - ASSOCIAZIONE CAPONNETTO TERRACINA Era più che altro presente, faceva proprio il servizio d’ordine diciamo, capito? Mi sono visto preso da 7-8 persone con la forza, sollevato di peso e buttato fuori.

GIORGIO MOTTOLA A questa assemblea pubblica in cui Di Silvio faceva da servizio d’ordine chi erano i politici presenti?

ANGELO NARDONE - ASSOCIAZIONE CAPONNETTO TERRACINA L’onorevole Calandrini, poi c’era Maietta, il sindaco di Sonnino e dopo doveva arrivare Nicola Procaccini.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicola Procaccini, oggi europarlamentare di Fratelli d’Italia, era all’epoca il sindaco di Terracina. Nel 2015 la giunta rischia di cadere a causa di tre consiglieri del suo partito che intendono ritirare l’appoggio alla maggioranza. Per salvare l’amministrazione di Fratelli d’Italia, Pasquale Maietta telefona al vicesindaco dell’epoca Gianfranco Sciscione chiedendogli di intervenire su Umberto Di Mario, uno dei 3 consiglieri dissidenti.

GIANFRANCO SCISCIONE - EX VICESINDACO DI TERRACINA Maietta mi sollecitava con certa violenza, non nei miei confronti, di fermarlo perché doveva andare a firmare la sfiducia a Procaccini. GIORGIO MOTTOLA Maietta aveva un tono molto minaccioso rispetto a Di Mario?

GIANFRANCO SCISCIONE - EX VICESINDACO DI TERRACINA Sì, pezzo di merda lo chiamava, perché deve andare a firmare? Riattacco a lui e chiamo Di Mario. Ma che sta succedendo? No Gianfrà, stai bono, tu sei ‘na brava persona, non c’entri niente io mi so’ stufato però guarda sto con mia moglie in macchina, sto andando a Latina. Alle 11 poi non mi ha chiamato, ho pensato avrà fatto tardi, mi so messo a dormire.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma da Di Mario non arriva nessuna chiamata perché mentre è in auto verso la Latina, viene avvicinato da un’altra macchina. Scende uno sconosciuto e lo minaccia intimandogli di ritirare la firma dal documento di sfiducia contro Procaccini. GIORGIO MOTTOLA Ha tagliato la strada che ha fatto?

UMBERTO DI MARIO - EX CONSIGLIERE COMUNALE TERRACINA No, no…

GIORGIO MOTTOLA Ah lampeggiava e ha chiesto di accostare..

UMBERTO DI MARIO - EX CONSIGLIERE COMUNALE TERRACINA Io pensavo che fossero i carabinieri, la polizia.

GIORGIO MOTTOLA È sceso e ha detto …

UMBERTO DI MARIO -EX CONSIGLIERE COMUNALE TERRACINA Ma tu sei? Sì, sì…

GIORGIO MOTTOLA Devi ritirare la firma, ha detto

UMBERTO DI MARIO -EX CONSIGLIERE COMUNALE TERRACINA A me? Dissi. Ma che cazzo volete.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante la minaccia esplicita il consigliere di Mario non ritira la firma e la giunta targata Fratelli d’Italia viene sfiduciata. GIORGIO MOTTOLA Tu sei stato coraggiosissimo, nonostante le minacce…

UMBERTO DI MARIO -EX CONSIGLIERE COMUNALE TERRACINA Pazzo, non coraggioso.

GIORGIO MOTTOLA Pazzo?

UMBERTO DI MARIO -EX CONSIGLIERE COMUNALE TERRACINA Pazzo! Quello non è coraggio, significa essere deficiente perché se ci pensi a freddo sei un deficiente a fare una cosa del genere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stando a quanto raccontano ai magistrati i pentiti del clan Di Silvio, dalla famiglia mafiosa di origini sinti in più occasioni sarebbe arrivato sostegno elettorale a vari candidati di Fratelli d’Italia nel collegio di Latina. E in particolare con Pasquale Maietta ci sarebbero stati alcuni casi di voto di scambio. GIORGIO MOTTOLA La famiglia Di Silvio, quindi capeggiata da Cha Cha le hanno dato un sostegno elettorale durante le sue candidature?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Ehhhh…

GIORGIO MOTTOLA Questo non lo può negare.

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 E invece lo nego. Io non posso negare che probabilmente Costantino Di Silvio se sarà andato nell’urna…

GIORGIO MOTTOLA Ha votato per lei.

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Ha votato per me, anzi forse ne sono certo.

GIORGIO MOTTOLA Attaccavano i manifesti per conto loro, da quello che ci raccontano hanno fatto delle minacce?

 PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Io le posso raccontare? Che ci fossero delle persone di strada, anche rom, che svolgessero l’attività di attacchinaggio per conto di tutti i partiti o gran parte degli esponenti politici candidati, questa è una verità. Non lo facevano per me, cioè io non avevo una squadra degli zingari che andavano in giro per mio conto ad attaccare i manifesti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo le inchieste e il rinvio a giudizio Pasquale Maietta non si è più ricandidato con Fratelli d’Italia nel 2018. Si è autosospeso dal partito, ma finora nessuno dalle parti di via della Scrofa ne ha preso le distanze ufficialmente con una dichiarazione pubblica.

GIORGIO MOTTOLA Ad esempio di Pasquale Maietta non ha mai preso le distanze, da lui non le ha mai preso. Ha detto che era uno dei migliori dirigenti nazionali.

 GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Ma non è vero neanche questo.

GIORGIO MOTTOLA Non ha mai preso le distanze.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Non è vero neanche questo, Pasquale Maietta è stato allontanato da Fratelli d’Italia.

GIORGIO MOTTOLA Ha detto che era uno dei migliori dirigenti di Fratelli d’Italia

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Non è vero.

GIORGIO MOTTOLA C’è un video.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Mi scusi.

GIORGIO MOTTOLA Prego, prego.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Quando non c’erano problemi su questa persona, ma che discorso è.

GIORGIO MOTTOLA Molti pentiti hanno parlato dei rapporti tra i Di Silvio e Fratelli d’Italia.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Guardi io non lo so questo, non ho elementi. Se lei ha ci ha e mi li può dare quando io ho i vostri elementi. Guardi facciamo così un bell’appello agli inquirenti: cari signori inquirenti quando avete informazioni che volete semmai condividere con noi su questo tema, vi preghiamo in ginocchio, datecele! Aiutatici a combattere eventuali tentativi di infiltrazione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sarebbe meraviglioso. Ora però il fatto che Cha Cha Di Silvio fosse in odore di mafia in città, a Latina, era il segreto di pulcinella. Lui faceva il magazziniere della squadra di calcio, c’è chi c’ha lo stalliere, e chi il magazziniere. Però è un magazziniere anomalo perché era anche il detentore del marchio del Latina Calcio. Poi accompagna Maietta a prendere il caffè, a fare compere, fa, con i suoi familiari, appende i manifesti elettorali, fa il servizio d’ordine quando ci sono i convegni, i congressi di Maietta e anche a quelli degli altri candidati di Fratelli d’Italia, sbattendo fuori chi non è d’accordo con le loro idee. E poi quando Maietta vince le elezioni, festeggia il suo candidato preferito andando in giro nudo su un risciò. Ora l’ex tesoriere Maietta dice “quando io incontravo Cha Cha al bar gli dicevo fai il bravo, cercavo di metterlo sulla buona strada”, poi per paradosso è lui che ha imboccato quella sbagliata. Almeno secondo i magistrati che lo accusano di aver messo in piedi attraverso società fittizie e prestanome un sistema per riciclare ed evadere circa 200 milioni di euro. Ora Maietta è un commercialista e per questo il partito Fratelli d’Italia gli dà l’incarico di tesoriere del gruppo della camera dei deputati: lui gestisce l’amministrazione, le fatture, e tutti i giustificativi di spesa per un totale di circa un milione di euro, ha gestito, tra il 2013 e il 2016. Si autosospende quando viene resa pubblica la prima inchiesta che lo coinvolge, quella dei favori presunti che il comune di Latina, amministrato da un altro Fratelli d’Italia gli ha fatto nei panni di Maietta presidente della squadra di calcio. Ora, il muro della mafia di Latina che è stato sempre impenetrabile, ha cominciato a mostrare le sue crepe quando i pentiti, i collaboratori di giustizia hanno cominciato a dare il loro contributo. Si sono scoperti i luoghi presunti del riciclaggio, c’è una pista che porta in Svizzera, nello studio di quello che è il figlio dell’avvocato di Licio Gelli. Ma questa è una pista insanguinata, dove c’è anche dietro il mistero di due suicidi. GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda rispetto ai soldi che secondo l’accusa lei avrebbe riciclato. Di chi erano questi soldi?

 PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Guardi…

GIORGIO MOTTOLA Parliamo di milioni e milioni di euro, decine di milioni!

 PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA 2013-2018 Sì però queste cose le deve definire il processo quindi…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dai registri della Camera dei Deputati che abbiamo consultato sembra esserci un filo nero che collega le società coinvolte nell’inchiesta per riciclaggio di Maietta alla campagna elettorale del 2013, che lo consacra tesoriere di Fratelli d’Italia. Ci sono infatti tre aziende che quell’anno finanziano la sua propaganda politica: Lepincar, Transport Learning e il Fai di Latina. Secondo la procura, farebbero parte della rete di società messa in piedi nel tempo da Pasquale Maietta che, anche mentre era deputato e tesoriere del gruppo alla camera avrebbe continuato a evadere e riciclare attraverso società fittizie e conti offshore oltre 200 milioni di euro. GIORGIO MOTTOLA Ma mi può dire se alcune delle società coinvolte nell’inchiesta hanno finanziato anche la campagna elettorale di fratelli d’Italia?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA No?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Queste sono cose.

GIORGIO MOTTOLA Noi abbiamo ritrovato che ci sono società che hanno finanziato la sua di campagna elettorale, di quelle che rientrano nelle carte.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO L’impero politico e finanziario di Pasquale Maietta ha iniziato a scricchiolare l’antivigilia di Natale del 2015, quando a Latina si verifica un suicidio eccellente. Nel suo studio legale si spara alla tempia il penalista Paolo Censi. Un suicidio inspiegabile, quasi misterioso. L’avvocato era all’apice della sua carriera. Si uccide senza lasciare né un biglietto, né un messaggio ai suoi cari.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella pattumiera dello studio di Censi, accanto al cadavere sono stati ritrovati alcuni pizzini con sopra il nome del parlamentare di Fratelli d’Italia. In uno di questi appunti c’è scritto 10 anni e si legge distintamente la parola Maietta, collegato alla scritta reato fiscale frode 2-6 anni. In un altro invece si leggono le parole evasione, riciclaggio e Associazione unite con una freccia alla frase Pasquale è dentro.

GIORGIO MOTTOLA C’è l’altra questione che è il suicidio di Paolo Censi.

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA E leggi le carte e vedi se il motivo per quale loro hanno indagato no, sull’uccisione di Paolo Censi… ci sono indagini… ci sono… ehm… provo… parliamo del processo… però. GIORGIO MOTTOLA Perché hanno trovato dei pizzini che la riguardavano, c’era scritto Maietta 10 anni. Che voleva dire quel Maietta dieci anni?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Non l’ho scritto io, non lo so è oggetto del processo.

GIORGIO MOTTOLA Lei era cliente di Censi?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA No assolutamente no, neanche lo conoscevo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Qualche giorno dopo il suicidio, stando alla ricostruzione di un pentito, un boss della mafia locale Riccardo Agostino avrebbe spiegato che dietro alla morte di Censi ci sarebbe una questione di soldi in Svizzera da 50-60 milioni di euro di Maietta. E a distanza di qualche mese dalla morte dell’avvocato, a Latina si toglie la vita anche un presunto prestanome di Maietta, Francesco D’Agostino. GIORGIO MOTTOLA C’è questa coincidenza che tutti e due i suicidi avvengono uno a distanza di poco tempo e in qualche modo sfiorano il suo mondo

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Eheh….è un fatto che mi dispiace però non è che posso rispondere su qualcosa che… ci sono le carte del processo che indicano per quale motivo loro hanno fatto… io non lo voglio dire perchè devo avere rispetto per la famiglia.

GIORGIO MOTTOLA D’Agostino era comunque un prestanome o no?

UOMO Non rispondere!

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO L’11 dicembre 2015, due settimane prima di uccidersi, Paolo Censi fa un lungo viaggio da Latina fino a Lugano. L’avvocato avrebbe dovuto trovare un modo per far rientrare in Italia il tesoro delle società di Maietta occultato qui in Svizzera. Per questo fa tappa in questo palazzo al centro di Lugano. Qui ha sede la Smc Trust, la fiduciaria considerata dai magistrati cervello del sistema di riciclaggio di Maietta, presieduta da Max Spiess. Ci presentiamo presso gli uffici della società e proviamo a fissare un appuntamento.

GIORGIO MOTTOLA Mi chiamo Giorgio Mottola, vorrei parlare con il dottor Spiess.

STUDIO SMC SVIZZERA Aveva un appuntamento?

GIORGIO MOTTOLA No.

STUDIO SMC SVIZZERA No, perché non c’è…se ha bisogno possiamo fissare un altro appuntamento.

GIORGIO MOTTOLA Domani in mattinata, magai riesco.

STUDIO SMC SVIZZERA Undici e mezza?

GIORGIO MOTTOLA Undici e mezza si, perfetto.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Max Spiess è il figlio di Giangiorgio Spiess, avvocato storico di Licio Gelli in Svizzera. Il suo studio legale ha sede a pochi metri dalla Smc Trust, in questo palazzo frequentato dall’allora venerabile capo della P2. Socio di studio di Giangiorgio Spiess fino a poco tempo fa era il potente Tito Tettamanti, il finanziere elvetico che ha sostenuto la campagna europea di Steve Bannon, l’ex capo stratega di Donald Trump. Giangiorgio Spiess è uno dei fondatori della Smc Trust. La cui presidenza è stata poi ereditata dal figlio Max. Alle 11.30 spaccate ci ripresentiamo nel suo studio.

STUDIO SMC SVIZZERA Oggi non la riceve nessuno.

GIORGIO MOTTOLA E come mai?

STUDIO SMC SVIZZERA Così mi ha detto.

 GIORGIO MOTTOLA Ieri mi aveva detto alle 11.30.

STUDIO SMC SVIZZERA Si, dopo ho parlato con il signor Spiess che mi ha detto così.

GIORGIO MOTTOLA Gli volevo chiedere rispetto alla visita di Paolo Censi, dell’avvocato Paolo Censi. Qui nel 2015

STUDIO SMC SVIZZERA No, mi dispiace non la riceve nessuno.

GIORGIO MOTTOLA Gli volevo anche chiedere di questa inchiesta di Maietta

STUDIO SMC SVIZZERA No mi dispiace mi hanno detto che non la ricevono.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Max Spiess sarebbe stato consapevole della provenienza illecita del denaro di Pasquale Maietta: in questo documento esclusivo il parlamentare di Fratelli d’Italia specifica infatti che l’origine dei soldi è: onorari non fatturati. Per riciclare il denaro delle società di Maietta, Spiess si sarebbe servito di una rete di aziende legate alla Smc che hanno sede in Svizzera e che arrivano fino a Panama, alla Giamele. La stessa compagnia utilizzata per far arrivare illecitamente soldi a Viktor Yanukovich, l’ex presidente dell’Ucraina, ricercato per appropriazione indebita dall’Interpol.

GIORGIO MOTTOLA Come ha conosciuto Spiess?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Lei mi fa una domanda che…

GIORGIO MOTTOLA Perché lei lo sa che è il figlio di Spiess, l’avvocato Licio Gelli, in Svizzera.

 PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Lo apprendo adesso.

GIORGIO MOTTOLA Non lo sapeva prima.

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA No, giuro non lo sapevo.

GIORGIO MOTTOLA Ma ha conosciuto anche Tito Tettamanti?

PASQUALE MAIETTA – EX DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA No neanche.

 SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non sa niente Maietta. Si ritrova a sua insaputa milioni di onorari in Svizzera. Chissà perché quando cerchi di dipanare certi misteri finisci con lo sbattere il muso sempre contro gli stessi portoni. Ora come si arriva a Lugano? A Lugano i magistrati arrivano grazie ai collaboratori di giustizia che parlano di 50 – 60 milioni di euro nella disponibilità di Maietta nascosti in Svizzera. Ma si arriva soprattutto grazie a quello che è stato trovato nel cestino all’interno di uno studio di un avvocato penalista, Paolo Censi, che si è suicidato. In quel cestino vengono trovati frammenti di un biglietto dove ci sono gli eventuali reati, ci sono anche gli anni da scontare per questi reati, ci sono le parole evasione, riciclaggio, e c’è scritto dentro c’è Pasquale. Riferito a Pasquale Maietta. Trovano anche una traccia che porta in Svizzera, infatti pochi giorni prima di suicidarsi Paolo Censi era andato a bussare alla porta della Smc Trust. Una società che è sospettata di essere al centro del sistema di riciclaggio di Maietta presieduta da Max Spiess, figlio di quel Giangiorgio Spiess avvocato del venerabile della Loggia P2 Licio Gelli. Ora secondi i magistrati Censi sarebbe andato a bussare in quello studio proprio per mettersi d’accordo per far rientrare i capitali di Maietta, utilizzando la voluntary disclosure che era in quel momento in vigore. Cosa ha scoperto Report? Che nel 2014, quando la voluntary stentava a decollare, chi è il parlamentare che ha presentato un’interrogazione urgente per sapere che fine avesse fatto l’accordo con la Svizzera e per premere sull’acceleratore? L’ex tesoriere di Fratelli d’Italia Pasquale Maietta. Presenta un’interrogazione al ministro delle Finanze e si dice preoccupato “che la fiducia degli italiani verso le istituzioni venga minata”, scrive infatti Maietta: “la frode fiscale e l'evasione privano i governi di entrate necessarie per far ripartire la crescita e minano la fiducia dei cittadini nell'equità e integrità del sistema fiscale, e in questo senso il deposito di ingenti capitali italiani in Svizzera è emblematico e deve essere tempestivamente risolto”. Ora è evidente che Maietta sa di cosa parla e ha fretta secondo i magistrati perché sa anche che i magistrati sono sulle sue tracce. È emerso dal processo che Maietta aveva a libro paga due investigatori della Guardia di Finanza che lo informavano tempestivamente sugli sviluppi dell’indagine. Ora il nostro Giorgio Mottola ha scoperto altri finanziamenti che conducono verso le scorie della vecchia P2, ma sono quelli di Casapound.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Cinque anni fa il movimento neofascista di Casapound aveva investito tutto su Matteo Salvini.

SIMONE DI STEFANO - PRESIDENTE CASAPOUND Perché state in piazza oggi con Matteo Salvini? Perché un romano oggi è in piazza con la Lega Nord? Ma perché noi condividiamo ogni singola parola del programma di Matteo Salvini!

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Per l’occasione Casapound aveva nascosto i propri vessilli neofascisti dietro un nuovo stemma, Sovranità, una lista civetta che avrebbe dovuto correre alle elezioni con la Lega.

SIMONE DI STEFANO - PRESIDENTE CASAPOUND Per cui Matteo, vai avanti così con questo coraggio! E io sono sicuro che uniti arriveremo presto alla vittoria. Alla vittoria! Grazie.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Ma l’alleanza non è mai veramente decollata. Dopo essere stati sedotti, i fascisti del terzo millennio, come si autodefiniscono, si sono sentiti abbandonati dal capo della Lega.

ANTONIO PALLADINO - RESPONSABILE ESTERI CASAPOUND Ovviamente Salvini è contrario all’immigrazione ma non è un vero nazionalista, non è un rivoluzionario. Non ci conduce a una vera alternativa al sistema.

 GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO A un convegno di neonazisti e neofascisti europei, il dirigente nazionale di Casapound spiega che a Salvini mancherebbe un requisito genetico fondamentale.

ANTONIO PALLADINO - RESPONSABILE ESTERI CASAPOUND Non hanno nel loro dna i valori del fascismo che in Italia rappresentano i veri valori della nazione italiana.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO E così, poco dopo questo intervento, abbandonata la nave del Capitano Casapound sembra aver iniziato a veleggiare verso il secondo partito sovranista del Parlamento: Fratelli d’Italia. Nell’ultimo anno non c’è stata iniziativa pubblica di Casapound a cui non sia stato invitato un rappresentante del partito di Giorgia Meloni.

FRANCESCO POLACCHI - DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Riterrei di non parlare di cose politiche a livello nazionale perché in questo momento non ritengo che ci siano i presupposti neanche i collegamenti.

GIORGIO MOTTOLA Però oramai quasi ogni iniziativa pubblica di Casapound ha un esponente di Fratelli d’Italia che partecipa.

FRANCESCO POLACCHI - DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Beh comunque ci sono anche degli esponenti di coraggio che lo fanno in modo individuale, a volte in modo magari leggermente più sistematico. GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Dopo il fallimento del movimento Sovranità, alle prossime elezioni comunali di Roma Casapound ci riprova con un’altra lista civetta, Volontà Romana. Punta a presentarsi in alcuni municipi romani con Fratelli d’Italia e ha come volto il dirigente nazionale di Casapound Mauro Antonini.

MAURO ANTONINI - DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Quando ci dicono voi sarete indagati per odio razziale, a parte che per me è una medaglia, ma ci viene da ridere.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Da qualche tempo Fratelli d’Italia ha iniziato a ricambiare gli inviti di Casapound. Qui siamo a Lodi dove il partito di Giorgia Meloni organizza una delle sue principali iniziative locali estive. Uno dei dibattiti principali della manifestazione quest’anno è stato questo: l’ideologia del politicamente corretto.

CONSIGLIERE COMUNALE DI LODI FRATELLI D’ITALIA Passo la parola al moderatore della serata che è Francesco Polacchi,

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND La cosa ha fatto ridere molto i miei amici il fatto che io possa moderare un dibattito perché solitamente sono uno di quelli che si accapiglia. So che voi mi capirete.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO E in effetti Polacchi è uno che si è accapigliato spesso. È stato arrestato per tentato omicidio, poi finito in prescrizione, ha subito una condanna per lesioni ed è stato rinviato a giudizio per apologia di fascismo dopo le frasi pronunciate durante una nota trasmissione radiofonica.

GIUSEPPE CRUCIANI – LA ZANZARA DEL 2 MAGGIO 2019 Senza problemi tu ti dichiari fascista?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Certo.

GIUSEPPE CRUCIANI Pensi che Mussolini sia stato un grande statista immagino?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Sicuramente è stato il miglior statista del secolo scorso è chiaro.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Non rinnego nulla di quello che ho detto.

 GIORGIO MOTTOLA Lei è un fascista.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Vabbé, adesso dai. Non cominciamo con ste domande…

GIORGIO MOTTOLA Lei come si definisce?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Io…

GIORGIO MOTTOLA Ha un processo diciamo sul groppone.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Esattamente, da quel momento io ho deciso di dichiararmi sovranista. Non rinnego quello che è stato detto precedentemente, non rinnego una parola di ciò che ho detto non nella mia vita.

GIORGIO MOTTOLA Però non lo ridice.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Non lo ridico.

GIORGIO MOTTOLA Non sono fascista ma non fesso.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Esatto, sono fasc…… non sono fesso è evidente.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO E proprio perché non fessi, quelli di Casapound hanno iniziato a commercializzare la propria identità. Pochi anni fa Polacchi ha fondato Pivert, una casa di abbigliamento che produce abiti e scarpe rivolti a un pubblico sovranista. Non a caso il primo testimonial è stato Matteo Salvini, che in pubblico ha esibito per primo un giubbino della Pivert.

GIORGIO MOTTOLA È bastato che una volta Salvini indossasse il vostro giubbino e avete avuto un casino di pubblicità.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Abbiamo avuto il sito in tilt per un giorno intero, cioè praticamente troppi accessi.

GIORGIO MOTTOLA La sua ambizione è vestire tutta la destra italiana?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Vabbè, quello diciamo sarebbe perfetto, no? Una persona che ha la tessera della Lega o la tessera di Fratelli d’Italia o che anche semplicemente è una persona che vota Fratelli d’Italia ha piacere a venire a comprare Pivert.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Testimonial di Pivert, forse involontario, è stato anche Bobo Vieri, che in questa foto rilanciata sul web dall’azienda, è in posa con il capo ultras neofascista dell’Inter Nino Ceccarelli, arrestato l’anno scorso per violenza. Protagonista della campagna pubblicitaria dell’azienda è stata invece Nina Moric, la starletta televisiva che di recente si è avvicinata a Casapound.

 NINA MORIC – TESTIMONIAL PIVERT Mi sono avvicinata da quant’è? 5 o 6 mesi ormai, ma c’è sempre stato di nascosto un amore platonico. Ringrazio Simone di Stefano di avermi accolto.

SIMONE DI STEFANO – PRESIDENTE NAZIONALE CASAPOUND Nina ama l’Italia, noi amiamo l’Italia, il matrimonio è nato così.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Negli ultimi anni Polacchi ha messo in piedi una vera e propria Holding che oltre ai vestiti si occupa anche di editoria con Altaforte, la casa editrice che pubblica il giornale di Casapound Il Primato nazionale. La rivista si autodefinisce sovranista, fa continue campagne sui social ed è riuscita ad avvicinare volti televisivi che mai prima d’ora avevano accostato il proprio nome a casapound. Come Alessandro Meluzzi, Diego Fusaro e soprattutto Vittorio Sgarbi.

VITTORIO SGARBI – DEPUTATO NOI CON L’ITALIA Ebbene questo è il mio Primato Nazionale. Da questo numero e da qui in avanti troverete le mie parole e i miei pensieri in questo periodico sovranista.

GIORGIO MOTTOLA Questa attività che avete messo in piedi, hanno consentito a Casapound di riuscire anche un po’ a sdoganarsi?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Sicuramente l’obiettivo è quella di creare un’influenza sull’opinione pubblica. Se attraverso questa influenza che cerco di generare tramite una linea editoriale che è arcinota, si è riusciti a coinvolgere altri giornalisti o altri personaggi che magari sposano o condividono le nostre idee, sicuramente questo lo reputo uno dei successi della mia attività.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Influenzare ma anche incassare. La Holding di Polacchi negli ultimi due anni ha registrato un fatturato oltre di 2 milioni e mezzo di euro. Soldi con cui in parte campano anche molti di Casapound, visto che la decina di negozi di Pivert aperti in giro per l’Italia viene gestita direttamente o in franchising da dirigenti del movimento neofascista.

 GIORGIO MOTTOLA Lei dove ha preso i soldi per iniziare?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Dove li ho presi, ci sono delle cose che comunque con un po’ di parsimonia avevo messo da parte dei soldini.

GIORGIO MOTTOLA Se non lavorava, dove li prendeva questi soldi?

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Dalle paghette di papà per dire. Io ho cominciato anche così. Molto più semplicemente.

GIORGIO MOTTOLA FUORICAMPO Una paghetta evidentemente molto generosa. Dopo aver avviato le attività commerciali legate a Casapound, la Minerva Holding della famiglia Polacchi si è ingrandita e nel 2018 ha acquisito la metà delle quote della Virgo srl che possiede questo palazzo al centro di Torino. Comproprietaria della Virgo srl è la Compagnia Fiduciaria Nazionale, una delle più importanti fiduciarie italiane finite qualche anno fa al centro dello scandalo Ligresti. L’allora capo di Fonsai, prima di essere arrestato, provò infatti a usare le sue quote nella Compagnia per occultare all’estero una parte suo patrimonio.

GIORGIO MOTTOLA Come avete fatto ad agganciare la Compagnia nazionale fiduciaria che non è un pesce piccolo ecco.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Sono sincero non, non ne sono a conoscenza. Comunque mo’ Ligresti al netto di tutto è diciamo, sicuramente potrà essere discutibile però che sia un grande manager, un grande imprenditore questo nessuno lo toglie. GIORGIO MOTTOLA Solo che Ligresti è finito in carcere.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Solo che Ligresti è finito in carcere…. Quindi sicuramente… no…. Non so mi cogli impreparato. Non te lo posso nascondere.

GIORGIO MOTTOLA Grazie per esserti sottoposto a tutte queste domande.

FRANCESCO POLACCHI – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Guarda sinceramente la cosa di Ligresti guarda sicuramente, mi hai inculato, bravo bravo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’eufemismo sarebbe “su Ligresti mi hai fregato”. Insomma appare chiara la metamorfosi di Casapound di questi ultimi anni, ha cercato prima di mimetizzarsi nella Lega attraverso il movimento “Sovranità”, il progetto poi è fallito, ora puntano a candidarsi alleandosi con Fratelli d’Italia in alcuni municipi romani con una lista civetta, Volontà Romana. Il volto sarebbe quello di Mauro Antonini, quello che ambisce alla medaglia per l’odio razziale. Non ce la fanno proprio a trattenere la loro identità. La crasi è un po’ nell’intervista con Francesco Polacchi che è stato rinviato a giudizio per apologia del fascismo per le dichiarazioni che avrebbe rilasciato in una intervista radiofonica e il nostro Giorgio Mottola ha cercato di fargliele ripetere, insomma però non ci è cascato, ha detto sarei fascista ma non sono scemo. È meglio commercializzarla l’identità. Negli ultimi 2 anni hanno fatturato 5 milioni di euro grazie alle catene di ristoranti, la catena Angelina, che hanno aperto a Roma, a Milano, a Lima, e anche uno francese, i saloni di bellezza, la rivista che pubblicano, quella società di abbigliamento e anche quella di calzature. La mente imprenditoriale, è Marco Clemente, ex Pdl, uomo d’affari, nel 2008 è stato intercettato con un boss della ‘ndrangheta che si lamentava che un imprenditore non pagava il pizzo. Il commento di Marco Clemente che non è indagato in questa vicenda, è “speriamo muoia come un cane”, questo è stato il commento. E Clemente è anche socio di Francesco Polacchi, se Clemente è la mente, Polacchi è il braccio. È lui che ha investito la paghetta di papà in alcune operazioni finanziarie, è entrato anche in affari con la Compagnia nazionale Fiduciaria che era l’ex cassaforte di Ligresti, attraverso la quale ha cercato di far uscire i soldi in Svizzera ma è anche la cassaforte di Silvio Berlusconi negli anni ’70 ha investito i 19 miliardi di lire che hanno consentito di sviluppare il suo impero televisivo. Ecco insomma gioca al piccolo imprenditore Polacchi, però Casapound, anche se adesso si dedica alle partite iva, la piazza, il manganello non la dimenticano e condivide la piazza con Forza Nuova.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È dall’inizio della pandemia che l’estrema destra prova a soffiare sul fuoco dell’emergenza. La miccia sembra finalmente essersi accesa con l’arrivo della seconda ondata. A Torino, Milano, Trieste, Verona e soprattutto Roma le legittime proteste delle categorie maggiormente colpite dalla crisi sono state infiltrate dalle frange più violente dei gruppi neofascisti. Le piazze sono state trasformate in campi di battaglia. Guardia, vieni daje ti taglio la gola ‘a servo!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La firma sotto alle manifestazioni violente l’ha messa Forza Nuova, il movimento neofascista da anni in crisi di consensi e in emorragia di militanti, che con la pandemia sta provando a rialzare la testa.

GIORGIO MOTTOLA Rivendicate le ultime manifestazioni organizzate innanzitutto a Roma e poi in giro per l’Italia?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Si, diciamo ognuna ha una sua storia.

GIORGIO MOTTOLA Anche quelle finite con scontri, tafferugli.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Innanzitutto, la presenza in piazza negli ultimi tempi la rivendichiamo. È ovvio che stiamo prendendo delle denunce. Ma ci sta, è parte della rivoluzione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Forza Nuova ha sede in questo palazzo al centro di Roma che è di proprietà della Fondazione Alleanza Nazionale, l’ente oggi controllato da Fratelli d’Italia che gestisce un patrimonio immobiliare di oltre 20 milioni di euro. GIORGIO MOTTOLA La proprietà qui è della fondazione Alleanza Nazionale?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Quindi?

 GIORGIO MOTTOLA Ma voi pagate l’affitto alla fondazione Alleanza Nazionale?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Ma questo non è un problema suo. Certamente ci sarà qualche contratto, no? Però i contratti sono privati proprio per evitare che ci siano persone che vengono a chiedere cose per creare problemi.

GIORGIO MOTTOLA Ma voi pagate l’affitto alla fondazione Alleanza Nazionale?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Questo è un problema nostro. Non vi deve riguardare.

GIORGIO MOTTOLA Mi sembra di capire di no in realtà.

 ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Noi qui siamo perfettamente legali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella pandemia Forza Nuova ha visto un’opportunità per riconquistare il centro della scena. Ha stretto un’alleanza con il movimento dei gilet arancioni del generale Pappalardo ed ha aggregato attivisti contro i vaccini, oppositori del 5g e negazionisti del covid. Da mesi tengono insieme manifestazioni pubbliche con centinaia di partecipanti che sistematicamente violano qualsiasi prescrizione sul distanziamento, facendosi beffe dell’obbligo della mascherina.

ANTONIO PAPPALARDO - MOVIMENTO GILET ARANCIONI Se qualcuno si mette la mascherina lo prendo a schiaffi! I polmoni sono i miei e mi curo io!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il compito di arringare le folle negazioniste Roberto Fiore lo ha lasciato al suo braccio destro Giuliano Castellino.

GIULIANO CASTELLINO – FORZA NUOVA Perché sei in piazza? Perché sono un uomo libero, perché non ho le catene, perché non voglio portare la museruola, perché voglio respirare libero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il curriculum criminale di Castellino è molto più lungo e interessante di quello politico: più volte condannato per oltraggio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale nonché per aggressione a due giornalisti, rinviato a giudizio per truffa, indagato per estorsione, un paio di anni fa è stato fermato con 100 grammi di cocaina addosso, si è difeso dicendo che erano per uso personale.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA È anche il simbolo di questa liberazione nazionale in atto.

GIORGIO MOTTOLA Giuliano Castellino è il simbolo di questa liberazione.

 ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA È anche lui simbolo, certo. Se le piazze si sono mosse, si sono messe anche grazie alla forza, alla tenacia di un Giuliano Castellino.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima di approdare a Forza Nuova, Castellino ha frequentato tutta la galassia della destra estrema e anche di quella istituzionale. In questo video del 2008, accompagna Giorgia Meloni, allora ministro della Gioventù alla commemorazione di Acca Larentia. Oggi Castellino è l’artefice dell’alleanza tra Forza Nuova e la frangia più violenta della curva nord: gli Irriducibili.

CORO IRRIDUCIBILI Ce ne freghiamo della galera, camicia nera trionferà! Se non trionfa sarà un bordello, col manganello e le bombe a man. Duce, duce, duce!

GIORGIO MOTTOLA Qual è il vostro rapporto con i gruppi ultras di Roma come ad esempio quello degli Irriducibili?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Gli ultras sono spesso fra le poche, fra le poche, pezzi di società vivi e reattivi. Sono una forma di resistenza civile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Qui nella sede degli Irriducibili in via Amulio si sarebbe tenuta una delle riunioni preparatorie degli scontri a Roma del 27 ottobre. Il gruppo ultras è oggi guidato da Franco Costantino, detto Franchino: ex braccio destro in curva di Fabrizio Piscitelli, il narcotrafficante soprannominato Diabolik ucciso due anni fa.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report.

 FRANCO COSTANTINO - CAPO IRRIDUCIBILI No, no.

GIORGIO MOTTOLA Perché dicono che qui ad Amulio si siano organizzati i tafferugli per piazza del Popolo.

 FRANCO COSTANTINO - CAPO IRRIDUCIBILI E se era vero te lo dicevo a te?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella rete di estrema destra e ultras sono finiti soprattutto minorenni. Nelle manifestazioni di Roma e Milano, infatti più della metà degli arrestati ha meno di 18 anni.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Noi siamo disposti anche a farci qualche giorno di galera, non è la fine del mondo.

GIORGIO MOTTOLA Né lei né Castellino siete stati fermati.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA La denuncia nei nostri confronti è scontata.

GIORGIO MOTTOLA Quei 16 fermati molti erano minorenni.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Io ho cominciato a fare politica a 13 anni e mezzo. Quindi posso vedere questo come un fatto negativo? No, lo vedo in realtà come un fatto positivo. Io vorrei vedere tantissimi giovani di 15, 16 anni entrare in Forza Nuova.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’attenzione dei movimenti di estrema destra verso i giovanissimi è da tempo particolarmente forte soprattutto nelle periferie urbane. Qui nel quartiere Tuscolano di Roma, qualche anno fa in pochi mesi si sono susseguite oltre novanta aggressioni ai danni di cittadini bengalesi.

NURE ALAM SIDDIQUE “BACHU” – PORTAVOCE ASSOCIAZIONE DHUUMCATU Prendeva o una bottiglia d’acqua o qualcosa senza voler pagare. Appena fermavi e dicevi perché tu non pagare, iniziava a dire brutti negri, questo è il nostro paese.

GIORGIO MOTTOLA E partivano le bastonate.

NURE ALAM SIDDIQUE “BACHU” – PORTAVOCE ASSOCIAZIONE DHUUMCATU No, maggior parte attacchi avvenivano con bottiglia di vetro.

GIORGIO MOTTOLA Sempre uno con quattro, cinque.

NURE ALAM SIDDIQUE “BACHU” – PORTAVOCE ASSOCIAZIONE DHUUMCATU Minimo. Sempre ragazzetti da 15 a 19, questa età.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La dinamica era sempre la stessa: pedinati di notte nei pressi delle fermate del tram, una volta da soli i bengalesi venivano pestati. Molti finiscono al pronto soccorso e qualcuno perde un occhio, ma quasi nessun bengalese denuncia. Uno dei pochi aggressori identificati è un ragazzino di 16 anni. Sarà l’unico costretto ad affrontare il processo.

DARIO SCARINGELLA - AVVOCATO MINORENNE ARRESTATO Era in compagnia di due persone adulte e lui da minorenne avrebbe colpito questa persona senza nessuna apparente motivazione.

GIORGIO MOTTOLA E i due adulti che erano col suo assistito erano di Forza Nuova?

DARIO SCARINGELLA - AVVOCATO MINORENNE ARRESTATO Uno si dichiarò tale.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha chiesto al suo assistito ma come ti è venuto in mente di menare uno per strada che neanche conosci?

DARIO SCARINGELLA - AVVOCATO MINORENNE ARRESTATO Io ho avuto la netta sensazione che la sua volontà fosse stata in qualche modo coartata. Alcuni concetti non mi sembravano propri di un ragazzo appena 15enne o 16enene,

GIORGIO MOTTOLA Che tipo di concetti?

DARIO SCARINGELLA - AVVOCATO MINORENNE ARRESTATO Il fatto che bisognava difendere il territorio, che la superiorità di una razza piuttosto che dell’altra.

GIORGIO MOTTOLA Quindi il suo assistito era parso manipolato da qualcuno?

DARIO SCARINGELLA - AVVOCATO MINORENNE ARRESTATO Mi sembravano concetti appiccicati lì in qualche modo da qualcuno:

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per i giovanissimi che entrano in Forza Nuova ci sono regole e gerarchie ferree e chi sbaglia viene sottoposto a un rituale punitivo violentissimo. Qualche tempo fa tre militanti, tra i 18 e i 22 anni, accusati di comportamenti scorretti che andavano dalla pubblicazione di post sconvenienti su facebook, alla violenza commessa su una camerata sono stati portati di notte in questo casale nella periferia di Roma. Quella che sentite è la voce di un dirigente di Forza Nuova presente al rituale.

ALESSIO COSTANTINI - DIRIGENTE FORZA NUOVA Siamo usciti fuori, a Daniele l'abbiamo fatto mette in ginocchio. Ovviamente si è cacato sotto a livelli inimmaginabili perché tu immagina al casale, al buio, con i fulmini e saette perché diluviava. Noi incappucciati, lui in ginocchio, tutti in semicerchio. Gli abbiamo scarrellato davanti gli è preso un colpo, ma tipo un colpo che stava per mori la per terra.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I tre ragazzi vengono fatti inginocchiare al buio sotto alla pioggia battente circondati dai capi di Forza Nuova. A Daniele, il ragazzo che aveva sgarrato di più, viene avvicinata la pistola alla tempia ed esploso un colpo accanto all’orecchio. Il giorno dopo racconta cos’è successo all’altro militante.

DANIELE DE SANTIS – EX MILITANTE FORZA NUOVA No.. te non c'hai idea a Bu pensavo davvero de morì. Mi ha scarrellato davanti m'ha messo in testa ti giuro pensavo ti giuro mo’ questi mi ammazzano.

MILITANTE Ma t’ha fatto parlare?

DANIELE DE SANTIS – EX MILITANTE FORZA NUOVA Si mi ha fatto parlare in ginocchio…in ginocchio in mezzo al prato sotto la pioggia col ferro in testa ecco come mi ha fatto parlare e mi ha sparato dentro l'orecchio ..Pensavo de morì…

MASSIMO PERRONE – COFONDATORE DI FORZA NUOVA L’invito che faccio io ai genitori, visto che ho tre figli oggi, guardate bene i vostri figli a chi si affiancano. Quando i vostri figli vi ritornano a casa e vi lanciano dei messaggi andate a vedere chi frequentano perché tante volte dietro a quelli che fanno i rosari, ci so i diavoli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dietro chi bacia il rosario potrebbe celarsi il diavolo, ecco, lo sa bene chi Forza Nuova l’ha fondata, Massimo Perrone. Quello che inquieta però non è la violenza dei cattivi ma l’indifferenza di quelli che si dicono i buoni. Abbiamo capito che Roberto Fiore, ospite come sede nella fondazione di Alleanza Nazionale, che è gestita da alcuni dirigenti di Fratelli d’Italia. Gli abbiamo detto ma quanto paga di affitto? Lui non ce lo ha voluto dire perché dice potrebbero sorgere dei problemi. Quali problemi? Ecco ci ha scritto l’onorevole Meloni e ci dà una notizia, ci dice “non pagano l’affitto, abbiamo chiesto lo sfratto ma non viene eseguito per via del covid”. Insomma, forse sono questi i problemi a cui si riferiva Fiore. Quello che abbiamo capito è che lui manda avanti gli altri, sia per far a manganellate che per beccarsi le denunce. Ecco secondo un’informativa del Ros, può accadere anche che un giovane a sua insaputa possa ritrovarsi intestata una sua società londinese. Poi anche la società Bludental, marchio in Lussemburgo, nel 2017 era intestata a un dirigente di Forza Nuova, Giovanni Camillacci, è uno di quelli che abbiamo sentito far parte nella spedizione punitiva. Quell’audio tremendo, anche lui si sarebbe servito di una serie di prestanomi per finanziare dirigenti di Forza Nuova. Insomma alla fine di tutta questa storia cosa abbiamo capito? Che il nero dell’anima e dell’ideologia si mescola con il nero del denaro e delle partite iva.

Giorgia Meloni. Perché una donna sceglie di stare a destra. Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo uno stralcio dal terzo capitolo, dedicato agli anni Ottanta, di La donna s'è destra. L'altra storia della cultura e della politica femminile italiana di Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara. Per gentile concessione dell'editore Giubilei Regnani, pubblichiamo uno stralcio dal terzo capitolo, dedicato agli anni Ottanta, di La donna s'è destra. L'altra storia della cultura e della politica femminile italiana di Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara. Il saggio (pagg. 228, euro 17) è in libreria dal 25 settembre. Italia, 1988. Un anno prima della caduta del muro di Berlino, due anni prima dell’implosione dell’Unione Sovietica. Nel mondo si stava alzando un refolo di cambiamento che da lì a poco sarebbe esploso in una tempesta che avrebbe lavato via tutte le scorie dell’inizio del Novecento, ma in Italia era ancora tutto fermo: il clima per i giovani di destra era sempre quello di vent’anni prima. Tutto doveva essere conquistato, giorno per giorno, con tenacia, incoscienza e molta testardaggine. Secondo alcune, quegli anni sono stati una sorta di naja, la costruzione di un metodo – «nulla è dovuto, tutto va conquistato» – che poi utilizzeranno nel corso delle loro carriere professionali o politiche. Ma il clima di caccia alle streghe nei confronti delle donne di destra arriva, in modo meno violento ma sempre insidioso, fino agli anni Duemila. «Io non ho vissuto ovviamente gli anni di Piombo per questioni di età», racconta Chiara Colosimo, prima mi- litante di Azione Giovani e ora consigliere regionale della Regione Lazio, «ma essendo cresciuta nella sezione di Giorgia Meloni ho conosciuto i compagni. Parliamo dei primi anni del Duemila, la Garbatella è l’unico municipio di Roma con otto centri sociali, era un laboratorio politico di extraparlamentari di 75 sinistra. Io ho iniziato a scuola molto presto, subito dopo la scuola sono andata alla sezione di Garbatella e per un periodo ho fatto anche il segretario giovanile. Ero in prima linea e ci sono stati diversi episodi di violenza. Una notte siamo stati aggrediti e alcuni miei amici sono finiti al pronto soccorso. La sezione era molto attiva, quando apriva, tutti i pomeriggi si trovavano scritte sopra la serranda, il clima fino a sette-otto anni fa era molto diverso rispetto a quello che succedeva nel resto della città e delle città». Altri tempi, certo. Ma serpeggia sempre lo spettro dello scontro fisico, l’idea che impegnandosi attivamente in politica si debba mettere in conto anche la violenza. A quarant’anni di distanza da Acca Larenzia e dall’omicidio di Sergio Ramelli, essere di destra può essere ancora pericoloso. A questo punto non si può evitare un quesito: perché così tante donne, nel corso degli anni, hanno deciso di schierarsi a destra, di imboccare la strada più scomoda, di rischiare di essere sequestrate, insultate o più generalmente emarginate? Sicuramente hanno contribuito la forza dell’ideologia, la spericolatezza dell’età, il gusto per il rischio e un po’ di spirito da bastian contrario. Ma anche la fascinazione per le proprie radici, il peccato originale di essere germogliati nel prato sbagliato della storia del Novecento e di volerlo rivendicare con orgoglio. Il mito 76 della Repubblica Sociale e i racconti delle rappresaglie partigiane a guerra finita, il senso di vendetta per le ingiustizie che si riteneva di aver subito, contribuiscono a consolidare un mondo a parte. Una società dentro la società, che ha le sue regole, i suoi riferimenti culturali, i suoi linguaggi e le sue liturgie. Un mito che rafforza la propria identità, ma che rischia di trasformare il ghetto in una comfort zone dalla quale non è facile uscire. «La forza ce la dava il fatto di credere fortemente in qualcosa, il senso di cameratismo, ti sembrava di tradire i tuoi amici se anche tu ti fossi tirato indietro, il fatto di essere attaccati in questo modo non faceva che convincerci di più. A 20 anni hai il mondo in mano, ti senti immortale, c’è un coraggio anagrafico e un coraggio di gruppo e poi la convinzione di essere sempre più democratica a fronte dell’intolleranza insopportabile», rammenta Stefania Paternò. 

Francesco Maria Del Vigo. Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

La destra italiana? Parla al femminile. Eleonora Barbieri il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Idee, lotte e vite delle donne "non di sinistra": spesso vituperate, tutt'altro che irrilevanti. L'altra metà del cielo è facilmente divisa a sua volta. Succede perfino nella lotta alla discriminazione, come dimostrano decine di polemicucce trite, i j'accuse e l'indifferenza calibrati col bilancino, a seconda dell'area di appartenenza. Donne, sì, ma non proprio tutte uguali... E, anche nella storia del nostro Paese (o meglio, nella sua autorappresentazione politico/ideologica) ci sono donne e donne, cioè donne di sinistra - portabandiera della narrazione del femminismo e della battaglia femminile - e donne di destra - curiosamente, quasi inesistenti o, se esistenti, da criticare. Eppure, le donne a destra ci sono state, e ci sono, nel senso che nel corso del Novecento italiano è esistito «un mondo femminile politicamente impegnato, culturalmente attivo e socialmente partecipe» anche «al di là della sinistra», come raccontano Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara in La donna s'è destra (Giubilei Regnani, pagg. 228, euro 17; in libreria dal 25 settembre); in appendice al saggio, una intervista a Giorgia Meloni, unica donna a capo di un partito nel nostro Paese. Una realtà nonostante la quale, ancora oggi, molti e molte rimangono convinti che certe battaglie siano appannaggio di una parte sola, quella «giusta», cioè la sinistra. E basta. Certo, come spiegano Del Vigo e Ferrara, per molti anni la destra ha proposto una narrazione di sé fatta di una «realtà virilmente rappresentata dal corpo del capo, dall'epica delle marce e delle trincee, dallo sforzo e dallo scontro fisico»; ma, dal Futurismo in poi, passando per Fiume, il Ventennio e la Seconda guerra mondiale e, in seguito, attraverso la fondazione dell'Msi, le battaglie degli anni Ottanta, la nascita di An e poi l'arrivo al governo dopo il '94, a destra le donne hanno un ruolo, portano avanti le loro idee e hanno vite a volte straordinarie (come Margherita Besozzi o Piera Gatteschi), a volte terribilmente segnate dalla violenza, come accade negli anni Settanta. Un capitolo, guarda caso, facilmente dimenticato...«Ci sono storie, esperienze ed esistenze dimenticate per pigrizia, per indolenza, per il timore di confrontarsi con un'idea differente dalla propria e poi magari scoprire di avere qualcosa in comune» dicono gli autori e, forse, proprio queste cose in comune sono quelle che incutono più timore, soprattutto sotto la stessa metà del cielo. Invece sono storie che vale la pena (ri)scoprire. Eleonora Barbieri

Insulti, sputi, violenze, sequestri e minacce. Così i "compagni" attaccavano le ragazze. Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Le testimonianze sconvolgenti delle giovani di destra negli anni Settanta. Per alcuni, gli anni Settanta sono stati una scuola di vita: in quel periodo hanno gettato le fondamenta del proprio futuro politico e hanno intessuto quella trama di rapporti di amicizia e fratellanza che ancora oggi sussiste. Per altri, sono un passato scomodo, magari rinnegato, del quale si preferisce non parlare. E anche sulla violenza le testimonianze sono discordanti: c'è chi la ricorda come un'esperienza necessaria, chi come una persecuzione e chi invece tende a minimizzarla o a rimuoverla. Ma tutti tratteggiano un paesaggio fosco, nel quale la caccia al camerata era tollerata, se non addirittura incentivata dai ceti intellettuali dominanti. Alcuni diritti basilari, come il diritto allo studio o il diritto di esprimere le proprie idee, erano di fatto sospesi per chi stava a destra. Picchiare, sputare, insultare, sequestrare, svilire una donna di destra, in alcuni contesti, era considerato normale. Lo ripetiamo: visto con gli occhi di oggi sembra una follia. Ma stiamo parlando di un Paese nel quale i camerieri si rifiutavano di servire un caffè a Giorgio Almirante perché fascista e nel quale si sosteneva che «uccidere un fascista non è un reato». Questo è il contesto, la cornice all'interno della quale si muovono le ragazze del Fronte della Gioventù, del FUAN. Erano nel mirino perché chi vedeva nei giovani missini un nemico da combattere pensava di stare lottando per la libertà. Nel nome della quale credeva fosse legittimo utilizzare qualunque mezzo. Per calarsi in quell'epoca bisogna rivedere il concetto di situazione di pericolo e, come vedremo, non era necessario infilarsi in una manifestazione tra le croci celtiche e le fiamme tricolori per finire nei guai. «Il clima terribile degli anni di piombo registrava episodi di violenza persino nell'acquisto di un giornale all'edicola se, per esempio, era una testata ritenuta di destra. Per quanto mi riguarda, ricordo l'episodio di bullismo accaduto il giorno della discussione della mia tesi di laurea su Ugo Spirito a Scienze Politiche con relatore Augusto Del Noce. All'uscita della facoltà mi aspettavano un centinaio di studenti di sinistra che pensarono bene di accompagnarmi in corteo, con tutta una serie di insulti e cori non certo di simpatia, solo perché avevo trattato un autore che non rientrava nei loro paradigmi. Alcuni anni più tardi anche sotto all'ufficio spesso e volentieri mi ritrovavo scritte con il mio nome che mi imputavano la responsabilità dei più efferati fatti di cronaca. Per non parlare di altri episodi più gravi di discriminazione che mi sono accaduti addirittura quando ero sul posto di lavoro e in gravidanza», ricorda Marina Vuoli, militante e moglie di Teodoro Buontempo, storico esponente del MSI. Sembrano cronache di guerra: centinaia di persone che accompagnano una ragazza nel giorno della sua laurea solo perché ha trattato argomenti non di sinistra, intimidazioni, insulti, minacce. E poi la discriminazione, un termine ancora oggi molto in voga e, a volte, usato in modo improprio. (...) «Io mi sono reso conto della pericolosità del periodo quando è morto uno della mia sezione, Acca Larenzia. Quella è stata una tragedia, un evento che ha segnato la mia vita. È stato un episodio di rottura, perché ti rendi conto che il contesto è drammatico e tragico. Non c'era alcuna differenza tra ragazzi e ragazze. Anche le ragazze si difendevano bene davanti alle manifestazioni non autorizzate e alle cariche della polizia, però c'era una protezione fortissima da parte dei maschi. Erano molto paterni, non le consideravano inferiori, nelle sezioni del MSI non ho mai visto episodi di maschilismo esasperato», spiega Annalisa Terranova, ex animatrice di Eowyn e del Centro Studi Futura, autrice del libro Camicette Nere e poi redattrice del Secolo d'Italia, introducendo un duplice tema. Innanzitutto, quello della tragedia, dell'evento drammatico che svela i rischi che stanno correndo dei ragazzi in alcuni casi nemmeno del tutto consapevolmente semplicemente facendo politica. E poi il tema della violenza che si abbatte in egual misura e senza nessuna distinzione su ragazzi e ragazze. Una guerra invisibile che si protrae per anni, nell'indifferenza generale. «Credo di poter dire che quel periodo, dal secondo semestre del 1970 sino al 1980, fu caratterizzato da un vero e proprio stato di guerra civile. Ricordo mio padre che metteva i sacchetti di sabbia dietro la porta di casa per paura di incendi dolosi. La caccia al fascista era diffusa nelle scuole, e all'università il FUAN di fatto chiuse i battenti per qualche anno», racconta Andrea Augello, ex militante del Fronte della Gioventù, poi saggista e parlamentare italiano. Scegliere di stare a destra ed essere una donna, in quegli anni, significava quindi imboccare una via in salita. E significava, soprattutto, scegliere la strada della ghettizzazione e della marginalizzazione, perché l'etichetta, il marchio a fuoco, era qualcosa che difficilmente si poteva cancellare. Entrando in una sezione del Fronte della Gioventù o del FUAN, mettendo una firma su quella tessera si entrava in un club esclusivo, ma al rovescio.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati. 

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...Dal 2015 sono viceresponsabile del sito de il Giornale e responsabile dei collaboratori esterni. Ho scritto "Il metodo Salvini", edito da Sperling & Kupfer. Per la collana Fuori dal coro del Giornale ho pubblicato: "Gli estremisti delle nostre vite"; "La sinistra dei fratelli 

Antonello Caporale per “il Fatto quotidiano” il 27 settembre 2021.

"Sono un melonista convinto, la voterei". 

Il voto del professor Cardini va a Giorgia Meloni. Per simpatia, per una certa amichevole frequentazione, perché mi sembra che si applichi, abbia voglia di documentarsi, rifiuta di parlare a vanvera. 

Beh, sembra già tanto.

Non so chi glielo abbia scritto o l'abbia aiutata a scrivere, ma il suo libro ha un ordine logico. È convincente.

E dunque?

Naturalmente il mio giudizio non si può disconnettere dal partito che guida. Mai voterei Fratelli d'Italia. 

Ah, c'era la sorpresa?

Un crogiolo umano disperante, sociologicamente e politicamente penoso. Un ceto piccolissimo borghese che vive nella paura della retrocessione sociale. Fratelli d'Italia mi sembra un agglomerato temporaneo, è proprio invotabile. Ma Giorgia lo sa.

Giorgia vorrebbe fare la premier.

Ma cosa dice? È pazzo? A palazzo Chigi resterebbe dodici ore. No, la Meloni può legittimamente aspirare a essere la prima forza di opposizione. 

Il massimo che può fare è la miglior perdente?

E le sembra poco essere una perdente di successo? Con quella carrozzeria politica che si ritrova, quel garbuglio di voti che ha messo insieme e chissà se le resteranno a lungo dove può andare? 

Aveva in tasca il Campidoglio. L'ha rifiutato per puntare più in alto.

Sì, per i giornali è stata già sindaca di Roma e pure premier. Mancate del principio di realtà: il suo destino è l'opposizione, altrimenti si perde. 

Tenace, conserva la memoria, non ha vergogna di essere anche un po' fascista.

Ha nel simbolo il richiamo alla destra storica. E di questi tempi è una virtù. Può contare su un certo romanticismo filofascista, più sentimento che ragione, e su un gruppo di militanti certo non coeso ma nutrito. Naturalmente non ha classe dirigente. 

Salvini invece ce l'ha?

Salvini ce l'ha. Lei no. Con quel carrozzone Giorgia non può andare da nessuna parte (e a dire il vero non credo che voglia andare da nessuna parte). Sta meravigliosamente nel luogo in cui è assisa. Muove critiche, che è pur sempre un'attività più agevole che governare. 

Non sembra che voglia molto bene alla Meloni. La vota ma la sta stendendo.

È una perdente di successo. Quando imparerà a non far cagnara da bar dello sport sull'islamismo, a non utilizzare il solito trucchetto dei migranti sporchi e cattivi, a rinunciare a un filoatlantismo supino, a immaginare una proposta per l'Europa.

La lista dei compiti è lunghissima.

Per esempio, potrebbe sostenere l'idea di uno sbocco confederale dell'Unione. Confederazione, sul modello elvetico. 

Forse ci sta già pensando.

Speriamo che i suoi capiscono e non facciano confusione. Leggono confederazione e immaginano federazione. Culturalmente sono davvero sprovveduti, poverina lei fa il possibile. 

Sarà una grande perdente.

Glielo auguro con tutto il cuore. Altro non può fare, lei non è ancora uscita dal lebbrosario. 

Ciao ciao palazzo Chigi.

Sono le favolette che raccontate voi giornalisti. Ma pensa che lei abbia creduto, si sia suggestionata? Per come la immagino io, penso più spaventata. Spaventata a morte. Non saprebbe che fare a palazzo Chigi. E poi la prima svastica che comparisse al ghetto di Roma sarebbe l'avviso di sfratto ad horas. 

Giorgia adesso è un po' imballata nei sondaggi.

A quanto sta? 

Ancora avanti di qualche decimale rispetto a Salvini, ma indietro di qualche decimale rispetto al Pd. Tra il 17 e il 20 per cento sono in quattro.

Salvini è il più inguaiato, mi sembra. 

Vede la sua leadership traballare?

No. È come quei malati cronici con un sacco di acciacchi ma longevi. Gli basta un barcone, un africano che impazzisce per strada, un fatto di nera e zac, si ripiglia. Ma certo non ha la stoffa di Giorgia. Lui non studia. 

Giorgia si applica.

È consapevole di non aver fatto buone scuole e gestisce con misura la propria ambizione. 

È prudente.

È scappata via da Roma come una volpe. Bravissima. Avrebbe fatto solo danni. Fuggire dal governo. Insomma fuggire dalle grane, da tutte le grane. E poi si vede.

Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 2 luglio 2021. Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana e sono milionaria. Il suo Fratelli d'Italia si appresta a diventare, con merito, anche Quattrini d'Italia. Oltre a volare nei sondaggi, dove ormai risulta primo partito con il 20,7%, la formazione della Meloni procede a gonfie vele in termini economici: l'ultimo bilancio, quello del 31 dicembre 2020, lo certifica come partito con i conti più che mai in attivo, tra un avanzo milionario e un patrimonio ultramilionario. Fratelli d'Italia non solo incassa voti (al momento virtuali, trattandosi di sondaggi, ma il sentiment dei cittadini è quello); incassa pure soldi, e molti. L'aspetto interessante è che i fondi di cui ora può disporre il partito provengono dalla fiducia che gli italiani gli accreditano. I finanziamenti arrivano infatti da tre categorie sulle quali si fonda tradizionalmente il consenso elettorale: i militanti, i sostenitori, i simpatizzanti. Quanto ai primi, solo lo scorso anno gli iscritti a Fdi, ossia i tesserati, sono triplicati, passando da 44mila a 130mila. Tutto ciò si è tradotto in un afflusso notevole di denaro: oggi il tesseramento porta quote associative annuali pari a quasi 1 milione (esattamente 938mila e 907 euro). Ancora più consistente è l'approvvigionamento economico garantito dalle donazioni private dei sostenitori che ora ammontano a 1 milione e 75mila euro: è il sintomo della vicinanza al partito meloniano sia del mondo delle imprese (quasi 250mila euro) che di singoli finanziatori (oltre 800mila euro). Dove Fratelli d'Italia registra il boom è però negli introiti dal 2xmille: qui i versamenti di comuni assicurano al partito 2 milioni e 196mila euro, ben un milione in più rispetto all'anno precedente. Alla faccia della sfiducia degli italiani nella politica...In tutto, parliamo di un afflusso di oltre 4 milioni di euro in un solo anno. Che vengono anche molto bene gestiti da Meloni&Co. L'avanzo di gestione relativo al 2020, e quindi il saldo positivo dei flussi tra entrate e uscite, è pari infatti a 1 milione e 572mila euro. Un tesoretto che fa la fortuna di Fdi, insieme a un patrimonio netto di quasi 2 milioni di euro e disponibilità liquide per circa 2,5 milioni di euro (tra depositi bancari e postali). È l'esito di un processo breve ma ben costruito. Questo partito, nato solo otto anni e mezzo fa, si sta consolidando sia alla base, in termini di radicamento territoriale (crescono le sezioni e i tesserati, appunto) e voto di opinione, sia ai vertici, accreditandosi sempre più in Europa, come dimostra la leadership meloniana dei Conservatori. E questo grazie alla coesione interna, che vede nella Meloni un capo riconosciuto e alla coerenza delle idee. Ciò produce un apprezzamento trasversale, che supera di molto il bacino elettorale cui attingeva di solito la destra (An, nella sua migliore performance, aveva sfiorato il 16%), ma genera anche la disponibilità a finanziare. È come se gli italiani vedessero in Fdi non un partito che fa politica per fare soldi, ma che usai soldi per fare politica. E quindi sono ben disposti a contribuire alle spese... E, si badi bene, si parla di denari tracciati, tutti alla luce del sole. Non di chissà quali misteriosi fondi neri, provenienti da loschi lobbisti, associazioni di ultradestra o finanziatori occulti. Si rasserenino gli avversari della Meloni: sono tutti soldi puliti. Inoltre questo utilizzo virtuoso del denaro per fare politica è coerente con l'immaginario di destra per cui i soldi non sono sterco del demonio né puzzano, purché restino un mezzo e non diventino un idolo. È un po' il seguito di quell'idea di Ezra Pound per cui il denaro andrebbe sottratto allo strapotere finanziario dei banchieri, a quella che chiamava usurocrazia, e rimesso a disposizione della politica e dei cittadini, utilizzato per restituire centralità alla prima e dignità ai secondi. Forse inconsciamente Giorgia si inoltra sul cammino tracciato dal maestro Ezra...

Da "Libero Quotidiano" il 2 luglio 2021. Ci sono imprese del mondo della sanità privata. Ma anche società di costruzioni e associazioni di agricoltori. Scorrendo l'ultimo bilancio, relativo all'esercizio 2020, tra i principali finanziatori del partito di Giorgia Meloni spicca il "Gruppo Villa Maria Spa", che ha versato nelle casse dell'ex An 50mila euro. Con sede principale a Lugo (Ravenna), la "Gvm Care & Research" fondata da Ettore Sansavini è una multinazionale delle cliniche private presente all'estero (dalla Francia all'Albania all'Ucraina) con il core business in Italia. Nella lista dei "donatori" ci sono altre aziende del settore. Come la "Innoliving Spa" di Ancona, che ha sborsato 5 mila euro e vende piccoli elettrodomestici ma opera pure nel settore dell'healthcare e della cura della persona (nel 2013 ha ottenuto da "Farmaceutici Ciccarelli" la licenza d'uso del famoso marchio Pasta del Capitano). Stessa cifra è arrivata anche dalla "Parapharm srl" di Roma, impegnata nella distribuzione di prodotti farmaceutici e parafarmaceutici. Poi c'è la "Radiosalus srl" che ha erogato 4mila euro. La Meloni è molto gettonata pure nel mondo delle associazioni, specialmente tra le piccole e medie imprese e nel mondo dell'agricoltura: la Confapi di Roma, infatti, ha donato 4mila euro mentre la Confederazione generale dell'agricoltura ha offerto 3mila 200euro e dalla Confartigianato imprese Marche sono arrivati 12mila 500 euro. In particolare, scorrendo l'elenco si scopre che il partito erede dell'Msi annovera tra i donatori più generosi la società di costruzione Aep, acronimo di Attività edilizie pavesi, che ha staccato un assegno di 49mila 500 euro.

DAGONEWS il 19 giugno 2021. Chi finanzia Giorgia Meloni? Se lo chiede il “Fatto quotidiano”, che in un articolo firmato da Stefano Vergine e Valeria Pacelli mette in fila le imprese che hanno effettuato donazioni a “Fratelli D’Italia”, spulciando i bilanci del partito della “Ducetta”. Scrivono Vergine e Pacelli: ““Nel 2019, quando era al 4%, il partito erede dell'Msi ha raccolto contributi privati pari a 1 milione di euro. L' anno dopo il pallottoliere ha toccato quota 1,4 milioni (registrando quindi un +40%). Da gennaio ad aprile di quest' anno (ultimi dati disponibili), siamo già a 337mila euro incassati. Tutti contributi leciti e regolarmente dichiarati dal partito”. “Fd" I piace molto al mondo della sanità privata”, proseguono. “Tra i principali finanziatori spicca il Gruppo Villa Maria (Gvm), che nel 2020 ha fatto partire due bonifici per un totale di 50mila euro. Con oltre 3900 dipendenti e 715 milioni di fatturato (dati 2019), quella fondata da Ettore Sansavini è una multinazionale delle cliniche private presente in mezzo mondo, dalla Francia, all' Albania e alla Polonia. Il core business resta però in Italia.” Nonostante il denaro donato, però, “nei mesi scorsi il gruppo ha trovato qualche ostilità da parte di esponenti di Fd' I in Regione Lazio. Era marzo 2020 quando Gvm firma un protocollo per la trasformazione dell'Istituto clinico Casal Palocco in centro Covid. Il consigliere regionale Giancarlo Righini chiede spiegazioni alla Regione "sulla scelta di allestire un Ospedale Covid in una piccola clinica privata". Gvm non è l’unica impresa legata al mondo della sanità nella lista di donatori del partito di Giorgia Meloni. Ce ne sono altre, soprattutto nelle Marche, la regione governata dal settembre scorso dal meloniano Francesco Acquaroli: “C' è ad esempio la Innoliving di Ancona, che ha versato 5 mila euro ad ottobre 2020. Controllata dal russo Andrey Derevyanchenko e da Andrea Falappa, produce in Cina e vende in Italia piccoli elettrodomestici e dispositivi diagnostici. Da ottobre scorso, la società fornisce tamponi rapidi dall'aeroporto delle Marche, di cui la Regione detiene una quota. Non solo sanità, secondo quanto riportato dal “Fatto quotidiano” tra i donatori più “generosi” della Meloni c’è la ditta di costruzione Aep, che ha versato 49.500 euro a Fd’I in due tranche, tra settembre e ottobre 2020. “La donazione – scrivono Vergine e Pacelli - è diventata un caso a Lodi, dove i meloniani sono in maggioranza, con tanto di denuncia in Procura presentata da un gruppo di cittadini e poi archiviata dai pm, che non hanno ravvisato alcun reato. Il motivo della protesta? Il piano di governo del territorio prevedeva per quella zona un’area residenziale-direzionale, ma una volta che Aep ha acquistato il terreno per la costruzione di un supermercato, è stata approvata una variante al pgt per rendere l’area commerciale. Tra il 2019 e il 2020 a donare 7.500 euro alla sezione toscana del partito è stato invece il gruppo Drass srl, che produce sottomarini militari che vende “alle forze armate di mezzo mondo” (comprese quelle italiane). Tra i finanziatori anche la sarda Ecoserdiana, che gestisce una discarica poco lontana da Cagliari, (6mila euro) e la Rida Ambiente srl, che ha in gestione un’altra discarica ma nel Lazio, ad Aprilia (3.200 euro). Alcuni dei vertici della Rida – scrive “il Fatto” – “sono finiti nel mirino dei pm di Roma per traffico illecito di rifiuti. "Il procedimento penale deriva da una denuncia del gruppo Cerroni con il quale non corre buon sangue", spiega il presidente del Cda Fabio Altissimi, oggi indagato” La Meloni va forte anche nel mondo delle associazioni: “A luglio 2020 la Confederazione generale dell'Agricoltura ha versato 2800 euro; Confapi - che riunisce le piccole e medie imprese - ne ha invece donati 4 mila. Altri 12500 euro sono arrivati, a settembre 2020, da Confartigianato imprese Marche”, concludono Vergine e Pacelli.

“Io sono Giorgia”. Giorgia Meloni si racconta in un libro best-seller denso di storie, di vita e soprattutto di futuro. Carlo Franza il 17 giugno 2021 su Il Giornale. Nonostante le azioni odiose messe in atto da emeriti sprovveduti in occasione dell’uscita in libreria del libro di Giorgia Meloni dal titolo “Io sono Giorgia” e pubblicato dalla Casa editrice Rizzoli, queste azioni sono cadute nel vuoto tant’è che il libro a neanche 24ore dall’uscita era il più venduto. In testa alle classifiche è stato secondo nella top ten generale. A sovrastare la leader di Fratelli d’Italia c’è solo un’altra new entry, la regina del romanzo sentimentale Lucinda Riley, che con il suo La sorella perduta mette a segno l’ultimo successo di una lunga serie. Una bellissima e fortunata autobiografia, 330 pagine scritte interamente dalla Meloni, la donna e la leader politica alla guida del Partito Fratelli d’Italia. Dice: “È stato un lungo viaggio, scavando nei meandri dei ricordi. Durato mesi.” E ancora: “Ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa. E ho deciso di aprirmi, di raccontare in prima persona chi sono, in cosa credo, e come sono arrivata fin qui.” In questo libro, Giorgia Meloni parla per la prima volta di sé ad ampio raggio e lo fa con una scrittura limpida, come è limpido il suo parlare, come sono limpide le sue idee, come è limpido il suo vivere italiano. Nel libro ci parla delle sue radici, della sua infanzia e del suo rapporto con la mamma Anna, della sorella Arianna, dei nonni Maria e Gianni e del dolore per l’assenza del padre: “Prima di tutto una premessa – risponde Giorgia Meloni – carriera è un termine che non mi appartiene, perché ho sempre interpretato la politica come una missione, non come il mezzo per arrivare a ricoprire questo o quell’incarico. Certo, l’assenza di mio padre è un vuoto con il quale mi sono dovuta sempre confrontare e con cui dovrò continuare a fare i conti, ma non ho rimpianti e credo sia sbagliato farlo. Per dirla con Eidith Piaf: “Non, je ne regrette rien”. Se oggi sono la persona che sono – aggiunge – lo devo un po’ anche a mio padre. Tutto serve nella vita, anche il dolore. Ognuno di noi è il prodotto della propria vita e di come ha saputo affrontarla”. E poi nel libro affiora  forte la passione viscerale -tremendamente forte-  per la politica, che dalla “sua” Garbatella a Roma ( ah! come mi è caro quel quartiere in cui è vissuta e  abitava anche la mia cara cugina Maria Franza dirigente dei Monopoli di Stato e la sua cara collega di lavoro e amica  a nome Costanza, e quante serate in trattoria), ebbene da quel quartiere romano popolare  si è mossa politicamente  e quei luoghi  l’hanno portata prima al Governo della Nazione come Ministro e poi al vertice di Fratelli d’Italia e dei Conservatori europei; e ancora nel libro ci parla  della gioia di essere madre della piccola Ginevra e della storia d’amore con Andrea; dei suoi sogni e del futuro che immagina per l’Italia e per l’Europa. Ma la Meloni   ci racconta anche, con schiettezza, semplicità, umanità e chiarezza, dati che la caratterizzano ampiamente, temi complessi come la maternità, l’identità e la fede. Un racconto forte, mirabile, amorevole, identitario, appassionato e appassionante, scandito nei titoli dei capitoli che si susseguono e narrano la storia e le storie di quel libro, assoluto, spettacolare, propositivo diventato un manifesto identitario. Qui in questo libro c’è il passato, presente e futuro del leader politico sul quale sono puntati gli occhi di molti, in Italia e non solo. Io che conosco bene la Roma degli anni Sessanta, e soprattutto degli anni Settanta e Ottanta vissuti come docente all’Università La  Sapienza, so  molto della stagione della sua formazione culturale, in un contesto, quello studentesco e universitario, egemonizzato dalla sinistra e dai suoi riferimenti culturali;  nelle pagine del libro, la leader di FdI ne cita non pochi (Guccini, De Andrè, Moretti, per fare degli esempi),  e non è vero  che  non si  concentra su un ipotetico pantheon culturale della destra,  i riferimenti culturali della destra sfuggono solo a chi non vuole vederli. Bella e commovente, sulle delicate vicende personali, l’intervista a Giorgia Meloni di Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera. La deputata romana è, dopo la morte di Almirante e i flop di Fini e Alemanno, la leader più convincente e spendibile anche in Europa, dove ha già superato Marine Le Pen della destra post-fascista.

Ecco talune parti del libro: “Era il 19 ottobre del 2019, e davanti a me piazza San Giovanni c’erano migliaia di italiani venuti a Roma per manifestare con noi, il centro destra, il loro orgoglio italiano contro la nascita del secondo governo Conte, l’ennesimo passato sulla testa dei cittadini”.

“… Parlai per circa 20 minuti, con il cuore, a braccio, seguendo istinto e passione. …Parlavo del valore dell’identità e del grande scontro aperto in quest’epoca…”

“…. Spiegai che tutto ciò che oggi è considerato un nemico dal pensiero unico, e non è un caso se sono sotto attacco la famiglia, la patria, l’identità religiosa e di genere”

“…Conclusi quel concetto con queste parole: ‘Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete’…”.

“… due giovani Dj milanesi, avevano remixato le mie parole… con l’intento di rovesciarne il contenuto e fare satira, in modo da ridicolizzarne il messaggio. Ma le cose non andarono così.”

“… Quella che doveva essere un’arma contro le mie idee era diventata, per paradosso, un potentissimo amplificatore per propagarle… ”.

“… E’ stato quel pezzo la ragione per la quale mi sono convinta a scrivere questo libro…”

Un libro di portata storica, da leggere, dove la leader di Fratelli d’Italia racconta i suoi sogni, della politica, del futuro che immagina per la nostra Nazione, dell’Europa. Una bibbia per i giovani di destra, non solo per la storia privata di questa leader narrata all’interno di questo libro, che è già diventato un ‘best seller’, ma per i grandi tempi dell’Europa, dell’identità italiana, della famiglia, della Patria, della Religione Cattolica, e tanto altro.

Giorgia Meloni è  una donna esemplare ed è la leader del partito che secondo i sondaggi di oggi si dà battaglia con il Partito Democratico per il secondo posto tra i più votati d’Italia; ma badate bene  che su di lei non si levano mai gli scudi del femminismo pronti a difendere tutte le altre donne, per lei non valgono le battaglie contro il populismo e l’antipolitica;  così  è capitato  che, in una libreria Feltrinelli, il libro di Giorgia Meloni “Io sono Giorgia”  è stato trovato vergognosamente  con tutte le copie girate al contrario, da far apparire  il volto della Meloni  in copertina a testa in giù, con chiaro riferimento a piazzale Loreto.  Una vergogna senza fine, un’offesa alla persona e alla cultura. E addirittura è potuto capitare, come del resto è avvenuto, che un collega e professore universitario di tutto rispetto abbia fatto una foto e l’abbia pubblicato su Facebook con un simpatico post in cui ha scritto: “Nelle librerie Feltrinelli può capitare”, il collega era il professore Simon Levis Sullivan, professore associato di storia contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Altro che professore di storia!  Perché la storia presenta anche pareri diversi e non offende mai.

Ma al di là di tutto ciò, gli italiani hanno fatto e fanno scivolare nella pattumiera questi atti vigliacchi, e il libro della Giorgia Meloni è un libro che fa “storia” – lo dico da Storico-; lei dice: “Noi abbiamo salvato la destra per salvare l’Italia. Abbiamo salvato la destra perché oggi, qui, più che in ogni altro tempo e in ogni altro luogo, la destra è necessaria”. E per chi non ha letto ancora il libro, ne raccomando la lettura, lo troverete denso di storie, di vita e, soprattutto, di futuro. Carlo Franza  

Giorgia Meloni, il programma vago di una leader pop. La capa di Fratelli d’Italia, in bilico tra novecento e contemporaneità, vola nei sondaggi grazie ai down di Salvini, ha un cerchio magico di coetanei cresciuti con lei nell’Msi-An, un apparato teorico fluttuante, gioca a fare la destra contro il resto del mondo. Come modello avrebbe Orbàn (per chi ci crede). Susanna Turco su L'Espresso il 3 giugno 2021. Il fenomeno è appena compiutamente esploso, pur andando in crescita da anni. Metà influencer stile Fedez, metà onorevole Angelina stile Anna Magnani nell’omonimo film, post-finiana, post-berlusconiana, per certi versi post-salviniana, post insomma quasi tutto, senza essere ex praticamente di niente, al suo trentesimo anno di politica, Giorgia Meloni ha infine imboccato una strada che prima nessuna mai. Lei, 44 anni, leader di Fratelli d’Italia, modello politico l’Ungheria di Orban, è pronta a diventare premier: «Mi preparo a governare la nazione», ha detto incalzata da Lucia Annunziata, proprio nel giorno in cui i sondaggi hanno certificato l’ennesimo sorpasso del suo Fdi (secondo partito, a un’incollatura dalla Lega). E ci sarebbe da preoccuparsi se non fossimo in Italia, terra nella quale tra sventolare Orban e realizzarlo passa in mezzo, per lo meno, un Papeete. Comunque per ora c’è il consenso, notevole e in crescita, per quanto virtuale, così come lo sono quelli elettorali (2 per cento nel 2013, 3,7 alle Europee 2014, 4,4 nelle Politiche del 2018, 6,5 alle Europee 2019). E che negli ultimi due anni, ha fatto un deciso balzo in avanti, soprattutto in due occasioni: la crisi del governo gialloverde, nella tragica estate del 2019, e adesso, con il governo Draghi alla cui opposizione si è collocata, unico partito, celebrandolo in Aula con un Bertolt Brecht che ha pronunciato col gusto iconoclasta tipico di via della Scrofa, storica sede del Msi e ora di Fdi: «Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati». Bravissima in effetti a occupare i segmenti vacanti, a beneficiare e poi prosperare su situazioni politiche create da altri, Meloni che come racconta lei stessa ebbe per esempio nel 2006 la vicepresidenza della Camera perché Gianfranco Fini aveva il «grosso problema di mettere d’accordo i colonnelli del partito che ambivano a quel posto e io gli ero utile per spegnere le diatribe e dare un segnale di rinnovamento», quindici anni dopo deve i suoi balzi in avanti nei sondaggi anche alle scelte e soprattutto agli errori di Matteo Salvini, un po’ sodale e un po’ competitor a seconda dei momenti, come si conviene al tempo liquido della politica contemporanea. Di fatto, nel disorientamento dell’elettorato leghista tante sono le preferenze transitate da lui a lei, capi iper-social della nuova destra. Adesso, ha calcolato Alessandra Ghisleri di Euromedia research, Fratelli d’Italia ha guadagnato 5 punti in tre mesi, arrivando al 19 per cento (in media triplicati i consensi rispetto a due anni fa) invece la Lega di Salvini ha perso tra il 30 e il 60 per cento e sta due punti sopra Fdi. Tutto un altro film rispetto a quando, nel marzo 2014, Meloni fu eletta con le primarie a presidente di Fratelli d’Italia, creatura politica fino a quel punto guidata da Ignazio La Russa, sorta con l’obiettivo della sopravvivenza, e dall’incrocio della necessità di allontanarsi da Berlusconi ma anche di salvaguardare il patrimonio di An dalle altrimenti prevedibili diatribe interne alla Fondazione. A Fiuggi, nel suo primo discorso da presidente del partito, Meloni si tolse il peso di rispondere a Gianfranco Fini, suo mentore fino a tre anni prima, che aveva apostrofato l’operazione come quella di «bambini cresciuti, viziati, che vogliono imitare i fratelli maggiori», dicendogli che casomai «siamo figli costretti a crescere in fretta, come quei ragazzi abbandonati dal padre che scappa di casa e va in giro per il mondo». Non era noto, allora, quanto fosse autobiografico quel dettaglio ficcato dentro il discorso di inaugurazione di una leadership, indirizzato peraltro a colui che, politicamente, proprio a Meloni aveva fatto in qualche modo da padre, indicando il suo nome per la candidatura alla Camera, alla vicepresidenza di Montecitorio, al governo con Berlusconi come ministra. Dell’infanzia sappiamo solo adesso, visto che Meloni, lontanissima dagli esordi di Fdi, ha prodotto quella che Guia Soncini ha chiamato «biografia di un’influencer» (“Io sono Giorgia”, Rizzoli) e nella quale si possono individuare una serie di elementi diciamo classici: disagi, padre assente o problematico, punti di riferimento nei nonni, difficoltà circa il peso e/o l’estetica in genere. Tratti che si ritrovano, oltre che nel libro di Meloni, anche nella recentissima autobiografia di Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte, come pure in quella storica di Barack Obama, presidente degli Stati Uniti. Meloni come Casalino e Obama, per dire quanto siano radicati i topoi di una fatica letteraria (supervisione della sorella Arianna Meloni e dell’ideologo Giovan Battista Fazzolari) che, nel caso della presidente di Fratelli d’Italia, segna senz’altro un passaggio importante nel marketing della costruzione del personaggio, della leader. Ed è, come ha notato Sofia Ventura su The Huffington Post, la chiave d’accesso emozionale-privata attraverso la quale Meloni trasla poi una visione decisamente populista, dove esiste una manichea contrapposizione tra la sua destra e il resto del mondo, praticamente uno sterminato campo tutto di sinistra (ai tempi del governo gialloverde dipingeva come uno di sinistra persino Luigi Di Maio), ma dai contenuti decisamente vaghi nella proposta politica generale; a tratti per lo meno lunari, come quando, parlando del globalismo, Meloni proclama essere «incredibile come la visione comunista si sia rafforzata nel mondo da quando il socialismo reale è stato sconfitto dalla storia», o quando spiega che le «politiche immigrazioniste» della sinistra sono il nuovo volto «delle deportazioni di massa d’epoca sovietica». Proprio la vaghezza di quest’armamentario, la notevole dose di improvvisazione, unita alla volontà di non farsi misurare troppo direttamente dalle prossime amministrative (di qui la scelta di candidati civici, l’orientamento verso nomi come quello del carneade romano Enrico Michetti), stanno a indicare secondo alcuni quanto in realtà sia lungo (più di quanto sembri) il cammino che Meloni deve ancora percorrere, se vuol essere credibilmente in corsa per Palazzo Chigi - sempre che davvero lo voglia. «Il rischio che non si sedimenti nulla c’è, le fiammate straordinarie sono una caratteristica del nostro tempo, non sarebbe la prima volta», dice Alessandro Campi, docente di Scienza politica all’università di Perugia e direttore della Rivista di politica, che però nel ragionare su quali siano i punti di leva dell’intera faccenda indica da un lato l’abilità di Meloni nel costruirsi una «rete di relazioni» nella quale si è «sganciata dal fronte sovranista e ha cercato per tempo un accreditamento con il mondo repubblicano statunitense», dall’altro proprio la struttura di Fratelli d’Italia: «Ha un’organizzazione politica che in questa fase fa la differenza, un gruppo dirigente che si muove in modo unitario, una catena di comando che funziona». Proprio questo, ad esempio, è un elemento di differenza con altre leadership, quella di Fini in An, ma anche quella di Enrico Letta nel Pd: «In entrambi i casi ci sono capi frutto di un accordo tra gli oligarchi del partito. Meloni è in posizione diversa: i vecchi di An stanno con lei gratificati di essere stati ripescati, gli altri sono tutti di nuova leva, quasi tutti legati alla leader, con uno spirito di corpo generazionale molto forte». Novecentesco ma contemporaneo, piantato nella tradizione dell’Msi-An (anche quanto a sedi e fiamma) ma animato poi dalla generazione degli oggi trentacinque-cinquantenni, Fdi riflette in effetti la stessa ambivalenza della sua leader, che è stata capace di dotarsi di un comparto di social-media manager tale da far concorrenza alla bestia di Salvini, ma anche di un ufficio studi come quelli di una volta, con sede a via della Scrofa e coordinamento in mano a Francesco Filini. E che, soprattutto, ha costruito la sua attuale classe dirigente pescando soltanto dal gruppo militante di sempre, quello dei tempi in cui era presidente dei giovani dell’Msi-An. Nel cosiddetto cerchio magico, a parte la figura dell’ex forzista Guido Crosetto, che pur dietro le quinte continua ad essere un importante punto di riferimento, ci sono infatti solo personaggi dalla militanza pluridecennale: il senatore Giovanbattista Fazzolari detto Spugna, figlio di un diplomatico, che oggi è consigliere ascoltato e responsabile del programma di Fdi ma, per dire, sostenne Meloni già nel congresso in cui fu eletta presidente di Azione giovani nel 2004; il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, l’altro punto di riferimento, che era responsabile nazionale degli studenti del Msi nel 1995, quando Meloni era responsabile provinciale, e che è anche poi diventato cognato di Giorgia, avendone sposato molti anni dopo la sorella Arianna - secondo una tendenza endogamica che è sempre stata tipica del mondo missino; ci sono poi l’eurodeputato Carlo Fidanza e il deputato Giovanni Donzelli, anche loro presenti con vari ruoli sin dai tempi di Azione giovani (Fidanza fu il vice di Meloni), così come Nicola Procaccini e tanti altri. Una estrema continuità e, quindi, compattezza, che riguarda anche le figure cui si guarda come emergenti: non solo presidenti di Regione come Francesco Aquaroli che guida le Marche, ma anche una consigliera data in crescita come la capogruppo in Regione Chiara Colosimo, anche lei militante in Azione giovani fin dai tempi del liceo e ora alla terza legislatura. Un gruppo insomma tutt’altro che inesistente, ma per ora prudentemente dietro le quinte. Che riesca poi a farsi largo davvero, è tutto da vedere. 

Giorgia Meloni. Lettera a Francesco Merlo, pubblicata da “la Repubblica” il 25 aprile 2021. Caro Merlo, l'onnipresenza dell'onorevole Lollobrigida in Rai mi era inspiegabile. Poi ho scoperto che il capogruppo di Fd'I è il cognato dell'onorevole Meloni. Mario Melis

Risposta: Più del "lei non sa chi sono io" in Italia vale il "lei non sa chi è mio cognato".

Dagospia il 21 maggio 2021. Giorgia Meloni a La Confessione. Anticipazione da La Confessione di Peter Gomez. "Io di destra perché mio padre di sinistra? Assolutamente no". Così Giorgia Meloni, ospite de La Confessione di Peter Gomez in onda stasera alle 22.45 sul Nove, ha commentato la presunta influenza politica che il padre avrebbe avuto su di lei in giovane età. "È vero che sua madre era di estrazione di destra, però è vero che suo padre era di sinistra: lei lo descrive come un comunista che vuole l'abolizione della proprietà privata. Lei è sicura che la sua scelta di sentirsi di destra a 15 anni non dipenda anche dal rifiuto del padre di sinistra?", ha chiesto il direttore de Ilfattoquotidiano.it. "No, assolutamente no. Anche perché io ho scoperto le inclinazioni politiche di mio padre più tardi. In realtà io non ricordo di aver mai vissuto con mio padre, è andato via di casa che io avevo più o meno un anno. Quindi non è una persona con la quale ho avuto un quotidiano tale da parlare di politica anche in adolescenza", ha spiegato la leader di Fratelli d'Italia che ha raccontato molti episodi della sua vita privata nell'autobiografia "Io sono Giorgia" edita da Rizzoli. "Vostro padre, di lei e sua sorella (Arianna, ndr), lascia la casa, abbandona la famiglia. Già prima dell'abbandono lei ha detto che vi faceva soffrire, che era un padre distante che addirittura non era venuto quando vostra madre aveva partorito in ospedale. Però lei ha anche scritto nel libro che questo abbandono in qualche modo l'ha formata", ha detto Gomez. "Penso che anche le cose brutte che ti succedono nella vita in qualche maniera fanno di te la persona che sei, nel bene e nel male, poi il punto è come riesci a reagire - ha risposto l'ex ministro della Gioventù - Per carità, io ho fatto i conti più da grande con la figura di mio padre e con quello che aveva prodotto nel mio carattere. Ho negato per tanti anni che avesse avuto un impatto: non era così ovviamente", ha concluso la politica romana. 

"Premier? Se la votano...", "No, è fascista": lo scontro sulla Meloni. Francesco Curridori il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo intervistato il giornalista Giampiero Mughini e lo scrittore Fulvio Abbate sull'eventualità che la Meloni diventi il prossimo presidente del Consiglio. "Io sono pronta ad assumermi le responsabilità che gli italiani mi chiederanno di assumere. Mi tremano le mani. Ma se non fosse così, perché farei politica?". Giorgia Meloni, ieri, intervistata dalla Annunziata, ha fatto capire di puntare a Palazzo Chigi. A tal proposito, per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo sentito l'opinione del giornalista Giampiero Mughini e dello scrittore Fulvio Abbate.

Secondo lei, l'Italia è pronta ad avere una donna premier oppure è un Paese ancora troppo maschilista?

Mughini: “Non vedo proprio che differenza faccia se sulla poltrona di Palazzo Chigi siede un uomo o una donna. Sbaglio o sono donne la Thatcher o la Merkel, due leader europei fra i più rilevanti del tempo moderno”.

Abbate: “Non penso affatto che l'Italia non sia pronta. Ho delle riserve rispetto alla Meloni, ma non credo che possa esserci un'ipoteca maschilista sul suo nome”.

Tra Salvini e Meloni chi preferirebbe che andasse a Palazzo Chigi?

Mughini: “Non mi farebbe né caldo né freddo se andasse l'uno oppure l'altro”.

Abbate: “Personalmente nessuno dei due. La Meloni ha dalla sua alcuni valori (Dio, Patria e famiglia), che io ritengo restrittivi. Ma non solo. Lei ha anche immaginato che le barche dei migranti debbano essere affondate. Salvini, che conosco personalmente, non mi dà particolari garanzie, anzitutto dal punto di vista culturale e l'idea del sovranismo mi suscita abbastanza inquietudine”.

Sarebbe stupito se vedesse una donna di destra a Palazzo Chigi?

Mughini: “Se la maggioranza dell’elettorato voterà per il centro-destra, nulla di più naturale che lo scettro del comando stia nelle mani di una professionista della politica qual è da tempo la Meloni”.

Abbate: “No, a Roma si è già visto un sindaco fascista come Alemanno. Ormai, sinceramente non mi stupirei di niente”.

Perché la sinistra, al contrario della destra, non riesce a esprimere una leadership femminile?

Mughini: “Per puro caso. E comunque Emma Bobino è stata un personaggio altamente significativo nella storia della sinistra italiana”.

Abbate: “Le leadership si creano per cooptazione ed evidentemente le maggioranze maschili cooptano persone del proprio stesso sesso. Basta guardare quel che è accaduto nella trasmissione Propaganda Live dove c'è una comitiva di maschi da bar dell'Appio-Tuscolano che si ritrovano tra di loro e non riescono a immaginare una presenza femminile che non sia cooptata. Mi riferisco a quel che è successo con Rula Jebreal. Detto ciò, in realtà non esiste una sinistra perché dovrebbe esprimere contenuti e rinunciare alla personalizzazione. Le faccio un esempio: non mi stupirei se, da qui a qualche settimana, la sinistra pensasse di candidare l'immunologa Antonella Viola in quanto volto accattivante che sta facendo il giro delle sette chiese dei talk. La sinistra, in questo momento, sarebbe capace di candidare anche un lemure biondo”.

Il libro della Meloni è stato boicottato in una libreria romana, mentre un trans ha annullato la sua partecipazione a Verissimo sempre a causa del leader di FdI. Perché le idee della Meloni fanno così paura?

Mughini: “I cretini ci sono sempre stati, in tutti gli schieramenti. La civiltà digitale ne decuplica le gesta meglio la visibilità. In questo caso quella di un libraio romano che è un perfetto cretino. Ci mancherebbe altro che il libro della Meloni sia trattato in una libreria qualsiasi diversamente dagli altri 70mila libri che escono ogni anno in Italia”.

Abbate: “La Meloni non fa paura. Esiste, ed è un dato oggettivo che condivido, una pregiudiziale antifascista. La Meloni non ha mai preso le distanze dal fascismo. Poi c'è in atto una discussione molto aspra sul ddl Zan in cui un pezzo di mondo liberal-democratico ritiene che questo decreto debba essere votato, mentre la Meloni si è fatta paladina del no a tale ddl. Ora, si può discutere sulla perfettibilità del ddl Zan, ma il discrimine è sempre tra fascismo e antifascismo che non possono essere equiparati. I fascisti sognavano un'Europa sotto la svastica con i popoli dell'Est trasformati in manodopera schiavizzata e lo sterminio degli ebrei e basta questo per provare orrore del fascismo”.

Francesco Giubilei per “il Giornale” il 9 maggio 2021. Il libro di Giorgia Meloni non è ancora uscito nelle librerie e già c'è chi, giocando d'anticipo nei proclami censori, ha annunciato non lo venderà nella propria libreria per non «alimentare questo tipo di editoria». È il caso di Alessandra Laterza, libraia romana nel quartiere di Tor Bella Monaca, più nota per la sua attività politica nel Pd che per il proprio contributo al panorama letterario o culturale italiano (nel 2016 si è candidata al consiglio del Municipio VI di Roma, mentre nel 2018 ha ospitato nella sua libreria la prima riunione della segreteria Pd di Maurizio Martina). La Laterza, che ha giustificato la propria scelta con una raffinata e profonda spiegazione «so scelte, mejo pane e cipolla», non è nuova ad episodi di censura verso i libri di esponenti di destra «anche quelli non li ho venduti, in passato». A chi la accusa di censura, risponde affermando che la sua è «una scelta editoriale» e precisa «come un negozio di scarpe, dove la proprietà sceglie che modelli e che marchi proporre alla propria clientela». Peccato che non sia la stessa cosa; mentre da un lato si erge a paladina dell'editoria indipendente, dall'altro tratta i libri come se fossero un prodotto qualsiasi, senza comprendere il reale significato di impedire la vendita di un libro. Si dirà: ognuno nella propria libreria espone i libri che vuole, senza dubbio, però non parliamo di cultura ma di scelte politiche e ideologiche. La cultura è infatti confronto, dialogo, scambio di idee anche con chi la pensa diversamente, la cultura è l'opposto della censura, è difesa della libertà di parola e di espressione. Checché ne dica la libraia romana, rifiutarsi di vendere un libro significa compiere un gesto di carattere censorio, non caso nelle dittature si bruciano i libri e si impedisce la loro circolazione sopprimendo il confronto culturale. Eppure il suo gesto non può essere derubricato a un singolo episodio; già in passato erano avvenuti casi analoghi nei confronti di autori di destra ed è sintomatico della mentalità di una certa sinistra che si sente detentrice di tutta la cultura (in un suo post di qualche settimana fa, la Laterza si chiedeva: «conoscete delle librerie indipendenti di persone di destra? Già neanche io»). In questa vicenda inoltre è impossibile non cogliere un intento pubblicitario, non a caso la notizia è diventata ben presto virale ed è stata ripresa da alcuni influencer che l'hanno definita un «piccolo, grande, atto di resistenza». Anche altri librai indipendenti hanno condiviso il post in cui si annunciava il boicottaggio ma non sono mancate le critiche da parte di chi, pur avendo idee politiche diverse dalla Meloni, comprende la necessità di difendere non tanto i contenuti del libro in sé, che possono più o meno piacere, quanto il principio della libertà di stampa. Proviamo per un attimo a immaginare cosa sarebbe accaduto a parti inverse se un libraio si fosse rifiutato di vendere il libro di un politico di sinistra, ci sarebbe stato il finimondo. Chi davvero svolge un atto di resistenza quotidiana sono i librai (per fortuna esistono) che svolgono il proprio lavoro senza paraocchi ideologici, rispondendo alle esigenze dei propri clienti e compiendo un'attività culturale a sostegno di ogni libro, sia scritto da autori di destra, sinistra o centro. Altrimenti il rischio è che ci sia qualcun altro a vendere i testi che alcuni si rifiutano di esporre, poi però non lamentiamoci se Amazon si arricchisce e le librerie chiudono.

La libreria che boicotta la Meloni? Finanziata dalla Regione di Zingaretti. Alessandra Benignetti l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. La libreria indipendente di Alessandra Laterza risulta tra quelle beneficiarie del contributo economico della Regione Lazio per i "progetti di promozione e diffusione della lettura". Peccato che le iniziative siano tutte orientate a sinistra...Qualcuno la difende, altri gridano alla censura. Quello della libraia di Tor Bella Monaca che ha annunciato che in nome della "resistenza" non venderà il libro autobiografico di Giorgia Meloni è diventato un vero e proprio caso politico. Tanto che ieri ai microfoni di Radio Uno, persino il segretario del Pd, Enrico Letta, per gettare acqua sul fuoco delle polemiche, si è precipitato ad annunciare che acquisterà il volume. "Voglio e mi interessa leggerlo, sono sincero", ha detto il leader Dem, dando una lezione di tolleranza. "No pasaran", resta invece il motto di Alessandra Laterza, che ha deciso di mettere l’autobiografia della Meloni nell’Index librorum. "Io questo libro non lo vendo", ha scritto chiaro e tondo sul suo profilo Facebook la proprietaria di Booklet Le Torri, piccola libreria di quartiere che ha aperto i battenti nel 2018 in questo fazzoletto di periferia romana. "So scelte, - rivendica - mejo pane e cipolla, che alimentare questo tipo di editoria…alla lotta e al lavoro, il mio è indipendente". "Aprire una libreria a Tor Bella Monaca non risponde all'esigenza di vendere solo libri ma anche di raccontare una forma di resistenza civile", ha spiegato Laterza all’Adnkronos. Nel negozio di Laterza, però, la politica, è stata protagonista in più di un’occasione. Qui ha ospitato i Dem Walter Veltroni e Roberto Morassut, e tra una decina di giorni accoglierà Alessandro Zan, primo firmatario del discusso ddl contro l’omotransfobia, per la presentazione del libro della scrittrice e attivista per i diritti Lgbt, Cristiana Alicata. Dibattiti perlopiù a senso unico, con buona pace dell'indipendenza. Del resto, è la stessa piccola imprenditrice romana a non farne mistero. "Sono più vicina alla sinistra e e la propaganda della destra su certi temi non mi interessa", ha detto alla stessa agenzia di stampa. Peccato che nel 2020 la sua attività, che come altre librerie indipendenti romane ha risentito della crisi prodotta dalla pandemia, sia stata beneficiaria di un contributo a fondo perduto erogato dalla Regione Lazio. Si tratta, in particolare, di un bando di Lazio Crea, società in house creata dalla giunta Zingaretti, finanziato con 500mila euro dalla Regione, che un anno fa ha sovvenzionato fino ad un massimo di 5mila euro i "progetti di promozione e diffusione della lettura per grandi e piccoli". Tra questi, secondo le carte visionate dal Giornale.it, anche quelli dichiaratamente schierati a sinistra di Alessandra Laterza, che nel 2016 è stata pure candidata del Pd nel VI Municipio. Nel febbraio del 2020 ad arrivare in soccorso della libraia, che già prima del Covid lamentava di essere a rischio chiusura, secondo quanto riportava l’agenzia Dire, erano scese in campo anche la presidente Dem del I municipio di Roma, Sabrina Alfonsi, e l’allora vice ministro dell’Istruzione in quota Pd, Anna Ascani, che aveva "visitato la libreria". La libreria "presidio culturale" – viene da aggiungere, della sinistra – è poi risultata beneficiaria del contributo in denaro - pubblico - messo a disposizione dalla regione per le librerie indipendenti.

Non solo. La libreria di Alessandra Laterza ha collaborato con Lazio Crea anche per l’organizzazione della rassegna cinematografica "R-Estate a Torbella", andata in scena dal 13 al 26 luglio dello scorso anno nella periferia romana. "La sedicente partigiana del terzo millennio si scopre essere una storica militante del Pd che guarda caso ha preso fondi da una società della giunta Zingaretti", è il commento di Chiara Colosimo, consigliere regionale di Fratelli d’Italia. "Onestamente dopo lo scandalo Concorsopoli non ci stupiamo più di niente, ma almeno abbiano la compiacenza di lasciare in pace Giorgia Meloni anche se ci rendiamo conto che la sua coerenza e il suo successo danno molto fastidio". "Boicottare il suo libro e spacciarlo come gesto di resistenza è quindi solo una ridicola pantomima. – accusa Colosimo - La verità è infatti che la libraia si rifiuta di vendere il libro della Meloni e anche altri, solo perché l'incasso, probabilmente, l'ha già fatto grazie ai fondi regionali messi gentilmente a disposizione dai suoi compagni di partito".

Censura, alla Feltrinelli non c’è spazio per il libro di Mantovano sul ddl Zan: la denuncia dell’editore. Eleonora Guerra venerdì 14 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Uscito da due mesi, richiesto dai clienti e, ciononostante, non reperibile nelle librerie Feltrinelli. È la sorte subita dal libro Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, a cura di Alfredo Mantovano, secondo quanto denunciato dalla casa editrice Cantagalli. Che, parlando di «grave disservizio», ha rimarcato come il caso del libro contro il ddl Zan sembri «assumere i connotati di una vera e propria censura o “ostruzionismo commerciale”».

La denuncia della casa editrice Cantagalli. «Siamo purtroppo costretti a comunicare un grave disservizio a danno del volume stampato per i nostri tipi», si legge in una nota della Cantagalli. «Con amarezza, infatti – vi si legge – anche per un dovere di tutela dell’opera in questione e degli autori, dobbiamo costatare che, nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume a tutt’oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on-line). E che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena».

La richiesta di chiarimento e le scuse della Feltrinelli. L’editrice Cantagalli ha fatto sapere anche di aver chiesto conto alla Feltrinelli di queste segnalazioni e di aver ricevuto delle scuse. «Su nostra sollecitazione – è spiegato nel comunicato – il nostro distributore, Messaggerie Libri spa, oggi ha chiesto chiarimenti ufficiali alla direzione della suddetta catena, ricevendo in risposta una mail dove, tra le varie cose, si chiede scusa, dichiarando il proprio dispiacere per l’accaduto e promettendo di ordinare il libro».

Cantagalli: «Librerie libere, ma rifiutare ordini è altro». Cantagalli, quindi, ha chiarito la propria convinzione del fatto che «la libreria o la catena di librerie ha tutta la libertà di scegliere se ordinare, esporre e vendere un libro, compiendo valutazioni di carattere commerciale o valutandone il contenuto. Quindi, essa può rifiutare di accogliere un libro nei propri scaffali, se non ritiene di poterlo vendere o se ritiene che il libro non abbia contenuti interessanti o adeguati». «Tuttavia – ha però puntualizzato la casa editrice – la libreria o la catena di librerie non ha diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro e intenda ivi acquistarlo. Tanto meno la libreria può addurre scuse al cliente che vuole acquistare il libro affermando che Cantagalli non è distribuita da Messaggerie Libri spa o che il libro è fuori catalogo ed è reperibile solo nelle bancarelle dei libri usati».

Il ddl Zan miete la prima vittima: le librerie Feltrinelli "censurano" il volume di Alfredo Mantovano. Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Non è ancora stato nemmeno approvato e già, quello che per ora è ancora soltanto un disegno di legge, sta iniziando a mietere le prime vittime. In una nota diffusa dalla casa editrice Edizione Cantagalli, vengono infatti sottolineati gli ostacoli incontrati con le librerie Feltrinelli nella vendita di un volume curato dal Centro Studi Rosario Livatino, in libro che commenta articolo per articolo il ddl Zan. L'obiettivo della legge è quindi già stato raggiunto prima ancora che questa sia entrate in vigore: censurare ogni tipo di pensiero e riflessione che pone semplici perplessità nei confronti di una ideologia che vuole essere imposta. "Siamo purtroppo costretti a comunicare un grave disservizio a danno di un volume stampato per i nostri tipi e intitolato Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, a cura di Alfredo Mantovano" si legge nella nota (qui l'intervista del vicedirettore di Libero, Fausto Carioti, all'autore del saggio). "Nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume tutt'oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on line) e che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena". La Catena Librerie Feltrinelli ha quindi mandato una email di scuse alla Cantagalli, per aver improvvisamente rimosso il libro dai propri scaffali e dal catalogo online. "Accogliendo con piacere le scuse della Catena Librerie Feltrinelli" prosegue la nota "Ci preme tuttavia rimarcare il fatto che il comportamento sopra descritto sembra assumere i connotati di una vera e propria censura o “ostruzionismo commerciale”, che certamente non si confà ad un paese democratico come il nostro che all’art 21 della Costituzione riconosce la libertà di pensiero tramite la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".  

"Non lo vendono, è censura": il libro anti ddl Zan sparisce dagli scaffali. Luca Sablone il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La denuncia della casa editrice Cantagalli: "Una libreria non ha il diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro, è ostruzionismo commerciale". La casa editrice Cantagalli ha comunicato un grave disservizio ai danni del volume intitolato "Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo" a cura di Alfredo Mantovano. L'ex sottosegretario al ministero dell'Interno, che ha destrutturato punto per punto le ragioni della legge contro l'omotransfobia, ritiene che il dibattito sia puramente ideologico e che il fine riguarderebbe non soltanto gli aspetti giuridici ma anche un complesso disegno culturale. Nel testo curato dall'attuale vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino vengono elencati infatti diversi problemi che potrebbero riguardare la sfera delle opinioni personali e i presunti rischi che correrrebbe la libertà d'insegnamento.

"La legge Zan non va". La casa editrice Cantagalli attraverso una nota ha fatto sapere che, nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, "dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume a tutt'oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on-line) e che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena". Dall'ufficio stampa di Cantagalli fanno sapere che il loro distributore, Messaggerie Libri spa, ha chiesto chiarimenti ufficiali alla direzione della catena in questione. Via mail è poi arrivata una risposta in cui, tra le altre cose, "si chiede scusa dichiarando il proprio dispiacere per l'accaduto e promettendo di ordinare il libro".

"Ostruzionismo commerciale". Cantagalli da una parte sottolinea che comunque la libreria o la catena di librerie ha tutta la libertà di scegliere se ordinare, esporre e vendere un libro dopo aver compiuto valutazioni di carattere commerciale o aver valutato il contenuto: "Quindi essa può rifiutare di accogliere un libro nei propri scaffali se non ritiene di poterlo vendere o se ritiene che il libro non abbia contenuti interessanti o adeguati". Ma dall'altra sottolinea che la libreria o la catena di librerie "non ha diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro e intenda ivi acquistarlo". Accogliendo le scuse arrivate dalla Catena Librerie Feltrinelli, la casa editrice Cantagalli ha rimarcato l'attenzione sul comportamento adottato nei confronti del volume sul ddl Zan: "Sembra assumere i connotati di una vera e propria censura o 'ostruzionismo commerciale', che certamente non si confà ad un paese democratico". Senza dimenticare infatti che l'articolo 21 della nostra Costituzione riconosce la libertà di pensiero tramite la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La nota conclude: "Tuttavia siamo convinti che i tempi in cui i libri venivano bruciati nella pubblica piazza siano ormai lontani ricordi di un passato che ci auguriamo vivamente non ritorni mai più".

"È stato promesso che avrebbero ovviato al tutto, ma al momento non ho avuto riscontri. Le richieste dei clienti non sono state assecondate: chi va da Feltrinelli a ordinare il libro non lo trova e gli viene detto che verrà eventualmente consegnato dopo 15-20 giorni", ha dichiarato a ilGiornale.it​ il direttore della casa editrice Cantagalli.

Antonello Piroso per "la Verità" il 12 maggio 2021. «Un catarifrangente con le gambe». Quando si arriva a questo passaggio, anche il detrattore più avvelenato nei confronti di Giorgia Meloni non può trattenere un sorriso. È il punto del suo libro Io sono Giorgia in cui racconta di come si fosse addobbata per il giuramento al Quirinale quando divenne ministro della Gioventù nel quarto governo di Silvio Berlusconi: «Avevo acquistato un costoso tailleur cangiante che poteva piacere solo a me e forse a Platinette». Meloni può piacere o non piacere, ma leggendo il volume di una cosa le va dato atto: non scansa le accuse che sul piano politico (e non solo) le vengono rivolte, ma le affronta e le ritorce sui suoi avversari, argomentando contro quelle che lei giudica ipocrisie da sepolcri imbiancati: «Lo ripeterò fino allo sfinimento: non voglio l'abolizione della legge sull' aborto. Ma ne rivendico la piena applicazione, in particolare sulla prevenzione. Il ddl Zan sulla omotransfobia? Un cavallo di Troia per far passare l'autocertificazione di genere, l'hanno smontato perfino le femministe». Non solo: prende di petto ogni aspetto della sua biografia, pubblica ("Il possibile secondo posto di Fratelli d' Italia nei sondaggi è un risultato su cui non avrei scommesso un soldo nel 2018") e privata (i critici che lei cita: «Parli tanto di famiglia fondata sul matrimonio, Meloni, ma intanto non sei sposata"), e li sviscera senza infingimenti. Rivendicando sempre di essere «donna, madre, italiana, cristiana». Una combattente. «Tosta» per dirla con Carlo Calenda. Che non si sottrae mai al confronto, anche quando a bruciapelo le domando della notizia degli 11 indagati con l'accusa di minacce e offese al capo dello Stato, Sergio Mattarella, con tanto di perquisizioni, «soggetti gravitanti in ambienti di estrema destra e a vocazione sovranista»: «Non ho elementi per commentare. Ho letto che c' è stata una operazione dei Ros su disposizione della Procura di Roma su questa presunta rete sovranista. Al presidente va la mia solidarietà per gli insulti e le minacce ricevute, ma al momento non so altro. Però mi faccia aggiungere: mi auguro ci siano elementi molto consistenti per disporre perquisizioni in casa, in un contesto in cui spesso i politici - me compresa - ricevono quotidianamente contumelie e pesanti intimidazioni dagli haters. Perché se questi elementi più che solidi non ci fossero, allora ci troveremmo davanti a una preoccupante anomalia». In chiusura del penultimo capitolo - l' ultimo è dedicato a sua figlia Ginevra - la sua determinazione la rivendica apertis verbis: «Non ho paura di niente e di nessuno, se non quella di deludere me stessa e chi crede in me. Non sono ricattabile. Non sono sola, e chi ha scelto di accompagnarmi in questa battaglia è molto simile a me. Sono sempre stata sottovalutata, e questa è una grande fortuna. Per questo non diserterò. Io sono un soldato».

Battuta inevitabile: dal Soldato Jane al Soldato Giorgia.

«Be', ci può stare se intende riferirsi al fatto che ho dovuto farmi spazio in un mondo prevalentemente maschile. Ma come spiego nel libro, in tutta la mia storia politica non mi sono mai sentita davvero discriminata in quando donna. Certo, mi sono sempre impegnata e non ho mai abbassato la guardia, ma alla fine non è stato così complicato. Come sosteneva con un sorriso Charlotte Whitton, sindaco di Ottawa negli anni Cinquanta: "Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà. Per fortuna non è difficile"».

Un' autobiografia a 44 anni. Era proprio necessario?

«Non è un' autobiografia né un manifesto. Piuttosto un "diario minimo"...».

Alt. Le rimprovereranno l' appropriazione indebita. Diario minimo è un titolo di Umberto Eco. Nel libro evoca il Pier Paolo Pasolini di Saluto e augurio, da lei definito un testo «conservatore di straordinaria bellezza». Alla Camera, nel dichiarare il suo no al governo di Mario Draghi, ha citato Bertolt Brecht. Fino a La canzone di Marinella di Fabrizio De André, con cui tuttora addormenta sua figlia Ginevra di 4 anni. Vuole acquisire meriti a sinistra?

«Guardi, la destra che piace alla sinistra è quella che non vince. Io rimango me stessa potendo benissimo apprezzare parole e concetti di autori anche ideologicamente distanti da me. Non ho pregiudizi, io».

La sottolineatura è riferita alla signora che non metterà in vendita Io sono Giorgia nella sua libreria?

«Scherza? Io la ringrazio, piuttosto, per la pubblicità che mi ha fatto. E per il pessimo servizio reso alla libertà d' espressione vista da sinistra. Pensi se una cosa del genere l' avesse annunciata un libraio con simpatie di destra su un' opera di un politico del Pd. Sarebbe stato invocato l' intervento dei caschi blu e sarebbero partiti i girotondi. Mi conforta che Calenda e Enrico Letta abbiano espresso altre valutazioni, il primo sull' autenticità di quello che sostengo, il secondo affermando che il libro lo leggerà. L' ho scritto perché mi sono resa conto di quanto fossero distanti le mie idee, la mia vita dalla rappresentazione distorta che se ne fa. Volevo semplicemente esporre chi sono e in cosa credo, qui e ora, alla luce di quello che è stato ed è il mio vissuto. Chi intende sostenermi e votarmi è giusto che sappia con chi ha a che fare. Sentendolo da me».

Qual è l' immagine che le è stata cucita addosso, e come?

«Gli anglosassoni la chiamano character assassination, in italiano suona pure meglio: la distruzione della reputazione. Chi è Giorgia Meloni, secondo la vulgata accreditata dal sinedrio dei sacerdoti del politicamente corretto? Una bigotta retrograda oscurantista omofoba. Una razzista. Una xenofoba, una che odia ogni diversità, che plaude o ha nostalgia per chi ha sterminato milioni di ebrei con le camere a gas, o ha piazzato bombe in banche e stazioni, schiavizzato i neri, sottomesso e stuprato le donne, perché nell' immaginario delle donne di sinistra, o delle femministe radicali, una donna di destra è oggettivamente succube, complice e vittima dei suoi carnefici maschilisti. Io stessa proverei un irrimediabile disprezzo per me, se questa descrizione fosse anche solo lontanamente vera».

Il vittimismo non le si addice, soldato Giorgia.

«Ma quale vittimismo! Conosco bene le asprezze della lotta politica, l' anno prossimo saranno 30 anni da quando, quindicenne, andai a bussare al portone blindato della sezione del Fronte della Gioventù della Garbatella. Ma io non sono spaventata da quello: è quando lo scontro si fa sleale, che allora mi batto con tutte le mie forze. Smontate le mie argomentazioni, se ne avete di valide da oppormi. Non inventatele. Cosa fa dire Oliver Stone a Gordon Gekko nel sequel di Wall Street? "Quando smetterete di dire balle su di me, io smetterò di dire la verità su di voi"».

Lei scrive: «Se sanno fare il loro lavoro, i giornalisti non sono amici tuoi». Il tutto perché, parlando schiettamente da ministro del governo Berlusconi IV con un collega, il giorno dopo si ritrovò lo sfogone a tutta pagina.

«Erano uscite intercettazioni tra lui, dirigenti tv e giovani attrici in cerca di raccomandazioni. Dissi che tutto l' insieme mi faceva tristezza e che il comportamento del Cavaliere in quel frangente non mi era piaciuto. Ovviamente che titolo poteva fare il giornale? Questo Silvio non mi piace. All' alba mi chiamò Ignazio La Russa, capodelegazione di Alleanza nazionale al governo: "Mi ha telefonato Berlusconi, è fuori dalla grazia di Dio. Ha detto: la ragazza mi ha già rotto le palle"».

Lei dovrebbe essere grata al Cavaliere: se nel 2012 non avesse cancellato le primarie per il segretario del Pdl, per cui lei si era candidata, non avrebbe mai visto la luce il partito di Fratelli d' Italia. Nome che tra l' altro non è un' idea sua.

«Fu Fabio Rampelli a pensare all' Inno di Mameli. Io avevo proposto "Noi italiani". Anche se la nostra prima scelta fu "Figli d' Italia", che accantonammo rendendoci conto che quel "Figli di..." avrebbe incentivato un banale quanto scurrile doppio senso. La mannaia di Berlusconi sul dibattito interno sulle primarie ha fatto da detonatore. Ma il malessere accumulato anche per la scelta di sostenere il governo di Mario Monti era tale che prima o poi il divorzio ci sarebbe stato comunque. Io sono del Capricorno, concreta, rigorosa, abituata a valutare il pro e il contro, ma sono anche fatalista: mi lascio guidare dalla follia dell' istinto, affidandomi all' ultimo a Nostro Signore».

E al suo angelo custode, di nome Harael. Ma davvero dialoga con lui?

«Sì, ma non è argomento da barzelletta new age. La voce del nostro angelo custode non è altro che ciò che noi chiamiamo coscienza. Ha presente quando percepiamo una voce interna che ci avverte di qualcosa, noi tiriamo diritto e poi a cose fatte confessiamo: "Ci avevo pure pensato"? Ecco, quella voce è l' angelo custode. Mi sono così appassionata all' angelologia, che ho perso il conto di quante statuette ho che li raffigurano».

«Non so esattamente cosa sia la felicità. Io l' ho rincorsa tutta la vita e credo di non averla afferrata davvero mai. La felicità è soprattutto attesa di qualcosa che, pensi, ti renderà felice».

Come Fdi primo partito alle elezioni? O come essere la prima donna presidente del Consiglio?

«Lo scrivo a mia figlia Ginevra nell' ultima pagina: "Anche se possedessi tutte le cose del mondo, ti accorgeresti che non hai quasi nulla. Egoismo, cattiveria e arrivismo non ti porteranno mai da nessuna parte. È l' amore la benzina del mondo. E la felicità, ricorda, esiste solo se la puoi condividere. Continua a ridere, per tutto il resto troveremo un rimedio"».

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 9 maggio 2021.

Giorgia Meloni, qual è il suo primo ricordo?

«Ho tre anni e sto annegando. L'acqua si chiude sopra di me. Mio padre ci aveva lasciato in barca con una tata che non sapeva nuotare. Da allora una delle mie paure più grandi è morire affogata. Per questo ho fatto nuoto, agonismo, immersioni».

Mi pare un buon motivo per evitare nuoto e immersioni.

«Al contrario. Io sono piena di paure; per questo le impatto. Mi impongo di vincerle.

Ogni volta che faccio sub mi viene un attacco di panico; e l'unico rimedio è mettere la testa sott' acqua. La sola paura che non ho impattato è quella degli scarafaggi. Li vedo e scappo».

Nel suo libro lei racconta che sua madre stava per abortire, e lei non sarebbe dovuta nascere.

«È vero. C' era già mia sorella Arianna. La storia con papà era finita. Tutti avevano detto a mamma di non tenermi, e lei era andata in clinica, digiuna, per fare le analisi prima dell'intervento. Sulla soglia ha esitato. Poi si è detta: io questa creatura la voglio. Così ha attraversato la strada, è entrata al bar, ha ordinato cappuccino e cornetto. Mi sono salvata così».

Però è cresciuta senza padre.

«Un padre che non c'è, che si dissolve è un padre che non ti vuole. Che ti rifiuta. È forse una ferita più profonda di un padre che muore».

Però con sua sorella andavate a trovarlo alle Canarie, dove si era trasferito.

«Avevo 11 anni. Lui sparì in barca e ci lasciò con la sua compagna, che non era entusiasta. Decisi che non l'avrei rivisto mai più. Quando compii 13 anni mi mandò un telegramma: "Buon compleanno, Franco". Non "papà"; Franco. Mi dissi che avevo fatto la scelta giusta».

Non l'ha più rivisto?

«No. Mia sorella sì; io non ho voluto. Quando è morto, non ho provato nulla. Né dolore, né gioia; che sarebbe comunque stata un'emozione. Non lo odiavo, e non lo amavo».

Com'è possibile?

«A lungo ho creduto che il fatto di non avere un padre non mi avesse cambiata. Solo di recente ho capito che non è così. Non avere un padre è come un buco nero, un pozzo chiuso. E io quel pozzo non potevo permettermi di riaprirlo».

Qual è la sua paura più grande?

«Deludere. Gli altri e me stessa. Per questo lavoro e studio come una pazza».

Pensavo il fuoco.

«Perché a tre anni ho dato fuoco alla casa? Fu anche colpa di mia sorella però Avevamo smontato la casa di Barbie per farne un'astronave. Non contente, volevamo dare una festa, solo per noi due. Così abbiamo acceso una candela, in vista della serata, poi abbiamo chiuso la porta e siamo andate a vedere i cartoni. Presero fuoco i pupazzetti e i pasticcini. La mamma sentì un rumore e aprì la porta: c' erano le fiamme al soffitto».

Doveste cambiare casa e quartiere.

«Andammo ad abitare vicino ai nonni. Da loro io e mia sorella passavamo molto tempo.

Era una casa di 38 metri quadrati. Nel corridoio c'era un mobile-letto dove Arianna e io ci coricavamo insieme: "Una de capo e una de piedi", diceva la nonna. Insomma, dormivo con i piedi di mia sorella in faccia. Per campare la mamma ha fatto mille lavori, anche scrivere romanzi rosa con vari pseudonimi, tra cui Josie Bell: ne ha pubblicati 144».

Lei da piccola era chiusa.

«Molto. La Russa mi dice di continuo: "Devi sorridere di più, sei sempre incazzata" (la Meloni si produce in una discreta imitazione di La Russa). Gli ho fatto vedere una foto dell'asilo: avevo un muso lungo così».

Ed era grassa.

«Parecchio. Ho combattuto con le diete tutta la vita. Il ricordo più brutto è al mare, ancora adesso vado al mare a Coccia di Morto, la spiaggia del film Come un gatto in tangenziale. Ci sono dei ragazzi che giocano a pallavolo, io chiedo di unirmi a loro, e quelli mi fanno: "A' cicciona, te non puoi gioca'". Avrei voluto morire».

Così quando poi l'ha criticata Asia Argento.

«Per la "schiena lardosa"? Non me n'è fregato nulla. Ero appena diventata mamma».

Lei scrive di essere contro le quote rosa: «Sono una donna, non voglio essere trattata come un panda».

«Sono per il merito. Non capisco le donne del Pd, tutte felici perché il capo ha deciso che due di loro potevano fare le capogruppo. Tu non devi andare al potere perché l'ha stabilito un uomo, ma perché sei la migliore. In Fratelli d'Italia è andata così».

Esiste la solidarietà femminile?

«No. Al contrario: le donne tendono a competere tra loro, come se giocassero un campionato di serie B. Però esiste la solidarietà tra mamme. Ho un ricordo molto dolce di Laura Boldrini, da cui mi separa tutto, che mi accarezza la pancia. Roberta Pinotti mi mandò un paio di scarpine da neonata. Sono gesti che restano».

Lei era amica di Roberto Speranza, ma ha presentato una mozione di sfiducia contro di lui.

«Ci è rimasto malissimo. Ma sulle chiusure ha sbagliato tutto. Ho un buon rapporto con molti avversari; però non li risparmio. Se fossi io al suo posto, Roberto non mi avrebbe risparmiata. E avrebbe avuto ragione».

Si iscrisse al Fronte della Gioventù da ragazzina.

«Telefonai alla sede del Msi in via della Scrofa - qui dove siamo ora, nella stanza di Almirante - per chiedere dove fosse la sezione più vicina a casa. Andai. Mi aprì un ragazzo che si chiamava Alessandro ma si faceva chiamare Marta».

Marta?

«Era il nome di battaglia. Nessuno chiamava l'altro con il suo vero nome. Un retaggio degli anni 70. Il capo lo chiamavano Peo: aveva i capelli lunghi, il chiodo e la spilletta dei Ramones; pensavo di essere finita in un centro sociale. Capitava di telefonare a casa e chiedere di Pinotto e Nocciolino, con enorme imbarazzo delle madri».

Poi la mitica sezione del Msi di Colle Oppio.

«Passata indenne attraverso i sindaci comunisti, rispettata da Rutelli e Veltroni, e chiusa dalla Raggi. Per odio, furia, e totale mancanza di cultura politica».

La festa di Atreju.

«Chi la chiamava "Atreggiu", chi "Atroja", chi pensava fosse il nome di un pastore sardoè il protagonista della Storia infinita di Ende».

Gli scherzi ai leader ospiti.

«Ci cascavano tutti. Berlusconi fu indotto a maledire Pai Mei, "dittatore comunista del Laos", in realtà un personaggio di Kill Bill. Veltroni rispose sul degrado dell'immaginaria borgata Pinarelli. Fini si impegnò a battersi per i kaziri, minoranza cristiana oppressa in Turkmenistan».

Avete fatto solo scherzi?

«Il ricordo più emozionante è quando Orbán disse che la canzone più bella sulla rivolta d'Ungheria l'aveva scritta un italiano: Pierfrancesco Pingitore».

Quello del Bagaglino?

«Lui. Tutta la platea si alzò a cantare "Avanti ragazzi di Buda". Se ci ripenso mi commuovo ancora».

È sicura che il futuro appartenga a quelli come Orbán? Non è meglio dialogare con Merkel?

«Noi non siamo contro l'Europa. Siamo per un'Europa confederale, che decide le grandi cose, e sulle altre lascia libertà agli Stati. Oggi accade il contrario: l'Europa ci dice che possiamo mangiare i vermi; e sulla pandemia si va in ordine sparso».

Perché non avete dato una mano a Draghi, invece di opporvi per sfruttare una rendita di posizione?

«Io sto dando una mano a Draghi. A un governo l'opposizione serve».

Vi sentite?

«A volte sì. Abbiamo un buon rapporto. Su Erdogan e sull'estradizione dei terroristi mi è piaciuto».

È il suo candidato al Quirinale?

«Avrebbe il vantaggio che poi si va a votare. Ma penso anche ad altri nomi. Che non intendo bruciare».

Di Berlusconi racconta che, quando lei lasciò il Pdl, lui le chiese: «Che cosa vuoi?». Come una persona convinta che tutto e tutti abbiano un prezzo.

«Non credo che Berlusconi mi abbia mai davvero capita. E non so se volesse trattenermi, o mettermi alla prova, o liberarsi di un po' di ex An».

Fini non esce male dal libro.

«Mi ha voluta vicepresidente della Camera a 29 anni e ministro a 31. Io avevo con lui un buon rapporto, ma ci sono voluti dieci anni per ricostruire dopo quello che ha fatto».

Perché l'ha fatto?

«Non l'ho mai capito. A volte penso che forse non riusciva più a reggere questa vita. Una notte venne a una cena che avevamo organizzato da mesi: era nero. Non un sorriso, non una stretta di mano. Ci rimasi malissimo. Ma adesso capisco che certe volte, dopo quattro pranzi, due comizi, tre interventi tv, sei talmente stanco che hai voglia soltanto di dormire».

Bossi?

«Non ci siamo mai piaciuti particolarmente. Mi chiamava la Romanina».

Come sono davvero i suoi rapporti con Salvini?

«Altalenanti. Il nostro non è mai stato un rapporto che andasse oltre la politica. Ma in certi periodi ci parliamo spesso, e ci mandiamo WhatsApp per ridere di chi vuole farci litigare; in altri, ci sentiamo meno. Adesso è uno di questi periodi».

Renzi?

«Ormai è un uomo d' affari. Enorme delusione. Anche generazionale».

Qual è il suo obiettivo?

«Andare al governo».

Non crede che le serva una squadra?

«Sì. Sono molto soddisfatta dei miei venti senatori e trenta deputati: hanno fatto tutti la gavetta; sono pochi, e riescono a tenere in scacco il Parlamento. Ma dobbiamo dialogare, attrarre energie, aprirci in vari campi e gente che ne sa più di noi».

In tutta Europa la destra di governo non ha problemi con i diritti civili e le minoranze. Perché in Italia sì?

«Non li abbiamo neanche qui. Io sono la persona meno omofoba che esista. Chi mi dà dell'omofoba, come l'altro giorno Fratoianni, lo fa per non discutere nel merito. Sono contraria alla gerarchia nella discriminazione; perché le grandi discriminate saranno le donne».

Perché?

«Pensi ad esempio a quando alle Olimpiadi i transgender potranno partecipare alle gare femminili. Lo sa che molte femministe si oppongono al ddl Zan?».

Nel libro racconta come ha conosciuto Andrea, il padre di sua figlia.

«Lo vidi in uno studio Mediaset, con le cuffie, bello come il sole. Ma non mi filò. Mi prese pure in giro. Stavo mangiando una banana durante la pubblicità, e lui venne a prendermi la buccia: "Ci manca solo di far vedere la banana". Poi ci siamo rivisti. Ho chiesto il suo numero a Giovanna, la mia portavoce, e gli ho mandato un sms innocente. Lui non si è fatto sfuggire l'occasione».

Perché non vi sposate?

«Di solito non sono cose che chiedono le donne...».

L'ultimo capitolo è dedicato alla sua bambina.

«Dopo la sua nascita ho fatto un esame sulla fertilità: mi hanno detto che difficilmente avrei avuto altri figli, e che la situazione era già così quando è arrivata lei, contro ogni possibilità. Ginevra è un dono. Spero che un giorno sarà orgogliosa di me, e mi perdonerà per tutto il tempo che non le ho dedicato».

Da Verissimo l'8 maggio 2021. Giorgia Meloni si racconta per la prima volta a Silvia Toffanin, in un’intervista ritratto sulla sua vita, in onda domani a Verissimo. Per una volta niente politica: la Presidente di Fratelli d’Italia ripercorre la sua infanzia caratterizzata dall’amore per la madre e la sorella, ma allo stesso tempo dal burrascoso rapporto con il padre: “Mia mamma ha incontrato molte difficoltà nella vita, ha cresciuto due figlie da sola. A lei devo tutto. Il suo giudizio è uno dei pochi che temo di più. Mia sorella, invece, è stata la mia guida. Ancora oggi è l’unica persona con la quale ho fisicamente bisogno di parlare al telefono per chiacchierare, per sfogarmi, non c’è nulla di me che lei non conosca” – e prosegue – “mio padre non c’è mai stato. È andato via di casa quando avevo un anno. Lui viveva alle Canarie e noi andavamo da lui una, due settimane all’anno e basta. Ma quando avevo undici anni, lui fece un discorso che non si dovrebbe fare ad una ragazzina e io gli dissi ‘Non ti voglio vedere mai più’. Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto”. Giorgia Meloni, in uscita con un libro dal titolo “Io sono Giorgia”, rivela ai microfoni del talk show di aver subito episodi di bullismo durante l’adolescenza perché un po’ in sovrappeso: “Mi chiamavano cicciona. I nemici hanno sempre un’utilità perché ti fanno crescere e mettere in discussione”. Anche acquisire credibilità in politica, da giovane donna, non è stato facile: “Non mi sono mai sentita discriminata per il fatto di essere una donna, ma magari a qualcuno non piaceva l’idea di avermi come condottiera. Ho reagito con la determinazione e il buon esempio”. La Meloni è sempre al centro di numerose critiche che non hanno risparmiato neanche il suo lato più intimo di mamma: “Le critiche sono la cosa più naturale per chi fa il mio lavoro. Gli insulti non li leggo e non mi fanno quasi più male. Però, ho sofferto quando annunciai di aspettare mia figlia Ginevra al Family Day. Ci sono stati molti hater che mi hanno augurato di abortire. Questa cosa l’ho patita perché mi sono sentita in colpa, come se, alla prima prova di maternità, non l’avessi protetta”. E a chi le dà dell’omofoba dice: “È falso e verificabile perché io faccio politica da trent’anni e in tutto il mio percorso non si trovano parole omofobe. Certe etichette si affibbiano alle persone per non doversi mettere a confronto”. Nel libro l’ex ministro parla anche della sua visione della maternità e dei suoi sensi di colpa per non aver potuto dare un fratello alla figlia: “Per il legame che ho con mia sorella, è dura accettare che Ginevra sia figlia unica. Quando diventi madre e come se smettessi di vivere avendo come baricentro te stesso. I figli ti fanno sperimentare tutte le tue emozioni più grandi”. Oggi, la leader di Fratelli d’Italia è felicemente innamorata del compagno Andrea con il quale non è ancora convolata a nozze: “Lui non soffre per il ruolo politico che ricopro. L’amore ha senso se riesci a fare squadra – e conclude – non parliamo di matrimonio, anche se credo nei suoi principi. E’ come se le cose fossero già in equilibrio”.

Da leggo.it il 13 maggio 2021. Qualche giorno fa è uscita in libreria l’autobiografia di Giorgia Meloni, Io sono Giorgia, e subito spunta il primo "caso". Riguarda un passo del libro della leader di Fratelli d’Italia, in cui la Meloni dice che non sarebbe mai dovuta nascere, perché sua madre, quando rimase incinta di lei, pensò seriamente ad abortire, cambiando idea all’ultimo per poi portare avanti la gravidanza. Come sottolinea però Selvaggia Lucarelli su Tpi e sul suo profilo Twitter, c’è una stranezza nel racconto della Meloni: quest’ultima è nata nel 1976, mentre la legge sull’aborto risale al 1978. Quindi, si chiede la Lucarelli, i casi sono due: o sua madre le ha mentito, oppure mente lei nel suo racconto. Quando la madre di Giorgia Meloni era incinta - scrive - la legge sull’aborto non esisteva. Così la giornalista: «Nel 1976 l’aborto era illegale. Non funzionava così. Hai mentito tu o tua madre?» E ancora: ««C’è solo un problema in questo racconto scritto con quell’impellente bisogno di verità che Giorgia Meloni si porta dentro: e cioè che quando la madre di Giorgia Meloni era incinta di Giorgia Meloni la legge sull’aborto non esisteva». Nel 1976 l’aborto era un reato e si rischiava una condanna dai 2 ai 5 anni di prigione: secondo la legge dell’epoca una gravidanza poteva essere interrotta solo «quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre». Solo due anni dopo, nel maggio ’78, arrivò la legge 194 che introdusse l’interruzione di gravidanza entro i primi tre mesi, escluso l’aborto terapeutico.

Giorgia Meloni nel suo libro: “Mia madre scelse di non abortire”, ma nel 1976 l’aborto era illegale. Valentina Mericio il 13/05/2021 su Notizie.it. Giorgia Meloni nel suo libro ringrazia la madre per non averla abortita, eppure ci sono delle incongruenze. Nel 1977 l'aborto era illegale. “Devo tutto solo a mia madre”, questa l’incipit di Giorgia Meloni che apre il capitolo “Piccole donne” del suo libro “io sono Giorgia” nel quale la leader di Fratelli d’Italia racconta come sua madre durante la gravidanza avrebbe potuto scegliere di abortire. “La verità è che io non sarei mai dovuta nascere […] l’avevano quasi convinta che non avesse senso mettere al mondo un’altra bambina in quella situazione”. Eppure queste parole nascondono un’incongruenza importante che è stata fatta notare puntualmente dalla giornalista Selvaggia Lucarelli nel suo approfondimento su TPI: all’epoca della nascita di Giorgia Meloni, vale a dire nel gennaio del 1977 l’aborto era una pratica illegale e pensare di abortire in un contesto quale l’ospedale era impensabile. Il racconto di Giorgia Meloni mostra fin dalle prime righe un grande amore e una dedizione per la madre. A tratti invita a riflettere sulla forza di una donna che nonostante i tempi difficili decide di proseguire la gravidanza nonostante tutto: “A questo punto mi ha sempre raccontato, si ferma davanti al portone, esita, vacilla. Non entra. ‘No non voglio rinunciare, non voglio abortire’.  È una mattina di primavera”, scrive Giorgia Meloni raccontando il momento esatto nel quale la madre ha deciso che avrebbe portato avanti la gravidanza.

Giorgia Meloni libro – le incongruenze. A dispetto delle parole molto sentite e piene d’affetto per la madre, sarebbero diverse le incongruenze portate in superficie da Selvaggia Lucarelli che senza mezzi termini ha fatto notare: “Quando la madre di Giorgia Meloni era incinta di Giorgia Meloni la legge sull’aborto non esisteva”. La legge sull’aborto ovvero la legge 194 come è noto è entrata in vigore il 22 maggio del 1978, vale a dire circa un anno mezzo dopo la nascita della leader di Fratelli d’Italia avvenuta il 15 gennaio del 1977. Oltre a ciò dal racconto di Giorgia Meloni risulta come l’episodio raccontato risalga alla primavera del 1976. “Nel 1976 l’interruzione volontaria di gravidanza era una pratica illegale. Abortire era un reato che prevedeva una pena dai 2 ai 5 anni” – prosegue Selvaggia Lucarelli. 

Giorgia Meloni libro – le ipotesi. Sul finire dell’approfondimento la giornalista Selvaggia Lucarelli porta sul piatto tre ipotesi che cercherebbero di spiegare cosa potrebbe essere successo. La prima teoria ipotizza come ipotizza la giornalista potrebbe essere legata al fatto che Giorgia Meloni possa aver in qualche modo romanzato la cosa. Nel secondo caso la madre di Giorgia Meloni potrebbe non aver raccontato la verità e la stessa Meloni potrebbe essere inconsapevole: “è comunque responsabile di una grave lacuna culturale: visto che è pro-vita e ritiene l’aborto una sconfitta, potrebbe almeno imparare la data in cui è nata la legge 194”, fa notare la giornalista. Il terzo e ultimo caso riguarebbe l’età anagrafica di Giorgia Meloni:  “Giorgia Meloni non è nata nel 1977 ma qualche anno dopo. Probabilmente, in quanto leader di un partito, è tra le poche donne ad aumentarsi gli anni per acquisire più autorevolezza”. – ha concluso la giornalista. 

Estratto dell’articolo di Sara Kelany per lavocedelpatriota.it il 14 maggio 2021. Notizia falsa, speculazione strappalacrime, “l’aborto nel 1976 era un reato”: così la Lucarelli tenta di trovare la falla nel libro della Meloni. Nel Libro “Io sono Giorgia”, l’autrice riporta i racconti della sua mamma, di quando era una giovane donna, ferita, spaventata, con una storia d’amore ormai finita ed una bimba piccola. Questa donna si ritrova incinta, sola, senza un lavoro e disperata. Così, raccogliendo i consigli di parenti ed amici si determina ad interrompere la gravidanza. Come avrebbe potuto andare avanti, sola e con due figlie? Ma arrivata al momento di liberarsi di quello che agli occhi del mondo sembrava un fardello, quella giovane donna decise di no. Decise che l’avrebbe tenuta con sè la sua creatura. Così inizia la storia di vita della Meloni. Con un gesto di amore puro. (…) E dunque il notizione, la perla scovata dalla Lucarelli, sarebbe che la legge 194 è del 1978  e che dunque,  essendo Giorgia del 1976, ai tempi narrati abortire sarebbe stato un reato: Chi mente, si chiede la Lucarelli, “tu o tua madre?” L’aborto illegale? Nel 1976? (…) E’ dal febbraio del 1975 che l’aborto non è più un reato. La Corte Costituzionale, con la Sentenza 27/1975, aveva espressamente sancito che non potessero andare incontro a conseguenze penali coloro che procuravano l’aborto e le donne che vi consentivano. La consulta infatti dichiarava parzialmente incostituzionale l’art. 546 c.p., nella parte in cui puniva chi cagionava l’aborto di donna consenziente anche qualora fosse stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l’equilibrio psichico della gestante. Dopo questa sentenza che depenalizza l’aborto e lo rende una pratica legale, che non poteva portare dunque più ad alcuna conseguenza sanzionatoria, arriva la legge 194 del 1978, che regolamenta l’interruzione di gravidanza, ne disciplina i contorni e riempie il vuoto normativo che con la sentenza del 1975 nell’ordinamento si era venuto a creare. Non era reato, non lo era più da tempo.

"Hai mentito". Ma l'attacco della Lucarelli alla Meloni finisce male. Luca Sablone il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La Lucarelli attacca la leader di Fratelli d'Italia: "L'aborto nel 1976 era un reato". Ma un avvocato la zittisce: "Era legale, volgare viperetta". Continua a far discutere l'autobiografia di Giorgia Meloni. In particolare è stato un passaggio del libro, scritto dalla leader di Fratelli d'Italia, a sollevare una polemica sul mondo del web. La presidente di FdI ha rivelato i racconti di sua madre, di quando era una giovane donna, ferita, spaventata, con una storia d'amore ormai agli sgoccioli. L'intenzione era quella di interrompere la gravidanza, ma alla fine decise di dar vita alla sua creatura e di crescerla negli anni a seguire. In sostanza la Meloni non sarebbe dovuta nascere perché sua madre - quando rimase incinta di lei - pensò seriamente ad abortire, cambiando però idea per poi portare avanti la gravidanza. Ma per Selvaggia Lucarelli c'è qualcosa che non torna: secondo la giornalista in quel periodo "la legge sull'aborto non esisteva". La Meloni è nata il 15 gennaio 1977; dunque la madre rimase incinta verso aprile dell'anno prima. La giornalista sostiene che "nel 1976 l'interruzione volontaria di gravidanza era una pratica illegale". La legge 194 sull'aborto, grazie a cui oggi l'interruzione di gravidanza in Italia è consentita entro i primi tre mesi, "è del 22 maggio 1978". Così la scrittrice ipotizza, tra gli altri scenari, che la Meloni possa aver mentito "infiocchettando un racconto e dunque questo è un romanzo e non una biografia".

L'avvocato zittisce la Lucarelli. La posizione della Lucarelli è stata però smontata dall'avvocato Sara Kelany, iscritto a Fratelli d'Italia: "Notizia falsa, speculazione strappalacrime. Così la Lucarelli tenta, con fare miserabile, di trovare la falla nel libro della Meloni". La Kelany, attraverso un articolo pubblicato su La voce del patriota, ritiene che l'aborto non sia più reato dal febbraio del 1975. La Corte Costituzionale, con la sentenza 27/1975, "aveva espressamente sancito che non potessero andare incontro a conseguenze penali coloro che procuravano l'aborto e le donne che vi consentivano". Secondo l'avvocato, la consulta dichiarava parzialmente incostituzionale l'articolo 546 c.p., nella parte in cui puniva chi cagionava l'aborto di donna consenziente anche qualora fosse stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l'equilibrio psichico della gestante: "Dopo questa sentenza che depenalizza l’aborto e lo rende una pratica legale, arriva la legge 194 del 1978, che regolamenta l'interruzione di gravidanza, ne disciplina i contorni e riempie il vuoto normativo che con la sentenza del 1975 nell'ordinamento si era venuto a creare".

Dunque per la Kelany l'aborto non era reato già da un po' di tempo. E così ha colto l'occasione per commentare la polemica sollevata dalla Lucarelli: "La cosa miserevole è che ancora una volta, pur di rovistare nel torbido consenso del web come un accattone nei cassonetti, si è speculato sui sentimenti più profondi, spettegolando come volgari viperette di rione su fatti che hanno oggettivamente una poderosa portata emotiva per chi li vive e ne scrive".

Dagospia il 14 maggio 2021. SELVAGGIA TWEET! - “SULLA QUESTIONE MELONI E CASTRONERIE SULL’ABORTO NEL SUO LIBRO, FRATELLI D’ITALIA HA AFFIDATO LA SUA DIFESA A UN’AVVOCATESSA CHE SCRIVE “DAL ‘75 L’ABORTO ERA LEGALE”. PALLE. LO ERA PER RAGIONI TERAPEUTICHE, NON SE LA DONNA AVEVA PROBLEMI CONIUGALI, COME RACCONTATO DALLA MELONI…”

Giorgia Meloni e l'aborto, Alba Parietti contro Selvaggia Lucarelli: "Attacco gratuito e cattivo, come un giustiziere". Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Anche Alba Parietti prende le difese di Giorgia Meloni, pesantemente attaccata da Selvaggia Lucarelli. Ricapitoliamo: l'opinionista del Fatto quotidiano, citando un drammatico passaggio del libro della leader di Fratelli d'Italia Io sono Giorgia sull'aborto mancato della madre, ha messo in dubbio la veridicità di quanto affermato ricordando che nel 1976 (anno di nascita della Meloni) l'aborto in Italia era una pratica illegale: "Hai mentito tu o tua madre?", chiede provocatoriamente la Lucarelli. Già i commentatori, sui social, hanno iniziato a ribaltare la domanda, chiedendo a Selvaggia se facesse finta o meno di non sapere che migliaia di donne nel corso di quegli anni avessero ricorso a dolorosissimi aborti illegali clandestini. E la stessa Parietti sottolinea proprio questo punto, cruciale, in una replica dal proprio profilo Instagram. "Sono nata negli anni 60, negli anni 70 con le mie coetanee partecipavo a cortei e facevo manifestazioni e parte di gruppi di femministe. La battaglia più importante di quel momento è stata proprio per l’aborto legale. La pratica dell’aborto non è piaciuta a nessuna donna come ci ha raccontato in un suo racconto la stessa Lucarelli. Perché un articolo cosi gratuito e cattivo? Non si entra mai nel dolore delle persone pensando di avere la verità in tasca, anche perché l’aborto non riguarda la legge o la legalità ma la donna e suo figlio ed è uno strazio". Quindi una sottolineatura quasi banale, ma doverosa: "Giorgia Meloni non dice che abortire fosse legale, ma era una via d’uscita per molte donne che non potevano portare a termine una gravidanza o non la volevano. Esisteva si l’aborto clandestino nella sostanza assolve o meno? Cosa cambia?". E se a difendere la Meloni è Alba Parietti, politicamente lontana anni luce da Fratelli d'Italia ("Personalmente non ho mai condiviso il pensiero politico della Meloni". mette in chiaro la stessa showgirl torinese), significa che il ragionamento della Lucarelli fa veramente acqua: "Se una persona mi racconta la sua storia personale, la storia dolorosa della sua vita e di quella di sua madre, io ascolto e non mi permetto di sparare sentenze come se fossi uno sceriffo o come se fossi giustiziere". Questo, suggerisce ancora la Parietti, sembra "un pretesto tanto per cambiare per attaccare una persona su un piano personale". Perché l'aborto, legale o meno, era comunque "una scelta tragica" e "degna di rispetto".

Giorgia Meloni "come Gianfranco Fini". Il politologo e il destino di una leader: "Che fine farà Fratelli d'Italia". Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. Giorgia Meloni non è poi così diversa da Gianfranco Fini così come Fratelli d'Italia non lo è da Alleanza nazionale. Ne è convinto Luigi Curini, politologo dell'Università di Milano e visiting professor presso la Scuola di scienze politiche della Waseda University di Tokyo, che in una intervista a ItaliaOggi, sostiene che "dal punto di vista programmatico e di idee faccio fatica a trovare grosse differenze tra FdI e la fu Alleanza Nazionale, una forza politica che nel suo massimo splendore riuscì a sfiorare il 16% di voti, non dimentichiamocelo, e che fece parte di diversi governi nazionali". E anche rispetto al tipo di elettorato Curini non trova diversità rilevanti: "Io vedo poche differenze rispetto ad An, almeno l'An nel suo massimo successo elettorale a metà anni '90. Stessa proposta programmatica, stessa diffusione geografica (con una chiara prevalenza nel Sud Italia)", spiega. "Certo, oggi c'è la Meloni e non Gianfranco Fini. Ma ricordo che a metà anni 90 Fini era anche lui tra i politici più apprezzati dagli italiani", sottolinea Curini. "Insomma, anche qua c'è meno differenza di quello che si potrebbe pensare a prima vista". Sicuramente, pensa il politologo, nonostante l'aumento del consenso, "senza il voto del ceto produttivo Fratelli d'Italia non sarà mai primo partito del centrodestra. A meno di disastri del governo Draghi nei prossimi mesi".  Servirebbe "una vera rivoluzione culturale, l'implementazione di una sorta di liberismo populista o di populismo liberale", che però, spiega Curini, "potrebbe venire ben più facile paradossalmente ad un Salvini che ad una Meloni, semplicemente perché la seconda ha una eredità ideologica decisamente più gravosa del primo". E se FdI ruba voti alla Lega e a Forza Italia, "chi sale lo fa perché gli altri scendono. Da questo punto di vista, il modo di porsi della Meloni sta facendo indubbiamente la differenza nel corso dell'ultimo anno", prosegue Curini. "Viene secondo me apprezzata per la sua linea coerente, con pochi tentennamenti, quelli che invece Salvini ha registrato dalle elezioni europee in poi, con accelerazioni e poi veloci retromarce, a volte difficili da capire". Per esempio, "pensiamo al caso del Recovery Fund del luglio scorso. Da un lato Salvini a criticare l'esito ottenuto dall'allora governo Conte 2, dall'altro la Meloni che prima si dice al fianco del premier, e poi si congratula con lui per il risultato raggiunto", osserva Curini. "In questo quadro, chi si presenta meglio agli occhi dell'elettorato in termini di responsabilità? Strizzando gli occhi anche solo per un attimo agli elettori moderati?". 

Verissimo, Giorgia Meloni sconvolge Silvia Toffanin: "Mi chiamavano cicciona", il bullismo dei compagni. Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Per una volta niente politica: Giorgia Meloni ha deciso di raccontarsi per la prima volta a Silvia Toffanin. Domani, sabato 8 maggio, andrà in onda su Canale 5 la sua intervista realizzata nel salotto di Verissimo. La leader di Fratelli d’Italia ha raccontato la sua vita e in particolare la sua infanzia, caratterizzata dall’amore per la madre e la sorella ma anche dal burrascoso rapporto con il padre. “Mia mamma ha incontrato molte difficoltà nella vita - ha confidato la Meloni - a lei devo tutto. Il suo giudizio è uno dei pochi che temo di più. Mi sorella, invece, è stata la mia guida. Ancora oggi è l’unica persona con la quale ho fisicamente bisogno di parlare al telefono per chiacchierare, per sfogarmi”. Sul padre invece è stata molto dura: “Non c’è mai stato. È andato via di casa quando avevo un anno. Lui viveva alle Canarie e noi andavamo da lui una, due settimane all’anno e basta. Ma quando avevo undici anni, lui fece un discorso che non si dovrebbe fare ad una ragazzina e io gli dissi ‘Non ti voglio vedere mai più’. Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto”. Inoltre la Meloni ha rivelato di aver subito episodi di bullismo durante l’adolescenza perché un po’ in sovrappeso: “Mi chiamavano cicciona. I nemici hanno sempre un’utilità perché ti fanno crescere e mettere in discussione”. Anche acquisire credibilità politica non è stato facile per lei, che all’epoca era una giovane donna: “Non mi sono mai sentita discriminata per il fatto di essere una donna, ma magari a qualcuno non piaceva l’idea di avermi come condottiera. Ho reagito con la determinazione e il buon esempio”. 

Verissimo, Giorgia Meloni: "Mi hanno augurato di abortire". Fuori i nomi, ecco chi è stato. Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Ospite attesissima nella puntata dell'8 maggio di Verissimo è Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia si è concessa alle telecamere di Canale 5, ripercorrendo con Silvia Toffanin i momenti più belli e più tristi della sua vita. Tra quelli più belli c'è sicuramente la figlia Ginevra, avuta dal compagno giornalista Andrea Giambruno. Anche però in questa parentesi felice, la Meloni non può non ricordare gli insulti subiti: "Le critiche sono la cosa più naturale per chi fa il mio lavoro. Gli insulti non li leggo e non mi fanno quasi più male. Però, ho sofferto quando annunciai di aspettare mia figlia Ginevra al Family Day. Ci sono stati molti hater che mi hanno augurato di abortire. Questa cosa l’ho patita perché mi sono sentita in colpa, come se, alla prima prova di maternità, non l’avessi protetta". Da qui un'altra ammissione: la numero uno di FdI non ha negato che avrebbe voluto donare a Ginevra un fratellino, o sorellina ovviamente. "Per il legame che ho con mia sorella, è dura accettare che Ginevra sia figlia unica - ha confessato alla Toffanin -. Quando diventi madre è come se smettessi di vivere avendo come baricentro te stesso. I figli ti fanno sperimentare tutte le tue emozioni più grandi". Poi il pensiero va al suo compagno di vita, con il quale, precisa, non è ancora sposata: "Lui non soffre per il ruolo politico che ricopro. L’amore ha senso se riesci a fare squadra – e conclude – non parliamo di matrimonio, anche se credo nei suoi principi. È come se le cose fossero già in equilibrio". Oltre ad Andrea, la Meloni ha altre due persone importantissime che le stanno sempre accanto: mamma e sorella. "Mia mamma ha incontrato molte difficoltà nella vita, ha cresciuto due figlie da sola. A lei devo tutto. Il suo giudizio è uno dei pochi che temo di più. Mia sorella, invece, è stata la mia guida. Ancora oggi è l’unica persona con la quale ho fisicamente bisogno di parlare al telefono per chiacchierare, per sfogarmi, non c’è nulla di me che lei non conosca".

Patrizia Groppelli per “Chi” il 18 maggio 2021. Andrea Giambruno, autore e giornalista Mediaset, 40 anni, da 7 è il compagno di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, oggi più che mai sulla breccia. Di lui si sa tanto, ma non tutto.

Domanda. Sia sincero, le dà fastidio essere definito “il compagno della Meloni”?

Risposta. «Ma io sono il compagno della Meloni».

D. Che non è propriamente un mestiere...

R. «Questo lo dice lei».

D. E allora ci spieghi.

R. «Io faccio il giornalista, ma lei non mi sta intervistando perché leggo bene un tg, ma in quanto “compagno di”. La verità non può dare fastidio: quella famosa è Giorgia, non io. Ma la tranquillizzo subito...».

D. Prego...

R. «Non ho mai cercato la notorietà e non la cerco neppure ora. È vero, da quando sto con Giorgia la gente mi guarda con un occhio diverso: sul lavoro, gli amici, al bar sotto casa. Sarebbe ipocrita dire il contrario. Ma vivo tutto questo serenamente. Anzi, le confesso una cosa, che non ho mai detto neanche a Giorgia: io devo moltissimo a Giorgia».

D. Da dove spunta Andrea Giambruno?

R. «Milano, famiglia borghese tradizionale, poco di superfluo ma tutto il necessario. Mamma Flavia mi ha tenuto in riga, papà Elio, un commerciante che sapeva vendere di tutto, mi ha insegnato la gentilezza e l’eleganza. Ma il mio punto di riferimento in famiglia è sempre stata ed è tutt’ora Ilaria, mia sorella maggiore. A scuola... così e così».

D. Nel senso?

R. «Andavo bene perché avevo una compagna di banco, tale Chiara, che andava molto bene».

D. Insomma, era un copione?!

R. «Diciamo uno sfangatore: quel che non riuscivo a fare io lo faceva bene lei. Il risultato era una media ponderata tra i suoi 8 e i miei teorici 4. Un perfetto 6».

D. Andiamo avanti...

R. «Maturità, liceo scientifico di Monza, superata con il solito metodo, nonostante mi avessero beccato a barare sulla versione di latino. Poi trovai la strada giusta».

D. Direzione?

R. «Giornalismo, comunicazione. Prima la laurea in filosofia alla Cattolica, poi uno stage a Telenova – la tv dei preti, come la chiamano a Milano – dove ho imparato il mestiere. Infine nel 2009 la telefonata che svolta la vita».

D. Come nel famoso spot della Tim...

R. «Gigliola Barbieri, capo autrice di Kalispéra!, il programma del momento di Alfonso Signorini, mi chiama: “Ti aspetto domani a Mediaset, arrivederci”. Mi presento al cospetto di Signorini che usa altrettanto poche parole: “Hai una buona occasione, giocatela bene».

D. E lei ha giocato...

R. «Grande scuola, Signorini. Poi, 12 anni tra Mattino Cinque, Videonews, Paolo Del Debbio e tg vari, sempre con un occhio alla politica, la mia grande passione».

D. In questo racconto, però, manca la sua vita sentimentale...

R. «Ragazzino taciturno e introverso, parlavo più con me che con gli altri. Crescita ritardata, a 14 anni ero ancora un piccoletto gracile, poi con le arti marziali e tanta palestra sono schizzato su».

D. “Bello come il sole”, dirà di lei una innamorata Giorgia Meloni. A proposito, è vero che vinse un concorso di bellezza?

R. «Enorme cazzata (ride, ndr), mai fatto né pensato di fare concorsi. Ero carino, magari sopra la media, ma nulla di che».

D. Modestie a parte, i primi flirt?

R. «Come tutti, nulla di particolarmente serio o duraturo, nessuna convivenza. Evidentemente stavo aspettando Giorgia...».

D. Galante e un po’ ruffiano, ma ci sta... quindi arriva Giorgia.

R. «Arriva in studio una sera».

D. In studio?

R. «Quinta Colonna, conduce Paolo Del Debbio. Lei arriva trafelata e fa a Giovanna, sua storica assistente: “Non ho mangiato, ho una fame che svengo”. E Giovanna: “Ma qui c’è solo una banana”. E lei: “E dammi ’sta banana”. In una pausa pubblicitaria se la divora, ma alla ripresa è ancora lì con la banana in mano. Io mi precipito e gliela strappo di mano anche con una certa foga, ci mancava solo la Meloni in diretta con una banana. Non so dire, i nostri occhi si incrociano in modo strano, è stato un attimo».

D. Avvincente. E poi?

R. «E poi ci siamo rivisti, sempre in tv. Ma io non ero più solo un autore e lei non più solo un’ospite... e che ospite!».

D. Già, la banana galeotta. Ma arriviamo al dunque.

R. «Una sera a Milano, ristorante fuori dai soliti giri. Lei vestitino nero al ginocchio, stivaletti scuri e giubbino di pelle. Bellissima lei, magnifico il momento».

D. Scatta il bacio?

R. «Diciamo un bacetto».

D. E ridacci con la modestia.

R. «Modestia un bel niente. Dopo 7 anni da quella sera siamo ancora insieme e ci amiamo. Evidentemente superai l’esame».

D. Qualcuno ha scritto che la vostra canzone fin dall’inizio è stata Faccetta nera.

R. «Seconda cazzata. Mai sentito Giorgia intonarla».

D. Allora, che colonna sonora?

R. «Io che amo solo te, versione Gianna Nannini nel film Up: la storia di due ragazzi che tra mille avventure vogliono attraversare la vita insieme, invecchiare insieme. La nostra storia».

D. Se anche questa non è copiata come ai tempi della scuola, 10 e lode. Ma com’è vivere con la più grande politica italiana?

R. «Non è una vita del tutto normale. Ma a tenerci con i piedi per terra ci pensa Ginevra».

D. Ginevra, quattro anni.

R. «Non è arrivata per caso, l’abbiamo cercata e ora io sono il suo Lancillotto, amore eterno».

D. Padre severo come i padri di destra, ovviamente.

R. «Ultrasinistra che più non si può. Ginevra, detta Topa o Topina, la vizio tutti i giorni. Vederla felice mi rende felice: ci sarà tempo e modo di metterla in riga».

D. Mi sembra di capire che ci penserà sua madre.

R. «Precisina com’è, non ne dubito».

D. Precisina?

R. «Un vero incubo, la sua mania dell’ordine è patologica, arriva a sistemare le penne in scala cromatica. Per me che vivo in un disordine perfetto è davvero dura. Quando mi fa le prediche glielo dico: se non trovi quello che stai cercando che sarà mai? Troverai altro».

D. Altro difetto, oltre l’ordine?

R. «Ritardataria cronica. In questo lei è troppo romana e io troppo milanese. E a noi milanesi i ritardatari fanno girare... Poi ci penso e la perdono: in effetti non fa un lavoro qualunque».

D. E a gelosia, come andiamo?

R. «Lei il giusto, io... beh, insomma, lei conosce e frequenta migliaia di persone e altre migliaia la cercano tutti i giorni. Quando qualcuno eccede o è invadente ovvio che mi infastidisca. Ma poi penso che...».

D. Che pensa?

R. «Che quando, presto, sarà la prima donna presidente del Consiglio nella storia d’Italia, andrà anche peggio».

"Cosa mi disse mio padre. E al funerale..." Francesca Galici il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Giorgia Meloni dalle poltrone di Verissimo ha rivelato il suo lato più personale, accantonando per qualche ora le battaglie politiche. Intervistata da Silvia Toffanin a Verissimo, Giorgia Meloni ha ripercorso gran parte della sua vita con un racconto a tratti emozionato e sofferto. L'intervista andrà in onda nella puntata di domani, trasmessa su Canale5 a partire dalle 15.30. Nello studio di Verissimo, Giorgia Meloni ha svestito i panni della politica pasionaria, leader dell'opposizione di governo, e ha indossato quelli della donna, della figlia e della madre, svelando al pubblico un lato di sé poco noto, un'anticipazione del suo libro Io sono Giorgia (Rizzoli).

Il rapporto con la famiglia. Al centro dell'intervista il rapporto straordinario con sua madre e sua sorella e quello meno semplice con suo padre. "Mia mamma ha incontrato molte difficoltà nella vita, ha cresciuto due figlie da sola. A lei devo tutto. Il suo giudizio è uno dei pochi che temo di più", ha detto il presidente di Fratelli d'Italia ricordando la sua infanzia. Grande l'emozione nel parlare di sua sorella, alla quale è molto legata: "È stata la mia guida. Ancora oggi è l’unica persona con la quale ho fisicamente bisogno di parlare al telefono per chiacchierare, per sfogarmi, non c’è nulla di me che lei non conosca". Il padre, invece, Giorgia Meloni non l'ha quasi mai vissuto: "È andato via di casa quando avevo un anno. Lui viveva alle Canarie e noi andavamo da lui una, due settimane all’anno e basta". Con Silvia Toffanin, quindi, ha ricordato uno dei momenti più tragici della sua vita: "Quando avevo undici anni, lui fece un discorso che non si dovrebbe fare ad una ragazzina e io gli dissi "Non ti voglio vedere mai più". Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto".

Il bullismo in adolescenza e gli insulti in politica. A Verissimo ha rivelato gli episodi di bullismo subiti in adolescenza: "Mi chiamavano cicciona. I nemici hanno sempre un’utilità perché ti fanno crescere e mettere in discussione". Un'attitudine alla lotta, quella di Giorgia Meloni, anche per l'affermazione politica: "Non mi sono mai sentita discriminata per il fatto di essere una donna, ma magari a qualcuno non piaceva l’idea di avermi come condottiera. Ho reagito con la determinazione e il buon esempio". Dal bullismo in età adolescenziale alle critiche e agli insulti in età adulta il passo è stato breve per Giorgia Meloni, ma non indolore. "Le critiche sono la cosa più naturale per chi fa il mio lavoro. Gli insulti non li leggo e non mi fanno quasi più male. Però, ho sofferto quando annunciai di aspettare mia figlia Ginevra al Family Day. Ci sono stati molti hater che mi hanno augurato di abortire", ha ricordato la leader di Fratelli d'Italia, che tutt'oggi soffre per quell'episodio: "Questa cosa l’ho patita perché mi sono sentita in colpa, come se, alla prima prova di maternità, non l’avessi protetta". Il rimorso della Meloni è quello di non aver dato un fratellino a Ginevra: "Per il legame che ho con mia sorella, è dura accettare che Ginevra sia figlia unica. Quando diventi madre e come se smettessi di vivere avendo come baricentro te stesso. I figli ti fanno sperimentare tutte le tue emozioni più grandi".

"Non sono omofoba". Dallo studio di Verissimo, Giorgia Meloni si è difesa anche dalle accuse di omofobia, che respinge con forza: "È falso e verificabile perché io faccio politica da trent’anni e in tutto il mio percorso non si trovano parole omofobe. Certe etichette si affibbiano alle persone per non doversi mettere a confronto". La politica ha un ruolo di rilievo nella vita di Giorgia Meloni, che riesce però a conciliare anche il ruolo di madre e compagna: "Lui non soffre per il ruolo politico che ricopro. L’amore ha senso se riesci a fare squadra. Non parliamo di matrimonio, anche se credo nei suoi principi. È come se le cose fossero già in equilibrio".

Giorgia Meloni, la lunga marcia: buonsenso e coerenza, i due segreti dietro alla sua ascesa. Alberto Luppichini su Libero Quotidiano il 30 marzo 2021. Nella nostra sgangherata democrazia rappresentativa, ormai i cittadini contano soltanto nel giorno delle elezioni, sempre meno rappresentati da un'oligarchia di partiti fatta da capibastone fedeli all'apparato benefattore e non alle aspettative e ai bisogni della popolazione. In questa situazione di putrefazione istituzionale, le virtù più apprezzate dai cittadini sono il coraggio e la coerenza. Giorgia Meloni, romana verace classe '77, è oggi un argine potente contro le ipocrisie, gli sciagurati accordicchi sottobanco e la spartizione delle poltrone di governo. C'è chi sguazza nei gangli vitali dello Stato, dell'alta burocrazia, dei grandi funzionari di Bruxelles. C'è chi, come Giorgia, corre a perdifiato da una parte all'altra del Paese per risolvere i problemi degli impiegati, degli operai, degli imprenditori e di qualunque italiano perbene che sgobba da mane a sera. Giorgia ha fatto la gavetta, quella vera di strada fra banchetti e comizi, megafono in spalla e battaglie feroci al fianco degli italiani. Fin dagli inizi, la giovane donna è così: tutto cuore e generosità. La durezza della gavetta è lì a dimostrarlo. Nel '92, a soli 15 anni, aderisce al Fronte della Gioventù. Dopo essere diventata consigliere della provincia di Roma, nel 2004 viene eletta Presidente di Azione Giovani, l'associazione giovanile di Alleanza Nazionale. Il grande salto avviene nel 2006, quando è eletta per la prima volta alla Camera dei Deputati, diventando vice-presidente di Montecitorio. È il ministro più giovane della storia della Repubblica quando nel 2008, a 31 anni, il Cavaliere la nomina ministro della Gioventù. Nel 2012, a soli 35 anni, fonda la sua creatura politica, Fratelli D'Italia. Ma i primati, per Giorgia, non hanno mai contato niente. I punti fermi della sua azione politica sono da sempre le persone, la Comunità, il Paese. In una parola: contano solo i fatti. La giovane donna, in un istante, ha riverniciato di entusiasmo e di coerenza il sistema dei partiti e messo in cantina tutto il caravanserraglio di vecchio linguaggio da Prima Repubblica, riti stantii, trasformismo becero e poltronismo esasperato. Nel parapiglia in cui stiamo annaspando, Giorgia non ha fatto rivoluzioni, non ha alzato la voce. Le è bastato trasformare i suoi valori fermi di donna e il suo amore smisurato per il Paese in un progetto politico semplice e credibile, e per questo affidabile. Le parole d'ordine di Giorgia per gli italiani e per il Paese sono i consigli appassionati di un'italiana al suo popolo e alla sua Patria. Così, con naturalezza e disinvoltura da timoniere navigato, la leader interpreta a menadito gli umori e i malumori degli italiani. Passionale, emotiva, istintiva, ha restituito peso a cosa si dice e non a come lo si fa, cancellando d'un colpo i litigi da bettola e i pettegolezzi da portinaia. Un esempio? L'immigrazione clandestina. Sul tema Giorgia è in favore di regole chiare e di buon senso: «In Africa ci sono un miliardo e 200mila persone che vogliono venire in Italia per cercare fortuna. Possiamo mai ospitare un numero simile di disperati? In Italia, negli ultimi anni ne sono entrati più di 700.000. Senza regole, la tendenza è destinata ad aumentare». Fra le numerose battaglie, la leader di Fdi lotta per cambiare questa Ue di burocrati: «L'Ue non deve avere paura di difendere la sua identità europea, cristiana, di civiltà. Invece oggi l'Europa di Bruxelles è un modello di burocrazia, interessi e speculazione, dove non c'è spazio per i diritti dei popoli e delle persone». Infine, Giorgia ha restituito al Paese un sentimento condiviso di orgoglio nazionale, un orizzonte identitario di Comunità. Con coerenza, è rimasta all'opposizione sia con Conte che con Draghi. La spiegazione? «Non governo con Pd e M5S. È una promessa fatta a tutti gli italiani che ci sostengono e una regola che vale pure se il premier è Mario Draghi». La coerenza paga, se è vero che nei sondaggi Fdi vola al 19%, staccando di ben cinque punti il M5S. La tenacia indistruttibile di Giorgia ha pagato anche in Europa, dove il 29 settembre 2020 è stata nominata presidente dei Conservatori e Riformisti Europei. Buon segnale premonitore: anche in Europa, il destino è la Patria.

Da open.online il 6 marzo 2021. «Mi raccomando, io non vi conosco», avrebbe detto l’allora segretario di Fdl al momento del pagamento. La testimonianza arriva direttamente dal collaboratore di giustizia Agostino Riccardo, che davanti ai pm antimafia romani, ha raccontato come nel 2013 – secondo quanto rivela La Repubblica – Fratelli d’Italia avrebbe fatto avere al clan nomade Travali 35mila euro per comprare voti e attaccare manifesti a favore di Pasquale Maietta, ex tesoriere di Fdl alla Camera. Maietta ha legami di vecchia data con il boss Costantino “Cha Cha” Di Silvio, quest’ultimo coinvolto nel processo Olimpia sulla costruzione di tre organizzazioni criminali. Un affare che coinvolgerebbe anche Giorgia Meloni: «Maietta ha detto alla Meloni che c’era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale e la Meloni ha risposto: ‘Dì a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario”», ha raccontato Riccardi. I ragazzi a cui si riferiva facevano parte di un clan di Latina che la Dda di Roma considera mafioso. «Maietta – ha precisato il pentito Riccardo – ci presentò nel 2013 Giorgia Meloni. Era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti. Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c’erano Rampelli e Meloni, nonché del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per fare posto al Maietta». Secondo quanto raccontato dal pentito, fu Maietta a dire alla Meloni che i ragazzi del clan andavano pagati. La presidente avrebbe risposto: «Parlane con il mio segretario». «Il segretario in disparte – ha evidenziato il pentito – e solo io e il mio gruppo presenti, ci ha detto: “Senza che usiamo i telefoni diamoci un appuntamento presso il Caffè Shangrila a Roma”». Nell’incontro, avvenuto poi dall’altra parte della strada all’altezza dello Shangri-la, sarebbero poi stati consegnati all’interno di una busta di pane i 35mila euro in contanti: «Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente», ha detto il segretario prima di andarsene, ha rivelato infine Riccardo.

"Giorgia Meloni fece avere 35mila euro a un clan di nomadi per la campagna elettorale", la rivelazione di un pentito alla Dda di Roma. Clemente Pistilli su La Repubblica il 6 marzo 2021. Lo stralcio del verbale che imbarazza Giorgia Meloni. Dal verbale segreto spunta il nome della leader di FdI. Parla Agostino Riccardo, collaboratore di giustizia: "I soldi consegnati in contanti dentro a una busta del pane davanti al distributore di fronte al bar Shangri-la all'Eur". L'uomo della Meloni ci salutò dicendo: "Io a voi nun ve conosco. Nun v'ho mai dato gnente". "Maietta ha detto alla Meloni che c'era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale e la Meloni ha risposto: 'Dì a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario' ". Quei ragazzi erano quelli di un clan di Latina. Un clan che la Dda di Roma considera mafioso. E' un'accusa pesante quella fatta dal collaboratore di giustizia Agostino Riccardo davanti ai pm antimafia romani, Corrado Fasanelli e Luigia Spinelli, da tre anni impegnati in una serie di indagini su alcune famiglie di origine nomade radicate nel capoluogo pontino, legate a doppio filo ai Casamonica, e che per gli inquirenti hanno messo su delle vere e proprie associazioni per delinquere di stampo mafioso. Inchieste in cui a più riprese sono emersi rapporti tra pezzi di politica e malavita e che ora vedono un pentito tirare in ballo la stessa presidente di Fratelli d'Italia, sostenendo che nel 2013 fece avere al clan Travali, colpito nei giorni scorsi da 19 arresti, 35mila euro per comprare voti e attaccare manifesti a favore di quello che all'epoca era l'astro nascente del partito, Pasquale Maietta, commercialista, ex presidente del Latina Calcio ed ex tesoriere alla Camera di FdI, amico di vecchia data del boss Costantino Cha Cha Di Silvio, coinvolto nell'inchiesta "Don't touch", relativa all'organizzazione criminale messa in piedi da quest'ultimo, imputato nel processo "Olimpia", relativo a tre organizzazioni criminali che sarebbero state costituite nel capoluogo pontino all'ombra del Comune quando era sindaco il collega di partito ed ex consigliere regionale Giovanni Di Giorgi, e imputato nel processo "Arpalo", per cui venne anche arrestato, incentrato su un vasto giro di denaro frutto di evasione fiscale riciclato in Svizzera. In passato Riccardo e Renato Pugliese, figlio di Cha Cha, anche lui diventato collaboratore di giustizia, parlarono dei servizi di attacchinaggio e della compravendita di voti di cui a Latina i clan di origine nomade si erano occupati a favore, oltre che di Maietta e di Di Giorgi, di Matteo Adinolfi, attuale eurodeputato della Lega, di Gina Cetrone, ex consigliera regionale del Pdl, passata poi a Cambiamo di Giovanni Toti, arrestata per tali vicende e attualmente imputata, di Nicola Calandrini, attuale senatore di FdI, e di Angelo Tripodi, attualmente capogruppo della Lega alla Regione Lazio. Dai verbali spuntati fuori con le ultime inchieste emerge ora anche il nome della Meloni, che nel 2018 è stata rieletta alla Camera con il centro-destra nel collegio uninominale di Latina. "Nel 2013 - ha dichiarato Riccardo ai pm Fasanelli e Spinelli - alle elezioni politiche, prima di conoscere Gina Cetrone, presentata da Di Giorgi, al bar eravamo io, Pasquale Maietta, Viola, Giancarlo Alessandrini". Tutti componenti del clan Travali, più volte coinvolti in vicende di estorsione, armi e violenze. "Maietta - ha precisato il pentito - ci presentò Giorgia Meloni. Era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti. Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c'erano Rampelli e Meloni, nonché del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per fare posto al Maietta". Nel 2013 il commercialista pontino fece effettivamente ingresso alla Camera dopo che la Meloni e Fabio Rampelli, storico esponente della destra, tra i fondatori di FdI e attuale vice presidente della Camera, optarono per altri collegi. A tal proposito inoltre, durante il processo "Alba Pontina", relativo all'organizzazione mafiosa che sarebbe stata costituita a Latina dalla fazione di Campo Boario dei Di Silvio, lo stesso Riccardo ha sostenuto: "Maietta nel 2013 entrò alla Camera dei deputati dopo che noi minacciammo pesantemente Fabio Rampelli, costringendolo a optare per l’elezione in un altro collegio e a liberare così il posto". Circostanza sempre smentita dal vice presidente della Camera. Tornando all'incontro che alcuni membri del clan avrebbero avuto con la presidente di FdI, il collaboratore di giustizia ha poi affermato che Maietta disse alla Meloni che quei ragazzi, quelli del clan Travali, dovevano essere pagati e che lei rispose di parlarne con il suo segretario. "Il segretario in disparte - ha evidenziato il pentito - e solo io e il mio gruppo presenti, ci ha detto: 'Senza che usiamo i telefoni diamoci un appuntamento presso il Caffè Shangri-la a Roma'. Noi abbiamo detto che allo Shangri-la era complicato arrivarci, per cui ha detto di vederci al distributore che è ubicato dall'altra parte della strada, all'altezza dello Shangri-la. Ci ha detto di aspettare in un parcheggio lì vicino entro le ore 12". Il racconto si fa dettagliato: "Lui è arrivato da una strada interna e da quelle parti c'è il centro commerciale Euroma 2, e ci ha portato all'interno di una busta del pane 35mila contanti. Prima di andare via ci disse: 'Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente'. Noi lo rassicurammo in tal senso. Era venuto con una Volkswagen berlina, la stessa vettura con la quale aveva accompagnato la Meloni a Latina". Infine Riccardo ha assicurato ai due magistrati antimafia: "Sono in grado di riconoscere questa persona".

Un tempismo sospetto. Il pentito "a orologeria" contro Meloni: dopo 9 anni spuntano i soldi di FdI al clan per le elezioni. Fabio Calcagni su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Il tempismo è quantomeno sospetto, le accuse sono presenti in un verbale di un pentito che solo oggi si ricorda di parlare con i pm antimafia di Roma di fatti risalenti addirittura al 2013, che Repubblica oggi pubblica in esclusiva.  Parliamo delle accuse rivolte a Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni unica opposizione al governo Draghi in Parlamento e in forte ascesa in tutti i sondaggi di queste settimane, in cui è arrivato a tallonare il Partito Democratico, dal collaboratore di giustizia Agostino Riccardo. Secondo Riccardo, che ne ha parlato con i pm antimafia della Capitale, nel 2013 il partito della Meloni avrebbe fatto arrivare al clan noma dei Travali 35mila euro per comprare voti e attaccare manifesti a favore di Pasquale Maietta, ex tesoriere di Fdl alla Camera, espulso dal partito nel 2016 dopo il coinvolgimento in inchieste giudiziarie sulla gestione degli appalti e dei fondi del comune di Latina. Quest’ultimo avrebbe legami di vecchia data con Costantino “Cha Cha” Di Silvio, boss che per anni ha operato nella zona di Latina e coinvolto nel processo Olimpia. Torniamo dunque a Riccardo. Il collaboratore di giustizia ha raccontato ai magistrati capitolini che “Maietta ha detto alla Meloni che c’era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale e la Meloni ha risposto: ‘Dì a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario’”. Ragazzi che per la DDA di Roma facevano parte di un clan di Latina. Riccardo, che ritrova la memoria quindi otto anni dopo quei fatti, spiega ai pm antimafia che Maietta “ci presentò nel 2013 Giorgia Meloni. Era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti. Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c’erano Rampelli e Meloni, nonché del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per fare posto al Maietta”. Sempre l’ex tesoriere di Fdl alla Camera avrebbe quindi spiegato alle Meloni che quei ragazzi andavano pagati, con la presidente del partito che di fronte alla richiesta avrebbe chiesto di “parlarne con il mio segretario”. Segretario che avrebbe dunque fissato un incontro, “senza che usiamo i telefoni”, presso un bar di Roma. Nel locale, racconta Riccardo, sarebbero poi stati consegnati all’interno di una busta di pane i 35mila euro in contanti. “Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente”, avrebbe detto il segretario della Meloni prima di andarsene. 

LA REAZIONE DELLA MELONI – La notizia del coinvolgimento di FdI e di Giorgia Meloni nel presunto affare con i clan per le elezioni del 2013 è stata seccamente smentita dalla stessa presidente del partito. “La presunta notizia si smonta facilmente: non faccio affari con i rom, non do soldi in contanti nelle buste del pane a un distributore di benzina e nel 2013, quando facevamo la campagna elettorale, i soldi non li avevamo. Non ho mai avuto un segretario maschio o una Volkswagen nera: è una notizia inventata che non è mai accaduta“, ha precisato Meloni in diretta su Facebook. “Se gli inquirenti avessero voluto chiedermelo io non avrei avuto alcun problema a rispondere. Non conosco questo signore che tra l’alto, secondo altri pentiti non sarebbe attendibile: questa notizia mi infanga. Mi sorprende che sia finita su Repubblica senza che nessuno mi abbia chiesto un parere”, ha aggiunto.

Soldi ai rom, fango sulla Meloni. Ma lei zittisce tutti: "Così fanno i regimi". Repubblica dà voce a un pentito che parla di fatti (non verificati) del 2013. Ma la leader Fdi smonta tutto: "La notizia è inventata. Curioso che esca oggi con Fdi al 18%". Luca Sablone - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. "Quella notizia è inventata". Al fango lanciatole addosso da Agostino Riccardo - che l'avrebbe accusata di aver fatto avere nel 2013 35mila euro al clan Travali (colpito nei giorni scorsi da 19 arresti) per comprare voti e attaccare manifesti a favore di Pasquale Maietta, all'epoca astro nascente del partito - Giorgia Meloni replica smentendo tutto e promettendo querele a pioggia. "Io non faccio affari con i rom", assicura durante una diretta su Facebook in cui accusa il quotidiano La Repubblica per aver fatto da megafono a un pentito che avrebbe rivangato presunti fatti di otto anni fa. "Devo pensare che gli inquirenti l'abbiano considerata infondata altrimenti mi avrebbero chiesto conto di una notizia che mi infanga - argomenta la leader di Fratelli d'Italia - e mi chiedo come sia possibile che una rivelazione del genere sia finita su Repubblica, senza che nessuno abbia inteso chiedermi un punto di vista". Ad apparire ancora più strano è che dal passato arrivino certe accuse in un momento in cui il partito della Meloni macina consensi e, oltre ad avere staccato il Movimento 5 Stelle, punta a superare un Partito democratico in tilt totale. A tirare in ballo la presidente di FdI sarebbe stato il collaboratore di giustizia Riccardo, mentre a dargli visibilità è stata La Repubblica con un articolo pubblicato oggi in esclusiva e senza chiedere alcun contraddittorio alla Meloni. Si parla di un presunto fatto risalente a ben otto anni fa, in occasione delle elezioni politiche. "Maietta ci presentò Giorgia Meloni - avrebbe detto il pentito - era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti". Nell'articolo viene poi messo l'accento sul fatto che Maietta fosse il terzo della lista (preceduto da Rampelli e dalla Meloni) e che Rampelli, anche se eletto, si fosse dimesso per fare posto a Maietta. E ancora: viene data visibilità alle dichiarazioni fatte da Riccardo durante il processo "Alba Pontina" che riguarda l'organizzazione mafiosa che sarebbe stata costituita a Latina dalla fazione di Campo Boario dei Di Silvio. In quell'occasione avrebbe sostenuto che Maietta nel 2013 riuscì a entrare alla Camera dei deputati "dopo che noi minacciammo pesantemente Fabio Rampelli, costringendolo a optare per l’elezione in un altro collegio e a liberare così il posto". Riccardo, in relazione all'incontro che alcuni membri del clan avrebbero avuto con la leader di Fratelli d'Italia, avrebbe poi riferito che Maietta avrebbe detto alla Meloni che i ragazzi del clan Travali dovevano essere pagati, e che lei avrebbe risposto di parlarne con il suo segretario. Il quale in disparte avrebbe dichiarato: "Senza che usiamo i telefoni diamoci un appuntamento presso il Caffè Shangri-la a Roma". Ma, essendo una destinazione complicata da raggiungere, l'appuntamento sarebbe stato fissato poi al distributore che è ubicato dall'altra parte della strada, all'altezza dello Shangri-la: "Ci ha detto di aspettare in un parcheggio lì vicino entro le ore 12". Il segretario sarebbe arrivato da una strada interna, nei pressi del centro commerciale Euroma 2: "Ci ha portato all'interno di una busta del pane 35mila contanti". "Prima di andare via ci disse: 'Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente'. Noi lo rassicurammo in tal senso - ha fatto sapere infine Riccardo - era venuto con una Volkswagen berlina, la stessa vettura con la quale aveva accompagnato la Meloni a Latina". Ma come mai un fatto di otto anni fa è stato ricacciato proprio ora che Fratelli d'Italia vola nei sondaggi e ha raggiunto il boom storico dei consensi al 18%? Una domanda che si pone la stessa Meloni, intervenuta in una diretta Facebook per esprimere la propria posizione e fare chiarezza sulla vicenda: "È partita la macchina del fango contro l'unico partito di opposizione. Non ci facciamo intimidire. Io non faccio affari con i rom. Non ho mai avuto una Volkswagen nera. Questa notizia che mi infanga è inventata, non è mai accaduta. Se gli inquirenti avessero voluto chiedermelo, io non avrei avuto problemi a rispondere. Devo pensare che gli inquirenti non hanno ritenuta affidabile questa testimonianza, altrimenti mi avrebbero chiesto conto". La presidente di FdI si è inoltre chiesta come la notizia sia finita sul quotidiano La Repubblica senza che nessuno le abbia chiesto una versione: "Non è strano che La Repubblica decida di pubblicare a tutta pagina una notizia del genere che mi infanga senza ritenere di farmi una telefonata perché in quel pezzo ci fosse una mia dichiarazione? Quali verifiche ha fatto il giornalista? Non è curioso che tutto il circuito dei media di sinistra non mi abbia ascoltato prima di buttarla in pasto all'opinione pubblica?". La testimonianza del pentito Riccardo però potrebbe finire presto in tribunale. "In Italia piacciono le persone serve e ricattabili. Noi siamo persone libere e non abbiamo paura, perché non abbiamo fatto del male. Potete prenderci tutti casa per casa, ma continueremo a dire la nostra. Ovviamente annuncio querela contro chi dichiara cose false", ha infatti concluso la Meloni. L'accusa sarebbe di frode elettorale, la stessa di Aung San Suu Kyi in Birmania dove c'è stato un colpo di Stato. Una serie di combinazioni che hanno provocato la dura reazione della leader di Fratelli d'Italia: "Così fanno i regimi, ma noi non siamo in un regime: vedere metodi che ricordano il Myanmar non promette bene".

L’ira della Meloni: “Il pentito aveva già smentito, Repubblica non se n’è accorta: che squallore”. Marta Lima domenica 7 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. “Guarda un po’ cosa riporta il quotidiano ‘Latina Oggi‘. L’attendibilissimo pentito dello scoop di ‘Repubblica‘ secondo il quale avrei consegnato 35 mila euro in una busta del pane a un clan di rom aveva ‘rettificato’ le accuse nei confronti miei e di Fdi già molto tempo fa”, attacca Giorgia Meloni, il giorno dopo le accuse del quotidiano e le prove delle sue clamorose “amnesie”, ben documentate da un quotidiano locale (qui l’articolo completo del Secolo d’Italia). La leader di Fratelli d’Italia va giù duro nei confronti del quotidiano romano, che anche oggi aveva insistito nelle accuse (foto in alto). “È negli stessi atti utilizzati da ‘Repubblica’ per gettare fango su di noi, ma evidentemente quella parte dei verbali non era piaciuta a chi doveva costruire accuse fondate sul nulla per attaccare l’unica forza di opposizione della Nazione. Che sorta di giornalismo è questo? Nessuno si vergogna per questo squallore?”, scrive su Facebook Giorgia Meloni. Si legge su Latina Oggi, che «a suffragio di quanto sostiene la leader di Fratelli d’Italia interviene lo stesso Agostino Riccardo con una dichiarazione  rilasciata due mesi dopo la precedente, il 7 dicembre 2018, al pm Barbara Zuin. “Voglio precisare una cosa sulla quale ho pensato a lungo. Ho riferito del pagamento di 35.000 euro che ho ricevuto da un signore per la campagna elettorale del 2013 in favore di Pasquale Maietta. Ho ricordato che prima di ricevere i soldi, vi era stata la presentazione da parte della Meloni di Maietta quale candidato, avvenuta presso il centro commerciale Latina Fiori. Noi eravamo presenti, ma ovviamente in disparte. C’era molta gente, diversi esponenti politici e diverse persone dello staff della Meloni. Tra queste era presente l’uomo che mi ha consegnato i 35.000 euro all’Eur”». Di conseguenza, si legge ancora sul quotidiano, «è un’altra narrazione. Nessuna presentazione, nessuna richiesta di denaro “in diretta”. Nessuna richiesta di rivolgersi a questo o quel segretario. E soprattutto nessun seguito investigativo visto che non c’è neppure prova che quella dazione di denaro sia avvenuta».

Latina - Agostino Riccardo ha riferito di aver ricevuto 35.000 da un emissario di FdI per attaccare manifesti nel 2013. Poi corregge il tiro. Meloni: "Fango sul partito". La Redazione di Latina Oggi  il 07/03/2021. E' una Giorgia Meloni infuriata e indignata quella che attraverso un video lanciato sui social network replica alla notizia diffusa ieri relativa ad una presunta dazione di denaro da parte di qualcuno del suo staff per l'affissione dei manifesti elettorali alla vigilia delle elezioni politiche del 2013. «Eccoci puntuali all'appuntamento col fango gettato sul leader dell'unico partito di opposizione di questo Paese», taglia corto Giorgia Meloni nel video. La fonte della notizia che ha turbato la leader di Fratelli d'Italia è il pentito di Latina Agostino Riccardo, che in un interrogatorio reso il 28 settembre 2018 davanti ai Pm Luigia Spinelli e Corrado Fasanelli aveva riferito di aver incontrato Giorgia Meloni insieme ad altri delinquenti del capoluogo prima di un suo comizio svoltosi nei pressi del centro commerciale Latina Fiori. A presentare la Meloni al gruppo di pregiudicati che si sarebbero dovuti occupare dell'attacchinaggio dei manifesti per conto del partito sarebbe stato il candidato alla Camera dei Deputati Pasquale Maietta. «Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle affissioni nelle campagne elettorali precedenti e che eravamo svelti anche nel procurare voti - riferisce Agostino Riccardo ai Pm - Poi sempre Maietta disse alla Meloni che c'era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale, e la Meloni gli rispose di dire a noi che avremmo dovuto parlarne con il suo segretario». Sempre stando a quanto riferito dal pentito, il fantomatico segretario avrebbe dato loro appuntamento per i giorni successivi in una stazione di servizio di carburanti di Roma dove avrebbe consegnato la somma di 35.000 euro contenuti in una busta di carta per il pane prima di allontanarsi a bordo di una Volkswagen di colore scuro. «E' curioso che nessuno mi abbia cercata per chiedermi se avessi qualcosa da dire relativamente a questo episodio e che la notizia sia passata così, senza un tentativo di verifica - ha sottolineato Giorgia Meloni - Sarebbe bastato telefonarmi per sapere che non ho mai avuto un uomo come segretario, che il mio staff non ha mai utilizzato auto Volkswagen, che nel 2013 il nostro partito non aveva molto denaro e che nessuno si sarebbe sognato di spendere 35.000 euro per una campagna di affissioni in un capoluogo di provincia, semplicemente perché non disponevamo di quella somma. Ho la netta impressione che questo sia nient'altro che un tentativo di delegittimare Fratelli d'Italia in un momento di grande crescita del partito. Non vedo altrimenti la ragione per cui questi verbali, resi tre anni fa, siano venuti fuori proprio adesso, e senza che vi sia qualche persona indagata per quel fatto riferito dal pentito». A suffragio di quanto sostiene la leader di Fratelli d'Italia, interviene lo stesso Agostino Riccardo con una dichiarazione rilasciata due mesi dopo la precedente, il 7 dicembre 2018, al Pm Barbara Zuin. «Voglio precisare una cosa sulla quale ho pensato a lungo. Ho riferito del pagamento di 35.000 euro che ho ricevuto da un signore per la campagna elettorale del 2013 in favore di Pasquale Maietta. Ho ricordato che prima di ricevere i soldi, vi era stata la presentazione da parte della Meloni di Maietta quale candidato, avvenuta presso il centro commerciale Latina Fiori. Noi eravamo presenti, ma ovviamente in disparte. C'era molta gente, diversi esponenti politici e diverse persone dello staff della Meloni. Tra queste era presente l'uomo che mi ha consegnato i 35.000 euro all'Eur». E' un'altra narrazione. Nessuna presentazione, nessuna richiesta di denaro «in diretta», nessuna indicazione di rivolgersi a questo o quel segretario. E soprattutto, nessun seguito investigativo, visto che non c'è neppure prova che quella dazione di denaro sia avvenuta. Il che consente a Giorgia Meloni di concludere così: «Credo di operare in un Paese democratico e sono convinta che l'Italia non sia il Myanmar, dove si possono fare colpi di stato arrestando il leader del partito che ha vinto le elezioni e che era alla guida del Governo».

Fabrizio Caccia per corriere.it il 7 marzo 2021. «Sì, è vero, sono amico di Costantino Di Silvio detto Cha Cha. Quello che voi chiamate il boss. E allora?», eccepisce al telefono Pasquale Maietta, 49 anni, commercialista, ex tesoriere di Fratelli d’Italia alla Camera, già plurindagato e pure arrestato, nel 2018, per riciclaggio, bancarotta fraudolenta, evasione fiscale e vari altri reati tributari. «Sono amico di Di Silvio nel senso che ci vado al bar — continua Maietta — ma non ho mai fatto affari con le famiglie dei Rom di Latina né li ho mai presentati a Giorgia Meloni per la campagna elettorale del 2013. Questa è una storia inventata». «È partita la macchina del fango contro l’unico partito di opposizione», è stata la reazione, ieri, durissima, della leader di Fratelli d’Italia, dopo che il quotidiano Repubblica ha rivelato la testimonianza di un collaboratore di giustizia, Agostino Riccardo, davanti ai pm antimafia romani. Secondo il pentito Riccardo, Fratelli d’Italia, nel 2013, avrebbe fatto avere al clan nomade Travali di Latina 35 mila euro («in una busta del pane») per comprare voti e attaccare manifesti a favore di Pasquale Maietta, all’epoca candidato FdI alla Camera e amico di vecchia data del boss Costantino Di Silvio. «A Latina Maietta disse alla Meloni che c’era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale — ha raccontato Agostino Riccardo — e la Meloni rispose: Dì a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario. Quindi, il segretario ci prese in disparte e ci disse: Senza che usiamo i telefoni diamoci un appuntamento presso il Caffè Shangrila a Roma. E all’incontro successivo ci diede la busta del pane con dentro 35 mila euro. Poi, salutandoci, ci disse: Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente...». Maietta, però, smentisce tutto: «Questo Riccardo, con cui non ho mai avuto niente a che fare, è lo stesso che raccontò ai magistrati che io, da presidente del Latina, andai a Milano al calciomercato a comprare giocatori con una valigia piena di 5 milioni di euro. Ma vi pare che i calciatori si acquistino così? La verità è che durante quella campagna Giorgia Meloni venne a Latina due volte: una volta ad incontrare a Borgo Carso imprenditori di alto profilo e la seconda in un teatro davanti a 2 mila persone. Ma non c’erano Rom e non le ho mai presentato nessuno. Poi se mi dite che i nomadi, che a Latina sono integrati, vengono chiamati così come tanti altri cittadini non abbienti per attaccare manifesti elettorali, io dico che è possibile. Ma lo fanno per tutti i partiti, di destra e di sinistra. E a pagarli sono i candidati di tasca propria». Agostino Riccardo avrebbe anche sostenuto che Maietta nel 2013 riuscì ad essere eletto in Parlamento «solo dopo che noi minacciammo pesantemente Fabio Rampelli, costringendolo ad optare per un altro collegio». Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, non ci sta: «Conoscete il mio passato (ex dirigente del Fronte della Gioventù, ndr), secondo voi minacciandomi i Rom cosa avrebbero ottenuto? Il contrario. Eppoi 35 mila euro per attaccare i manifesti? Ma ci avrebbero foderato l’intero grattacielo di Latina! É una cifra incredibile. Noi di FdI eravamo appena nati, ma chi ce li aveva tutti quei soldi? Maietta, in realtà, fu eletto perché a Latina quell’anno ottenemmo il 10-11% dei voti rispetto all’1,95% nazionale. Insomma, un trionfo. Perciò era giusto riconoscere al territorio almeno un deputato. E così dovemmo sacrificare Marco Marsilio, l’attuale governatore dell’Abruzzo, che in pratica è mio fratello. Maietta poi all’epoca era pulito, stimato da tutti. Da quando ha avuto i suoi guai giudiziari ogni nostro rapporto con lui si è interrotto».

Meloni, pentito rilancia: "Nel suo staff l'uomo dei 35mila euro nella busta del pane". (Nuovo documento). Clemente Pistilli su La Repubblica il 7 marzo 2021. Un nuovo verbale esclusivo smentisce la ricostruzione di alcuni quotidiani. Il pentito Riccardo conferma le sue accuse e anzi aggiunge nuovi dettagli. Prima di ricevere 35mila euro in una busta del pane, con cui comprare i voti per Pasquale Maietta, candidato alla Camera dei deputati, e per attaccare i manifesti durante la campagna elettorale, il clan Travali sarebbe stato presente a un appuntamento elettorale a Latina e in quell'occasione, nello staff di Giorgia Meloni, ci sarebbe stato l'uomo che poi a Roma consegnò loro il denaro. A sostenerlo davanti ai magistrati dell'Antimafia di Roma, in un secondo verbale, è stato sempre il pentito Agostino Riccardo, le cui dichiarazioni da tre anni sono al centro delle inchieste che la Dda sta portando avanti sugli affari criminali di diverse famiglie di origine nomade presenti nel capoluogo pontino, tra cui quelli che i clan avrebbero fatto con pezzi della politica, e che hanno già portato ad arresti, processi e condanne. Nella prima verbalizzazione, alla presenza dei pm antimafia romani Corrado Fasanelli e Luigia Spinelli, il collaboratore di giustizia, già ritenuto attendibile dagli stessi giudici visti i riscontri sinora trovati alle sue dichiarazioni, ha affermato che nel 2013, quando il commercialista Pasquale Maietta si candidò con FdI alla Camera, dove poi venne eletto e dove venne nominato tesoriere del partito, in un bar di Latina lo stesso Maietta presentò a lui e ad altri due esponenti della malavita locale - Francesco Viola, arrestato venti giorni fa nell'inchiesta antimafia sul clan Travali, e Giancarlo Alessandrini, già coinvolto in violenze allo stadio e non solo - Giorgia Meloni, la presidente di Fratelli d'Italia, di casa nel capoluogo pontino, dove è stata anche rieletta a Montecitorio nel 2018. "Parlavano - ha detto - della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti". I clan insomma che, in base sempre alle indagini della Dda di Roma, avrebbero gestito l'affissione dei manifesti, fatto da scorta ad alcuni candidati e acquistato voti a favore di quest'ultimi. Ancora: "Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c'era Rampelli e Maloni, nonché del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per far posto a Maietta". Una promessa poi mantenuta. A Maietta venne affidato anche l'incarico di tesoriere, ma poi lo stesso venne indagato nell'inchiesta Don't touch, su un'organizzazione criminale di origine nomade con a capo il suo amico, il boss Costantino Cha Cha Di Silvio, è finito imputato nell'inchiesta "Olimpia", relativa ad associazioni per delinquere messe su all'ombra del Comune di Latina, quando era sindaco Giovanni Di Giorgi, anche lui di FdI, e ai tempi in cui lo stesso Maietta era presidente del Latina Calcio, e infine arrestato e imputato in "Arpalo", inchiesta su un vasto giro di riciclaggio di denaro in Svizzera. "Maietta - ha affermato Riccardo - ha detto alla Meloni che c'era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale e la Meloni ha risposto: Dì a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario. Il segretario in disparte, e solo io e il mio gruppo presenti, ci ha detto: Senza che usiamo i telefoni diamoci un appuntamento presso il caffè Shangri-La a Roma. Noi abbiamo detto che allo Shangri-La era complicato arrivarci, per cui ci ha detto di vederci al distributore che è ubicato dall'altra parte della strada, all'altezza dello Shangri-La. Ci ha detto di aspettare in un parcheggio lì vicino entro le 12". Ancora: "Lui è arrivato da una strada interna e da quelle parti c'è il centro commerciale Euroma 2 e ci ha portato all'interno di una busta del pane 35mila euro contanti. Prima di andare via ci disse: Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente. Noi lo rassicurammo in tal senso. Era venuto con una Volkswagen berlina, la stessa vettura con la quale aveva accompagnato la Meloni a Latina". Il pentito ha infine specificato: "Sono in grado di riconoscere questa persona". Un episodio smentito ieri da Giorgia Meloni, gridando al complotto. Tre mesi dopo, cercando gli inquirenti di identificare l'uomo che avrebbe consegnato il denaro, davanti al pm Barbara Zuin, Riccardo ha aggiunto: "Voglio precisare una cosa sulla quale ho pensato a lungo. Ho riferito del pagamento di 35mila euro che ho ricevuto da un signore per la campagna elettorale del 2013 in favore di Pasquale Maietta. Ho ricordato che prima di ricevere i soldi vi era stata la presentazione da parte della Meloni di Maietta quale candidato, avvenuta presso il centro commerciale Latina Fiori. Noi eravamo presenti, ma ovviamente in disparte. Ricordo che vi era l'emittente televisiva locale. Ricordo che durante le riprese a fianco della Meloni vi erano Maietta, Calandrini (l'attuale senatore di FdI, Nicola Calandrini ndr) e Di Giorgi e vi erano anche tre o quattro persone dello staff della Meloni. Tra queste era presente anche l'uomo che mi ha consegnato i 35mila euro allo Shangri-La all'Eur". Di più: "Preciso che la consegna allo Shangri-La è avvenuta nel 2013 attorno al mese di maggio". Una conferma dunque di quanto dichiarato nella prima verbalizzazione ed emerso soltanto ora dopo i 19 arresti nell'ambito dell'inchiesta "Reset" sul clan Travali. Un quotidiano locale di Latina, però, oggi ha incredibilmente scritto che quel secondo verbale smentisce il primo. Non è servito altro alla stessa Meloni per dichiarare, tramite i social: "Guarda un po’ cosa riporta il quotidiano "Latina Oggi". L’attendibilissimo pentito dello scoop di "Repubblica" secondo il quale avrei consegnato 35mila euro in una busta del pane a un clan di rom aveva “rettificato” le accuse nei confronti miei e di FdI già molto tempo fa. È negli stessi atti utilizzati da "Repubblica" per gettare fango su di noi, ma evidentemente quella parte dei verbali non era piaciuta a chi doveva costruire accuse fondate sul nulla per attaccare l’unica forza di opposizione della Nazione. Che sorta di giornalismo è questo? Nessuno si vergogna per questo squallore?". Ma cosa abbia rettificato Riccardo nel secondo verbale proprio non si capisce.

·        La Destra omosessuale.

Filippo Ceccarelli per "la Repubblica" il 30 settembre 2021. Il dramma della rivelazione a Klagenfurt, Carinzia, quando a 170 all'ora con la sua Wolkswagen Phoeton, il leader della destra xenofoba e populista, Joerg Haider, andò a schiantarsi su un pilone di cemento dopo aver concluso la sua notte brava in un club gay. Haider era un bell'uomo di 58 anni, sposato, suo agio con gli antichi Valori della sua terra, ma pure con i giubbotti di pelle aderente e i jeans strettissimi. Davanti alla bara, singhiozzando, il suo giovane delfino e protetto, Stefan Petzener, disse che era da tempo il suo amante.  La farsa del disvelamento, invece, nel dicembre scorso a Bruxelles, in pieno lockdown, quando una squadra di poliziotti fece irruzione al primo piano del locale "Le Detour" trovando 24 uomini nudi in piena gang-bang. Il venticinquesimo fu beccato su una grondaia: Jozsef Szàjer, tessera cofondatore del partito sovranista ungherese di Orbán, come tale strenuo sostenitore della famiglia naturale. Non si è così ingenui da stabilire una connessione tra questi due "scandali" e l'affare Morisi; tanto meno si approfitta dell'uno o dell'altro - nello zainetto dell'eurodeputato ungherese c'erano pastiglie di ecstasy - per delineare un sovranismo rosa e psicotropo. Certo era gay dichiarato anche il leader populista e xenofobo Pym Fortuyn, ucciso in Olanda nel 2002; così come, in Germania, s' è detta lesbica la capa dell'ultradestra Afd, Alice Weidel. Ma spesso la casistica, più che fallace, è grossolana. Più sottile l'osservazione - vedi il recente saggio "A destra di Sodoma" (Oaks) - nel quale Marco Fraquelli ipotizza l'affermarsi di una specie di patto tra destra radicale e mondo gay all'insegna di un omo-nazionalismo in funzione anti-Islam. Storia e letteratura, d'altra parte, offrono in tema squarci di vertiginosa varietà: i festini delle camicie brune prima del nazismo, Hermann Goering en travesti, gli slanci di Brasillach o certe lettere appassionate di Mishima al suo Fukushima Jiro, a sua volta autore di un'autobiografia intitolata "La spada e il rossetto". Ma l'Italia è l'Italia: espressiva e contraddittoria anche in questo; così dopo mezzo secolo di dominio dc e un ventennio di berlusconismo trallallero da un lato appare difficilissimo tracciare i confini politici dell'omosessualità; ma dall'altro è pur vero che a proposito del decreto Zan un leader-influencer all'altezza dei tempi qual è Fedez ha tratto dalla Lega Maggio quell'antologia omofoba che culminava nel più truculento periodo ipotetico: "Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno". Ora, è chiaro che le orgette a pagamento o tramite Grinder fanno meno scalpore di qualsiasi droga. Sennonché i due consumi, oltre ad essere tutt' altro che incompatibili, riguardano orientamenti e stili di vita senza distinzioni di partito. Eppure qualcosina in più sulla destra ambidestra si può forse notare, al solito partendo dal passato remoto e osservandone l'ombra nel presente, con tutte le sue possibili ambiguità. Guai a fermarsi all'icastica a suo modo formidabile battuta di Storace che, richiesto di dire "qualcosa di destra", a metà degli anni 90 rispose: "A' froci!". E non solo perché quando si avverte un pieno e un eccesso l'esperienza insegna a guardare dietro, o sotto, comunque là dove con qualche regolarità si trova un vuoto, una paura, uno smarrimento. E' che anche nel mondo post-fascista sono avvenuti considerevoli e misteriosi rivolgimenti, basti pensare ad Alessandra Mussolini che anni fa tele-gridò in faccia a Luxuria "meglio fascisti che froci!" e che qualche mese fa, abbigliata da farfallona arcobaleno, si è offerta come testimonial del Gay Pride. Quando, con il codice penale Rocco in cottura, si trattò di istituire il reato di omosessualità, all'ultimo momento nonno Benito si oppose con l'argomento che non ce n'era poi bisogno perché "gli italiani sono tutti maschi". Eppure, non molto tempo prima, per dire, s' erano segnalati legionari fiumani talmente maschi da bastarsi e spassarsela allegramente fra loro. Cameratismo e fratellanza d'arme, vabbè, antiche attitudini che l'euforia dell'indomita mascolinità e poi l'ardore del virilismo del regime avevano deviato su quell'impervia via. Salvo poi deportare alcuni poveracci nelle isole. "I nostri ragazzi amano l'Italia e le donne" sosteneva Almirante. Salvo ritrovarsi diversi missini che il piacere spesso e volentieri andavano a cercarsi sull'altra sponda. Tutto complicato dal motto di origine curiale che un certo numero di potenti gay democristiani, peraltro niente affatto progressisti, avrebbero portato all'estrema perfezione: nisi caste, autem caute, che in assai libera traduzione vale anche per il povero Morisi: se proprio non riesci a evitarlo, vedi almeno di non farti beccare.

LA DESTRA, GLI OMOSESSUALI E QUELLE RELAZIONI PERICOLOSE. Mario Baudino per “La Stampa” il 15 agosto 2021. «Non sono dell'AfD nonostante sia lesbica. Lo sono perché sono lesbica»: la dichiarazione potrebbe suonare sorprendente, considerato che viene da Alice Elisabeth Weidel, leader un partito di estrema destra come l'Alternative fr Deutschland, sovranista, antieuropeo e fortemente sospetto di neonazismo. In realtà un atteggiamento del genere fa intuire una nuova condizione degli omosessuali di destra, che sono sempre esistititi anche se le loro scelte politiche (spesso sciagurate) sono state motivate nel tempo ricorrendo ad altri schemi ideologici. La politica delle destre, e in particolare delle destre estreme, è sempre stata ferocemente omofoba: nel caso del nazismo da un certo punto in poi addirittura sterminatrice, coi gay rinchiusi nei lager e segnati col triangolo rosa, in quello che è stato definito l'Omocausto. Per quanto riguarda la nostra contemporaneità, le leggi repressive di Ungheria e Polonia che hanno suscitato la reazione dell'Unione Europea sembrerebbero inoltre confermare una totale incompatibilità fra persone omosessuali e scelte politiche reazionarie. Invece non è così. Marco Fraquelli, studioso della cultura di destra, ci spiega che la situazione, sia dal punto di vista storico sia da quello politico, è più sfaccettata. E' appena uscito presso l'editore Oaks il suo A destra di Sodoma, con prefazione di Franco Grillini. Si tratta dell'edizione aggiornata di un testo uscito nel 2007 (col titolo Omosessuali di destra): un utile work in progress, anche perché gli ultimi quindici anni sono stati significativi al proposito. Sul passato, ormai, sappiamo tutto. Dalle figure più note ad altre in apparenza secondarie, la galleria dei gay di destra è da tempo aperta al pubblico: basti pensare a Mishima, grande scrittore che, dopo aver creato un suo piccolo esercito di studenti per opporsi (anche se non con le armi) alla democrazia giapponese in nome della sacralità della tradizione imperiale, fa irruzione in una caserma di Tokyo - il 25 novembre 1970 - e si suicida come un samurai. O a Ernst Rohm, fra i primissimi compagni di Hitler, creatore delle SA, l'apparato paramilitare che consentì l'ascesa del nazismo: venne eliminato a Bad Wiesse, stazione termale bavarese, insieme al suo stato maggiore. Fu la «notte dei lunghi coltelli» (giugno 1934), e non andò proprio come nella scena celeberrima della Caduta degli dei, il film di Visconti. Le SA dormivano tranquillamente al momento delle irruzioni delle SS, guidate dallo stesso Hitler, e non vennero sorpresi durante un'orgia (solo uno di loro era effettivamente a letto con un giovanotto). Furono arrestati e solo successivamente uccisi. Hitler eliminò così un antagonista che diventava pericoloso, non forse in quanto omosessuale. E' vero però che Heinrich Himmler bandì di lì a poco una crociata contro i gay, considerandoli una minaccia alla forza e alla coesione nazionale. Fino ad allora l'omosessuale di destra era un aristocratico che aveva come punto di riferimento l'idea greca di pederastia, incarnata nel mito del «Battaglione sacro» di Tebe, formato da centocinquanta coppie di amanti adulti e di amati adolescenti. Da quel momento gli si aprirono le porte di lager come Dachau. Ciò non impedì tuttavia che in Europa, ad esempio in Francia, fossero moltissimi i collaborazionisti omosessuali (Sartre li definì «un covo di zie», e se ne scandalizzò a tal punto che ebbe per anni grandi difficoltà a prendere in considerazione i diritti delle comunità LGBT). Fra molti nomi a noi poco famigliari, il più noto è ovviamente Robert Brasillach, scrittore assai popolare nella Francia occupata, cantore dell'amicizia adolescenziale e di un'Europa hitleriana, fucilato nel '45; ma c'è anche Henri de Montherlant, che si sciolse in lodi per l'esercito tedesco invasore - e salvò la pelle. Va detto che nessuno dei due ebbe a proclamarsi apertamente gay, ma la cosa era di dominio pubblico, come del resto sarebbe avvenuto per Mishima. Il contesto direttamente o indirettamente guerriero non è però il solo, anzi probabilmente appartiene ormai al passato. Nella sua ampia indagine sul tema, Fraquelli sembra intercettare segnali di mutamento, al di là di eredi tra il bizzarro e l'inquietante come certi skinheads russi che nel loro manifesto proclamano di combattere contro ebrei ed eterosessuali (aggiungendo per soprammercato che anche Hitler era gay). Ma la leader dell'AfD che abbiamo citato all'inizio intercetta un atteggiamento più complesso: quello che spinge molti omosessuali a votare «pragmaticamente» (per esempio per sentirsi più tutelati rispetto agli islamici, anche rinunciando a certi diritti, come sostiene Didier Lestrade in un libro del 2012 uscito per il Seuil, Pourquoi les gays sont passes à droite). Sta nascendo una sorta di amicizia ancora una volta pericolosa e dalle motivazioni piuttosto contraddittorie, considerata la politica delle destre? In Italia esiste da tempo un'associazione, Gaylib, creata nel 1997, che ora aderisce a Fratelli d'Italia. Si sentono un fattore di stimolo e sensibilizzazione, e sostengono anche che il fascismo non è omofobo, perché non emanò leggi al proposito. Vero: ma solo perché l'esistenza di omosessuali nell'Italia del Duce era considerata inammissibile. Citarli sarebbe stato un riconoscimento della loro esistenza. Come nel film di Scola, Una giornata particolare, finivano nel caso, silenziosamente, arbitrariamente, al confino.

·        La destra italiana? Parla al femminile.

La donna s’è destra. La storia, le idee, la militanza delle ragazze che non vollero essere femministe. Adele Sirocchi mercoledì 6 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. E’ esistita a destra una politica al femminile di tutto rispetto. Donne che facevano militanza, attivismo, che elaboravano proposte, che discutevano sul femminismo, che entravano anche in contrasto con i vertici e con i dirigenti di partito. Un mondo che ribolliva di idee e di entusiasmo e che non ha mai pensato che attraverso il vittimismo fosse possibile ottenere visibilità e spazio nel panorama politico.

  La donna s’è destra: il libro di Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara. Su questo mondo accende ora i riflettori il libro-inchiesta di Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara La donna s’è destra. L’altra storia della cultura e della politica femminile italiana (Giubilei Regnani, pp.228, euro 17), corredato da un’intervista con Giorgia Meloni. Un libro che è anche una carrellata di suggestioni storiche: nel pantheon femminile della cultura non progressista troviamo le legionarie di Fiume, le futuriste, le squadriste, le fasciste e infine le ausiliarie. Un femminile “collettivo” dove contano gli atteggiamenti spirituali più che le singole individualità. E, accanto ai cenni storici, ci sono le ex militanti che parlano, che raccontano, che restituiscono un vissuto del quale nessuno ha mai parlato, del quale nessuno si è mai accorto. Voci femminili che rivendicano un protagonismo che stride con l’immagine della donna di destra sottomessa, angelo del focolare, casalinga devota, fidanzata silente.

Le violenze contro le attiviste del Msi

Un quadro le cui pennellate già erano state tratteggiate in uno studio precedente sulle donne di destra, Camicette nere di Annalisa Terranova (Mursia, 2007) che si fermava però al periodo di Alleanza Nazionale. Nel libro di Del Vigo e Ferrara le protagoniste imbastiscono da sole la narrazione. E la storia lascia spazio alle testimonianze. Quelle sorprendenti sugli scritti elaborati dal Centro Studi Futura, quelle sui Campi Hobbit e quelle amare e tragiche delle violenze subite negli anni Settanta dalle ragazze che militavano nel Msi. Come Laura Carnevali, Cristiana Paternò, Paola Frassinetti, Silvia Ferretto. Ragazze che hanno subìto processi, insulti, sputi, botte, umiliazioni. E con loro tante altre, anonime ma non meno coraggiose.

La rivista Eowyn e il dibattito sul femminismo

Eppure sono rimaste al loro posto. Col sorriso di sfida di chi si sente parte di una comunità che non vuole mollare. Ragazze che poi sono diventate anche redattrici  di un giornale scritto solo da donne, Eowyn, e che hanno preso in prestito la loro eroina da Tolkien. “Tra le pagine ingiallite di queste riviste stampate al ciclostile – scrivono i due autori  si trovano tanti dibattiti, tanta teoria, ma anche molte proposte pratiche”. Era un mondo “catacombale” per gli altri, ma dove fiorivano idee per chi ci stava dentro.

Dopo la caduta dei muri, un’eredità da rintracciare

Caduti i muri del ghetto, questo patrimonio è rimasto là, in un letargo poco operoso. Mentre si dibatteva di veline, olgettine, berluschine e altre amenità di questo tipo. Eppure è un patrimonio che spiega molto a chi si chiede il motivo di un maggiore protagonismo femminile a destra rispetto a una sinistra sempre in affanno, sempre a rincorrere le “quote”. E La donna s’è destra fornisce un contributo prezioso, in questo senso, al lettore attento, allo studioso, a chi vuole conoscere oltre i pregiudizi e a chi vuole ricordare, senza nostalgia ma con l’orgoglio delle tracce lasciate in eredità.

La destra italiana? Parla al femminile. Eleonora Barbieri il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Idee, lotte e vite delle donne "non di sinistra": spesso vituperate, tutt'altro che irrilevanti. L'altra metà del cielo è facilmente divisa a sua volta. Succede perfino nella lotta alla discriminazione, come dimostrano decine di polemicucce trite, i j'accuse e l'indifferenza calibrati col bilancino, a seconda dell'area di appartenenza. Donne, sì, ma non proprio tutte uguali... E, anche nella storia del nostro Paese (o meglio, nella sua autorappresentazione politico/ideologica) ci sono donne e donne, cioè donne di sinistra - portabandiera della narrazione del femminismo e della battaglia femminile - e donne di destra - curiosamente, quasi inesistenti o, se esistenti, da criticare. Eppure, le donne a destra ci sono state, e ci sono, nel senso che nel corso del Novecento italiano è esistito «un mondo femminile politicamente impegnato, culturalmente attivo e socialmente partecipe» anche «al di là della sinistra», come raccontano Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara in La donna s'è destra (Giubilei Regnani, pagg. 228, euro 17; in libreria dal 25 settembre); in appendice al saggio, una intervista a Giorgia Meloni, unica donna a capo di un partito nel nostro Paese. Una realtà nonostante la quale, ancora oggi, molti e molte rimangono convinti che certe battaglie siano appannaggio di una parte sola, quella «giusta», cioè la sinistra. E basta. Certo, come spiegano Del Vigo e Ferrara, per molti anni la destra ha proposto una narrazione di sé fatta di una «realtà virilmente rappresentata dal corpo del capo, dall'epica delle marce e delle trincee, dallo sforzo e dallo scontro fisico»; ma, dal Futurismo in poi, passando per Fiume, il Ventennio e la Seconda guerra mondiale e, in seguito, attraverso la fondazione dell'Msi, le battaglie degli anni Ottanta, la nascita di An e poi l'arrivo al governo dopo il '94, a destra le donne hanno un ruolo, portano avanti le loro idee e hanno vite a volte straordinarie (come Margherita Besozzi o Piera Gatteschi), a volte terribilmente segnate dalla violenza, come accade negli anni Settanta. Un capitolo, guarda caso, facilmente dimenticato...«Ci sono storie, esperienze ed esistenze dimenticate per pigrizia, per indolenza, per il timore di confrontarsi con un'idea differente dalla propria e poi magari scoprire di avere qualcosa in comune» dicono gli autori e, forse, proprio queste cose in comune sono quelle che incutono più timore, soprattutto sotto la stessa metà del cielo. Invece sono storie che vale la pena (ri)scoprire. Eleonora Barbieri

Insulti, sputi, violenze, sequestri e minacce. Così i "compagni" attaccavano le ragazze. Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Le testimonianze sconvolgenti delle giovani di destra negli anni Settanta. Per alcuni, gli anni Settanta sono stati una scuola di vita: in quel periodo hanno gettato le fondamenta del proprio futuro politico e hanno intessuto quella trama di rapporti di amicizia e fratellanza che ancora oggi sussiste. Per altri, sono un passato scomodo, magari rinnegato, del quale si preferisce non parlare. E anche sulla violenza le testimonianze sono discordanti: c'è chi la ricorda come un'esperienza necessaria, chi come una persecuzione e chi invece tende a minimizzarla o a rimuoverla. Ma tutti tratteggiano un paesaggio fosco, nel quale la caccia al camerata era tollerata, se non addirittura incentivata dai ceti intellettuali dominanti. Alcuni diritti basilari, come il diritto allo studio o il diritto di esprimere le proprie idee, erano di fatto sospesi per chi stava a destra. Picchiare, sputare, insultare, sequestrare, svilire una donna di destra, in alcuni contesti, era considerato normale. Lo ripetiamo: visto con gli occhi di oggi sembra una follia. Ma stiamo parlando di un Paese nel quale i camerieri si rifiutavano di servire un caffè a Giorgio Almirante perché fascista e nel quale si sosteneva che «uccidere un fascista non è un reato». Questo è il contesto, la cornice all'interno della quale si muovono le ragazze del Fronte della Gioventù, del FUAN. Erano nel mirino perché chi vedeva nei giovani missini un nemico da combattere pensava di stare lottando per la libertà. Nel nome della quale credeva fosse legittimo utilizzare qualunque mezzo. Per calarsi in quell'epoca bisogna rivedere il concetto di situazione di pericolo e, come vedremo, non era necessario infilarsi in una manifestazione tra le croci celtiche e le fiamme tricolori per finire nei guai. «Il clima terribile degli anni di piombo registrava episodi di violenza persino nell'acquisto di un giornale all'edicola se, per esempio, era una testata ritenuta di destra. Per quanto mi riguarda, ricordo l'episodio di bullismo accaduto il giorno della discussione della mia tesi di laurea su Ugo Spirito a Scienze Politiche con relatore Augusto Del Noce. All'uscita della facoltà mi aspettavano un centinaio di studenti di sinistra che pensarono bene di accompagnarmi in corteo, con tutta una serie di insulti e cori non certo di simpatia, solo perché avevo trattato un autore che non rientrava nei loro paradigmi. Alcuni anni più tardi anche sotto all'ufficio spesso e volentieri mi ritrovavo scritte con il mio nome che mi imputavano la responsabilità dei più efferati fatti di cronaca. Per non parlare di altri episodi più gravi di discriminazione che mi sono accaduti addirittura quando ero sul posto di lavoro e in gravidanza», ricorda Marina Vuoli, militante e moglie di Teodoro Buontempo, storico esponente del MSI. Sembrano cronache di guerra: centinaia di persone che accompagnano una ragazza nel giorno della sua laurea solo perché ha trattato argomenti non di sinistra, intimidazioni, insulti, minacce. E poi la discriminazione, un termine ancora oggi molto in voga e, a volte, usato in modo improprio. (...) «Io mi sono reso conto della pericolosità del periodo quando è morto uno della mia sezione, Acca Larenzia. Quella è stata una tragedia, un evento che ha segnato la mia vita. È stato un episodio di rottura, perché ti rendi conto che il contesto è drammatico e tragico. Non c'era alcuna differenza tra ragazzi e ragazze. Anche le ragazze si difendevano bene davanti alle manifestazioni non autorizzate e alle cariche della polizia, però c'era una protezione fortissima da parte dei maschi. Erano molto paterni, non le consideravano inferiori, nelle sezioni del MSI non ho mai visto episodi di maschilismo esasperato», spiega Annalisa Terranova, ex animatrice di Eowyn e del Centro Studi Futura, autrice del libro Camicette Nere e poi redattrice del Secolo d'Italia, introducendo un duplice tema. Innanzitutto, quello della tragedia, dell'evento drammatico che svela i rischi che stanno correndo dei ragazzi in alcuni casi nemmeno del tutto consapevolmente semplicemente facendo politica. E poi il tema della violenza che si abbatte in egual misura e senza nessuna distinzione su ragazzi e ragazze. Una guerra invisibile che si protrae per anni, nell'indifferenza generale. «Credo di poter dire che quel periodo, dal secondo semestre del 1970 sino al 1980, fu caratterizzato da un vero e proprio stato di guerra civile. Ricordo mio padre che metteva i sacchetti di sabbia dietro la porta di casa per paura di incendi dolosi. La caccia al fascista era diffusa nelle scuole, e all'università il FUAN di fatto chiuse i battenti per qualche anno», racconta Andrea Augello, ex militante del Fronte della Gioventù, poi saggista e parlamentare italiano. Scegliere di stare a destra ed essere una donna, in quegli anni, significava quindi imboccare una via in salita. E significava, soprattutto, scegliere la strada della ghettizzazione e della marginalizzazione, perché l'etichetta, il marchio a fuoco, era qualcosa che difficilmente si poteva cancellare. Entrando in una sezione del Fronte della Gioventù o del FUAN, mettendo una firma su quella tessera si entrava in un club esclusivo, ma al rovescio.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati. 

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...Dal 2015 sono viceresponsabile del sito de il Giornale e responsabile dei collaboratori esterni. Ho scritto "Il metodo Salvini", edito da Sperling & Kupfer. Per la collana Fuori dal coro del Giornale ho pubblicato: "Gli estremisti delle nostre vite"; "La sinistra dei fratelli 

·        La Questione Morale.

Orlando Sacchelli per ilgiornale.it il 14 ottobre 2021. Milano, 25 aprile 2016. Al campo X del cimitero Maggiore si ritrovano alcune centinaia di persone per commemorare i caduti della Repubblica sociale italiana. Lo fanno ogni anno. A un certo punto, alla chiamata del "presente", fanno il saluto romano. Alcuni vengono identificati e indagati, sulla base di quanto prevede la Legge Mancino, per apologia del fascismo. Ora, a distanza di cinque anni, la Cassazione scrive la parola fine e annulla la condanna dei quattro imputati, tra cui il presidente dell'associazione Lealtà Azione, Stefano Del Miglio. Nel processo di primo grado gli imputati furono tutti assolti, con la riqualificazione del fatto in articolo 5 della legge Scelba. Ma la procura si oppose e ricorse in appello, con la V sezione penale che riqualificò il fatto riportando l'articolo 2 della legge Mancino: gli imputati furono condannati a due mesi e 10 giorni di carcere. La sentenza fu impugnata e si è arrivati davanti ai giudici della Cassazione. All'udienza del 12 ottobre, discussa davanti alla I sezione penale, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dalla difesa e la conferma della sentenza di appello. La suprema corte però ha riconosciuto le ragioni esposte dalla difesa, annullando senza rinvio la sentenza di appello perché "il fatto non sussiste". "Siamo soddisfatti del risultato ottenuto all'udienza del 12 ottobre - commenta all'Adnkronos l'avvocato Antonio Radaelli -. Attendiamo il deposito delle motivazioni per capire l'iter logico della Suprema Corte di Cassazione. Resta il punto che compiere il saluto romano in ambito commemorativo, proprio come è accaduto in questo caso, non è reato".

Questione immorale. Il dramma politico di Meloni e dei neo, ex, post fascisti d’Italia. Mario Lavia il 2 Ottobre 2021 su L'Inkiesta.it. Il vero tema politico è la povertà intellettuale e morale dei personaggi legati ai movimenti eversivi che influenzano il principale partito sovranista italiano: non sono mele marce od ottantenni nostalgici ma l’archetipo di un certo modo di essere di destra, persino al giorno d’oggi. Giorgia Meloni ha un problema, che non è tanto la risaputa presenza di fascistoni nel suo partito, ché questa è cosa nota a tutti, ma piuttosto il fatto che a quanto pare questi fascistoni – patetiche maschere da commedia all’italiana – esprimano dirigenti di primo piano, consiglieri, parlamentari e addirittura eurodeputati. Che gruppi di fascisti veri siano organici e funzionali a Giorgia. E improvvisamente lei è sola in questo cimitero senza luna tra fantasmi e buffoni. Dice questo il filmato di Fanpage, una piccola parte di un documento di ore sul retrobottega nero di Fratelli d’Italia a Milano, ove si vede che certi trafficoni-fascistoni costituiscono la struttura organizzativa di vari personaggi tra cui il parlamentare europeo Carlo Fidanza, uno molto vicino al nuovo corso di Giorgia. Il quale Fidanza si è autosospeso, mollato dalla Meloni che ora lo considera un dirigente come tanti, manca poco che dica che è una mezza calzetta, peccato che questo sieda al Parlamento europeo (che speriamo chieda conto dei suoi comportamenti, dalle richieste di denaro in nero alle frequentazioni di certa gente). In una Milano che sembrava Shanghai, magnifica nello svettare dei nuovi grattacieli, si vedono questi personaggi fare il verso alla Milano da bere di quattro decenni fa o a quella gaudente del berlusconismo ma in una versione da rubagalline travestiti da gerarchetti come in certi film comici di terz’ordine, persino il «boia chi molla» scandito da uno di questi figuri fa quasi ridere, altro che la rivolta di Reggio Calabria, altro che Ordine nuovo, altro che Terza posizione, qui siamo davanti a un Bagaglino lugubre che più che paura fa pena. E tuttavia questo non è ciarpame uscito da qualche baule dimenticato nella cantina di Fratelli d’Italia ma le suppellettili nel salotto di casa, è purtroppo realtà malata ma viva, è qualcosa che appartiene alla dispensa di Giorgia l’Italiana: cibo avariato ma sempre cibo, non mondezza da portare via. Il fascismo, per quanto parodiato, in qualche modo circola tuttora nelle arterie di quel partito, e questo non è un affare di leggi violate e neppure (solo) di modalità nauseabonde di fare politica, in quanto il tema politico vero è la povertà intellettuale e morale di questi personaggi che – va ripetuto – non sono mele marce od ottantenni nostalgici ma l’archetipo di un certo modo di essere di destra, persino al giorno d’oggi. Di qui il vero dramma politico di Giorgia Meloni, la cui lunga estate è già terminata, dovendosi mantenere sospesa sul filo tra nostalgia e futuro, la prima scivolosa e penalmente dubbia e il secondo totalmente indefinito: come se dovesse scendere sulla neve senza saper sciare. Hanno impapocchiato questo partito, Fratelli d’Italia, con un balzo all’indietro saltando Gianfranco Fini e ritrovandosi in un lunare panorama almirantiano in versione molto minore, senza uno straccio di classe dirigente che sapesse elevarsi al di sopra della mediocrità di un Fidanza e della sua corte dei miracoli con un Martini in mano e un pensiero a Hitler, e invece si scopre che malgrado i consensi di chi si fida di Fidanza la sfida richiede ben altro che questi meloniani-brava-gente che devono guardarsi dalla ruota che gira e da un passato che non passa. 

Il barone, l’ultrà, il boss gli accoliti e le trame del cuore nero di Milano. Paolo Berizzi su La Repubblica il 2 ottobre 2021. Da Jonghi Lavarini a Todisco e Crisafulli: come Brigata puntava al palazzo. Tra saluti romani e spritz elettorali: “Dite di mettere la croce qui, e basta”. Da Cuore Nero — una specie di centro sociale di estrema destra chiuso nel 2010 — ai locali alla moda di Brera. Dalle foto con i rampolli delle famiglie calabresi che gestiscono lo spaccio di droga a Quarto Oggiaro all’inseguimento di un seggio in parlamento. Passando dai patti con i capi ultrà di Inter e Milan e dai saluti romani del Comitato Sergio Ramelli: i camerati che, ogni 29 aprile, ricordano con il “presente” e le braccia tese lo studente del Fronte della Gioventù ucciso nel 1975 da un gruppo di Avanguardia operaia.

Soldi in "nero" per la politica, bufera su Fdi e Fidanza si autosospende. Gianni Santamaria su Avvenire l'1 ottobre 2021. Presunti finanziamenti illeciti e riciclaggio di denaro. Sono le ipotesi di reato su cui la procura di Milano ha aperto un fascicolo in seguito alla diffusione, da parte della testata on line Fanpage, di un servizio filmato in cui compaiono alcuni esponenti milanesi di Fdi, tra i quali il capo delegazione al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, che si è autosospeso. Nel filmato - realizzato da un giornalista che si è finto un imprenditore interessato a finanziare la campagna elettorale della candidata al consiglio comunale di Milano, Chiara Valcepina - diversi esponenti della destra milanese si lasciano andare a confidenze su sistemi di «lavatrici» per finanziare in nero l’attività politica. E nel corso degli incontri, ripresi di nascosto, pronunciano battute di stampo razzista, oltre a fare ampio riferimento alla simbologia nazifascista. Per questo, secondo indiscrezioni, la procura - che ha dato seguito a un esposto presentato da Europa Verde - si starebbe muovendo anche sull’ipotesi di apologia di fascismo e sarebbe intenzionata ad acquisire l’intero girato. Che, secondo Fanpage, è il frutto di tre anni di lavoro. Anche Giorgia Meloni vuole vedere l’integrale, «al fine di avere piena contezza dei fatti senza la semplificazione di un video accuratamente montato». Fdi, sottolinea, «è da sempre molto rigido nel rispetto delle norme sui finanziamenti ai partiti e non accetta tra le proprie fila chi sostiene tesi razziste o discriminatorie». Matteo Salvini non vuole parlare del video, che non ha visto. E a chi gli chiede se la Lega ne guadagnerà consensi su Fdi risponde: «Lo sciacallaggio lo lascio alla sinistra». La "grana" è scoppiata proprio nel giorno dell’incontro tra i leader del centrodestra. Nel filmato uno degli esponenti della presunta "lobby", Roberto Jonghi Lavarini (detto il "Barone nero"), parla di una rete frequentata da massoni, ex militari ed ex agenti dei servizi segreti che, si vanta, eserciterebbe da anni influenza non solo in Fdi, ma anche nella Lega e in Fi. I partiti del centrosinistra e M5s chiedono in coro le dimissioni di Fidanza. «È una cosa orribile. Non basta la richiesta di avere le ore di girato. L’autosospensione è un istituto che non esiste, serve molto di più», incalza il segretario del Pd Enrico Letta. Anche la delegazione M5s a Strasburgo vuole le dimissioni come «atto dovuto» per «restituire dignità alla politica». Per Fidanza il servizio fornirebbe un’immagine «totalmente distorta», omettendo i colloqui in cui lui diceva al finto uomo d’affari di contribuire secondo le modalità di legge. Mentre in uno spezzone pubblicato l’esponente di Fdi dice, riferito a Lavarini: «Lui trova quattro o cinque professionisti, queste persone fanno loro il versamento tracciato sul conto elettorale». E indica di fare riferimento proprio al "Barone nero" in modo da non esporsi. «Solo battute, millanterie e goliardate da bar», contrattacca Lavarini, parlando di attacco «strumentale» in prossimità del voto. È «macchina del fango», anche per Valcepina. Nel video i partecipanti alle feste elettorali, prendendo spunto dalla presenza di una candidata ebrea nelle loro liste, fanno battute sulla birreria di Monaco in cui Hitler pronunciò discorsi antisemiti. Ed altre razziste (bombe sui barconi per risolvere la questione immigrazione). Non mancano i mugugni per la candidatura a sindaco del siciliano Luca Bernardo. Infine, in posa per una foto, al posto del classico "cheese" dicono "Berizzi". Cioè Paolo, cronista sotto scorta per le sue inchieste sulla galassia neofascista. Solidarietà viene espressa da più parti.

Fango Fanpage, c’è l’inchiesta. Da FdI fioccano le smentite: «Mai soldi in nero per le elezioni». Redazione venerdì 1 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. C’è l’inchiesta della Procura milanese sul contenuto del video-inchiesta di Fanpage sui molto presunti legami di FdI con una non meglio precisata Lobby nera. Nel mirino, l’eurodeputato di FdI Carlo Fidanza, autosospesosi per non creare intralci al partito. L’indagine è un atto dovuto dopo l’esposto-denuncia presentato dai Verdi. Meno dovuto era l’annuncio in pompa magna. I magistrati dovranno ora accertare la reale presenza di condotte penalmente rilevanti. Nel video si vedono Fidanza, e tale Roberto Jonghi Lavarini, alias il Barone nero, mentre parlano con un giornalista infiltrato come imprenditore di finanziamenti in nero a sostegno della campagna elettorale di una candidata alle Comunali di Milano, Chiara Valcepina. Il video di Fanpage contiene 100 ore di girato. L’intenzione dei pm è acquisirne la versione integrale. Analoga richiesta ha inoltrato Giorgia Meloni. Per quanto trapela dal palazzo della Procura, l’esposto-denuncia dei Verdi parla di reati come riciclaggio e finanziamento illecito. A questi, secondo altre indiscrezioni, potrebbe aggiungersi anche quello di apologia di fascismo. La tempistica dell’annuncio dell’apertura dell’inchiesta, in coincidenza con la chiusura della campagna elettorale e a due giorni dal voto, ha destato enormi perplessità in Fratelli d’Italia. Nel frattempo, fioccano le smentite. A quella di Fidanza («non c’è e non c’è mai stato in me alcun atteggiamento estremista, razzista o antisemita e non ho mai ricevuto finanziamenti irregolari»), si è aggiunto quello della Valcepina. «Ai miei amici e conoscenti – ha scritto in una nota – ribadisco in modo fermo e fiero che la mia campagna elettorale non è stata in alcun modo finanziata da fondi irregolari. Ci tengo a precisare che ogni spesa è tracciata e legittima, essendo avvenuta come da disposizioni di legge». Parlano anche gli alleati del centrodestra. «Non commento indagini o indiscrezioni giornalistiche perché sono abituata a fare campagna elettorale su idee e programmi», dice Maria Stella Gelmini. Non ha invece visto il video Matteo Salvini: «Non sono un fan di Fanpage. Ho letto i titoli, ma non giudico dai titoli, non fatemi giudicare cose che non conosco». 

Da open.online l'1 ottobre 2021. La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta con le ipotesi di finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio su Fratelli d’Italia dopo il lavoro giornalistico svolto da Fanpage. I pm puntano a far luce sulla vicenda al centro del servizio, relativa alla campagna elettorale del partito di Giorgia Meloni per le amministrative di Milano. Nell’inchiesta sono citate dall’europarlamentare Carlo Fidanza e da Roberto Jonghi Lavarini, soprannominato “Barone nero”, delle «lavatrici» per il «black» (cioè soldi in nero) e una serie di «imprenditori con il giro di nero». Nel servizio si parla anche dei legami con «un gruppo esoterico con massoni, ammiratori di Hitler ed ex militari». Inchiesta Fanpage, reazioni della politica: “Sottobosco ributtante”, “Fidanza ha molto da spiegare”. Fanpage.it il 30 settembre 2021. Le prime reazioni all’inchiesta di Fanpage.it, trasmessa anche dalla trasmissione di La7 Piazzapulita, su come la lobby nera della destra stia cercando di entrare nella campagna elettorale per le Comunali di Milano. “Sottobosco ributtante”, scrive il leader di Azione Carlo Calenda. “Quadro inquietante, il parlamentare europeo Fidanza dovrà spiegare molte cose”, commenta la deputata del Pd Alessia Morani. Dopo la prima puntata dell'inchiesta di Fanpage.it "Lobby nera", che racconta i legami della destra milanese con neofascisti ed estremisti, sono arrivate le prime reazioni dal mondo della politica. Il leader di Azione Carlo Calenda parla di un "sottobosco ributtante", condividendo un tweet di Corrado Formigli, conduttore della trasmissione Piazzapulita su La7 che ha trasmesso la nostra inchiesta. "L'inchiesta di Fanpage su Fratelli d'Italia a Milano è clamorosa", ha scritto il giornalista. Che, durante la puntata, aveva anche aperto a repliche da parte di Giorgia Meloni e altri esponenti del partito, che però non sono arrivate. Solo in tarda serata FdI ha pubblicato una nota in si chiede a Fanpage.it e Piazzapulita di ottenere il girato integrale "senza tagli o manomissioni" dell'inchiesta, "in modo da poter valutare compiutamente eventuali responsabilità di esponenti di Fdi anche in relazione ai contatti con persone da tempo estranee a Fdi proprio in ragione delle loro posizioni incompatibili con quelle del nostro movimento". In questa prima puntata dell'inchiesta si vede anche un esponente di spicco di Fratelli d'Italia, Carlo Fidanza, capodelegazione del partito al Parlamento europeo, vicino ad ambienti di questo tipo. Non solo: lo si vede anche spiegare al nostro giornalista infiltrato un modo per finanziare in nero i candidati di FdI alle amministrative, utilizzando delle "lavatrici". Mentre andava in onda la puntata sono arrivate le reazioni di altri parlamentari europei. Alessandra Moretti, eurodeputata del Partito democratico, ha definito la nostra inchiesta "davvero sconcertante". E ancora: "Movimenti neofascisti che condizionano pesantemente i massimi livelli della destra italiana. Dall'altra parte giornalisti come Paolo Berizzi che sono sotto scorta per le minacce nere". Anche la deputata del Pd Alessia Morani ha commentato il contenuto dell'inchiesta, sottolineando che faccia "emergere un quadro inquietante: pare che il partito della Meloni abbia al proprio interno gruppi organizzati di neofascisti e raccolga soldi in nero". Per poi affermare che "il parlamentare europeo Fidanza dovrà spiegare molte cose".

“Lavatrici per il black”, nostalgici di Hitler: Fanpage dietro le quinte della campagna di Fratelli d’Italia a Milano. Nextquotidiano.it l’1 ottobre 2021. Fatti

Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone nero”. Carlo Fidanza, eurodeputato di Fratelli d’Italia. Chiara Valcepina, candidata al consiglio comunale a Milano. Vengono filmati con una telecamera nascosta da un giornalista di Fanpage infiltrato. E viene fuori che…La prima reazione alla nuova inchiesta di Fanpage “La lobby nera” è arrivata poco dopo essere andata in onda ieri sera a Piazzapulita: Fratelli d’Italia in una nota ufficiale ha chiesto tutto il girato per “valutare compiutamente eventuali responsabilità di esponenti di Fdi anche in relazione ai contatti con persone da tempo estranee a Fdi proprio in ragione delle loro posizioni incompatibili con quelle del nostro movimento”. Il partito guidato da Giorgia Meloni, nonostante aggiunga di non prendere per oro colato i filmati e precisando che giudicherà solo dopo aver ottenuto quelli integrali non rimanda al mittente il contenuto dell’inchiesta se non per i toni polemici in cui afferma che stata mandata in onda “con il palese intento di infangare la nostra onorabilità” a pochi giorni dal voto. Ma cosa c’è di così sconvolgente? Nel filmato il giornalista di Fanpage spiega di essere riuscito ad infiltrarsi dal 2019 in un gruppo di attivisti di estrema destra conquistandosi la conoscenza e la fiducia di Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone nero“, già candidato alla Camera da Fdi nel 2018 e condannato a due anni per apologia del fascismo. L’inviato sotto copertura appare come un uomo d’affari che potrebbe contribuire a sostenere finanziariamente la campagna elettorale di Fratelli d’Italia a Milano. E così Il Barone gli fa conoscere Carlo Fidanza, europarlamentare e capo delegazione di FdI. Con una telecamera nascosta il giornalista filma Fidanza che ignaro di tutto gli propone di finanziare un aperitivo elettorale per la candidata al consiglio comunale Chiara Valcepina. E l’eurodeputato nella sequenza filmata afferma che  “Le modalità sono: o versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese“. Ma come si fa a finanziare in black la campagna? Lo descrive in maniera più chiara Jonghi Lavarini: “due imprenditori se li prendono privatamente perché hanno il giro di nero e fanno i versamenti sul conto della Valcepina”. Il “barone” racconta che per realizzare il processo hanno “una serie di lavatrici” per il finanziamento alla campagna elettorale. Fidanza in un’altra sequenza precisa, spiegando anche di volerne rimanere fuori: “Lui trova quattro o cinque professionisti, queste persone fanno loro il versamento tracciato sul conto elettorale. Fai con lui,  io c’ho una partita in un anno e mezzo, io mi gioco il futuro della mia carriera“. Se per quanto riguarda il sostentamento della campagna elettorale questa è la parte più controversa, nella video inchiesta di Fanpage però emergono altri dettagli che raccontano una narrazione piena di saluti romani, gladiatori, nostalgici del nazismo che evocano la birreria di Monaco davanti a una candidata ebrea, che poi salutano al grido di “Heil Hitler”. E ancora considerazioni sul candidato della destra a Milano, Bernardo. Per Chiara Valcepina somiglia “all’orso Yoghi” mentre un ignoto partecipante commenta: “Come cazzo fai a Milano a eleggere un sindaco siciliano?” Fino allo sfottò a Paolo Berizzi, giornalista sotto scorta per le minacce dei neonazisti. I personaggi immortalati nel video si fanno una foto e invece di dire “cheese” esclamano Berizzi. E se Fratelli d’Italia chiede i filmati integrali Fanpage risponde che non è stato tagliato niente. Ora i protagonisti, loro malgrado, dell’inchiesta dovranno spiegare cosa intendevano.

Da fanpage.it l'1 ottobre 2021. Il 22 settembre del 2021 riceviamo una telefonata: l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Carlo Fidanza vuole incontrarci. A comunicarcelo è il "Barone Nero", soprannome di Roberto Jonghi Lavarini, già candidato alla Camera con il partito di Giorgia Meloni nel 2018 e condannato nel 2020 a due anni per apologia del fascismo. Quello che i due  vogliono proporci è una modalità per finanziare la campagna elettorale di Fratelli d'Italia per le comunali di Milano.

Come siamo giunti a questo punto? 

Quasi tre anni prima, nel 2019, un nostro giornalista è entrato in un gruppo di nostalgici del fascismo, massoni ed ex militari, fingendo di essere un uomo d'affari. Il gruppo è coordinato da Roberto Jonghi Lavarini, il "Barone nero" che da anni influenza le nomine e le politiche dei partiti istituzionali di destra e che adesso ha deciso di mettere le mani anche sulle comunali di Milano. Dopo aver partecipato a decine di incontri riservati tra Jonghi ed esponenti di primo piano della destra, veniamo a sapere che uno dei principali referenti del gruppo è l'eurodeputato Carlo Fidanza, big del partito di Giorgia Meloni, tanto da esserne diventato il capodelegazione al Parlamento europeo. Anche se in via non ufficiale, il "Barone" collabora alla campagna elettorale di Fratelli d'Italia e sponsorizza insieme all'eurodeputato la candidata al consiglio comunale Chiara Valcepina. Jonghi la definisce "Patriota fra i patrioti, poi anche candidata", lasciando intendere che potrebbe "usare un altro termine al posto di patriota". Per intenderci, i due si scambiano più volte il saluto gladiatorio. È proprio il "Barone" a presentarci la candidata Valcepina durante un aperitivo con i suoi sostenitori, dicendole che lavoriamo per una importante società finanziaria a livello internazionale. Poche settimane dopo, il 3 settembre 2021 è la stessa Valcepina a introdurci come uomini d'affari a Fidanza, il quale si mostra subito disponibile ad aiutare la nostra società finanziaria con delle "sponde a livello internazionale". Siamo a un aperitivo elettorale e la candidata di Fratelli d'Italia sta tenendo un comizio in vista delle comunali di Milano, accompagnata dalla deputata di Fdi, Paola Frassinetti, e da altri candidati ai vari consigli municipali. Nonostante la sua candidata stesse ancora parlando, l'europarlamentare Fidanza che ci aveva conosciuti soltanto da pochi minuti, ci chiama in disparte, proponendoci di finanziare un loro evento anche utilizzando del "black", cioè con soldi in nero: “Le modalità sono: o versare sul conto corrente dedicato che lei ha aperto per le elezioni, o, se vi è più comodo fare il black, lei si paga il bar e col black si coprono le altre spese, – dice sottovoce – a quel punto fai direttamente con lei, senza che diamo il black al bar, perché non è mai piacevole, poi la gente chiacchiera”. È a questo punto che assecondiamo la sua richiesta, esclusivamente per capire come possano ricevere e giustificare dei soldi in nero. Scopriamo che l'uomo che si occuperebbe di questa operazione è sempre il "Barone", che di Fidanza è amico e referente, A lui chiediamo di spiegarci nel dettaglio come funziona il sistema per degli importi più alti: “Tot ai consiglieri di zona, quindi gli do i contanti e dico: ‘Fai l'evento, ma devi invitare la Valcepina, Fidanza e Rocca’ – spiega Jonghi – Gli altri, invece, due imprenditori se li prendono privatamente perché loro hanno il giro di nero e fanno versamenti sul conto della Valcepina”. Sono loro stessi a fornirci ulteriori dettagli qualche settimana dopo, il 22 settembre 2021, durante una cena elettorale pubblica a cui veniamo invitati da Jonghi perché "l'eurodeputato vuole vederti". Mancano nove giorni al voto delle amministrative e siamo al termine di una “serata patriottica” organizzata dalla corrente del maggiorente di Fratelli d'Italia in vista del voto. È in questo contesto che l’onorevole e Jonghi ci spiegano come riuscirebbero a rendicontare il finanziamento in nero. “Abbiamo trovato tramite il nostro presidente di circolo che è commercialista una serie di lavatrici – rassicura il “Barone nero” dopo averci chiesto di posare sul tavolo i telefoni – Abbiamo poi un giro, sistemiamo noi le cose con lui”, conclude indicando Fidanza, che è al suo fianco. L’europarlamentare conferma: “Roberto trova quattro o cinque professionisti, queste persone fanno loro il versamento tracciato sul conto elettorale”. Alla serata patriottica non si parla solo di fondi sommersi. Oltre ai soliti comizi pre elettorali, gli esponenti di Fratelli d’Italia, che si definiscono "una allegra brigata nera", si lasciano andare a considerazioni di ogni genere. La candidata al consiglio comunale Chiara Valcepina esordisce esasperata: “Altri cinque anni di Sala e ci possiamo sparare”. Subito dopo di lei, l’altro candidato di punta del gruppo di Fidanza, Francesco Rocca, conclude così il suo breve comizio: “Vi ringrazio e boia chi molla”. Quando tocca a lui, Carlo Fidanza è spietato col candidato sindaco del centrodestra Luca Bernardo: “Abbiamo fatto qualche cazzata anche noi, abbiamo messo un capolista un po’ particolare. Mai come in questo caso il vecchio motto montanelliano del turarsi il naso è la cosa da fare”. Il resto della serata è un continuo di saluti gladiatori e di “camerata”. C’è anche chi, come la presidentessa del Municipio 7 Norma Iannacone rivendica la patente di vera “fascista”. Il candidato di Zona 3 Mattia Ferrarese, mentre si racconta un aneddoto su una persona di religione ebraica, fa il saluto romano, e Carlo Fidanza, in piedi accanto a lui, inizia a ridere e a mimare il gesto urlando in falsetto: “Camerata, camerata!”. Quando arriva il momento della foto di rito, da pubblicare sui social, l’europarlamentare al posto del “cheese”, esorta tutti a dire il nome di Paolo Berizzi, il giornalista sotto scorta per le minacce ricevute dai neonazisti. I candidati se la ridono e in coro rispondono: “Berizzi”. Mentre stiamo per andare via, Fidanza ci prende di nuovo in disparte e ribadisce: “C’ho una partita: in un anno e mezzo mi gioco il futuro della mia carriera. Devo essere proprio limpido”.

"Mai ricevuto finanziamenti irregolari", dice l'eurodeputato. Fidanza si autosospende da Fratelli d’Italia dopo l’inchiesta sulla ‘lobby nera’ che finanzia la campagna elettorale. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Travolto dalle polemiche, Carlo Fidanza fa un parziale passo indietro. L’eurodeputato di Fratelli d’Italia, finito al centro della bufera per una inchiesta giornalistica di Fanpage su presunti finanziamenti in nero della campagna elettorale di esponenti del partito a Milano, ha infatti deciso di autosospendersi da FdI. Fidanza che si difende dopo la messa in onda del servizio su Piazzapulita ieri sera, su La7, ribadendo che “non ho mai ricevuto finanziamenti irregolari e che nello specifico, in più occasioni che purtroppo non sono state mandate in onda, ho ribadito al ‘giornalista infiltrato’ che asseriva di voler contribuire alla campagna elettorale di una candidata la necessità di farlo secondo le modalità previste dalla normativa vigente. Il fatto che questi ulteriori colloqui non siano stati trasmessi la dice lunga sulla serietà di questa inchiesta e contribuisce a dare di me e della mia attività politica un’immagine totalmente distorta“. L’europarlamentare ‘meloniano’ annuncia quindi che “a tutela della mia reputazione mi riservo di adire la giustizia civile e penale”. Quanto alle immagini pubblicate da Fanpage, Fidanza sottolinea che “non c’è mai stato in me alcun atteggiamento estremista, razzista o antisemita. Semmai, nelle immagini pubblicate, ironicamente contestavo proprio le inaccettabili affermazioni a suo dire goliardiche di Roberto Jonghi Lavarini, che non hanno né possono avere alcuna cittadinanza in Fratelli d’Italia, partito in cui peraltro lo stesso non è iscritto né ricopre alcun ruolo. Ho avuto più volte occasione di polemizzare con Paolo Berizzi per alcune sue campagne di stampa (da qui l’ironia mostrata nel video), ma naturalmente giudico inaccettabile che un giornalista debba vivere sotto scorta per le minacce ricevute e per questo, pur nella irrinunciabile diversità di opinioni politiche, gli esprimo la mia solidarietà sincera”, spiega Fidanza.

LA POSIZIONE DI GIORGIA MELONI – Chiamata in causa dal video esplosivo su Fidanza, con ripetute richieste di pretendere le sue dimissioni, Giorgia Meloni ha chiesto a Fanpage di consegnare l’intero girato del lavoro “perché sono una persona molto rigida su diverse materie, però non giudico e valuto un dirigenti che conosco da più di 20 anni. Sono rimasta colpita nel vederlo raccontare così, sulla base di un video curiosamente mandato in onda a due giorni dal voto“. La leader di Fratelli d’Italia si è detta pronta a prendere “tutte le decisioni necessarie quando ravviso delle responsabilità reali“, ma per farlo ha bisogno di avere “avere l’intero girato di 100 ore, poi farò sapere cosa ne penso”.

L’INCHIESTA SU FIDANZA – Nel video di 13 minuti di Fanpage emergerebbe una “lobby nera” che utilizzerebbe “sistemi di lavanderia” per pulire i finanziamenti ai candidati di Fratelli d’Italia. A scoprirlo un giornalista sotto copertura da tre anni, fintosi un uomo d’affari a cui interessava finanziare il partito in cambio di trattamenti di favore per il proprio business. E’ in questo contesto che emergono due figure chiave: la prima è Roberto Jonghi Lavarini, detto il “Barone nero”, condannato a due anni per apologia del fascismo; il secondo è proprio Carlo Fidanza, europarlamentare e capo delegazione di Fratelli d’Italia. Il giornalista infiltrato, dopo aver stabilito un rapporto, partecipa a diversi eventi della campagna elettorale per il Comune di Milano, dove Lavarini e Fidanza sostengono la candidata al consiglio comunale Chiara Valcepina. Entrambi chiedono finanziamenti al presunto uomo d’affari: “Le modalità sono: versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese”, dice Fidanza al giornalista sotto copertura. E’ poi Lavarini a spiegare tecnicamente come funziona il metodo, ovvero con una “serie di lavatrici” per pulire i finanziamenti. Ma nel corso dell’inchiesta viene ripreso anche un ‘sottobosco’ di incontri a base di ironia a sfondo razzista, fascista e antisemita. Diverse le battute contro migranti, neri, ebrei, con un riferimento anche al discorso di Hitler alla birreria di Monaco e al giornalista di Repubblica Paolo Berizzi, minacciato dai neofascisti veronesi e per questo sotto scorta.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il capodelegazione. Chi è Carlo Fidanza, l’europarlamentare che si è auto-sospeso da Fratelli d’Italia per un’inchiesta giornalistica. Antonio Lamorte su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Carlo Fidanza, europarlamentare di Fratelli d’Italia, si è dimesso dalla sua carica politica dopo l’inchiesta giornalistica su presunti finanziamenti illeciti e legami con gruppi di estrema destra, realizzata da Fanpage e trasmessa in prima serata dal tal politico di Corrado Formigli, Piazza Pulita, su La7. Fidanza era capo delegazione del partito guidato da Giorgia Meloni al parlamento europeo. Lo stesso fidanza ha dato la notizia delle dimissioni e commentato il caso in una nota. “Dopo aver visto il servizio confezionato ieri sera da Fanpage e mandato in onda da Piazzapulita voglio ribadire ai miei amici, ai miei elettori e a quelli di tutto il mio partito che non ho mai ricevuto finanziamenti irregolari e che nello specifico, in più occasioni che purtroppo non sono state mandate in onda, ho ribadito al ‘giornalista infiltrato’ che asseriva di voler contribuire alla campagna elettorale di una candidata la necessità di farlo secondo le modalità previste dalla normativa vigente. Il fatto che questi ulteriori colloqui non siano stati trasmessi la dice lunga sulla serietà di questa inchiesta e contribuisce a dare di me e della mia attività politica un’immagine totalmente distorta”. “A tutela della mia reputazione mi riservo di adire la giustizia civile e penale. Mi avvicino ai 30 anni di impegno politico, senza mai una macchia e sempre a testa alta. Non c’è e non c’è mai stato in me alcun atteggiamento estremista, razzista o antisemita. Semmai, nelle immagini pubblicate, ironicamente contestavo proprio le inaccettabili affermazioni a suo dire goliardiche di Roberto Jonghi Lavarini, che non hanno né possono avere alcuna cittadinanza in Fratelli d’Italia, partito in cui peraltro lo stesso non è iscritto né ricopre alcun ruolo”. Fidanza è finito al centro di un’inchiesta su un presunto sistema di riciclaggio per punire finanziamenti in nero e su legami con esponenti e gruppi dell’estrema destra neofascista e neonazista. Lobby nera, questo il titolo, è stato realizzato con il sistema dell’insider, un giornalista sotto copertura che tre anni fa si è finto un uomo d’affari cui interessava finanziare un gruppo politico per tornaconto. Roberto Jonghi Lavarini, il cosiddetto “Barone Nero”, già condannato a due anni per apologia del fascismo, è l’uomo attraverso il quale il giornalista conosce Fidanza. Fidanza, classe 1976, è nato ad Ascoli Piceno. Ha militato e ricoperto incarichi di responsabilità in Azione Giovani, movimento giovanile di Alleanza Nazionale. È stato assessore comunale a Desio e consigliere comunale a Milano. Ha ricoperto la carica di Presidente della Commissione Consiliare Expo 2015, membro dell’Ufficio di Presidenza nazionale di Anci Giovane e Vice Coordinatore Regionale del Popolo della Libertà con il quale è stato eletto nel 2009. Il passaggio, da fondatore, a Fratelli d’Italia – Centrodestra Nazionale, nel 2012. Con Fdi è stato eletto Vice Capodelegazione al Parlamento Europeo in rappresentanza di Fratelli d’Italia, in seno alla delegazione Pdl. Dal novembre 2013 fino a fine mandato è stato Capodelegazione di Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale al Parlamento Europeo. Nel corso del suo mandato europeo è stato membro titolare della Commissione Trasporti e Turismo e membro supplente della Commissione Agricoltura. È stato membro dell’Ufficio di Presidenza del gruppo PPE, dal quale Fratelli d’Italia annuncerà la fuoriuscita a marzo 2014. Alle europee del 2014 non risulta eletto perché il partito non supera la soglia di sbarramento a livello nazionale. Alle politiche del 2018 viene eletto deputato ma risultando eletto nel giugno 2019 alle europee si dimette per incompatibilità dalla carica, subentrato da Maria Teresa Baldini. “Ho avuto più volte occasione di polemizzare con Paolo Berizzi per alcune sue campagne di stampa (da qui l’ironia mostrata nel video), ma naturalmente giudico inaccettabile che un giornalista debba vivere sotto scorta per le minacce ricevute e per questo, pur nella irrinunciabile diversità di opinioni politiche, gli esprimo la mia solidarietà sincera – continua nella nota Fidanza facendo riferimento al giornalista de L’Espresso aggredito da gruppi neofascisti – In ogni caso, nell’associarmi alla richiesta del mio partito di ottenere i filmati integrali che mi riguardano senza tagli o manomissioni in modo che gli stessi possano essere visionati dai competenti organi di FdI, su richiesta di Giorgia Meloni, ritengo opportuno autosospendermi da ogni ruolo e attività di partito al fine di preservare Fratelli d’Italia da attacchi strumentali”. Meloni invece ha intanto chiesto “ufficialmente a Fanpage di darmi il girato di questi tre anni. Sono rigida ma non me ne vogliate se non giudico i miei dirigenti sulla base di un filmato. Non ho problemi a rispondere, ma non chiedetemi di valutare un dirigente sulla base di un video montato da voi e curiosamente mandato in onda a due giorni dal voto”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Meloni scrive a Fanpage e chiede i video integrali. «Non c’è spazio per antisemitismo, razzismo e paranazismo». Mia Fenice venerdì 1 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Riguardo il servizio di Fanpage che coinvolge anche l’esponente di FdI, Carlo Fidanza, ho chiesto al direttore di Fanpage i video integrali relativi agli eventi emersi, al fine di avere piena contezza dei fatti senza la semplificazione di un video accuratamente montato. Fratelli d’Italia è da sempre molto rigido nel rispetto delle norme sui finanziamenti ai partiti e non accetta tra le proprie fila chi sostiene tesi razziste o discriminatorie. Nelle more della visione dei filmati integrali, Carlo Fidanza ha giustamente reputato di autospendersi da ogni incarico di partito». Giorgia Meloni scende in campo dopo il  servizio di Fanpage.

La lettera di Giorgia Meloni al direttore di Fanpage

Il presidente di Fratelli d’Italia ha inviato anche una lettera al direttore di Fanpage Francesco Cancellato. «Egregio Direttore, – scrive nella lettera – a seguito dei filmati mandati in onda ieri sera nel corso della trasmissione “Piazzapulita” su La7 condotta da Corrado Formigli, e che sollevano particolare preoccupazione, Le chiedo di avere copia delle intere registrazioni relative agli episodi rappresentati, così da poter valutare compiutamente i fatti senza l’intermediazione di un servizio che – per sua natura – è necessariamente parziale e frutto di una sintesi». La Meloni continua: «Sono certa che Lei comprenderà che, per valutare compiutamente i fatti e il comportamento dei nostri dirigenti, e adottare così gli eventuali provvedimenti commisurati alle oggettive responsabilità, abbiamo bisogno dell’intero materiale privo di tagli in vostro possesso. Nel corso della trasmissione, infatti, Lei ha dichiarato che il filmato andato in onda non è che la “prima puntata”, a fronte di “100 ore di girato” realizzati in tre anni». «Mi auguro – puntualizza la leader di FdI – che, per la grande rilevanza della questione, anche ma non solo perché scoppiata a ridosso di un’importante tornata elettorale e a 48 ore dal silenzio prescritto dalla legge, Fanpage vorrà dare seguito al più presto alla richiesta. In attesa di un suo riscontro, ribadisco a nome di Fratelli d’Italia che nel nostro movimento non c’è alcun spazio per atteggiamenti ambigui sull’antisemitismo e sul razzismo, per il paranazismo da operetta o per rapporti con ambienti dai quali siamo distanti anni luce, né per atteggiamenti opachi sul piano dell’onestà».

Meloni furiosa per l’inchiesta di Fanpage su Fidanza: «Ma come si fa, per 30 voti? Io impazzisco». Paola De Caro su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2021. Il terremoto arriva alle nove di sera di giovedì. E quella che era stata una campagna elettorale faticosa e tesa, diventa per Giorgia Meloni «la peggiore di sempre: incattivita, feroce, sospetta». , piomba come un Tir senza freni su Fratelli d'Italia e la leader con i suoi si dice «avvilita, sconfortata: una persona dedica tutta la vita a fare politica seriamente e poi ti arriva roba così... È sconfortante: se non sei ricattabile, allora devi morire. Non la puoi salvare l'Italia così». Ed è la rabbia a sera a prevalere, l'indignazione per quella che nel partito considerano un'inchiesta «ad orologeria», sparata un giorno prima del silenzio elettorale «per non farci replicare», ancora una volta mirata a colpire il centrodestra dopo il caso Morisi visto pure con molto sospetto, a senso unico perché «come mai non hanno fatto le loro belle inchieste sulle mascherine di Arcuri?» protesta la leader, perché «non una bella intervista al cane di Cirinnà?», ironizza Ignazio La Russa. Tre anni di indagine giornalistica e poi «tirano fuori dieci minuti: e le altre 100 ore? Perché non me le fanno vedere?», quasi grida la Meloni con i suoi. Dopo però aver agito. La fa infuriare che si sia preso sul serio «un personaggio che - assicura La Russa - a Milano tutti considerano una macchietta», quel «Barone nero» Jonghi Lavarini che è «un nostalgico vetero monarchico, uno che ti fa pure ridere ma che non può essere un interlocutore di un partito, non a caso lo abbiamo espulso da An» e, dicono dal partito, è forse «più vicino» alla Lega. Ma la fa infuriare, in questo che vede comunque come una sorta di complotto, anche la «leggerezza» di Carlo Fidanza. Sa bene la leader di FdI che il danno più grosso le può arrivare da un presunto finanziamento illecito al partito ancor più che da «ridicoli teatrini di gente che non vogliamo con noi, gente che dice idiozie lontanissime dal nostro pensare e che noi teniamo alla larga», tanto più quello a sfondo antisemita «sentimenti che respingiamo con tutte le forze» perché «noi siamo amici della comunità ebraica» giura La Russa. Così, ieri mattina, dopo aver ricevuto un whatsApp in cui il suo capodelegazione al Parlamento europeo le scriveva che «sono nelle tue mani, è imperdonabile quello che ho fatto, me ne rendo conto, decidi tu cosa devo fare», lo ha chiamato e urlando gli ha chiesto conto di tutto, non prima di avergli intimato di autosospendersi immediatamente: «Tu sai che io su queste cose divento pazza, ma come si fa a frequentare certa gente per prendere 30-40 preferenze in più? Come si fa a parlare di "black" e assurdità simili?». Lui, dicono, si sarebbe giustificato su tutti i fronti: le battute antisemite? «Stavo prendendo in giro Jonghi, ne facevo il verso». I pagamenti in nero? «Non hanno mandato in onda tutto, la verità: quello offriva soldi su soldi e io dicevo no... Ho solo detto che potevano pagare una cena, un aperitivo elettorale...». Parole che la Meloni vuole valutare per bene, perché di una persona «che conosco da una vita» si fida, ma la mano sul fuoco in certi casi è sempre saggio non metterla. Per questo pretende «l'intera registrazione, lo sbobinato di 100 ore. Perché se c'è da prendere provvedimenti lo faccio in un minuto, non ho paura di cacciare gente dal partito. Ma se è una trappola, se c'è chi vuole incastrare i miei, voglio saperlo...». E ora il voto: «Non credo saremo danneggiati: sto ricevendo messaggi su messaggi di gente schifata da questa operazione, dal falso moralismo di Letta che difende un condannato a 13 anni, di Giarrusso che dà lezioni nonostante le storie con la lobby del tabacco». E ancora rabbia: «Uno fa tanto e poi...».

Carlo Fidanza? Che caso, la registrazione che lo scagiona non viene pubblicata: i fascisti del pensiero in azione. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Fatale fu la serata in birreria. L'eurodeputato di Fdi Carlo Fidanza, su richiesta di Giorgia Meloni, si autosospende da ogni ruolo nel partito dopo il servizio confezionato dal sito Fanpage e mandato in onda da Piazza Pulita. Quasi tre anni di indagine giornalistica, tranelli, inganni, pedinamenti e trappole per caricare la pistola che può schiantare Fratelli d'Italia scodellati, guarda caso, tre giorni prima del voto, previo abile e fazioso montaggio. Tesi: Fidanza è un ladro e un fascista. Svolgimento: giornalista si finge imprenditore simpatizzante e si infiltra, dopo di che si propone di contribuire a un aperitivo elettorale. «Fai un bonifico o in nero ("black" pare dica Fidanza nel servizio, anche se l'interessato sostiene di aver pronunciato la parola "cash")?». Appuntamento la settimana dopo, in ufficio. L'eurodeputato stavolta è professionale: «Quanto vuoi versare: 4mila euro? Bonifica su questo conto». Il finto imprenditore chiede se può pagare in nero, Fidanza risponde picche e allora l'interessato si ritira, «perché i miei finanziatori non vogliono risultare legati a un partito». L'affare sfuma e con esso anche la parte della registrazione che scagionerebbe il meloniano. Al pubblico viene offerto solo lo spezzone imbarazzante, epurato della risoluzione dell'equivoco.

DANNO D'IMMAGINE

Tanto basta perché i giallorossi chiedano l'apertura di un'indagine e la Procura milanese risponda presente. Probabilità che la vicenda si risolva in una condanna penale: zero al cubo, ma intanto il danno d'immagine è fatto e le elezioni pure. Fratelli d'Italia chiede che vengano pubblicati anche i filmati che scagionano il suo deputato ma è come gridare al vento. Fin qui però il partito fa quadrato. A far precipitare la situazione per Fidanza è l'accusa di antisemitismo e razzismo che la sinistra gli rivolge per un secondo video. Al tavolo con "il barone nero" Roberto Jonghi Lavarini, noto fascistone non iscritto a Fdi, Fidanza lo sfotte mimando il saluto romano mentre lo rimprovera per i suoi discorsi indelicati tenuti poco prima in presenza di una sorella d'Italia di origine ebrea. Ciliegina finale, il solito seflie, solo che per sorridere non si dice «cheese» ma «Berizzi», dal nome del giornalista di Repubblica già manutengolo di una grottesca rubrica quotidiana di caccia al fascista immaginario nella quale il collega è riuscito a mettere la camicia nera a chiunque non canti "Bella ciao" come prima cosa appena sveglio. Ecco il risultato di tre anni di giornalismo militante alla ricerca del cuore nero che, secondo i progressisti, batte in ogni simpatizzante di Fratelli d'Italia, ma anche della Lega e fino a pochi anni fa perfino di Forza Italia. In un Paese normale sarebbe una colonna in cronaca, ma nell'Italia della politica progressita, che rispetto a quella che vive e lavora sta su Marte, proprio come i fascisti di Corrado Guzzanti, è uno scandalo nazionale. In mancanza di programmi nuovi, e per nascondere il poco- e male - fatto, la sinistra sotto elezioni si attacca al suo vecchio cavallo di battaglia, l'antifascismo di ritorno, giacché il fascismo, grazie al cielo, non è mai più tornato dalle nostre parti.

GRILLI PARLANTI

Spiace per Fidanza, bravo politico e bravo ragazzo e, come ricorda lui stesso «in trent' anni di impegno militanza senza macchia, non ha mai avuto atteggiamenti razzisti, antisemiti o estremisti». Carlo è stimato dalla Meloni, che lo ha descritto nel suo libro «un osso duro, di grande capacità dialettica, nonché uno dei pochi in grado di studiare» quanto lei. Tiene alta la bandiera al Nord da decenni, senza sudditanza e senza baciare la pantofola di Giorgia. Per questa sua indipendenza, forse più di uno si sta fregando le mani nel vederlo scivolare così ingenuamente su una buccia di banana. Bisogna stare attenti, è il commento dei grilli parlanti del giorno dopo. Invece no, in politica dovrebbero contare idee, sostanza, valori, non gaffe, ingenuità o cadute di stile. Non dico che la destra dovrebbe imparare a difendere l'indifendibile, come sta facendo certa sinistra, che continua a trattare il sindaco Lucano come un santo e un simbolo dell'integrazione anziché come un condannato per aver rubato allo Stato; ma alzare il bavero e tirare dritto quando arrivano certi spruzzi di fango non significa essere fascisti, bensì resistere al fascismo del pensiero, che dalle nostre parti ormai da decenni ha il rosso come unico colore. 

Carlo Fidanza e l'agguato a FdI, Alessandro Sallusti: "Tre anni di microfono nascosto per un ragno dal buco". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Domani si vota per rinnovare i sindaci di alcune delle più importanti città italiane e il governatore della Calabria. Magistrati e giornalisti nelle ultime settimane hanno frugato nel bidone della spazzatura in cerca del colpo grosso per screditare i partiti del Centrodestra ma questa volta, nonostante lo spiegamento di forze, il bottino è stato misero e il tanfo prevale nettamente sulla sostanza. La vicenda condita con droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, col passare delle ore appare sempre più come una bufala costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Poi c'è il pacco che il sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, ha confezionato contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un giornalista munito di microfono nascosto si è finto supporter di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari ma cavandone di fatto un ragno dal buco. Ovviamente sono rimaste impresse stupide frasi e un immancabile saluto romano, però sono certo che nessuno, neppure i giornalisti autori e complici di questo pazzesco scoop, uscirebbero formalmente lindi e immacolati da tre anni di microfoni nascosti. Salvo colpi di scena dell'ultima ora la controcampagna elettorale dei nostri eroi democratici quasi tutti amici e sostenitori di Mimmo Lucano - l'ex sindaco di Riace pro immigrati condannato ieri l'altro a tredici anni perché truffava lo Stato - si ferma qui. Non penso che queste cose sposteranno un solo voto, semmai hanno fatto contenti i non pochi nemici interni che Morisi aveva nella Lega e Fidanza in Fratelli d'Italia. La sostanza è che la campagna elettorale più surreale e pasticciata nella storia del Centrodestra si chiude con una foto dei tre leader - Meloni, Salvini e Tajani - seduti allo stesso tavolo, e questo fa ben sperare per il futuro. La stessa cosa oggi non possono farla Letta, Conte e Bersani che nelle urne sono avversari dopo settimane passate a darsele di santa ragione. Insomma, nel casino che è la politica il Centrodestra, al dunque, resta una certezza. Dall'altra parte, come al solito, è caos al motto di "nemici al primo turno, semmai amici ai ballottaggi" ma solamente per fermare le destre. Sai che grande programma politico... 

E' la stampa, bellezza. In Italia spuntano i “giornalisti sotto copertura”: 3 anni di barbe finte per scoprire qualche saluto romano e disinvoltura su piccoli rimborsi elettorali. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Devo ammetterlo, ignoravo l’esistenza dei “giornalisti sotto copertura”, quelli che si insinuano all’interno di un partito per denunciarne le malefatte. Me li immagino come barbe finte, agenti segreti pagati dallo Stato per infiltrarsi in una cosca mafiosa. E magari scovare il nascondiglio di Matteo Messina Denaro. Lo sappiamo tutti che certi partiti sono peggio di Cosa Nostra, e che certi giornalisti sono più abili della Dia e del Ros messi insieme. Mi ha illuminato sull’importanza di questi colleghi “coperti” la puntata di giovedì sera di Piazza Pulita, di cui, devo ammetterlo, ho visto solo una parte perché sono debole di stomaco. C’era un giornalista di Fanpage, che non ho ancora ben capito che cosa sia, se non che è nato e cresciuto con i social, che a quanto pare si è infiltrato nella peggiore pancia di Fratelli d’Italia e, a due giorni dal voto amministrativo, ha sparato qualche bombetta sulle elezioni di Milano. Con la complicità del conduttore, di cui fatico sempre a ricordare il nome (in analisi si chiama rimozione), ha fatto, senza problemi di coscienza, il suo sporco lavoro. Le bombette cascano su un praticello informativo in cui stanno già pascolando il caso di Luca Morisi, lo spin doctor difeso dal suo amico Salvini in veste garantistica, e la sentenza di condanna dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, difeso da Enrico Letta, che in via eccezionale stabilisce che le sentenze possono anche essere commentate. Mica stiamo parlando di sciocchezzuole come il “processo trattativa”, che ha avvelenato il Paese per qualche decennio. Su quello aspettiamo le motivazioni. Su Lucano (anch’io critico la sentenza) abbiamo certezze. Opposti estremismi, potremmo definire così gli atteggiamenti del leader della Lega e quello del Pd. Fanno venire i nervi per la loro prevedibilità: potremo mai vedere Enrico Letta compiacersi per il fatto che Marcello Dell’Utri non solo non ha commesso il fatto (qualcuno di noi lo sapeva benissimo) ma è stato pure assolto con quella formula così esplicita e senza ombre? O Matteo Salvini che, pur confermando, se proprio lo ritiene indispensabile, di essere sempre e comunque contro tutte le droghe (dell’ubriachezza molesta invece che cosa pensa?), dispiacersi perché le carceri sono piene di tossici piccoli spacciatori e già che c’è spendere una parola in favore dei diritti di Mimmo Lucano? Una volta si diceva che non si può cavare sangue dalle rape, il che significa che non si può pretendere di far uscire i militanti o dirigenti di partito dal loro assurdo settarismo (parola antica) e condurli per mano sulla strada del garantismo. Quello nei confronti di tutti, ovviamente, quello non seguito dal “però”. Forse potremmo pretenderlo, sì pretenderlo, invece, dai nostri colleghi giornalisti. Da antica cronista giudiziaria desidero mettere in guardia i miei soliti quattro lettori, di cui spero non siano nel frattempo diminuiti, magari per noia (uffa, ancora con il garantismo!), in corso d’opera, dal pensare che qualcuno ce l’abbia con i commentatori. Ognuno deve esser libero delle proprie opinioni, ci mancherebbe. Il problema sono le cronache, il giornalismo cosiddetto d’inchiesta e ora anche le “coperture”. È lì che si annida la serpe delle forche caudine. L’infiltrato di Fanpage si è travestito ben tre anni fa da imprenditore milanese desideroso di finanziare un partito. Per tre anni si è finto amico di quelli di Fratelli d’Italia a Milano, ha frequentato uno che, senza offesa, non conta molto nella gerarchia del partito, cosa che nella sede di Fanpage a Napoli non sono tenuti a sapere. Roberto Longhi Javarini è un bravo ragazzo, lo dico anche se so bene che si dichiara apertamente fascista (scusa, nonno socialista di Parma) e che è stato anche condannato a due anni per apologia. Se l’infiltrato ha visto in qualche sua riunione dei saluti romani o peggio ha sentito qualche frase razzista, sappia che la cosa finisce lì. In privato. Anche se ovviamente non ci piace, e anche di più. Più delicato è il fatto che nella registrazione si senta Carlo Fidanza, capogruppo di FdI a Bruxelles, trattare in questo modo il percorso di un contributo elettorale per la loro candidata al Comune di Milano alle amministrative: «Le modalità sono: versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese». Discorso un po’ assurdo, dal momento che sarebbe bastato dire: organizziamo un evento e lei lo finanzia. Ancora più maldestro l’intervento di Longhi Javarini, che parla addirittura di lavatrici. Tanto che il partito dei Verdi, giusto per battere in lestezza quelli dei Cinque Stelle, ha presentando un esposto in procura ipotizzando addirittura il lavaggio di proventi mafiosi. E qui il cerchio della follia si chiude. Senza giustificare niente e nessuno (ma chi è senza peccato scagli la prima pietra), c’era bisogno di fare la barba finta per tre anni per scoprire qualche saluto romano e una certa disinvoltura, per lo meno a parole, su piccoli rimborsi elettorali? Pure la rete di La7 ha dedicato all’argomento una serata. E poi ieri sono fioccate le reazioni. Giorgia Meloni ha fatto la parte dell’intransigente, ma ha preteso prima di visionare tre anni di registrazioni, Fidanza si è autosospeso, ben sapendo di far parte di un partito non certo di seguaci di Calamandrei, i Cinquestelle si sono scatenati (ma non fa notizia) e la responsabile milanese del Pd ha perso un’occasione per tacere (ma non avete già la vittoria in tasca?), ma è perdonabile causa la giovane età. Tutto previsto e prevedibile. Questo è il clima, del resto. Così anche Mimmo Lucano, cui si poteva quanto meno risparmiare il reato associativo, neanche si trattasse di un affiliato alla ‘ndrangheta, e si poteva magari concedergli almeno le attenuanti generiche, si è messo a fare il retroscenista, attribuendo a un “magistrato molto importante” e a “un politico di razza” la vera responsabilità per la sua condanna. Motivo? L’invidia per il suo successo. E intanto su Morisi aleggia il sospetto che sia stato davvero incastrato, non dal mondo politico, ma semplicemente dagli avidi ragazzi romeni. Già, ma non sono stati certo loro, con un mese e mezzo di ritardo rispetto ai fatti, a passare le veline ai fratelli coltelli Corriere e Repubblica per lanciare la bomba tra i piedi di Matteo Salvini in campagna elettorale. Che cosa è, anche questo giornalismo d’inchiesta? O di copertura? È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente, niente.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cosa non torna nell’inchiesta sulla lobby nera. Francesco Giubilei il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sui media, Fidanza viene già condannato. Ma l'indagine è stata aperta solo ieri. E ci sono vari elementi che destano perplessità. Tiene banco nel dibattito mediatico e politico di questi giorni l’inchiesta realizzata da Fanpage e mandata in onda su Piazza Pulita intitolata la “lobby nera dietro Fdi” in cui un giornalista si è infiltrato per circa tre anni fingendosi una persona interessata a finanziare la campagna elettorale di Fratelli d’Italia alle comunali di Milano. Nell’inchiesta viene coinvolto l’europarlamentare Carlo Fidanza che si è autosospeso dal partito affermando che "non c'è e non c'è mai stato in me alcun atteggiamento estremista, razzista o antisemita” e aggiungendo di “non aver mai avuto finanziamenti irregolari”. Per chi conosce Carlo Fidanza, sa che in molti anni di politica non ha mai fatto dichiarazioni né avuto comportamenti di vicinanza a mondi estremisti né prima di oggi è stato toccato da indagini. Ancora prima che si sappia l’esito dell’indagine aperta dalla Procura, secondo un mal costume diffuso quando si ha a che fare con persone e politici di destra, è già stato ritenuto colpevole da alcuni media per l’accusa di finanziamento illecito. Il paradosso è che in contemporanea l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, condannato a 13 anni e 2 mesi, è stato difeso e giudicato innocente da molte delle stesse persone che accusano Fidanza, testimoniando un doppio standard che è duro a morire. Eppure nel servizio mandato in onda da Fanpage, ci sono vari elementi che destano perplessità: anzitutto le modalità di realizzazione con un’inchiesta costituita da più di 100 ore di registrazione di cui sono stati mandati in onda pochi minuti montati ad hoc. Fidanza ha affermato di aver ripetuto in più occasioni al finto imprenditore di finanziare il partito in modo regolare e, una volta incontrato in ufficio, alla richiesta di pagare in nero, l’eurodeputato si sarebbe rifiutato facendo sfumare l’affare. Questa parte della registrazione non stata però andata in onda. Inoltre fa riflettere la tempistica dell’inchiesta a orologeria a pochi giorni dalle elezioni amministrative e pubblicata il giorno prima del silenzio elettorale. Non è un caso che sia uscita la settimana prima delle amministrative, così come non è un caso che sia emersa la vicenda di Morisi, anche lui giudicato colpevole ancora prima di sapere l’esito dell’indagine. Il tentativo di colpire il centrodestra, in particolare Fratelli d’Italia e Lega, è evidente. In realtà l’inchiesta di Fanpage si basa su un’altra persona che è Roberto Jonghi Lavarini. Si tratta di un personaggio marginale della destra milanese. Ascoltando il servizio sembra di avere a che fare con un esaltato che millanta contatti con la massoneria, i servizi segreti, dice di avere un proprio gruppo di informazione e sicurezza. Sostenere che questo personaggio (sconosciuto al di fuori dei circoli della politica milanese) e la sua cricca siano a capo di una “lobby nera”, è quantomeno fantasioso, così come affermare che influenzi FdI e addirittura la destra italiana. Le sue dichiarazioni sugli ebrei e le altre amenità non rappresentano né il partito di Giorgia Meloni né tanto meno la destra italiana. Il posizionamento del mondo conservatore su questi temi è chiaro così come la distanza da derive estremiste e da posizioni antisemite non è mai stata in discussione e la scelta di Carlo Fidanza di autosospendersi dal partito dimostra la sua piena volontà di fare chiarezza su un'inchiesta che ha tanti punti interrogativi.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 

Simul stabunt, simul cadent. Salvini e Meloni nei guai insieme tra i casi Morisi e Fidanza. Claudia Fusani su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. La prende in braccio, la tira su – con qualche tentennamento del bicipite – e sorridono insieme in posa selfie. Sarebbe bello, per Giorgia e Matteo, chiudere così, almeno per le prossime 60 ore, l’anomala campagna elettorale delle amministrative 2021. Ieri, per fortuna, a Spinaceto, periferia della Capitale, si sono visti tutti e tutti insieme. Nessun problema di ritardi con treni ed aerei come invece era successo il giorno prima tra molti nervosismi nella conferenza stampa gemella di fine campagna a Milano. I due leader hanno provato a cancellare tutto con quell’abbraccio da “gigante e la bambina”. Anche se l’originale – 2012, auditorium della Conciliazione, congresso fondativo di Fratelli d’Italia – tra Guido Crosetto e Giorgia Meloni è e resta inimitabile. Il problema è che dietro quell’abbraccio stavolta c’è la condivisone di uno status politico oltreché umano. Che l’altro giorno Silvio Berlusconi ha sintetizzato con un lapidario: «Salvini e Meloni non potranno mai essere premier». Affermazione subito smentita ma con il pregio della chiarezza della verità. Perché questi ultimi giorni hanno messo a nudo una verità che aleggia da tempo ma non era ancora tempo di tirare fuori: Giorgia e Matteo non hanno capito il vento e hanno perso l’occasione. Simul stabunt, simul cadent, stanno insieme e cadranno insieme. Con sfumature e destini diversi. Però. La pandemia ha messo in evidenza che i nazionalismi, con tutto quello che si portano dietro, non possono essere risorse. Le elezioni europee, prima ancora della pandemia, e i risultati in Germania adesso dimostrano che le destre non hanno sufficiente cittadinanza per ambire a ruoli di governo. Meloni è andata avanti dritta lungo questa strada. Ha rivendicato “coerenza”: è diventata presidente del partito dei Conservatori europei sponsorizzata da polacchi e ungheresi; è rimasta orgogliosamente fuori dal governo Draghi. Ora però per lei, come ha ben spiegato il medievalista Franco Cardini intellettuale curioso della destra, è scritto un destino da “perdente di successo”. Lei è brava e simpatica. Piace. Ma intorno ha il deserto di una classe dirigente che non si è mai affrancata dal milieu di una destra nazionalista, razzista e sessista. E non è casuale se dopo Cardini ieri l’inchiesta di Fanpage ha documentato non tanto i sospetti di finanziamento illecito della campagna elettorale su Milano ma il becerume nazi-fascista dei ritrovi al bar di quelli di Fratelli d’Italia. Carlo Fidanza, l’europarlamentare meloniano che, secondo il video di Fanpage, avrebbe gestito o comunque sarebbe stato a conoscenza del sistema del finanziamento illecito, ieri si è autosospeso dal partito negando ogni addebito e appellandosi al fatto che è stato fatto «un montaggio mirato di almeno cento ore di girato» dove sarebbe chiaro, invece, che Fidanza non ha mai incentivato certi metodi. Su epiteti, modi di dire, risate alle spalle di giornalisti non amici (come Berizzi di Repubblica), Fidanza si è scusato derubricando il tutto a modi di dire senza alcuna sostanza. Ed è già qui il problema: il significato delle parole. Che vengono pronunciate, a cui non si dà peso e che però innescano comportamenti conseguenti. Simul stabunt, simul cadent si diceva. Il fatto è che fare campagna elettorale ai tempi della pandemia e del governo Draghi ha messo a nudo tutti i limiti della destra di Salvini e Meloni. Loro si offendono se la definisci “sovranista” e “antieuropeista” e quindi no vax e no pass e no euro nelle sue tante declinazioni che di quelle categorie sono alcuni aspetti specifici. Per Meloni, quindi, molti pronosticano un futuro da Marine Le pen italiana: 15-20% (che è sempre tanto) ma mai sufficiente per governare. Un po’ diversa la situazione di Salvini. Il leader della Lega ha capito che l’aggettivo “moderato” deve diventare “sostanziale” se si tratta di ambire alla premiership di un paese fondatore dell’Europa. La decisione di appoggiare il governo Draghi è tutta qua: un investimento per il futuro, per il “centrodestra di governo”, magari verso il Ppe. Ma Salvini, Morisi o non Morisi, Bestia o non Bestia, non ce l’ha fatta a lasciare da parte le scorie della destra. Sette mesi dentro anche contro il governo lo hanno logorato. E l’inchiesta Morisi altro non è che l’inchiesta gemella di quella che vede protagonista Fidanza: il cartellino giallo che oltre non possono andare. A meno che non cambino. A meno che non accettino l’offerta di Berlusconi che ieri sulla pagine de Il Giornale ha ben spiegato perché «senza Forza Italia, senza la forza liberal-moderata-europeista, senza il Zentrum alla tedesca ancorato nel centro destra ma anche nella grande famiglia del Partito popolare europeo, quei due non vanno da nessuna parte». Potrebbe quindi essere troppo tardi per correggere la propria storia. Da qui la mestizia dell’abbraccio di ieri. Siamo arrivati così all’ultimo giorno di una campagna elettorale amministrativa molto nervosa. Diciamolo chiaro: in palio non ci sono solo i 1200 sindaci e relative giunte. In verità queste amministrative mettono in palio una nuova geografia politica. Al Nazareno, la casa del Pd, si aspettano colpi di coda dello scontro interno alla Lega, ma i più esperti (ad esempio Franceschini) avvertono che se mai ci saranno, verrebbero regolati dopo febbraio, ovvero dopo l’elezione del Capo dello Stato. Sono tanti gli indicatori che dovranno essere pesati a partire da lunedì sera. A destra e a sinistra. Nel centrosinistra occhi puntati sulle percentuali del M5S a Roma e a Torino, dopo i bagni di folla richiamati dal tour di Conte: il movimento sarà ancora vivo e continuerà ad essere un interlocutore credibile per gli alleati? Che farà Grillo? Analogo confronto, sempre nel Pd, tra le liste di Roma e Torino: nella capitale sabauda si è fatto avanti un partito più autonomo e fortemente anti 5 stelle, in assoluta controtendenza nazionale; a Roma il centrosinistra è diviso in tre, Calenda, Gualtieri e Raggi. Occhi puntati sul confronto muscolare nel centrodestra a Milano: riuscirà Giorgia Meloni a battere la Lega giocando nella sua storica roccaforte? Un eventuale sorpasso di Fratelli d’Italia acuirebbe senza dubbio i problemi di Salvini e metterebbe sempre più Meloni nel mirino. Così come la tenuta di Forza Italia oltre il 5% manderebbe all’aria i progetti egemonici di Salvini sul partito di Berlusconi. Che infatti ha sempre congelato le pretese sul partito unico. Altro quesito molto attenzionato riguarderà Calenda: quale sarà la percentuale finale del leader di Azione nella Capitale? Nel caso fossero confermate le percentuali attribuite dai sondaggi, il prossimo passo dell’ex ministro riguarderebbe la costituzione di un polo centrista, con ricadute che si farebbero sentire anche dalle parti del Nazareno. Letta, infatti, per una fortuita congiuntura astrale, rischia di essere il vincitore di questa tornata elettorale. Ma per fare cosa? E andare dove? Verso la sinistra, come vorrebbero Bersani ma anche Orlando e Provenzano? O verso il centro progressista di Renzi e Calenda? Poi dipenderà tutto, come sempre, dalla legge elettorale. I fan del proporzionale stanno crescendo a vista d’occhio.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Marcello Sorgi per “La Stampa” il 2 ottobre 2021. Un partito che ha nelle sue file due tipi come Carlo Fidanza e Roberto Jonghi Lavarini, il primo autospeso dopo le rivelazioni dell'inchiesta di Fanpage, entrambi difesi dalla leader Meloni, può aspirare alla guida del governo? Quasi quasi verrebbe da concordare con Berlusconi, che i suoi alleati li conosce bene, ed esclude, per loro, un futuro a Palazzo Chigi. Anche se le rivelazioni che riguardano i due partiti hanno effetti diversi. Nel caso di FdI, infatti, oltre al dubbio sulla disponibilità a finanziamenti illeciti di campagne elettorali, emerge la storica carenza di dirigenti politici della destra. Fini almeno fece un tentativo, tra molte resistenze interne, di innestare nel corpaccione del partito post-fascista qualche figura di intellettuale che avrebbe dovuto scolorire l'anima più dura dell'ex-Msi. Meloni invece, pur tenendosi i reduci dell'esperienza di Alleanza nazionale, tal che La Russa è oggi considerato il numero due di FdI, ha voluto intorno a sé la generazione nuova della destra giovanile, senza alcun riguardo per le biografie personali e per il passato non sempre esemplare. Da questo punto di vista i due casi di Fidanza e Jonghi Lavarini sono emblematici. Giovani nostalgici del fascismo e in qualche caso anche del nazismo, assurti in fretta, per mancanza di competitors interni nel partito, a incarichi di responsabilità istituzionale, come la guida della pattuglia di eletti al Parlamento europeo. Ora che il velo è caduto, non sorprende che, conoscendo il rigore di Bruxelles e Strasburgo su certi argomenti, Fidanza sia corso ad autosospendersi, sperando di evitare conseguenze più serie. Ma dietro a questo caso c'è una questione aperta che Meloni, presto o tardi, non potrà eludere: perché diversamente da Alleanza Nazionale, il partito di Fini che nacque sulla base di una pubblica abiura di ogni nostalgia del fascismo, Fratelli d'Italia non ha mai voluto affrontare pubblicamente il problema. Dando per scontato che ci avevano pensato i fratelli maggiori di An. Ma non esplicitando mai chiaramente se le conclusioni a cui erano giunti nello storico congresso di Fiuggi del 1994 siano ancora condivise, e in che modo, da FdI. Un'affermazione che, oltre a portare chiarezza, farebbe giustizia di certe inspiegabili carriere.

(ANSA il 2 ottobre 2021) - "Sono assolutamente indipendente e apartitico ma nessuno faccia finta di non conoscermi o, peggio, si permetta di offendere gratuitamente me e la comunità di veri patrioti che rappresento": è quanto ha scritto Roberto Jonghi Lavarini, il 'barone nero' coinvolto nell'inchiesta di Fanpage sui finanziamenti a Fratelli d'Italia, postando foto con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. "Il 5% di voti della "destra radicale" fa gola a tutti ed è indispensabile per vincere qualunque sfida bipolare, nei comuni e nelle regioni, come alle elezioni politiche", ha aggiunto. Jonghi Lavarini in una nota ha poi ricordato di non essere iscritto "a Fratelli d'Italia e a nessun altro partito". "Alle elezioni politiche del 2018 ero candidato in FDI come indipendente - ha spiegato - Alle elezioni europee del 2019 ho sostenuto la Lega. Non ricopro alcun ruolo politico, tantomeno dirigenziale o istituzionale". Di Carlo Fidanza e Chiara Valcepina, esponenti di FdI entrambi coinvolti nell'inchiesta di Fanpage, "sono semplice sostenitore ed elettore, da libero patriota e cittadino. Sono socio solo di alcune associazioni di carattere culturale e sociale, non a fine di lucro, ma non ricopro alcuna carica particolare al loro interno".

(ANSA il 2 ottobre 2021) - "Nessuno ha dato o ricevuto soldi, punto: solo fumo senza arrosto, un fuoco di paglia, bolle di sapone...": lo afferma in un lungo comunicato dal titolo 'Note difensive' Roberto Jonghi Lavarini, il militante di estrema destra coinvolto nell'inchiesta di Fanpage sui finanziamenti a Fratelli d'Italia. Jonghi Lavarini spiega che al giornalista che si è finto imprenditore "tutti, io per primo, abbiamo sempre detto di sponsorizzare in maniera chiara e ufficiale qualche convegno, incontro, sala, pubblicità, facendo bonifici o pagando le fatture. Mai fatto, mentre insisteva sul tanto nero che voleva smaltire. Nessun candidato ha mai minimamente accettato questa soluzione". "Il taglio e cuci visivo della presunta inchiesta - prosegue - è assolutamente strumentale, ridicolo, malevolo, estrapolato dal contesto privato, informale e, ripeto, assolutamente goliardico degli incontri. Tanto fumo per nulla quindi. Peccato non abbia filmato le sue proposte oscene respinte chiaramente al mittente".

(ANSA il 2 ottobre 2021) - "Non appartengo a nessuna loggia massonica o associazione segreta, anzi, pur conoscendo diversi massoni, tutti ne conoscono la mia contrarietà e opposizione. Anche perché il 90% della massoneria italiana e notoriamente antifascista e di sinistra, oggi entusiasti sostenitori del governo Draghi": è quanto ha scritto in un lungo comunicato dal titolo 'Note difensive' scritto da Roberto Jonghi Lavarini, il militante di estrema destra coinvolto nell'inchiesta di Fanpage sui finanziamenti a Fratelli d'Italia. Jonghi Lavarini spiega di appartenere a "diversi ordini cavallereschi cristiani" e precisa che il "gruppo esoterico" da lui nominato nel video di Fanpage "è solo una chat whatsapp, molto eterogenea, di appassionati di miti, tradizioni, misteri, ufo, magia, castelli infestati da fantasmi, Evola e Guenon, come Atlantide e le Piramidi, lo Yoga ed il Tibet. E, comunque, non siamo ancora riusciti a vederci di persona".

Nello Trocchia per “Domani” il 3 ottobre 2021. Tra citazioni di Gabriele D’Annunzio, insulti e attacchi a Domani, foto richiamanti la X Mas, il barone nero smentisce Giorgia Meloni. Dopo l’inchiesta sull’onda nera dei Fratelli d’Italia, realizzata da Fanpage, la leader di Fdi si è affrettata a prendere le distanze da Roberto Jonghi Lavarini, il barone nero, condannato in primo grado per apologia di fascismo. È l’uomo che parlava di “lavatrici” per finanziare la campagna elettorale. «In Fratelli d’Italia non c’è spazio per razzisti, antisemiti e per paranazisti. Lo sapete benissimo, tant’è che le persone ritratte in quel video sono state allontanate da Fratelli d’Italia. Se qualcuno le ha ricontattate per ravanare dieci voti di preferenza secondo me ha fatto un errore gravissimo», dice Meloni. Lavarini è stato dimenticato e scaricato. Eppure il barone nero, nel 2018, in realtà è stato candidato non eletto alla camera dei deputati proprio per Fdi ed era ritratto anche in una foto con la leader. Solo poi si è avvicinato alla Lega e, a sentire la stessa Meloni, è stato scaricato da Fratelli d’Italia. Proviamo a chiamare il barone nero, ma non ci risponde. Così gli scriviamo su Whatsapp. Quando gli riportiamo la frase di Meloni, ci risponde con una vignetta. C’è un barone a cavallo, è lui, e dietro due galoppini che portano una bandiera di “Nordestra”, il gruppiscolo di Lavarini creato dopo la chiusura di Far fronte. Sono in cammino verso un castello dove spunta la regina, Giorgia Meloni, con sotto la scritta “Casa dei Patrioti”. Chiediamo a Lavarini una spiegazione. «Lo scorso maggio, al mio riavvicinamento a Fdi, con Meloni informata e concorde, un noto vignettista di destra, Renato Santin, dedicò persino questa vignetta», scrive il barone nero. Ma Meloni è stata informata da chi del suo riavvicinamento? «Da me, Fidanza e Ignazio La Russa che conosco dal 1986», scrive Lavarini. Ma è sicuro che ha parlato con entrambi? «Fidanza e La Russa», risponde il barone, «non sono uno sconosciuto a destra, se mi allontano o riavvicino a un partito lo sanno subito tutti...», aggiunge. Tutti sapevano bene, ribadisce. L’onorevole Ignazio La Russa chiarisce: «Io ho conosciuto i suoi ottimi genitori, proprio perché lo conosciamo bene, mi è toccato allontanarlo da Alleanza nazionale otto anni fa per atteggiamenti sopra le righe». In realtà, nel 2018 il barone viene candidato e immortalato in una foto con Giorgia Meloni. «Candidato come indipendente poi è emigrato in altri lidi (alla Lega, ndr)», spiega La Russa. Ma poi si è riavvicinato o no? «Mai parlato con Giorgia di lui e nemmeno con lui di un suo riavvicinamento a Fdi». In questa girandola di smentite, di sicuro ci sono gli incontri di Lavarini con un esponente di vertice del partito meloniano, Carlo Fidanza. Torniamo dunque al barone che, dopo aver smentito Meloni, si ammutolisce sul resto. Anche se fascista, nostalgico e camerata, su quanto emerso in merito a “lavatrici” e finanziamenti in nero, preferisce di gran lunga il silenzio. Ma lo fa a modo suo, citando la X Mas. Il barone nero viene indicato dal parlamentare europeo di Fdi Carlo Fidanza come quello che «trova quattro, cinque professionisti che fatturano», in modo da consentire il pagamento in nero. Lo stesso barone, nostalgico del duce, il cui busto aveva esposto sulla scrivania, parla di «lavatrici» per finanziare la campagna elettorale. Un meccanismo semplice per fare entrare soldi in nero e farli usciti puliti. Quando lo interroghiamo sul punto il barone risponde con la sua foto. All’altezza della bocca si legge «silenzio stampa». Tra le mani stringe un calendario con questa citazione: «Le stelle brillano soltanto in notte oscura». È un chiaro riferimento alla X Mas, la flottiglia della Rsi, impegnata, tra il 1943 e il 1945, nel contrasto agli alleati e ai partigiani, macchiatasi di nefandezze e orrori di guerra. Così gli facciamo una serie di domande. Le lavatrici alle quali fa riferimento sono organizzate o millantate? I commercialisti esistono o no? Lei è pentito di questa offerta di pagamenti in nero? A questo punto il barone non resiste e mentre annuncia comunicati ufficiali e confronti con avvocati, dice: «Tanto rumore per nulla, tanto fumo e niente arrosto. Solo battute, millanterie e goliardate da bar. È un chiaro, provocatorio e strumentale, attacco politico alla destra e al centrodestra, a due giorni dal voto». Ricordiamo al barone che la sua frase è un rimando alla X Mas, un’ispirazione che richiama una storia che la costituzione e la resistenza hanno cancellato. Pubblichiamo sul nostro sito la prima parte dell’intervista al barone, con la sua difesa di circostanza sulle lavatrici. Quando la legge ci manda un commento: «Che articolo di merda», con la foto di una macchina “spargimerda”, di quelle che distribuiscono compost sul terreno. «Ecco un vero giornale militante di sinistra che fa corretta opera di informazione, grazie», scrive. Non pago, manda un’altra foto. C’è un mostro soffocato da una colata di fango e sterco con il commento «Ecco un giornalista militante di sinistra sotto le elezioni, mi raccomando credergli: scrivono sempre cose corrette, vere e giuste, che bravi...». Si congeda con una poesia di Gabriele D’Annunzio. I versi in mezzo alla «merda». Gli chiediamo di rispondere alle nostre domande senza essere evasivo e offensivo, ci dice che sono «provocazioni. Lei è un militante di sinistra che ha sempre lavorato per giornali di sinistra, una penna rossa». Il barone nero preferisce la litania stanca delle domande faziose, la strada più breve per evitare di rispondere su lavatrici e pagamenti in nero.

Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 3 ottobre 2021. Da Cuore Nero - una specie di centro sociale di estrema destra chiuso nel 2010 - ai locali alla moda di Brera. Dalle foto con i rampolli delle famiglie calabresi che gestiscono lo spaccio di droga a Quarto Oggiaro all'inseguimento di un seggio in parlamento. Passando dai patti con i capi ultrà di Inter e Milan e dai saluti romani del Comitato Sergio Ramelli: i camerati che, ogni 29 aprile, ricordano con il "presente" e le braccia tese lo studente del Fronte della Gioventù ucciso nel 1975 da un gruppo di Avanguardia operaia. In quattordici anni la "brigata nera" è rimasta sempre lì: conservando le posizioni. E guadagnandone di nuove. All'epoca c'era ancora An, poi la fase della Destra di Storace, poi Fratelli d'Italia. Il barone nero Roberto Jonghi Lavarini ieri come oggi, e così il più presentabile (fino agli "Heil Hitler" della cena filmata da Fanpage; ora lo è molto meno) Carlo Fidanza. Amico, ex ultrà interista passato al doppiopetto e ai lustri del parlamento europeo, di rito meloniano. La "brigata" in tutto questo tempo si è mantenuta e ha figliato. «È semplice: dovete dire a più gente possibile di mettere la croce qui e basta». Le istruzioni per il voto - nella coalizione che sostiene il candidato con la pistola Luca Bernardo - sono arrivate qualche sera fa insieme agli spritz e le tartine da una donna del gruppo immortalato nell'inchiesta su FdI andata in onda a PiazzaPulita. Era lunedì 27 settembre - cinque giorni dopo la cena del 22. Parte della comitiva si era data appuntamento per un aperitivo elettorale rinforzato nel dehor di un locale nell'elegante piazza del Carmine. Assenti Fidanza e Lavarini, c'erano i "giovani": Federico Sagramoso, Monica d'Alessio, Chiara Valcepina e Annalisa Pini. Lì le braccia sono rimaste appoggiate ai tavolini, e niente "boia chi molla", nè show, né provocazioni, nessun riferimento agli ebrei o al "black" inteso in senso finanziario. Chissà se e quanto ne sanno, loro, la seconda generazione, del prima. Di quando un incendio doloso nel 2007 distrusse la sede di Cuore Nero in zona Certosa: era tutto pronto per la nascita di una base "comunitaria", un circolo in grado di aggregare le diverse anime della destra radicale milanese. L'idea era venuta a Jonghi Lavarini, ex presidente di Zona 3, già dirigente di An (terzo dei non eletti, all'epoca, a Palazzo Marino), e all'ex capo ultrà della curva nord dell'Inter Alessandro Todisco, detto "Todo", già leader italiano dei violenti Hammerskin, una formazione nata negli Usa da una scissione del Ku Klux Klan. Che accoppiata: un broker immobiliare di buona famiglia forse nobile («sono figlio di Cesare Jonghi Lavarini dei baroni di Ornavass »), sostenitore delle "destre germaniche", del partito boero sudafricano pro-apartheid e orgoglioso appartenente alla Fondazione Augusto Pinochet; e un teppista da stadio, pregiudicato (un anno e sei mesi per odio razziale e partecipazione a struttura clandestina), un tempo violentissimo come il fratello Franco quando era leader degli Irriducibili e proprietario della linea di abbigliamento curvaiola "Calci&Pugni". Ma Lavarini non è uno che si formalizza, anzi. Condannato anche lui a due anni per apologia di fascismo («sono fiero di avere insegnato ai miei figli il saluto romano fin da piccoli»), fecero il giro del web le sue foto in compagnia di Salvatore Di Giovine, detto "zio Salva", della nota famiglia calabrese implicata nel traffico di droga. E poi Ciccio Crisafulli, erede del boss mafioso Biagio "Dentino" Crisafulli. Camerata dichiarato, il rampollo Crisafulli frequentava Cuore Nero come il cugino James: a lui fu dedicata la maglietta "Quarto Oggiaro stile di vita" prodotta dalla "Calci&Pugni" di Todisco. A fare da cerniera tra le teste rasate e la destra-destra milanese di palazzo era sempre lui: il "barone nero". Rapporti di lunga data con Lino Guaglianone, ex tesoriere dei Nar, che infatti di Cuore nero è stato sponsor. Il pezzo da novanta e il terminale politico di "Joghi" - come lo chiamano i maligni - e della "brigata", a un certo punto diventa Carlo Fidanza. L'"onorevole". Tra gli ex An più vicini all'ultradestra insieme a Paola Frassinetti. Fidanza è quello che Lavarini avrebbe voluto diventare. Ma i tentativi di entrare nel palazzo al "barone" sono sempre andati male. L'ultimo: nel 2018, alla Camera con FdI, off course. Due anni dopo, la condanna per apologia del fascismo. Prima e in mezzo a questa parabola ci sono due appuntamenti che hanno segnato l'ultima stagione "di gloria" della neofascisteria milanese. I mille saluti romani del 29 aprile 2017 al campo 10 del cimitero maggiore per i morti della Rsi (beffando il divieto della prefettura). E il corteo del 29 aprile 2019 per Sergio Ramelli. Anche qui le autorità avevano imposto lo stop: ma i camerati del "Comitato Ramelli" sfidarono lo Stato. Incidenti con le forze dell'ordine, denunciati. In piazza, ex picchiatori, ultrà e parlamentari. Il finale? Il solito: saluti romani e il "presente" fascista. Poi la "brigata nera" si è messa a pensare alle elezioni. Le europee, un mese dopo, e le amministrative di domani a Milano.

L'avvertimento di Jonghi Lavarini. Caso FdI-Fidanza, il ‘barone nero’ in foto con Meloni e Salvini: “Non facciano finta di non conoscermi”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Roberto Jonghi Lavarini, il ‘barone nero’ al centro dell’inchiesta di Fanpage sui legami della destra milanese con gruppi neofascisti ed estremisti e sui presunti finanziamenti in nero per la campagna elettorale di Milano della candidata Chiara Valcepina, non ci sta a essere scaricato. Candidato alla Camera in Fratelli d’Italia “come indipendente”, come ricordava lo stesso 49enne già condannato a due anni per apologia del fascismo, Jonghi Lavarini getta infatti ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche già accesissime rivendicando la sua conoscenza con i vertici della destra sovranista italiana, ovvero Fratelli d’Italia e Lega. Il ‘barone nero’ pubblica infatti due foto su Instagram in cui è immortalato in compagnia di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. “Sono assolutamente indipendente e apartitico ma nessuno faccia finta di non conoscermi o, peggio, si permetta di offendere gratuitamente me e la comunità di veri patrioti che rappresento”, è il chiaro avvertimento ai due leader. “Il 5% di voti della “destra radicale” fa gola a tutti ed è indispensabile per vincere qualunque sfida bipolare, nei comuni e nelle regioni, come alle elezioni politiche”, ricorda ancora Jonghi Lavarini rivendicando il suo valore elettorale.

FDI SCARICA IL ‘BARONE’ – Una reazione a quanto detto dalla stessa Meloni a Carlo Fidanza, eurodeputato di Fratelli d’Italia che dopo la pubblicazione del video si è autosospeso. Una telefonata furiosa in cui la leader di FdI ha ripreso duramente il capodelegazione del partito a Bruxelles: “Tu sai che io su queste cose divento pazza, ma come si fa a frequentare certa gente per prendere 30-40 preferenze in più?”.

Ma sempre venerdì anche Ignazio La Russa, numero due del partito, aveva preso le distanze da Jonghi Lavarini, definendolo “un personaggio che a Milano tutti considerano una macchietta, un nostalgico vetero monarchico, uno che ti fa pure ridere ma che non può essere un interlocutore di un partito, non a caso lo abbiamo espulso da An”.

IL COMPLOTTO – Da Fratelli d’Italia intanto la reazione all’inchiesta di Fanpage e a quella della Procura di Milano, con i pm che hanno aperto un fascicolo per riciclaggio e finanziamento illecito, è quella di gridare al “complotto”.

Un video che per Giorgia Meloni è “una polpetta avvelenata a pochi giorni dal voto amministrativo”, dice la numero uno del partito da Vittoria, nel Ragusano, dove si vota il prossimo 10 ottobre. “Tre anni di giornalista infiltrato – aggiunge Meloni – per mandare in onda 10 minuti di video nell’ultimo giorno di campagna elettorale e sulle pagine dei giornali nel giorno del silenzio, in uno stato di diritto non sarebbe mai accaduto. Continuo a chiedere al direttore di Fanpage le oltre 100 ore di girato per capire come si comportano i miei dirigenti”.

Ma nel partito sono in molti ad evocare il sospetto di un “complotto” contro Fratelli d’Italia a pochi giorni da un voto decisivo, anche per capire le gerarchie nel centrodestra. Lo dice apertamente il deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli, uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni. A Repubblica spiega infatti che quella di Fanpage appare anche a lui una “polpetta avvelenata”. “Penso non sia giusto tirarle fuori così, a pochi giorni dal voto”, continua Rampelli, che l’ipotesi di un complotto la definisce “un sospetto legittimo”.

LA DIFESA DI JONGHI LAVARINI – Ma il ‘barone nero’ non rivendica solo la vicinanza a Meloni e Salvini. L’ex candidato di FdI si difende anche dalle accuse arrivate col video di Fanpage e rivendica ima un comunicato dal titolo ‘Note difensive’ di non appartenere ad alcuna “loggia massonica o associazione segreta, anzi, pur conoscendo diversi massoni, tutti ne conoscono la mia contrarietà e opposizione. Anche perché il 90% della massoneria italiana e notoriamente antifascista e di sinistra, oggi entusiasti sostenitori del governo Draghi”.

Nessuno “ha dato o ricevuto soldi, punto: solo fumo senza arrosto, un fuoco di paglia, bolle di sapone…”, sottolinea ancora Jonghi Lavarini. “Il taglio e cuci visivo della presunta inchiesta – prosegue – è assolutamente strumentale, ridicolo, malevolo, estrapolato dal contesto privato, informale e, ripeto, assolutamente goliardico degli incontri”, si difende.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

 Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 2 ottobre 2021. Il terremoto arriva alle nove di sera di giovedì. E quella che era stata una campagna elettorale faticosa e tesa, diventa per Giorgia Meloni «la peggiore di sempre: incattivita, feroce, sospetta». Il caso aperto dall'inchiesta di Fanpage , che ha portato all'apertura di un'inchiesta, piomba come un Tir senza freni su Fratelli d'Italia e la leader con i suoi si dice «avvilita, sconfortata: una persona dedica tutta la vita a fare politica seriamente e poi ti arriva roba così... È sconfortante: se non sei ricattabile, allora devi morire. Non la puoi salvare l'Italia così». Ed è la rabbia a sera a prevalere, l'indignazione per quella che nel partito considerano un'inchiesta «ad orologeria», sparata un giorno prima del silenzio elettorale «per non farci replicare», ancora una volta mirata a colpire il centrodestra dopo il caso Morisi visto pure con molto sospetto, a senso unico perché «come mai non hanno fatto le loro belle inchieste sulle mascherine di Arcuri?» protesta la leader, perché «non una bella intervista al cane di Cirinnà?», ironizza Ignazio La Russa. Tre anni di indagine giornalistica e poi «tirano fuori dieci minuti: e le altre 100 ore? Perché non me le fanno vedere?», quasi grida la Meloni con i suoi. Dopo però aver agito. La fa infuriare che si sia preso sul serio «un personaggio che - assicura La Russa - a Milano tutti considerano una macchietta», quel «Barone nero» Jonghi Lavarini che è «un nostalgico vetero monarchico, uno che ti fa pure ridere ma che non può essere un interlocutore di un partito, non a caso lo abbiamo espulso da An» e, dicono dal partito, è forse «più vicino» alla Lega. Ma la fa infuriare, in questo che vede comunque come una sorta di complotto, anche la «leggerezza» di Carlo Fidanza. Sa bene la leader di FdI che il danno più grosso le può arrivare da un presunto finanziamento illecito al partito ancor più che da «ridicoli teatrini di gente che non vogliamo con noi, gente che dice idiozie lontanissime dal nostro pensare e che noi teniamo alla larga», tanto più quello a sfondo antisemita «sentimenti che respingiamo con tutte le forze» perché «noi siamo amici della comunità ebraica» giura La Russa. Così, ieri mattina, dopo aver ricevuto un whatsApp in cui il suo capodelegazione al Parlamento europeo le scriveva che «sono nelle tue mani, è imperdonabile quello che ho fatto, me ne rendo conto, decidi tu cosa devo fare», lo ha chiamato e urlando gli ha chiesto conto di tutto, non prima di avergli intimato di autosospendersi immediatamente: «Tu sai che io su queste cose divento pazza, ma come si fa a frequentare certa gente per prendere 30-40 preferenze in più? Come si fa a parlare di "black" e assurdità simili?». Lui, dicono, si sarebbe giustificato su tutti i fronti: le battute antisemite? «Stavo prendendo in giro Jonghi, ne facevo il verso». I pagamenti in nero? «Non hanno mandato in onda tutto, la verità: quello offriva soldi su soldi e io dicevo no... Ho solo detto che potevano pagare una cena, un aperitivo elettorale...». Parole che la Meloni vuole valutare per bene, perché di una persona «che conosco da una vita» si fida, ma la mano sul fuoco in certi casi è sempre saggio non metterla. Per questo pretende «l'intera registrazione, lo sbobinato di 100 ore. Perché se c'è da prendere provvedimenti lo faccio in un minuto, non ho paura di cacciare gente dal partito. Ma se è una trappola, se c'è chi vuole incastrare i miei, voglio saperlo...». E ora il voto: «Non credo saremo danneggiati: sto ricevendo messaggi su messaggi di gente schifata da questa operazione, dal falso moralismo di Letta che difende un condannato a 13 anni, di Giarrusso che dà lezioni nonostante le storie con la lobby del tabacco». E ancora rabbia: «Uno fa tanto e poi...».

Francesco Olivo per “La Stampa” il 3 ottobre 2021. La domanda gliela pongono ormai senza sosta: «Perché non condanni il fascismo?». Il caso dei rapporti del dirigente di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza con gli estremisti di destra di Milano, oltre a suscitare un senso di assedio, mette Giorgia Meloni davanti al dilemma: fare il passo definitivo rinnegando, senza ambiguità dialettiche, il regime di Mussolini? Chi la conosce bene è sicuro che questo passo, la leader di Fratelli d’Italia, non lo farà, almeno per ora, non tanto per timore di non essere seguita dai suoi o di perdere voti («10 preferenze», ha detto venerdì Meloni riferendosi ai voti degli estremisti), quanto per paura di ricalcare le orme di Gianfranco Fini, considerato il grande traditore e distruttore della destra italiana. Fratelli d’Italia nasce proprio con lo scopo di ricostruire quello che, secondo la visione dei fondatori, Fini ha distrutto, da un punto di vista elettorale, ma soprattutto di valori. La svolta di Fiuggi e soprattutto la frase «il fascismo male assoluto», pronunciata (anche se non proprio letteralmente) dal leader di Alleanza Nazionale durante una visita a Gerusalemme sono un tabù, una strada che Meloni non vuole (o non può) ripercorrere in questo momento. «Se Giorgia abiurasse il fascismo oggi, vorrebbe dire dare ragione a Fini 26 anni dopo la svolta di Fiuggi», dice un esponente del partito. Altro tema è quello generazionale, dirigenti come Andrea Del Mastro, Giovanni Donzelli, Augusta Montaruli e lo stesso Fidanza, formano un blocco di giovani di cui Meloni si fida e che «non ha mai vissuto gli anni del ghetto che noi “vecchi” abbiamo visto – ragiona uno storico esponente della destra italiana – così, a differenza nostra, non hanno paura di tornarci». Fratelli d’Italia è una formazione verticistica, ma con la crescita esponenziale di questi ultimi anni la base si è allargata e controllarla da Roma è complicato. Meloni sa benissimo che quello dei rapporti con l’estrema destra è un nodo fondamentale da risolvere se davvero punta a Palazzo Chigi.

Dal partito spiegano che nell’ultimo anno e mezzo sono stati espulsi centinaia di iscritti anche a costo di rinunciare a pacchetti di voti: «Chi viene beccato con busti del Duce e o posta sui social slogan razzisti lo accompagniamo alla porta». Viene citato come esempio il caso di Enrico Forzese, esponente con un buon pacchetto di voti, escluso dalle liste delle comunali e municipali di Torino, per eccessi “nostalgici”. Una volta chiuse le urne, la leader vuole portare avanti con più forza questa operazione. La questione ideologica non è osservata soltanto in Italia, Meloni è la presidente dei Conservatori e riformisti al parlamento europeo e il suo profilo deve essere al di sopra del sospetto di estremismo. L’urgenza ora è sostituire Fidanza, dimessosi anche dall’incarico di capodelegazione, il suo posto dovrebbe essere preso da Raffaele Fitto. Quello che è certo è che il caso Fidanza fa male a Meloni, intanto perché mette in discussione la sua fiducia totale nei dirigenti della sua generazione e poi perché rischia di far vacillare, agli occhi dell’opinione pubblica, l’elemento cardine del partito: l’assoluta trasparenza della gestione economica. È un problema di immagine e non penale perché in via della Scrofa nessuno crede che ci saranno risvolti giudiziari per il presunto finanziamento illecito, che secondo Fidanza non si è mai verificato. Meloni ha scoperto la vicenda del video di Fanpage solo giovedì sera, mentre andava in onda Piazzapulita. La telefonata con Fidanza è stata molto dura nei toni, anche perché sarebbe emerso che l’eurodeputato era stato avvisato sin dai mesi scorsi dell’interessamento dei giornalisti sui suoi rapporti con il Barone nero. Sarebbe stato un motivo in più per fare quello che Meloni chiede anche all’ultimo militante: evitare contatti imbarazzanti, affinché nessuno le debba chiedere ancora: «Cosa pensi del fascismo?».

Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2021. Il giorno dopo la bufera è anche il giorno prima del voto. Così i buoni motivi per evitare di rispondere alle domande che suggeriscono le immagini dell'inchiesta di Fanpage sono almeno due: il silenzio elettorale (imposto dalla legge) e la prudenza giudiziaria (raccomandata dai rispettivi avvocati). Così i tre protagonisti principali del videoracconto del giornalista travestito da imprenditore che per tre anni ha frequentato alcune figure della destra milanese, almeno per il momento, non forniscono una loro interpretazione autentica di frasi e dialoghi che spalancano la strada a pesanti dubbi politici e a un'iniziativa della magistratura e della Guardia di finanza milanese per fare luce su presunti canali illeciti di finanziamento della campagna elettorale. Tace Carlo Fidanza, eurodeputato e punto di riferimento importante di Fratelli d'Italia a Bruxelles, a Milano e a Roma. Non risponde Chiara Valcepina, la candidata per un posto da consigliere comunale a Milano attorno a cui gravita il gruppo avvicinato dal falso imprenditore. Dice di non poter parlare, ma fa partire una raffica di comunicati e messaggi (anche trasversali), Roberto Jonghi Lavarini, detto «il Barone nero», che nelle immagini appare molto attivo accanto a Fidanza nella campagna a sostegno dell'avvocato Valcepina. «Sono assolutamente indipendente e apartitico ma nessuno faccia finta di non conoscermi o, peggio, si permetta di offendere gratuitamente me e la comunità di veri patrioti che rappresento», posta su Instagram, accanto alle foto che lo ritraggono con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. E così sembra voler replicare a chi, come Ignazio La Russa, lo ha liquidato come «macchietta». Perché, aggiunge Jonghi Lavarini, «il 5% di voti della destra radicale fa gola a tutti ed è indispensabile per vincere». Quindi fa sapere: «Stiamo raccogliendo il lungo elenco di chi sarà denunciato per diffamazione aggravata a mezzo stampa e minacce sui social». A prendere le distanze, tuttavia, è anche Mery Azman, la candidata nel Municipio 3 a Milano che nel video di Fanpage viene indicata come «la candidata ebrea» perché vicina alla comunità: «Almeno in mia presenza, nonostante il clima scherzoso e poco politico, non vi è stato alcun atteggiamento apologetico né tantomeno razzistico - precisa a proposito di un'iniziativa elettorale alla quale ha partecipato - e gli esponenti di FdI presenti hanno semmai, parlando tra loro, preso le distanze da idee e comportamenti di Jonghi Lavarini descritto come un personaggio da non prendere mai sul serio e lontano da FdI». In effetti il «Barone nero» era stato già espulso da An, ricorda sempre La Russa, e successivamente aveva rotto polemicamente con Fratelli d'Italia, un partito troppo moderato e «centrista» per lui, salvo poi apparire come candidato alla Camera nel 2018, ma «come indipendente». Nel 2020 ha rimediato una condanna a due anni per apologia del fascismo per aver scandito in televisione le sue idee a dir poco nostalgiche del ventennio: «Il fascismo è stata una splendida epoca», «un goccino di olio di ricino è digestivo», «l'unico errore vero di Mussolini è che è stato troppo buono». Intanto Massimiliano Bastoni, consigliere comunale e regionale della Lega vicino agli ambienti della destra radicale milanese, rivela che il giornalista «spacciandosi per lobbista, ha avvicinato anche me promettendo finanziamenti illeciti per la mia campagna elettorale ma gli ho risposto che faccio tutto in regola e che non vendo i miei ideali. Ho registrato tutte le conversazioni e sono a disposizione della Procura». 

Pioggia di veleni e tranelli sui candidati moderati. Fabrizio Boschi il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sono scene già viste e riviste, eppure, chissà perché ci stupiscono ancora. Sono scene già viste e riviste, eppure, chissà perché ci stupiscono ancora. È almeno un ventennio, dalle inchieste fuffa su Berlusconi in avanti, che la sinistra, in prossimità delle elezioni, siano esse Politiche, Europee o Amministrative, cerca di tendere trappole al proprio avversario di turno con l'aiuto dei loro giudici compiacenti o dei giornalisti amici. E queste elezioni non hanno fatto eccezione. Anche stavolta, la melma riversata contro il centrodestra, Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia è stata notevole, attraverso imboscate giudiziarie e agguati mediatici. Magistrati e giornalisti negli ultimi mesi hanno frugato nella spazzatura in cerca del colpo grosso per azzoppare i partiti del centrodestra. Questa volta però il bottino è stato magro e c'è stato più fumo che arrosto. Dalla gogna per Morisi al video sul meloniano Fidanza, è il solito metodo di Pd e grillini per sgambettare gli avversari. Nel dicembre scorso la corsa a sindaco di Paolo Damilano, candidato del centrodestra a Torino, è iniziata con un trittico di atti vandalici contro le sue proprietà. Un raid nei suoi vigneti di Barolo dove gestisce la cantina di famiglia e uno nei due storici locali torinesi che ha rilevato, il pastificio Defilippis e il bar Zucca. Una scia di veleni intorno alla sua scelta di correre come sindaco. E qualche sera fa è stata vandalizzata pure la sede di «Torino Bellissima», la lista che lo sostiene, con scritte del tipo «capitalista di merda» e «no Tav, no delocalizzazioni, no green pass», con il simbolo della falce e martello. A giugno la candidatura di Enrico Michetti come sindaco del centrodestra a Roma era partita da poco meno di 12 ore e per l'avvocato erano già iniziati i problemi. Anzi per meglio dire era già partita la macchina del fango della sinistra. Puntuali come un orologio arrivarono le indiscrezioni della procura, anticipate dal sito di Repubblica, su indagini che riguardavano il candidato scelto dalla Meloni. Aleggiarono indiscrezioni di una doppia inchiesta di Anac e Corte dei Conti su un pacchetto di affidamenti ottenuto dalla Gazzetta Amministrativa srl del candidato sindaco tra il 2008 e il 2014, quando alla Regione c'era Renata Polverini. Curioso però che questo assalto giudiziario sia arrivato subito dopo l'annuncio della coalizione del centrodestra. In luglio scoppia il caso «pistola» per il candidato sindaco del centrodestra a Milano Luca Bernardo, voluto da Salvini, accusato di girare armato non solo per la città ma anche sul luogo di lavoro, l'ospedale Fatebenefratelli-Sacco, dove ricopre il ruolo di direttore del dipartimento di pediatria. «Scandalo» sollevato dal medico e consigliere regionale di +Europa Michele Usuelli. Bernardo disse di aver ottenuto anni prima un porto d'armi per difesa personale dopo aver subito minacce. Ma niente, la macchina del fango non si è riguardata nemmeno di questo. Quindici giorni fa a Napoli, Catello Maresca, candidato sindaco per il centrodestra, perde quattro liste in suo sostegno perché, a detta dell'ufficio elettorale del Comune, non sarebbero state consegnate in tempo e con la documentazione richiesta. Da lì un susseguirsi di denunce, ricorsi, sentenze che hanno portato il Consiglio di Stato ad escludere definitivamente quelle liste. Nomi di peso e un serbatoio di voti che avrebbe potuto fare la differenza. Il resto è storia di questi giorni. Prima il piatto con contorno di droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, che col passare delle ore appare sempre più come una panzana costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Infine, la polpetta avvelenata confezionata dal sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un «giornalista» con microfono nascosto si è finto sostenitore di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari, senza neppure riuscirci. Delle sue 100 ore di video rimangono solo 10 minuti, con frasi irrilevanti ed un mirabolante saluto romano. Fabrizio Boschi

Michele Serra per “la Repubblica” il 3 ottobre 2021. Il grande scalpore sollevato dall'inchiesta di Fanpage sulla destra milanese non ha ragione d'essere. È risaputo che gli italiani di estrema destra, non essendo poche migliaia, ma qualche milione (storicamente intorno al 10-15 per cento dell'elettorato) da qualche parte devono pure stare: e dove se non nel partito della Meloni, che ha ancora la fiamma di Almirante nel simbolo? La concorrenza del Salvini, più ducesco della Meloni, anche più screanzato, dunque molto attraente per i nostalgici, ha retto per qualche anno; ora i Fratelli d'Italia sembrano riprendersi ciò che loro spetta, diciamo così, per natura. A partire dalla stessa Meloni, lo stupore perbenista nel riconoscere nello stesso selfie un nostalgico di Hitler e chi si candida al governo del Paese con il centrodestra, è davvero ipocrita. Per dirla in una sola frase, per niente retorica, la destra italiana non ha mai fatto i conti con il fascismo. È una frase che vuol dire esattamente quello che dice. È un rendiconto oggettivo, non una polemica politica. È nella storia della Repubblica e in specie di quella che viene chiamata, impropriamente, Seconda Repubblica: da Berlusconi in poi, i saluti romani e i candidati neri sono parte organica del cosiddetto centrodestra. I minimi serbatoi di CasaPound e Forza Nuova non possono contenere, del vasto neofascismo italiano, che insignificanti scorie: e comunque, in molte città, anche queste scorie sono nel centrodestra. Che l'apologia del fascismo sia contro la legge, dispiace dirlo ma ormai è un formalismo inapplicabile: l'Italia pullula di memorabilia del Ventennio e di saluti romani. Più utile sarebbe che la destra italiana finalmente dicesse: è vero, abbiamo un problema. Ma preferisce fingere indignazione quando qualcuno mostra quello che tutti sanno.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 3 ottobre 2021. Non chiamatelo «destrologo», perché non è corretto e nemmeno serio. Chiamatelo scrittore senza troppe etichette. Ma Pietrangelo Buttafuoco, in trepida attesa per il prossimo romanzo, ("Sono cose che passano", La Nave di Teseo) è anche un osservatore intelligente di quel che accade nel mondo e in «quel» mondo che in gioventù è stato suo. Perciò merita alzare il telefono e chiedergli a brutto muso: che pensa di quel che sta accadendo a destra? Lui sospira e rilancia: «Se mi chiedete di Fanpage, nemmeno rispondo perché ne è evidente l'assoluta malafede e la strumentalità».

In che senso?

«Nel senso che se prendi una macchietta della politica, uno del circo della Zanzara, e ci costruisci attorno un film, è evidente la strumentalità. Ma di questo non parlo, perché non mi interessa.

Parliamo allora di Luca Morisi, abbattuto dai fantasmi social che lui stesso ha evocato? Non le sembra il più drammatico esempio di contrappasso?

«Più che un contrappasso per lui, direi per i suoi nemici. In fondo Morisi è stato coerente con il dettato del tempo corrente, tutto sesso, droga e rock & roll. E invece di sentirsi dire dai suoi nemici - caspita, è dei nostri! - questi hanno mugugnato peggio del peggior Braghettone. Il pavlovismo ha preso il sopravvento». 

Ma non è un problema politico, scusi, l'incapacità di fare i conti con la propria storia, nel caso di chi tresca con certi attrezzi nostalgici del passato peggiore? O con la propria cultura, quando si demonizzano comportamenti che poi sono anche suoi?

«Se è per questo, il problema è anche più grave. Io dico che ormai non abbiamo la possibilità di ridiscutere in un senso molto più ampio. È un problema che va oltre il Novecento e oltre i confini italiani. Siamo entrati in una fase in cui il rischio di inquisizione e di totalitarismo culturale è più forte perfino di quanto fosse nel Dopoguerra. Nel senso che non abbiamo più la libertà e l'agio di attraversare i mondi, di raggiungere orizzonti ulteriori. Siamo costretti in un unico linguaggio che impone il pensiero unico. E soprattutto non c'è la possibilità di confrontarsi con il passato. Ben oltre il Novecento, non c'è più la possibilità di confrontarsi persino con il passato arcaico. Quello più remoto. Questa è la vera questione». 

Par di capire che, secondo lei, siamo oltre le costrizioni del politicamente corretto.

«Certo. Quando nei musei si pongono il problema se esporre le opere d'arte del Rinascimento perché temono di offendere le sensibilità altrui, di quelli che magari nella loro storia non hanno avuto la possibilità di creare capolavori, si capisce che siamo entrati in un ambito preoccupante. C'è una idea di civiltà e di libertà dell'umanità che viene messa in discussione. Grazie a dio, però, ci salveranno i cattivi. Nel momento in cui l'Occidente rinuncerà ai suoi musei, l'Hermitage di Mosca non si farà problemi come non se ne faranno in Cina. A me sembra di essere all'avvento del cristianesimo quando furono bruciate le biblioteche con la sapienza del passato e fu uccisa Ipazia. Se non ci fossero stati i cattivi dell'epoca, ovvero i saggi arabi d'Andalusia o i maestri persiani, oggi non avremmo più Platone o Aristotele. È quello che sta accadendo oggi, quando vogliono cancellare Shakespeare, il Rinascimento, o Heidegger». 

Io chiedevo più banalmente perché la destra non riesca a fare i conti con la propria storia una volta per tutte. O meglio: se non si debba accettare che i conti vanno fatti di continuo.

«Attenzione, tra quello che mi chiede lei, e quello che dico io, c'è di mezzo un groviglio inestricabile di non detto, di autocensura, di timori, per cui non ne usciamo più. Siamo costretti tutti alla "dissimulazione gentile" per potercene venire fuori. Però voglio ricordare un aneddoto, ormai stratificato nella storia della destra: il compianto Pinuccio Tatarella, una volta che gli si presentò un tale con certa paccottiglia nostalgica, la prese e la gettò d'impulso fuori dalla finestra. Non aveva intenzione di perdere tempo». 

È comprensibile che Giorgia Meloni, di ben altra generazione, e con ben altre ambizioni, voglia gettarsi tutta la paccottiglia alle spalle. Ma perché non lo fa, allora?

«Ma davvero vogliamo parlare del Novecento? Allora io faccio solo un nome: Renzo De Felice. Dal punto di vista storico, la discussione si è chiusa con un lavoro storiografico importante. Non lo possiamo più interpellare? Leggiamo i suoi libri».

"Inchieste sotto elezioni. Come con Berlusconi..." Serenella Bettin il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ex pm: "Strane inchieste a ridosso del voto. Con il Cavaliere questo è sempre accaduto". Luca Morisi per diversi anni è stato responsabile della comunicazione della Lega e di Matteo Salvini. È lui l'artefice della bestia social di Matteo Salvini. Analizzava i tweet e i discorsi. Ora è indagato dalla procura di Verona per detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. La vicenda è emersa a cinque giorni dal voto anche se l'indagine è di oltre un mese. Un caso? Il Giornale ne ha parlato con Carlo Nordio, magistrato, ora in pensione, ex procuratore aggiunto di Venezia. Il titolare dell'inchiesta Mose. Colui che ha alle spalle le indagini di Mani Pulite, le Brigate Rosse, Tangentopoli.

Questa indagine che colpisce Luca Morisi, non è strana a pochi giorni dal voto?

«In un certo senso è strano, tuttavia poiché in Italia come da regolamento le elezioni si fanno ogni anno è possibile che si tratti anche di una coincidenza. È un fatto tuttavia che alla vigilia delle elezioni, la politica tenda a strumentalizzare ogni forma di indagine anche se infondata, nei confronti degli avversari. L'hanno sempre fatto, anche con Berlusconi. A pochi giorni dal voto usano l'indagine. Queste indagini vengono strumentalizzate a fini politici per delegittimare l'avversario».

Le accuse mosse a Morisi sono gravi?

«Giuridicamente no, anche perché la cocaina detenuta rientra nei limiti dell'uso personale e quindi non costituisce reato. Quanto alla possibilità di spaccio per ora manca la prova, sia della avvenuta cessione, sia della natura della sostanza ceduta cioè se sia stupefacente o meno».

Un leader di un partito è tenuto a sapere dei vizi del suo staff e a renderne conto?

«Un leader non è assolutamente tenuto a risponderne giuridicamente e non è neanche tenuto a esserne a conoscenza. Prudenza però vorrebbe che ci si informasse dettagliatamente anche sulla vita privata di chi ci sta vicino proprio per evitare le strumentalizzazioni di cui parlavo prima. Sotto un profilo mediatico si tratta di una vicenda che avrà conseguenze negative».

La notizia può essere di rilevanza pubblica? A noi veramente interessa?

«A noi in quanto italiani la vita privata di un individuo non può e non deve interessare. Ma quando si ha una forte esposizione mediatica si è tenuti per una propria convenienza a una condotta prudente».

Dopo gli scandali che hanno coinvolto la magistratura, potrebbe esserci un tentativo di pilotare le elezioni da parte delle procure?

«No. Probabilmente c'è stato negli anni passati, ma ora escludo che ci sia una gestione pilotata per influenzare le indagini».

Perché queste cose accadono sempre contro una certa parte politica?

«In realtà non è accaduto sempre contro una certa parte politica, basta vedere il sindaco di Riace. In questo caso è stata la condotta imprudente di Morisi che l'ha cacciato in questo guaio. Non è reato ma...»

Però assistiamo a una sinistra che assolve un ex sindaco anche se condannato e condanna una persona per la quale ancora non c'è alcuna condanna.

«Sono due situazioni assolutamente non assimilabili. Sul caso Morisi c'è semplicemente un'indagine e probabilmente nemmeno un reato, dall'altro c'è una condanna ed è anche vero che il sindaco si era vantato di aver violato la legge. Che poi la condanna sia alta, anche questo è possibile».

Salvini ne uscirà danneggiato?

«Salvini ne uscirà danneggiato dal punto di vista mediatico, ma non sarà un danno grave. Il contenuto della politica conta più di queste vicende personali. Quello che conta per lui sarà una prudenza su argomenti sensibili come il green pass senza cedere alle emotività di alcuni estremisti». 

Serenella Bettin. Sono nata nelle Marche, vivo in Veneto. Firmo sul Giornale dal 2016. Mi occupo di attualità, cronaca e immigrazione. 

Luca Monticelli per “La Stampa” il 3 ottobre 2021. Giorgia Meloni contro Fanpage: «È una polpetta avvelenata». L'inchiesta sui presunti fondi neri a Fratelli d'Italia viene liquidata con rabbia dalla leader della destra, che ieri ha organizzato un comizio a Vittoria, in provincia di Ragusa, "aggirando" il silenzio elettorale per le comunali, perché nella cittadina siciliana si voterà il 10 ottobre. Parole, le sue, arrivate mentre su Instagram il "barone nero" Roberto Jonghi Lavarini, protagonista dello scoop sulla "lobby nera", postava due foto - una che lo ritrae con la presidente di Fratelli d'Italia, l'altra con il segretario leghista Matteo Salvini: «Sono assolutamente indipendente e apartitico, ma nessuno faccia finta di non conoscermi o, peggio, si permetta di offendere gratuitamente me e la comunità di veri patrioti che rappresento», scrive, aggiungendo: «Alle elezioni politiche del 2018 ero candidato in Fratelli d'Italia come indipendente, alle europee del 2019 ho sostenuto la Lega. Ma non ricopro alcun ruolo politico, tantomeno dirigenziale o istituzionale». Il "barone nero", federato a Fdi con il suo Movimento "Fare Fronte", già condannato per apologia di fascismo, replica così alle critiche: «Goliardate, nessuno ha dato o ricevuto soldi: solo fumo senza arrosto, un fuoco di paglia, bolle di sapone» spiega in una serie di "note difensive" oltre a promettere un «lungo elenco» di denunce per diffamazione. In attesa della seconda puntata della serie di Fanpage, Meloni è tornata a chiedere al direttore della testata online, Francesco Cancellato, «le oltre 100 ore di girato per capire come si comportano i miei dirigenti. Il giornalista si è infiltrato per tre anni, ma sono stati mandati in onda solo dieci minuti». Un video, accusa la presidente di Fdi, pubblicato in rete e sulle pagine web dei giornali «l'ultimo giorno di campagna elettorale e nel giorno del silenzio. In uno stato di diritto non sarebbe mai accaduto». Tra i personaggi più in vista nel servizio di Fanpage, c'è l'eurodeputato Carlo Fidanza, che si è autosospeso. Grazie alle telecamere nascoste del giornalista infiltrato, emerge la disponibilità a incassare finanziamenti «black» da ripulire con apposite «lavatrici», oltre che frasi razziste e antisemite agli appuntamenti elettorali di Fratelli d'Italia a Milano. La procura, intanto, ha aperto un'indagine, al momento senza indagati, con il pm Giovanni Polizzi che si occuperà degli aspetti legati al presunto finanziamento illecito e al riciclaggio. A Piero Basilone, magistrato esperto in materia di terrorismo interno e di eversione, toccherà valutare l'esistenza di altri eventuali reati come l'apologia del fascismo e l'odio razziale. Va all'attacco il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni: «Che le radici culturali di Fratelli d'Italia abbiano più di qualche legame col fascismo è fuor di dubbio. Che oltre alle radici ci siano legami attuali con ambienti dell'estrema destra fascista, lo abbiamo ripetuto molte volte». Nella vicenda spunta anche un consigliere regionale lombardo della Lega: Max Bastoni, che ammette di essere stato avvicinato durante il reportage: «Al giornalista ho detto che faccio tutto in regola, non vendo i miei ideali. Ho registrato tutte le conversazioni e sono a disposizione della Procura. Il servizio mi pare strumentale e finalizzato a portare acqua al mulino di Beppe Sala». Domani si vedrà se l'inchiesta ha avuto un impatto sulle urne. A Milano, nel 2016, Fdi non raggiunse il 2,5%: stavolta, invece, secondo i sondaggi potrebbe superare il 10%, arrivando a ridosso della Lega.

Da adnkronos.com il 3 ottobre 2021. "Per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato. Scientificamente, a tavolino. A due giorni dalle elezioni. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo". Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, con un video pubblicato sui social passa al contrattacco sulla vicenda relativa al servizio di Fanpage relativo alla condotta di alcuni esponenti di Fdi nella campagna elettorale per le elezioni comunali di Milano. "Non sono una persona abituata a nascondersi, non voglio farlo neanche stavolta. Banalmente, perché non c'è niente di cui mi debba vergognare. Quello che penso è che, per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo. Tre anni di giornalista infiltrato, 100 ore di girato, dalle quali vengono estrapolati 10 minuti di video tagliati e cuciti arbitrariamente, piazzati in prima serata a due giorni dalle elezioni in modo tale che finissero sui giornali nel giorno di silenzio elettorale. Quando loro possono parlare di te e tu non puoi difenderti, quando le persone devono decidere se votarti o no il giorno successivo, perché oggi si vota", dice Meloni. "Ho chiesto a Fanpage di avere l'intero girato di queste 100 ore per sapere esattamente cose siano andate le cose e come si siano comportate le persone coinvolte per agire di competenza. Il direttore di Fanpage ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Cosa c'è che non devo vedere? Io continuerò a fare questa richiesta all'infinito, perché oscena è la risposta del direttore di Fanpage. Capiamoci: le immagini hanno colpito anche me, chiedo quei video anche e soprattutto per andare a fondo nella vicenda perché dalle nostre parti siamo parecchio rigidi sulle regole di comportamento dei nostri dirigenti", prosegue. "Però -osserva- questo non mi impedisce di fare alcune domande: è giornalismo quello che non lavora per documentare eventuali comportamenti illeciti ma per istigarli reiteratamente in attesa famelica di un passo falso? E' deontologia montare i pezzi a proprio piacimento e rifiutare di mostrare quanto accaduto senza i tagli, pretendendo che si dia per buono il montaggio fatto da persone schierate? E' legittimo far uscire scientificamente questo materiale a due giorni dalle elezioni senza che tu abbia il tempo per difenderti? Avete raccolto materiale per 3 anni e lo fate uscire a 2 giorni dal voto, che strana coincidenza. E' giusto il linciaggio che si sta facendo di un intero partito sulla base di una ricostruzione chiaramente parziale?".

(ANSA il 3 ottobre 2021) - "Ho chiesto a Fanpage di avere l'intero girato di queste 100 ore per sapere esattamente cose siano andate le cose e come si siano comportate le persone coinvolte per agire di competenza. Il direttore di Fanpage ha risposto che la mia richiesta è oscena.

Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Cosa c'è che non devo vedere?". Se lo chiede la leader di Fdi; Giorgia Meloni, in un video postato sui social. "Io continuerò a fare questa richiesta all'infinito, perché oscena è la risposta del direttore di Fanpage. Capiamoci: le immagini hanno colpito anche me, chiedo quei video anche e soprattutto per andare a fondo nella vicenda perché dalle nostre parti siamo parecchio rigidi sulle regole di comportamento dei nostri dirigenti". (ANSA).

(ANSA il 3 ottobre 2021) - "La prossima settimana, sempre in campagna elettorale, la trasmissione Piazzapulita farà un'altra puntata su questo tema. Confido che Corrado Formigli, dall'alto della sua onestà intellettuale tipica dei giornalisti che non sono di parte, manderà in onda integralmente anche questo mio video che dura decisamente meno di quelli di Fanpage". Così la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, conclude il suo video di sette minuti dedicato alla vicenda Fanpage. Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, la testata che ha realizzato l'inchiesta "Lobby nera", difende il lavoro dei suoi giornalisti: "Non è stata una "polpetta avvelenata", né "un'inchiesta a orologeria", ma "un lungo lavoro svolto in maniera rigorosa". "Né il codice deontologico, né il codice civile prevedono un calendario che dica quando uscire", sostiene in un'intervista al 'Corriere della Sera', e poi "quando un'inchiesta riguarda un candidato, credo che per l'interesse pubblico debba andare in onda prima delle elezioni. Inoltre, è stato un esperimento: una collaborazione tra una testata web e un programma televisivo, 'Piazzapulita', motivo per cui è stato trasmesso giovedì sera". Alla domanda se le 100 ore di girato saranno consegnate alla leader di FdI, Giorgia Meloni, Cancellato risponde: "Guardi, il girato oggetto della prima puntata sarà acquisito dalla Procura della Repubblica che ha aperto un fascicolo. Poi, a mio parere questa è una forzatura: se Giorgia Meloni ritiene che l'inchiesta sia stata 'montata ad arte', ha tutti gli strumenti giuridici per far valere le sue ragioni. Ma le dico una cosa: un saluto romano non si trasforma in una stretta di mano". "Non ritengo che l'apologia del fascismo sia folklore. In quelle sequenze ci sono dichiarazioni gravi - i canti e i riferimenti al nazismo, l'uscita sulle bombe sulle barche cariche di migranti - tanto più se fatte da o alla presenza di candidati - prosegue - poi c'è anche il tema rilevante delle forme di finanziamento, che se confermato sarebbe un illecito". Cosa si aspetta da FdI? "Credo che Giorgia Meloni abbia detto cose importanti: che quello che ha visto è inquietante, e che prenderà provvedimenti. Me lo auguro".

Meloni, l'ira e l'orgoglio. "Linciaggio di un partito orchestrato a tavolino". Fabrizio De Feo il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi in un video: "Non ci mostrano il girato integrale, cosa devono nascondere?" La «polpetta avvelenata» a pochi giorni dal voto, il linciaggio di un intero partito, le trappole disseminate lungo un percorso politico. Giorgia Meloni in un video torna sulla vicenda Fanpage e passa con decisione al contrattacco. «Mimmo Lucano, condannato in primo grado a 13 anni per oltre 22 reati come associazione a delinquere, truffa aggravata, peculato. Per la sinistra non solo è innocente, è un eroe: perché è uno di loro. Carlo Fidanza invece viene condannato a morte per 10 minuti di video senza nemmeno un'indagine. Perché è uno di noi. E con lui veniamo condannati tutti, migliaia di militanti appassionati che hanno preso un partito dal niente e contro tutto e tutti lo hanno portato a essere il primo partito». La convinzione della leader di Fdi è chiara. «Non sono una persona abituata a nascondersi, non voglio farlo neanche stavolta. Banalmente perché non c'è niente di cui mi debba vergognare. Quello che penso è che, per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo». L'attenzione si concentra sulla coincidenza temporale, sulla pubblicazione del video in prossimità del voto nelle grandi città. «Tre anni di giornalista infiltrato, 100 ore di girato, dalle quali vengono estrapolati 10 minuti di video tagliati e cuciti arbitrariamente, piazzati in prima serata a due giorni dalle elezioni e dal silenzio elettorale. Quando loro possono parlare di te e tu non puoi difenderti, quando le persone devono decidere se votarti o no il giorno successivo, perché oggi si vota». «Ho chiesto a Fanpage di avere l'intero girato per sapere esattamente come siano andate le cose e come si siano comportate le persone coinvolte. Il direttore di Fanpage ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Capiamoci, io voglio andare a fondo nella vicenda perché dalle nostre parti siamo parecchio rigidi sulle regole di comportamento dei nostri dirigenti». Ma dentro Fdi sono convinti che ci siano immagini ed registrazioni in grado di scagionare il capo delegazione di Fdi al Parlamento europeo. Giorgia Meloni a questo punto chiede un risarcimento mediatico. «La prossima settimana, sempre in campagna elettorale, Piazzapulita farà un'altra puntata su questo tema. Confido che Corrado Formigli, dall'alto della sua onestà intellettuale tipica dei giornalisti che non sono di parte, manderà in onda integralmente anche questo mio video». Richiesta accolta dal conduttore: «Il nostro invito a Giorgia Meloni resterà valido fino a giovedì, così avrà tutto il tempo per rispondere nel merito sui contenuti del video di Fanpage che abbiamo mandato in onda», dice all'Adnkronos. Ma alla leader di Fdi, non basta: «Sarò lieta di accettare il tuo invito quando il direttore di Fanpage mi fornirà il girato delle 100 ore. Altrimenti forniscimelo tu: immagino che prima di mandare in onda il video di 13 minuti realizzato da altri avrai controllato il materiale. O no?». Il direttore di Fanpage non ritiene che la coincidenza con il voto possa destare sospetto. E aggiunge: «Se Giorgia Meloni ritiene che l'inchiesta sia stata montata ad arte, ha tutti gli strumenti giuridici per far valere le sue ragioni». Intanto all'attacco della Meloni va il leader M5s Giuseppe Conte, che parla di «attacchi strumentali» e accusa: «Hai continuato a fare propaganda durante il silenzio elettorale attaccando Virginia Raggi per l'incendio che ha devastato il ponte di Ferro». Fabrizio De Feo

Il direttore di Fanpage insiste: "Giusta l'inchiesta prima del voto". Luca Sablone il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Fratelli d'Italia chiede il video integrale, ma per il direttore Cancellato "è una forzatura". L'ira della Meloni: "Dicono che la nostra richiesta è oscena". L'inchiesta di Fanpage continua ad agitare la politica anche a urne aperte. Da una parte il centrosinistra coglie l'occasione al balzo per tentare di affossare gli avversari a ridosso delle elezioni; dall'altra Fratelli d'Italia si sente attaccato e denuncia il tempismo con cui è stato reso neto il servizio. Il reportage di Fanpage è stato pubblicato a poche ore dall'inizio del silenzio elettorale: proprio per questo motivo Giorgia Meloni è andata su tutte le furie.

La leader di FdI continua a chiedere di poter visionare le 100 ore di filmato integrale per poter prendere atto dei comportamenti dei suoi dirigenti e prendere eventualmente le dovute conseguenze. Il sospetto di Fratelli d'Italia è che possano essere stati omessi importanti aspetti che potrebbero invece ribaltare la situazione. Anche perché c'è più di qualcosa che non torna. Ma da parte del direttore di Fanpage è arrivata una chiara risposta in merito alla richiesta della Meloni.

Il "no" del direttore di Fanpage

Il centrodestra teme che le tempistiche di pubblicazione dell'inchiesta siano piuttosto sospette. Su questo però Francesco Cancellato - intervistato dal Corriere della Sera - ha sottolineato che "né il codice deontologico, né il codice civile prevedono un calendario che dica quando uscire". Anzi, il direttore della testata web ha rivendicato la scelta fatta: ritiene assolutamente doveroso che un'inchiesta, quando riguarda un candidato, "per l’interesse pubblico debba andare in onda prima delle elezioni".

Quanto alla posizione della presidente di Fratelli d'Italia, Cancellato ha fatto sapere che il girato oggetto della prima puntata "sarà acquisito dalla procura della Repubblica che ha aperto un fascicolo". Ma c'è di più: il direttore di Fanpage reputa quella della Meloni "una forzatura" e l'ha invitata a "far valere le sue ragioni" se ritiene effettivamente che si sia trattata di un'inchiesta "montata ad arte".

L'ira della Meloni

In mattinata Giorgia Meloni ha pubblicato sui propri canali social un video per fare chiarezza sulla vicenda. Nel mirino è finito il servizio di Fanpage che vorrebbe dimostrare come la "lobby nera" starebbe cercando di entrare nella campagna elettorale della destra a Milano. Un effetto lo ha già prodotto: l'europarlamentare Carlo Fidanza si è autosospeso dal partito. Ieri la leader di Fratelli d'Italia ha parlato di "polpetta avvelenata", facendo notare che il video è stato mandato in onda nell'ultimo giorno di campagna elettorale "per fare sì che stesse sulle prime pagine nel giorno di silenzio elettorale".

Oggi la Meloni è tornata all'attacco senza mezzi termini: "Per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo". E ha ribadito la richiesta di poter visionare il girato integrale: "Il direttore ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Cosa c'è che non devo vedere? La sua risposta è oscena".

Va tuttavia riportata la contro-replica del sito web: Fanpage in un articolo ha accusato la leader di FdI di aver inventato "di sana pianta una dichiarazione del direttore Francesco Cancellato", che invece "non ha mai definito oscena la richiesta di visionare l'intero girato". Dunque quella della Meloni viene giudicata "una vera e propria fake news, un'invenzione di sana pianta, una balla".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Carlo Fidanza e l'agguato a FdI, Alessandro Sallusti: "Tre anni di microfono nascosto per un ragno dal buco". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Domani si vota per rinnovare i sindaci di alcune delle più importanti città italiane e il governatore della Calabria. Magistrati e giornalisti nelle ultime settimane hanno frugato nel bidone della spazzatura in cerca del colpo grosso per screditare i partiti del Centrodestra ma questa volta, nonostante lo spiegamento di forze, il bottino è stato misero e il tanfo prevale nettamente sulla sostanza. La vicenda condita con droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, col passare delle ore appare sempre più come una bufala costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Poi c'è il pacco che il sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, ha confezionato contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un giornalista munito di microfono nascosto si è finto supporter di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari ma cavandone di fatto un ragno dal buco. Ovviamente sono rimaste impresse stupide frasi e un immancabile saluto romano, però sono certo che nessuno, neppure i giornalisti autori e complici di questo pazzesco scoop, uscirebbero formalmente lindi e immacolati da tre anni di microfoni nascosti. Salvo colpi di scena dell'ultima ora la controcampagna elettorale dei nostri eroi democratici quasi tutti amici e sostenitori di Mimmo Lucano - l'ex sindaco di Riace pro immigrati condannato ieri l'altro a tredici anni perché truffava lo Stato - si ferma qui. Non penso che queste cose sposteranno un solo voto, semmai hanno fatto contenti i non pochi nemici interni che Morisi aveva nella Lega e Fidanza in Fratelli d'Italia. La sostanza è che la campagna elettorale più surreale e pasticciata nella storia del Centrodestra si chiude con una foto dei tre leader - Meloni, Salvini e Tajani - seduti allo stesso tavolo, e questo fa ben sperare per il futuro. La stessa cosa oggi non possono farla Letta, Conte e Bersani che nelle urne sono avversari dopo settimane passate a darsele di santa ragione. Insomma, nel casino che è la politica il Centrodestra, al dunque, resta una certezza. Dall'altra parte, come al solito, è caos al motto di "nemici al primo turno, semmai amici ai ballottaggi" ma solamente per fermare le destre. Sai che grande programma politico... 

Alemanno: «L’hanno condannato per ciò che è, non per ciò che ha fatto». Il caso di Mimmo Lucano, ma anche quello di Morisi e l'inchiesta di Fanpage vista dall'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 3 ottobre 2021. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma e con una pesante vicenda giudiziaria ormai alle spalle dopo l’assoluzione in Cassazione, spiega che Mimmo Lucano è stato condannato «non per quello che ha fatto, ma per il ruolo che ha interpretato; per quello che è, non per quello che fa» e commenta: «Con questa vicenda la sinistra ha riscoperto il garantismo, ma Salvini che giustamente difende Morisi e poi improvvisamente impazzisce e parte in quarta attaccando Lucano è l’anticamera dell’autodistruzione del dibattito democratico».

A freddo, che idea si è fatto sulla condanna dell’ex sindaco di Riace?

Occorre fare due osservazioni: la prima è che bisogna aver fatto il sindaco nella vita per rendersi conto di quante difficoltà ci sono nel portare avanti questo mestiere. I sindaci devono prendere le decisioni più difficili dal punto di vista amministrativo e quindi sono i più esposti ad azioni penali, amministrative e della Corte dei Conti. Secondo, è riemersa la tendenza del garantismo a senso unico: quando viene colpito uno di sinistra protesta la gente di sinistra, quando viene colpito un personaggio di destra protesta la destra. In questo caso la sinistra ha riscoperto il garantismo ma Salvini che giustamente difende Morisi e poi improvvisamente impazzisce e parte in quarta è l’anticamera dell’autodistruzione del dibattito democratico.

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Molti hanno criticato i tredici anni e due mesi di condanna, un periodo ritenuto abnorme rispetto ai reati contestati. Come la giudica?

Le sentenze siamo obbligati a rispettarle, ma possono essere criticate. Rispetto alla sentenza penso sia enorme perché tredici anni si danno per omicidio, mi sembrano davvero troppi. Ma bisogna saper leggere tra le righe per capire i meccanismi mentali che hanno animato questa sentenza. Poi leggeremo le motivazioni ma in base ai reati per i quali è stato condannato risulta fondamentale il fatto di avere un progetto politico, trasformato in associazione per delinquere, e il fatto di aver portato soldi alle cooperative per immigrati, azione trasformata in peculato.

Si spieghi meglio.

Non condivido affatto l’immigrazionismo estremo di Lucano e credo ci sia stata molta demagogia nella sua politica. Ma da qui a pensare che siano stati commessi reati significa arrivare alla criminalizzazione della politica. Io sono stato incriminato perché sollecitavo a una cooperativa un pagamento al Comune ma non si era capito che è normale che un sindaco lo faccia. Lucano voleva apparire come il campione dell’immigrazione e non lo condivido ma da qui a pensare che abbiamo commesso reati ce ne passa.

Ieri in un’intervista Lucano a chiamato in causa un magistrato e un politico di razza. Crede ci sia stato un disegno contro l’ex sindaco di Riace?

Non c’è nessun disegno contro Lucano. Anzi la tendenza del sistema è quella di favorire l’immigrazione. C’è invece una mentalità sbagliata dei giudici, anche se non so cosa li abbia spinti a condannare Lucano. Il punto è che non hanno condannato quello che ha fatto, ma il ruolo che ha interpretato. L’hanno condannato per quello che è, non per quello che fa. Un atteggiamento che si rileva ogni giorno nell’azione della magistratura. D’altronde i sindaci di tutta Italia sono continuamente colpiti da azioni penali e amministrative per atti che fanno parte della normale vita di una città.

Dunque nessun complotto di chi, magari, lo avrebbe voluto fuori dalle elezioni di domani e lunedì, nelle quali Lucano è in corsa nella lista di De Magistris?

Di fronte a un teorema si cade nella tentazione giudice di Magistratura democratica. E questo dimostra che ero stato condannato perché espressione di un modo di fare politica, non per le mie azioni.

Tornando al garantismo paragonato al caso Morisi, che differenze ci sono tra destra e sinistra nell’affrontare certe vicende?

Sicurante quando c’è di mezzo qualcuno di centrodestra l’aggressione mediatica è molto più forte e non c’è dubbio che l’attacco a Morisi è di gran lunga superiore rispetto a chi critica Lucano. Tantissime voci si sono alzate nel dire che quella contro Lucano è stata una sentenza abnorme, mentre quasi nessuno ha difeso Morisi, protagonista di una vicenda, per quanto ancora da verificare, del tutto personale.

Due giorni fa è arrivata poi l’inchiesta di Fanpage che ha provocato l’autosospensione di Fidanza da Fratelli d’Italia, «guarda caso a due giorni dal voto», ha detto Meloni. Crede anche lei sia stata fatta uscire apposta?

Certamente, e vale sia per il caso di Fidanza che per quello di Morisi. L’inchiesta di Fanpage è durata tre anni e guarda caso è stata tirata fuori a due giorni dalle elezioni, con Fratelli d’Italia che va a gonfie vele. La vicenda Morisi è ancora peggiore, perché risale ad agosto ed è venuta fuori solo ora.

Nell’inchiesta di Fanpage alcuni gesti e commenti di Fidanza sono inequivocabili.

I fatti sono che un giornalista sotto copertura ha ricavato pezzetti di video, con chissà quante ore buttate invece nel cassonetto, in cui si vedono certamente diverse cose di cattivo gusto ma sostanzialmente durante momenti di svago e “cazzeggio”. Ha fatto quindi bene Meloni a richiedere la visione dell’intero filmato.

Tornando a Lucano, in che modo si può invertire la rotta di un giustizialismo imperante sia a destra che a sinistra?

Soltanto con il dialogo. Le posizioni di Lucano non fanno che favorire l’invasione in atto nel nostro paese, che è molto pericolosa e sta creando danni sociali ed economici gravi. Le persone che arrivano sono destinate a essere sfruttate dalla malavita e quindi non condivido la santificazione di Lucano fatta in passato. Ma sono un suo avversario politico e penso che le scelte politiche non possano essere decise in un’aula di tribunale. Detto questo, quella della giustizia ad esempio è la classica riforma che andrebbe fatta insieme. Con l’obiettivo di arrivare a una maggior qualità della magistratura in senso meritocratico e dal punto di vista della responsabilità dei giudici.

(ANSA il 4 ottobre 2021) -  La Procura di Milano sta acquisendo, attraverso il lavoro degli investigatori della Gdf, l'intero girato (circa 100 ore) dell'inchiesta giornalistica di Fanpage che ha portato all'apertura di un fascicolo per finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio relativo alla campagna elettorale di Fratelli d'Italia per le amministrative di Milano. Indagine, coordinata dai pm Giovanni Polizzi e Piero Basilone, che sta verificando anche eventuali profili di apologia di fascismo. Oltre a fare accertamenti contabili, infatti, il primo passaggio dell'indagine è l'acquisizione in corso del filmato integrale con le registrazioni dei dialoghi di un cronista 'infiltrato' da imprenditore e Roberto Jonghi Lavarini, detto il "Barone nero", condannato a due anni per apologia del fascismo, Carlo Fidanza, europarlamentare e capo delegazione di Fratelli d'Italia e la candidata a Palazzo Marino di Fdi l'avvocato Chiara Valcepina. Dialoghi in cui viene a galla un sistema di 'lavanderia' per pulire soldi versati in nero destinati alla campagna elettorale e usati anche per altre elezioni e poi incontri con esplicite battute razziste, fasciste e sessiste e anche riferimenti al discorso di Hitler alla birreria di Monaco e saluti romani.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2021. L'indagine della Procura della Repubblica di Milano per violazione della legge sul finanziamento dei partiti e riciclaggio è al momento contro ignoti, ma è assolutamente noto a chi oggi la guardia di Finanza chiederà i filmati sulla vicenda che sta scuotendo Fratelli d'Italia nel pieno della tornata delle amministrative: le fiamme gialle di Milano busseranno alla porta di Fanpage per acquisire il centinaio di ore di immagini girate da un giornalista che si è mosso a lungo negli ambienti milanesi di FdI sotto copertura. L'acquisizione del «girato» grezzo, dal quale sono state scelti dialoghi e immagini della prima parte del servizio, è stata disposta dai pubblici ministeri Piero Basilone e Giovanni Polizzi, che fanno parte del dipartimento diretto dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, titolari del fascicolo aperto dopo l'esposto presentato da Europa verde e dai Verdi. Esposto che è la conseguenza del servizio in cui si parla di «lavatrici», imprenditori e professionisti che sarebbero in grado di trasformare in contributo elettorale ufficiale il finanziamento in nero per un evento per le comunali di Milano che dovrebbe arrivare da un finanziatore che altro non è che il giornalista di Fanpage che si è spacciato per uomo di una multinazionale della finanza. Nel servizio sono riprodotti i dialoghi in libertà tra il fantomatico imprenditore, l'attivista Roberto Jonghi Lavarini, Carlo Fidanza (europarlamentare che si è autosospeso da capo delegazione del partito a Bruxelles) e la candidata di FdI a Palazzo Marino Chiara Valcepina. Ci sono anche brani in cui vengono fatte considerazioni e battute razziste e sessiste e riferimenti a un discorso di Hitler per denigrare una donna di religione ebraica. Tema che sarà approfondito dal pm Basilone che fa parte della sezione della Procura che si occupa, oltre che di terrorismo, anche del reato di apologia del fascismo.

Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2021. Ci ha riflettuto per tutta la giornata di sabato. Poi, di ritorno dalla Sicilia dove aveva tenuto comizi per la campagna elettorale, ha scritto il testo del video di oltre sette minuti che è «quello che penso e che sentivo di dover dire» nel giorno di un voto delicatissimo. E non l'ha minimamente frenata l'idea che avrebbe potuto commettere una violazione, infrangendo la regola che impone il silenzio elettorale: «Ma stanno parlando tutti, dalla Raggi a Gualtieri che manda in giro i camion con la pubblicità. E poi io non ho fatto un appello al voto. Sono stata attaccata ovunque da moralisti ipocriti che guardano da una parte sola, sono massacrata sui giornali e dovrei tacere? Mi denuncino se vogliono, sto qui, possono denunciare, facciano pure», si sfoga in queste ore. Il colpo d'altronde è stato durissimo. La Meloni spera che non ci sia un contraccolpo nelle urne, ha ricevuto messaggi di solidarietà anche «di persone che mi hanno detto che non ci avrebbero votati, ma dopo questa porcheria lo faranno». Ma sa bene che il rischio di un allontanamento di potenziali elettori c'è, magari verso i partiti alleati (anche se «non è che nella Lega stiano messi bene pure loro, con il caso Morisi») i cui leader nelle ultime ore non ha più sentito. Ecco allora che passa al contrattacco, denunciando quello che ritiene un complotto e i «due pesi e due misure» per come sono stati trattati i suoi e come Mimmo Lucano «condannato per reati gravissimi». E però sa bene anche che quelle immagini di un ambiente decisamente impresentabile e incompatibile con ruoli di guida di un Paese democratico che si ambisce a governare fanno male: «Ma io ho detto mille volte ai miei che certe cose sono intollerabili, che non si frequenta certa gente per qualche voto in più e per battaglie di preferenze nel partito. Io certe persone imbarazzanti nel partito non ce le voglio, lo sanno tutti». Avrebbe dovuto saperlo, si arrabbia, anche Carlo Fidanza, l'europarlamentare che fu suo sfidante per la guida del movimento giovanile e che sarà «torchiato» per capire bene cosa sia successo, soprattutto per i possibili finanziamenti in nero, perché «io non tollero illegalità. La penso come la pensava Almirante sui terroristi: se sono di destra "meritano la pena di morte non una, ma due volte"». E questo sia per una linea di legge e ordine, sia per la consapevolezza che chi viene da un movimento post-fascista è «a prescindere» guardato con sospetto. In casa e all'estero. E però «non posso cacciare un mio dirigente se non so esattamente come sono andate le cose». Perché il sospetto è che da parte del giornalista di Fanpage emerga una sorta di «istigazione» al reato, con offerte di denaro in nero reiterate, respinte e solo in parte alla fine accolte. Una specie di «trappola» insomma, arrivata dopo un'inchiesta che in FdI sospettano lunga addirittura 5 anni, che lei al momento non vuole andare a commentare in tv: «Non regalo serate di audience a mie spese». Ma resta il tema di un partito che è alto nei sondaggi, ma che da tre giorni è sceso nell'immagine che dà. E comunque vada il voto, Meloni sa che ci sarà da lavorare per risollevarlo.

Ma l’inchiesta di Fanpage non è fango mediatico-giudiziario. Il cronista che si è infiltrato nel mondo di Carlo Fidanza (leader dei deputati europei di Fdi) e Roberto Jonghi Lavarini, non ha nulla a che vedere con lo scambio di utilità tra il giornalista a caccia di notizie e il magistrato che sfrutta il megafono mediatico per legittimare la sua inchiesta. Davide Varì su Il Dubbio il 5 ottobre 2021. L’allegra brigata nera, gli amici di Hitler, la “vecchia” camerata e i boia chi molla. E poi le “lavatrici” di denaro sporco, i finanziamenti occulti e le presunte logge massoniche segrete ed esoteriche (sic!). Insomma, l’inchiesta di Fanpage ci catapulta in un mondo inquietante, non c’è dubbio, ma con decise venature grottesche, quasi ridicole. Senza contare una buona dose di millanteria da parte del “Barone nero” e della sua combriccola che si vende presunti legami con uomini dei Servizi ed ex ufficiali dell’esercito. Ma prima va chiarito un aspetto: c’è chi in queste ore parla di inchiesta a orologeria e di macchina del fango, ma noi, che pure siamo sempre molto critici con chi usa la scure mediatico-giudiziaria contro la politica, stavolta siamo persuasi che quella di Fanpage sia una (vera) inchiesta giornalistica, come non se ne vedevano da anni. Il cronista che si è infiltrato nel mondo di Carlo Fidanza (leader dei deputati europei di Fdi) e Roberto Jonghi Lavarini, non ha nulla a che vedere con i colleghi che aspettano le veline nelle sale d’aspetto delle procure italiane; nulla da spartire con chi spaccia per scoop il copia incolla di inchieste e informative. Insomma, qui non c’è nessuno scambio di utilità tra il giornalista a caccia di notizie e il magistrato che sfrutta il megafono mediatico per legittimare la sua inchiesta, condizionarne il giudizio futuro e, non ultimo, trovare un posto in prima fila nell’affollato solarium mediatico-giudiziario. Chiarito questo aspetto, va però detto che l’inchiesta in sé fotografa un mondo molto più vicino a un’improbabile armata brancaleone piuttosto che ai sansepolcristi del primo fascismo. Ma accanto a questo scenario tragicomico, ci sono un paio di elementi assai seri. Il primo riguarda il finanziamento ai partiti, di tutti i partiti. L’abolizione quasi integrale del finanziamento ha infatti creato condizioni “criminogene” che induce i partiti a cercare forme di sostentamento opache, “alternative”. Ma questa è una conseguenza di una legge folle che ha affamato la politica, populisticamente considerata luogo di corruzione e non centro e cuore della nostra democrazia; il secondo elemento riguarda invece Giorgia Meloni che, ormai è chiaro a tutti, per puntare davvero a una leadership nel centrodestra e nel Paese deve definitivamente liberarsi delle scorie grottesche del neofascismo italiano. Se vuol diventare credibile e svincolarsi una volta per tutte dalla trita dialettica fascismo-antifascismo, deve liberarsi della zavorra nera che la trascina a un livello così basso. Altrimenti sarà sempre intrappolata nella sindrome lepeniana dell’eterna seconda.

Andrea Palladino per "Domani" il 4 ottobre 2021. Vestiti da occasione importante, un parterre da grandi eventi e quel pizzico di nobiltà nera che, nella Milano già città da bere, fa tanto chic. E poi lui, il barbone alla Rasputin, il richiamo rivisto e poco corretto alla peggiore scuola del tradizionalismo post-fascista, quello di Julius Evola, e quell'accento così orientale. Alexander Dugin, il vate della destra euroasiatica. Era il 4 novembre 2018, correva l'anno della Lega al governo in salsa sovranista, con Matteo Salvini pronto a bloccare le navi delle organizzazioni umanitarie. A palazzo reale – salotto retrò a due passi dal Duomo – l'intera Milano nera si era data appuntamento. Padrone di casa l'associazione REuropa, sigla nata dalla mente di un figlio d'arte, Rainaldo Graziani, erede del cofondatore di Ordine nuovo Clemente. Sigla che a Milano – a due passi dal Duomo e proprio da palazzo reale – è incisa nella lapide di piazza Fontana, a ricordo del movimento che nel 1969 ispirò la prima bomba della strategia della tensione. Di quell'evento rimangono tanti video su YouTube. Appaiono molti volti dei protagonisti dell'inchiesta di Fanpage sulla Milano nera alleata di Fratelli d'Italia. C'è ovviamente lui, il barone nero , Roberto Jonghi Lavarini, pronto a farsi fotografare accanto ad Alexander Dugin. E c'è Carlo Fidanza , che all'epoca scaldava i motori per le elezioni del parlamento europeo, dove entrerà l'anno successivo. Manca poco all'inizio dell'evento. Saluti, sorrisi, chiacchiere, ricordi. Un giovane volto ben noto nell'ambiente della destra lombarda si avvicina a Fidanza. Con naturalezza si scambiano il saluto del legionario, la mano sull'avambraccio. Discreto, ma evidente. Nessuno scandalo, da quelle parti si usa così. È un riconoscersi, un segno di appartenenza ad una tradizione, a una storia comune. Ma è anche la base di alleanze e di progetti comuni. Il braccio teso non appartiene a questi salotti, piuttosto si usa nei bar di Niguarda, dove è stato girato il video galeotto di Fanpage. Meglio il felpato saluto dei camerati. Già allora Carlo Fidanza era uno dei principali colonnelli di Fratelli d'Italia. Pochi mesi prima, l'11 luglio 2018, aveva firmato insieme a Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida, l'atto costitutivo della "Alliance pour l'Europe des Nations", partito politico europeo pronto per le allora imminenti elezioni dell'Unione. Quel contenitore è stato chiuso dopo l'alleanza, ben più corposa, con l'Ecr dei conservatori inglesi e della destra identitaria polacca. In altre parole Fidanza era l'uomo designato per i collegamenti internazionali. Quell'incontro a palazzo reale racconta, però, qualcosa di più. In prima fila c'era un pensieroso Gianluca Savoini, l'uomo di collegamento di Matteo Salvini con la Russia. Solo due settimane prima, il 18 ottobre 2018, era stato beccato dai cronisti de L'Espresso al tavolo dell'Hotel Metropol di Mosca, mentre discuteva di petrolio con emissari russi e con due mediatori d'affari italiani. L'inchiesta per accertare l'eventuale rilevanza penale di quell'incontro è ancora in corso, ma quello fu l'episodio che probabilmente cambiò molte alleanze nella destra italiana. Tra gli organizzatori spiccava un nome ben noto nella Milano nera, quello dell'editore Maurizio Murelli. Ha una doppia veste. Ex sanbabilino (nel 1973 venne coinvolto nel lancio di una bomba nel centro di Milano, che portò alla morte del poliziotto Antonio Marino), animatore fin dagli anni Ottanta del gruppo Orion – vicino prima all'Iran, poi alla Russia – è stato il punto di riferimento dell'area più a destra della Lega di Matteo Salvini. Un vero trait-d'union. Il suo volto appare all'inizio del filmato di Fanpage, mentre dà indicazioni al giornalista undercover su come incontrare Roberto Jonghi Lavarini. Da quelle parti in fondo si conoscono tutti. Quell'area nera che fa capo a Roberto Jonghi Lavarini è cresciuta, negli ultimi dieci anni, a cavallo tra Lega e Fratelli d'Italia. Si muovono come un gruppo autonomo, ma di certo hanno salde radici nell'area erede del Msi milanese. Da alcuni mesi Jonghi Lavarini, quasi a rivendicare il suo ruolo storico, sta postando su social e blog diverse foto dell'epoca del Fronte della gioventù e di quando, all'epoca di Alleanza nazionale, attaccava i manifesti per Ignazio La Russa. Non da tutti è amato («Jonghi le ha prese solo dai camerati a Milano», commenta un esponente del neofascismo milanese, chiedendo l'anonimato), ma di certo fa parte del particolare album di famiglia nato dal partito di Almirante. Il microcosmo nero alleato con Carlo Fidanza non è però composto solo dall'aristocrazia d'antan, dai seguaci del tradizionalismo russo e dal piccolo circo Barnum di Jonghi Lavarini. C'è il mondo delle periferie, delle curve, del neofascismo militante cresciuto dentro Forza nuova. Una foto, già pubblicata lo scorso maggio da Domani, mostra i contatti dell'eurodeputato con questa area. Durante un banchetto del 24 aprile scorso di Fratelli d'Italia in Corso Buenos Aires, Carlo Fidanza si è fatto fotografare accanto ai militanti del gruppo Ultima legione, guidato dal cinquantenne Enzo Cervoni. Una destra, questa, poco presentabile: lo scorso maggio l'antiterrorismo ha eseguito 25 perquisizioni contro alcuni dei principali esponenti del gruppo, con l'ipotesi di reato di «perseguimento di finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, con istigazione all'uso della violenza quale metodo di lotta politica e diffusione online di materiale che incita all'odio e alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi». Il gruppo Ultima legione aveva contatti consolidati con Fratelli d'Italia, tanto da partecipare alle manifestazioni a piazza Duomo e a un convegno del partito di Giorgia Meloni nel 2019: «In questa zona qua, dove abito io, non solo i migranti delinquono quotidianamente, li vediamo urinare sui muri, fare i bisogni, accoppiarsi nelle aree cani», arringò il leader del gruppo oggi sotto indagine. Applausi a scena aperta dei militanti di Fratelli d'Italia.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 5 ottobre 2021. Approfondimento giornalistico o “polpetta avvelenata”? Sull’indagine di Fanpage che ha svelato presunti finanziamenti in nero alla campagna elettorale milanese di Fratelli d’Italia, oltre alla vicinanza a diversi gruppi di nostalgici del fascismo e del nazismo, ha deciso di intervenire anche la giornalista simbolo delle inchieste giornalistiche in Italia, prima con Report e oggi con Dataroom: “Se quel materiale era disponibile già da tempo, attendere di pubblicarlo a ridosso delle elezioni si presta alle accuse. Dopodiché, lasciano il tempo che trovano poiché quel che conta sono i fatti”. L’inchiesta di Fanpage continua a far discutere e le polemiche promettono di non attenuarsi neppure dopo le elezioni, visto che sono attese altre puntate e nel frattempo la Procura di Milano sta acquisendo l’intero girato. A svolgere l’operazione, copiando le 100 ore di girato, sarà la Guardia di finanza. Nel frattempo, è stato aperto un fascicolo per finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio relativo alla campagna elettorale di Fratelli d’Italia per le elezioni comunali di Milano, ma pare riguardi anche l’apologia di fascismo. L’inchiesta denominata “Lobby nera” contiene le registrazioni audio-video realizzate da un giornalista che si è finto un imprenditore interessato a finanziare la destra milanese, in particolare l’area di Roberto Jonghi Lavarini - il “Barone nero” - e di Carlo Fidanza, capo delegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo. Entrambi appoggiano la candidata a Palazzo Marino di FdI Chiara Valcepina. Nei colloqui si parla di un sistema di “lavanderia” per pulire soldi versati in nero e destinati alla campagna elettorale locale, ma già testato in altre competizioni politiche. E mentre Giorgia Meloni chiede di visionare “l’intero girato di 100 ore” e l’ha definita “una polpetta avvelenata“ pre-elettorale, c’è chi appoggia questa linea. In particolare, il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, che ha parlato addirittura di “roba da servizi segreti deviati". Per capire meglio come valutare il lavoro dei colleghi di Fanpage, abbiamo chiesto a Milena Gabanelli, giornalista simbolo del giornalismo di inchiesta in Italia, prima con la trasmissione Report su Rai3 e ora con Dataroom sul Corriere della sera. Milena, c’è chi si chiede se sia giusto dal punto di vista deontologico "istigare a compiere reati" da parte del giornalista sotto copertura durante una inchiesta. Cosa ne pensi? Istigare a compiere reati è disdicevole. Ma non mi sembra questo il caso, come in tanti altri, per esempio: se si vuole sapere se un poliziotto spaccia, si prova a fare il tossico che vuole acquistare droga. Un altro aspetto controverso è legato alla richiesta di Giorgia Meloni di disporre delle 100 ore di girato da parte di Fanpage. Credi sia giusto consegnarle, oppure ha fatto bene il direttore Francesco Cancellato a renderle disponibili solo alla Procura? Non sono un avvocato, ma Meloni credo che non abbia titolo per fare questa richiesta, la ha invece il diretto interessato, ma per visionare il girato dovrà disporlo un magistrato dopo che è stata sporta denuncia. Infine, come valuti l'accusa di pubblicare “inchieste a orologeria” a ridosso delle elezioni come spesso adduce la politica? Ti sembra questo il caso, oppure è solo un modo per non rispondere nel merito? Se quel materiale era disponibile già da tempo, attendere di pubblicarlo a ridosso delle elezioni si presta a queste accuse. Dopodiché, lasciano il tempo che trovano poiché quel che conta sono i fatti. E da cittadina preferisco conoscerli prima di votare e non dopo. I giornalisti si chiamano cani da guardia anche per questo.

Giuseppe Guastella per corriere.it il 5 ottobre 2021. L’europarlamentare di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza e il «barone nero» Roberto Jonghi Lavarini sono indagati per violazione della legge sul finanziamento dei partiti e riciclaggio nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Milano nata dalla video-inchiesta di Fanpage sulla «lobby nera» del partito in città. Lavarini è stato perquisito oggi dalla Guardia di Finanza. Nel servizio di Fanpage sono riprodotti i dialoghi in libertà tra il fantomatico imprenditore, l’attivista Jonghi Lavarini, Fidanza (europarlamentare che si è autosospeso da capo delegazione del partito a Bruxelles) e la neo consigliera di FdI eletta a Palazzo Marino, Chiara Valcepina. Ci sono anche brani in cui vengono fatte considerazioni e battute razziste e sessiste e riferimenti a un discorso di Hitler per denigrare una donna di religione ebraica. Tema che sarà approfondito dal pm Basilone che fa parte della sezione della Procura che si occupa, oltre che di terrorismo, anche del reato di apologia del fascismo.

Niccolò DI Francesco per tpi.it il 5 ottobre 2021. “Se essere fascista significa amare la propria patria io sono fascista”: è un post, pubblicato sui social e tuttora presente su Facebook, postato nel 2015 da Francesco Zicchieri, deputato della Lega, ex coordinatore del Carroccio nel Lazio, sostituito poi da Claudio Durigon, e Responsabile federale della gestione e ampliamento delle sedi territoriali della Lega nel centro-sud. Quello di Zicchieri, però, non è l’unico post che inneggia al fascismo presente sul suo profilo. Scorrendo tra le varie foto del leghista, infatti, si trova un’altra foto di Benito Mussolini con una citazione del Duce: “Prima degli stipendi dei ministri, vengono gli stipendi dell’amato popolo italiano, perché i ministri sono dei servitori dell’amata patria, quindi dell’amato popolo”. Nato ad Alatri, il leghista è nipote Mario Zicchieri, giovane esponente dell’MSI, ucciso nel 1975 dalle Brigate Rosse a Roma. Consigliere comunale a Terracina con Alleanza Nazionale, Zicchieri nel 2015 è passato alla Lega con cui è stato eletto di nuovo consigliere comunale a Terracina nel 2016 e infine deputato alle elezioni del 2018. Zicchieri, oltre a far parte del cosiddetto “cerchio magico” di Salvini è molto legato a Claudio Durigon, l’ex sottosegretario all’Economia della Lega, recentemente costretto alle dimissioni dopo aver proposto di ripristinare a Latina il vecchio nome di un parco, attualmente dedicato ai magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e fino al 2017 intitolato ad Arnaldo Mussolini. “La storia di Latina è quella che qualcuno ha voluto anche cancellare, cambiando il nome a quel nostro parco che deve tornare ad essere quel parco Mussolini che è sempre stato. Su questo ci siamo e vogliamo andare avanti” aveva dichiarato Durigon in quella occasione, salvo poi scusarsi e dichiarare di non essere “un fascista”. Resta il fatto, però, che nella Lega, così come dimostrano i post di Zicchieri peraltro per nulla nascosti, non manchino simpatie e ammiccamenti al mondo dell’estrema destra. Dopo il caso Fidanza, l’europarlamentare di Fratelli d’Italia che, secondo un’inchiesta di Fanpage, avrebbe intrattenuto rapporti con gruppi di estrema destra, dunque, un altro “caso” è destinato ad agitare le acque della Lega e del centrodestra.

Pietro Senaldi per "Libero quotidiano" il 7 ottobre 2021. «Se Michetti vince, a Roma rischiamo di trovarci Fidanza sul palco a festeggiare». Ma Enrico Letta è sempre stato così o si è incattivito dopo che Renzi l'ha mandato a casa con il suo "stai sereno?". Forse, più semplicemente, si è convinto che per fare bene il segretario del Pd dovesse trasformarsi in un ottuso energumeno. Altrimenti non si spiega come un posato nipote di posatissimo zio, di casata democristiana e allievo di Andreatta, cavalchi come il peggior Travaglio un caso giornalistico che puzza di montatura a chilometri di distanza. Già, perché i soldi in nero incassati da Fidanza per Fdi sono come la famosa intercettazione di Berlusconi premier sulla «Merkel culona inchiavabile», apparsa sul Fatto e fatale al Cavaliere: non si troveranno mai, perché non esistono, però sono strumentali a creare un clima politico in base al quale a destra sono brutti e cattivi e a sinistra sempre immacolati. I fatti sono noti: giornalista di FanPage segue per tre anni Roberto Jonghi Lavarini, scombicchierato fascistone e noto trombone milanese che la Meloni ha accompagnato alla porta proprio nel 2018. A due giorni dalle elezioni, con studiata tempistica che impedisce a Giorgia e Fdi di replicare, proprio alla vigilia del silenzio elettorale, spunta un video in cui Fidanza rimprovera Lavarini per aver fatto il saluto romano in presenza di una candidata di Fratelli d'Italia di supposta origine ebrea e, nel farlo, ne scimmiotta polemicamente il gesto. Spunta poi un secondo video in cui Lavarini presenta all'europarlamentare il giornalista di Fanpage sotto le mentite spoglie di un imprenditore simpatizzante che vorrebbe finanziare un aperitivo elettorale. In nero, lascia intendere l'agente provocatore. Fidanza inciampa, si impappina, parla di «black» ma poi spiega di aver voluto intendere «cash»; insomma, pare abboccare. Giorni dopo, in ufficio, si chiarisce tutto: per finanziare Fdi occorre fare un bonifico, tutto alla luce del sole. Il finto imprenditore naturalmente non ci sta più e l'affare così sfuma, ma il video che scagiona l'eurodeputato non sarà mai proiettato. La frittata però è fatta, la sinistra grida al ritorno del Duce, Fidanza si autosospende, la Meloni chiede di vedere tutte le cento ore di registrato, FanPage risponde picche e il materiale finisce in Procura. Intanto, in attesa della verità, si è votato, il centrodestra ha perso e, ascoltando in tv le dichiarazioni dei politici e degli opinionisti di sinistra, pare che Milano oggi sia come Monaco di Baviera nel 1939 e che da un momento all'altro la Meloni possa affacciarsi al balcone di Piazza Venezia per dichiarare guerra all'Abissinia. Poi La Russa o la Santanché provvederanno a firmare le leggi razziali e forse Bersani e Fratoianni finiranno al confino a Ventotene. Quanto a Fidanza, sta sotto coperta, ma negli ambienti di Fratelli d'Italia avanza il sospetto che, più che uno scoop giornalistico, la vicenda sia un trappolone studiato a tavolino, magari con la complicità di qualche quinta colonna interna. In effetti, parecchie sono le cose che non tornano.

1) Fidanza sarebbe indagato per riciclaggio e finanziamento illecito ma non per apologia di fascismo. Tutte le richieste a Fdi di scaricarlo perché nostalgico mussoliniano e alla Meloni di fare pubbliche dichiarazioni di antifascismo non poggerebbero su nessuna inchiesta penale. Il caso Fidanza fascista sarebbe solo una colossale montatura giornalistica. 

2) In cento ore di montaggio, e decine di appuntamenti pre-elettorali, il solo spezzone utilizzato per accusare Fidanza di neofascismo è la caricatura che l'eurodeputato fa di Jonghi Lavarini, alzando sgraziatamente il braccio per prenderlo in giro. Se questa è la pistola fumante, FanPage ha le polveri bagnate. 

3) Il video incriminato risale al 22 settembre, in zona Cesarini rispetto alla scadenza del voto. In campagna elettorale Fidanza ha partecipato a decine di eventi e mai è accaduto nulla. Casualmente, quasi nell'ultimo giorno possibile, Joghi Lavarini si presenta con il giornalista sotto copertura e tiene, di sua sponte, un mezzo comizio delirante, neanche volesse solo provocare. Fidanza reagisce, rimproverandolo e scimmiottandolo, e passa per fascista. 

4) Jonghi Lavarini è stato candidato tre anni fa per Fdi al Parlamento, ma in posizione impossibile, più che altro per tacitarlo. Un errore, ma non commesso da Fidanza, e neppure in realtà dalla Meloni, che non si occupa dei nomi messi in lista unicamente per fare volume, senza nessuna speranza di approdare alle Camere. Dopo il voto del 2018, il discusso Lavarini è stato marginalizzato e non ha più avuto nulla a che fare con il partito. È possibile che non abbia gradito. 

5) Il giornalista di Fanpage frequenta Jonghi Lavarini per tre anni ma incontra Fidanza solo a settembre. Cosa si sono detti prima i due? Che tipo di rapporto hanno instaurato? Come è possibile che Jonghi Lavarini abbia frequentato per tre anni un noto giornalista milanese senza accorgersene e pensando che fosse un imprenditore ma rimanendo del tutto ignaro di che cosa si occupasse? 

6) Come mai in tre anni Jonghi Lavarini, noto fascista, si trattiene e non commette gesti né si lascia sfuggire parole nostalgiche davanti al giornalista di FanPage, che lui pensava fosse un simpatizzante, salvo poi lasciarsi andare a un delirio neonazista, quasi a favore di una telecamera di cui non dovrebbe conoscere l'esistenza, solo quando incontra Fidanza? 

7) Jonghi Lavarini viene contattato da un oscuro imprenditore che vuole incontrare Fidanza per finanziare Fdi. Questi glielo presenta, ma la storia non finisce lì. Non solo il giornalista sotto mentite spoglie offre ripetutamente dei soldi in nero, ma anche lo stesso Lavarini ritorna in maniera particolarmente insistente sul tema soldi. 

8) Come mai nel video dove il giornalista offre soldi in nero Fidanza è male inquadrato, come normale da immagine rubata, mentre Jonghi Lavarini sembra quasi in posa?

9) Perché, se il solo intento è fare un'inchiesta giornalistica, non vengono pubblicati anche i filmati nei quali Fidanza si corregge e spiega al finto imprenditore che non vuole ricevere soldi in nero, indicandogli il conto dove bonificare? Al rifiuto del finto imprenditore, motivato con il fatto che i suoi supposti finanziatori non vorrebbero essere associati a Fdi, Fidanza declina l'offerta di denaro, ma questa evidentemente non è ritenuta notizia degna di segnalazione. Si tratta di giornalismo o di istigazione a delinquere? Di inchiesta o di dossieraggio? È informazione o killeraggio?

10) Perché è stato messo nel mirino proprio Fidanza, che in trent' anni di attività politica mai si era fatto notare per atteggiamenti nostalgici del fascismo? Può non essere secondario il fatto che l'eurodeputato sia uno degli uomini chiave che hanno accompagnato la Meloni nel cammino che l'ha portata ad assumere la presidenza dei Conservatori Europei, tessendo la tela per la sua nomina.

 11) Il giornalista di FanPage ha provato a incastrare anche esponenti della Lega meneghina, ma le sue proposte di finanziamenti in nero sono state respinte al mittente. Ci sono stati tentativi anche con politici del Pd o di M5S? Se non ci sono stati si può dire che più che di un'inchiesta giornalistica si è trattato di un tentativo di screditare il centrodestra, con tanto di istigazione a delinquere, comportamento che poco ha a che vedere con il giornalismo. A meno che non si sia nella redazione di Lotta Continua nei primi anni Settanta. 

12) Perché il servizio viene dato in pasto all'opinione pubblica prima del voto ma senza che ci sia il tempo per analizzarlo; a mo' di pugno in pancia che toglie il fiato e non dà diritto di replica?

Video Fanpage, Meloni: "Fidanza sospeso, in FdI nessuno spazio per nostalgia fascismo".  Francesco  Saita su Adnkronos il 7/10/2021. La replica della leader di Fratelli d'Italia al conduttore di “Piazzapulita” Corrado Formigli. "Fidanza? E' stato sospeso solo per il fatto di frequentare quella gente. Come ho detto anche questa sera a 'Dritto e rovescio' su Retequattro, non c'è nessuno spazio in Fratelli d'Italia per nostalgie del fascismo, razzismo, antisemitismo, folklore e imbecillità. E non c'è in queste dichiarazioni niente di nuovo rispetto al passato. Formigli non lo sa perché la verità non pare interessargli". Lo dice Giorgia Meloni all'AdnKronos, replicando alle parole del giornalista Corrado Formigli, che nella puntata di questa sera di 'PiazzaPulita', su La7, ha accusato la presidente di Fratelli d'Italia di non aver detto "di essere schifata dai saluti fascisti e dalle proposte discutibili di finanziamenti 'black'" mostrati nell'inchiesta di Fanpage sull'estrema destra a Milano, in cui è finito anche l'ex capo-delegazione in Ue di Fdi, Carlo Fidanza. "L'imbarazzo con il quale Formigli ha replicato a chi gli chiedeva perché non tirasse anche fuori il tema della condanna nel comunismo con gli esponenti della sinistra dimostra quanto sia sincero nella condanna delle ideologie totalitarie del XX secolo. Persone così ideologizzate lezioni di morale non hanno da farne". Meloni non ci sta ad essere definita arrogante per aver chiesto il girato integrale dell'inchiesta della testata online, quelle 100 ore che Fanpage dice di aver registrato: "Io ho chiesto il girato con garbo, loro non me lo hanno dato. Questi sono fatti", dice la leader di Fdi. ". "Io sono giornalista - ricorda Meloni - e non ho mai letto da nessuna parte che l'autonomia del giornalista comporti poter distruggere le persone senza mostrarne interamente le prove. Per il resto ho chiesto a loro, di Piazza Pulita, di aiutarmi a fare chiarezza fino in fondo e loro si sono rifiutati. Perché? E comunque il lavoro non è stato fatto da Piazza Pulita che ha mandato in onda il lavoro fatto da altri: ha controllato? E poi curiosamente anche le mie risposte sull'intervista della giornalista mandate in onda stasera sono state arbitrariamente tagliate e montate".

"Non c'è spazio per i nostalgici del fascismo". Chiara Campo l’8 Ottobre 2021 su Il Giornale. Linea dura della Meloni: "Arrabbiata con Fidanza, vanno evitati certi ambienti". «Sarò implacabile e voglio essere chiarissima, in Fratelli d'Italia non c'è spazio per atteggiamenti nostalgici del fascismo, per ipotesi di razzismo e antisemitismo, sono lontani anni luce dal nostro dna». La leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni lo ha scritto chiaramente in una mail inviata ieri ai dirigenti del partito, da diffondere a eletti e militanti, e lo ha ribadito ieri a Dritto e rovescio su Rete Quattro. Un lungo sfogo dopo l'inchiesta di Fanpage sulla «Lobby nera» e l'inchiesta sui presunti finanziamenti illeciti per la campagna milanese che vede indagato l'eurodeputato Carlo Fidanza, già autosospeso. «Aspetto fiduciosa che Fanpage mi si consegni le 100 ore di girato - ha insistito - o che la magistratura faccia il suo corso, perché c'è anche un'indagine aperta. Ci vorrà tempo purtroppo. Chiedo la verità per poter agire di conseguenza, ma non capisco perché questa cosa sia stata fatta con questi modi e questi tempi. Dai diretti interessati so che le cose non sono proprio andate come sembra». Il primo servizio dell'inchiesta è stato mandato in onda da Piazzapulita su La7 a due giorni dal voto. «La prima cosa che ho detto a Fidanza è stata come ti viene in mente?. Ero stata chiarissima - riferisce Meloni - sui rapporti che non si devono avere con determinati ambienti. Su questo tema io sono estremamente rigida. Fdi è un partito che guarda avanti. Atteggiamenti nostalgici, cose folkloristiche e imbecillità sono incompatibili con la storia di un partito serio come il nostro». Mi fa «arrabbiare - insiste la Meloni - che Fidanza abbia contravvenuto a un'indicazione che avevo dato e lui lo sa bene. Vorrei parlare dei problemi degli italiani e sono costretta a difendermi, anche per la stupidità delle scelte di alcuni dirigenti ed esponenti di Fdi». Sui presunti fondi neri, «Carlo nega che sia avvenuta qualunque forma di illegalità - sottolinea -, dice di aver usato parole sbagliate, ma c'è un'indagine in corso e non voglio fare errori, il tema è delicato». Sottolinea invece che l'altro indagato, Jonghi Lavarini (detto il «Barone Nero») «non è il plenipotenziario di Fdi come vogliono far sembrare sulla base di una cena con Fidanza. C'è una gerarchia ben definita a capo della quale c'è la sottoscritta. Non ci sono ambienti esterni che decidono per noi». Respinge al mittente le accuse del centrosinistra. «La morale dal Pd non me la faccio fare, da chi va a braccetto ed esalta un condannato in primo grado a 13 anni per reati come associazione a delinquere perché si fregava i soldi degli immigrati per farci gli affari suoi (Mimmo Lucano, ndr) o terroristi come Cesare Battisti». Corrado Formigli aveva invitato ieri Meloni a La7 per la nuova puntata: «Ha preferito andare da Del Debbio. Vada dove vuole, siamo in un paese libero» il commento secco del conduttore. Sull'inchiesta di Fanpage, realizzata da un giornalista introdotto per tre anni negli ambienti della destra sotto falsa identità, ieri è intervenuta duramente l'Osservatorio delle Camere penali: «Non è giornalismo d'inchiesta ma un'indagine privata». Chiara Campo

Roberto Jonghi Lavarini il «barone nero», i contatti e la valigetta (senza denaro). Meloni: «Fidanza è stato sospeso». Il secondo video dell’inchiesta della testata online Fanpage che ha portato all’apertura di un’indagine della Procura della Repubblica di Milano. Compare anche una figura storica del Carroccio, l’ex europarlamentare Mario Borghezio.  Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera l’8 Ottobre 2021. Nel trolley non ci sono che libri sul fascismo e una copia della Costituzione, ma Roberto Jonghi Lavarini, che sorveglia la consegna a distanza, è convinto che dentro ci siano i soldi che il fantomatico uomo d’affari gli ha promesso per sovvenzionare in nero la campagna elettorale alle ultime amministrative di Milano non solo di personaggi di Fratelli d’Italia ma, si scopre ora, anche della Lega. Si chiude con l’immagine della donna che si allontana la seconda puntata dell’inchiesta della testata online Fanpage che ha portato all’apertura di un’indagine della Procura della Repubblica di Milano per violazione della legge sul finanziamento dei partiti e riciclaggio in cui, al momento, risultano indagati lo stesso Jonghi Lavarini e l’eurodeputato di FdI Carlo Fidanza. Gran parte del video riguarda i rapporti in campagna elettorale tra ambienti dell’estrema destra milanese e personaggi di FdI e Lega in cui sembra fare da cerniera proprio Jonghi Lavarini, uomo di estrema destra soprannominato il «Barone nero». Negli incontri, nelle manifestazioni compaiono i parlamentari europei della Lega Angelo Ciocca e Silvia Sardoni, intenta ad operare in un gazebo. «Tutto quello che posso fare lo faccio con grande piacere. Utilizzateci al meglio in virtù del ruolo che abbiamo e se possiamo essere d’aiuto ci siamo volentieri», dice Ciocca ricevendo in un ufficio della Regione Lombardia il giornalista di Fanpage Salvatore Garzillo il quale ha detto che per tre anni si è infiltrato nel giro di Jonghi Lavarini sotto le mentite spoglie di un imprenditore. Compare anche una figura storica del Carroccio, l’ex europarlamentare Mario Borghezio che si dice impegnato a formare una «Terza Lega» orientata più a destra. «Con l’estrema destra di Milano non ho contatti», afferma dopo aver visto il servizio, e la Terza Lega non c’entra nulla con l’estrema destra, mi riferivo alla base, ai militanti». «Fidanza? È stato sospeso (dalla carica di capo delegazione di FdI a Bruxelles, ndr) solo per il fatto di frequentare quella gente», dichiara la leder del partito Giorgia Meloni in serata quando il video viene trasmesso su La7 da «Piazza pulita» di Corrado Formigli. «Non c’è nessuno spazio in Fratelli d’Italia per nostalgie del fascismo, razzismo, antisemitismo, folklore e imbecillità. E non c’ è in queste dichiarazioni niente di nuovo rispetto al passato», aggiunge. Il giornalista-imprenditore chiude l’accordo con Jonghi Lavarini per la consegna di un’imprecisata somma in contanti che il «Barone nero» con Fidanza aveva assicurato sarebbe passata attraverso le «lavatrici» approntate da commercialisti e imprenditori vicini a FdI in grado di trasformare il denaro in «black» in finanziamenti legali. Jonghi Lavarini, si afferma nel servizio, vuole i soldi per «i suoi referenti politici, tra cui rientrano autorevoli esponenti della Lega e di Fdi». Quando il falso uomo d’affari gli dice che i soldi saranno consegnati in un trolley, lui risponde: «Immagino che siano divisi in pezzi accettabili». E fa i nomi, coperti da un beep da Fanpage, di chi li riceverà. In un momento successivo, manda un messaggio al giornalista con la frase convenzionale che una terza persona dirà per ritirare la valigetta. Si presenta la donna che, con molta circospezione e qualche incertezza, fa il ritiro. I soldi, però, non ci sono.

Caso Fidanza, la seconda puntata di Fanpage: il ruolo di Lealtà azione e la «terza Lega» di Borghezio.  Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2021. Croci celtiche, battute sul «camerata» e sul caffè «nero e amaro come il fascismo repubblicano, saluti fascisti: arriva sul sito di Fanpage e su La 7 a «Piazzapulita» la seconda puntata dell’inchiesta Lobby nera che, dopo lo scandalo Fidanza, si concentra sui legami del gruppo di Jonghi Lavarini con alcuni autorevoli esponenti della Lega e delle istituzioni. A partire da Mario Borghezio, esponente della Lega nord, che starebbe portando avanti la strategia di formare una corrente di estrema destra nelle Lega: sarebbe proprio Borghezio - che secondo Fanpage viene da Oiron, il gruppo diretto dall’ex terrorista nero Maurizio Murelli - ad aver fatto entrare nella Lega l’uomo del Metropol, Gianluca Savoini. Carlo Fidanza e Jonghi Lavarini, protagonisti della prima puntata, sono indagati per finanziamento illecito al partito e riciclaggio. Meloni ha parlato dell’inchiesta di Fanpage come di una specie di «trappola».

Il sostegno «occulto» ai candidati della Lega

Nel servizio andato in onda stasera si parla anche dei sostegni «elettorali» ai candidati della Lega: l’europarlamentare Angelo Ciocca sarebbe stato rieletto proprio grazie ai voti dei sostenitori di Lavarini. Ma voti arriverebbero anche da un movimento borderline chiamato Lealtà azione, costola italiana della galassia Hammerskin, una formazione suprematista che promuove ideali neonazisti nota per aver compiuto violenze a sfondo razziale. Del movimento farebbero parte Massimiliano Bastoni, consigliere regionale della Lega, l’eurodeputata Silvia Sardone, appena eletta al consiglio comunale col record di preferenze, e Stefano Pavesi, uno dei leader del movimento estremista, rieletto con la Lega come consigliere di zona. Il movimento servirebbe alla Lega per raccogliere i voti dei militanti di estrema destra. E in cambio quelli di Lealtà e azione verrebbero assunti come aiutanti e portaborse dei politici leghisti. Ma, per non dare nell’occhio, «visto che già siamo fascisti», come dice Pavesi, che lavora per Sardone, avrebbero diverse coperture: come una onlus per la distribuzione dei pacchi alimentari, che in piena campagna elettorale ha distribuito i pacchi del Banco alimentare (finanziato da fondi pubblici) con tanto di «santino elettorale» spillato sulla busta.

La «terza lega»

Con Salvini indebolito, che va verso Giorgia Meloni, l’area estremista avrebbe più chance, secondo Borghezio che nel video parla di una «terza Lega», con un riferimento che sembra all’estrema destra: anzi, per la precisione, alla Terza posizione, movimento neofascista. «È tutta una invenzione di Fanpage- si difende lui - io ho parlato di terza Lega, ma non c’entra nulla con l’estrema destra, per me la terza Lega è la base, i militanti, a loro mi riferivo». Poi Borghezio punta il dito contro la testata che ha realizzato il servizio video: «È molto grave che una testata faccia fare l’agente provocatore a un giornalista». Il giornalista che poi è costretto a chiudere l’inchiesta quando si fa pressante la richiesta di una valigetta di denaro contante per finanziare la campagna elettorale dei referenti politici del suo contatto: valigetta che gli farà ritrovare piena di libri sull’Olocausto e sulla Costituzione italiana

Il «girato»

La seconda puntata dell’inchiesta di FanPage sui finanziamenti a Fratelli d’Italia è andata in onda stasera nonostante la diffida presentata dall’europarlamentare Carlo Fidanza, tramite il suo legale Enrico Giarda, per bloccarne la diffusione: la Procura di Milano ha infatti acquisito solamente il materiale girato per realizzare la prima puntata dell’inchiesta giornalistica e non tutte le 100 ore di `girato´, realizzate nel corso egli ultimi 3 anni. Fidanza e il «barone nero», come viene definito, Roberto Jonghi Lavarini, infatti, sono stati iscritti nel registro degli indagati per le ipotesi di finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio per il servizio pubblicato da FanPage trasmesso in tv la scorsa settimana.

L'sms di Lavarini a Ciocca smonta tutto: ecco la verità. Giuseppe Spatola il 8 Ottobre 2021 su Il giornale. L'europarlamentare Angelo Ciocca ha presentato denuncia contro il barone nero e depositato un messaggio il cui Jonghi lo insulta perchè "non vicino". “Male non fare, paura non avere“. Così ripete Angelo Ciocca affidando alla saggezza dei vecchi proverbi la strenua difesa da chi lo addita come un pericoloso fascista amico del fantomatico barone nero Roberto Jonghi Lavarini. E per questa ragione l'europarlamentare della Lega, Angelo Ciocca, che a Bruxelles è arrivato con 90 mila preferenze, ha presentato in Procura due diverse denunce circostanziate in cui dimostra come i suoi "rapporti con Roberto Jonghi Lavarini sono inesistenti". La verità di Ciocca è tutta in un messaggio WhatsApp inviato a fine 2020 da Jonghi Lavarini. Poche righe in cui è palese come il leghista avesse tagliato ogni contatto con il barone nero indagato per finanziamento illecito. "Non ci hai dato alcuna risposta concreta, alcun ruolo operativo e nessuno spazio politico: solo chiacchere e sorrisi“, scrive Jonghi a Ciocca usando toni lontani dall’essere amicali. Non solo. Il messaggio continua ricordando come Ciocca sia “scomparso senza più farsi sentire“. “Ce ne ricorderemo al momento opportuno. Per ora possiamo solo mandarti a fare in culo!“ così chiude il barone nero firmando anche per i gruppi di “Nordestra e Sinergie". "Il messaggio è stato inserito nella denuncia e dimostra i nostri non rapporti", ha spiegato Ciocca che non nega di aver visto in un paio di occasioni Jonghi. “Faccio politica alla vecchia maniera, stringendo mani e vedendo gente“, ha ricordato l’europarlamentare sottolineando come da 35 anni ha lo stesso numero di telefonino perchè non ama i filtri di segreterie o intermediari. E anche con Jonghi, conosciuto in un talk di Telelombardia, è andata così. “Me lo hanno presentato, l’ho visto e come faccio sempre mi sono messo a disposizione dei territori“, ha ribadito Ciocca. Nessun altro contatto nè aiuti chiesti. Stesso discorso per i riferimenti all’amor di patria. “Da europarlamentare difenderò sempre l’Italia e gli italiani - ha ribadito a IlGiornale.it sottolineando la sua posizione -: da anni nei comizi ripeto che dobbiamo lottare come fecero i nostri militari durante a prima e seconda guerra mondiale per difenderci da una Europa poco equa“. E a chi gli contesta l’estrazione politica di Jonghi l’europarlamentare allarga le braccia. Anzi. “Sto collaborando anche con un ex di rifondazione comunista per una iniziativa benefica: davanti a persone valuto e non allontano nessuno a priori“, ha ribadito Ciocca guardando oltre a quanto mostrato nell’inchiesta di fanpage.it. Per l’europarlamentare l’unica certezza è che con il barone nero non ha rapporti nè ha mai voluto rappresentare un punto di riferimento per gli estremisti milanesi. Una posizione messa nera su bianco anche in denuncia dove si chiede di perseguire chiunque accosterà il suo nome ad ambienti estremisti. I ricavati delle cause, poi, andranno a fare beneficenza sostenendo progetti di vera solidarietà. 

Giuseppe Spatola. Sono nato a Modica (Ragusa) il 28 ottobre 1975 e subito adottato dalla Lombardia dove ho vissuto tra Vallecamonica, Milano, Pavia e lago di Garda bresciano. Giornalista professionista, sono sposato con una collega, Carla Bruni, e ho due figlie, Ginevra e Beatrice, con cui vivo a Desenzano insieme a due cani e quattro gatti.  Ho frequentato la facoltà di Scienze Politiche a Pavia e il corso triennale in Sociologia dell'Ateneo di Chieti. Già consigliere nazionale dell'ordine dei giornalisti, segretario della commissione ricorsi, sono stato anche consigliere dell’Ass

Giampiero Rossi per corriere.it il 9 ottobre 2021. Anche la seconda parte della video-inchiesta di Fanpage sui punti di contatto tra ambienti neofascisti e partiti della destra parlamentare, rilanciata mercoledì sera da Piazza pulita su La7, ha prodotto scossoni politici, polemiche e reazioni indispettite. Questa volta il partito coinvolto è la Lega, dopo che una settimana fa il bersaglio era Fratelli d’Italia e in particolare le manovre attorno alla campagna elettorale di Chiara Valcepina, risultata poi eletta in consiglio comunale ma ancora autocondannata al silenzio.

I protagonisti

Nella nuova puntata si esplorano i legami tra alcune figure leghiste e gruppi della destra estrema. Protagonisti: il consigliere regionale Max Bastoni, l’europarlamentare Angelo Ciocca, la consigliera regionale Silvia Sardone (neoeletta anche in Comune) e Mario Borghezio, presentato come punto di riferimento della «Terza Lega», quella che dovrebbe approfittare della fase di debolezza del leader Matteo Salvini per spostare ulteriormente a destra l’asse della linea politica. Il filmato racconta anche l’esito finale della trattativa sull’ipotizzato finanziamento «in nero» alla campagna di Chiara Valcepina, contrattato tra il giornalista-infiltrato, l’europarlamentare Carlo Fidanza e il cosiddetto «Barone nero», Roberto Jonghi Lavarini (attivista dell’estrema destra neofascista milanese): la consegna di un trolley — presumibilmente pieno di soldi — a un emissario che si sarebbe presentato con una parola d’0rdine. La consegna pattuita con Jonghi Lavarini, in effetti, avviene. 

L’inchiesta della Procura

Ma nella valigia, però, il giornalista aveva messo soltanto libri sull’Olocausto e testi costituzionali sull’antifascismo. La Procura della repubblica ha disposto l’acquisizione anche dell’intero girato con cui è stata realizzata la seconda puntata di Fanpage sulla cosiddetta «lobby nera», dopo aver già visionato l’intero girato richiesto dopo la prima puntata. L’attività istruttoria sul caso dei pm Basilone e Polizzi sta proseguendo con l’ascolto di testimoni. L’inchiesta vede al momento indagati per finanziamento illecito e riciclaggio il «barone nero» e Fidanza, ma sono in corso verifiche anche per l’ipotesi di reato di apologia del fascismo. Nel secondo video Jonghi Lavarini, parlando col cronista, fa anche dei nomi di persone a cui dovrebbero andare i soldi pattuiti, ma Fanpage li ha criptati. Tutto sarà al vaglio della Procura e si sta ragionando se si possono configurare reati per il caso della valigetta, un tema giuridico che vede al centro la figura del cosiddetto «agente provocatore». 

Le mosse legali

Senza accettare di rispondere a domande, ma diffondendo comunicati, replicano intanto i protagonisti dei filmati. «Ho dato oggi mandato ai miei legali di predisporre una denuncia nei confronti di Jonghi Lavarini in caso abbia commesso un reato utilizzando il mio nome», fa sapere Angelo Ciocca. «Io rispondo alla Lega, al segretario Matteo Salvini e ai militanti della Lega. Non rispondo ad altri — dice invece Max Bastoni —. Non mi ritengo fascista, perché nel 2021 ritenersi fascista è fuori dal tempo, ma non la ritengo neanche un’offesa. E spiega che sta valutando di sporgere querela contro il conduttore di Piazzapulita Corrado Formigli «perché per due volte ha detto che io avrei dichiarato di essere orgoglioso di essere fascista e razzista. Premesso che io non l’ho mai detto e che non lo penso». Anche Silvia Sardone, di solito loquace, si rifugia nel comunicato: «La mia storia politica parla da sé ed è la risposta migliore agli schizzi di fango. Trovo francamente surreale il mio inserimento in un’inchiesta giornalistica in cui tra l’altro non sono nemmeno riusciti a recuperare una mia frase in oltre 100 ore di filmati. Non sono e non sono mai stata fascista, sono lontana da qualsiasi ideologia estrema. Ho già predisposto mandato di querela per diffamazione a Fanpage e a tutti coloro che mi collegano a Jonghi e mi danno patenti di fascismo». 

Il Banco alimentare

Nella vicenda entra anche il Banco alimentare, a sua volta annunciando iniziative legali come «parte lesa», perché nel reportage si vedono i rappresentanti della destra distribuire pacchi alimentari con allegati volantini elettorali e «dopo le opportune verifiche» ha provveduto «alla sospensione della convenzione con la struttura caritativa che ha ceduto gli aiuti ricevuti da Banco Alimentare a Lealtà e Azione». Intanto, in Regione come in Parlamento, tutti Pd e Movimento cinque stelle (oltre all’Anpi) chiedono al leader della lega Matteo Salvini, al governatore Attilio Fontana e a tutti i dirigenti politici dei partiti coinvolti di «prendere le distanze». E Fanpage denuncia una minaccia telefonica di Jonghi Lavarini nei confronti dell’autore dell’inchiesta: «Dammi una spiegazione entro un’ora o ti vengo a cercare».

FANPAGE NON MOSTRA IL VIDEO INTEGRALE. PIAZZA PULITA TAGLIA E MONTA LE INTERVISTE ALLA MELONI. E QUESTO SAREBBE GIORNALISMO? Il Corriere del Giorno il 7 Ottobre 2021. Giorgia Meloni : “Ho chiesto a loro, di Piazza Pulita, di aiutarmi a fare chiarezza fino in fondo e loro si sono rifiutati. Perché? E comunque il lavoro non è stato fatto da Piazza Pulita che ha mandato in onda il lavoro fatto da altri: ha controllato? E poi curiosamente anche le mie risposte sull’intervista della giornalista mandate in onda stasera sono state arbitrariamente tagliate e montate”. “Fidanza? E’ stato sospeso solo per il fatto di frequentare quella gente. Come ho detto anche questa sera a ‘Dritto e rovescio’ su Retequattro, non c’è nessuno spazio in Fratelli d’Italia per nostalgie del fascismo, razzismo, antisemitismo, folklore e imbecillità. E non c’è in queste dichiarazioni niente di nuovo rispetto al passato. Formigli non lo sa perché la verità non pare interessargli”. Lo dice Giorgia Meloni all’AdnKronos, replicando alle parole del giornalista Corrado Formigli, che nella puntata di questa sera di ‘PiazzaPulita’, su La7, ha accusato la presidente di Fratelli d’Italia di non aver detto “di essere schifata dai saluti fascisti e dalle proposte discutibili di finanziamenti ‘black’” mostrati nell’inchiesta di Fanpage sull’estrema destra a Milano, in cui è finito anche Carlo Fidanza ex capo-delegazione al Parlamento Europeo di Fratelli d’ Italia . “L’imbarazzo con il quale Formigli ha replicato a chi gli chiedeva perché non tirasse anche fuori il tema della condanna nel comunismo con gli esponenti della sinistra dimostra quanto sia sincero nella condanna delle ideologie totalitarie del XX secolo. Persone così ideologizzate lezioni di morale non hanno da farne“. La Meloni non ci sta ad essere definita arrogante per aver chiesto il girato integrale dell’inchiesta della testata online, quelle 100 ore che Fanpage dice (ma non prova) di aver registrato: “Io ho chiesto il girato con garbo, loro non me lo hanno dato. Questi sono fatti”, dice la leader di Fdi. “Io sono giornalista e non ho mai letto da nessuna parte che l’autonomia del giornalista comporti poter distruggere le persone senza mostrarne interamente le prove. – ricorda Giorgia Meloni – Per il resto ho chiesto a loro, di Piazza Pulita, di aiutarmi a fare chiarezza fino in fondo e loro si sono rifiutati. Perché? E comunque il lavoro non è stato fatto da Piazza Pulita che ha mandato in onda il lavoro fatto da altri: ha controllato? E poi curiosamente anche le mie risposte sull’intervista della giornalista mandate in onda stasera sono state arbitrariamente tagliate e montate”.

LA NUOVA FRONTIERA DEL GIORNALISMO D’INCHIESTA. Il Corriere del Giorno l’8 Ottobre 2021. Pubblichiamo il documento dell’Osservatorio sull’Informazione Giudiziaria, Media e processo penale. “Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire. È piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali”.

Osservatorio sull’informazione giudiziaria: Venerdì scorso il programma “Piazza Pulita” ha dato voce e spazio alla rivista on line Fanpage.it mandando in onda un filmato girato con una telecamera nascosta da un giornalista che per tre anni si è finto un uomo d’affari a cui interessava finanziare un gruppo politico italiano al fine di ottenere vantaggi per il proprio business e ha iniziato a frequentare personaggi della destra milanese. Tale divulgazione pare abbia suggerito, ieri, l’apertura di un fascicolo di indagine con le ipotesi provvisorie di condotte di finanziamento illecito ai partiti, riciclaggio e apologia di fascismo. Non ci interessa entrare nel merito, né tornare a parlare dell’uso strumentale delle indagini giudiziarie per contrastare quello o quell’altro avversario politico e neppure, una volta tanto, di populismo giudiziario. Il tema, o meglio dire, il fenomeno che ci interessa è questa nuova forma di “giornalismo d’inchiesta”. Mentre il Parlamento è impegnato nella ‘traduzione’ legislativa della Direttiva Europea in materia di presunzione d’innocenza, ove centrale è il tema affrontato in relazione alle ricadute anche sul versante mediatico, lo “strepitus” connesso al risalto offerto dalla stampa ad una vicenda dai connotati ‘penalmente’ rilevanti trova infatti un’ulteriore modalità espressiva. In questo caso non si assiste più alla ‘ricerca’ di informazioni correlate alla vicenda sottostante un’indagine giudiziaria in corso o alle solite, impunite violazioni del segreto istruttorio. Questa volta siamo al cospetto di un reporter che, dissimulando il proprio status personale, stimola proposizioni e comportamenti penalmente rilevanti, sino a determinare il momento genetico della notitia criminis, all’esito della pubblicazione del reportage. Il percorso ‘informativo’ subisce così una drammatica inversione ad U nel suo ‘fisiologico’ sviluppo informando il cittadino con la notizia di un fatto innescato e non con l’approfondimento di un fatto già accaduto. Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire. È piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali. Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso, nel quale le persone sono offerte in pasto all’opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria ‘indagine privata’, che addirittura precede e ‘genera’ la vicenda procedimentale propriamente intesa. Un’indagine che non conosce termini da osservare, autorizzazioni da chiedere, contraddittori da rispettare, che si avvale dei mezzi più invasivi della privacy, di intercettazioni ambientali, telecamere nascoste e agenti provocatori, i cui risultati vengono divulgati senza alcun controllo. Altro che direttive sulle conferenze stampa, garanzie e presunzione di innocenza. La domanda sorge spontanea: si tratta di un’attività lecita? Il primo precetto che appare violato è quello di cui all’art. 494 c.p. (sostituzione di persona), poi, dietro fila, entrano in gioco l’art 167 Codice Privacy (trattamento illecito dei dati tramite diffusione delle conversazioni, l’art. 615-bis c.p. (interferenze illecite nella vita privata), l’art. 617-septies c.p. (diffusione di riprese e registrazioni fraudolente). Dunque, la punibilità per la violazione di quest’ultima norma è espressamente esclusa (scriminata) allorquando la diffusione si commetta per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca. Nel parametrare la scriminante del diritto di cronaca al reato di sostituzione di persona, la Corte di Cassazione in un primo momento ha avuto modo di affermare che il giornalista non può realizzare un inganno tale da sostituirsi ad altra persona per carpire informazioni alla fonte, nè, in generale, deve ritenersi che egli possa commettere reati strumentali, prodromici e funzionali alla acquisizione della notizia, sia pur di interesse pubblico, contando sull’effetto “salvifico” della scriminante dell’esercizio del diritto ad informare. Per poi affermare di recente come “l’interpretazione convenzionalmente orientata della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto alla luce dell’art. 10 della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali impone di ritenere configurabile la scriminante del diritto di cronaca non soltanto in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche con riguardo ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima, salva la valutazione della violazione o meno degli eventuali limiti estrinseci del diritto.” In altre parole, spetterebbe al giudice valutare nel merito il bilanciamento tra gli interessi in gioco e verificare se la pubblicazione della notizia abbia apportato un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale e se nelle circostanze del caso concreto l’interesse ad informare la collettività prevalga “sui doveri e sulle responsabilità” che gravano sui giornalisti. Siamo dunque al cospetto di una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico, che non possiamo non segnalare, perché essa è posta oltre confine ed è in grado di oltrepassare qualsiasi limite, tra quelli finora ipotizzati dal legislatore, al fine di salvaguardare il principio della presunzione di innocenza. Se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra costituzione (come del resto è accaduto in tema di mafia e di prescrizione), il “giornalismo d’inchiesta” si sostituirà alla magistratura inquirente, con l’unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali. Oggi è successo ad un partito politico, domani potrà accadere ad altri schieramenti, ed ancor peggio, a qualsiasi cittadino, al di là della personale visibilità o notorietà. Sarà sufficiente che il caso che si vorrà scoprire o creare sia idoneo a promuovere un dibattito pubblico che, come al solito, assumerà più importanza di un eventuale, successivo procedimento penale. L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’ Unione delle Camere Penali Italiane.

"L'unico obiettivo è raggiungere lo scoop". I penalisti contro il caso Fidanza: “Non è giornalismo d’inchiesta ma indagine privata che si sostituisce ai pm”. Redazione su Il Riformista il  7 Ottobre 2021. “Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire. E’ piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali”. A scriverlo è l’osservatorio sull’informazione giudiziaria delle Camere penali, in merito all’inchiesta di Fanpage sulla presunta “lobby nera” che ha coinvolto l’europarlamentare di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza e Roberto Jonghi Lavarini, noto come il “Barone nero”, che hanno sostenuto la candidata al consiglio comunale di Milano di Chiara Valcepina. “Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso – osservano i penalisti – nel quale le persone sono offerte in pasto all’opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria ‘indagine privata’, che addirittura precede e ‘genera’ la vicenda procedimentale propriamente intesa”. Secondo gli avvocati “e dunque al cospetto di una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico, che non possiamo non segnalare, perché essa è posta oltre confine ed è in grado di oltrepassare qualsiasi limite, tra quelli finora ipotizzati dal legislatore, al fine di salvaguardare il principio della presunzione di innocenza: se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra Costituzione (come del resto è accaduto in tema di mafia e di prescrizione), – si legge ancora nel documento – il ‘giornalismo d’inchiesta’ si sostituirà alla magistratura inquirente, con l’unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali“. Oggi, rileva ancora l’osservatorio delle Camere penali, “è successo ad un partito politico, domani potrà accadere ad altri schieramenti, ed ancor peggio, a qualsiasi cittadino, al di là della personale visibilità o notorietà. Sarà sufficiente che il caso che si vorrà scoprire o creare sia idoneo a promuovere un dibattito pubblico che, come al solito, assumerà più importanza di un eventuale, successivo procedimento penale”.

Da liberoquotidiano.it il 7 ottobre 2021. "Non è giornalismo d'inchiesta" ma una "indagine privata" al di fuori di regole e controlli. A "smontare" l'inchiesta "Lobby nera" di Fanpage su Fratelli d'Italia è l'Osservatorio dell'Unione delle camere penali. Organismo istituzionale non propriamente di parte, dunque. L'indagine giornalistica, andata in onda giovedì scorso a Piazzapulita su La7, realizzata nel corso di 3 anni con un giornalista sotto copertura e infiltrato come "finto imprenditore", ha portato a galla diversi "filoni". Da un lato, il possibile ricorso a forme di finanziamento elettorale in nero da parte di importanti esponenti di Fratelli d'Italia in Lombardia. Dall'altro, quello di atteggiamenti nostalgici verso il Fascismo e riferimenti a Hitler. Per questo motivo martedì la Procura di Milano ha aperto una indagine per riciclaggio e finanziamento illecito su Carlo Fidanza, europarlamentare di FdI (auto-sospesosi) e il "barone nero" Roberto Jonghi Lavarini, che nel partito di Giorgia Meloni da anni non ha più alcun ruolo ufficiale. E dalla Procure filtrano voci di possibili sviluppi per "apologia di fascismo". Secondo l'Ucpi, in un durissimo comunicato, "questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire", ma "piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell'Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali. Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso, nel quale le persone sono offerte in pasto all'opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria 'indagine privata', che addirittura precede e 'genera' la vicenda procedimentale propriamente intesa". L'Osservatorio carceri dell'Unione delle camere penali lancia l'allarme su una indagine "che non conosce termini da osservare, autorizzazioni da chiedere, contraddittori da rispettare, che si avvale dei mezzi più invasivi della privacy, di intercettazioni ambientali, telecamere nascoste e agenti provocatori, i cui risultati vengono divulgati senza alcun controllo". Siamo di fronte, insomma, a "una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico". "Se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra Costituzione, il 'giornalismo d'inchiesta' si sostituirà alla magistratura inquirente - avvertono i penalisti - con l'unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali. Oggi è successo ad un partito politico, domani potrà accadere ad altri schieramenti, ed ancor peggio, a qualsiasi cittadino, al di là della personale visibilità o notorietà".

Inchiesta lobby nera, la procura: "Video con Fidanza e Jonghi Lavarini fedeli alle 100 ore di girato". Analisi sui contatti del "Barone".  Sandro De Riccardis,  Luca De Vito su La Repubblica l'11 ottobre 2021. I vertici di Fratelli d'Italia avevano accusato FanPage di aver tagliato e manipolato il video in fase di montaggio. La procura nel frattempo indaga per ipotesi di riciclaggio e finanziamento illecito. Le due video-inchieste pubblicate sul sito di FanPage e mandate in onda a Piazza Pulita sono una sintesi aderente a quello che è il totale delle ore di filmato girate dal giornalista che ha lavorato sotto copertura. Fonti della procura confermano così che non sarebbero stati fatti tagli o omissioni particolari nel lavoro di montaggio che ha portato alle versioni pubblicate. Un elemento che sembra smentire l'ipotesi, sostenuta dai vertici di Fratelli d'Italia, che quanto mandato in onda fosse una versione travisata dei fatti. All'indomani dell'inchiesta, Meloni aveva detto, per rinviare qualsiasi decisione sull'europarlamentare indagato Carlo Fidanza: "Prima voglio vedere tutto il girato, non giudico i miei dirigenti in base a un filmato montato da FanPage". I pm Giovanni Polizzi e Piero Basilone sono al lavoro nell'ambito dell'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, che punta a far luce sui sistemi di finanziamento del partito di Fratelli d'Italia e di eventuali sistemi di riciclaggio che passano per la cosiddetta galassia nera. Il fascicolo vede indagati l'europarlamentare Carlo Fidanza e il "barone nero" Jonghi Lavarini e le ipotesi di reato sono il finanziamento illecito e il riciclaggio. Nelle immagini riprese con la telecamera nascosta, si vedono e si sentono i due parlare di finaNziamenti in "black" e di "lavatrici". Per cercare di ricostruire il quadro, i militari del nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Milano stanno anche lavorando su documenti e dispostivi sequestrati nel corso delle perquisizioni a Jonghi Lavarini. Nei giorni scorsi, una volta scoperta la copertura del giornalista che si presentava ai vertici milanesi di Fratelli d'Italia come un fantomatico finanziatore, il cronista ha subito anche una serie di minacce da parte di Jonghi Lavarini. "Dammi una spiegazione entro un'ora o ti vengo a cercare". Aveva scritto così al giornalista infiltrato, dopo l'episodio della valigia in cui credeva ci fossero i soldi in nero dei quali lui si stava facendo tramite con importanti esponenti dei partiti di destra, ma dove aveva trovato solo dei libri. "Prima di emettere una mia sentenza e avviso pubblico nei tuoi confronti (ma poi devi lasciare Milano), attendo spiegazioni, di qualunque genere", si legge in un'altra chat riportata da Fanpage e attribuita a Jonghi Lavarini. E in un'altra ancora: "Ho bloccato sei iniziative su nove, ora mi toccherà pagare personalmente le altre promesse. Oltre il danno, la beffa".

·        Antifascisti, siete anticomunisti?

Il Partito fascista che non rinascerà dopo 100 anni. Giordano Bruno Guerri il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti. Esattamente 100 anni fa Benito Mussolini trasformò il suo movimento in Partito Nazionale Fascista. Non è un ricordo festoso, ma stupiscono, imbarazzano, i timori di chi sventola a ogni passo il pericolo della «ricostituzione» di quel partito. La temevano, più a ragione, gli autori della nostra Costituzione, che nel XII emendamento provvisorio scrissero asciuttamente «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Quasi nessuno, però, ricorda il secondo capoverso di quell'emendamento (lo ha fatto pochi giorni fa Stefano Bruno Galli): «In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista». L'articolo 48 è quello per cui «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. ... Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». I costituenti dunque stabilivano che, a partire dal 1953, «i capi responsabili del regime fascista» avrebbero potuto votare e addirittura essere eletti alla Camera o al Senato: una decisione non da poco, visto che erano ancora vivi per citare solo i due più brillanti Giuseppe Bottai e Dino Grandi. Curiosamente, il vezzo di diffondere il timore della possibile ricostituzione di un partito fascista è cresciuto con gli anni, invece di diminuire. L'ultima volta, recentissima, è stata per l'ignobile - abietta, infame, meschina, miserabile, nefanda, spregevole, turpe - aggressione di alcuni facinorosi alla sede della Cgil. La nostra condanna va da sé, ma occorre ricordare che per procedere legislativamente allo scioglimento di una forza politica (per esempio Forza Nuova) occorre prima una sentenza della magistratura che certifichi il tentativo di ricostituire un partito fascista. Questa sentenza non c'è. C'è il pericolo? Giurerei che non lo credano neanche quelli di Forza Nuova e dei movimenti simili. Il fascismo storico non può rinascere perché non ci sono le condizioni che lo permisero: l'immensa crisi del dopoguerra, gli scontri armati in piazza con socialisti e comunisti e - non ultimo - la mancanza di un capo carismatico come Mussolini. Non può rinascere anche perché il sistema internazionale (a partire dall'Ue) non lo consentirebbe, e soprattutto perché nessuno ne ha voglia, a parte qualcuno che confonde Dio, Patria e Famiglia con Punizione, Disciplina e Tristezza. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure, temo più spesso, per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti, quelli che davvero dovremmo affrontare ogni giorno. Per esempio un sistema scolastico che aiuti a capire le differenze fra storia e attualità. Giordano Bruno Guerri

L’ossessione fascista degli antifascisti. LO SPAURACCHIO DELL’ETERNO FASCISMO È ORMAI USATO PER DEMONIZZARE L’AVVERSARIO POLITICO.  Beatrice Nencha il 2 Novembre 2021 su Nicola Porro.it. Abbiamo un problema: il ritorno dell’eterno fascismo. Prima ancora dell’incursione di Forza Nuova dentro la sede della Cgil, la parola Fascismo stava già tornando in auge, in tutto il mondo, grazie alla pandemia. Non a caso la rivista spagnola Vanguardia, nel dossier di marzo 2021 intitolato “El mundo después de la Covid 19”, si interroga sul risorgere delle pulsioni fasciste, parallelamente all’imporsi di quello che è stato denominato il “Nuovo ordine mondiale”.

Covid come strumento di potere

Nel reportage “Autocracias y populismo en los nuevos tiempos”, l’autore Joshua Kurlantzick – giornalista e membro del sud-est asiatico presso il Council on Foreign Relations – riflette su cosa, durante l’emergenza dovuta al Covid-19, abbia accomunato il tragitto politico di numerosi governi, in ogni parte del mondo. Da quello del presidente delle Filippine Rodrigo Duerte, passando per l’Ungheria di Viktor Orbàn e l’India del primo ministro Narendra Modi, per arrivare al partito conservatore “Legge e giustizia” in Polonia fino ai governi di Israele, Canada, Australia, Russia. Solo per citarne alcuni.

“Un contagio della magnitudine del Coronavirus offre alle figure autoritarie una opportunità di consolidarsi al potere superiore a qualsiasi altro avvenimento, eccetto una guerra” scrive Kurlantzick, elencando come l’uso dei poteri emergenziali sia avvenuto, in moltissimi Paesi, a scapito delle libertà civili della popolazione. La compressione dei principali diritti costituzionali è stata compensata solo in parte dalla promessa di sicurezza offerta dallo Stato ai propri cittadini. A questa promessa si è poi saldata, da parte di dirigenti autocrati, “l’opportunità di stigmatizzare determinate minoranze nella popolazione, incolpandole dell’epidemia. Di fatto, dalle Filippine all’Ungheria, attraverso l’India e la Cambogia, i governanti di molti Paesi stanno usando il Coronavirus per accumulare poteri e stabilire nuove regole che saranno difficili da eliminare quando l’emergenza sarà cessata. Molti di questi nuovi poteri non hanno un limite temporale come scadenza. E la pandemia avrà consolidato il potere di questi despoti in modo indefinito” sottolinea l’autore.

Stato d’emergenza perenne

Queste riflessioni dovrebbero colpirci, anche se non viviamo in Cambogia. Dall’inizio della pandemia, quasi due anni fa, l’Italia è impantanata in uno stato di emergenza perenne. Nonostante da tempo l’emergenza non sia più così evidente, né nei numeri né nella logica dei provvedimenti emanati da enti spesso nemmeno di rango istituzionale ma, nei fatti, dotati di maggiori poteri e di una trasparenza a dir poco carente. Comitati e istituti che emanano norme spesso in contrasto tra di loro: da un lato c’è l’assoluta rigidità di protocolli (più politici che sanitari) come il lasciapassare verde per accedere al posto di lavoro; dall’altro l’assoluto disinteresse a conoscere quali siano i luoghi di maggior contagio del virus, i soggetti ad esso più esposti (in maggioranza, a leggere i dati dell’Istituto superiore di Sanità, soggetti non più in età lavorativa) e il modo più efficace per proteggerli. Mentre appaiono totalmente ignorati, da questi apparati, i costi sociali, economici e psicofisici generati da uno stato di emergenza endemico, che non può che erodere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche rappresentative. La scarsa partecipazione politica alle più recenti tornate elettorali, anche se locali, dovrebbe suonare come un campanello di allarme.

Bastano queste forti compressioni dello stato di diritto e del principio di checks and balances dei poteri per connotare l’operato di un governo con l’aggettivo “fascista”? O neofascita? O populista? O autoritario? Qui entriamo in un campo spinoso da maneggiare, persino per i politologi, che non concordano su una definizione condivisa del fenomeno. Sicuramente, la pandemia ha fatto risorgere l’uso demagogico, e talvolta improprio, di tutte queste denominazioni per qualificare quei governi che hanno imposto limitazioni durature dei diritti costituiti ai propri popoli. Ma questo è avvenuto solo nei governi e nei regimi dittatoriali considerati di destra? Su questo tema si interroga la rivista Il Mulino, che ha dedicato la sua ultima pubblicazione trimestrale all’analisi del concetto di Fascismo come “eterno ritorno”.

Fascismo immaginario

“La tesi del fascismo eterno è una conseguenza della banalizzazione del fascismo stesso, al punto in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali” scrive Steven Forti, professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. In questo modo personalità del tutto diverse come Trump, Bolsonaro, Salvini, Meloni e Orbàn possono essere etichettate come “fasciste” dai media, e dai loro oppositori, pur non avendo tratti né obiettivi in comune col fenomeno politico conosciuto come “fascismo” storico”. Tanto che per Trump è stata coniata, tra le tante, anche la magmatica definizione di “leader postfascista senza fascismo”. Come spiega Emilio Gentile, la tesi del “fascismo eterno” – o Ur Fascismo, avanzata da Umberto Eco in una conferenza tenuta negli Usa nel 1995 – “ha portato a una sorta di astoriologia in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali”. Ma leggiamo quali elementi, secondo Eco, sono caratteristiche tipiche del Fascismo: il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, il culto dell’azione per l’azione, il rifiuto di qualsiasi critica, la paura dell’Altro, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto, l’elitismo popolare, l’eroismo, il machismo, un “populismo qualitativo” e la creazione di una neolingua. Secondo il semiologo e filosofo piemontese, la presenza di almeno una di queste caratteristiche sarebbe sufficiente a creare una “nebulosa fascista”.

Demonizzare l’avversario politico

Tuttavia, la facilità con cui si possono addebitare alcune di queste connotazioni a governi considerati oggi di centro o di sinistra, oltreché a quelli populisti o conservatori, dovrebbe portare a maneggiare la definizione di “fascismo” con più onestà intellettuale e accortezza. E non come spauracchio demagogico e retorico per guadagnare facile consenso elettorale o demonizzare l’avversario politico. L’analisi politica dovrebbe essere non solo più precisa, ma anche più profonda. Come osserva lucidamente Forti “né il concetto di fascismo né quello di populismo ci aiutano a capire cosa sono e quali obiettivi hanno Trump o Salvini: tempi nuovi richiedono nuove categorie”.

Provate a elencare alcuni degli ultimi provvedimenti di un governo a caso, sia esso italiano o francese o americano: imporre un pass per frequentare luoghi di svago, di cultura o di lavoro, discriminando chi non lo possiede; imporre l’uso di una neo lingua per rifondare la grammatica e rendere impersonale (“equa”) la definizione di genere; enfatizzare le differenze tra oppressi e oppressori in chiave razziale (crical race theory); stigmatizzare la pandemia come risultato di un comportamento irresponsabile dei “non vaccinati”, creando divisioni all’interno del corpo sociale; usare la tecnologia per censurare opinioni e articoli che non corrispondono alla narrativa ufficiale di governo, intaccando la libertà di espressione, la libertà di stampa e la libertà di manifestare per i propri diritti da parte delle minoranze.

Se mettete su queste azioni, o su una di esse, la faccia di Salvini o di Trump, sarebbe facile bollarle come imposizioni autoritarie o “fasciste”. Anche se non sono loro ad averle imposte bensì leader democratici per i quali, oggi, servirebbe un nuovo Eco per definirne le gesta.

Beatrice Nencha, 1° novembre 2021

Enzo Risso per editorialedomani.it il 3 novembre 2021. La cronaca delle ultime settimane ha posto nuovamente all’ordine del giorno il tema della presenza nel nostro paese di nostalgie e pulsioni verso il fascismo. L'inchiesta di Fanpage sulla campagna elettorale di Milano; l’assalto alla sede della Cgil a Roma; il video, corredato di saluto romano e cori pro duce allo stadio Olimpico, sono solo gli ultimi casi. Nelle viscere di una parte della nostra società il fascismo resta un tema irrisolto. Per poco più di un terzo degli italiani (36 per cento) i regimi fascisti hanno realizzato cose importanti nei loro paesi. Ne sono conviti i residenti a Nordest (41 per cento) e in Centro Italia (43 per cento), nonché la maggioranza degli elettori di Giorgia Meloni (69 per cento). Significativo, per identificare l’animus che aleggia lungo lo stivale, è osservare quanti ritengano attuale o anacronistico parlare del fascismo. Per il 43 per cento è un tema superato, anzi è bollato come la «solita manovra retorica cui ricorre la sinistra quando non ha argomenti». Questa opinione è particolarmente vivida tra le fila degli elettori di Fratelli d’Italia (70 per cento), ma è ben presente nei ceti popolari (52 per cento), nel ceto medio-basso (47 per cento), nonché tra i residenti delle isole (50 per cento) e del Nord-est (47 per cento). Il senso anacronistico non coinvolge solo i partiti di centrodestra (57 per cento in Forza Italia, 67 nella Lega), ma lo ritroviamo tra gli elettori indecisi (42 per cento), tra i pentastellati (36 per cento) e, in forma ridotta, anche tra le fila del Pd (15 per cento). Tra i giovani, il 40 per cento reputa sorpassato il discorso sul fascismo, mentre nella Generazione X (i nati dal 1965 al 1979 e cresciuti nel cuore degli anni Ottanta) la percentuale lievita al 46 per cento. Il dato più significativo, nonostante il clamore suscitato dall’assalto alla sede della Cgil, è quello relativo alla necessità di reprimere i movimenti che inneggiano al duce e al regime. La quota di favorevoli è rimasta, più o meno, la stessa rispetto a un anno fa. Nel dicembre 2020, il 70 per cento degli italiani si diceva favorevole alla repressione. Una quota che, allora, saliva al 76 per centro nelle fila dei giovani della Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2010), ma scendeva al 65 per cento tra le fila delle Generazione X. Fra quanti erano favorevoli alla repressione c’erano porzioni non secondarie di elettori di Fratelli d’Italia (43 per cento), anche se il dato toccava il suo apice tra i supporter di Pd (92 per cento) e M5s (80 per cento). Pochi giorni dopo l’assalto alla sede della Cgil la percentuale di quanti ritengono giusto mettere fuori legge le associazioni o i partiti che si richiamano al fascismo è cresciuta di un solo punto (71 per cento). Se la vicenda non ha mutato gli equilibri complessivi, ha inciso su una parte dell’elettorato di Giorgia Meloni. La sua base, dopo la vicenda della Cgil, si spacca in due, con una metà (50 per cento) favorevole alla repressione (con un incremento di 7 punti rispetto al 2020) e l’altra metà suddivisa tra i nettamente contrari (18 per cento) e i silenti (32 per cento che non sa). Il dato, tuttavia, non sembra essere il risultato di una riflessione autocritica sul tema, bensì il prodotto dell’ampliamento della base elettorale di Fratelli d’Italia. La crescita di consensi registrata nell’ultimo anno ha inglobato persone provenienti da storie politiche differenti, ex Pdl, Lega, M5s o centristi. Elettori che non hanno legami nostalgici e che, anzi, sono particolarmente infastiditi da questi rigurgiti. Dal punto di vista dei segmenti sociali, l’ipotesi di repressione dei movimenti fascisti trova più freddi, rispetto la media, i ceti popolari (66 per cento), gli operai (64 per cento), i disoccupati (63 per cento) e i lavoratori autonomi (59 per cento). Il tema del rapporto col fascismo mostra, oggi come ieri, il carattere anomalo e anti-sistema che la destra italiana porta con sé dalle origini. In particolare, come sottolineava il politologo Marco Revelli, sfoggia il permanere, in alcuni segmenti della società, di tratti anti-liberali e totalitari, in cui la pulsione nostalgica verso il fascismo si coniuga con la tensione critica e il rifiuto epidermico e empatico dei valori e delle regole del modello democratico.  

 Salvini e Bolsonaro? La sinistra si indigna, ma sono i compagni ad omaggiare sempre i "cattivi". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. Ma da che pulpito viene la predica! Vi indigna, eh, vedere Salvini incontrare un presidente democraticamente eletto, come il brasiliano Jair Bolsonaro. E ritenete che la sua «presenza sia indigesta», come ha detto il grillino Mario Perantoni. E pertanto vi considerate legittimati a protestare, come hanno fatto ieri a Pistoia centri sociali e antagonisti, o a disertare, come ha fatto il vescovo della città. Peccato che voi cattocomunisti, grillini e gente varia di sinistra, soffrite di un doppio male: la memoria corta e lo strabismo cronico. Non vi ricordate di quando i vostri leader incontravano brutti ceffi. E, se pure ve ne ricordate, guardate a quegli incontri con occhio indulgente perché, quando il personaggio ingombrante è di sinistra o islamico, allora è solo un compagno che sbaglia (non troppo) o una simpatica canaglia. Se invece è un sovranista, è un nemico del popolo. Visto che i compagnucci sono smemorati o strabici, glieli ricordiamo noi quegli incontri scomodi. Che ne pensate di quella passeggiata nel 2006 tra Massimo D'Alema, allora ministro degli Esteri, e un deputato di Hezbollah, gruppo terroristico anti-israeliano, con cui l'altro se ne andava a braccetto per le strade di Beirut? E che ne dite di quei suoi incontri con un altro presidente brasiliano, il comunista Lula, condannato per corruzione e riciclaggio (accuse dalle quali, sebbene le condanne siano state annullate, non è stato assolto) e tuttavia ritenuto frequentabile dagli italo-comunisti? Non solo da D'Alema, ma anche dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri, che da ministro dell'Economia lo ha incontrato a febbraio 2020, dopo essere andato a trovarlo in carcere in Brasile due anni prima. Un abboccamento dal quale non poteva esimersi l'allora segretario del Pd Nicola Zingaretti che, poco prima che impazzasse la pandemia, trovava il tempo di stringere la mano a Lula. Cioè l'uomo che si è sempre rifiutato di consegnarci Cesare Battisti. Quanto a frequentazioni sudamericane discutibili non si può non ricordare il doppio incontro di delegazioni grilline, nel 2017 e 2019, coi ministri di Maduro, il presidente venezuelano che sta affamando il suo popolo. Forse volevano emulare D'Alema, che nel 2008 aveva siglato un accordo con Chávez, predecessore di Maduro. Ma parliamo di poca cosa rispetto alle reiterate strette di mano sinistre con Fidel Castro. Lo incontra ripetutamente Romano Prodi negli anni da premier: ne resterà positivamente impressionato tanto da definire, alla sua morte, quella incarnata da Castro «la speranza di un comunismo diverso». E lo va a trovare Fausto Bertinotti, da segretario rifondarolo, definendo la Cuba castrista «una terra miracolosa». Con lo stesso interesse con cui ha guardato ai tiranni latinoamericani, la sinistra ha mostrato sorrisi a personaggi controversi del mondo arabo. Il palestinese Arafat è stato il campione degli esponenti rossi, da D'Alema a Prodi che lo hanno accreditato come interlocutore, fino a Federica Mogherini, immortalata da giovane fan col leader palestinese. Ma anche Gheddafi, per l'amicizia col quale Berlusconi ha subito insulti, è stato incontrato più volte da Prodi, in veste di presidente della Commissione Ue. Caso singolare è quello del curdo Ocalan, artefice di azioni terroristiche, nel 1998 prima accolto in Italia come richiedente asilo grazie all'appoggio di Rifondazione Comunista (fu Bertinotti a incontrarlo) e poi scaricato dal premier D'Alema. Ma uno come Baffino, che ha abbracciato i peggiori leader, avrebbe potuto anche non fare lo schifiltoso con Ocalan. All'elenco manca Di Maio, che forse avrebbe voluto incontrare Pinochet, prima di scoprire che era già morto e non era il dittatore del Venezuela. 

L'antifascismo senza memoria è solo un'arma. Stenio Solinas il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Non le è bastato, già un ventennio fa, il "lavacro" di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato, già un ventennio fa, il «lavacro» di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato aver detto, ridetto, stradetto e in più lingue (visto che ne parla niente male almeno un paio) che lei con il fascismo non ha niente a che spartire, per età, per rifiuto di ogni tentazione totalitaria, e tantomeno con il neofascismo, palla al piede per ogni partito che intenda rifarsi a un'idea di destra. Non le basterà, come ha appena fatto, intervistata da Bruno Vespa nel suo ultimo libro fresco d'uscita (Come Mussolini rovinò l'Italia. E come Draghi la sta risanando) dire che «il 25 aprile celebra la liberazione dell'Italia dal nazifascismo»... Qualsiasi cosa abbia detto, dica e dirà Giorgia Meloni sul tema non muterà di una virgola ciò che c'è dietro a esso: un'Italia fragile, un Paese senza, aggrappato a una memoria di comodo, non avendo mai voluto fare veramente i conti con la sua storia. Diceva Renan che la nazione «è un plebiscito quotidiano». A giudicare dalle ultime amministrative, siamo una nazione in sciopero. L'antifascismo è la chiave che serve a tener chiuse le miserie italiane. Abbiamo perso una guerra e ci siamo crogiolati con l'idea che l'avesse persa il fascismo e vinta gli italiani... Non è un caso che la vulgata più popolare sull'argomento sia stata un film comico, Tutti a casa. Ricordate? «Colonnello è successa una cosa straordinaria», diceva il tenente Innocenzi, Alberto Sordi sullo schermo: «I tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando contro». Dalla tragedia ci stavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata la nostra maschera nazionale. Il film è degli anni Sessanta, quando l'antifascismo strumentale si accinge a blindare la nascita del centro-sinistra da future tentazioni di centro-destra. Prima non era stato così, e in fondo gli anni della ricostruzione sono quelli di un Paese troppo vicino a ciò che è successo per giocarci sopra o per fare finta di avere in maggioranza resistito lì dove invece in maggioranza aveva acconsentito. Per ogni antifascista improvvisato che punta il dito sul fascista non pentito c'è sempre qualcuno che ricorda al primo che no, che non ha i titoli per ergersi a coscienza civile... Nella Milano degli anni Cinquanta, Leo Longanesi, uno che ha fatto e disfatto il fascismo, salta sul tavolo di un ristorante e grida all'indirizzo di chi lo denunciò all'indomani della Liberazione: «Prendetelo, è un antifascista». Quello si alza e imbocca di corsa l'uscita. Il fatto è che siamo sempre più un Paese senza memoria. Avevamo il più forte Partito comunista d'Occidente. Si è sciolto come neve al sole e non trovi nessuno fra i suoi politici di lungo corso, fra i suoi mâitres à penser intellettuali che sull'argomento vada mai veramente a fondo. Ti guardano seccati, come se gli stessi chiedendo di rivelare chissà quali oscenità private. Per anni sono stati al servizio di un'idea, poi sono passati ad altro, come si cambia d'abito al mutare delle stagioni. Il comunismo prêt à porter. Naturalmente, memoria e identità sono legate fra loro e in politica l'esserne privi è tanto più dannoso perché sono le classi dirigenti che costruiscono il carattere di una nazione. La fine della Prima repubblica, il non essere mai nata della Seconda, il proliferare di sigle parlamentari, il nascere e il morire di maggioranze di governo senza legittimazione di voto, la moratoria alle elezioni politiche, che cosa ci raccontano se non un Paese senza timone né rotta? Ci si affida così a un feticcio nominale, residuo postbellico riesumato a comando, immagine di comodo costruita su una lettura parziale e autoconsolatoria di cosa sia stato il ventennio fascista, la sua pervasività, le sue connivenze, il grado di partecipazione, di consenso, persino di entusiasmo. Era stato un antifascista serio, Piero Gobetti, a definire il fascismo «l'autobiografia della nazione». Per anni si è continuato a far finta che quell'autobiografia fosse antifascista I conti non tornano, non possono tornare, non torneranno mai. Giorgia Meloni se ne faccia una ragione, si metta l'anima in pace e si candidi alla guida del Pd. Stenio Solinas

Budapest 1956: tragedia e eroismo della rivoluzione ungherese. Andrea Muratore su Inside Over il 24 ottobre 2021. La rivoluzione ungherese del 1956 fu uno degli eventi chiave della storia europea della Guerra Fredda e un punto di svolta per l’area del Vecchio Continente controllata dall’Unione Sovietica. L’epopea dei “ragazzi di Buda” che per due settimane, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre sfidarono il potere sovietico e il suo dominio sull’Ungheria è passata alla storia e tuttora è considerata una parte chiave della storia europea. La durissima repressione operata dall’Armata Rossa sancì un rafforzamento del controllo sovietico sulle aree occupate con la fine della Seconda guerra mondiale.

L'Ungheria post-bellica

Occupata nel 1945 dall’Armata Rossa dopo aver partecipato a fianco della Germania alla seconda guerra mondiale, l’Ungheria aveva subito uno dei più traumatici declini mai capitati a uno Stato europeo nell’era contemporanea. In meno di trent’anni, dal 1918 in avanti, Budapest era passata dall’essere la seconda città di un impero, l’Austria-Ungheria, a diventare la capitale di uno Stato ristretto di oltre due terzi del suo territorio e diventato satellite di una delle due superpotenze mondiali.

L’Ungheria, nazione abitata da una popolazione politicamente molto dinamica, legata ai valori pubblici e identitari, fu sottoposta a una delle più repressive dittature mai insediatesi nella zona, che avrebbe avuto come unico termine di paragone futuro la Romania di Nicolae Ceaucescu.

Il regime di Matyas Rakosi, al potere dal 1948 al 1956, fu uno dei maggiormente duri in termini di stretta sulle libertà politiche, di espressione e di confessione religiosa; complice la natura di ex Paese alleato della Germania, l’Ungheria fu sottoposta a una sorveglianza speciale da parte di Mosca e a una vera e propria esternalizzazione dei metodi staliniani tristemente famosi in Russia. Purghe, persecuzioni delle minoranze, ghettizzazione di membri dello stesso Partito Comunista accusati di revisionismo o vicinanza alla Jugoslavia di Tito erano all’ordine del giorno, così come le azioni dell’Autorità per la Sicurezza Pubblica, il servizio segreto di Budapest (Avh).

L’onda lunga della destalinizzazione dopo la morte del dittatore sovietico nel 1953 raggiunse anche Budapest. Negli anni precedenti nelle purghe era caduto vittima anche Laszlo Rajk, ex ministro dell’Interno e fondatore dell’Avh, mentre per spostare l’attenzione dalla crescente problematica della crisi economica il regime provò, tardivamente, a incentivare dibattiti e riflessioni interne.

L'anomalia ungherese

Il problema dell’Ungheria era, in quella fase, triplice. In primo luogo, il Paese era costretto nonostante la formale alleanza a pagare pesanti riparazioni di guerra a Unione Sovietica, Repubblica Ceca e Jugoslavia che, nell’era Rakosi, assorbivano circa un quinto del budget nazionale, oltre a dover mantenere sul suo territorio le forze dell’Armata Rossa.

In secondo luogo, l’Ungheria era vittima di iperinflazione, depauperamento dei salari e problemi legati all’assenza di prospettive nella fase dell’industrializzazione post-bellica, che aveva portato i redditi nel 1952 a due terzi del livello del 1938.

In terzo luogo, l’insicurezza economica e sociale si sommava con un contesto interno che vedeva una popolazione dinamica, istruita e abituata a standard di vita ben più elevati depauperata nelle prospettive di sviluppo e ostacolata nella volontà di commerciare e confrontarsi con i Paesi occidentali.

In quest’ottica maturarono le condizioni perché si sviluppasse una magmatica esplosione che ebbe nella messa in discussione dei miti del conformismo bolscevico il suo innesco.

Ottobre 1956: esplode la rivoluzione

L’innesco della rivoluzione ungherese avvenne per eventi accaduti in Polonia. Tra il 19 e il 21 ottobre 1956 in Polonia, il “revisionista” Władysław Gomułka venne riabilitato ed eletto a capo del Partito Operaio Unificato Polacco, dopo una “prova di forza” con i sovietici.

In sostegno a Gomulka si mossero movimenti politici di tutta l’Europa orientale, tra cui un gruppo di studenti dell’Università di Tecnologia e di Economia di Budapest ritrovatosi il 23 ottobre a Pest sotto la statua di Sándor Petőfi, il poeta che secondo la tradizione storica del Paese avrebbe scatenato la rivoluzione del 1848 con la lettura di una sua poesia e a cui nome era stato intitolato un gruppo interno al partito favorevole alle politiche riformiste dell’ex primo ministro Imre Nagy.

L’acclamazione della folla di Pest per Nagy, ritenuto l’oppositore numero uno di Rakosi e fautore della recente caduta di quest’ultimo dalla guida del partito, si tradusse in sostegno aperto quando la folla acclamò il politico del centro del partito e inneggiò in suo favore. Nel timore di non riuscire a placare la rivolta, il Comitato centrale del Partito comunista decise nella notte di richiamare a capo del governo Nagy, conscio del fatto che le proteste stavano ricevendo il sostegno della popolazione e si stavano trasformando in rivolta anti-sovietica.

Nagy tentò di restare nel solco della disciplina di partito, ma impostò una linea decisionista. Come ricorda Il Giornale, Nagy fece sciogliere “la terribile polizia segreta stalinista”, ordinando inoltre di liberare i prigionieri dai campi di detenzione, mentre “i nuovi patrioti” liberano il cardinale József Mindszenty, oppositore del regime comunista incarcerato nel 1948. Giornalisti, pensatori, oppositori del regime tornano ad aver voce ovunque nella nazione. Nel primo giorno di novembre, l’Ungheria, paese satellite che nello scacchiere della Guerra Fredda rappresenta una bandierina in più, annuncia l’intenzione di uscire dall’alleanza politico-militare dei Paesi comunisti”, suscitando il definitivo tracollo della pazienza sovietica per l’esperimento ungherese.

La repressione

Ovunque l’Ungheria entrò in subbuglio: i fedelissimi della linea stalinista e repressiva del Partito Comunista furono messi all’angolo e in certi casi cacciati dalle loro posizioni politiche armi in pugno, nelle fabbriche del Paese formarono consigli operai anarco-sindacalisti e fu indetto lo sciopero generale. Mosca rispedì due membri del Comitato Centrale del Pcus, Mikojan e Suslov, a Budapest e mobilitò le truppe nella regione magiara, mentre ovunque si apriva una strisciante guerra civile tra lealisti e rivoluzionari sovrapposta ai combattimenti tra i protestanti e le truppe sovietiche stanziate in Ungheria.

In seguito alla comparsa dei blindati sovietici, si estese l’insurrezione. I comandanti sovietici spesso negoziavano dei cessate il fuoco a livello locale con i rivoluzionari. In alcune regioni le forze sovietiche riuscirono a fermare l’attività rivoluzionaria. In Italia, nel frattempo, crollava nella fila del Partito Comunista Italiano il mito dell’infallibilità sovietica e un centinaio di intellettuali (tra cui Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Antonio Maccanico) firmarono un manifesto di netta condanna delle azioni di Mosca.

Per due settimane, il governo di Budapest cantò apparentemente vittoria sul futuro del Paese, conscio inoltre del fatto che la parallela crisi di Suez attirasse l’attenzione degli attori occidentali facendo cadere la pretesa sovietica di un possibile intervento occidentale nella zona d’influenza di Mosca. Del resto gli Stati Uniti espressero con precisione il 27 ottobre la loro posizione per bocca del Segretario di Stato dell’amministrazione Eisenhower, John Foster Dulles, dichiarandosi contrari a ogni intervento in Ungheria.

Ciononostante, a Budapest si preparavano barricate, milizie armate con il tricolore ungherese verde-bianco-rosso strappato per rimuovervi i simboli comunisti sul braccio combattevano fianco a fianco con i militari dell’esercito regolare passati ai rivoluzionri, il governo temeva un intervento sovietico. Col senno di poi legittimamente: l’Urss il 31 ottobre ufficializzò i piani d’invasione dell’Ungheria, che entrò in azione quattro giorni dopo.

L’attacco sovietico fu una vera e propria guerra all’Ungheria: combinando  incursioni aeree, bombardamenti di artiglieria e azioni coordinate tra carri e fanteria i sovietici travolsero, passo dopo passo, ogni ostacolo di fronte a loro. Il successore di Stalin, Nikita Krushev, non potè esimersi dall’applicare una linea diversa da quella del dittatore suo predecessore, conscio che perdere l’Ungheria avrebbe leso la posizione geostrategica di Mosca.

Gli scontri terminano poco prima di Natale e lasciano sulle strade di una Budapest distrutta e ben 3.000 morti, mentre l’Armata Rossa subì a sua volta perdite non indifferenti, superiori ai 700 caduti. Mosca insediò a capo del governo di Budapest un fedelissimo, Janos Kadar. Negli anni successivi sotto la sua guida sarebbero stati migliaia gli ungheresi incarcerati e centinaia quelli giustiziati per questioni legate alla rivoluzione del 1956, tra cui l’appena diciottenne Péter Mansfeld, vittime della retorica secondo cui “il 1956 è stata una contro-rivoluzione“ a cui le forze del proletariato mondiale avevano legittimamente risposto.

Un dramma epocale

L’Urss temeva un effetto contagio. A Cluj, in Transilvania, si era protestato contro il governo romeno, mentre a Bratislava, in Cecoslovacchia, il tema principale era la questione universitaria. Inoltre, l’Urss aveva bisogno di rafforzare la sua presa su un Paese di confine e non lesinò le forze: l’Ungheria fu invasa, occupata e gradualmente schiacciata assieme al suo popolo perché aveva scelto la linea deviazionista.

Tra novembre e dicembre l’esperienza della primavera fuori stagione di Budapest finì in uno spazio ancor più breve di quello in cui era fiorita. Nagy fu arrestato e sarebbe stato giustiziato due anni dopo, nel quadro dell’ennesima purga contraddistinta da processi-farsa. Troppo importante la posta in palio per l’Urss, che avrebbe però subito un grave danno d’immagine dalla sua azione. Pietro Nenni, leader del Partito Socialista Italiano, andò ancora oltre i compagni del Pci e sull‘Avanti! del 28 ottobre scrisse: “Si può schiacciare una rivolta, ma se questa, come è avvenuto in Ungheria, è un fatto di popolo, le esigenze ed i problemi da essa poste rimangono immutati. Il movimento operaio non aveva mai vissuto una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell’Europa orientale, anche con i silenzi, i quali non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare”.

Nenni non aveva, di fatto, torto: trent’anni dopo, col collasso del regime comunista, il pensiero dei cittadini della nuova Ungheria libera e indipendente andò proprio ai martiri del 1956. Caduti per l’indipendenza nazionale prima ancora che per il socialismo reale. Tanto che nel giugno 1989 proprio la commemorazione pubblica di Imre Nagy segnò l’inizio della fine del potere sovietico in Ungheria. Nella giornata del 16 giugno, durante questa commemorazione, ebbe modo di far conoscere il suo volto al mondo un giovane politico capace in futuro di segnare a sua volta la storia ungherese, Viktor Orban. Capace di far decollare la sua carriera proprio commemorando lo spartiacque decisivo della storia del Paese nel Novecento. A testimonianza della natura unificante e universale che l’epopea dei “ragazzi di Buda” ha per la nazione magiara.

Alessandro Sallusti: "Non tocca alla Meloni, ma a Veltroni e compagni", chi si deve scusare per il proprio passato. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. «Io sono Giorgia», l'autobiografia edita da Rizzoli di Giorgia Meloni, è appena uscita e già è in testa alle classifiche di vendita. Tanto per cambiare, il successo di pubblico non coincide con quello di critica. Sui giornali si parla del libro per stroncarlo a prescindere: c'è la spocchia del critico letterario che scambia una biografia per un romanzo, cosa che non è, e c'è chi l'ha spulciato a caccia di anomalie nel racconto, manco fossimo in tribunale. E poi c'è chi - come ha fatto anche ieri Gad Lerner sul Fatto Quotidiano - contesta alla Meloni «amnesie e buchi neri» rispetto al fascismo. Premesso che non sono l'avvocato difensore di Giorgia Meloni, mi chiedo come in una sua autobiografia avrebbe potuto trovare spazio il fascismo, essendo la signora nata nel 1977, anno in cui Gad Lerner di anni ne aveva 23 e già faceva politica nel quotidiano Lotta Continua, l'organo della sinistra extraparlamentare il cui vertice fu condannato per l'omicidio del commissario Calabresi. Intendo dire che ci risiamo con il solito vizio della sinistra radical chic, quello di non voler fare i conti con il proprio passato ma pretendere che lo facciano gli avversari, anche quando questi sono totalmente estranei ai fatti che gli vengono rinfacciati. Se un politico, solo perché di destra, può essere tranquillamente inchiodato al fascismo, che dire dei politici che hanno militato nel partito che incarnava l'ideologia che ha provocato la più grande tragedia del Novecento, cioè quella comunista? Gad Lerner è stato convintamente comunista e non mi risulta, per esempio, che abbia mai rinfacciato a Napolitano di essere non erede ma entusiasta sostenitore di alcuni dei crimini del regime sovietico. Gad Lerner e i suoi emuli, all'uscita di uno dei tanti libri di Veltroni o di D'Alema, non hanno mai scritto: sì, però non dici che sei stato comunista, cioè parente contemporaneo di chi ha prodotto i gulag, la privazione di libertà fondamentali e tanta povertà. No, si sono tutti genuflessi per tessere elogi, peraltro immeritati, alle capacità narrative dei compagni. Caro Gad, fattene una ragione. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con il fascismo, e se qualche nostalgico le si accoda in scia non è colpa sua. Se uno come Napolitano ha potuto indisturbato rimuovere il proprio passato e salire al Colle, significa che ognuno ha le sue amnesie. E quelle della sinistra sono grandi come una casa.

Fascista o comunista purché sia arte autentica. Vittorio Sgarbi il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Chi grida allo scandalo per le mostre di Depero sappia che lì a fianco c'è quella del marxista Perilli. Agli imbecilli e ignoranti che la buttano in politica, e che non sono in grado di capire né concetti, né battute, né paradossi, occorre dire che, in tanto parlare di fascismo e antifascismo, una cosa sola è certa: che l'unico fascista, amato, idolatrato e onorato in Trentino, è Fortunato Depero, al quale io, in qualità di presidente del Mart, ho, dopo molte pressioni locali, consentito fossero dedicate due belle e importanti mostre in tutta la città di Rovereto, nella sede principale di Mario Botta e nel museo d'arte futurista, insieme ad altre, volute dal Comune, nel Museo della città, nel Museo storico italiano della guerra e alla Fondazione Campana dei caduti, e all'omaggio a Depero dalla sua valle, a Cles. La fantasia dell'artista, le sue creazioni, soprattutto negli anni '20, '30 e '40 sono, in tutto il mondo, la più straordinaria esaltazione del Fascismo. Nel '32 è proprio il grande artista a scrivere: «l'arte nell'avvenire sarà potentemente pubblicitaria». Il suo percorso fascista inizia nel 1923 con due veglie futuriste e con la ridecorazione della casa d'arte che apparirà nella rivista Rovente futurista. Per quelli che pretendono di demonizzare qualunque manifestazione del Fascismo, l'esperienza di Depero è la più clamorosa smentita; ed è esattamente quello che io ho detto, strumentalizzato da beceri ignoranti che pretendono di chiamarsi «Sinistra italiana», oltre che da modesti giornalisti locali, ricordando ciò che tuttora vive nella cultura, nell'esperienza, nella conservazione dei monumenti, nei teatri italiani, con l'impresa della Treccani, con le opere di Pirandello, con le conquiste di Marconi e di Fermi, iscritto al partito fascista dal 1929, con la legge di tutela del patrimonio artistico italiano che è ancora quella voluta dal gerarca Bottai nel 1939, con la grande architettura dell'Eur e delle città di fondazione, il cui pieno riconoscimento è toccato ad Asmara, città coloniale, dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità. Quanto a Marconi, si iscrisse al Partito fascista nel giugno del 1923, otto mesi dopo la formazione del primo governo Mussolini. Fu la scelta di un conservatore che era stato testimone dei duri scontri del biennio rosso, aveva visto nella occupazione delle fabbriche la minaccia del contagio bolscevico e dava del leader del fascismo un giudizio non diverso da quello di una larga parte della classe politica europea fra cui, in particolare, Winston Churchill. Così ho detto e così è. Vi è chiaro, imbecilli? E così come Asmara, Depero indica, con la sua creatività, la perfetta coincidenza della sua arte con la visione del Fascismo, in cui si rispecchia anche l'impresa transoceanica di Balbo. E puntualmente il futurismo si esprime nella Aeropittura. Depero era una persona «coi piedi per terra», e per nulla affascinato da aeroplani e nuvole. Il suo punto d'osservazione era paradossalmente più alto di quello raggiungibile con gli aeroplani futuristi: era stato a New York e aveva toccato con mano quel futuro solo vagheggiato e teorizzato dai Futuristi italiani. Nel 1931 pubblica Il Futurismo e l'Arte Pubblicitaria, già in bozze a New York nel 1929. Secondo Depero l'immagine pubblicitaria doveva essere veloce, sintetica, fascinatrice, con grandi campiture di colore a tinte piatte, per così poter aumentare la dinamicità della comunicazione. Nel 1932 espone prima in una sala personale alla XVIII Biennale di Venezia, e poi alla V Triennale di Milano. A Rovereto pubblica una rivista di cui usciranno solo cinque numeri nel 1933: Dinamo Futurista. In seguito, nel 1934, le Liriche Radiofoniche, che declamerà anche all'EIAR fascista (la Rai di allora). Molti saranno i Futuristi di terza generazione ad andare in pellegrinaggio a Rovereto, come altri da d'Annunzio, protetto e locupletato dal fascismo (diversamente da me che esercito gratuitamente la funzione di presidente del Mart, e che non ho alcun interesse economico nelle iniziative che promuovo), per rendergli omaggio o per coinvolgerlo in qualche iniziativa. I principali committenti di Depero sono corporazioni, segreterie di partito, grandi alberghi, amministrazioni pubbliche, industrie locali. Le opere richieste sono eminentemente didascaliche, propagandistiche, decorative. Rispettosamente fasciste. Verso la seconda metà degli anni '30, a causa dell'austerità dovuta alla politica autarchica da lui condivisa, contribuisce al rilancio del Buxus, un materiale economico a base di cellulosa atto a sostituire il legno delle impiallacciature, brevettato e prodotto dalle Cartiere Bosso. Nel '40 pubblica l'autobiografia. Nel '42 realizza un grande mosaico per l'E42 di Roma, mentre nel '43 con A Passo Romano cerca di dimostrare il suo allineamento sostanziale con il Fascismo anche per ottenerne lavori e commesse. Finita la guerra, nel tentativo di giustificarsi di fronte al nuovo ordine dello Stato italiano per quel libro apertamente fascista, afferma che loro, i Futuristi, credevano fermamente che il Fascismo avrebbe concretizzato il trionfo del Futurismo, e che lui aveva anche «bisogno di mangiare». Nel '47, in parte sponsorizzato dalle Cartiere Bosso, ritenta di riproporsi in America, ma la trova ostile al Futurismo perché ritenuto l'arte del Fascismo. Nel '49 torna quindi in Italia, disilluso e dimenticato dall'antifascismo di regime. È la solita storia, come nelle proclamazioni di oggi. Ennio Flaiano scriveva: «i fascisti si son sempre divisi in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Agli antagonisti di Depero e agli opportunisti di oggi rispondeva Pasolini: «nulla di peggio del Fascismo degli antifascisti». Per ciò che riguarda i teppisti, che si nascondono dietro la sigla «Sinistra italiana», è utile ricordare Leonardo Sciascia: «il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Per rimuovere l'accusa di Fascismo, Fortunato Depero aderisce al progetto della collezione Verzocchi sul tema del lavoro, nella già fascista e ora comunista Forlì. Contestualmente (1955) entra in polemica con la Biennale di Venezia, accusata di censurare lui e il Futurismo, pubblicando il saggio Antibiennale contro le penose critiche politiche al Futurismo. E proprio perché io non ho voluto lasciare spazio soltanto all'arte di propaganda di Depero, alla grande mostra sul pittore fascista, nei suoi anni migliori, ho affiancato quella sul profondamente intimista e spirituale Romolo Romani, che ritira subito la sua adesione al manifesto futurista e muore precocemente nel 1916. Si tratta di una palese e dichiarata contrapposizione tra arte applicata e arte implicata, come ho spiegato in diverse occasioni. I disegni di Romani hanno, rispetto alle invenzioni dei futuristi, una verità e una necessità spirituale che si esprimono in forme nuove attraverso una ricerca profonda che non ha niente di propagandistico. Ogni disegno è una ossessione o la trascrizione di una visione. Per questo Romani si ritirò. Ai futuristi interessava il mondo, e Depero lo ha dimostrato. A Romani importava seguire la propria anima, trascriverne i palpiti, registrare apparizioni in segni necessari perché ne potessimo conservare memoria. E, se non fosse chiaro questo, aggiungerò che, nell'offerta di mostre del Mart, vi è un artista di cui si conosce la professione di antifascismo nei tempi giusti, non oggi: Alceo Dossena, morto nel 1937, quando il Fascismo c'era. È facile fare gli antifascisti quando il regime è finito, e accusare di Fascismo ridicoli facinorosi che, con la collaborazione delle Forze dell'Ordine che smanganellano innocui manifestanti, occupano la sede della Cgil! Non si può dire? E come collegare le proteste contro il green pass con l'assalto al sindacato? Ecco allora gridare «al fuoco al fuoco!» chi si piega devotamente alle prescrizioni autoritarie del governo, docili come furono durante il Fascismo. Mentre non deve essere abbastanza chiaro che l'altra mostra proposta nel museo, con il confronto fra Guccione e Perilli, onora due artisti dichiaratamente comunisti. Il settore culturale, da sempre priorità della sinistra, in quegli anni incarnata dal Partito Comunista Italiano, vede l'adesione di artisti e intellettuali, e tra questi anche gli esponenti di Forma 1, fra i quali Perilli. I giovani pittori nel 1947 si trovano di fronte a un bivio: aderire o disobbedire alle linee estetiche realiste proprie dell'iconografia sovietica? E la risposta arriva con la stesura del Manifesto redatto dal gruppo di artisti militanti. Gli esponenti di Forma 1 si proclamano ufficialmente «formalisti e marxisti», opponendosi all'idea che l'arte abbia una funzione sociale e politica esprimibile esclusivamente attraverso un realismo di carattere illustrativo. E vero comunista fu, con queste legittime riserve, Achille Perilli. Non meno progressista fu Piero Guccione, il cui ritratto di Antonio Gramsci, una grande tela di 1,50 x 1,50 m, è stato per quasi quarant'anni esposto nelle varie sedi delle sezioni del Partito della sinistra sciclitana, costituendone il simbolo e il riferimento per intere generazioni. Sarebbe buona cosa che i vigliacchi e gli ignoranti che parlano di cose che non conoscono avessero l'umiltà di studiare, visto che non hanno la capacità di capire. Vittorio Sgarbi

L’anticomunismo non è solo un valore della destra, risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2021.

Caro Aldo, oltre all’antifascismo non di sinistra, esiste anche l’anticomunismo non di destra? Ritengo di sì, forse più marcatamente. Sono due movimenti non uguali ma simili? O è più corretto parlare di singoli antifascisti e di singoli anticomunisti? Lei ha scritto che l’antifascismo non è solo un valore di sinistra. Anche l’anticomunismo non è solo un valore di destra? Ed entrambi dovrebbero essere un valore condiviso? Fino a quando le parole «fascismo» e «comunismo» circoleranno, non finiremo mai di porci domande. Alessandro Prandi

Caro Alessandro, Assolutamente sì. Così come l’antifascismo non è un valore soltanto di sinistra, allo stesso modo l’anticomunismo non è — o non dovrebbe essere — un valore soltanto di destra. Mário Soares — l’uomo che fu undici volte nelle carceri di Salazar e tre volte primo ministro del Portogallo; confinato sull’isola di São Tomé, esiliato, eletto presidente della Repubblica — mi ha raccontato che, quando sembrò che i comunisti di Álvaro Cunhal e i militari ancora più a sinistra guidati da Otelo de Carvalho potessero prendere il potere, il primo ministro laburista James Callaghan gli assicurò che avrebbe fatto intervenire la Raf (Royal Air Force) a Lisbona, pur di sostenere il governo socialista guidato appunto da Soares. Sempre per restare a Londra, il più grande scrittore civile del Novecento, George Orwell, uomo di sinistra, che aveva preso posizione contro Franco («Omaggio alla Catalogna»), era un convinto anticomunista. Proprio a Barcellona vide gli stalinisti fucilare gli anarchici. Non a caso legò il proprio nome a un romanzo costato al totalitarismo comunista più di una battaglia perduta, «La fattoria degli animali». I socialdemocratici tedeschi combatterono gli spartachisti; e più tardi Brandt, per quanto sostenesse la necessità di dialogare con l’Est, prese nettamente le distanze dal comunismo e dal marxismo. In Italia le cose come d’abitudine si complicano. Bettino Craxi fu un leader socialista e anticomunista (sia pure con un uso spregiudicato del denaro; ma questo è un altro discorso). Qui però entriamo nel terreno minato del mito del comunismo italiano, per cui un’idea rivelatasi sbagliata e spesso con applicazioni criminali da Vladivostok a Trieste da noi diventava giusta, o almeno nobile. Certo Togliatti aveva fatto la svolta di Salerno, schierando il Pci nel fronte antifascista con cattolici e monarchici; migliaia di partigiani comunisti diedero la vita per combattere il nazifascismo; e gli eletti comunisti alla Costituente scrissero la Carta con democristiani e liberali. Però era lo stesso Togliatti che aveva fatto fucilare gli anarchici di Barcellona.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 ottobre 2021. "Enrico lascia stare: Roma è cosa loro. Fanno di tutto per attaccarti. Lascia stare". Dai microfoni di Radio Radio, l'emittente romano che ha lanciato Enrico Michetti, questa mattina è partito l'appello alla resa. A lanciarlo Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e da sempre sponsor del candidato di centrodestra. Durante la trasmissione Accarezzami l'anima, uno spazio mattutino che prima era occupato da Michetti, Di Giovambattista si è rivolto a Michetti. Gli ha consigliato di gettare subito la spugna. Perché tutto complotta contro il tribuno.

Da radioradio.it l'11 ottobre 2021. Che l’Italia sia uno dei Paesi occidentali con il sistema mediatico più orientato verso gli organi politici è fattuale, risaputo e anche teorizzato a livello accademico. Mai, però, si sarebbe potuto immaginare un incollamento tale da giustificare un vero e proprio accanimento nei confronti di un candidato avverso a gran parte della stampa nostrana. È quello che vede travolto in queste ore il professor Enrico Michetti, passato dall’essere proveniente dalla “destra, destra, destra, forse neofascista” (Gruber, Otto e Mezzo, La7) ad aver pronunciato “frasi antisemite” in un articolo risalente al febbraio 2020 (Andrea Carugati, Il Manifesto), fino all’essere “pilotato da Radio Radio, l’emittente dei No Vax” (Lorenzo D’Albergo, la Repubblica). In verità già prima della sua discesa in campo, alle prime voci di candidatura, l’esperto amministrativista era stato oggetto della propaganda di quotidiani, tv, radio. “La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti, il professore che Meloni vorrebbe candidato sindaco di Roma”, titolava il Fatto Quotidiano nella fasi calde della scelta da parte del centrodestra. E come non dimenticare la farsa instaurata sul saluto romano più igienico, che “in una delle sue trasmissioni a Radio Radio il possibile candidato di Fratelli d’Italia a sindaco di Roma ha rivalutato in tempo di Covid” (Marina de Ghantuz Cubbe, la Repubblica/Roma). Così il “tribuno della Radio” (altra definizione che voleva essere dispregiativa) è stato bersagliato negli ultimi mesi. Sul costante attacco che verosimilmente si consumerà fino al ballottaggio del 17 e 18 ottobre è intervenuto in diretta il direttore Ilario Di Giovambattista a “Accarezzami l’Anima”. Ecco le sue parole. “Io sono molto preoccupato perché in questa campagna elettorale io ho avuto la conferma di quello che già pensavo: in Italia c’è una stampa della quale mi vergogno. Io vorrei raccontarvi quello che è successo ieri, credo che ormai le cose siano abbastanza chiare. Guardate il titolo di Repubblica di oggi: "l’uomo nero contro le città". Io sono molto preoccupato perché Roma deve essere cosa loro. Roma è cosa loro, nessuno può azzardarsi da persone perbene a entrare in un agone politico. Siamo a una settimana dal voto e per fortuna non hanno trovato nei confronti di Michetti che negli ultimi 30 anni ha aiutato soprattutto i sindaci di sinistra. Vi giuro: io ho paura. Ho paura perché se i cittadini si informano attraverso la stampa, attraverso i mainstream, purtroppo siamo un Paese truffato. È una stampa truffatrice, una stampa della quale mi vergogno. Non c’è niente di deontologico nella stampa italiana, si salvano in pochi, ma veramente in pochi. Sono tutti sotto un padrone, soprattutto politico. Non vedo l’ora che finisca questa settimana, perché tanto ho capito come la stanno mandando. Ho capito come la stanno indirizzando. Anche la manifestazione di Piazza del Popolo: erano tutti fascisti vero? Se decine di migliaia di persone sono tutte fasciste allora si dovrebbero interrogare i nostri capi. Sanno bene che non è così. Sanno bene a un certo punto è successo qualcosa, forse li hanno chiamati loro. Non ci possiamo permettere di parlare di niente, di niente, zero. Io ho capito come vogliono mandarle le elezioni, fossi il professor Michetti mi ritiro. Io sto invitando ufficialmente il professor Michetti a farli vincere così. Enrico ritirati, non sono degni di te. Dammi retta, è cosa loro, ti distruggono. Io sono spaventato. E chiedo veramente a Enrico Michetti: Enrico ritirati, falli vincere. Roma è cosa loro, se non vincono questa volta vanno fuori di testa. Se la sono già venduta, già spartita. È inutile. È tutto apparecchiato. È tutto fatto. Però di mezzo ci sono i cittadini. L’unica speranza sono i cittadini, ma se i cittadini si informano attraverso questa stampa corrotta è la fine. Ecco perché in Italia tante cose non vanno, perché hanno creato un sistema. Il sistema politico-giornalistico è una delle cose più marce, più schifose del nostro Paese. Non voglio avere proprio niente a che fare con questa feccia”.

Vittorio Sgarbi, "a Giorgia Meloni lo avevo detto": complotto prima del ballottaggio? Una inquietante teoria. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "L’ho già detto a Giorgia Meloni all’indomani del primo turno: vedrai, faranno qualsiasi cosa per etichettare Enrico Michetti come neofascista. E i fatti mi hanno dato ragione. Tutto è partito da quella che io chiamo la “congiura di Fanpage”. Si è usato un infiltrato clandestino alla ricerca di un reato che non c’è. E gli effetti si sono visti. La verità è che siamo di fronte a una profonda violazione delle regole democratiche da parte dell’informazione e di certa politica. Come non pensare alla Gruber che ha definito Michetti come un neofascista davanti a Calenda che ha cercato addirittura di correggerla?”. Così Vittorio Sgarbi parla del prossimo ballottaggio di Roma e delle conseguenze politiche nate dopo il voto delle amministrative del 3 e 4 ottobre. "Nello spostare il tiro sul fantasma del fascismo che non c’è, evitando di parlare delle migliaia di persone che hanno manifestato liberamente per un sacrosanto diritto di libertà. C’erano sì Fiore e Castellino, ma è anche vero che non si manganellano le persone civili, non si fa sanguinare chi ha idee diverse", spiega Sgarbi puntando il dito sull'informazione. "La gente non capirà che il pericolo fascista non esiste. Per quanto riguarda Michetti, tutti gli elettori che lo hanno votato al primo turno, devono tornare a votare, questo è il mio invito. Devono capire che la pressione mediatica che stiamo subendo sta facendo diventare santo il governo e fascista la gente che scende in piazza", chiarisce in una intervista al Giornale. Sulla manifestazione di Landini per la democrazia e per il lavoro, contro i fascismi, annunciata a Roma il 16 ottobre, raccomta che "farà un’interrogazione parlamentare perché non è accettabile che si faccia politica col sindacato nel giorno di silenzio elettorale. Landini non è un corpo apolitico, ma attraverso il sindacato fa politica e non può farla il giorno del silenzio elettorale, condizionando le urne. La facciano piuttosto il 18, il 19, non il 16. È un’azione chiaramente contro la Meloni". Infine un consiglio al candidato sindaco di Roma Enrico Michetti. "Da soli né io né lui abbiamo la possibilità di potere fare un comizio in piazza dicendo che non è vero che siamo fascisti. Ma ormai Gruber, Fanpage e Landini, i tre finti democratici, hanno imposto un taglio eversivo alla comunicazione. Spero ora che vadano a votare quelli che vengono chiamati fascisti senza esserlo e che siano più numerosi di quelli che vengono chiamati al voto contro i fascisti inesistenti. Ripeto, il rischio fascista non c’è. C’è un rischio eversivo da parte dell’informazione", conclude Sgarbi. 

Quarta Repubblica, il sospetto di Sallusti sugli scontri a Roma: "Qualcuno ha lasciato che accadesse". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. I sospetti su quanto accaduto nella giornata di sabato 9 ottobre a Roma sono tanti. In particolare ci si interroga come tutto ciò sia stato possibile. A chiederselo anche Alessandro Sallusti, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4. "La cosa è talmente strana che o il Paese è in mano ad un branco di incapaci o qualcuno dentro lo Stato ha lasciato che accadesse. È evidente che questo fa gioco alla sinistra". In piazza, con il pretesto di protestare contro il Green pass anche Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova. I due sono stati arrestati, ma com'è possibile che potessero manifestare indisturbati? Una domanda che si è posto lo stesso Matteo Salvini, da giorni con Giorgia Meloni attaccato su tutti i fronti. "Ho fatto il ministro dell'Interno e qualunque cosa accadesse era colpa mia – ha detto Salvini sui suoi canali social – Ora, mi domando: se questo estremista di destra era tranquillamente in piazza del Popolo, con il microfono in mano e davanti a migliaia di persone, chi lo ha permesso? Chi non lo ha impedito? L'attuale ministro dell'Interno ha fatto tutto quello che poteva, ha fatto tutto quello che doveva?". Il leader della Lega punta il dito contro Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno: "Non prevedere le necessarie misure di sicurezza e non prevenire gli incidenti, anche gravi, significa che è la persona sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Non solo, perché a indignare maggiormente il direttore di Libero è anche l'uscita di Beppe Provenzano. Il vicesegretario del Partito democratico ha detto che Fratelli d'Italia "è fuori dall'area democratica e repubblicana". Parole fortissime che hanno scatenato la polemica: "Quello che è più inquietante è che il vice segretario del Pd ha buttato lì che forse si dovrebbe chiudere Fratelli d'Italia". E infine: "Stasera hai dimostrato che chi di dovere doveva sapere cosa succedeva e non ha fatto nulla". 

Dentro il Matrix di Giorgia Meloni. Mauro Munafò su L'Espresso l'11 ottobre 2021. Le prese di distanza dalle manifestazioni romane, con molti distinguo, non hanno trovato alcuno spazio sui social solitamente così aggiornati della leader di Fratelli d’Italia. Per un motivo molto chiaro. La leader di Fratelli d’Italia ha fatto finta di condannare le violenze fasciste della manifestazione no Green pass a Roma tirando fuori dal cilindro la frase: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco. Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre». L’ironia sulla matrice che Meloni non conosce, in effetti difficile da rilevare tra saluti romani e canti contro i sindacati “boia”, rischia di oscurare un altro interessante fenomeno. Ovvero come dentro la bolla meloniana e i suoi canali ufficiali sia stata del tutto nascosta questa storia e questa presa di distanza. Ennesima dimostrazione dell’ambiguità utilizzata da Meloni per non perdere il consenso delle frange estreme della destra nazionale. Ma andiamo nel dettaglio. Sui canali ufficiali di Giorgia Meloni, al momento in cui scriviamo e a due giorni dagli eventi di cui parliamo, non è comparso nessun messaggio o video dedicato a condannare le manifestazioni romani. Nelle ultime 48 ore i social media manager di Meloni hanno però trovato il modo di parlare di partite Iva, mazzette in Sicilia, della destra presentabile, di Brumotti e della partecipazione della leader di Fratelli d’Italia all’evento di Vox in Spagna. Non si tratta quindi di una dimenticanza ma di una scelta precisa per non scontentare i fan. E allora quella “condanna” che è servita a fare i titoli sui giornali, da dove arriva? È la risposta alle domande fatte dai giornalisti domenica mattina e di cui non c’è traccia sui canali social di Meloni, di solito sempre pronti a immortalare ogni uscita della politica. Di più, l’unico segno “ufficiale” di queste frasi arriva da una pagina interna del sito di Giorgia Meloni: con un breve comunicato che non è stato neppure messo sulla sua homepage. E che comunque, in un momento in cui la comunicazione politica passa interamente dai social, non avrebbe visto nessuno. Ripescando un vecchio adagio della professione giornalistica: se vuoi nascondere una notizia non devi censurarla ma pubblicarla in piccolo in qualche pagina secondaria. Più che di matrice quindi, qua siamo di fronte a un vero e proprio “Matrix” di Giorgia Meloni. La sua realtà parallela.

Mirella Serri per "la Stampa" l'11 ottobre 2021. L'attacco dell'altroieri da parte di sedicenti no Green Pass alla sede centrale della Cgil voleva colpire un ganglio vitale dello Stato democratico, la rappresentanza sindacale dei lavoratori. Ricorda molto le aggressioni delle squadracce fasciste contro le Camere del lavoro, le Case del popolo e le leghe durante il "biennio nero" 1921-22. Però secondo la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si tratta «sicuramente di violenza e squadrismo, ma la matrice non la conosco»: un modo furbetto per evitare di dire che siamo di fronte a un rigurgito di fascismo. Da qualche tempo questa politica dello struzzo è sempre più ricorrente fra gli esponenti della destra. La verifichiamo sia in circostanze gravissime, come l'attacco al cuore dello Stato dei giorni scorsi, che in episodi apparentemente minori ma rivelatori della presenza di un nocciolo duro di neofascismo nelle pieghe delle due principali formazioni della destra. Cosa testimonia, ad esempio, il boom di voti ricevuti nella Capitale da Rachele Mussolini junior, candidata alle comunali per il partito della Meloni? Il fatto che la giovane Mussolini, con un cognome così evocativo, abbia fatto il pieno di preferenze non si deve prendere sottogamba. Come ha scritto ieri il direttore de "la Stampa", l'onda nera che ha invaso le piazze italiane affonda le sue radici nell'"album di famiglia". E la nipote di Rachele Guidi, moglie di Mussolini, agli occhi dei suoi elettori ha rappresentato proprio questo nero album. Da una parte c'è il cognome del Duce, che i più fanatici militanti di destra rivalutano per tutto il suo operato, incluse le leggi razziali. Ma dall'altra c'è anche il nome di nonna Rachele che piace ai meno estremisti fra gli estremisti perché è ricco di storia fascista. Molti italiani, non solo i romani, associano la consorte del capo del fascismo all'immagine di una casalinga fedele e icona della memoria del dittatore, a una donna lontana dall'agone politico, timida e discreta. Ma questo ritratto le corrisponde? Oppure è una mistificazione dei cultori del passato che non passa, così come, ad esempio, le recenti esternazioni su quell'Arnaldo Mussolini presentato come il fratello mite e buono del Duce. Alla domanda su cosa pensasse del fascismo, Rachele junior ha glissato: «È una storia troppo lunga». Ma di fronte anche a quello che è accaduto sabato, la storia non è troppo lunga e va al più presto riportata alla luce. Quando il leghista Claudio Durigon propose di intitolare il parco comunale di Latina ad Arnaldo Mussolini, si fece finta di dimenticare chi fosse veramente costui. Non solo un fascista tra i tanti: aveva intascato le maxi-tangenti pagate dalla Sinclair Oil per assicurarsi il monopolio delle ricerche petrolifere in tutta Italia. Giacomo Matteotti, per coincidenza, venne assassinato mentre era in procinto di denunciare la corruzione del fratello del Duce. La stessa volontaria dimenticanza del passato si ripete con la storia di nonna Rachele: anche lei, proprio come Arnaldo, fu molto attiva negli affari di famiglia e del regime di cui con passione sostenne anche tutte le violenze. Rachele senior fu anche cinica e feroce nei confronti degli antifascisti e perfino dei fascisti: prima della seduta del Gran Consiglio che destituì il Duce, gli suggerì di incarcerare tutti i gerarchi che ne facevano parte. Caldeggiò inoltre la condanna a morte di Galeazzo Ciano per il "tradimento". La vita di Rachele, incluso il periodo della Rsi, è stata parte integrante della più cruenta storia del fascismo e rientra in quell'album di famiglia che le componenti nostalgiche di Fratelli d'Italia e della Lega fingono di ignorare dando il loro voto a Rachele Mussolini junior, un nome e un cognome che sono una garanzia per i nostalgici del Ventennio.

Otto e Mezzo, "matrice cercasi": Gruber a senso unico sin dal titolo, plotone schierato contro Giorgia Meloni. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. “Matrice neofascista cercasi”, è il titolo scelto da Lilli Gruber per la puntata di Otto e Mezzo di lunedì 11 ottobre. Un chiaro riferimento alle prime dichiarazioni di Giorgia Meloni dopo la notizia delle violenze fasciste e squadriste verificatesi a Roma, tra l’assalto ai blindati della polizia e soprattutto alla sede della Cgil. La Gruber ha scelto un parterre di ospiti tutt’altro che casuale per affrontare l’argomento, a partire da Tomaso Montanari - che con la leader di Fratelli d’Italia ha delle “storie tese” passate - e da Paolo Mieli. “Non c’è neanche un dubbio sulla matrice - ha dichiarato il giornalista del Corriere della Sera - erano lì presenti i leader di Forza Nuova a guidare l’assalto. Casomai si dovrebbero distinguere le cose, non riduciamo tutta la questione dei no-green pass ai neofascisti. È accaduta una cosa deprecabile, non c’è alcun dubbio che la matrice sia quella”. Inoltre Mieli si è detto stupito dalla difficoltà che fanno Lega e Fratelli d’Italia a prendere le distanze e a condannare fermamente le violenze fasciste: “Possibile che non ce ne sia uno che dica basta, bisogna fare una guerra senza quartiere e sbatterli fuori? A me non interessa nulla, lo dico per loro: cosa devono aspettare? Un assalto ad una sede della Lega?”.

Da huffingtonpost.it l'11 ottobre 2021. Solleva un polverone la dichiarazione del vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, contro Fratelli d’Italia e la sua leader Giorgia Meloni. “Ieri Meloni aveva un’occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in FdI. Ma non l’ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l’ambiguità che la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano” ha detto l’ex ministro del Sud. “In questo modo Fdi si sta sottraendo all’unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi”. Parole a cui replica Giorgia Meloni su Facebook: “Il vicesegretario del partito ’democratico’ vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte. Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia” afferma la leader di FdI. “O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte”. Diversi gli esponenti di Fratelli d’Italia che si scagliano contro Provenzano. “Il presidente del Consiglio Draghi e tutti i partiti che appoggiano il suo governo condannino immediatamente le parole di chi sembra essere più vicino alle censure imposte dalle dittature di sinistra che non alle posizioni di libertà cui si ispira Fratelli d’Italia” dichiara il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. E Giuseppe Provenzano chiarisce: “Una batteria di attacchi nei miei confronti da Fdi. Chiariamo. Nessuno si sogna di dire che Fdi è fuori dall’arco parlamentare o che vada sciolta. Ma con l’ambiguità nel condannare matrice fascista si sottrae all’unità necessaria forze dem. Sostengano di sciogliere Forza Nuova”.

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. Vittorio Feltri esordisce così come consigliere comunale a Milano.  A La Zanzara dice: “Non mi sono votato, mi hanno dato due lenzuolate e non ho un capito un cavolo di quello che c’era scritto. Penso di aver votato Sala. Il nome Feltri non l’ho scritto”. “In Consiglio comunale andrò qualche giorno, poi me ne vado. Negli ultimi quarant’anni non ho mai visto un consiglio comunale”. “Gay Pride? Dovrebbe chiamarsi Froci Pride, però facciano quello che vogliono, a me di quello che fanno i froci non interessa nulla”. “Gay è parola inglese, omosessuale è un termine medico, preferisco chiamarli froci o culattoni”. “Il fascismo? E’ morto nel ‘45, non è un pericolo, non ho mai conosciuto un fascista in vita mia”. “Il fascismo? L’unica cosa buona che ha fatto è farsi uccidere. E’ riuscito a fare una guerra assurda, per soggiacere agli ordini di Hitler. Ma fu una piccola cosa rispetto al comunismo, che ha fatto molti più morti e molti più danni. Mussolini era alla guida di una nazione di poveracci, mentre il comunismo uccise molte più persone”. “I novax? Sono degli imbecilli, dei cretini. Rischiano di ammalarsi e morire, non hanno capito un cazzo”.

FABIO MARTINI per la Stampa il 13 ottobre 2021. Gianfranco Fini da quattro anni si è chiuso nel silenzio. Non un intervento pubblico e non un’intervista, ma il protagonista della più importante svolta nella storia della destra italiana non ha smesso di pensare politicamente, di consigliare, di parlare con gli amici di un tempo. E anche se ripete a tutti che lui si limita ad «osservare» e per questo non si esprimerà pubblicamente su Giorgia Meloni, però Fini ha confidato a più d’uno i suoi pensieri su quel che si muove in queste ore a destra: «Come la penso? La penso esattamente come la pensavo ai tempi della svolta di Fiuggi a proposito del fascismo e dell’antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che erano stati conculcati». E Fini non dimentica l’asprezza degli scontri che lo divisero dagli oltranzisti e dai nostalgici, nello storico congresso di scioglimento dell’ Msi a Fiuggi nel 1995 e anche dopo: «Non a caso ero considerato in quegli ambienti il traditore per antonomasia!». In effetti la rottura della destra missina e post-missina non solo con i terroristi neri ma anche con i picchiatori e i movimenti violenti, 25-30 anni fa, è stata così radicale e memorabile da indurre Fini, nelle sue chiacchierate di questi giorni con gli amici di un tempo, a ragionare sul possibile scioglimento di Forza Nuova. Ieri scherzava sulla «fake news» che attribuiva proprio a lui la sottoscrizione di una mozione Change.org che chiede un intervento risolutivo contro l’organizzazione neo-fascista, ma l’ex leader di Alleanza nazionale confida che condividerebbe un eventuale provvedimento di questo tipo. Da ex presidente della Camera, Fini si sente di obiettare su alcuni strumenti per raggiungere l’obiettivo: «Trovo paradossale che sia il Parlamento in quanto tale ad assumere l’iniziativa con una mozione che peraltro non ho letto. In realtà il Parlamento può al massimo chiedere al governo di sciogliere quelle formazioni». Naturalmente Fini conosce la diatriba che divide giuristi e costituzionalisti sulla potestà repressiva, se la competenza spetti all’esecutivo o alla magistratura dopo apposita sentenza, ma sul punto l’ex capo di Alleanza nazionale non sembra aver dubbi: «In realtà i governo può intervenire subito, ope legis, anche senza un’iniziativa parlamentare. È già accaduto nel passato, sia pure in circostanze diverse, nei confronti di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale». Ma c’è una storia, soffocata nel ricordo, che parla più di ogni altra circa i riflessi politici prodotti dalla rottura che Fini portò a termine col mondo che si muoveva anni fa alla destra dell’Msi-An. Ne parla lui stesso in questi giorni: «Nel gennaio del 1995, al congresso di Fiuggi, io fui agevolato da Rauti e Pisanò che si portarono dietro tutti coloro che avevano avversato la nascita di An e la sua carta d’intenti». Ma nei mesi successivi si consumò qualcosa di più grande di una banale scissione. E si produsse un evento elettorale, da allora rimosso da tutti, a destra e a sinistra. Dopo la svolta “anti-fascista” di Fiuggi e la nascita di An, Pino Rauti che per decenni era stato il principale ideologo del movimentismo di estrema destra, e Giorgio Pisanò, repubblichino mai pentito, ri-rifondarono la Fiamma missina e nella primavera del 1996 proprio i “neo-fascisti” furono decisivi in 49 collegi marginali per fare perdere il centro-destra. Disse Rauti: «Se Prodi ha vinto, lo deve a noi…». E in effetti, per quanto a sinistra possa apparire non subito comprensibile, la reticenza di Giorgia Meloni a prendere le distanze dai picchiatori di Forza Nuova in quanto neo-fascisti, in qualche modo è fuori linea anche rispetto a Giorgio Almirante. Il repubblichino capo storico della destra post-fascista italiana, tra 1978 e 1979 si incontrò in modo segretissimo col segretario del Pci Enrico Berlinguer e sinché i due furono vivi non se ne seppe nulla ma - come racconta Federico Gennaccari, editore e storico della destra missina - «i due leader pur così diversi colsero il rischio di una deriva terroristica di aree giovanili da loro oramai lontane ma che in qualche modo appartenevano ai rispettivi album di famiglia. E si scambiarono informazioni e pareri sulla pericolosa deriva in corso».

Giorgia Meloni, la menzogna di Giulia Cortese: "Eccola a casa, dietro di lei la foto di Mussolini". Ma è tutto falso. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. La macchina del fango per minare la tornate elettorale non si ferma qui. La giornalista Giulia Cortese ha deciso di sferrare l'ultimo attacco a Giorgia Meloni. Peccato però che si tratti una notizia falsa. La Cortese ha infatti pubblicato un frame di un video in cui alle spalle della leader di Fratelli d'Italia, collegata da casa, appare una foto di Benito Mussolini. A corredo il commento: "Dietro c'è la sua matrice preferita". Il riferimento è alle parole pronunciate dalla Meloni dopo l'assalto alla sede della Cgil da parte di alcuni estremisti. Premettendo di condannare tutti gli atti di violenza, la leader ha ammesso di non sapere di che "matrice" fossero. Da qui il livore della sinistra. Ma la Meloni non ci sta e sotto alla foto diffusa dalla giornalista ha replicato: "Reputo che questa foto falsificata, pubblicata da una giornalista iscritta all’ordine, sia di una gravità unica. Ho già dato mandato al mio avvocato per procedere legalmente contro questa ignobile mistificazione. A questo è arrivato certo giornalismo di sinistra?!". Una risposta che ha scatenato la diretta interessata, già impegnata a cancellare il post: "Ho rimosso la foto, anche se non è molto lontana dalla realtà. Comunque cara Giorgia Meloni, la gogna mediatica che hai creato sulla tua pagina Facebook contro di me ti qualifica per quello che sei: una donnetta", ha scritto la giornalista. Ma se la Meloni non ha risposto all'ultimo attacco, ecco che ci ha pensato per lei Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia: "Invece di chiedere scusa continua a insultare?".

Incontri, guerriglia, devastazione: così i neofascisti si sono presi le piazze no vax per fare pressioni su Fratelli d’Italia. I carabinieri del Ros hanno segnalato decine di eventi gestiti e amplificati da Forza Nuova e CasaPound. E il medico no green pass Pasquale Bacco racconta come Salvini e soprattutto la Meloni e il suo partito li abbiano sostenuti: «Erano i politici a procurarci le risorse per le nostre iniziative». Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 15 ottobre 2021. C’è un anno e mezzo di rapporti pericolosi fra movimenti cittadini contro il vaccino e il certificato verde, teppisti fascisti in cerca di ribalta, partiti assetati di voti, per spiegarsi le vergogne di sabato nove ottobre e cercare di capire quel che potrebbe accadere. L’assalto alla sede del sindacato Cgil, la capitale d’Italia in ostaggio degli estremisti di Forza nuova ma anche gli scenari futuri, vista la galassia composita che agita il movimento contro il green pass. Con immagini che rischiano di ripetersi nei prossimi grandi appuntamenti pubblici nella Capitale e non solo che vedono il loro culmine nel G20 in programma a fine mese. Ci sono somiglianze col passato, secondo gli inquirenti che ripescano la stagione dei cattivi maestri e di chi giocava con le piazze: perché oggi come ieri chi manifesta è trascinato dalle rivendicazioni più disparate. E spetta alla politica, alla Lega di Matteo Salvini e a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, evitare che il passato si ripeta. L’estrema destra di oggi è già pronta a prendersela questa piazza, a partire proprio da Forza nuova che da almeno un anno e mezzo lavora per animare la protesta e acciuffare il potere. 

LA STRATEGIA NERA

Quello che è accaduto a Roma non è la conseguenza del caso, ma l’arrivo di un percorso che Roberto Fiore e Giuliano Castellino, che hanno preso le redini di Forza nuova da Roma in giù dopo la frattura interna con le sedi del Nord e dei cosiddetti “scissionisti” guidate da Giustino D’Uva e dalla Rete dei patrioti, hanno pianificato da tempo. Cavalcare il risentimento scatenato dalla pandemia. Infiltrarsi nei gruppi sui social che veicolano il malcontento non più intercettato dalla Lega e soltanto in parte da Fdi. I carabinieri del Ros da oltre un anno seguono le azioni di Forza nuova, soprattutto, ma anche di CasaPound che pesca nello stesso bacino pur avendo forti contrasti con il movimento di Fiore e Castellino. E hanno registrato un aumento costante della tensione dall’aprile dello scorso anno fino ai fatti di Roma. Andati via gli scissionisti della Rete dei patrioti, che non hanno condiviso le scelte dei leader storici di Forza nuova di ritornare movimentisti abbandonando la possibilità di presentarsi al voto, Fiore ha cominciato a fomentare la protesta. All’inizio con scarsi risultati: la prima manifestazione legata al Covid-19, quella dei No Mask il 20 aprile 2020, registra una ridotta partecipazione, anche se in molte piazze da Roma a Napoli e Palermo i Ros segnalano una forte presenza di uomini di Forza nuova e in parte di CasaPound. Fiore e i suoi si insinuano allora nelle chat con più iscritti che crescono su Telegram dall’estate del 2020 in poi. Non a caso in ottobre i carabinieri, con le loro antenne puntate sui movimenti di estrema destra, analizzano altre azioni: il 24 ottobre a piazza del Popolo una prima manifestazione contro le mascherine e le imposizioni del governo sul Covid-19, dove si salda un nuovo asse tra Forza nuova con settori degli ultras della Lazio e della Roma, gli scontri poi ci saranno a viale Flaminio; il 25 ottobre a una protesta contro le mascherine che vede tra i partecipanti sempre i movimenti di estrema destra e una bottiglia incendiaria viene lanciata contro i carabinieri; il 27 ottobre nel quartiere Prati ci sono tafferugli tra polizia ed esponenti di Forza nuova e CasaPound; il 28 ottobre la stessa scena si ripete a Ostia dove però, precisano i Ros, si segnalano anche insulti e minacce tra Forza nuova e CasaPound come due squadre che giocano nello stesso campo ma da avversari. Il 31 ottobre altra manifestazione, quella delle «mascherine tricolore», e anche qui forte presenza di esponenti dei due movimenti di estrema destra. Fiore per recuperare risorse dopo l’uscita degli scissionisti crea una sigla, Area, dove confluiscono una serie di gruppetti di destra extra parlamentare: Gruppo San Giovanni casa dei patrioti, Comunità Evita Peron, Comunità Avanguardia, Comitato di solidarietà nazionale, Comunità militante Castelli Romani, solo per citarne alcuni. Poi entra in gioco il secondo pilastro della strategia della tensione: manipolare le chat di Telegram. Tra quelle che i carabinieri indicano come manipolate anche da esponenti di destra ci sono Guerrieri per la libertà (40mila iscritti), No green pass adesso basta (18mila), Generazione popolare fuoco che avanza (4mila). Dopo la fiammata dell’ottobre del 2020 la tensione viene contenuta, fino al maggio del 2021 quando si riaccendono le proteste dei commercianti sotto la sigla «io apro». Fiore e Castellino provano anche qui a incunearsi, cercando lo scontro con le forze dell’ordine, come nella manifestazione organizzata dai commercianti tra la Bocca della Verità e piazza Venezia. Ma non ci riescono e Castellino rimprovera i promotori della manifestazione perché non hanno avallato gli incidenti con la polizia. I due leader di Forza Nuova non demordono e, passata l’estate, eccoli a settembre ritornare in azione. Il primo settembre chiamano tutti alla protesta davanti alle stazioni ferroviarie e alle sedi delle Regioni, ma la partecipazione è bassissima. I Ros si appuntano numerosi atti dimostrativi contro vaccini e green pass: il 6 settembre Forza nuova partecipa alla manifestazione lanciata su Telegram dai «no Green pass» e da piazza del Popolo provano a rompere il blocco e dirigersi in piena notte verso piazza Montecitorio. La tensione aumenta. Il 14 settembre va a fuoco un gazebo di una farmacia a Trastevere dove si facevano tamponi, il 16 settembre un altro gazebo viene distrutto in via Taranto, zona San Giovanni. Il 18 settembre in piazza Santi Apostoli si trovano a guidare le proteste non solo esponenti di Forza nuova, ma anche gli scissionisti di Rete dei patrioti guidati da D’Uva e i militanti di CasaPound, con Castellino che critica le altre due fazioni perché a suo dire istituzionalizzate, avendo chiesto perfino l’autorizzazione alla Questura per questa manifestazione. Il 25 settembre Castellino partecipa invece alle proteste contro il Green pass di piazza San Giovanni. Ogni sabato nelle vie del centro di Roma, registrano i Ros, Forza nuova organizza piccoli cortei. CasaPound non lascia le piazze a Forza nuova, ma preferisce camuffarsi. Il movimento guidato da Luca Marsella punta ancora alla via istituzionale, cioè quella elettorale, tant’è che alcuni esponenti di CasaPound vengono candidati a Roma nelle liste a sostegno di Enrico Michetti e soprattutto con la Lega, partito che con la guida di Matteo Salvini ha sempre dialogato intensamente con questa area della destra estrema: nel XIII municipio si candida Simone Montagna, militante di CasaPound, come nell’XI municipio nelle liste della Lega compare Alessandro Calvo, altro attivista del movimento. La strategia di Forza nuova, che ha sempre avuto invece un dialogo forte con Fratelli d’Italia, è adesso più aggressiva. Impadronirsi delle piazze per avere una merce di scambio con i partiti di destra. Anzi, con il partito di destra: Fratelli d’Italia. 

LA MATRICE

Arriviamo al 9 ottobre. Il dottore in attesa di sospensione Pasquale Mario Bacco, salernitano di origine, una candidatura alla Camera con CasaPound e autore del libro “Strage di Stato” assieme all’ex sottosegretario all’Interno nel governo Prodi I eletto con la lista Dini, e ormai ex magistrato, Angelo Giorgianni, con la prefazione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, non c’era in piazza del Popolo. Bacco avvertiva una strana sensazione. Le premesse per una guerriglia. Perché mai, in un anno e mezzo di messaggi, telefonate e incontri, quelli di Forza nuova si erano così esposti. Il capo Roberto Fiore e il suo vice Giuliano Castellino gli avevano offerto un ruolo al vertice di Forza nuova. Un volto spendibile, un medico, per raccogliere più consenso tra i no vax. Bacco ci ha meditato su fra un convegno, un comizio e un intervento con i negazionisti della pandemia come la deputata ex grillina Sara Cunial. Aveva conosciuto Matteo Salvini alla Camera e poi Giorgia Meloni. E aveva ricevuto un insistente corteggiamento, che lo lusingava, e certo come si fa a esserne immuni, non c’è un vaccino per la vanità, alle carezze politiche del deputato e coordinatore pugliese di Fdi Marcello Gemmato: candidature, programmi, successo. C’era la fatica. Due eventi al giorno, il palco di qua, il treno di là, una volta ospite dei salviniani, un’altra dei meloniani: «I partiti di destra ci hanno cresciuto, ci hanno fornito il supporto necessario per avere le autorizzazioni e sobbarcarci le spese. Fdi più di ogni altro». Se lo contendevano il dottor Bacco che contestava la pandemia e i provvedimenti del governo e poi col magistrato Giorgianni fondava l’Organizzazione mondiale per la vita. L’internazionale dei complottisti ben ramificata in Sudamerica e poi sparpagliata fra Oman, Cipro, Malta, Germania, Francia, Spagna e l’Europa mitteleuropea: «Fdi ci aveva proposto di andare al Parlamento europeo a parlare di vaccini», sussurra con il tono di chi sa che rischia di esagerare. Salvini e Meloni erano incuriositi dalla capacità di aggregazione, dalla massa creatasi dal nulla.

Finché col tempo l'interesse è «scemato», l’avvento di Mario Draghi ha normalizzato la Lega e ammorbidito le sembianze di Fratelli d’Italia, la campagna elettorale volgeva alla fine, i no mascherine e no vaccini forse erano diventati più dannosi che utili, e sono subentrati quelli di Forza nuova. Bacco non si è stupito. Sin dal primo momento erano in strada fra la gente un po’ incazzata e un po’ negazionista, lì accanto ai salviniani e ai meloniani senza poterli facilmente distinguere. Però Bacco ha notato per piazza del Popolo un attivismo eccessivo di Castellino che comunica quello che Fiore fa intendere. Avevano preparato il pulpito tricolore, studiato il percorso e spedito gli inviti sui gruppi: «Se Fiore si è fatto riprendere a volto scoperto c’è un motivo. Ho contezza di contatti fra esponenti di Forza nuova e Fratelli d’Italia». Giorgianni si è scambiato il microfono con Castellino, Bacco ha assistito da lontano alla «presa» della Cgil: «È uno schifo. Noi non c’entriamo nulla con la violenza. Siamo diventati dei pagliacci». «Ragazzi mai vista una cosa del genere. Ci hanno messo sotto con i blindati. Corpi a corpi di mezz’ora. Entrati dentro. Siamo ancora sotto assedio!», ha scritto Castellino con un selfie a suggellare l’impresa inviato a tutta la sua rubrica. La prova di forza di Fiore e sodali serviva a mettere pressione, a dimostrare agli amici di Fdi che quel «popolo», migliaia di elettori orfani di rappresentanza, è ormai roba di Fn e che se lo rivogliono, devono riprenderselo e rispolverare gli antichi compromessi. La timida reazione di Giorgia Meloni, che ha impiegato tre giorni per dissociarsi e condannare senza perifrasi, testimonia le profonde ambiguità di Fratelli d’Italia e le sue inquietanti contiguità con quel giro. Che l’inquisito e sorvegliato Castellino fosse il gestore della manifestazione, come illustrato dai fatti, lo sapeva chiunque e a chiunque, pure agli agenti della Digos, aveva annunciato la volontà di condurre il corteo non autorizzato verso la sede della Cgil (non potendo avvicinarsi a Palazzo Chigi). Queste certezze producono due annotazioni: la prima che i responsabili dell’ordine pubblico hanno sottovalutato gravemente la vicenda, la seconda che bloccati Castellino e soci si smantella la parte più violenta. E ciò rassicura gli apparati di sicurezza alla vigilia di altre manifestazioni di protesta per il green pass e dall’arrivo a Roma dei grandi della Terra per il G20. Nel governo, però, c’è il timore che il G20 possa attrarre i no mascherine e no vaccini stranieri, produrre un effetto emulazione, trasformare il vertice nel santuario mondiale dei negazionisti. Forza nuova è molto romana, ma Fiore ha aderenze nei gruppi di ispirazione fascista d’Europa. La prevenzione con l’intelligence è determinante. Il comportamento dei partiti di destra è fondamentale. In quello spazio elettorale e ideologico diversamente presidiato si tiene da anni un duello fra CasaPound e Forza nuova che riflette il duello fra Salvini e Meloni. Dalla pandemia i duelli si svolgono nell’ampio e oscuro terreno dei negazionisti. O i partiti rimuovono ogni pulsione fascistoide o ne verranno travolti.

"Vi dico io la verità sul fascismo... Cosa penso di Landini". Marta Moriconi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi con Landini in pieno silenzio elettorale. Parla Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi, sabato 16 ottobre, con Landini in pieno silenzio elettorale. IlGiornale.it ne parla con Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista.

Lei è stato il primo a parlare di strategia della tensione, concetto ripetuto in Aula dalla Meloni dopo le risposte disarmanti del ministro Lamorgese. Perché?

“Quando ci sono delle violenze di questo genere, che sono da condannare con forza perché molto gravi, cerco sempre anche di interpretare e comprendere i fatti. Poi, in seconda battuta, mi domando a chi giovi un assalto squadristico oggi. Iniziamo da come sia potuto accadere che un gruppo ampio di persone si sia staccato da una manifestazione a piazza del Popolo e abbia proceduto per chilometri a piedi e per tre quarti d’ora minimo, alla presenza delle Forze dell’Ordine in campo. Mi domando come è possibile che non siano stati fermati prima dagli agenti in tenuta antisommossa. Ed è ridicola, appunto, la difesa del ministro dell’Interno Lamorgese che ha spiegato di non averli bloccati perché altrimenti avrebbero fatto ancora peggio. Ma cosa vuol dire? Mi pare fossero anche disarmati, non avevano chiavi inglesi, bombe molotov o altri strumenti lesivi. Ma che gli facevamo prendere il Parlamento?”.

A chi giova tutta questa faccenda?

“Provo a fare un elenco. Rafforza il governo, ma soprattutto dà fiato a un sindacato concertativo che era moribondo. Poi, dà corpo ai sindacati di base che lunedì facevano una manifestazione contro il governo, contro quei lavoratori licenziati col green pass. E non ultimo dà una stretta a tutte le manifestazioni. Noi stessi che il 30 ottobre avremmo dovuto avere una manifestazione nel centro di Roma, siamo stati spostati in piazza San Giovanni”.

Però se è vero che tutte le manifestazioni subiranno dei restringimenti, come è successo alla sua, non pare che questo accadrà a quella antifascista di sabato di Landini e dei sindacati uniti però…

“E’ una sinistra questa, responsabile di non aver difeso i lavoratori. Mentre la destra fa sempre il suo lavoro, la sinistra non l’ha più fatto. Io oggi non scenderò con loro. Non mi riconosco e sono rimasto colpito dall’immagine di Draghi che ha messo la mano sulla spalla a Landini da un gradino più in alto. I presidenti degli Stati Uniti mettono sempre la mano sulla spalla dei Capi di Stato che incontrano, è un segno di comando. E se permetti questo vuol dire che ti senti dominato, protetto da tipi del genere. Basta andare a vedere la foto di Obama e Raul Castro e come il secondo gli levi in maniera rapida la mano che si avvicinava”.

Oggi il fascismo cos’è?

“Mi rifaccio alle parole di Gian Carlo Pajetta: noi abbiamo chiuso i conti col fascismo il 25 aprile 1945. Oggi l’antifascismo è essere anticapitalisti. Tutto il resto sono due cretini, che vanno condannati, che fanno il saluto romano”.

Ma quanto guadagnerà il Pd da questa faccenda? Pensiamo al ballottaggio di Roma per esempio...

“Gualtieri è l’altra faccia della stessa medaglia. E il suo partito è il più conseguente a questo meccanismo. E’ logico che il Pd gode e godrà di questa situazione. Questa vicenda ha un indubbio peso a favore loro. La domanda è sempre la stessa: a chi giova? Facile la risposta”. Marta Moriconi

 Massimo Cacciari contro la sinistra: "Allarme-fascismo? Realistico come un'astronave in un buco nero". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Il pericolo "fascista" è realistico come l’entrata di un’astronave in un buco nero": Massimo Cacciari smonta l'allarmismo che si è diffuso dopo la protesta No-Green pass a Roma, poi degenerata con l'assalto alla sede della Cgil e con scontri violenti tra polizia e manifestanti. Per il filosofo, è sbagliato paragonare i due momenti storici: "Le condizioni storiche, sociali, culturali di quel caratteristico fenomeno totalitario non hanno alcun remoto riscontro nella realtà attuale di nessun Paese". Basti pensare che un secolo fa, scrive Cacciari su La Stampa, il fascismo trovò l’appoggio di settori decisivi dell’industria, della finanza e di importanti apparati dello Stato. Cosa che adesso non avviene. Secondo il filosofo, "i movimenti  che si richiamano a quella tragedia sono farse, per quanto dolorose, che nulla politicamente potranno mai contare". Cacciari ha spiegato anche che "decenni di stati d'emergenza" certo non favoriscono un regime democratico. Allo stesso tempo però ha scritto: "Più difficile è tener salda quell’idea di democrazia, più diventa necessario. E, per carità, tranquilli: nessun fascismo sarà comunque nei nostri destini". Il pericolo che tutti rischiano di correre oggi è un altro, stando all'analisi fornita dal filosofo. "Il pericolo che cresce quotidianamente è tutto un altro: che la persona scompaia fagocitata dalle paure, dalle avarizie, dalle invidie, dai risentimenti dell’individuo, in cerca affannosamente di chi lo rassicuri, lo protegga, lo consoli", ha sottolineato Cacciari". Ed è qui che entra in gioco la politica: "Se le forze e le culture politiche si divideranno nella rappresentanza di queste pulsioni, 'specializzandosi' ciascuna nel rassicurare intorno a questo o quell’altro 'pericolo', affidandosi a mezzi anch’essi sempre più di emergenza, invece di individuarne e affrontarne le cause strutturali, dove finiremo nessuno lo sa o può dirlo". In ogni caso, non si finirebbe comunque in un regime fascista: "Certo sarà un regime che assolutamente nulla ha a che fare con i mantra democratici che continuiamo a ripetere, pietoso velo del naufragio che ha subito fino a oggi ogni tentativo di riforma del nostro sistema istituzionale e del rapporto tra le sue funzioni e i suoi poteri".

La sinistra prova il blitz: vogliono abolire la Meloni. Laura Cesaretti il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno: è infatti il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano che, proprio mentre i Fratelli d'Italia si dibattevano faticosamente tra la condanna per le violenze di Roma e la solidarietà ai novax/nopass antigovernativi, inciampa in un clamoroso incidente politico via Twitter. Offrendo così generosamente ai meloniani l'ambito ruolo di vittime della sinistra neo-stalinista. Provenzano, che nel Pd rappresenta la sinistra dura e pura, se la prende con Meloni che da Madrid (dove è corsa ad arringare in uno spagnolo maccheronico la platea dei nostalgici franchisti di Vox) ha dichiarato di non conoscere la matrice di Forza Nuova, e accusa: «Il luogo scelto e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano». Bum: sul vice di Enrico Letta che mette FdI fuori dal consesso democratico si scatena la tempesta. E siccome nel frattempo il Pd sta raccogliendo le firme su una mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova, il gruppetto fascista che ha assaltato Cgil e ospedali spaccando bottiglie in testa agli infermieri, quelli di Fdi fanno la sintesi: Provenzano vuole sciogliere anche noi. «Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d'Italia», tuona Meloni. «O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte». Meloni si affretta ad assicurare che lei condanna «ogni violenza di gruppi fascisti». E che il suo partito «non ha rapporti con Fn», e invita il Pd a manifestazioni e azioni comuni contro ogni violenza». Le fa subito eco il capogruppo meloniano Francesco Lollobrigida: «Non è certo il vice segretario del Pd che può concedere patenti di ingresso nel perimetro repubblicano. I suoi toni somigliano più a quelli dei regimi comunisti, in cui affonda le sue radici il Pd, che non a quelli del civile e rispettoso confronto parlamentare». Seguono a ruota tutti i parlamentari di Fdi, chi chiedendo le dimissioni di Provenzano, chi ingiungendo a Letta e persino a Mario Draghi e Sergio Mattarella di pronunciarsi, chi chiamando il vicesegretario Pd «stalinista». Con Meloni si schiera Matteo Salvini: «Il vice-segretario del Pd taccia ed eviti di dire idiozie, non è certo lui che può dare patenti di democrazia a nessuno. Fascismo e comunismo per fortuna sono stati sconfitti dalla Storia, e non ritorneranno». I dem devono correre ai ripari: a Provenzano viene chiesto di mettere una pezza al pasticcio combinato, con un ulteriore tweet che però non riesce col buco. L'ex ministro del Mezzogiorno («E meno male che adesso c'è la Carfagna», lo punge Matteo Renzi) assicura: «Nessuno si sogna di dire che FdI è fuori dall'arco parlamentare (in effetti aveva detto fuori dall'arco democratico e repubblicano, ndr) o che vada sciolto, ma con l'ambiguità nel condannare la matrice fascista si sottrae all'unità necessaria delle forze democratiche». Letta ribadisce il «gravissimo errore» della Meloni nel non condannare lo «squadrismo» dei no vax e la invita a sottoscrivere la mozione contro l'organizzazione neofascista, mentre dal nazareno si accusa la leader Fdi di «falsificare la realtà rifugiandosi nel vittimismo: il Pd non ha chiesto di sciogliere il suo partito ma Fn». Laura Cesaretti 

Giorgia Meloni contro Beppe Provenzano: "Vuole sciogliere FdI per legge? Ecco che roba è la sinistra". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. L'assalto alla Cgil e le manifestazioni estremiste a Roma di sabato? Tutta colpa di Giorgia Meloni. Questo il pensiero di Beppe Provenzano. L'ex ministro del Partito democratico si scaglia contro Fratelli d'Italia in un post su Twitter intriso di livore: "Ieri Meloni aveva un'occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in Fdi. Ma non l'ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano". Peccato però che la Meloni abbia denunciato "la violenza e lo squadrismo" andato in scena, ricordando che "questa roba va combattuta sempre" per poi precisare di non conoscere la matrice. E in effetti non è l'unica. Alla protesta partecipavano più di diecimila persone, molte addirittura scampate ai controlli. Dura condanna anche da parte del capogruppo alla Camera di FdI, Francesco Lollobrigida: "Il governo può sciogliere le organizzazioni eversive. Draghi prenda provvedimenti". Da qui la replica della Meloni alla provocazione del dem: "Il vicesegretario del partito 'democratico' vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte". Messaggio indirizzato a Enrico Letta: "Prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia. O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte". Solo in parte Provenzano ha raddrizzato il tiro chiarendo quanto scritto: "Significa semplicemente che in questo modo Fdi si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi. Tutto qui". Ma la proposta rimane ugualmente grave".

"Nemmeno il Pci si sognò di metter fuori legge il Msi". Fabrizio Boschi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'intervista al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Secondo l'ex ministro per il Sud nel governo Conte II, Giuseppe Provenzano, oggi vicesegretario del Pd, Giorgia Meloni sarebbe «fuori dall'arco democratico e repubblicano». Sentiamo cosa ne pensa l'antifascista direttore del Riformista, Piero Sansonetti. 

Direttore, cosa gli è preso a Provenzano?

«Credo abbia avuto un colpo di caldo fuori stagione. Non si capisce di che parli».

Come se la spiega?

«Deve aver sentito parlare dei partiti facenti parti dell'arco costituzionale. Ma senza studiare la storia: oggi i partiti che hanno partecipato alla Costituzione non ci sono più. Perciò sono tutti fuori. Forse solo il Psi di Nencini si può definire partito costituzionale. Gli altri son nati dopo».

È preoccupante?

«Fa pensare a manovre autoritarie».

Addirittura.

«Dire che la Meloni è fuori dall'arco democratico è una manovra autoritaria che riduce la democrazia in regime. Ricordo a questo ragazzo che nella storia italiana i partiti sono stati cancellati solo da quei fascisti che lui tanto odia. Ci provò Scelba ma senza riuscirci. E ora lui cosa vorrebbe fare? Riprendere questa bella tradizione?».

Lo conosce?

«No, cosa è ministro?»

No, non più, ora è vice segretario del Pd.

«E Letta non ha detto niente? Questo sì che è preoccupante. Figuriamoci che una cosa del genere non l'hanno mai pensata nemmeno i comunisti. Il terribile e feroce Pci non ha mai chiesto di mettere fuori legge l'Msi che certamente era molto più legato al fascismo di Fdi. Persino Potere operaio, che Provenzano nemmeno saprà cos'è, era contrario. Solo Lotta continua lo gridava. Ed eravamo negli anni Settanta, quando Provenzano nemmeno era nato, in un clima ben diverso dal nostro».

Allora a cosa attribuisce le sue parole?

«Al decadimento della nostra classe politica che denota una totale assenza di preparazione che poi è la caratteristica di questo Parlamento, dal M5s in poi. Tutto è inquinato da un personale politico con capacità di ragionare ridotte e con una cultura politica assente. Si salvano solo poche decine di persone».

E di chi vuole cancellare Forza Nuova cosa ne pensa?

«Un'altra idiozia. Se ogni volta che ci sono incidenti mettiamo fuori legge coloro che partecipano alle manifestazioni allora metteremo fuori legge tutti. E i militanti di sinistra sono quelli che farebbero fuori per primi. Non ha nessun senso a meno che non si voglia creare un regime. Io sono anche contrario ai reati di apologia, figuriamoci».

Cioè?

«Sono reati di opinione e nessun pensiero per me andrebbe punito, punire i pensieri è ignobile. Penso ci sia qualcosa di fascista nel proibire i pensieri. Tutte le azioni repressive sono fasciste».

E della Meloni a Vox cosa ne pensa?

«Lei può andare dove gli pare. Il problema è che questi vogliono fare i partigiani perché non riescono a fare nient'altro e confondono la politica con la raccolta di figurine Panini».

Da repubblica.it l'11 ottobre 2021. "Vogliamo fare una cosa seria? Tutto il Parlamento si unisca per approvare un documento contro ogni genere di violenza e per sciogliere tutte le realtà che portano avanti la violenza, non è che la violenza dei centri sociali lo è meno". Replica così Matteo Salvini al segretario del Pd, Enrico Letta, dopo che i dem hanno presentato alla Camera questa mattina una mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova e di tutti gli altri movimenti dichiaratamente fascisti. Una richiesta nata dopo gli scontri di sabato scorso a Roma durante la manifestazione non autorizzata dei No Green pass a cui hanno preso parte molti esponenti di FN e durante la quale la sede nazionale della Cgil è stata devastata. Intanto, su richiesta della Procura di Roma la Polizia Postale ha notificato un provvedimento di sequestro del sito internet del movimento di estrema destra Forza Nuova. L'attività rientra nell'indagine avviata dai pm della Capitale  e relativa anche agli scontri avvenuti sabato nel centro della Capitale e che ha portato all'arresto di 12 persone. Il reato per cui si è proceduto è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici o telematici. 

Mattarella: "Molto turbati, non preoccupati"

E proprio rispetto a quanto accaduto durante la manifestazione nella Capitale, il Capo dello Stato Sergio Mattarella a Berlino rispondendo a una domanda del presidente Frank-Walter Steinmeier ha sottolineato che "il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica".

Il no di Forza Italia

Ma il leader della Lega non è l'unico a non appoggiare la mozione del Pd. Oltre al no di Fratelli d'Italia, oggi arriva anche quello di Forza Italia. E fonti della Lega fanno sapere che il centrodestra "condanna le violenze senza se e senza ma ed è pronto a votare una mozione per chiedere interventi contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra". Questo, riferiscono dal Carroccio, è quanto sarebbe emerso "da alcuni colloqui telefonici tra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni". Mentre l'azzurro Elio Vito si dichiara disponibile a firmare la mozione del Pd, il resto del partito di Silvio Berlusconi si dice contrario. "I fatti di sabato scorso, le aggressioni alle forze dell'ordine, l'assalto alla Cgil, sono stati condannati da tutte le forze politiche. Non ci possono essere ambiguità contro la violenza e contro chi usa una manifestazione di piazza per secondi fini", chiariscono in una nota i capigruppo di Forza Italia alla Camera e al Senato, Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini. "Ma non esistono totalitarismi buoni e totalitarismi cattivi - proseguono - e per questo motivo non è possibile per i nostri gruppi firmare o sostenere la mozione presentata dal Pd". Per, da FI si dicono aperti ad altre soluzioni. "Proprio per superare le divisioni - dicono - proponiamo di lavorare ad una mozione unitaria contro tutti i totalitarismi, nessuno escluso".

Conte: "M5S in prima fila contro Forza Nuova"

Dai grillini arriva invece il sostegno alla proposta dei dem. "Il Movimento 5 Stelle aderisce e rilancia le iniziative volte allo scioglimento di Forza Nuova e delle altre sigle della galassia eversiva neofascista", assicura il leader Giuseppe Conte. "Saremo in prima fila per tutte le iniziative parlamentari che muoveranno in tal senso - aggiunge - Siamo però consapevoli che non basterà questo, così come sappiamo che ignorare le proteste di piazza - quelle legittime e pacifiche - non aiuta a lavorare al bene del Paese". Per questo, Conte in un post su Facebook invita ad "ascoltare la rabbia di chi guarda al futuro con angoscia e preoccupazione".

La mozione di LeU

Come il Pd, anche Liberi e Uguali ha scelto di presentare, ma al Senato, un analoga mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova.  " Dopo gli assalti squadristi di sabato e la delirante rivendicazione di FN che promette di proseguire su quella strada non si può più essere tolleranti.  Bisogna agire, far rispettare la Costituzione e le leggi, sciogliere i gruppi fascisti", sottolinea la capogruppo di LeU al Senato, Loredana De Petris. Che poi dice: "Anche FdI, se fosse onesta e coerente, dovrebbe votare a favore della mozione. Invece Giorgia Meloni prosegue con la tattica dell'ambiguità, senza mai nominare i fascisti perché sa che da quelle aree le arrivano voti, ma fingendo di voler invece combattere la violenza per non inimicarsi altre fasce del suo elettorato".

Claudio Del Frate per corriere.it l'11 ottobre 2021. La mozione presentata in Parlamento che chiede lo scioglimento di Forza Nuova (che di conseguenza diventerebbe una organizzazione fuorilegge) può essere attivata grazie alla legge Scelba del 20 giugno 1952. Quest’ultima dava attuazione pratica alla dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta in Italia la ricostituzione del partito fascista (il testo recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».) La legge Scelba, in questo senso, è stata applicata poche volte in Italia; per sciogliere un movimento ritenuto epigono del fascismo è necessario un decreto del ministero dell’Interno, oppure una sentenza della magistratura. E proprio la magistratura, in serata, ha rotto gli indugi: la polizia postale, su ordine del tribunale di Roma, ha sequestrato e oscurato il sito di Forza Nuova. Il reato per cui si procede è istigazione a delinquere. Tornando alla possibilità di sciogliere Forza Nuova il primo articolo della legge stabilisce che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». I fatti accaduti sabato a Roma sembrano rientrare in pieno dentro questo perimetro. Di più: senza il bisogno di attendere gli assalti alla Cgil, a Palazzo Chigi, al Policlinico Umberto I, Forza Nuova non ha mai fatto mistero della sua inclinazione per i metodi violenti. La valutazione, comunque, e il relativo decreto di messa al bando della formazione di Roberto Fiore e Giuliano Castellino toccherà al Viminale. In Italia sono pochissimi i precedenti di applicazione della legge Scelba in relazione al tentativo di resuscitare il partito fascista; l’ostacolo giuridico è sempre quello che divide la legittima manifestazione del libero pensiero in politica dall’azione eversiva. Nel novembre del 1973 i dirigenti di Ordine Nuovo, fuoriusciti dal Msi, vengono condannati per ricostituzione del partito nazionale fascista e l’organizzazione viene sciolta per decreto. Nel giugno del 1976 stessa sorte tocca ad Avanguardia Nazionale. Non incorrerà invece nelle sanzioni della legge la formazione di Giorgio Pisanò «Fascismo e libertà», che potrà anche presentarsi alle elezioni ostentando sul simbolo un fascio littorio. La ricomparsa di una estrema destra eversiva è un problema che non riguarda solo l’Italia; in Germania nel gennaio 2020 è stato messo fuorilegge il gruppo neonazista Combat 18, di dichiarate simpatie hitleriane; Berlino ha varato una serie di leggi che inaspriscono ogni richiamo al nazismo (compreso l’uso del saluto romano in pubblico) dopo l’uccisione da parte di terroristi di estrema destra del politico della Cdu Walter Lübcke. In Grecia la formazione di estrema destra Alba Dorata è stata dichiarata fuorilegge da una sentenza della Corte d’appello di Atene che ha condannato i suoi leader a pesanti pene. Alba Dorata era arrivata a sfiorare il 10% dei consensi alle elezioni politiche. Stesso copione in Francia, dove il governo ha dichiarato illegale il gruppo di estrema destra Generation Identitaire nel marzo del 2021 per i suoi messaggi fortemente razzisti.  

Da liberoquotidiano.it il 13 ottobre 2021. Sciogliere Forza Nuova? Si può, in punta di diritto. Parola di Piercamillo Davigo, che ospite di Giovanni Floris a DiMartedì su La7 ascolta imperturbabile il "curriculum" dei due leader del movimento di estrema destra, Giuliano Castellino e Roberto Fiore, coinvolti nelle violenze di piazza dei No Green pass sabato scorso a Roma concluse con l'occupazione della sede della Cgil. "Castellino, capo romano di FN, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi in primo grado per aggressione a due giornalisti - ricorda Floris -, a 4 anni in primo grado per aggressione e resistenza a poliziotti e rinviato a giudizio per truffa da un milione di euro al Sistema sanitario nazionale. Fiore invece, fondatore, è stato condannato negli anni 80 per associazione sovversiva e banda armata, latitante a Londra è tornato in Italia una volta prescritti quei reati". "Questo implica qualcosa per le sorti di queste persone", chiede Floris. "La recidiva vale solo per condanne passate in giudicato. In piazza sabato non c'è stata premeditazione ma organizzazione di reato in corso". Secondo molti commentatori Castellino, già oggetto di Daspo, poteva essere fermato: "Il Viminale però non è onnisciente, non ha la sfera di cristallo ed è anche molto difficile programmare l'ordine pubblico perché c'è il rischio di creare incidenti anche più gravi", spiega l'ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, difendendo Luciana Lamorgese. Sul reato di apologia di fascismo, sottolinea ancora Davigo, bisogna distinguere perché "la ricostituzione del Partito fascista (proibita dalla Costituzione, ndr) è nei fatti cosa abbastanza complicata". Diverso il discorso su Forza Nuova. "Lo scioglimento è possibile con una legge o un decreto del presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri".

Lo scioglimento dei partiti e la legge. La legge Scelba va usata solo per tentati golpe. Beniamino Caravita su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. I partiti politici, nell’ordinamento italiano, sono tutelati a livello costituzionale, genericamente attraverso l’articolo 18, che tutela la libertà di associazione, più specificamente ai sensi dell’art. 49, che riguarda la libertà dei cittadini di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Una disposizione costituzionale, collocata fra quelle finali e transitorie, prevede il divieto di ricostituzione del partito fascista, in evidente collegamento storico, istituzionale, finalistico con la genesi della Costituzione italiana, con il valore della Resistenza, con il giudizio che – anche attraverso il referendum del 1946– il popolo italiano diede del ventennio fascista. In attuazione della disposizione costituzionale fu approvata nel 1952 una apposita legge, la cosiddetta “Legge Scelba” dal nome dell’allora ministro degli Interni, che prevede, se ricorrono determinati presupposti, lo scioglimento di un partito qualora si sia di fronte alla ricostituzione del partito fascista. Titolare del potere di scioglimento è il ministro degli Interni, sentito il Consiglio dei ministri, sulla base di una sentenza di cui non è richiesto passaggio in giudicato ovvero, nel caso ricorrano gli estremi dell’art. 77 Cost., vale a dire un caso straordinario di necessità e urgenza, il Governo, con un evidente spostamento del livello di responsabilità politica. Sotto il profilo materiale, l’art. 1 della legge Scelba prevede che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». Da un punto di vista rigorosamente giuridico, nessun dubbio può essere nutrito sul fatto che si tratta di disposizioni di stretta interpretazione, incidendo su fondamentali diritti di libertà. Ne derivano tre ordini di conseguenze. In primo luogo, quale che sia il giudizio politico, la disposizione non può essere applicata per colpire movimenti di ispirazione egualmente totalitaria e autoritaria, caratterizzati dalla denigrazione delle istituzioni democratiche e da prassi violente, ma di ispirazione e matrice diverse da quella fascista. In secondo luogo, deve essere accertata in maniera rigorosa l’esistenza di quei presupposti materiali (qui soccorrono le tre decisioni giudiziarie già intervenute: il caso di Ordine Nuovo, sciolto nel 1973, quello di Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1976, e quello più recente del Fronte nazionale, sciolto nel 2000). Se si provvede direttamente con decreto legge, deve sussistere il caso straordinario di necessità e urgenza, accertato secondo i criteri più severi, non secondo le blande valutazioni a cui finora ci ha abituato in materia la Corte costituzionale e che hanno permesso la sostanziale emarginazione della produzione legislativa parlamentare. Occorre cioè che il governo, il presidente della Repubblica, in sede di emanazione, e poi comunque il Parlamento in sede di conversione del decreto legge, si assumano la responsabilità politica e giuridica di affermare che il pericolo costituito da Forza Nuova non è, almeno hic et nunc, affrontabile con gli ordinari strumenti preventivi e repressivi che l’ordinamento mette a disposizione. Fermo rimanendo che i presupposti materiali possono esistere (e allora viene da chiedersi perché nessuno abbia agito prima in tal senso), e impregiudicata rimanendo la risposta sull’opportunità politica di una simile iniziativa governativa, la questione giuridica che va posta è: siamo veramente sull’orlo di una situazione che, per giustificare un intervento extra ordinem, dovrebbe apparire paragonabile ad una sorta di colpo di stato o di guerra civile? Beniamino Caravita

Francesco Bechis per formiche.net il 13 ottobre 2021. Non chiamatela eversione. Luca Ricolfi non ci sta: sciogliere Forza Nuova e le altre organizzazioni estremiste che fomentano il malcontento di piazza contro il green pass e i vaccini è un precedente pericoloso, dice a Formiche.net il sociologo, professore ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino.  

Ricolfi, se non è eversione cos’è?

Parlare di eversione è una forzatura. La violenza di piazza è un fenomeno endemico in Italia e non ha targa politica. Destra, sinistra, anarchici, centri sociali, Casapound. E i no-Tav in Val di Susa, dove li mettiamo?  

Sulle chat di chi ha organizzato il caos a Roma si parlava di assalto al Parlamento. Questo non è eversivo?

Prendiamo la legge. Un atto è eversivo se determina un rischio concreto per le istituzioni democratiche. Non vedo questo rischio oggi. Ma le faccio un esempio dall’estero.

Prego.

In Germania esiste un partito neonazista, l’Npd. Ha perfino ottenuto un milione di voti, ora ne ha cento, duecentomila. Il Bundestag ha chiesto di scioglierlo, la Corte Costituzionale ha risposto di no, perché non pone un pericolo per l’ordine democratico. Se poi in Italia vogliamo proibire qualsiasi manifestazione di violenza con lo scioglimento, benissimo. Purché si dica apertamente.

L’assalto al Congresso americano di gennaio non è un monito anche per l’Italia?

Certo, ma il paragone regge poco. In quel caso si sarebbe dovuto sciogliere il Partito repubblicano, perché i manifestanti, piaccia o meno, erano sostenitori di Trump. Un esito evidentemente paradossale.

Però il problema rimane. Il vicesegretario del Pd Provenzano in un tweet ha detto che Fratelli d’Italia rischia di finire fuori dall’“arco democratico e repubblicano”. È un’esagerazione?

È preoccupante, molto. Giorgia Meloni ha dato una lettura di questo tweet: vogliono sciogliere Fdi, come a suo tempo volevano sciogliere l’Msi. Io ci vedo un passaggio ancora più pericoloso. 

Sarebbe?

Qui non si propone di sciogliere un partito, ma di escluderlo dalla dialettica democratica. Un boicottaggio in piena regola da qualsiasi posizione di potere. C’è una lottizzazione del potere fra i partiti e si decide di lasciare fuori l’unica opposizione esistente. 

Si chiama conventio ad excludendum. Per vent’anni l’hanno fatto con i comunisti e nessuno si è scandalizzato…

Attenzione. I comunisti erano esclusi dal governo centrale, non dal “sottogoverno”. Per decenni hanno concordato riforme, riempito posti di potere, seggi in Rai. Insomma, hanno partecipato senza problemi al banchetto del potere economico italiano.

Va bene, ma qui stiamo aggirando un punto. La destra italiana fatica a fare i conti con il suo passato? Da Lega e Fdi ci potrebbe essere una parola in più su queste frange?

Sì, siamo tutti d’accordo. Ma farei una distinzione. Salvini non ha problemi a fare i conti con la propria storia, la Lega di Bossi era antifascista. Quando nel 1994 fu proposto l’accordo con Berlusconi, tanti tentennavano perché rifiutavano di allearsi al Sud con Alleanza nazionale. Il problema, semmai, è che alcune frange estremiste, come Casapound, vedono nella Lega uno sbocco.

Come se ne esce?

Semplice. Salvini e Meloni devono dire ad alta voce: “Noi i vostri voti non li vogliamo”. Possibilmente prima, non dopo, che queste persone mettano a ferro e fuoco Roma. Potrebbero evitarsi un’analisi del sangue da parte della sinistra, che ha una certa allergia a fare i conti con il passato. 

A che si riferisce?

Qualcuno chiede alla sinistra di fare i conti? No. E sa perché? Perché in Italia nessuno chiede ai post-comunisti di rinnegare il comunismo. I fascisti sono considerati per i loro comportamenti, i comunisti per le loro intenzioni. Ha mai sentito chiedere a Marco Rizzo di condannare i crimini dell’Urss o della Cina? 

Quella piazza a Roma gridava no-pass e anche no-vax. Sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio scrive che il governo non può usare il green-pass per sopprimere l’articolo 1 della Costituzione, il diritto al lavoro. Lei che idea si è fatto?

Premessa: sono vaccinato, favorevole al vaccino e ritengo il green pass uno strumento utile. E sì, a questo giro sono d’accordo con Travaglio. Non si può arrivare al punto di togliere il lavoro a chi non vuole vaccinarsi. 

C’è chi risponde: quindi chi si vaccina sta dalla parte del torto?

Non è questione di torto o ragione ma di garanzie costituzionali. C’è una via d’uscita: i tamponi gratuiti. In altri Paesi lo hanno fatto.

Che ricadono sui contribuenti italiani, tutti.

Giusto così. C’è una ragione perché questo vaccino deve cadere sulle spalle dello Stato. A differenza di altri vaccini nel passato, è stato sperimentato per soli dieci mesi, sia pure su miliardi di persone. 

Quindi?

Quindi un trattamento sanitario del genere non si può imporre. Se fossimo sicuri, non dovremmo firmare un nulla osta ammettendo che non conosciamo gli effetti di lungo periodo. C’è il calcolo del rischio statistico, e da statistico sono il primo a farvi affidamento. Ma chi ha paura non può essere tagliato fuori dalla vita sociale.

"Sciogliere Fn, minaccia fascista". Ma Mattarella smentisce i dem: solo casi isolati. Fabrizio De Feo il 12/10/2021 su Il Giornale. Con il ballottaggio alle porte la temperatura dello scontro politico si mantiene alta. Il desiderio di polarizzare e riaccendere antiche contrapposizioni è palpabile. La frontiera del confronto diventa lo scioglimento di Forza Nuova e delle formazioni dell'estrema destra, con il Pd che presenta una mozione in tal senso. Emergenza democratica alle porte, insomma. Il tutto nel giorno in cui a Milano scattano le contestazioni contro la Cgil da parte dei Cobas e si scopre che decine di manifestanti fermati sabato sono riconducibili al mondo degli anarchici. Una realtà, insomma, più complessa di come è stata raccontata. E che Sergio Mattarella analizza senza incorrere in allarmismi fuori misura: «Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». Ma la sinistra tira dritto e la mozione per sciogliere Forza Nuova e «tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista» arriva in Parlamento. I parlamentari di M5s, Iv e Leu sottoscrivono in blocco. E il segretario dem Enrico Letta chiama tutti i partiti all'unità e lancia un appello perché lo scioglimento di Forza Nuova «sia vissuto come un gesto unitario e non di parte. Dopo i gravi fatti di sabato tutti si riconoscano in una decisione che rende attuale e viva la Costituzione», azzarda. Sullo sfondo si muove anche l'inchiesta romana. La polizia postale sequestra e oscura il sito internet di Forza nuova. Il reato ipotizzato è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici. Si muovono anche i leader di centrodestra. «Berlusconi ha avuto un colloquio telefonico con Meloni e Salvini» fa sapere una nota. «Al centro della conversazione la condanna per le violenze perpetrate a Roma come a Milano, di ogni colore, a danno del sindacato e delle forze dell'ordine e la necessità di una posizione - unitaria - del centrodestra in vista dei prossimi appuntamenti parlamentari e dei ballottaggi». E Salvini non ha problemi nel far sapere che «se ci sono movimenti che portano avanti le loro idee con la violenza, vanno chiusi a chiave. Come a Roma ne hanno arrestati di cosiddetta destra, a Milano di cosiddetta sinistra. Per me pari sono». Sulla mozione, invece, il centrodestra invita a evitare «strumentalizzazioni politiche» e fa sapere di non poterla votare. Forza Italia con Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini sottolinea che «non esistono totalitarismi buoni e cattivi, e per questo non è possibile sostenere la mozione del Pd. Ma proprio per dare un forte segnale di unità tutti i gruppi lavorino a una mozione contro tutti i totalitarismi». Giovanni Donzelli di Fdi, intervenendo a «Domani è un altro giorno», non si tira certo indietro rispetto alla matrice fascista. «Certo, chiunque attenti alla democrazia è contro di noi. Questi odiano più noi del Pd...». Donzelli poi fa notare il pericolo di far votare lo scioglimento di una forza politica. «In un sistema democratico esistono equilibri istituzionali importantissimi. Pensare di far votare il Parlamento è una deriva autoritaria gravissima. Lo scioglimento spetta normalmente alla magistratura e in casi di emergenza al governo».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021. È un mondo parcellizzato, quello dell'estremismo nero italiano. Tanti piccoli reucci e nessun vero re. Una condizione che porta turbolenza all'interno della galassia neofascista. L'obiettivo dei vari movimenti è riuscire ad acquisire la leadership. Ma questa condizione, nel frattempo, crea grande instabilità. Quindi conflitto e violenza. Ecco, allora, che serve mostrare i muscoli nelle manifestazioni per imporsi definitivamente sugli altri gruppi. E allora quale migliore vetrina se non le proteste contro il vaccino e il green pass. Ma tutto questo, però, non è sufficiente. In un mondo globalizzato non basta solo conquistare il neofascismo in Italia. Bisogna intessere alleanze con l'estremismo di destra europeo. L'internazionale nera. Ma se nel nostro Paese Forza Nuova fa vedere il volto aggressivo, al contrario, in Europa cerca partnership, appoggi e forse anche soldi, come emerge da una recente inchiesta dei carabinieri del Ros. «C'è una competizione nell'estrema destra tra Forza Nuova e Casapound per affermarsi come movimento egemone della galassia neofascista. Negli ultimi anni Cp aveva preso nettamente il sopravvento. Allora Fn, per riconquistare il terreno perso, ha iniziato a compiere una serie di atti violenti. L'assalto di ieri alla Cgil rappresenta il punto massimo di questa strategia. Un'azione su cui imprimere un inconfondibile marchio fascista per riprendere quota all'interno di quel mondo». A fotografare con lucidità l'attuale situazione è Francesco Caporale, magistrato esperto e scrupoloso, oggi in pensione, che ha ricoperto dal 2016 fino all'estate del 2021 la carica di procuratore aggiunto dell'antiterrorismo a Roma. «Questa escalation di violenza in capo ai forzanovisti - sottolinea Caporale - dura ormai da tre anni, il mio ufficio la stava monitorando». Occorre, però, capire in quale contesto si muovano gli uomini e le donne di Roberto Fiore, il segretario di Fn e Giuliano Castellino, il leader romano. «Quest' ultimo - spiega un investigatore al Messaggero - è diventato il frontman del partito perché Fiore ha troppi problemi con la giustizia, rischierebbe parecchio. Castellino, oggi, rischia meno. Non vengono contestati reati particolarmente pesanti. La cabina di regia è però sempre in mano a Fiore». Dalle carte dell'inchiesta dei carabinieri del Ros emerge la rete internazionale di contatti del movimento. Fiore viaggia per l'Europa, arriva fino al Medio Oriente, in Siria. A novembre del 2014 vuole organizzare una conferenza a Damasco in piena guerra civile. Un incontro con «le comunità mediorientali che sto riorganizzando come Aliance for Peace and Freedom», dice il segretario di Forza Nuova a un militante di Fn in una conversazione intercettata dai militari dell'Arma. Poi, a gennaio del 2015, Fiore vola in Grecia per far sentire la sua vicinanza al leader di Alba Dorata Nikolaos Michaloliakos, rinchiuso in carcere perché accusato di appartenere a un'organizzazione criminale. Un incontro talmente positivo che un forzanovista (intercettato dai Ros) sostiene che ora i vertici del partito di estrema destra greco «vogliono bene a Forza Nuova». Assieme a Fiore ad Atene, a trovare Michaloliakos, annotano gli investigatori, sarebbe andato anche un altro pezzo da novanta del neofascismo europeo. L'eurodeputato Udo Voigt eletto con il partito Nazionaldemocratico di Germania, nel 2012 condannato per sedizione a 10 mesi per aver lodato in un comizio le Waffen-SS. Ma non sono solo i forzanovisti a viaggiare in giro per l'Europa. Anche altri camerati vengono a Roma per suggellare alleanze. È il caso dei neofascisti polacchi arrivati nella Capitale a settembre del 2014 per far visita ai forzanovisti. L'incontro, si legge nelle carte della procura, avviene nell'allora sede romana del partito in via Amulio. Anche la questione russa e i nuovi equilibri europei suscitano l'attenzione del gruppo di estrema destra. Un militante di Fn, in una conversazione discute dei «rapporti crescenti del leader di Fn Fiore con altri politici russi». Ma «Salvini ci ha fregato i contatti con la Russia», si rammaricano gli uomini di Fiore al cellulare, »era il cavallo nostro». La necessità di intessere rapporti «di tipo economico/commerciale - sottolineano gli inquirenti - in particolare per la produzione di vino», risultava vitale per i nuovi scenari creatisi in Crimea. Il conflitto ucraino veniva inquadrato «meramente in chiave utilitaristica» con l'unico obiettivo di sfruttare la precaria situazione governativa e incunearsi nei centri di potere per ricavarne benefici economici. Sempre nel 2014 con un esponente di Fn, parlando dell'imminente viaggio in Crimea insieme a Fiore per un incontro col ministro dell'Agricoltura dice che andrà «per fare una cosa coi russi, per cercare di prendere la cittadinanza del nuovo governo della Crimea: il governatore è un amico di amici».

Tagadà, Roberto Castelli contro la sinistra: "Si indignano per Roma. Ma nemmeno una parola sul brigatista eletto". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "Insopportabile quello che sta accadendo in questi giorni perché è venuto alla luce il doppiopesismo della sinistra": l'ex senatore della Lega Nord, Roberto Castelli, ha commentato così le violenze e l'assalto alla sede nazionale della Cgil da parte dei no green pass sabato scorso. A tal proposito, ospite di Tiziana Panella a Tagadà su La7, ha ricordato un episodio ben preciso: "Voglio ricordare questo: alla Camera un po' di anni fa venne eletto con i voti della sinistra un brigatista. Ora tutti quelli che si stracciano le vesti - giustamente, perché non si devastano le sedi delle organizzazioni, siano essi partiti o altro - non mi pare che si stracciarono le vesti in quel caso, quando venne eletto un ex brigatista". Per Castelli, quindi, non bisogna fare due pesi e due misure. Quello dell'ex brigatista, inoltre, pare non sia stato nemmeno l'unico caso in cui è venuta fuori questa disparità di giudizio: "Io ricordo mille manifestazioni in cui sono stati devastati i centri urbani dalla sinistra, ricordo gli attacchi alle sedi della Lega per cui la sinistra non ha mai mosso un dito". Ecco perché poi alla fine del suo intervento, l'ex senatore leghista ha fatto un appello accorato a tutte le parti: "Per favore cerchiamo di condannare tutti i fascismi, tutti i totalitarismi e tutti gli squadrismi, non solo quelli che fanno comodo soprattutto a cinque giorni dalle elezioni". 

Da Hitler all’assalto alla Cgil: cos’hanno in testa? Chi sono i nuovi fascisti: vecchi, irrazionali e depressi. Franco "Bifo" Berardi su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Per gentile concessione delle Edizioni Tlon e dell’autore, anticipiamo qui di seguito ampi stralci della postfazione a “Come si cura il nazi”, saggio di Franco «Bifo» Berardi, ormai diventato un classico, che torna in libreria in versione aggiornata per la stessa casa editrice

Quando scrissi questo libretto, nel 1992, stavano emergendo due processi sulla scena del mondo: il primo era la proliferazione della rete digitale destinata nel medio periodo a mutare nel profondo l’economia e le forme di vita. Il secondo era la ricomparsa di una belva che per mancanza di concetti migliori definivamo fascista, e si era ripresentata nel continente europeo, in un Paese un tempo chiamato Iugoslavia, e si delineava all’orizzonte delle subculture anche in Gran Bretagna e perfino in Italia, che col fascismo credevamo avesse chiuso i conti per sempre. In apparenza i due fenomeni erano eterogenei, del tutto indipendenti. Ma non lo erano affatto a uno sguardo più attento, e a me interessava proprio l’interdipendenza che lavorava nel profondo della cultura, della psicologia sociale, della psicopatia di massa. A questa relazione fra i due processi allora emergenti è dedicato in gran parte questo libretto. Oggi che entrambe le tendenze si sono pienamente sviluppate, la loro interdipendenza appare più visibile. Nelle sue varie forme, spesso contraddittorie, l’ondata neo-reazionaria ha preso uno spazio centrale con il fiorire dei movimenti razzisti, nazionalisti, suprematisti che hanno avuto il loro punto più alto nella vittoria di Trump alle elezioni del 2016, ma non sono certo finiti con la sconfitta dell’uomo arancione nel 2020. Ma le manifestazioni di questa ondata neo-reazionaria sono talmente diverse, sorprendenti e assurde che spesso rischiamo di confondere le diverse figure del dramma, e di usare parole vecchie per parlare di fenomeni nuovi. Il movimento trumpista, ad esempio, ha dato vita a enunciazioni talmente assurde e a manifestazioni talmente demenziali che spesso si può supporre di trovarsi di fronte a messe in scena rituali, a grottesche rappresentazioni di consapevole disprezzo per la ragione. Ma proprio questa enigmatica sfida alla ragione è uno dei caratteri salienti di un movimento che esprime la progressiva (e forse irreversibile) discesa nella demenza di larga parte della società. Riconoscere il carattere demente e grottesco delle enunciazioni e delle azioni del movimento neo-reazionario non significa affatto sottovalutarne la pericolosità. Al contrario, dobbiamo capire che la demenza non è affatto un fenomeno marginale e provvisorio, ma è probabilmente un carattere destinato a espandersi poiché l’umanità sperimenta l’impotenza della Ragione di fronte agli effetti devastanti della Ragione medesima. La potenza della ragione umana ha generato mostri spaventosi come la bomba atomica, e quindi ci sentiamo umiliati dai prodotti della nostra stessa potenza, a tal punto che l’abbandono della ragione sembra essere la sola via d’uscita. Ai tempi in cui scrivevo questo libretto mi chiedevo come curare il nazi. Dunque consideravo il riemergere della belva come un effetto psicopatologico, e non ho alcuna ragione di ripensarci. I trumpisti col berrettino rosso e le corna da bisonte sono essenzialmente degli idioti, come lo sono i leghisti con lo spadone indignati per l’invasione dei marocchini, come lo sono i popolani inglesi che riaffermano l’orgoglio imperiale britannico barcollando di ritorno dal pub. Ma non possiamo considerare irrilevante la moltiplicazione del numero di idioti, perché anche le folle che marciavano nelle notti tedesche del 1933 erano folle di idioti. Forse piuttosto che di idioti dovremmo parlare di sonnambuli, come nella scena iniziale e in quella finale del film di Ingmar Bergman L’uovo del serpente: una folla di persone normalissime in bianco e nero cammina per strada, ma il loro incedere si fa sempre più barcollante e automatico, come se la folla metropolitana perdesse coscienza del suo esistere medesimo, trasformata in una folla di zombie. Il serpente è il capitalismo, e il suo uovo si schiude per generare la violenza di folle che hanno perduto il senso della propria esistenza, che non sono più capaci di percepire la collettività solidale né la singolarità della persona, e quindi si trasformano in indifferenziato “popolo”, in nazione, corpo collettivo solo capace di riconoscersi in un’origine, in una identità, in un’appartenenza, che per lo più è solo immaginaria, mitologica. Dunque non mi allontano dall’intuizione che ebbi nel 1992, ma adesso è tempo di mettere in chiaro alcune questioni terminologiche e concettuali che trent’anni fa erano difficili da focalizzare. Dobbiamo davvero definire “nazisti” o “fascisti” gli attori inconsapevoli della tragica farsa che si sta svolgendo in larga parte del mondo? La farsa del nazionalismo che ritorna, del razzismo che si incarognisce, la farsa delle retoriche militaresche e patriottarde? E inoltre: cosa è stato davvero il nazismo nella sua versione storica, e che rapporto c’è stato in passato tra nazismo e fascismo, e in che misura quel rapporto si ripresenta oggi? La sconfitta militare tedesca nel 1918 e l’impoverimento sociale conseguente generarono un sentimento di impotenza che nella Germania del primo dopoguerra prese la forma dell’odio contro coloro che erano considerati traditori della nazione (ebrei, comunisti) e che l’avevano consegnata all’umiliazione di Versailles. Dall’umiliazione collettiva emerse un Führer capace di riaffermare il destino del popolo tedesco: sottomettere il continente ed eliminare la malattia razziale e ideologica dal corpo sano della nazione. Similmente in Italia la convinzione di essere stati privati di una vittoria conquistata sui campi di battaglia alimentò l’ascesa di Mussolini. Non importa che la vittoria italiana fosse una menzogna assoluta, perché l’Italia era entrata in guerra con un tradimento delle alleanze preesistenti, e aveva accumulato una disfatta dopo l’altra. Come non importa che il mito tedesco della pugnalata alle spalle fosse una menzogna per nascondere il fallimento della vecchia classe militare prussiana. Non conta niente la storia, quando le folle si eccitano per la mitologia. Ma allora il problema è: in quale orizzonte si delinea la mitologia? Quale soggettività sociale esprime la mitologia? La soggettività sociale che esprime la mitologia del nazionalismo aggressivo nel XX secolo è quella di una popolazione prevalentemente giovane, e di nazioni emergenti nella scena dell’imperialismo occidentale. Germania, Italia, e, non dimentichiamolo, il Giappone, avevano questo in comune: erano nazioni giovani che ambivano ad affermare la propria potenza con la conquista militare e l’espansione imperialistica, come la Francia, e la Gran Bretagna avevano fatto nei secoli precedenti. Le folle che seguirono il duce italiano e il Führer tedesco, per parte loro, erano composte da giovani reduci, disoccupati, aspiranti conquistatori che credevano in un futuro garantito dall’esuberanza fisica e mentale di un popolo giovane. La follia del fascismo novecentesco era una follia euforica, esuberante. L’identitarismo aggressivo del XXI secolo, al contrario, è espressione di un mondo declinante, di popolazioni senescenti. Perciò nel movimento neoreazionario del XXI secolo emerge l’espressione di una demenza senile, di una depressione psichica senza speranze eroiche, ma piuttosto sordida, rancorosa, ossessionata dall’impotenza politica e dall’impotenza sessuale. La tesi del mio libretto di trent’anni fa appare dunque in qualche misura confermata: all’origine delle varie forme di identitarismo aggressivo ci sta la sofferenza. Ma i caratteri della sofferenza psichica non sono gli stessi oggi rispetto al Novecento. Questi caratteri sono mutati perché l’Occidente è entrato nel suo declino irreversibile, e perché l’esaurimento si disegna come prospettiva generale del pianeta: esaurimento delle risorse, esaurimento delle possibilità di espansione economica, esaurimento dell’energia psichica. Questa è solo la prima parte della storia. Poi c’è la seconda, che nel mio libretto d’antan manca completamente e che ora emerge invece con brutale chiarezza. Di che sto parlando? Sto parlando del fatto che l’esperienza che abbiamo fatto nei primi decenni del XXI secolo ci obbliga a rivedere la periodizzazione del secolo passato. Siamo stati abituati a pensare che nel Novecento si sia svolta una battaglia gigantesca nella quale si distinguono tre attori principali: il comunismo, il fascismo e la democrazia. Questa visione della storia novecentesca è legittima, se ci poniamo dal punto di vista degli anni Sessanta, del trentennio glorioso in cui borghesia e classe operaia realizzarono un’alleanza progressiva. Ma da quando, nel 1973, un colpo di Stato nazista venne ordito contro il presidente cileno Salvador Allende con la collaborazione attiva del segretario di Stato degli Stati Uniti, e con la consulenza scientifica degli economisti della scuola di Chicago, da quando quel colpo di Stato spianò la strada all’affermazione dapprima locale, poi occidentale, poi globale dell’assolutismo capitalistico, autoproclamatosi democrazia liberale, le cose hanno cominciato a presentarsi sotto un’altra luce. Nella nuova luce a me pare di vedere che gli attori non sono mai stati tre, ma sempre due: il dominio assoluto del capitale (in forme democratico-liberali o in forme nazional-suprematiste) è il primo attore, il secondo è l’autonomia egualitaria della società, il movimento del lavoro contro lo sfruttamento. Certo, è vero che il nazismo e la democrazia liberale si scontrarono tra loro nella più cruenta delle guerre, ed è vero che dalla seconda guerra mondiale in poi la democrazia liberale ha dovuto incorporare forme economiche e culturali del socialismo. Certo, i trent’anni dell’alleanza socialdemocratica tra capitale progressivo e movimento sindacale e politico dei lavoratori sono stati una parentesi lunga di contenimento degli istinti animali del capitalismo. Ma non era che una parentesi, appunto, e non appena il capitale ha intravisto il pericolo di un diffondersi del potere operaio, e dell’autonomia sociale egualitaria, il suo istinto si è manifestato nella sola maniera in cui si poteva manifestare: ristabilendo il patto di acciaio con il nazismo. Il contrasto fra democrazia liberale e sovranismo aggressivo, che sembra fortissimo negli anni della presidenza Trump, non è in effetti che una messa in scena piuttosto labile. Certamente gli elettori di Trump o di Salvini si sentono umiliati dalla violenza economica del capitale assolutistico finanziario. Ma non vi è alcuna strategia di fuoriuscita dal capitalismo nel sovranismo delle destre, e infatti coloro che abusivamente si definiscono come “populisti” una volta al governo perseguono politiche di totale dipendenza dal capitale finanziario, di riduzione delle tasse per i ricchi, di piena mano libera sulla forza lavoro. Credo che non si sia mai tentata un’analisi spregiudicata di ciò che accomuna profondamente nazismo e neoliberismo, parola edulcorata ed equivoca con cui si intende l’assolutismo del capitale. Il cosiddetto “neoliberismo” infatti afferma che la dinamica economica è autonoma dalla regola giuridica, perché la legge della selezione naturale non può essere contenuta da nessuna volontà politica. Naturalmente in questa pretesa arrogante c’è un nucleo di verità scientifica che la sinistra ha generalmente sottovalutato, e prende nome di darwinismo sociale. Ma proprio in questo nucleo di verità scientifica, riducibile alla formula “nell’evoluzione naturale prevale il più forte, o meglio il più adatto all’ambiente”, si trova la ragione di un’alleanza obiettiva tra neoliberismo e pulsione nazista mai definitivamente cancellata. Come negare la verità dell’assunto evoluzionista, che in fondo è un puro e semplice truismo, una verità auto-evidente? L’ovvia constatazione che il più forte vince, viene tradotto in una strategia politica per effetto di un paralogismo, di una dimenticanza, o di una menzogna. Si omette semplicemente il fatto che la civiltà umana si fonda proprio nello spazio aperto dal salto dalla natura alla sfera della cultura. E si omette il fatto che Darwin non ha mai preteso di estendere il suo modello esplicativo alla società umana. E infatti la civiltà umana si trova in estremo pericolo nel momento attuale, dopo quaranta anni di dominio neoliberale, di devastazione sistematica dell’ambiente planetario, di impoverimento sociale e decadimento delle infrastrutture della vita pubblica. In questa situazione di estremo pericolo per la civiltà umana stessa, nel momento in cui la dimensione della libertà politica scompare nelle maglie sempre più strette dell’automatismo tecnico e dell’assolutismo capitalistico, ecco emergere di nuovo la soggettività rabbiosa, un tempo euforica e oggi depressa, un tempo isterica e oggi demente che solo a prezzo di una imprecisione (perdonabile) possiamo chiamare “fascismo”. Si rimodula quindi anche la relazione tra fascismo e nazismo. Già nel XX secolo il nazismo fu la manifestazione organizzata di una volontà di potenza suprematista, l’espressione di una cultura che si considerava superiore per ragioni storiche, etniche, ma anche per ragioni culturali, e tecniche. Il nazismo, come il cosiddetto “neoliberismo”, sono espressione dell’arroganza dei vincitori. Il fascismo novecentesco aveva un carattere diverso, perché era espressione, talora petulante talora rabbiosa, di una cultura considerata inferiore (gli italiani e i mediterranei in generale occupavano una posizione intermedia tra la razza eletta e i popoli decisamente inferiori, nell’immaginario razzista del Terzo Reich). La potenza tecnica ed economica del Paese di Mussolini non era paragonabile alla potenza dei Paesi “demoplutocratici”, e neppure della Germania di Krupp e di Thyssen. Allo stesso modo nel movimento neoreazionario del XXI secolo si deve distinguere il nazismo dei vincitori, che si incarna particolarmente nella cultura del ceto tecno-finanziario, dal Fascismo dei perdenti. Razzismo e xenofobia si manifestano in maniere diverse nella cultura dei vincenti nazi-liberisti e in quella dei perdenti sovranisti e fascistoidi. Per questi ultimi è volontà di esclusione, di respingimento se non di sterminio, mentre nuove ondate di migrazione sono continuamente suscitate dalle guerre, dalla miseria, dai disastri ambientali provocati dal colonialismo passato e presente. I vincenti nazi-liberali vedono di buon occhio le migrazioni, purché i migranti non pretendano di istallarsi nei quartieri alti, e accettino le condizioni di lavoro che vengono loro imposte dai tolleranti liberal à la Benetton. Per i fascistoidi identitari delle periferie i migranti sono un fattore di concorrenza sul lavoro e un pericolo quotidiano. La classe dirigente democratico-liberale predica la tolleranza ma costruisce alloggi per migranti nelle periferie povere, non certo ai Parioli o in via Montenapoleone. Per questo il razzismo attecchisce tra i miserabili delle periferie, mentre ai quartieri alti si tratta con cortesia la serva filippina. Il razzismo non è un cattivo sentimento dei maleducati rasati a zero che si ritrovano negli stadi a gridare slogan dementi, ma qualcosa di molto più profondo e di molto più organico: esso si radica nella storia di secoli di colonizzazione, sottomissione schiavistica, estrazione delle risorse dei Paesi colonizzati. E quella storia non è affatto conclusa. Non è possibile emanciparsi dal razzismo fin quando non si riconosce che la miseria dei Paesi del Sud è il prodotto dello sfruttamento bianco, e che questa miseria continuerà a provocare miseria, disperazione, emigrazione fin quando non saranno state rimosse le conseguenze del colonialismo e dell’estrattivismo. Ma rimuovere quelle conseguenze non sarà possibile fin quando l’assolutismo del capitale continuerà a essere la forma generale dell’economia del mondo. Forse dunque non sarà possibile mai. Trent’anni fa mi chiedevo come sia possibile curare il nazi. Ora mi sembra di dover dire che è stato il nazi a curare noi, per guarirci dell’infezione che ci rendeva umani. Al punto che se un tempo pensavamo che non avremmo accettato di convivere con il fascismo, ora siamo tentati di chiederci se il fascismo vorrà convivere con noi. Franco "Bifo" Berardi

Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. Scioglimento di Forza Nuova, i precedenti: da Ordine Nuovo a Avanguardia Nazionale e Fronte Nazionale. David Romoli su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. La settimana prossima le Camere discuteranno e voteranno le mozioni che chiedono al governo di sciogliere Forza Nuova, il gruppo neofascista più attivo e soprattutto più vistoso nelle manifestazioni No Vax e No Green Pass, indicato come artefice dell’assalto alla sede della Cgil. Alla Camera c’è una sola mozione, presentata dal Pd e sottoscritta da tutti. Al Senato, dove il Pd ha presentato la sua mozione in anticipo rendendo così impossibile concordare il testo con gli altri affini ce ne sono quattro, sostanzialmente identiche nel dispositivo, anche se quella di LeU, firmata anche da Liliana Segre, estende la richiesta di scioglimento ad altre due organizzazioni, Casapound e Lealtà Azione. Alcuni dei firmatari delle mozioni avrebbero preferito tempi più rapidi. Il governo ha preferito rallentare, alla ricerca di una via d’uscita dal dilemma in cui lo porrebbe l’approvazione. Lo scioglimento di formazioni neofasciste, ai sensi della legge Scelba del 1952 che, dando attuazione alla disposizione costituzionale transitoria, punisce la ricostituzione del Partito fascista, è stato già disposto tre volte nella storia repubblicana: contro Ordine nuovo nel 1973, contro Avanguardia nazionale nel 1976 e contro il Fronte nazionale nel 2000. In tutti i casi, però, i governi si erano mossi dopo una sentenza della magistratura che, sia pure solo in primo grado, aveva emesso condanne per violazione della legge Scelba e, nel caso del Fronte nazionale, della legge Mancino del 1993, che ha reso fattispecie di reato anche la propaganda razzista. Stavolta invece si chiede al governo di procedere per decreto anche in assenza di una sentenza. La legge Scelba lo consente, ma solo in casi di straordinaria necessità e urgenza. Draghi esita, comprensibilmente, a considerare eccezionalmente urgente lo scioglimento di una formazione minore, ancorché rumorosa, di estrema destra. In realtà l’allora ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, uno degli “uomini forti” della Dc, più volte ministro della Difesa, rivendicò nel 1974 il merito di aver deciso lo scioglimento di Ordine nuovo, un anno prima, prescindendo dalla magistratura: «Fu un atto politico: perché i giudici discutevano se la sentenza del Tribunale, non essendo definitiva, fosse sufficiente presupposto dell’atto governativo». La sentenza contro il Movimento politico Ordine nuovo era stata emessa il 21 novembre 1973. Era la prima volta che la legge Scelba veniva applicata a un’intera organizzazione. Fu una sentenza molto pesante: 30 condanne, 10 assoluzioni, 2 posizioni stralciate tra cui quella di Sandro Saccucci, che fu condannato più tardi. Il leader di On, Clemente Graziani, fu condannato a 5 anni e mezzo e si rese latitante, come tutti gli altri leader condannati. Due giorni dopo il ministro Taviani, sentito il consiglio dei ministri, firmò l’ordine di scioglimento. Aldo Moro non partecipò alla riunione, in segno di protesta contro la decisione che, a suo parere, somigliava più ai provvedimenti della giustizia fascista che di quella antifascista.

Il Movimento politico Ordine nuovo era nato nel dicembre 1969, dopo lo scioglimento del Centro studi Ordine nuovo fondato 13 anni prima da Pino Rauti. Dopo l’ascesa di Almirante alla segreteria del Msi Rauti era rientrato nel partito con molti altri dirigenti e militanti. Graziani aveva dato vita al Movimento politico. La divisione era però più profonda. Rauti, in nome dell’anticomunismo, aveva aderito alla politica atlantista mettendo da parte l’antiamericanismo delle origini e, come avrebbe lui stesso ammesso decenni più tardi, si era schierato a favore di un eventuale colpo di Stato militare. Graziani e il Movimento ritenevano che un colpo di Stato sarebbe stato “controrivoluzionario”. Per questo Ordine nuovo non aderì al tentativo di golpe organizzato nel dicembre 1970 da Junio Valerio Borghese. L’inchiesta su On era iniziata nel gennaio 1971, condotta dal magistrato Vittorio Occorsio. Al processo gli imputati, difesi da uno dei principali avvocati della destra italiana, Nicola Madia, si rifiutarono di rispondere, consegnando invece una memoria difensiva: “Processo alle idee”. Non era un titolo eccessivo. L’atto di accusa si basava sulla somiglianza tra citazioni dell’età del fascismo o spezzoni di discorsi di Mussolini e documenti e volantini di On. Le violenze materiali contestate, nel clima dell’epoca, erano insignificanti. Un pestaggio, una manifestazione di fronte a una sezione del Pci, una sassaiola contro la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, a Roma. Un secondo processo si svolse a partire dal 1974 a Roma. Lo scioglimento, nonostante Graziani sperasse di poter proseguire l’attività di On in clandestinità, mise fine alla lunga parabola del principale gruppo della destra radicale in Italia. Alcuni dei militanti scelsero la via delle armi e tra questi Pierluigi Concutelli, che nel 1976 uccise il pm che aveva guidato all’accusa nei processi contro On, Vittorio Occorsio. Di certo l’esplosione e la frammentazione di un gruppo che, nonostante l’aura di sinistra leggenda, aveva in realtà responsabilità penali molto minori di quanto non ci si immagini oggi, impresse una spinta drastica verso la militarizzazione della destra radicale negli anni ‘70.

Nel 1976 fu il turno di Avanguardia nazionale, il secondo gruppo per importanza della destra extraparlamentare. Era il prodotto di una scissione di On. I giovani che non si accontentavano del ruolo di Centro studi e volevano passare all’azione fondarono nel 1959 Avanguardia nazionale giovanile. Sciolta nel ‘66, l’organizzazione si formò di nuovo nel 1970, guidata da Adriano Tilgher. Molto più coinvolta di On nelle battaglie di strada, presente in forza a Reggio Calabria nei mesi della più lunga rivolta urbana della storia recente, colonna del partito del golpe e la vera truppa del tentato colpo di Stato Borghese, probabilmente legata all’Ufficio affari riservati del Viminale, An era nel ‘76 ridotta all’osso. Pochi dirigenti, pochissimi militanti. La condanna per violazione della legge Scelba arrivò nel giugno 1976. Il fondatore, Delle Chiaie, era da anni all’estero, prima in Spagna, poi nel Cile di Pinochet. Furono condannati a pene minori di quelle chieste dall’accusa 30 imputati su 64 indagati. Un giorno prima del decreto di scioglimento, Tilgher anticipò la decisione del governo sciogliendo lui il gruppo.

Passarono 24 anni prima che venisse sciolto un terzo gruppo con poche decine di militanti, il Fronte nazionale ispirato da Franco Freda (che nonostante la mitologia non aveva mai fatto parte di On). In questo caso la condanna e il successivo decreto di scioglimento furono dovuti a violazione della legge Mancino. Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. I decreti degli anni ‘70, al contrario, ebbero un ruolo notevole nel determinare a fine decennio l’esplosione del terrorismo nero, in particolare dei Nar. Non perché tra questi gruppi e quelli della generazione precedente ci fossero nessi diretti ma perché il clima che si era creato era ormai quello della contrapposizione estrema e poi armata con lo Stato. David Romoli

 "Questo è un plotone contro la Meloni". Crosetto lascia lo studio di Formigli. Marco Leardi il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'imprenditore ha lasciato la trasmissione di La7 in aperta polemica. "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia", ha detto prima di abbandonare la diretta 

"Questo è un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra". Così, ieri sera Guido Crosetto ha deciso di abbandonare lo studio di Piazzapulita, dove da più di un'ora si stava discutendo della controversa inchiesta di Fanpage su Fratelli d’Italia e Lega. Nello studio di La7, i toni del confronto e dei servizi trasmessi erano palesemente monocordi, ostili ai suddetti partiti e ai loro leader. Dunque – arrivato il momento di prendere la parola – l’imprenditore ed ex sottosegretario alla Difesa ha preferito andarsene in aperta polemica con l'impostazione del talk show. "Io ascolto da un’ora la trasmissione. Man mano che la sentivo andare avanti mi chiedevo: 'Che cosa ci faccio qua? '. Perché io ho una grandissima stima nei confronti del giornalismo, ancora più della politica con la p maiuscola e della democrazia. E penso che la democrazia si fondi sul confronto, non sui plotoni d’esecuzione. Quando vedo dei plotoni d’esecuzione dico che sarebbe giusto che si difendessero le persone che poi vengono uccise", ha dichiarato Crosetto, unico ospite in studio a prendere le difese di Giorgia Meloni e del centrodestra. Davanti a lui, la sardina Mattia Santori (ora tra le fila del Pd) e il vicesegretario dem Giuseppe Provenzano, che nei giorni scorsi aveva addirittura definito la leader di Fratelli d’Italia "fuori dall’arco democratico". Poco prima, in apertura di trasmissione, aveva preso la parola pure Romano Prodi. Incalzato dal conduttore Corrado Formigli, che lo invitava a spiegare meglio la propria contestazione, Crosetto ha aggiunto: "Il plotone d’esecuzione è quello che è stato sinora la trasmissione, nei confronti di Giorgia Meloni e dell’intero centrodestra (…) Io sono inadatto nel recitare il ruolo di foglia di fico e faccio l’unica cosa che può fare una persona che si sente inadatta. La saluto, mi scuso e me e vado". A quel punto, l’imprenditore si è alzato dal tavolo della discussione e si è incamminato verso l'uscita dello studio. Trattenuto con fastidio dal padrone di casa, che gli rinfacciava di aver voluto fare una "uscita di scena teatrale", Crosetto ha tenuto il punto. E ha ribadito: "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia, secondo me". Poco più tardi, mentre in diretta su La7 proseguiva la discussione, l’ex sottosegretario alla Difesa è tornato a motivare il suo gesto con un tweet. "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita", ha scritto.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista. 

PiazzaPulita, Guido Crosetto abbandona lo studio: "Plotone d'esecuzione contro Meloni, me ne vado". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. Guido Crosetto inaspettatamente abbandona lo studio di PiazzaPulita durante la diretta del programma su La7 del 14 ottobre per protesta: "Cosa ci faccio qui? Non è giornalismo. Ho sbagliato io a venire qui da libero cittadino e libero pensatore. Secondo me la trasmissione è stata un plotone d'esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Non voglio fare la foglia di fico.". Quindi, rivolto a Corrado Formigli: "La saluto, mi scuso e me ne vado". Il fondatore di Fratelli d'Italia, che ha detto addio alla politica tre anni fa e oggi fa l'imprenditore, si è irritato per la puntata dedicata in parte ancora all'inchiesta di Fanpage sulle vicende legate alla campagna elettorale delle comunali di Milano e alla condotta di esponenti del centrodestra, compreso l'europarlamentare di Fdi Carlo Fidanza. "Sono inadatto e me ne vado". "Mi sembra una scena teatrale, mi dispiace, non mi pare sia accaduto nulla di grave. Abbiamo invitato Giorgia Meloni fino all'ultimo momento. Non rincorro gli ospiti", ribatte Formigli. Quindi interviene Alessandro Sallusti: "Si sta facendo passare Fratelli d'Italia come un partito di corrotti. Un marziano, se avesse visto la trasmissione, avrebbe pensato che Fratelli d'Italia è un covo di briganti e di corrotti. Il problema è far passare il primo partito di questo paese come una banda di disperati", chiosa il direttore di Libero. Crosetto torna poi sulla questione con un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita".

"Ho lasciato gli studi di Piazza Pulita: plotone di esecuzione contro la Meloni". Fabrizio De Feo il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il j'accuse del cofondatore di Fdi: "Stavano costruendo un teorema in tv". «Credo che la democrazia si fondi sul confronto e non sui plotoni di esecuzione. Qui ho visto un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Ho lasciato la politica perché mi sentivo al di sopra di questo modo becero di farla. Mi sento inadatto a fare la foglia di fico. Per questo faccio l'unica cosa che può fare una persona quando si sente inadatta: la saluto, mi scuso e me ne vado». Con questo j'accuse Guido Crosetto, fondatore di Fdi giovedì ha abbandonato gli studi di Piazza Pulit a La7.

Come è maturata la sua decisione?

«Ho ascoltato per mezz'ora il monologo di Corrado Formigli e del direttore Cancellato sulla risposta data da Giorgia Meloni all'inchiesta di Fanpage. A quel punto è stata data la parola a Lilli Gruber che indossava le vesti di arbitro del bene e del male, per arrivare poi alle conclusioni di Prodi. Nel mirino c'era un unico obiettivo: Giorgia Meloni, tirata in ballo per fatti in cui evidentemente non c'entra nulla. Mentre aspettavo non potevo fare a meno di pensare che mi trovavo di fronte a una impostazione inaccettabile per chiunque, per Conte, Letta o Renzi. La trasmissione non stava facendo informazione corretta ed imparziale ma stava semplicemente costruendo un teorema».

Quale sarebbe stata l'impostazione giusta?

«Io credo che il conduttore debba fare l'arbitro tra due interlocutori, non diventare parte in causa».

Non sarebbe stato più giusto controbattere a quelle tesi?

«Dopo un'ora, in 3 minuti? Non ho nulla contro Corrado Formigli, sono stato suo ospite e certo non perdo il rispetto per lui. Ma ritengo si possa portare civiltà anche in un dibattito politico. Giorgia Meloni fino a pochi mesi fa veniva descritta come la faccia buona del sovranismo, ora visti i sondaggi è diventata una Mussolini in gonnella o un Hitler in sedicesimo. Con queste iperboli la si espone al rischio che qualche pazzo possa sceglierla come obiettivo, lei che, in un Paese in cui hanno scorte e tutele anche quelli che si spediscono da soli un proiettile, non ha mai voluto la scorta».

Lei fa politica da molti anni, sa bene che l'evocazione del fascismo è uno spartito consueto da circa 28 anni.

«Ho visto anch'io il titolo di un giornale del 1993 su Berlusconi fascista. Sì, la riesumazione del pericolo nero è un classico pre-elettorale, ma francamente applicarlo a una donna di 44 anni che da anni ha un atteggiamento molto fermo verso qualunque forma di nostalgismo è un po' deprimente. Conosciamo bene queste artiglierie sperimentate per distruggere, ma non è detto che sia scontato abituarcisi e fare finta che sia tutto normale. Gli avversari di Giorgia Meloni dovrebbero cercare di combatterla sui contenuti, non cercando di delegittimare lei».

C'è un elemento di autocritica che si sente di fare rispetto alle prese di posizione di Fratelli d'Italia di queste settimane?

«I movimenti di destra esistono così come i loro tentativi di usare Fdi come veicolo. L'attenzione è alta, a volte si può fare meglio, a volte peggio, ma pensare che i leader di partito possano avere responsabilità per episodi o atteggiamenti che avvengono in periferia è lunare. Qualche giorno fa è stato eletto un consigliere circoscrizionale della lista Manfredi a Napoli che sul suo profilo Facebook ha riferimenti al Ventennio. Nessuno, giustamente, ne ha chiesto conto a Manfredi o a Letta. Se fosse stato di Fdi avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con la Meloni? Questa comunicazione è il modo per tenere ferma la democrazia. La sinistra preferisce vincere spaventando il proprio elettorato piuttosto che confrontarsi sulle idee». Fabrizio De Feo

Che vergogna il bullismo televisivo. Davide Bartoccini il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'epoca in cui viviamo, il bullismo si combatte a scuola ma si insegna in televisione. E nessuno, professore, politico o giornalista, darebbe la vita - come Voltaire - per permettere a chi che sia di contraddirlo. Non so quando sia iniziato né perché. Non so come gli editori lo consentano, né perché i conduttori televisivi, nella maggior parte dei casi giornalisti fin troppo navigati sempre appellatisi alla democrazia e alle più buone maniere, lo esercitino senza pudore; ma finiamo sempre più spesso con l'assistere a imbarazzanti siparietti che sfociano nel "bullismo televisivo" che scandisce quest'epoca. E francamente è vergognoso. Fa bene dunque un Guido Crosetto, che giovedì si è riconfermato un sobrissimo gentiluomo, ad abbandonare un talk televisivo dove il copione scritto dagli autori poteva e doveva avere un solo epilogo: mettere nell'angolo l'unico contraddittorio presente in studio, sapendo che l'altrettanto gentiluomo, sempre sobrio e rispettoso nei toni, Alessandro Sallusti, non si sarebbe messo a fare la fronda dell'ultimo dei mohicani. Destrorso chi scrive? Ma per favore. Difensore di Giorgia Meloni, detrattore dei giornalisti che in "tre anni di barbe finte", come hanno scritto sul Riformista, hanno "svelato" le malefatte del Barone Nero? Ma per carità. Non è una questione di "vittimismo da camerati", come scherzano sui social. È una questione di coerenza e onestà intellettuale: non si possono continuamente camuffare da talk televisivi delle trasmissione disegnate per "moralizzare" metodicamente la propria audiance. Alle lunghe i non maoisti sono costretti a cambiare canale. Le altre emittenti, per bilanciare le forze, a costruire gli stessi siparietti al contrario, e chiunque abbia conservato un po' di buon gusto, a spegnere il televisore e ad aprire un libro. Questo j'accuse potrà apparire banale, anche fuori tempo, perché è da anni che si consumano queste pantomime. Ma la pandemia che ci ha costretti a guardare più televisione del necessario, e tutto il dibattito tra vaccinisti coatti e no-vax da protesi di complotto, sembrerebbe aver alzato il livello di spocchia di un'ampia schiera di conduttori e ospiti che in virtù delle loro competenza - chi gliele nega per carità - vogliono apparire senza essere contraddetti come dei narratori onniscienti e non come quello che dovrebbero in vero essere: moderatori e interlocutori accreditati. Chi viene chiamato in una trasmissione, in presenza o in collegamento esterno, dovrebbe essere in primis ascoltato, e poi rispettato, anche dovesse abbandonarsi al delirio. Senza dover ripetere l'immancabile "Non mi interrompa perché io non l'ho interrotta" che ormai occupa metà nel minutaggio delle trasmissioni. E senza che il conduttore s'innalzi a paladino della lotta alle fake news: se ti colleghi con un terrapiattista, quello a domanda risponderà che la "terra è piatta". Risibile? Non obietto. Ma neppure si può deriderlo in diretta. Altrimenti è un evidente caso di bullismo. E noi siamo tutti contrari al bullismo no? Facciamo corsi per estirpare il problema nelle scuole e poi lo consentiamo in televisione tra gli adulti con lauree, cattedre e ministeri? Eh no. Così non va. Oggi per esempio, giornata di fuoco per l'opinionismo data l'entrata in vigore nel Green pass per i lavoratori di tutti i settori, ho sentito un ospite del quale non ricordo il nome, che derideva a microfono aperto un camionista che aveva detto di chiamarsi Sirio, e che non si è vaccinato per scelta. Gli diceva ghignando: "Sirio, ma che vivi su una stella?" E poi rincarava con una doppia dose di classismo: "Si vede che sei uno scienziato". Gli altri del "plotone d'esecuzione opinionistico", come siamo ormai abituati a vedere, scuotevano la testa ad intervalli regolari scambiandosi battute ed encomi. Ecco, se non è bullismo questo. Chissà dov'è finito quello spirito voltariano del "Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo". Forse nei vecchi palinsesti. Nelle vecchie trasmissioni. Nell'epoca del tubocatodico e dei telecomandi Mivar dello zapping fantozziano. Tempi più civilizzati.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nomina

Giorgia Meloni, fango di Repubblica: "Gli effetti del sabato fascista", ai limiti della legge. Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Secondo Repubblica il “sabato fascista” della scorsa settimana a Roma starebbe frenando l’ascesa di Giorgia Meloni. Tesi però che viene mezzo smentita da Repubblica stessa, dato che riporta il sondaggio Swg realizzato per il TgLa7 di lunedì, dal quale è emersa ben altra realtà: ovvero che Fratelli d’Italia - nonostante l’inchiesta di FanPage e i più recenti fatti romani - è ancora il primo partito nazionale al 21 per cento, con un punto di vantaggio sulla Lega e sul Pd. “Qualsiasi cosa faccia - avrebbe ironizzato la Meloni con la sua cerchia - qualsiasi cosa io tocchi diventa fascismo. Sono una specie di Re Mida mussoliniano”. Una battuta per sdrammatizzare un momento pesante a livello personale e di partito, con gli attacchi che piovono costanti da tutte le direzioni, in particolare da sinistra. Quando ha visto il sondaggio Swg, la leader di Fdi sarebbe rimasta piacevolmente sorpresa e avrebbe confidato ai suoi che “con la campagna di delegittimazione che ci hanno fatto mi aspettavo un tracollo. Evidentemente la gente non è così stupida come pensa la sinistra”. “Prima Berlusconi, poi Salvini e infine Meloni… curiosamente diventa sempre impresentabile chi è in testa”, sarebbe stato il senso del discorso della leader di Fdi. Ora però arrivano i ballottaggi, e soprattutto quello di Roma è molto importante per la Meloni: per questo ha attaccato in aula la ministra Lamorgese, avvertendo una “strategia della tensione” per condurre alla sconfitta il suo candidato, Enrico Michetti. In ogni caso Giorgia sarebbe convinta di non essere davanti a un bivio: una volta passata la tempesta, e anche in caso di sconfitta a Roma, sarà ancora artefice del suo destino politico.

Alessia Morani, vergogna senza precedenti: "Una molotov alla Cgil e la Meloni..." Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Alessia Morani tocca il fondo. La deputata del Partito democratico con un tweet affianca il nome di Giorgia Meloni a una notizia di cronaca. "Queste immagini arrivano da Jesi. Pare abbiano piazzato una molotov alla sede della Cgil. Aspettiamo di capire cosa è accaduto ma credo che i distinguo di questi giorni e le accuse della Meloni al Viminale siano molto gravi. Il clima è preoccupante e serve responsabilità". Un cinguettio che manda la leader di Fratelli d'Italia su tutte le furie. Ed ecco la replica: "Cosa ne pensa Letta di questo modo indegno di fare propaganda da parte del suo partito?". Semplice: il leader dem non ha ancora proferito parola, mentre la Morani rincara invece la dose: "Ribadisco: le accuse della Meloni nei confronti del Viminale sono gravissime. Mi auguro che prima o poi comprenda la responsabilità che ha nei confronti del Paese".  Insomma, una vera e propria guerra contro la leader di FdI. Giusto qualche giorno fa Beppe Provenzano, altro esponente del Pd, aveva detto che la Meloni è fuori dall'area democratica. Una frase che ha fatto pensare a FdI a un chiaro suggerimento di sciogliere il partito. "Il che - aveva commentato la Meloni - a norma di legge significa che anche noi, primo partito italiano, andremmo sciolti. Magari con il voto a maggioranza di Pd e 5Stelle in parlamento, capito? Il primo partito italiano va sciolto perché lo ha deciso il Pd, questo è il gioco".

Manifestazione dei sindacati a San Giovanni: selfie, Bella ciao e operai in tuta tra Letta e Di Maio. «Su questo palco c’era Berlinguer».  Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Nella piazza blindata, striscioni e bandiere arcobaleno: prove generali di un «Ulivo Bis». Lo sguardo scorre sulla folla. Massiccia, forte ma non nervosa, e però consapevole, ostinata, questo sì. Nel cielo limpido centinaia di palloncini (rossi, verdi e azzurri, come i colori dei tre sindacati) galleggiano allegramente su una scena piena di striscioni e bandiere arcobaleno, pugni chiusi e Bella Ciao, Resistenza, i metalmeccanici sono venuti con la tuta, i disoccupati con i loro cartelli, le mamme con i bambini, i giovani accanto agli anziani che raccontano di quando lassù c’era Enrico Berlinguer, molta tenerezza, molta luce. Piazza San Giovanni: un pomeriggio di antifascismo martellante, vivo, attuale; in dissolvenza, da qualche parte nella mente e nel cuore di tutti, le immagini delle squadracce nere, del canagliume che, sette giorni fa, esattamente a quest’ora, assaltò la sede della Cgil, indifesa. Nel dubbio, nonostante il Viminale stavolta abbia organizzato le cose per bene, agenti e carabinieri in quantità, e i blindati, e gli elicotteri che volano bassi, è tornato a schierarsi anche il leggendario servizio d’ordine della Fiom.

Transenne. Sottopalco. Capire chi c’è. 

Ecco Enrico Letta. Il segretario del Pd arriva a piedi e cerca subito Maurizio Landini. Fotografi e cameraman, eccitati, in semicerchio: tra i due un abbraccio lungo, sinceramente affettuoso; poi si aggiunge Pier Luigi Bersani, dicendo una cosa nell’orecchio di Landini. («Anche negli anni Settanta, in una stagione ben più dura di questa, era il sindacato che toglieva tutti dall’imbarazzo delle bandiere. E infatti, in alcune manifestazioni, c’era sempre una certa destra liberale, costituzionale — riflette Bersani — Mi chiedo allora dove sia quella attuale. Lo sanno o no che questa è una Repubblica fondata sull’antifascismo?»).

Arrivano pizzette calde e pasticcini nel gazebo della Cisl. I compagni della Cgil, più sobri, vanno di pizza con la mortadella. Arrivano anche i sindaci di Palermo e di Firenze, Leoluca Orlando e Dario Nardella. Vigili urbani in alta uniforme con i gonfaloni della Campania, dell’Emilia-Romagna, della Puglia («Michele Emiliano non è potuto venire, ma è qui con il cuore», dice un tipo in ghingheri come un generale napoleonico). Gira voce che laggiù ci sia Massimo D’Alema. Molto intervistata Susanna Camusso. Sergio Cofferati, noto anche come «il Cinese» (che parlò davanti a un milione di lavoratori): «Osservo la risposta democratica che mi aspettavo».

Sugli appunti, dopo mezz’ora, c’è scritto: Pd al completo, visti i ministri Franceschini e Orlando, cercare di parlare con Orlando, Franceschini tanto non ti dirà niente, molto a suo agio — in quest’atmosfera operaista/militante — il vice-segretario Provenzano, Nicola Zingaretti è con l’assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato (ricordare che è merito suo se, da queste parti, ad un certo punto, ci siamo vaccinati tutti con ordine e rapidità), non dimenticarsi di citare Valeria Fedeli, sottolineare la lucidità e la rara sobrietà politica di Walter Verini che, essendo tesoriere del partito, potrebbe anche tirarsela. 

Nessuno degna Carlo Calenda, grande assente, di mezza parola. Calenda s’è sfilato dicendo che in questa piazza unitaria non si fa solo antifascismo, ma politica. Ruvido: però, forse, un po’ ci ha preso. 

Prove di Ulivo bis, di Unione bis? Fate voi. Ci sono pezzi di Italia Viva (Nobili, Migliore, Bellanova: chissà cos’ha in testa Renzi), ci sono il verde Angelo Bonelli e Roberto Speranza, seguito da tutta la complessa truppa sinistrorsa. Da Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, a Stefano Fassina. Nichi Vendola semplifica il dubbio: «Come si traduce, politicamente, la potenza di questa piazza?».

Vendola va via incrociando Roberto Gualtieri, che per diventare sindaco di Roma deve giocarsela al ballottaggio con Enrico Michetti (il quale si conferma un personaggione: ignorando il divieto assoluto di Meloni e Salvini, aveva espresso il desiderio di venire. «Scusate: ma quale occasione migliore per dimostrare che sono davvero antifascista?»; l’hanno incenerito con due sguardi). Gualtieri invece è venuto ma resta muto, rispetta le regole, mette su una smorfia fissa, tra rammarico e ironia. Fotografo: «A Gualtié, te lo dico: pare che te fa male un dente…».

Poi, all’improvviso, sotto la Basilica, compare un corteo di auto blu. Al centro, un grosso suv blindato. Vetri neri. Guardie del corpo. 

Stupore. Curiosità. Chi sarà? 

Una della Uil: «È Draghi!». Cameraman: «Ma no! Draghi ha solo due macchine di scorta. Questo sembra Biden». «Escluso — fa un delegato Cisl — Biden mica è a Roma». 

Lo sportello del suv, dopo lunghi minuti, finalmente si apre. E compare la testa di Luigi Di Maio. 

«E meno male che nun te piaceveno le auto blu!», gli grida una signora con i capelli ricci aggrappata alle transenne. Di Maio la ignora e incede nel mischione dei fotografi, nel groviglio di microfoni e telecamere (intanto, dall’ultima auto, è sceso Alfonso Bonafede, ignorato da tutti). 

Un tipo forzuto dello staff soffia a Di Maio: guarda che c’è pure Conte. I due si osservano da lontano. Gelo? Gelo. Segue foto di gruppo con Paola Taverna (solito meraviglioso fotografo: «Aho’, e mica v’hanno condannato a morte!»). 

Enrico Letta capisce che l’aria s’è fatta appiccicosa, si fa aprire le transenne e va a mischiarsi con la folla (dove trova le due capogruppo di Camera e Senato, Serracchiani e Malpezzi). Grida di evviva, selfie, pacche sulle spalle, accoglienza notevole. 

Intanto Landini sta per cominciare il suo intervento. Tra gli alberi, tirano su uno striscione: «Noi con i fascisti abbiamo finito di parlare il 25 aprile del 1945».

Rinaldo Frignani per corriere.it il 16 ottobre 2021. «C’è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione». Così sabato mattina il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, nel corso del corteo per le strade dell’Esquilino che ha portato i manifestanti dell’iniziativa di solidarietà alla Cgil al sit-in nazionale dei sindacati in piazza San Giovanni a Roma. «Libertà, diritti, pluralismo, libera informazione e lavoro», le richieste della piazza sulla quale sventolano le bandiere dei tre sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil tra palloncini rossi, verdi e blu. Il lungo applauso alla richiesta di «sciogliere le forze neofasciste». «Siamo in piazza per ribadire la forza della democrazia nel nostro Paese, la voglia di cambiare e la forza della Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti li problema se erano in campagna elettorale o meno - aggiunge Landini -. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia. Ringrazio Lamorgese per il lavoro compiuto e le forze di polizia per quello che hanno fatto». Tanti i temi abbracciati da Landini, non ultimo, il caso Regeni: «Vogliamo la verità». «Mai più fascismi» lo slogan scelto per chiedere lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste. L’appuntamento con Cgil, Cisl e Uil a partire dalle 14 in piazza San Giovanni, ma con un prologo: un corteo partito da piazzale dell’Esquilino alle 12.30. Flussi da tutta Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole. La stima finale secondo gli stessi sindacati è di 200 mila persone in piazza, mentre per la Questura i partecipanti sono circa 50 mila. Di sicuro c’è che ci sono tantissimi pensionati, con bandiere e palloncini delle sigle delle tre categorie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp: sotto il palco, le «pantere grigie» sono il gruppo più nutrito. All’indomani dell’obbligo di presentazione del Green Pass sul luogo di lavoro, e alla vigilia del secondo turno delle elezioni amministrative nella Capitale e in altre grandi città,i sindacati richiamano l’attenzione sull’attacco «squadrista» alla sede della Cgil ritenuto una sfida a tutto il sindacato confederale, al mondo del lavoro e alla democrazia: mercoledì 20 ottobre è attesa l’apertura della discussione in Senato sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «Una grande festa democratica senza colore politico» per Giuseppe Conte, presidente del M5s. «Una grande risposta di popolo per sottolineare i valori costituzionali» il commento a distanza di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed esponente del M5s. «In questa piazza c’è la nuova Resistenza — afferma il segretario generale della Uil Bombardieri —. La Resistenza è quella che ha combattuto il fascismo; vogliamo riaffermare i valori della democrazia, della partecipazione e il rifiuto della violenza». Per il segretario della Confederazione europea dei sindacati, Luca Visentini, l’impegno è «per ottenere la sospensione dei brevetti a livello internazionale e per l’aumento della capacità tecnologica e di produzione dei vaccini in Europa e nel mondo». E ancora: «Ai fascisti del nuovo millennio diciamo che non passeranno. Noi li fermeremo». Intento condiviso anche da Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl: «L’Italia riparte con il lavoro», con «le riforme e gli investimenti concertati. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le `bestie´ degli estremismi». E Sbarra affonda la stoccata sui vaccini: «Cosa si aspetta a renderli obbligatori? Grave che il governo e il Parlamento non l’abbiamo ancora fatto per mera convenienza politica. È grave che per non affrontare queste contraddizioni si siano scaricati i conflitti sul mondo del lavoro». Nella folla anche il candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Roberto Gualtieri, rispettoso del silenzio elettorale. Sotto il palco anche il ministro della Salute, Roberto Speranza e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. E Massimo D’Alema: «La violenza fascista non è una forma qualsiasi di violenza, ma è una violenza di impronta totalitaria messa al bando dalla Costituzione e che nasce dal rifiuto del totalitarismo fascista». Il segretario del Pd, Enrico Letta, abbraccia il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Per lui in regalo una maglietta con la scritta «La matrice dell’Europa è antifascista», realizzata dall’associazione EuropaNow. «Studenti antifascisti - lavoro, reddito, istruzione e diritti contro ogni fascismo» la scritta sullo striscione di Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Link. «Da tutta Italia siamo arrivati a Roma per una manifestazione urgente e necessaria: sciogliere le organizzazioni neofasciste e chiuderne le sedi è oggi una priorità» dicono gli studenti. Tra la folla, diverse magliette blu con scritto: «Vaccinato dal 25 aprile 1945». Tante e diverse le bandiere, tra cui quelle dell’Anpi e di Legambiente. «L’antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione», si legge su un cartello di un manifestante firmato «Cgil Bari». Presenti anche le realtà arcobaleno, insieme al movimento Disability Pride. Presidiato il centro storico di Roma durante tutta la manifestazione. Sorvegliati dalle forze dell’ordine, non solo i palazzi istituzionali, ma anche alcuni obiettivi ritenuti sensibili come cantieri edili che si trovano nell’area, palazzi occupati e sedi dei sindacati. Sotto la lente, inoltre, la sede di CasaPound.

“Bella Ciao” e pugni chiusi: a piazza San Giovanni la passerella di sinistra beffa il silenzio elettorale. Eleonora Guerra sabato 16 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Pugni chiusi, Avanti popolo, bandiere rosse e l’immancabile Bella Ciao, che ha chiuso il comizio. Pardon, la manifestazione. A piazza San Giovanni oggi ha fatto sfoggio di sé tutto l’armamentario tipico della sinistra più a sinistra, ma a sentire gli organizzatori in piazza c’era «l’Italia». Si badi bene, però, non un’Italia qualsiasi, ma «l’Italia migliore» come non ha mancato di rivendicare la capogruppo di Leu al Senato, Loredana De Petris. Insomma, tutto come da copione, compreso l’immancabile vizio della sinistra di mettersi su un piedistallo, che in questo caso aveva la forma di un palco. Il palco antifascista. Gli organizzatori hanno parlato prima di 100mila, poi di 200mila partecipanti. La Questura ha nettamente ridimensionato il dato a 60mila. Si tratta comunque di un numero di tutto rispetto, ma abbastanza per sostenere, come ha fatto il leader della Cgil, Maurizio Landini, che «tutta Italia vuole cambiare questo Paese»? Il leader Cgil non si è limitato a dire che «tutta Italia vuole chiudere con la violenza», ma anche che «vogliamo essere protagonisti del cambiamento economico. Tutto il governo assuma questa sfida e apra una fase di cambiamento sociale del Paese». Insomma, va bene l’antifascismo, va bene il ripudio della violenza, va bene la solidarietà, ma perché farsi sfuggire l’occasione di mettere in chiaro che qua si rivendicano anche i temi prettamente legati all’agenda politica? D’altra parte che si trattasse di un’occasione politica imperdibile era evidente fin dalle premesse, ovvero dalla scelta di fissare la manifestazione in pieno silenzio elettorale. Lo svolgimento è stato all’altezza delle aspettative. A piazza San Giovanni hanno fatto passerella tutti i big della sinistra, affiancati dagli aspiranti sindaci, un Roberto Gualtieri molto fotografato in testa. Per il Pd c’erano, tra gli altri, Enrico Letta, Andrea Orlando e Dario Franceschini. Per Articolo 1, Roberto Speranza, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Per la sinistra Nicola Fratoianni e Nichi Vendola. Per Italia Viva Teresa Bellanova. Per il M5S Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. «È una bella festa senza colore politico nel nome della democrazia», ha sostenuto Conte. Sipario e sigla di chiusura, sulle note di Bella ciao.

Fascismo e quota 100. Da anni la Fiom scrive il programma con cui la destra poi vince le elezioni. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 16 Ottobre 2021. La Fiom ha pubblicato una piattaforma politica in cui è vaga su tutto tranne nell’anticipare le pensioni e condannare la globalizzazione. Non stupisce. Lega e Fratelli d’Italia usano le stesse parole gridate dalla sinistra sociale: lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza. Per la manifestazione “Mai più fascismi”, convocata per oggi a Roma da CGIL, CISL e UIL, come risposta all’invasione squadristica della sede del maggiore sindacato italiano, la FIOM ha predisposto una piattaforma (come si dice in sindacalese), che partendo dalla condanna «di ogni forma di fascismo e di violenza» e dalla richiesta «dello scioglimento immediato di tutte le organizzazioni di matrice neo-fascista e neo-nazista», arriva a chiedere di «ridurre l’età pensionabile, introducendo elementi di flessibilità in uscita (41 anni di contribuzione o 62 anni di età anagrafica)», passando per tutto il repertorio di evocazioni (precariato, progressività fiscale, sanità pubblica…), che descrivono l’immaginario ideologico e sentimentale di sindacati da anni in crisi di ruolo e di identità. Però su tutto, fuorché sulle pensioni, si rimane nel vago. Insomma, lo scioglimento di Forza Nuova e la sostituzione di quota 100 con quota 41 sono le sole due precise richieste antifasciste dei metalmeccanici della CGIL. Manca nella piattaforma della FIOM il riferimento testuale al liberismo, che da quelle parti non si ha troppi scrupoli a rubricare come una versione economica evoluta del produttivismo fascista. È comunque decisamente chiaro che nel mirino c’è quell’idea di società che, nelle analisi del mondo sindacale e della CGIL in particolare, è considerata la matrice dei rigurgiti reazionari dell’Occidente, sia nel senso del modello di riferimento (il capitalismo globalizzato come universalizzazione del “sistema Pinochet”), sia nel senso della causa della frustrazione e del disagio sociale, destinato a capitolare nell’illusione fascista. Purtroppo, la discussione sul fascismo in Italia è condannata a confrontarsi con gli obblighi e i divieti, di un antifascismo da guerra fredda anni ‘50 o da autunno caldo anni ‘60. L’idea conformistica del fascismo come regime dei padroni e dei fascisti come mazzieri del Capitale impedisce di vederne la seduzione sempre ricorrente, soprattutto in forme più subdole, pervasive, strutturalmente interclassistiche e potenzialmente maggioritarie della violenza di piazza di infime minoranze, che hanno più parentele con la criminalità organizzata e con le curve ultrà che con il fascismo del Ventennio, inteso come regime, come sistema di consenso e come vera e propria ideologia nazionale. Nessuno (o pochi e quasi tutti silenti) nel mondo sindacale sembra rendersi conto che non tanto nelle organizzazioni dichiaratamente neo-fasciste, come Forza Nuova, ma in quelle della destra ultra-fascista, a partire dai primi due partiti italiani, Lega e FdI, l’aggregazione del consenso è fatta sulle stesse parole d’ordine sterilmente gridate dalla sinistra sociale negli ultimi decenni: guerra alla globalizzazione, lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza, protezionismo e pensionismo, antagonismo nazionalista sulle regole di bilancio e di mercato imposte dai trattati Ue. Possibile che nessuno abbia visto che proprio su quota 100 Salvini ha resuscitato e nazionalizzato il territorialismo leghista e che il «fermiamo il mondo, vogliamo scendere», biascicato dal sindacato italiano confederale (anche qui con pochissime eccezioni), è, questo sì, il canone retorico di quella destra nazionalista, che, in senso proprio, cioè storico e ideologico, è più fascista delle bande di picchiatori sottoproletarizzati e ampiamente manovrabili di Forza Nuova? Tanti auguri, allora, a chi pensa di combattere il fascismo contemporaneo con la legge Scelba e con un nazionalismo economico leftist.

La Cgil dei furbetti: pensioni antifasciste e spot di piazza per il ballottaggio coi leader giallorossi. Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. I sindacati in corteo a Roma: 50 mila persone. Landini: "Grande festa senza colore politico" ma con lui sfila tutto il centrosinistra. E dicono no a Quota 100. Salvini: "Campagna elettorale inseguendo i fascisti che non ci sono". Dall'antifascismo alle pensioni. Tutto nella stessa piazza, alla vigilia del voto dei ballottaggi, sotto lo slogan «Mai più contro i fascismi». Il motivo per cui Carlo Calenda, leader di Azione, aveva deciso di annullare la sua presenza ieri a San Giovanni («Doveva essere una manifestazione in difesa della democrazia, è diventata una questione di lotta politica, fatta tra l'altro il giorno prima delle elezioni durante il silenzio elettorale»), si è plasticamente manifestato sul palco nelle parole del segretario generale Maurizio Landini. «C'è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti il problema se erano in campagna elettorale o meno. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia». Tra i cori antifascisti Landini rilancia i temi della piattaforma sindacale, invoca il superamento di Quota cento, misura bandiera della Lega, e incalza il governo: «Bisogna rinnovare i contratti salariali pubblici e privati, ma anche varare una riforma del fisco, delle pensioni e degli ammortizzatori sociali. La riforma del fisco deve avere un effetto chiaro: la lotta all'evasione fiscale deve aumentare il netto in busta paga e delle pensioni». Con lui in piazza molti esponenti del centrosinistra e del governo, dal segretario del Pd, Enrico Letta, al leader del M5s Giuseppe Conte con il ministro Luigi Di Maio e il ministro dem Andrea Orlando. «È una grande festa democratica senza colore politico», dice il leader dei cinque stelle. Ma dal palco c'è spazio anche per un comizio dei sindacati contro le delocalizzazioni delle imprese, contro i condoni che sono «uno schiaffo» a tutti quelli che pagano le tasse, per poi passare agli incidenti sul lavoro e alla neonata Ita: per i sindacati è «inaccettabile» che non applichi il contratto nazionale. Una lista programmatica indirizzata all'esecutivo Draghi. Eppure Landini rivendica: «Non è una piazza di parte. È una manifestazione che difende la democrazia di tutti». Una risposta indirizzata al leader della Lega Matteo Salvini che accusava la manifestazione di violare il silenzio elettorale alla vigilia dei ballottaggi: «A Roma la sinistra fa campagna elettorale inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più». In piazza a rispondere al richiamo di Cgil, Cisl e Uil dopo l'assalto di sabato scorso alla sede del sindacato da parte di Forza Nuova, hanno risposto 50mila persone secondo la questura, 200mila invece secondo gli organizzatori. Nessuno scontro, né si verificano le temute infiltrazioni di estremisti. Una festa colorata, con canti, striscioni e un cielo di palloncini, lontana dalle premesse dei giorni precedenti, che già vedevano piazza San Giovanni trasformata in campo di battaglia nella Capitale. Questa volta era invece blindata dal dispositivo di sicurezza messo in campo dal Viminale per scongiurare le violenze di sabato scorso. Un corteo partito da piazzale dell'Esquilino alle 12.30, con un esercito di lavoratori, molti addetti del settore scuola giunti da ogni parte d'Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole ha raggiunto piazza San Giovanni alle 14. Tantissimi i pensionati, che sollevavano cartelloni con scritto «l'antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione» e «Zero morti sul lavoro». Non sono mancati anche questa volta i nostalgici con le magliette rosse con la faccia di Che Guevara. E mentre i segretari parlavano dal palco, nella folla tutti a discutere dell'appuntamento di mercoledì prossimo quando si aprirà in Senato la discussione sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «L'Italia riparte solo con il lavoro le riforme e gli investimenti concertati - dice Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che chiede il vaccino obbligatorio per tutti -. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le bestie degli estremismi». Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci

Vittorio Sgarbi contro il corteo Cgil: "Ridicola passerella. C'era anche Di Maio, che passa la vita a schivare il lavoro". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. "Triste che la CGIL si sia prestata a squallida strumentalizzazione alla vigila del ballottaggio di Roma. Ridicola passerella politica che con il lavoro non ha nulla a che fare. C’era anche Luigi Di Maio, uno che ha passato la sua vita a schivarlo, il lavoro". Questo il tweet di Vittorio Sgarbi a proposito della manifestazione indetta dalla Cgil dopo l'assalto alla sede del sindacato da parte di alcuni appartenenti a Forza Nuova. Per Sgarbi è inaccettabile che una manifestazione si svolga alla vigilia del voto politico sul sindaco di Roma, concetto ribadito più volte negli ultimi giorni. Si strumentalizza, secondo il critico d'arte, per dare contro a Fratelli d’Italia in vista del ballottaggio tra Enrico Michetti e Roberto Gualtieri. E non perde, ovviamente e sempre Sgarbi, l'occasione per attaccare uno dei suo0i bersagli preferiti: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presente alla manifestazione indetta dalla Cgil. Vittorio Sgarbi è candidato nella Lista Civica Michetti come assessore alla Cultura e questo sarà il suo ruolo in caso di vittoria del centrodestra al ballottaggio. Ma alla vigilia del voto ha voluto dire il suo punto di vista sulla questione. Una questione per lui politica e ha deciso di attaccare la Cgil. Le polemiche certo non mancheranno.

Corteo Cgil, Matteo Salvini all'attacco: "Mentre in Europa scorre il sangue del terrorismo, inseguono fascisti inesistenti". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. La manifestazione antifascista organizzata dalla Cgil a Roma non ha alcun senso secondo Matteo Salvini, che su Twitter ha commentato: "Mentre in Europa scorre il sangue per mano del terrorismo islamico, unico reale pericolo di questi tempi, a Roma la sinistra fa campagna elettorale (nel giorno del silenzio) inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più". Il riferimento è ai due episodi che sono successi nei giorni scorsi in Europa. Il primo in Norvegia, dove un uomo armato di arco e frecce ha ucciso 5 persone, pare dopo essersi convertito all'Islam. Il secondo episodio invece riguarda l'uccisione di un deputato nel Regno Unito, un omicidio probabilmente legato all’estremismo islamico. La manifestazione di questo pomeriggio a Roma, comunque, è stata organizzata in risposta all'assalto di una settimana fa alla sede della Cgil, nel bel mezzo di una protesta contro il Green pass. Continuando a commentare sui social, il leader della Lega ha citato Leonardo Sciascia: "Il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa imbattere oggi…è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è". Già prima dell'inizio della manifestazione, comunque, il segretario del Carroccio aveva aveva fatto sapere che la Lega non avrebbe presenziato oggi, così come Fratelli d'Italia. Salvini ha motivato la sua assenza spiegando di non voler violare il silenzio elettorale, in vista dei ballottaggi di domani e dopodomani.

La "Reductio ad Hitlerum": l'abitudine ridicola di "fascistizzare" l'interlocutore per ogni cosa. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“Reductio ad Hitlerum”: con questa curiosa ed efficace espressione latina viene definita l’abitudine ridicola di nazificare o fascistizzare qualsiasi interlocutore non allineato alle proprie idee. Ciò che colpisce è come la sinistra, nella sua spirale di declino cognitivo ormai senza ritorno, non riesca a esercitare ormai più alcun controllo su questo piede di porco dialettico che, pure, usato cum grano salis, a volte ha dimostrato la sua efficacia. Uno esprime un parere contrario, magari appena venato di un approccio al reale meno zuccherosamente emotivo, un filo più pragmatico, un poco più orientato verso un equilibrato sistema diritti/doveri, diventa automaticamente un membro del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, ruolo d'onore, camicia bruna, stivali e pugnaletto al fianco. Di converso, a destra, non ci sono cascati. Quando Berlusconi indulgeva un po’ troppo nel definire i piddini come “comunisti”, da sinistra lo spernacchiavano: “Eh, sì, noi comunisti mangiamo i bambini”. E infatti, poi, la battuta è caduta in disuso e nessuno ha seguito il Cavaliere per questa china pericolosa. Invece, dall’altra parte, la fascio-psicosi si dimostra sempre viva, tanto da aver fatto creare numerosi “meme” che circolano sui social. Quello più noto raffigura Sigmund Freud con la scritta: “Riguardo a questi “fascisti”, li vede spesso? Sono nella stanza qui con noi, adesso?”. Ma ancor più surreale è che, con l’abuso della Reductio, i sinistri stanno facendo del Nazifascismo … un’”icona del libero pensiero”. Uno dei tanti paradossi del Mondo alla Rovescia in cui siamo immersi. Non si rendono conto, infatti, che loro stessi, negli ultimi anni, hanno sposato il più cupo e tetragono pensiero unico: ormai schiacciati su un politically correct vittoriano, sono divenuti le Sturmtruppen della Ue, i secondini di un conformismo piccolo-medio borghese asfissiante. Al motto di "FEDEZ HA SEMPRE RAGIONE", qui censurano, là bloccano, lì confinano o mettono fuori legge, riscrivono il linguaggio, questo si dice, questo no: ci manca solo l’olio di ricino.  E poi “nazificano” chiunque osi protestare. Ovvio che, per un banale meccanismo psicologico, avvenga il ribaltamento di cui sopra. E così, il tale si compra il vino con Hitler sull’etichetta e lo porta alle grigliate, con matte risate; un altro, si mette il bustino del Duce in ufficio e l’edicolante smercia a pacchi i calendari col Crapùn. Anche le grandi aziende sfruttano la “boccata d’ossigeno” inconscia che offre – oggi - la premiata ditta nero-bruna. Persino giornaloni come il Corriere ci danno dentro con le collane di libri dedicate ai due dittatori perché, si sa, se metti Hitler o Mussolini in copertina vendi 10 volte di più. Il cinema, non ne parliamo: lo scorso anno, nelle sale, otto film a tema olocaustico per la Settimana della Memoria. Dagli e dagli, nell’inconscio collettivo i ruoli si invertono, ma a sinistra non ci arrivano. Il senso della misura non fa parte del loro Rna, oggi meno che mai. E’ il “Murgia effect”. Ricordate quando la nostra critica letteraria preferita elaborò il test su “Quanto sei fascista”? Ovunque gente che si disperava per aver raggiunto un punteggio troppo basso, dopo aver risposto a quiz tipo: “Credi che l’immigrazione sia un tantino fuori controllo?”. La sensazione è che gli elettori siano completamente immunizzati alla Reductio, un po’ come avviene per i soliti provvedimenti giudiziari a 16 ore dal voto. Gli unici a subirla ancora un poco sono i politici meloniani. Tranquillizzatevi, la soluzione è a portata di mano: risata pronta e una bella lingua del Negus Menelicche. 

Corteo Cgil, Giorgia Meloni all'attacco: "Manifestazione contro i fascismi, ma c'è la bandiera dell'Urss". Libero Quotidiano il 17 ottobre 2021. Per Maurizio Landini era "la piazza di tutti". Per Massimo D'Alema, che l'ha buttata direttamente in polemica politica, gli assenti "hanno perso una bella occasione". Si sta parlando del corteo di ieri, sabato 16 ottobre, a Roma, la manifestazione di solidarietà alla Cgil e "contro ogni fascismo" organizzata dopo gli scontri del weekend precedente e dopo l'assalto alla sede del sindacato. Eppure, quella piazza, "di tutti", non è affatto sembrata. E non solo per chi sfilava, ossia tutti tranne le forze di centrodestra, Forza Italia compresa. Ma anche per "come" si sfilava: la colonna sonora, incessante e invariabile, era Bella Ciao. E ancora una volta, non è tutto. Già, perché una plastica dimostrazione relativa al fatto che quella piazza non fosse di tutti arriva direttamente da Giorgia Meloni, che sui suoi profili social rilancia quanto segue. Una foto di una bandiera dell'Urss, rossa e con falce e martello, che dominava nella piazza. Insomma, il simbolo di uno dei regimi più violenti, totalitari e omicidi che la storia dell'uomo conosca. Alla faccia della manifestazione "apartitica" e della piazza di tutti. A corredo della foto rilanciata su Instagram, la Meloni ha scritto: "Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell'Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità. Alè". Niente da aggiungere.

Giorgia, lezione di antifascismo sulla Shoah. Fabrizio De Feo il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi: "L'antisemitismo è un abominio". Ma evita la passerella. È una presa di posizione forte, non equivocabile e non manipolabile, quella che Giorgia Meloni prende in occasione della ricorrenza del rastrellamento nel Ghetto Ebraico di Roma. Un messaggio inviato per ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, la distanza di Fratelli d'Italia dall'antisemitismo e l'amicizia verso la Comunità ebraica. «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici» scrive la leader di FdI in un messaggio. Giorgia Meloni avrebbe voluto fare anche di più. Qualche giorno fa, infatti, durante la conferenza stampa al Jerusalem prayer Breakfast a Roma prima si era detta «contenta di partecipare» a questo evento «come romana e cattolica, qui risiede la più antica comunità ebraica dell'occidente». E ricordando la «terribile deportazione dei 1259 ebrei del ghetto a opera della follia nazi-fascista», aveva annunciato che sarebbe stata presente alla deposizione della corona di fiori in ricordo delle vittime del rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 del Ghetto di Roma, «rappresentando la vicinanza e l'amicizia di Fratelli d'Italia e dei Conservatori europei di ECR alla comunità ebraica romana e italiana in questa terribile ricorrenza di dolore per l'intera comunità nazionale». Insieme a Giorgia Meloni avrebbero dovuto partecipare il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, il capogruppo a Montecitorio Francesco Lollobrigida e Giovanbattista Fazzolari. Una telefonata tra Giorgia Meloni e Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica Romana ha poi fatto scattare un rinvio. «La visita è stata rinviata per questioni di opportunità nell'imminenza del voto, non ci sono altri temi, sarà riprogrammata», la spiegazione di Dureghello. A determinare il rinvio una doppia vigilia: quella del ballottaggio a Roma, ma anche il rinnovo del Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche in programma oggi, con liste e candidati in lizza per i 20 seggi di spettanza della Comunità di Roma. Di fronte allo stop la leader di Fratelli d'Italia aveva commentato: «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici. Il virus dell'antisemitismo non è stato ancora debellato e ribadiamo il nostro impegno per combatterlo senza reticenze e in ogni forma, vecchia e nuova, nella quale si manifesta». I rapporti di FdI con la Comunità Ebraica romana in realtà sono ottimi, così come sono ottimi quelli con l'ambasciata di Israele, alla luce delle posizioni fortemente filo-israeliane del partito. La vicinanza di Giorgia Meloni, d'altra parte, è di antica data. Parecchi anni fa, in veste di ministro della Gioventù visitò il Museo Yad Vashem a Gerusalemme e scrisse: «C'è sempre un'alternativa all'odio, alla sopraffazione, alla violenza e alla guerra. Nostro dovere, ovunque e per sempre, è costruire». Fabrizio De Feo

"Antisemitismo? L'ho subìto da sinistra". Alberto Giannoni il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il portavoce della sinagoga di Milano: "Inutile sciogliere le sigle come Fn". Milano. Davide Romano, lei è portavoce della sinagoga Beth Shlomo ed è stato assessore alla Cultura della Comunità di Milano, cosa pensa di questo «allarme fascismo» che torna a essere agitato dopo l'assalto di estrema destra alla Cgil di Roma?

«Penso che in questo momento la situazione sociale sia problematica. Che sfoci in violenza è grave, la violenza va fermata in modo rapido ed efficiente, che sia di destra o di sinistra è meno rilevante.

Il suo mondo è molto attento a questa minaccia. Sta dicendo che non è rilevante ciò che sono quei gruppi ma ciò che fanno.

«Dico che non mi interessa la battaglia simbolica. Mi interessa che le persone violente vengano fermate, isolate, eventualmente punite per quel che fanno. Poi certo, io provo odio per fascisti e nazisti, per quel che hanno fatto ai miei nonni e bisnonni, ma se penso a mente fredda dico: facciamo ciò che è utile, non per istinto o partito preso. Se li chiudo cosa succede?».

Cosa succede secondo lei?

«Magari andiamo a letto tranquilli se sciolgono una sigla, ma se cambia nome o i militanti si aggregano ad altre siamo punto e a capo. Forse la priorità è un canale preferenziale e veloce per perseguire i fatti di violenza politica».

Meglio far emergere le realtà estremiste?

«Le forze dell'ordine, dicono che è meglio sapere chi si ha di fonte. Se finiscono in clandestinità non sai dove sono, dov'è la sede. Anni fa non c'erano social, oggi esistono canali irraggiungibili. Mi interessano risultati concreti e non si ottengono facendo scomparire le sigle».

La rassicura di più una realtà polverizzata?

«Sono ben contento che l'estrema destra sia divisa in mille gruppi. Invece potrebbe esserci un'eterogenesi dei fini, magari i militanti di Forza Nuova vanno su altre formazioni rafforzandole. Parafrasando Andreotti, meglio avere venti gruppi dello 0,1% che uno del 2».

Parlarne tanto è utile?

«La sinistra è forte su questo tema e insiste pensando che sia sentito da tutti in Italia. Non so, è stato molto usato».

Una destra integrata nelle istituzioni è un bene? Fdi?

«A Fini, all'epoca della svolta l'intero ebraismo strinse la mano. Ma non voglio parlare di politica. Posso dire che il Pdl di Berlusconi era una cosa, Fdi un'altra. Dentro Fdi ci sono personalità democratiche e amiche di Israele e delle comunità, ma anche frange più inquietanti. Meloni dovrebbe accelerare le pulizie, è interesse suo e del Paese. Di Salvini, tutto si può dire tranne che non sia amico di Israele».

Comunque, l'antisemitismo non è solo di destra.

«Se devo essere sincero, io nella mia vita sono stato aggredito sempre dai centri sociali, gente di sinistra o estrema sinistra. Parlo di Milano. Alla fine degli anni Ottanta da qualche fascista, poi tutti gli attacchi, al Gay pride con la bandiera israeliana o al 25 aprile con la Brigata ebraica, sono arrivati da sinistra».

Un sondaggio, due anni fa, ha rilevato che l'antisemitismo alberga più nell'elettorato di sinistra e «grillino».

«Non mi sorprende. Nelle istituzioni no, ma sui social, dietro certi svarioni su Israele tipici di una certa sinistra ci sono stereotipi sulla Shoah. Mi dispiace ma è così». Alberto Giannoni

Giovanni Orsina smaschera la sinistra: "No green pass? Ma quale fascismo, il vero obiettivo è il Quirinale". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Devastare la sede della Cgil a Roma è stato un atto di teppismo che va punito con la massima durezza": Giovanni Orsina, professore e storico della Luiss-Guido Carli, ha commentato così la protesta di sabato scorso nella Capitale. Secondo lui, è sbagliato mettere sullo stesso piano la manifestazione di una settimana fa e il fascismo del secolo scorso: "I livelli di violenza attuali non sono in alcun modo comparabili con quelli del primo dopoguerra". Orsina, intervistato da Italia Oggi, ha poi definito "ridicolo" qualsiasi paragone di questo tipo. "Enfatizzare il pericolo fascista è una strategia storica della sinistra italiana, utilizzata dal Partito comunista per rilegittimarsi ed egemonizzare lo schieramento progressista e poi, dopo il 1989, necessaria a ricompattare un centro sinistra diviso e rissoso": questa l'analisi fatta dallo storico. Secondo lui, comunque, tutto questo avrà effetti modesti sul ballottaggio dei prossimi giorni. Gli effetti potranno vedersi più avanti, quando arriverà il momento di eleggere il futuro capo dello Stato dopo Sergio Mattarella: "Dietro c'è una partita più grossa. Mettere in mora Salvini e Meloni sulla base dell'antifascismo è un modo per indebolirli, magari isolarli, nella partita del Quirinale". Sull'imposizione del Green pass da parte del governo in molti settori della vita quotidiana, quello del lavoro in primis, Orsina ha detto di comprendere la misura ma solo fino a un certo punto: "Continuo a chiedermi se, visti i livelli di vaccinazione spontanea raggiunti in Italia, fosse davvero necessario rendere il pass obbligatorio. Ossia sottoporre a un'ulteriore fonte di irritazione uno spirito pubblico piuttosto precario".

Gli insulti alla Segre? Sputati dal No Vax di sinistra. Francesco Curridori il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gian Marco Capitani, esponente del movimento novax "Primum non nocere", ha attaccato duramente la senatrice Liliana Segre. Un feroce antisemita, dire? E, invece, no... È un anti-fa. “La Segre dovrebbe sparire”. La senatrice a vita, superstite della Shoah, è stata vittima degli insulti che un novax gli ha rivolto dal palco di una manifestazione contro il green-pass. Immediatamente è arrivata la condanna unanime dal mondo della politica per le offese che il novax Gian Marco Capitani, le ha rivolto. L'esponente del movimento "Primum non nocere" ha definito Liliana Segre "una donna che ricopre un seggio che non dovrebbe avere perché porta vergogna alla sua storia, che dovrebbe sparire da dove è", salvo poi pentirsi e fare mea culpa. Ma chi è Capitani? La sinistra si è lanciata nelle solite accuse di fascismo, ma il novax in questione è un 'kompagno' a tutti gli effetti. Il movimento “Primum non nocere”, infatti, sui social si descrive come un gruppo “formato esclusivamente per segnalare gli effetti collaterali dei farmaci e delle terapie comunemente usati, all'interno del quadro scientifico” eppure, come fa notare il quotidiano Libero, è un gruppo dichiaratamente antifascista e di sinistra. Tra gli slogan"El pueblo unido jamás será vencido", mentre Capitani, lo scorso 25 aprile si trovava in piazza ad arringare la folla contro il governatore Stefano Bonaccini con argomentazioni dichiaratamente novax. Capitani, infatti, è un analista programmatore che proviene dalla “rossa Bologna” dove si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni all'Alma Mater. Ieri, in una lettera aperta, affidata all'Ansa, si è scusato con la Segre precisando: "Non sono un razzista non ho mai negato la Shoah e di certo non sono antisemita”. E ha aggiunto: “Ho provato ad interloquire con Lei nella certezza di poter trovare ascolto e mi son ritrovato giudicato per una singola parola. Nell'ultimo anno e mezzo non si contano le frasi violente e le istigazioni alla violenza espresse nei confronti di chi ha una diversa opinione sulla campagna di vaccinazione di massa in corso. A reti unificate, 24 ore su 24, si è scatenata un'autentica campagna d'odio che, temo, abbia fatto molto male al Paese" . Capitani si dice dispiaciuto di non essersi espresso “in modo più appropriato", ma ha ribadito che “la sua opinione è semplicemente legata al ruolo di presidenza della commissione per il contrasto dell'intolleranza da Lei ricoperto. In quel ruolo ritengo che Lei abbia il dovere di esprimersi contro ogni violenza, anche se è rivolta a chi non la pensa come Lei". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

L'altra faccia della protesta: sindacalisti e centri sociali, ecco i No Pass di sinistra in concorrenza coi fascisti. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 18 ottobre 2021. La discussione attorno al lasciapassare verde accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione. Per dirla con le parole di Luciano Muhlbauer, una vita nei movimenti a partire dalla Pantera, questa storia del Green Pass "produce spaccature trasversali e una polarizzazione inutile, anche nel nostro mondo". Cioè a sinistra, in quella più radicale: dai sindacati di base fino ai centri sociali. La discussione attorno al lasciapassare accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione.

Volevano assaltare la Cgil a Milano: 40 anarchici denunciati. Letta ammetterà la matrice comunista? Lucio Meo domenica 17 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Green pass e violenza, gli anarchici sono in prima fila e nessuno lo dice. A Milano volevano assaltare la Cgil E’ di due persone arrestate e otto denunciate per interruzione di servizio pubblico, violenza privata, istigazione a disobbedire alle leggi e per manifestazione non preavvisata il bilancio dell’attività della polizia di Milano, che ieri ha bloccato in più occasioni il corteo dei 10mila no Green pass iniziato alle 17.30 e finito dopo più di cinque ore in piazzale Loreto. Si tratta di anarchici, provenienti dai centri sociali. La matrice “comunista” e di sinistra è evidente, senza alcuna responsabilità del Pd, ovviamente. Ma se è stati chiesto a Fratelli d’Italia e alla Meloni di condannare, con un esplicito riferimento alla violenza fascista, gli assalti alla Cgil dell’altro sabato, Enrico Letta e gli altri leader del centrosinistra faranno altrettanto con le violenze di Milano. La manifestazione, senza preavviso, ha attraversato il centro della città tentando, senza riuscirci, di avvicinarsi alla stazione, alla Regione Lombardia, alla sede del Corriere della Sera e alla Cgil. Degli oltre 100 manifestanti identificati, la polizia sta valutando la posizione di circa 40 persone aderenti all’area anarchica milanese e varesina per il deferimento all’autorità giudiziaria. Dell’inchiesta su quanto accaduto durante il corteo No Green pass si occupa il capo del Pool antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili, il quale ha elogiato le Forze dell’ordine per la loro capacità, come accade da settimane, di “gestire il disordine”, ovvero di riuscire a contenere cortei variegati e senza una guida precisa.  Il pm milanese ha più volte sottolineato come in questi cortei vi sia il rischio di infiltrazioni di estremisti di destra e anarchici e ieri, in alcune circostanze, sono stati questi ultimi a cercare di prenderne la testa, inutilmente. “Con decisione, ma allo stesso tempo senza arrivare a scontri aperti, le Forze dell’ordine sono riuscite a tenere sotto controllo migliaia di persone”, ha spiegato il magistrato.

I partiti litigano sulla piazza della Cgil. Ancora tensione nel giorno del voto. Il centrodestra sulla manifestazione: violato il silenzio elettorale. Il centrosinistra replica: occasione per tutti, sbagliato disertarla. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2021. La certezza è che, comunque vada il voto, se ne tornerà a parlare. Perché la manifestazione dei sindacati di San Giovanni ha spaccato il mondo politico: da una parte il centrosinistra, che ha trovato doveroso partecipare e incalza gli avversari: «Nessuno doveva sottrarsi — spiega la capogruppo alla Camera del Pd, Debora Serracchiani — era un momento di unità»; dall’altra l’intero centrodestra che ha disertato un appuntamento «strumentale» e «in violazione del silenzio elettorale». Facile immaginare che da oggi il centrodestra, soprattutto per Roma, chiamerà in causa la manifestazione come fattore distorsivo, sia in caso di sconfitta sia di vittoria. Ha già attaccato ieri Giorgia Meloni: «Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell’Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell’umanità. Ale’», il commento su Facebook a una foto di San Giovanni. E poi, al seggio, ha aggiunto che «votare è importantissimo», i politici «sono lo specchio della società che rappresentano: ce n’è di buoni e di cattivi, bisogna saper scegliere» ma sulla manifestazione è stata definitiva: «Mica sono come il Pd che viola il silenzio elettorale». «C’è un regime totalitario (ancora al potere in certi Paesi) che ha lasciato dietro sé morte e povertà. È lo stesso che tra pugni chiusi e bandiere rosse veniva omaggiato in piazza ieri. Per chi non volesse rinunciare alla memoria, si chiama comunismo?», ha aggiunto per FdI Daniela Santanché.Se il candidato Enrico Michetti ha scelto un polemico no comment («Noi rispettiamo la legge sempre»), e Salvini ieri non è intervenuto dopo aver censurato duramente il giorno prima la manifestazione, è Licia Ronzulli a dar voce all’irritazione di Forza Italia: «Abbiamo scelto di non andare in piazza a Roma con chi nel corso di una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si vuole arrogare il diritto di dividere l’Italia tra buoni e cattivi, tolleranti e intolleranti, fingendo che gli estremismi siano solo di una parte». E dunque a una «inopportuna passerella abbiamo preferito essere sui territori, tra i nostri elettori e tra i cittadini». «Purtroppo —chiosa Fabrizio Cicchitto — la manifestazione dei sindacati si è tradotta in una sostanziale rottura del giorno del silenzio elettorale e in una manifestazione politica a favore del centrosinistra». Accuse respinte da sinistra. Enrico Letta, su Twitter, pubblica una sua foto al seggio e si limita a un «Buon voto a tutti. Viva la democrazia». Ma è la capogruppo Pd Serracchiani a replicare: «È stata la piazza dei lavoratori, della democrazia, dei valori costituzionali. Una piazza di tutti gli italiani, così come chiesto e voluto dai sindacati, per dare una risposta popolare e democratica all’assalto fascista alla Cgil. Una risposta di unità a cui nessuno avrebbe dovuto sottrarsi», è la contro accusa. Condivisa da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana: «C’era un popolo pieno di dignità. Antifascista. Perché antifascista è il cuore dell’Italia».

Alla faccia della par condicio: la Cgil ha stracciato le regole. Analisti concordi: "Manifestazione per influenzare il voto". Cardini: "In piazza c'era un'oligarchia". Domenico Di Sanzo su Il Giornale il 18/10/2021. La materia è scivolosa. E se molti costituzionalisti sono convinti che la manifestazione di sabato organizzata dai sindacati non abbia violato - almeno formalmente - la legge sul silenzio elettorale, la politica e l'opinione pubblica sono divise sull'opportunità di convocare un grande evento in cui non sono mancate le coloriture identitarie nel giorno precedente l'apertura dei seggi per i ballottaggi in alcune delle principali città italiane. Compresa Roma, la sfida regina di questo turno. Teatro, a Piazza San Giovanni della sfilata della triplice sindacale e del centrosinistra al gran completo. Dal segretario del Pd Enrico Letta al presidente del M5s Giuseppe Conte. La chiamata a raccolta nel segno dell'antifascismo ha finito per provocare divisioni. Con il centrodestra che ha parlato di «manifestazione di parte» e ha stigmatizzato la violazione del silenzio elettorale e delle leggi sulla par condicio, particolarmente severe prima delle elezioni. Basti pensare alle polemiche, al primo turno, sulla mancata messa in onda da parte della Rai del film Hammamet su Bettino Craxi, ufficialmente per un cambiamento del palinsesto, secondo il figlio del leader socialista Bobo, invece lo sbianchettamento sarebbe stato dovuto alla sua candidatura al consiglio comunale di Roma a sostegno di Gualtieri. Surreale la discussione sulla trasmissione di Rai1 È sempre mezzogiorno condotta da Antonella Clerici. Nella puntata del cooking show del 4 ottobre è stato fatto ascoltare uno spezzone di una canzone di Pippo Franco e si sono registrati risentimenti perché il comico era candidato a Roma con il centrodestra. Per Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di You Trend, tutto parte dagli eventi violenti di sabato 9 ottobre, con l'assalto alla Cgil della frangia violenta dei No Pass guidata dai neofascisti di Forza Nuova. «Secondo me - dice al Giornale - sono gli eventi di due sabati fa ad aver avuto come conseguenza potenziale un compattamento del centrosinistra in vista dei ballottaggi, con effetti che potrebbero essere più favorevoli al centrosinistra che al centrodestra». E sulla manifestazione di sabato sottolinea: «In piazza c'erano molti politici di centrosinistra e nel manifesto della Cgil erano presenti temi dell'agenda politica del sindacato come ad esempio l'età pensionabile», riflette. Alessandro Campi, politologo e direttore dell'Istituto di Politica, va oltre e ci spiega che «un sindacato come la Cgil invece di ergersi a paladino dell'antifascismo e custode della democrazia dovrebbe interrogarsi sullo sfilacciamento del suo rapporto con i lavoratori». Molti settori del lavoro «non si sentono rappresentati dai sindacati e con le trasformazioni in atto rischiano di diventare disoccupati anche gli stessi sindacalisti oltre ai lavoratori che dovrebbero rappresentare». Franco Cardini, storico e medievalista, non ha dubbi. Con il Giornale parla di «una manifestazione di potere da parte di un'oligarchia». «È ovvio che la manifestazione della Cgil a poche ore dall'apertura delle urne serva anche a raccogliere dei voti per il ballottaggio - continua lo studioso - soprattutto in questi tempi in cui il colpo d'occhio di una piazza piena può influenzare le elezioni, sta di fatto che sabato lì c'era più che altro il paese legale, completamente scollato dal paese reale».

Fotografie dal passato: i soliti comunisti in piazza. Andrea Indini il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Alla manifestazione della Cgil i soliti gesti nostalgici: da Bella ciao al pugno chiuso. E i volti in piazza ricordano una sinistra ancorata al passato comunista. Come se il tempo non fosse mai trascorso. Di colpo ieri pomeriggio, mentre Maurizio Landini arringava i 60mila in piazza, è stato come essere catapultati nel passato. Eccola lì la sinistra, radunata sotto il vessillo dell'intramontabile brand dell'antifascismo. Eccola lì, in piazza San Giovanni ("La stessa di Enrico Berlinguer...", fanno presente in molti), a infrangere il silenzio elettorale (loro possono) e tirare la volata a Roberto Gualtieri nella corsa al Campidoglio. I volti sono sempre gli stessi, forse un po' più stanchi, ma comunque i medesimi che calcavano quella stessa piazza e quegli stessi slogan decenni fa. Le foto sbiadite di ieri ci riportano, tutto d'un botto, indietro nel tempo: esattamente come durante i corti del primo maggio e del 25 aprile, rivive uno stanco rito nostalgico che non troverebbe più spazio nell'Italia di oggi se non servisse a dare ossigeno a una parte politica fiaccata dal Partito democratico di Enrico Letta e compagni. L'impatto è una marea rossa. Rosso Cgil, rosso comunista. Ma qua e là, a guardar bene, oltre alle bandiere del sindacato, spuntano anche i drappi russi, non della Russia di Vladimir Putin ma della sanguinaria Unione sovietica, quella dei gulag e delle purghe. Sfondo rosso con la falce e il martello incasellati nell'angolo in alto a destra. Nessuno tra i "democratici" presenti in piazza sembra notare la macabra ironia. Giorgia Meloni sì. "Nella manifestazione contro tutti i fascismi - annota - sventolava la bandiera di uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità". Forse Landini non l'ha vista, esattamente come non ha visto tutto quello che di stonato c'è stato alla manifestazione indetta dopo l'assalto dei no pass alla sede della Cgil a Roma. "Questa piazza rappresenta tutta l'Italia che vuole cambiare questo Paese e chiudere la storia con la violenza politica", tuona il segretario del sindacato che, in quanto a slogan, sembra rimasto ai tempi in cui incitava allo sciopero le tute blu della Fiom. Quello che Landini sembra non vedere è il vero volto della piazza. Ieri, al suo fianco, non c'era certo "l'Italia che vuole cambiare", ma chi è drammaticamente rimasto ancorato a un passato che non ha saputo evolversi. La rappresentazione plastica di questa nostalgia sta nei gesti e nei volti che spuntano tra i palloncini colorati della Triplice e le bandiere dell'Anpi. A guardarli, mentre si stringono in onore dei fotografi, tornano in mente i tempi dell'Ulivo di Romano Prodi. Ci sono un po' tutti. Immortalato mentre abbraccia Susanna Camusso, troviamo Pier Luigi Bersani. E poi, poco più in là, c'è Massimo D'Alema. I due, il premier mancato e l'ex premier, entrambi rottamati dall'ondata renziana che travolse il Pd, tornano a sentirsi a casa e a spendere buone parole per Gualtieri. "L'Italia siamo noi", recita un cartellone sbandierato con forza da un manifestante. "Bisogna bandire la violenza da qualsiasi iniziativa politica", fa eco un altro ex Cgil, il "Cinese" Sergio Cofferati. Accanto ai big del presente (vedi Letta, Zingaretti e Franceschini) e del passato, sfilano a proprio agio gli outsider che hanno risposto alla chiamata alle armi di Landini. C'è la truppa pentastellata: Giuseppe Conte, teorico del fallimentare matrimonio tra Pd e Movimento 5 Stelle, i ministri Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede e la vice presidente del Senato Paola Taverna. "È una grande festa democratica senza colore politico", dice l'avvocato del popolo che in questi giorni, proprio a causa delle nozze coi dem, deve tenere a bada i mal di pancia della base grillina. Le dichiarazioni, tutte di maniera, sembrano fatte con lo stampino. "Oggi non c'è alcuna bandiera, è pretestuoso definirla una piazza elettorale", si accoda pure la sardina Mattia Santori che una decina di giorni fa, in piena campagna elettorale per il Comune di Bologna, aveva sugellato il patto con la sinistra dei salotti andando a pranzo a casa Prodi. Ieri pomeriggio la manifestazione si è conclusa sulle note di Bella ciao. Qua e là molti pugni chiusi puntati verso il cielo terso di Roma. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Tutto come sempre. La solita sinistra ancorata al passato e ai suoi fantasmi. 

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leaders 

"È pericolosa la nostalgia degli anni Settanta. Ora stiamo tutti all'erta se no ci scappa il morto". Luigi Mascheroni il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta, uno dei momenti più tragici della storia recente del Paese. C'è chi magari ne ha nostalgia, altri giustamente paura. Come Pierluigi Battista, scrittore, giornalista e attento osservatore della realtà politica, che nel suo nuovo romanzo «La casa di Roma» (La nave di Teseo) - presentato qui al Salone del Libro di Torino con un grande successo di pubblico è come se ci mettesse in guardia su alcune insidiose analogie. Nel romanzo - storia di una famiglia romana che lungo tre generazioni attraversa il Novecento, dal fascismo a oggi - un intero capitolo è dedicato a due cugini, schierati politicamente su fronti contrapposti, i quali precipitano dentro l'uragano ideologico di disordini e scontri di piazza che esploderà nell'omicidio di Mikis Mantakas, lo studente e militante del Fronte universitario d'azione nazionale, il Fuan, abbattuto da due proiettili davanti alla sezione del Msi di via Ottaviano a Roma era il 28 febbraio 1975 - nel corso degli scontri di strada nei giorni del processo agli imputati accusati del rogo di Primavalle.

Pierluigi Battista: «La casa di Roma» racconta di quello che potrebbe succedere ancora.

«Speriamo di no. Ma sento in giro una insidiosa nostalgia di quei terribili anni 70, una stagione infernale di antifascismo militante, di attacchi a sedi di partiti, di demonizzazione dell'avversario politico che diventa il nemico da annientare, o da escludere dal dibattito pubblico. Dimenticandosi che quegli anni, che qualcuno oggi rimpiange, furono il decennio che ha battuto ogni record degli omicidi politici, e non solo sul piano delle stragi e del terrorismo, nero o rosso che fosse, ma sul piano della vita quotidiana: aggressioni, spranghe, agguati, macchine incendiate, cariche della polizia, morti in strada. Un perenne scontro tra fascismo e antifascismo di bassa intensità ma sanguinoso. Attenzione a evocare spettri... Stiamo parlando di un momento tragico della nostra storia, scherzare è pericoloso».

Può scapparci il morto.

«Certo. Io non voglio fare facili similitudini. Dico solo: stiamo attenti. Negli anni 70 mettere fuori legge piccoli movimenti politici come Avanguardia nazionale o Ordine Nuovo non fu per niente utile. Non ricadiamo nello stesso errore. Prendere un'idea malata e cacciarla dentro il recinto infetto dell'illegalità sarà foriero di ulteriori violenze. Se Giuliano Castellino e Roberto Fiore commettono un crimine, come l'assalto alla sede della Cgil, devono essere arrestati e rispondere di quell'atto. Ma sciogliere il loro movimento porterebbe pericolosamente indietro l'orologio della Storia. E metto in chiaro le cose: io non ho alcuna simpatia per Forza Nuova, anzi mi hanno portato a processo per averli definiti cialtroni. Ma un conto è perseguire un reato, un altro voler cancellare una forza politica, piccola o grande che sia».

L'impressione è che si voglia demonizzare Forza Nuova per colpire meglio Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni, che hanno grandi consensi, collegando strumentalmente le due cose.

«E riecco gli anni Settanta. Lo ripeto: attenzione, attenzione, attenzione. In quella stagione gli estremisti di sinistra gridavano: Msi fuorilegge, a morte la Dc che lo protegge. Volevano mettere fuori gioco l'Msi imbrattando di fascismo anche la Democrazia cristiana, che era il loro vero avversario. Anzi: il nemico, cioè il Male assoluto. Tutto ritorna».

È ritornata anche un'espressione che volevamo dimenticare: «strategia della tensione».

«Sì, ma usata malamente, come se dietro gli scontri di piazza e le proteste ci fosse una regia occulta, un qualcuno che ha deciso nell'ombra come manovrare a suo piacimento il Paese. Quell'espressione è la radice di tutti i complottismi, è l'idea paranoica degli anni 70 che ci fosse un filo segreto che collega tutto e tutti, da piazza Fontana alle Br, in un unico disegno eversivo pensato da oscuri burattinai. Un'idea completamente sbagliata allora come è sbagliata oggi. E allora come oggi non c'era e non c'è una strategia, ma una forte tensione sì: una paura e un'inquietudine diffuse. Io non sono preoccupato di una possibile regia, che non c'è, ma del clima di violenza che si diffonde, e del ritorno di quel fantasma creato negli anni 70 che si chiama neofascismo: è da allora che il nemico da azzerare lo si chiama fascista. Così non si fa altro che radicalizzare lo scontro. Ma poi: proprio quella sinistra che vuole essere inclusiva con tutti chiede di cancellare qualcuno? L'avversario non va cacciato in un ghetto, ma costituzionalizzato».

Quello della costituzionalizzazione degli estremismi è un discorso vecchio, e irrisolto

«Infatti. E comunque, sia chiaro: ciò vale per la sinistra come per la destra. È altrettanto sbagliato voler chiudere i centri sociali, come a volte chiedono Salvini e Meloni. Compito della politica è ricomprendere le ali estreme, non di buttarle in galera. Non si deve chiudere niente! Che democrazia è quella che accetta di vedere sparire i centri sociali o anarchici o neofascisti? E poi è irresponsabile: il rischio è che esploda una guerra civile».

Qualcuno dice che è irresponsabile anche come si è gestita la protesta contro il green pass. Chi c'è dentro o dietro questo movimento?

«Dietro direi nessuno. Dentro c'è un po' tutto: per me è un calderone in cui ribollono - pericolosamente tante cose: neofascisti, anarco-insurrezionalisti, estremismi di destra come di sinistra. Solo che la sinistra, con il solito doppiopesismo che la contraddistingue, tende a ingigantire i primi e dimenticare i secondi. Preferisce l'unidirezionalità: più semplice e più utile. E poi dentro il movimento che dice no al green pass ci sono anche rabbie e paure che vanno a toccare nodi delicatissimi del diritto al lavoro. Attenzione: quando si dice che un'azienda che ha meno di 15 lavoratori può sostituire chi non ha il green pass, si sta dicendo che può licenziare. Io sono graniticamente a favore del green pass, ma non sottovaluto la forte fiammata di tensione sociale cui stiamo assistendo e in cui convergono risentimenti, rancori, crisi economica, posti di lavoro perduti, dolore e lo sciacallaggio dei politici che in tutto questo ci nuotano come pesci...».

Quale sarà l'effetto di tutte queste giornate di manifestazioni e scontri?

«Non lo so. Ma mi ha molto colpito una cosa nelle rivolte delle scorse settimane: che accanto ai gruppi diciamo militarizzati che cercavano lo scontro con la polizia ci fossero anche persone non inquadrate in precisi movimenti politici, ma che non indietreggiavano quando i poliziotti caricavano, e dicevano: Uccideteci tutti!. Ho paura di quello che cova sotto la cenere. E dico di stare all'erta».

In quel capitolo del suo romanzo La casa di Roma racconta proprio questo: come si iniziò con i cortei, poi si arrivò agli scontri, poi le spranghe, poi alle molotov e le pistolettate

«Infatti. E in tutto questo il terrorismo non c'entra. Qui non stiamo parlando di Br ma del movimento del 77, cioè di qualcosa che alimentò una violenza endemica diffusa che mise in ginocchio il Paese. E rischiare tutto questo - lo dico alla Sinistra - per uno strumentale gioco politico e mettere in difficoltà un partito, sto parlando di Fratelli d'Italia, che comunque ha un importante consenso popolare, è una cosa da pazzi. E pericolosa».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

L'antifascismo corrotto dalla sinistra. Fiamma Nirenstein il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'antifascismo è una battaglia sacrosanta, le leggi che ci conservano la democrazia contro i cosiddetti «rigurgiti» (che strana espressione) sono la cassaforte che ne proteggono l'universalità. L'antifascismo, però, deve appunto essere propagato e protetto in nome della democrazia, tutta. Invece non funziona così quando l'antifascismo diventa «militante». In quest'ottica, il nemico è stato storicamente di destra. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la sinistra ha avuto buon gioco a lavare i suoi crimini e i suoi errori tingendo solo di «nero» le acque della violazione dei diritti umani. La battaglia antifascista e l'esaltazione dell'epopea partigiana si sono sviluppate lasciando che al sogno della libertà si sovrapponesse quello di una società socialista o comunista. L'antifascismo ha così perso la sua universalità, ed è stato un peccato. Una parte della Resistenza, quella cattolica di Dossetti, Gorrieri, Tina Anselmi e dei preti fuggiti in montagna, è stata cancellata dalla figura del partigiano rosso. Inoltre, per la narrazione antifascista la vittoria russa sui tedeschi è stata mitizzata nonostante il comunismo mostrasse sin dal principio molte somiglianze con il totalitarismo di destra: ipernazionalismo, militarismo, glorificazione e uso della violenza, feticizzazione della giovinezza, della mascolinità, del culto del leader, della massa obbediente, gerarchica e militarizzata, e anche razzismo e odio antisemita. Il doppio standard è da sempre una caratteristica dell'antifascismo militante. La Brigata Ebraica, che in un miracolo di eroismo, in piena Shoah, portò dei giovani «palestinesi» ebrei a combattere sul nostro suolo contro i nazifascisti, è stata sconfessata e vilipesa nelle manifestazioni Anpi perché Israele non è gradita a sinistra. Non erano antifascisti? E non era invece nazi-fascista il muftì Haj Amin Al Husseini che con Hitler progettava lo sterminio degli ebrei? Quanti sono stati tacciati di fascismo solo perché non di sinistra? Il lavoro di bonifica dell'unità nazionale intorno alla Resistenza è stato valoroso, ma il termine antifascista deve prescindere dall'appartenenza politica, perché la genesi della Repubblica Italiana deve diventare finalmente patrimonio comune. Ma quanto è duro mandare giù questo rospo quando le radici culturali affondano nel terreno comune, acquisito, politicamente stratificato, del socialismo. La cosa vale per l'Europa intera, ambigua e ammiccante: dici democrazia, ma alludi a un'utopia socialista, almeno sospirata. Molte delle difficoltà della Ue, infatti, risiedono nel sogno palingenetico post bellico, quando l'antifascismo caricò a bordo il sogno socialista invece di fare i conti con la soggettività dei Paesi europei. Perché anche «nazione» può non essere una parolaccia, se non ha mire oppressive ed espansive. Occorre deporre sul serio le ideologie del Novecento per restare antifascisti veri. Cioè, amanti della democrazia. Fiamma Nirenstein

Anche l'Anpi soffia sul fuoco: "FdI ha cultura fascista". Giuseppe De Lorenzo il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. I partigiani si schierano con Provenzano per mettere fuori Meloni dall'arco democratico: "Giusto il paragone con Msi fuori dall'arco costituzionale". In fondo c’era da aspettarselo. La sparata di Peppe Provenzano su Fdi e l’”arco democratico e repubblicano” non poteva che trovare l’appoggio dell’Anpi. Scontato. Non poteva essere altrimenti: la fantomatica lotta al fascismo, oggi che il fascismo rimane solo negli incubi di certi ossessionati, si traduce nella guerra a Fratelli d’Italia, colpevole di conservare nel cuore del proprio simbolo la fiamma ardente del Movimento Sociale Italiano. E l'Anpi su questo è sempre in prima fila. “Provenzano si è riferito a un presupposto politico degli anni ’70 - ha detto Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Associazione dei partigiani all'agenzia AdnKronos- quando si parlava dell’arco costituzionale riferendosi a tutti i partiti ad eccezione del Movimento Sociale Italiano”. Una “metafora” corretta perché “la cultura fascista è talmente incistata in Fratelli d'Italia che il simbolo è lo stesso dell'Msi, la fiamma tricolore, segno di una scelta consapevole di continuità politica”. Per carità, per Pagliarulo i contesti sono diversi (deo gratias), ma il discorso non cambia. Se il Msi era da tagliare fuori, lo è oggi anche FdI. E Fiuggi? E An? E il partito di destra che ha governato il Paese segnando un decennio? Cosa facciamo: li buttiamo nel water e tiriamo lo sciacquone antifascista, per far tornare la lotta destra-sinistra all’età degli anni di Piombo? Evidentemente sì. Sono però almeno tre gli errori commessi dall’Anpi. Primo. Nel passato con “arco costituzionale” ci si riferiva ai quei partiti che avevano eletto deputati alla Costituente e che dunque avevano partecipato alla scrittura della Carta. Il Msi, per ovvi motivi, venne escluso da questo consesso, anche se neppure il Pci si sognò mai di chiudere il partito di Almirante. Tutto questo, comunque, con FdI non c'entra un bel nulla: anche il Pd, che alla scrittura della Costituzione non ha partecipato, sarebbe tecnicamente “fuori dall’arco costituzionale”. Chiaro? Secondo strafalcione: Provenzano ha utilizzato termini differenti e ben più gravi. Il piddino ha infatti posto FdI fuori dall’arco “democratico e repubblicano”, che è molto peggio. Intanto perché non ha motivazioni storiche. E poi perché “democratico” e “repubblicano” FdI lo è sicuramente, checché ne dica Provenzano. Primo: partecipa alle elezioni legittimamente, come richiede “democrazia”. Secondo: non ha mire monarchiche né tantomeno dittatoriali. È così difficile da accettare? Il terzo errore dell’Anpi è quello di imputare a FdI l’eredità del Msi prima e di An poi. Senza dubbio vi è continuità ideale. E quindi? La paura che il Movimento Sociale tentasse di instaurare una nuova dittatura fascista poteva esistere nei primi anni della neonata Repubblica, non oggi. Chiediamo forse ai romani di dichiararsi anti-papisti per paura che torni lo Stato Pontificio? O ai francesi di firmare un documento anti-napoleonico? Suvvia. Rivendicare la fiamma che arde nel proprio simbolo significa collegarsi idealmente ad un comune sentire. Non significa essere “fascisti” o avere una “cultura fascista”. Significa riconoscersi in una comunità, in una cultura politica che è cresciuta nel Msi, è maturata in An ed è diventata oggi Fratelli d’Italia. Si può essere di destra, senza per questo diventare automaticamente delle squadracce nere fasciste. In fondo l’ultimo segretario del Msi fu Massimo Fini, che è stato terza carica dello Stato. Nessuno oggi potrebbe dire che An, che pure nel simbolo faceva ardere la stessa fiamma, sia stata una minaccia per la democrazia o la repubblica. O no? Anche perché, se applicassimo lo stesso metro, dovremmo dire che “la cultura” dell’Anpi è “incistata” dalle violenze del triangolo della morte emiliano. O che si pone in continuità con le stragi partigiane. È così? Ovviamente no. Allo stesso modo, Bersani può tranquillamente dire nel 2021 che il comunismo significhi ancora per lui “uguaglianza come uguale dignità”. Qualcuno gli fa mai notare che il “comunismo” significa Gulag, Stalin, Praga, Budapest e le foibe di Tito? No. Perché una cosa è la storia, un’altra le idee. Che crescono, si modificano, evolvono. Senza necessarie abiure totali. Meloni, peraltro, ha già condannato tutto il condannabile sul fascismo. Senza ambiguità.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad  

"La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso". Gabriele Barberis il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Ecco il vero danno scolastico". Il saggio del sociologo e della scrittrice Paola Mastrocola. Torna in campo il sociologo Luca Ricolfi, mente lucida e voce critica dell'area liberal-progressista. Con la moglie Paola Mastrocola (scrittrice, premio Campiello 2004 ed ex docente) ha appena scritto il libro «Il danno scolastico» che denuncia le gravi responsabilità della sinistra sullo scadimento dell'istruzione pubblica.

Professor Ricolfi, un saggio sulla scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Scusi la provocazione, ma dove sarebbe la novità?

«Forse non è una novità per lei, ma forse non sa che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sociologi non ha mai riconosciuto né analizzato l'impatto della qualità dell'istruzione sulla diseguaglianza. In questo libro noi dimostriamo, credo per la prima volta, che più la scuola abbassa il livello, più si allarga il divario fra le chance di promozione sociale dei ceti bassi e quelle dei ceti alti: la scuola senza qualità è un regalo ai ricchi. E la dispersione scolastica, su cui da decenni ci si straccia le vesti, è anche un effetto non voluto dell'abbassamento».

I danni dell'«istruzione democratica» sono il fardello finale del Sessantotto o ci sono responsabilità più recenti da parte di una sinistra ideologica?

«Sì, ci sono responsabilità posteriori al '68, ma ce ne sono anche di anteriori, prima fra tutte la istituzione della scuola media unica (1962), con la progressiva eliminazione del latino e il costante annacquamento dei programmi. Per non parlare dei danni del donmilanismo (Lettera a una professoressa è del 1967), un'ideologia che avrebbe avuto un senso negli anni '50, ma che alla fine dei '60, quando si diffuse, era divenuta del largamente inattuale e profondamente anti-popolare».

E le responsabilità successive al Sessantotto?

«Sono innumerevoli, a tutti i livelli. A partire dalla liberalizzazione degli accessi (1969), passando per la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990), fino alle grandi riforme della fine degli anni '90 nella scuola e nell'università, con la trasformazione delle scuole in pseudo-aziende e delle università in esamifici: il capolavoro del ministro Berlinguer».

Lei elenca casi concreti di totale ignoranza o scarsa capacità di comprensione da parte di studenti universitari preparati male. Prevede una classe dirigente nazionale fatta da figure incompetenti e inadeguate?

«Più che prevederla, la osservo. L'abbassamento è iniziato quasi 60 anni fa, e quindi ha avuto tutto il tempo di produrre un ricambio completo di classe dirigente. Direi che lo spartiacque è negli anni '70: chi è nato dopo non ha più usufruito di un'istruzione decente, semplicemente perché la maggior parte di coloro che avrebbero potuto impartirgliela era uscito di scena, e la maggior parte dei nuovi docenti avevano un livello di preparazione decisamente meno soddisfacente. Naturalmente non mancano le eccezioni (pessimi docenti di ieri, ottimi docenti di oggi), ma il trend è quello che è: chiaro e inesorabile».

Vogliamo parlare anche di docenti non all'altezza, se non imbarazzanti in certi casi? Anche loro sono passati attraverso le maglie larghe dell'egualitarismo?

«Il problema non è solo l'egualitarismo, o meglio l'egualitarismo malinteso che ha dominato la scena per mezzo secolo. Il punto cruciale, quello che rende i problemi dell'istruzione maledettamente complicati (e probabilmente irrisolvibili), è che la maggior parte delle famiglie e degli studenti hanno oggi altre priorità, e nuove scale di valori: la priorità numero 1 è il consumo, e la sciatteria non è considerata un difetto. Bastano queste due circostanze, che ogni docente trova bell'e fatte davanti a sé, a ostacolare enormemente il lavoro di chi prova a insegnare qualcosa».

Le riforme Moratti e Gelmini, varate durante i governi di centrodestra, hanno tentato di correggere storture ideologiche del passato. Come ne giudica gli effetti ad anni di distanza?

«Direi che, se ci hanno provato, hanno fallito completamente. Ma a mio parere non ci hanno provato granché, probabilmente perché condividevano un punto centrale delle mode degli anni '90: l'idea che la scuola vada pensata come un'azienda, di cui va valutata l'efficienza, e i cui azionisti di maggioranza sono le famiglie. Su questo punto cruciale vedo poche differenze fra destra e sinistra».

Se lei fosse il ministro dell'Istruzione quale provvedimento adotterebbe d'urgenza?

«Come sociologo, penso che dovremmo avere il coraggio di ammettere che ci sono problemi sociali non risolvibili. O meglio, ormai non più risolvibili perché si è lasciato passare troppo tempo. Quindi non ho proposte, tutt'al più provocazioni per far capire qual è il problema.

Una provocazione?

«Beh, un'idea ce l'avrei. Così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa (si può dire così?) del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma. Basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell'università, ossia il rilascio di certificati che attestano il falso».

Doppia domanda come analista politico. Dove sfocerà la tensione politica sul green pass? Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, si immagina un'Italia che torna alle urne tra pochi mesi al culmine di un clima di odio?

«Alla fine credo che il governo dovrà concedere qualcosa a chi non vuole né vaccinarsi, né accollarsi, per poter lavorare, 100-150 euro al mese di spesa per i tamponi. Quanto a Draghi presidente della Repubblica, la conseguente andata alle urne a primavera mi pare difficilmente evitabile. Però mi chiedo: siamo sicuri che votare nel 2022 sarebbe un male peggiore che andare alle urne nel 2023? In fondo prima o poi al voto dovremo andare. E sarebbe anche ora, visto che è da 13 anni che non riusciamo più a scegliere i nostri governanti».

Chiudiamo con la giustizia. Le continue invasioni di campo della magistratura condizionano la politica. Anche per lei sarebbe positivo il pieno ritorno dell'immunità costituzionale per i parlamentari per frenare lo strapotere delle procure?

«Anche in questo caso, come in quello della scuola, bisognerebbe prendere atto che una soluzione soddisfacente non esiste, e che siamo costretti a scegliere fra due mali. Nel 1993 il male maggiore era, o sembrava, il vizietto del Parlamento di negare in automatico l'autorizzazione a procedere. Dopo quasi trent'anni, il male maggiore è, o sembra, il protagonismo dei Pm, che ora si accanisce anche nei confronti dei sindaci. Di qui, per noi liberali e garantisti, il paradosso: la magistratura è caduta così in basso che siamo tentati di invocare l'immunità per un ceto politico che sappiamo essere il peggiore di sempre».

Gabriele Barberis Caporedattore Politica, Il Giornale

Orlando Sacchelli per ilgiornale.it il 14 ottobre 2021. Milano, 25 aprile 2016. Al campo X del cimitero Maggiore si ritrovano alcune centinaia di persone per commemorare i caduti della Repubblica sociale italiana. Lo fanno ogni anno. A un certo punto, alla chiamata del "presente", fanno il saluto romano. Alcuni vengono identificati e indagati, sulla base di quanto prevede la Legge Mancino, per apologia del fascismo. Ora, a distanza di cinque anni, la Cassazione scrive la parola fine e annulla la condanna dei quattro imputati, tra cui il presidente dell'associazione Lealtà Azione, Stefano Del Miglio. Nel processo di primo grado gli imputati furono tutti assolti, con la riqualificazione del fatto in articolo 5 della legge Scelba. Ma la procura si oppose e ricorse in appello, con la V sezione penale che riqualificò il fatto riportando l'articolo 2 della legge Mancino: gli imputati furono condannati a due mesi e 10 giorni di carcere. La sentenza fu impugnata e si è arrivati davanti ai giudici della Cassazione. All'udienza del 12 ottobre, discussa davanti alla I sezione penale, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dalla difesa e la conferma della sentenza di appello. La suprema corte però ha riconosciuto le ragioni esposte dalla difesa, annullando senza rinvio la sentenza di appello perché "il fatto non sussiste". "Siamo soddisfatti del risultato ottenuto all'udienza del 12 ottobre - commenta all'Adnkronos l'avvocato Antonio Radaelli -. Attendiamo il deposito delle motivazioni per capire l'iter logico della Suprema Corte di Cassazione. Resta il punto che compiere il saluto romano in ambito commemorativo, proprio come è accaduto in questo caso, non è reato".

La sinistra non è di sinistra. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 12 Ottobre 2021. «Se sindacati, partiti (di sinistra?), pseudo-intellettuali e giornaloni si fossero scagliati contro l’abolizione dell’articolo 18, lo sblocco dei licenziamenti, le delocalizzazioni, i salari da fame e la trasformazione della FIAT in una multinazionale di diritto olandese controllata dai francesi come oggi si stanno scagliando contro il ‘presunto’ ritorno del fascismo, beh, l’Italia sarebbe un paese migliore». Così parla Alessandro Di Battista – sempre diretto – e il suo ragionamento non fa una grinza, non fa una grinza, non fa una grinza. A riprova che la sinistra non è di sinistra (è solo radical, e moralista).

La galassia comunista che incita a "insorgere". Ma nessuno s'indigna. Dai Carc ai leninisti, tutti contro il green pass. Ieri incendiata l'immagine di Draghi.  Paolo Bracalini il 12/10/2021 su Il Giornale. Sul fronte dei disordini sociali e dei cortei violenti la sinistra estrema non ha nulla da invidiare a Forza Nuova e affini, anzi. Nelle manifestazioni no green pass erano infatti presenti anche i centri sociali, anche se il protagonismo del gruppetto di Fn ha dirottato l'attenzione e fatto passare l'idea che il mondo no vax e no green pass sia animato solo della destra estrema. Non è così, anzi in generale tra i movimenti che vedono nel «banchiere» Mario Draghi uno strumento delle élite finanziarie per chissà realizzare in Italia chissà quale piano occulto (il «grande reset» è l'ultima fantasticheria di questi ambienti), la sinistra radicale è presente in forze. Giusto ieri un gruppo di studenti antagonisti durante il corteo dei sindacati di base a Torino ha dato fuoco a una gigantografia del premier Draghi, mentre a Milano cori e insulti contro la Cgil e Landini «servi dei padroni». La matrice ideologica è opposta (là il neofascismo, qui il marxismo-leninismo) ma con esiti identici e spesso anche slogan identici (entrambi parlano di «lavoratori» e «popolo» oppressi dai «poteri forti»). Le organizzazioni che si richiamano esplicitamente alla lotta di classe leninista e alla resistenza contro il «governo capitalista italiano» sono svariate. Il «Partito Marxista-Leninista Italiano» con sede a Firenze, ad esempio, sostiene che «il governo del banchiere massone Draghi, al servizio del regime capitalista neofascista, deve ritirare immediatamente il decreto sul green pass perché le lavoratrici e i lavoratori che sono contrari non possono e non devono essere sospesi dal lavoro e privati del salario». Il partito, che pubblica un settimanale dal titolo Il Bolscevico (foto di Mao), a settembre ha organizzato una commemorazione per il 45 anni dalla scomparsa di Mao, per riflettere sugli insegnamenti sulla «lotta di classe per il socialismo». Nei suoi manifesti Draghi viene rappresentato come un drago con i simboli di Bce, euro e massoneria, mentre gli ebrei di Israele sono «criminali nazisti sionisti» che vanno fermati con la resistenza palestinese fino alla vittoria» (foto di un palestinese a volto coperto che lancia una pietra con una fionda). Poi ci sono il «Partito dei Carc» (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo), sede a Milano, il cui obiettivo è «insorgere», che significa - spiegano - costruire un fronte per cacciare Draghi e imporre un governo che sia espressione delle masse popolari organizzate». Anche i Carc sono no-pass, la loro tesi è che i fascisti sono stati infiltrati dal governo per screditare il movimento popolare contro il green pass, «imposto da Draghi e da Confindustria». I Carc negli anni scorsi sono stati protagonisti di scontri e vicende giudiziarie, insieme al «Nuovo Partito Comunista Italiano», che invita i compagni rivoluzionari a «violare la legalità borghese», cioè a commettere reati, sull'esempio di Mimmo Lucano. Con toni un po' meno minacciosi, anche altre due organizzazioni di estrema sinistra, «Rete Comunista» e «Partito di Alternativa Comunista» a lottare contro il governo Draghi e i suoi mandanti, e contro il green pass, uno strumento creato «per tutelare gli interessi economici della borghesia». Idee e posizioni, come si vede, speculari a quelle di Forza Nuova. E spesso, come per i centri sociali e i movimenti antagonisti, altrettanto violente.

Gli apprendisti stregoni. Tutti uniti contro i fascisti, ma parliamo anche di un altro paio di cosette tra noi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. In troppi hanno attizzato il fuoco, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti. Una volta spento l’incendio, bisognerà discuterne molto seriamente. L’assalto di sabato alla sede della Cgil, invasa e devastata da fascisti e no vax provenienti dal corteo contro il green pass, e il tentativo di fare lo stesso con il Parlamento, sventato in extremis dalle forze dell’ordine, rappresentano quanto di più vicino all’attacco del 6 gennaio al Congresso americano sia capitato in Italia, almeno finora. Dietro il paradossale connubio di movimenti di estrema destra e parole d’ordine anarco-libertarie s’intravede un sommovimento profondo che non tocca soltanto il nostro Paese. Dietro i neofascisti che gridano slogan contro la dittatura (sanitaria, s’intende), dietro gli squadristi che hanno devastato la sede della Cgil – e che in piazza gridavano «Libertà! Libertà!» – non è difficile vedere lo stesso magma che in Francia alimenta le proteste di piazza in cui Emmanuel Macron viene paragonato a Hitler e le misure anti-Covid al nazismo, raccogliendo il consueto impasto di estrema destra, gilet gialli e ultrasinistra populista (Jean-Luc Mélenchon, il massimo esponente di quella che potremmo definire la linea giallorossa d’Oltralpe, si è schierato contro il green pass con parole analoghe a quelle usate qui da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari). Per non parlare degli Stati Uniti, dove la presa di Donald Trump sul Partito repubblicano è ancora fortissima, i no vax numerosissimi e aggressivi, e la situazione assai più pericolosa di quanto possa sembrare a prima vista. Il rischio di un cortocircuito tra crisi sanitaria e crisi sociale è alto ovunque, e l’Italia non fa eccezione, come denuncia proprio l’inatteso richiamo delle manifestazioni di sabato e la violenza che da quelle dimostrazioni si è sprigionata. Si tratta di episodi gravi, in se stessi e per quello che promettono per il futuro, in vista del 15 ottobre, data in cui entrerà in vigore l’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro. È dunque altamente auspicabile una presa di coscienza generale del pericolo, anzitutto da parte delle forze politiche, ma anche dei mezzi di comunicazione e di tutti coloro che hanno una qualche influenza sul dibattito pubblico. C’è bisogno della più larga unità e della massima fermezza, ed è giusto subordinare a questa priorità ogni altra esigenza. Compresa quella di chiarire un paio di cose, che prima o poi andranno chiarite comunque, ai tanti che finora hanno giocato sul filo dell’ambiguità, per non dire di peggio, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti, offrendo ai propalatori di una simile spazzatura tribune autorevoli e spazi assolutamente ingiustificati. In troppi hanno contribuito irresponsabilmente ad attizzare il fuoco, e bisognerà discuterne a fondo, perché una simile tendenza mette in luce una fragilità strutturale della democrazia italiana, o perlomeno del nostro dibattito pubblico. Adesso, però, occorre pensare a spegnere l’incendio, che fortunatamente, nonostante tutto, appare ancora relativamente circoscritto. Delle sue origini parleremo poi. Ma presto o tardi ne dovremo parlare. Eccome se ne dovremo parlare.

"Una protesta pacifica infiltrata da utili idioti. Le teste rasate usate: si scredita il dissenso". Luigi Mascheroni l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il filosofo del "pensare altrimenti": "Dire No al pass non è né di destra né di sinistra, il movimento è a-politico. Ora si limiteranno le manifestazioni". Diego Fusaro, filosofo del «pensare altrimenti», né di destra né di sinistra, lo ha scritto in modo chiaro nel suo nuovo libro, Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset (Piemme): l'emergenza è diventata un metodo di governo, che sfrutta la paura del contagio per ristrutturare società, economia e politica mentre è la sua tesi - diritti e libertà fondamentali vengono sospesi.

Diego Fusaro, cosa è successo ieri a Roma?

«È successo che sono scesi in pazza moltissimi italiani in forma pacifica e democratica: uomini, donne, famiglie, anziani e lavoratori che vogliono dire no all'infame tessera verde chiamarla green pass è già legittimarla e poi, puntualmente, è arrivato un gruppo di scalmanati con la testa rasata che ha usato una violenza oscena e inqualificabile che, a sua volta, ha giustificato una violenza di ritorno da parte del potere. E così sono stati etichettati come violenti tutti quelli che hanno manifestato, quando invece così non è».

Perché dice puntualmente?

«Perché accade sempre così: movimenti di protesta pacifici e democratici vengono infiltrati da gruppi di utili idioti che il potere usa di volta in volta per creare una tensione per citare la celebre strategia - che non ha nulla a che vedere con i pacifici manifestanti che in maniera democratica si oppongono a un provvedimento che reputano illegittimo».

Quindi ieri un movimento moderato di piazza è stato inficiato da un una minoranza di teste calde.

«Una modalità prefetta per screditare il dissenso».

È possibile che gli opposti estremismi, a destra e sinistra, si saldino nella protesta contro il green pass?

«Non ho elementi per dirlo. Ciò almeno non avviene nelle piazze Non finora. Quello che so invece è che dire No al green pass non è né di destra né di sinistra né di centro. È una protesta che non ha matrici ideologiche e davvero trasversale - tanto è vero che ci sono anche pezzi dell'estrema destra e dell'estrema sinistra invece favorevoli al green pass - che tiene dentro tutte le anime della politica, da quella socialista a quella liberale Al di là delle teste rasate che vanno in piazza e dei filosofi di sinistra che stanno nei talk show o sui social, è un movimento a-ideologico che riguarda gente comune che non accetta l'esproprio dei diritti costituzionali. Che poi qualcuno voglia capitalizzare politicamente il dissenso, questo va da sé».

Ci sono delle colpe in quello che è successo ieri? Qualcuno ha soffiato sul fuoco?

«No, non credo. Chi doveva vigilare ha fatto quello che doveva fare. La gente che era in piazza era gente tranquilla, fino a che è arrivato qualcuno che mi è sembrato organizzato - col compito di rovinare la protesta pacifica. Le colpe non sono né delle forze ordine né dei manifestanti, ma di qualcun altro».

Cosa succederà ora?

«Temo che adesso ci sarà un inasprimento nel modo di trattare chi si oppone alla famigerata infame tessera verde. Si limiteranno spazi e modi di aggregazione e raggruppamento, si generalizzerà dicendo che tutti sono facinoroso e violenti E così chi ha organizzato devastazioni e assalti di ieri avrà raggiunto lo scopo. Screditare chi va in piazza e criminalizzare la protesta in quanto tale. Io resto fermamente convinto che occorra opporsi, in maniera pacifica e democratica, alla tessera verde della discriminazione e del controllo totalitario delle esistenze».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Gli sfascisti. Francesco Maria Del Vigo l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Capiamo che la sinistra, a corto di idee, abbia la necessità elettorale di trovare un nemico a tutti i costi, se possibile il «nemico assoluto», cioè quel fascismo morto e sepolto più di settant'anni fa. Tra pochi giorni si tornerà alle urne e, crollato l'impianto accusatorio del caso Morisi e finita l'eco delle inchieste giornalistiche su Fidanza e Fdi, c'era bisogno di resuscitare il cadavere delle camicie nere per colpire anche tutta la destra, che con testoni del Duce, fez e labari non ha nulla a che spartire. L'assist lo offrono gli imbecilli squadristi che hanno assaltato le camionette della polizia, devastato la sede della Cgil e assediato il cuore della Capitale in nome di non si sa quale libertà. Probabilmente quella di essere criminali. Un attacco al cuore dello Stato e delle istituzioni che deve essere punito con il massimo rigore, non solo con i sacrosanti arresti del giorno dopo, ma possibilmente con un'opera di intelligence e prevenzione. Però sabato nelle piazze, oltre a Forza Nuova, c'erano le frange più violente degli ultras, la galassia dei vari «No» a tutto - ovviamente a partire dai vaccini e dal green pass - e c'erano anche gli anarchici. Perché i delinquenti tra loro si attraggono, sono la manovalanza della violenza a ogni costo, quelli che appena c'è un'occasione scendono in strada per spaccare tutto. A Milano, su cinquanta fermati, la metà proveniva dalla galassia dei centri sociali. Anche se è brutto dirlo e qualcuno fa finta di non saperlo. Perché la sinistra chic ama flirtare con le ali più estreme e quando la «meglio gioventù» si trastulla devastando i centri urbani, c'è sempre un clima di tolleranza, riecheggia lo stomachevole ritornello di «compagni che sbagliano». Come se la violenza rossa fosse un po' meno violenta. Ecco, la fermezza bipartisan con la quale sono stati condannati gli scontri di Roma ci piacerebbe vederla sempre, di fronte a ogni atto di violenza. Noi, da queste colonne, abbiamo sempre chiesto il massimo della severità per chi devasta le città: che sia di destra o di sinistra. E continueremo a farlo.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021.  

Guido Crosetto, qual è il significato di queste piazze e di queste violenze?

«Da una parte c'è il legittimo diritto di ognuno di noi a protestare o comunque a manifestare il proprio pensiero. Questo le Costituzioni democratiche lo concedono anche a un solo cittadino su 60 milioni. Quando i cittadini che protestano sono decine di migliaia, e nel caso di non possessori di Green pass parliamo di milioni di persone, uno Stato il problema deve porselo e affrontarlo con serietà ed equilibrio».

Sta dicendo che non si deve semplificare e considerare tutti violenti?

«Per fortuna, non sono tutti violenti. I violenti sono quelli che utilizzano ogni manifestazione legittima di protesta, per auto-promuoversi, distruggendo le città e smontando con le loro violenze qualunque ragione, anche sbagliata, delle manifestazioni». 

Sta naturalmente parlando di Forza Nuova?

«Ma certo. Non è la prima volta che questi nazi-fascisti (di cui non capisco come possano essere liberi i capi, visto che hanno la proibizione di uscire di casa) approfittano per prendersi visibilità mediatica e politica. E non mi stupirei che guadagnassero pure. Mi sono sempre chiesto come facciano a sostenersi queste organizzazioni estremiste. E come mai le loro violenze molto spesso hanno come risultato solo quello di annullare il messaggio di alcune manifestazioni».

Sta dicendo che c'è qualcuno che li paga?

«Non lo so, ma non mi stupirebbe». 

Quelli che legittimamente protestano finiscono per essere strumentalizzati dai peggiori?

«Purtroppo, sì. Vengono strumentalizzati e purtroppo tacitati. Tra quei 10mila in piazza penso ci siano persone di destra, di sinistra, di centro, apartitici, apolitici, astensionisti. C'è di tutto». 

Un mondo di non rappresentati che si sente vittima dei violenti?

«E' un mondo che non trova interlocuzioni con le istituzioni. Quando una democrazia perde la capacità di discutere e di confrontarsi con un pezzo del Paese, fa un passo indietro e lascia spazio a quelli che, come Forza Nuova, vogliono minare e distruggere la democrazia». 

I 5 stelle, quando erano forti, dicevano: noi siamo l'argine alla rabbia sociale. Senza di noi sarà solo violenza. Non c'è il rischio che sia così?

«Il tema è che l'argine alla rabbia sociale deve essere lo Stato, devono essere le Istituzioni. E' lo Stato che deve avere meccanismi di dialogo, di convincimento, di approccio con chiunque, anzi quelli di cui non capisce le ragioni. Chi pensa che si possano cavalcare movimenti di protesta, solo per incalanarli in un voto a un partito e in violenza, gioca contro lo Stato e contro ognuno di noi. I partiti non devono assecondare le proteste ma devono ascoltarle e proporre soluzioni alle tematiche sollevate. E semmai aiutare lo Stato a riprendere un dialogo interrotto. Mi è sempre sembrata superficiale l'auto-descrizione di M5S come argine. Basti vedere dove è finito l'argine».

Salvini e Meloni però vengono accusati di fomentare sotto sotto queste piazze. 

«Questo è un altro modo per alimentare, per motivi politici, fratture tra partiti che diventano ferite nel corpo dello Stato. I partiti hanno il dovere di rappresentare nelle istituzioni tutte le istanze sociali, se queste hanno una legittimità, tutte. Questa consapevolezza, pare mancare. Fratelli d'Italia e Lega non sono mai stati partiti No Vax. Hanno però posto questioni, sollevato dubbi su alcune scelte politiche riguardanti la lotta alla pandemia. Ad esempio sul Green pass non hanno attaccato lo strumento, ma l'estensione di questo strumento ad alcuni ambiti, come il lavoro, che portano a conseguenze molto dure. Ricordo inoltre che le questioni sul Green pass che questi partiti pongono al governo provocano spaccature anche al loro stesso interno. Lega ed Fdi hanno loro stesse un fortissimo dibattito interno, molto duro, tra chi sostiene scelte rigoriste vicine alle posizioni del governo e chi invece cita le posizioni anti Green pass di pensatori di sinistra come Cacciari, Agamben e Barbero». 

Guai a minimizzare però gli attacchi squadristi?

«Mai. Vanno condannati con durezza. Dopo queste orrende vicende, anche chi guardava a quella piazza con rispetto, anche se non la condivideva, oggi non ne può neanche parlare. Io mi preoccupo se qualcuno, che ha sempre rispettato le idee di tutti, comincia ad avere paura di esprimere le proprie. A me ad esempio capita sui social. Per non aver assecondato una lettura sulla Meloni in tivvù, subisco attacchi come se fossi un fascista. Ed invece sono da sempre un cattolico liberal democratico, da tempo fuori dalla politica».

Lei è Giorgia. Non è fascista, la Meloni, ma nemmeno antifascista. Così le prende da tutti ed è colpa sua. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La leader di FdI, frastornata da accuse di cui si sente vittima, condanna una generica zuppa di “ismi” ma non serve: in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto. Fini lo sanò in An e ora rampolla di nuovo tra gli eredi del Msi. Proviamo a fare lo sforzo di entrare nella testa di Giorgia Meloni, nella psicologia di una giovane donna che improvvisamente rischia di passare dalle stelle alle stalle per qualcosa che non riesce ad afferrare, a capire, e che vive queste ore con un certo sgomento oscurato solo dal suo arrogante sbuffare. Fascismo? Quale fascismo? Che c’entro io, che non ero nemmeno nata eccetera eccetera?

Lei probabilmente si sente come un pesce finito nella rete di un complotto che non può che essere stato ordito, nell’ordine: dai poteri forti; dalla sinistra; dai giornali; dalla tecnocrazia europea. Tutto un armamentario tecnicamente reazionario: torna l’Europa cattiva, hanno ragione polacchi e ungheresi. Lei è la vittima. «Sono Giorgia», ricordate? Sembra tanto tempo fa, stava prevalendo nei sondaggi, vendeva tante copie del suo libretto, giusto? Ed eccoli là, da Fanpage a Ursula von der Leyen me la stanno facendo pagare: dopo Matteo Salvini (che starà godendo) adesso tocca a me – si dirà nel suo flusso di coscienza – certo i gravi fatti di Roma vanno condannati, senza dubbio, quella non è gente “nostra”, i Fiore e i Castellino anzi ci odiano, dunque che volete da noi? E poi si fa presto a dire fascisti, ma io non so quale fosse «la matrice» degli squadristi che hanno assaltato la Cgil, ho preso le distanze, che altro volete da me… Già chissà a chi gli può venire in mente di sfondare il portone della Cgil, un bel rebus, Giorgia, ma perché ieri non sei andata da Landini invece che dai franchisti di Vox? Appare chiaro che Meloni non ha capito la situazione. Vede la strumentalizzazione anche laddove c’è persino una indiretta sollecitazione a venir fuori una volta per tutte dalla melma della Storia. Non è capace di intendere che i conti con il passato bisogna farli non solo per mondarsi di certe sozzure ma che la chiarezza è un’opportunità per disegnare per sé e la propria parte un nuovo inizio. Non ha la forza d’animo né la passione intellettuale per cogliere che la politica è anche dolore, fatica, dialettica. Altrimenti non farebbe di tutto per impedire che il passato diventi il fantasma che la innervosisce tanto. E inciampa di continuo: non lo sapeva che Enrico Michetti scriveva frasi antisemite? Scriveva il filosofo marxista György Lukács: «I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi». Ce l’aveva con i sovietici del post-destalinizzazione, ma la frase ben si attaglia alla destra italiana di oggi: «Non ero nata», che c’entro col fascismo? È una risposta burocratica, se non sciocca, che ignora che la Storia è un rapporto tra il passato e il presente. Che il passato va elaborato, come il vissuto personale, e non rimosso come fa lei, perché altrimenti i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco perché la sua intervista al Corriere della Sera è intrinsecamente debolissima, perché non fa conto di quel rapporto, non prende in considerazione che certi germi di ieri – un po’ come la variante Delta – si rinnovellano, forse non spariscono mai. Ecco, dovrebbero essere questi germi l’oggetto del discorso della leader dei Fratelli d’Italia più che l’aggiunta, che pare fatta tanto per farla, del fascismo tra le cose brutte. FdI tolga la fiamma missina dal simbolo, o compia comunque un atto forte di rottura. Perché non lo fa? Perché in certi quartieri di Roma, in alcuni posti del Sud, in diverse zone disagiate del Paese, non si rinuncia al voto nostalgico, maschio, tosto. Meglio non strappare quei fili. Peccato, perché così non diventerà mai grande, Giorgia Meloni, che non ce la proprio a impersonare una destra moderna. È un discorso che lei non sente perché Giorgia pensa che i brutti “sogni neri” siano finiti. Infatti ancora ieri, sulle squadracce romane, è tornata con quella sua vaghezza infastidita: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto». E così ci risiamo. Fascismo, nazismo, comunismo, totalitarismo: stessa zuppa. Non comprendendo, al di là delle evidenti lacune storiche, che in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto, che si chiama fascismo. Gianfranco Fini, alla fine, aveva compreso che questo era il punto e che non si poteva più girare intorno. «Anche io ero in An», dice Giorgia. Vero, ma lei a Gerusalemme a dire che il fascismo è il male assoluto non ci è mai andata. Né si ricorda una qualche sua elaborazione a sostegno della svolta finiana, probabilmente vissuta come mossa tattica, marketing politico, nulla più, tanto è vero che lei non seguì la vicenda di Futuro e libertà ma restò con Silvio Berlusconi in attesa di rifare prima o poi un Msi 2.0. Non capendo che «la storia non ha nascondigli», soprattutto la propria storia. Giorgia Meloni, se andasse al governo, farebbe molti pasticci ma certo non abolirebbe le libertà democratiche. Non è questo il punto. Il punto è che lei è estranea all’antifascismo – probabilmente considera la Resistenza una roba dei comunisti per nulla edificante – e dunque al valore fondante della Costituzione. È questo che le impedisce da stare al di qua della barricata contro i neofascisti per i quali prova soprattutto un’enorme animosità perché le rendono impervia la strada verso il governo, e solo questo. Non è fascista, Giorgia, e nemmeno antifascista. Nel mezzo, le prende da entrambi i fronti, ed è solo colpa sua. 

Il cortocircuito delle idiozie. L’appropriazione culturale del neofascismo sull’umana scemenza no vax. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. C’è una parte della popolazione che non capisce un cazzo di niente. Neppure l’istruzione obbligatoria ha risolto questo problema, figuriamoci se lo risolve l’uso delle stigmatizzazioni sciatte (“fascisti!”) che usiamo per fare delle analisi sociologiche che rientrino in una storia su Instagram. La didascalia della foto in apertura della prima pagina di Repubblica, ieri, diceva: «Il momento in cui NoVax e neofascisti irrompono nella sede nazionale della Cgil». Di spalle, si vedono un po’ di bomber neri (il 1985 non è mai finito), pochi passamontagna, alcune teste rasate, un paio di bandiere tricolore. Nella parte bassa della foto, in primo piano, si vedono soprattutto tre cellulari. Tre persone – due uomini e una donna, perdonate la binarietà – che, mentre noi indichiamo il fascismo, pensano alla storia da postare su Instagram. Nell’ipotesi improbabile in cui una dittatura d’ottant’anni fa costituisse un pericolo imminente nelle democrazie occidentali del Ventunesimo secolo, il presente avrebbe già trovato l’antidoto: scriversi «antifa» nelle bio sui social. Non mi meraviglierei se tra quelli che hanno devastato alcune strade di Roma sabato ci fossero alcuni di coloro che sui social si definiscono «antifa»: per loro la dittatura è fargli il vaccino gratis, mica fare i teppisti (e in effetti i teppisti, in dittatura, finiscono in galera, mica nelle storie di Instagram). “Fascismo” è una parola confortevole. È comoda per mettere una distanza – loro sono fascisti, noi no – e per evitare di pensare. Per evitare di fare un’analisi del presente invece d’impigrirsi a liquidare qualunque teppista come nostalgico d’un’ideologia che neppure ha vissuto, durante la quale neppure era nato. Un’ideologia che, per inciso, l’avrebbe preso a coppini (eufemismo) se a una regola imposta dallo Stato, fosse stata una mascherina o un lasciapassare, avesse risposto con dei capricci da cinquenne. Sì, lo so che hanno assaltato la Cgil, facendo subito commentare ai social di sinistra: «E perché non Confindustria?». Forse perché sta due ore di strada più a Sud, in quell’ingorgo cinghialesco che è il traffico romano? È solo un’ipotesi, per carità. E lo so che, tra gli assalitori d’un’istituzione di sinistra, c’erano dei capetti neofascisti: ma non sarà che sono semplicemente andati ad appropriarsi d’una scemenza (malcontento, bisognerebbe dire: “scemenza” è troppo diretto) che esisteva a prescindere da loro? Quella del neofascismo nei confronti dell’umana scemenza non sarà appropriazione culturale? Dice eh, ma erano violenti, la violenza è fascista. Mah, mi sembra che gli esseri umani fossero violenti da un bel po’ prima che venisse immaginato il fascismo e abbiano continuato a esserlo quando il fascismo è finito (sì, lo so che secondo voi non è mai finito perché non siete disposti a rinunciare a una categoria così comoda per stigmatizzare chiunque non la pensi come voi: fascisti, radical chic, populisti – una volta svuotate di senso, le categorie sono comode come vecchi cashmere slabbrati). Forse “lassismo” è uno slogan più adatto. Sono quasi due anni che facciamo – parlo a nome della maggioranza – tutte le cose richieste dalla logica, dal buonsenso, dallo Stato. Ci mettiamo la mascherina, stiamo a casa, compriamo l’amuchina, ci vacciniamo, urliamo dentro le mascherine all’ufficio postale e dalla manicure perché tra distanziamento e plexiglas e mascherine è come esser diventati tutti sordomuti (che è una frase abilista, ma ora non cambiamo settore di scemenza sennò ci perdiamo). Sono quasi due anni che quotidianamente c’è qualche notizia di gente che – con continuità caratteriale, come prima parcheggiava in seconda fila «solo due minuti» – concede a sé stessa deroghe. Falsifica certificazioni verdi, si affolla ad aperitivi, tiene la mascherina abbassata perché si sente soffocare: scegliete voi la cialtronata del giorno. A quel punto la cittadinanza si divide in minoranza isterica che urla «si metta quella cazzo di mascherina» (sì, ogni tanto anch’io: bisogna pur sfogarsi); e maggioranza lassista che sospira «eh, ma la gente è stanca». Ma stanca di cosa? I manuali di autoaiuto non dicono che per acquisire una nuova abitudine ci vogliono tre settimane? Non dovrebbe ormai essere un automatismo, mettersi quella cazzo di mascherina su quel cazzo di naso? Non hai preso l’abitudine, se quest’anno e mezzo l’hai passato a rimuginare che la mascherina è una vessazione, il vaccino è un sopruso, la dittatura sanitaria no pasará. Non al fascismo, hai aderito, ma all’assai più contemporanea dittatura del vittimismo, che usa l’eccezione – sia essa costituita da un infinitesimale numero d’intersessuali o di allergici al vaccino – per spacciare per vessazione qualunque ovvietà, da «i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali» a «se c’è una malattia mortale e un vaccino che la previene, ci si vaccina»; e a quel punto, se vessazione è, la ribellione violenta è non solo consentita ma plaudita. L’altro giorno il governatore del Veneto, Zaia, ha detto che l’obbligo della certificazione verde sarà un casino perché solo in Veneto ci sono 590mila non vaccinati in età lavorativa, e non si riesce a fare a tutti loro il tampone ogni due giorni. Ricopio dall’intervista di Concetto Vecchio: «Non si tratta di contestare il Green Pass, bensì di guardare in faccia la realtà: gran parte di questi 590mila probabilmente non si vaccineranno mai». Zaia non lo dice, perché i politici non possono permettersi il lusso di dire che l’elettorato è scemo, ma la questione quella è. C’è un’ampia parte dell’umanità che non capisce un cazzo di niente, è un problema che non s’è risolto con l’istruzione obbligatoria, figuriamoci se si risolve con stigmatizzazioni sciatte quali “fascismo”. E invece siamo qui, a chiederci se Cacciari abbia preso le distanze dalla manifestazione degenerata, Giorgia Meloni dalle leggi razziali, Muhammad Ali dagli attentati alle Torri Gemelle. Siamo come quelli che stavano sulla prima pagina di Repubblica ieri: alla ricerca di analisi sociologiche che rientrino in quindici secondi di storia Instagram.

Sinistra e Cgil si mobilitano. "Ora Forza Nuova va sciolta". Pasquale Napolitano l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il sindacato lancia un corteo antifascista per sabato prossimo. Pd e M5s: è un partito contro la Costituzione. In piazza sabato 16 ottobre e scioglimento di Forza Nuova: sono due richieste che partono dall'assemblea generale della Cgil convocata ieri in risposta all'assalto avvenuto contro la sede di Roma del sindacato dai manifestanti del corteo no green pass. Al presidio in Corso Italia a Roma fanno tappa tutti i leader dei partiti: Nicola Zingaretti ed Enrico Letta (Pd), Giuseppe Conte (M5S), Teresa Bellanova ed Ettore Rosato (Italia Viva), Francesco Lollobrigida (Fdi), i candidati sindaco di Roma Roberto Gualtieri ed Enrico Michetti, l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Tra bandiere rosse e cori antifascisti, centinaia di dimostranti manifestano intonando «Bella Ciao». Il clima è quello dei grandi raduni. Ad aprire la manifestazione, l'intervento del segretario generale della Cgil Maurizio Landini: «Ci attaccano perché siamo sulla strada giusta ma noi non ci fermeremo. Da domani all'apertura, alla ripresa del lavoro, in ogni città in ogni condominio dobbiamo riprenderci la parola senza paura. Tutte le formazioni che si rifanno al fascismo vanno sciolte, e questo è il momento di dirlo con chiarezza. Sabato 16 abbiamo deciso, insieme a Cisl e Uil, che è giunto il momento di organizzare una manifestazione nazionale antifascista e democratica: il titolo sarà Mai più fascismi». L'appuntamento è per sabato 16 ottobre: tutti in piazza alla vigilia del voto per i ballottaggi. Il leader della Cgil chiede uno scatto in più: «È molto importante che le forze politiche oggi qui ci siano, la difesa della democrazia e della Costituzione è centrale. Mi auguro che tutti siano coerenti con la loro presenza qui davanti». L'ex presidente del Consiglio Conte annuncia l'adesione del M5s alla manifestazione di sabato e chiama in ballo i partiti di destra: «Auspico che anche Salvini e Meloni partecipino». Poi si unisce alla richiesta di scioglimento per Forza Nuova: «Non possiamo accettare che nel nostro paese ci siano aggressioni di questo tipo. Quindi su Forza Nuova è una valutazione che affidiamo alla magistratura ma anche io ritengo che ci siano le condizioni per lo scioglimento. È evidente che ci sia una volontà deliberata di condurre attacchi squadristi e questo non lo possiamo accettare». Letta fa tappa nel pomeriggio al presidio e avverte: «Esiste un fermento e cova un malessere fortissimo. Credo che bisogna alzare la guardia, ed essere netti sulla questione dello scioglimento Forza Nuova. Le immagini sono chiare, non ci sono molti dubbi. Presenteremo una mozione, poi sono altri i meccanismi che portano allo scioglimento. Ma la Costituzione è chiarissima, non ci sono dubbi che Forza Nuova debba essere sciolta». La presidente del Pd Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, il paese dell'Appennino bolognese colpito dal grande eccidio nazifascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lancia su Change.org una petizione per sciogliere organizzazioni e partiti neofascisti. «I fatti di Roma sono solamente l'ultima goccia. È ora i dire basta alla violenza squadrista e fascista. Un basta definitivo. È ora, come già richiesto dall'Anpi nell'appello Mai più fascismi, di sciogliere Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Fiamma Tricolore e tutti i partiti e movimenti che si rifanno alle idee e alle pratiche del fascismo» - rilancia Cuppi. Per Fratelli d'Italia arrivano Francesco Lollobrigida ed Enrico Michetti. «Sono andato a Corso Italia perchè noi condanniamo ogni forma di violenza politica, specie quando colpisce i lavoratori e le loro rappresentanze» spiega il capogruppo Fdi alla Camera dei deputati. Pasquale Napolitano

Forza Nuova? Perché con la destra non c'entra niente: anzi, ne è nemica. Andrea Morigi su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Sono vent' anni o giù di lì che Forza Nuova si presenta alle elezioni andando sì a pescare consensi negli ambienti di destra, ma in alternativa alla destra. Sono gli avversari e i concorrenti di Fratelli d'Italia, come lo sono stati di Alleanza Nazionale e lo furono del Msi. Non contigui e nemmeno ramificazioni dello stesso albero. Soltanto che, ai tempi di Giorgio Almirante, non accadeva mai di assistere a superamenti a destra. Al massimo vi fu la sfortunata scissione a sinistra, cioè centrista, di Democrazia Nazionale. Qui però, destra sembra ormai un termine improprio. "Le destre", come le chiamano i nostalgici della Resistenza, semplicemente non esistono. Semmai quella che si è radunata sabato in piazza del Popolo a Roma è un'organizzazione antisistema, "oltre la destra e la sinistra", che non accetta etichette sebbene affondi le sue radici politico-culturali nella cosiddetta "autonomia nera", da sempre estranea al "partito", giudicato borghese e compromissorio. Sono realtà nemiche l'una dell'altra, con obiettivi politici diversi e un atteggiamento opposto nei confronti delle istituzioni democratiche. Mancano loro infatti un terreno e un nemico comune, paragonabili a quelli che condivide la sinistra quando va in piazza il 25 aprile per festeggiare la Liberazione. A meno che s' intenda l'opposizione al gender, al ddl Zan e all'aborto come un tema unificante, ma a quel punto occorrerebbe includere nel fronte reazionario anche il Sommo Pontefice. Le frange neofasciste tuttavia si pongono fuori dalla Chiesa, in opposizione al Concilio Vaticano II. Forza Nuova, comunque, non gradisce nemmeno la definizione di "fascista" e forse non sarà soltanto per ottenere lauti risarcimenti se i loro dirigenti hanno querelato - vincendo in giudizio - gli organi d'informazione che hanno osato definirli tali. La genealogia è un'altra. È l'area che, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1969 del manualetto La disintegrazione del sistema di Franco Giorgio Freda, teorizza l'unificazione fra movimenti rivoluzionari, dopo essersi alimentata dell'antiamericanismo dei reduci della Repubblica Sociale Italiana e perfino dell'opposizione alla Nato del primo Msi. Da quelle parti e a quell'epoca, i cosiddetti nazimaoisti ammirano Ernesto Che Guevara e i vietcong, perché sono nemici giurati degli Stati Uniti tanto quanto i "camerati" che hanno combattuto contro le truppe alleate durante la Seconda Guerra mondiale. Qualche riferimento nazionalbolscevico o al fascismo immenso e rosso, in fondo, conferisce anche un'atmosfera romantica all'ideale totalitario del patto Molotov-Ribbentrop. Il trasbordo ideologico si può dire pienamente compiuto nel 1979, quando vede la luce il numero zero del periodico Terza Posizione, che saluta il trionfo della rivoluzione khomeinista in Iran. "Né Usa né Urss!", slogan da Paesi non allineati, cessa così di inneggiare all'Europa Nazione e acquista da quel momento una sinistra e cupa deriva verso il fondamentalismo islamico. Forza Nuova, in realtà, subisce già dalle sue origini l'influenza di un tradizionalismo cattolico che vede nelle gesta dei combattenti maroniti un esempio di testimonianza cristiana, salvo poi trovare negli anni un punto di contatto anche con Hezbollah, il partito sciita libanese. Anche questi ultimi, del resto, salutano col braccio teso. Come i militanti che si ritrovano a Predappio alla tomba di Benito Mussolini, senza trascurarne il passato socialista.

"Quali prove vogliono ancora contro il fascismo". Meloni, gioco sporco a sinistra: fin dove si spingono, persecuzione? Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 ottobre 2021. Le avevano chiesto di dire parole chiare sul fascismo. E ieri, sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni le ha dette. «Nel dna di Fratelli d'Italia», ha spiegato, «non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro». E ancora, se non fosse stata abbastanza netta: «I nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato». Insomma, piacciano o meno le sue dichiarazioni, non si può dire che Giorgia sia stata vaga o non abbia voluto affrontare la questione. Quindi? Archiviamo le polemiche di queste settimane sul pericolo fascista e torniamo ad occuparci di quello che succede nel ventunesimo secolo? Ovviamente no. Perché la sinistra non è soddisfatta. E chiede ulteriori prove...

UN CRIMINE

«Anche oggi», attacca Andrea De Maria, deputato del Partito democratico e già sindaco di Marzabotto, «Giorgia Meloni fa finta di non capire: nella sua intervista non c'è alcuna condanna del fascismo né l'intenzione di chiudere con quel mondo che ancora si ispira agli orrori del Ventennio. C'è invece la presunzione di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo. Come se non conoscesse la storia del nostro Paese e il ruolo dei comunisti italiani per la conquista della libertà e la costruzione della democrazia. Per una che vorrebbe guidare il Paese non solo è ormai tardi ma è ancora davvero troppo poco». Anche i Cinque Stelle, poi si sentono in diritto di chiedere alla Meloni ulteriori prove di democraticità. «Sul fascismo», sostiene Mario Perantoni, deputato M5S e presidente della commissione Giustizia della Camera, «ha detto parole definitive un uomo che lo aveva subito, Sandro Pertini. Spiegò che il fascismo non è un'opinione ma un crimine. In commissione Giustizia abbiamo avviato l'iter della proposta di legge contro l'uso di simboli e immagini che possano propagandare le idee nazifasciste: è un testo di iniziativa popolare sostenuto dal sindaco di Sant' Anna di Stazzema Maurizio Verona al quale personalmente tengo molto e che credo debba essere condiviso da ogni forza democratica». E poi: «La leader di Fdi, impegnata in questi giorni a prendere le distanze da personaggi e vicende raccontate nel video di Fanpage, è disposta, in concreto, a sostenere questa proposta?».

LA COSTITUZIONE

E non poteva mancare la solita Anpi. «La Meloni afferma che l'Anpi chiede lo scioglimento di Fratelli d'Italia», dice l'associazione dei partigiani. «È falso. L'Anpi chiede lo scioglimento di Lealtà Azione, Forza Nuova, CasaPound. Dato che lei, folgorata sulla via di Damasco, anzi di Fanpage, nega qualsiasi nostalgia del Ventennio e si erge a baluardo democratico, perché non propone lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste come previsto dalla Costituzione?». Insomma, la fondatrice di Fdi, oltre prendere le distanze dal fascismo, dovrebbe anche esaltare il ruolo storico del Partito comunista, sottoscrivere una legge contro la propaganda fascista e pure chiedere lo scioglimento dei gruppi di estrema destra. Ed è probabile che non basterebbe ancora...

Meloni: “Noi fascisti? Nel dna di Fdi c’è il rifiuto per ogni regime”. In un'intervista al Corriere della Sera, Giorgia Meloni rifiuta l'accostamento con le ideologie "fasciste, razziste e antisemite". E su Lavarini dice...Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Nel dna di Fratelli d’Italia “non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite“, c’è “il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro. E non c’è niente nella mia vita, come nella storia della destra che rappresento, di cui mi debba vergognare o per cui debba chiedere scusa. Tantomeno a chi i conti con il proprio passato, a differenza di noi, non li ha mai fatti e non ha la dignità per darmi lezioni”. Lo dice in un’intervista al Corriere della Sera Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. «Il “pericolo nero”, guarda caso, arriva sempre in prossimità di una campagna elettorale…» aggiunge, parlando dell’inchiesta di Fanpage, sottolineando però che la più arrabbiata per quelle immagini è lei, che ha “allontanato soggetti ambigui, chiesto ai miei dirigenti la massima severità su ogni rappresentazione folkloristica e imbecille, anche con circolari ad hoc”. Perché “i nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato”. Immaginare «che Fratelli d’Italia possa essere influenzato o peggio manovrato da gruppi di estrema destra è ridicolo e falso”. Meloni ricorda che certi nostalgici il partito li ha sempre cacciati, “a partire da Jonghi Lavarini, ora “lo faremo ancora di più”. La colpa di Fidanza “è aver frequentato una persona come Jonghi Lavarini che con noi non ha niente a che fare per ragioni di campagna elettorale. Un errore molto grave, infatti adesso è sospeso. Poi vedremo cosa verrà fuori da un’inchiesta a tratti surreale”. Fdi è il primo partito in Italia “perché non guardiamo indietro ma avanti, ai problemi veri degli italiani, le tasse, la casa, il lavoro, la povertà”. Nella battaglia politica, la leader di Fratelli d’Italia difende anche scelte come quella della candidatura di Rachele Mussolini: “È una persona preparatissima, competente, consigliera uscente che è stata rieletta perché ha fatto bene e non la discrimino per il nome che porta”.

Guerriglia. La fatwa in Tv contro la consigliera di FdI. Per il "ducetto" Formigli, Rachele Mussolini è apologia del fascismo solo per il cognome…Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Sono rimasto di pietra, l’altra sera, quando ho sentito Corrado Formigli, su La 7, annientare Rachele Mussolini – in contumacia – e contestarle, in sostanza, il diritto di presentarsi alle elezioni con quel cognome. Ha fatto bene Guido Crosetto (che ha idee politiche, spesso, molto lontane dalle mie) a indignarsi e ad alzare la voce. Formigli ha reagito all’intervento di Crosetto togliendogli la parola con l’aria… (posso dirlo?) con l’aria del ducetto che il potere ce l’ha e non lo cede a nessuno. Io non conosco neppure alla lontana Rachele Mussolini. So che è una signora che fa politica da molti anni, che è di destra, che si presenta alle elezioni e le vince. E mi hanno abituato a pensare che chi vince le elezioni è bravo, e che se gli elettori lo votano lui è democraticamente legittimato. Non ha bisogno del timbro di Formigli e neppure del timbro del mio amico Bersani. Dove me le hanno insegnate queste cose? Nel Pci. Circa 50 anni fa me le spiegò Luigi Petroselli, che era il capo della federazione romana del partito e del quale l’altro giorno abbiamo celebrato i quarant’anni dalla morte, che avvenne a Botteghe Oscure, mentre scendeva dal palchetto dopo aver pronunciato – nella solenne seduta del Comitato centrale – un intervento critico verso il segretario. Che era Berlinguer. Rachele Mussolini è accusata di tre cose. La prima è di portare il nome che porta. La seconda è di non avere abiurato. La terza è di avere detto che lei non festeggia il 25 aprile. Accusare una persona per il nome che porta, dal mio punto di vista di vecchio antifascista, è una manifestazione di fascismo. Tra qualche riga provo a spiegare cosa intendo per antifascismo. Chiedere a una persona di abiurare, chiedere a chiunque qualunque tipo di abiura, per me è ripetizione delle idee e dei metodi della Santa Inquisizione. È una richiesta oscena, che getta discredito e vergogna su chi la avanza. Sul 25 aprile ci sono due cose da dire. La prima è che Rachele Mussolini ha dichiarato in questi giorni di avere sbagliato a postare (due anni fa) quella foto nella quale mostrava un cartello con su scritto che il 25 aprile lei festeggia solo San Marco. Ma a me questo non interessa. Per me chiunque è legittimato a festeggiare o no le feste di Stato. Legittimato e libero. Non so se la capite questa parola: li-be-ro. Io da ragazzo non festeggiavo il 4 novembre, festa della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale. Non perché io fossi, o sia, anti italiano o filoaustriaco, ma perché sono – e sono libero di esserlo – antimilitarista. E vi dico le verità: se il 25 aprile fosse una festa per ricordare la fucilazione di mio nonno, il papà di mio padre (in realtà Mussolini fu fucilato il 28 aprile e poi appeso per i piedi a Milano, in piazzale Loreto, il giorno dopo, e però è il 25 aprile il giorno nel quale si celebra e si festeggia la sua morte) io in nessun caso la festeggerei, a prescindere dalle mie idee politiche. Democrazia, liberalità, modernità, onestà – butto giù a caso un po’ di parole perché non è che io abbia capito bene quali siano i nuovi valori della politica di oggi – chiedono ai nipoti di sputare sul corpo dei propri genitori o nonni prima di essere ammessi in società? Beh, ma allora perché ce l’avevate con Pol Pot? Io tutti gli anni festeggio il 25 aprile. Lo festeggio, e penso che sia una grande festa, proprio perché so che è legittimo non festeggiarlo. Se fosse una festa obbligatoria, per me, non sarebbe più il 25 aprile. Sarebbe un rito sciocco. Infine Formigli ha detto che aveva invitato Giorgia Meloni per chiederle se era pronta a ripetere la frase attribuita a Gianfranco Fini una quindicina di anni fa, e cioè “il fascismo è il male assoluto”. Io penso che non ci sia niente di male a credere che il fascismo sia il male assoluto – forse sarebbe meglio dire che l’olocausto, del quale il fascismo fu complice, è stato il male assoluto – ma a me non sembra normale che un conduttore televisivo pensi di poter convocare nello studio televisivo il capo di un partito (forse, addirittura, del primo partito) per umiliarlo e costringerlo a piegarsi ai suoi diktat. A questo punto è ridotta la politica? È l’ancella di conduttori televisivi rudi e sceriffi? Delle nuove guardie? Ommammamia. Questi atteggiamenti, e anche il fatto che non facciano indignare nessuno, a me fanno paura. Sì, mi fanno paura perché il vero rischio fascismo, per me, è esattamente questo. Tutti sanno che il pericolo non è né Borghese, né questo nuovo personaggio che mi pare si chiami Jonghi Lavarini. Non è Casapound, né Forza Nuova, né l’incombere della tradizione del vecchio regime. I rischi sono tre: antisemitismo, razzismo e autoritarismo. Quando penso a un antifascismo serio e moderno penso esattamente a questo. A un ordine di idee e di lotte contro l’antisemitismo, il razzismo e l’autoritarismo. Dove sono queste tre malattie? In vastissime zone del populismo italiano. L’antisemitismo, purtroppo, è diffuso, sotterraneo e terribile. Vive e prospera a destra e anche a sinistra. Anche il razzismo (che comunque non va confuso con la xenofobia, che è anche questa una malattia della politica moderna, ma diversa dal razzismo) è diffuso a destra e a sinistra, soprattutto a destra. L’autoritarismo, che spesso si confonde e si salda col giustizialismo, è forte in tutto lo schieramento politico, e, misurato a spanne, è più diffuso a sinistra e dilaga tra i 5 Stelle dove è quasi l’ideologia dominante. Bene, se le cose stanno così, lo dico francamente, antifascismo vuol dire opporsi al formiglismo. Che è un costume diffusissimo nel giornalismo italiano. Prepotente, maschilista, narciso e sopraffattore.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Antifascisti, siete anticomunisti? Marco Gervasoni il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi "antifascisti" ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi «antifascisti» ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. Quando poi nel 2009 a Onna, sulle rovine del terremoto, il Cavaliere presidente del Consiglio vi prese parte e pronunciò anche un bel discorso, la sinistra spostò il tiro su altre questioni, e accadde quel che sappiamo. Questo per dire che, in buona parte dei casi, come questo di una «inchiesta» diffusa a due giorni dal voto, l'antifascismo è solo un pretesto, e anche molto ipocrita e peloso. Sarebbe tuttavia limitativo fare spallucce e rispondere solo in questo modo. In primo luogo perché l'argomento fa parte della lotta politica ed è utilizzato come arma, a cui bisogna rispondere. In secondo luogo, perché l'antifascismo è si qualcosa che appartiene al passato ma il passato, anche quello antico, fa sempre parte del presente - la storia è sempre storia contemporanea, noto adagio crociano. E tra fascismo e antifascismo non ha solo vinto quest'ultimo ma la ragione stava da questa parte: da quella di Roosevelt, di Churchill, di De Gaulle, di De Gasperi, di Sturzo, di Einaudi, di Matteotti e dei Fratelli Rosselli, e così via. A un regime che si impose con la violenza, soffocando la libertà e la democrazia, come quello fascista, Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e tutti i militanti ed elettori di Fdi sono lontani anni luce; e oggi sicuramente lo combatterebbero. Dal nostro punto di vista quindi, non dovrebbe esserci problema alcuno a dichiararsi antifascisti. Purché ci si dica al tempo stesso anticomunisti. I due termini dovrebbero essere inseparabili: non si può essere antifascisti se non si è anche anticomunisti. Come scriveva François Furet, tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici: basti pensare a Stalin, a Tito, e via dicendo. Allo stesso tempo, non si può essere anticomunisti se non ci si definisce pure antifascisti: perché la lotta al comunismo va condotta avendo in mente la democrazia e la libertà, non esperimenti autoritari. Si tratta di questioni storiche passate? Forse. Sta di fatto che il fascismo è morto nel 1945 mentre il comunismo è vivo e vegeto (la Cina, a Cuba, alla Corea del Nord ecc) e alle Comunali si parano miriade di liste con falce e martello. E allora rivolgiamo noi la domanda agli antifascisti (a fascismo morto) in servizio permanente ed effettivo: siete disposti a dichiararvi anticomunisti? Marco Gervasoni 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 6 ottobre 2021. Io voglio sapere come fa Michele Serra a scrivere che «è risaputo» che gli italiani di estrema destra sarebbero «qualche milione, storicamente attorno al 10-15 per cento dell'elettorato». Voglio sapere come fa a scrivere che «la destra non ha mai fatto i conti con il fascismo» senza che gli si spezzi la penna, e definendo la frase, anzi, «per niente retorica», e non spiegando perché Casapound e Forza Nuova abbiano consensi da entomologi. Voglio sapere come lo storico Franco Cardini (ex scritto al Msi che faceva il saluto romano, poi nel 1965 si innamorò di Fidel Castro) faccia a dire che «l'eredità neofascista non è stata sufficientemente elaborata». Voglio sapere dalla politologa Sofia Ventura che cosa intenda quando parla di «contraddizione irrisolta». Voglio sapere da Serra, Cardini e la Ventura se ricordano che Gianfranco Fini disse che le leggi razziali furono «un'infamia», che «Salò fu una pagina vergognosa», che «il fascismo fu il male assoluto», che visitò le Fosse Ardeatine, la Risiera di San Sabba e il museo dell'Olocausto (con la kippah in testa) e che non servì a nulla, anzi, rese Fini ridicolo in un Paese dove sopravvivono l'Anpi, i negazionisti delle foibe, e dove qualche sindaco che ha dedicato vie al Maresciallo Tito, a Lenin, Ho Chi Minh, Mao Tze Tung, financo a Josef Stalin il quale persino Putin, nel 2015, definì ufficialmente un criminale comunista.

A destra ferve il dibattito per appurare quale sia la matrice di tutte le stronzate che fanno. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Rampelli si autosmentisce, La Russa denuncia una strategia della tensione e Meloni rivendica in spagnolo il suo essere italiana. Ma se in piazza i neonazi protestano contro la dittatura e invocano una nuova Norimberga, forse la causa non è così chiara nemmeno a loro. Scoccata l’ora delle decisioni irrevocabili, poco dopo pranzo, Fabio Rampelli ha annunciato ieri la scelta di votare la mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova – ma no, che avete capito? Mica quella del centrosinistra. A chi ha l’ingrato compito di raccontare o commentare la politica italiana, ormai, conviene partire dalle precisazioni. Ecco dunque la precisazione di Rampelli, vicepresidente della Camera e dirigente di primo piano di Fratelli d’Italia: «Il voto favorevole di Fratelli d’Italia cui mi riferivo in un’intervista radiofonica è sulla mozione unitaria proposta dal centrodestra che, partendo dall’assalto alla sede della Cgil, chiede la condanna di ogni forma di totalitarismo e auspica lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica. Quindi non riguarda Forza Nuova, ma tutti i soggetti che utilizzano i suoi stessi metodi». Avendo riportato, preventivamente, il testo integrale della precisazione, mi permetto di sottolineare quello che mi pare il passaggio-chiave: «Non riguarda Forza Nuova». Ricapitolando, siccome sabato scorso esponenti di Forza Nuova hanno guidato un assalto alla sede della Cgil, devastandone gli uffici, per poi tentare di attaccare anche Palazzo Chigi e il Parlamento, il centrodestra ha ritenuto giusto presentare una mozione che condanna «ogni forma di totalitarismo» e auspica «lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica». Ma perché – si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori – c’erano forse altri partiti, movimenti, associazioni culturali o circoli ricreativi, a parte Forza Nuova, a dare l’assalto alla Cgil? No, nessun altro. Fermamente intenzionato a spezzare le reni alla logica, sempre ieri, Rampelli dichiara inoltre all’Huffington post: «Per coincidenza astrale, questi fatti accadono solo sotto elezioni. Ne deduco che Forza Nuova ha un’alleanza di ferro con il Partito democratico». Coincidenza astrale o congiunzione casuale che sia, l’affermazione sembra riecheggiare la teoria di Ignazio La Russa, altro autorevolissimo esponente di Fratelli d’Italia, riportata due giorni fa dal Corriere della sera, circa la reale motivazione per cui, fino alla settimana scorsa, né l’attuale esecutivo né i precedenti si sarebbero preoccupati di sciogliere partiti e movimenti neofascisti: «Delle due l’una: non avevano le motivazioni per scioglierli o hanno preferito tenerli lì, magari come strumenti utili per la strategia della tensione?».

L’ipotesi che nessuno lo abbia fatto prima semplicemente perché fino alla settimana scorsa nessuno aveva assaltato la sede della Cgil, evidentemente, non ha sfiorato né La Russa né Rampelli nemmeno per un attimo. Eppure, considerando da dove erano partiti, l’intero dibattito potrebbe sembrare persino un passo avanti. La prima dichiarazione a caldo di Giorgia Meloni, che di Fratelli d’Italia è la leader, cominciava infatti con le parole: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco». E pensare che sarebbe bastato cercare la parola «squadrismo» su un buon dizionario. D’altronde, nel momento in cui faceva queste dichiarazioni, Meloni si trovava nel contesto non troppo adatto di una manifestazione di Vox, il partito neofranchista spagnolo, impegnata a ripetere dal palco, in perfetto castigliano, perché si sente orgogliosamente italiana. Riciclando per l’occasione la traduzione letterale del suo cavallo di battaglia: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana…». In pratica, una via di mezzo tra un comizio di Giorgio Almirante e un balletto su Tik Tok. Nonché la conferma del fatto che, se mai un giorno lontano rivivremo la tragedia di una dittatura fascista, al posto dei cinegiornali Luce ci sarà Striscia la notizia. E questa sarà la sigla. Del resto, stiamo parlando del partito che ha candidato a sindaco di Roma un signore, Enrico Michetti, che l’anno scorso, non settant’anni fa, a proposito dell’Olocausto, scriveva: «Mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta». Una frase talmente vergognosa che ha spinto Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, a twittare subito (pur senza alcun diretto riferimento a Michetti, beninteso): «Il ricordo della Shoah non può e non deve essere patrimonio degli ebrei ma di tutti ed ognuno. Perché la Shoah è l’emblema del male, il male ontologico, come direbbe Heidegger, l’essenza categoriale del male. Ed il male si combatte tutti uniti, senza dubbi, senza divisioni». Forse però un dubbio sarebbe stato meglio farselo venire, considerato che Martin Heidegger, oltre che un grande filosofo, era un nazista convinto. Ma queste ormai sono sottigliezze cui non fa più caso nessuno. Alla manifestazione dei no green pass, non so se l’avete notato, esponenti di un partito neofascista hanno sfilato per protestare contro la «dittatura sanitaria» e gridando «libertà! libertà!», prima di assaltare la sede della Cgil e dopo che il magistrato Angelo Giorgianni, dal palco, aveva invocato contro il governo nientemeno che un nuovo «processo di Norimberga». E quelli, con le loro belle svastiche tatuate sul braccio, ad applaudire a più non posso. Forse allora aveva ragione la mujer italiana, madre y cristiana di cui sopra: la matrice non è poi così chiara. Nemmeno agli autori. D’altra parte, parafrasando Altan, a chi di noi non capita di domandarsi, almeno ogni tanto, quale sia la matrice di tutte le stronzate che fa? 

Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Altro che minaccia fascista: ecco cosa interessa davvero agli italiani. Francesca Galici il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ultima rilevazione social ha evidenziato il solco tra i Palazzi e il popolo, preoccupato per il suo futuro in vista dell'introduzione del Green pass per i lavoratori. Il weekend di scontri nelle principali città italiana ha inevitabilmente influenzato il dibattito settimanale. La politica e i cittadini si sono confrontati su diversi temi legati a quanto è accaduto a Roma e a Milano e Socialcom ha restituito una fotografia fedele del sentimento del Paese attraverso il flusso delle discussioni social che, ormai, può essere considerato uno specchio affidabile del cosiddetto Paese reale. Le rilevazioni Socialcom hanno messo in evidenza come ci sia ormai una grande distanza tra i temi affrontati dal Paese reale e quelli che, invece, vengono spinti da una certa politica, che continua a muoversi sull'onda della propaganda ideologica, cieca davanti ai veri problemi degli italiani che riguardano soprattutto il lavoro. Al centro del dibattito nazionalpopolare c'è soprattutto il Green pass e ogni altro argomento, anche gli scontri, sono a questo correlato. Tra il 1 e l'11 ottobre, in Italia, "sono state oltre 1,53 milioni le conversazioni in rete sul tema, che hanno prodotto 7,26 milioni di interazioni". Numeri importanti che hanno raggiunto il picco il 10 ottobre, giorno successivo all'assalto alla Cgil e agli scontri, con 872mila pubblicazioni. È vero che le immagini di Roma in stato di guerriglia urbana hanno colpito l'opinione pubblica ma sono state le preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro e la conseguente sospensione del salario a catalizzare maggiormente l'attenzione. Il Paese reale è più interessato a capire come farà a mantenere le proprie famiglie piuttosto che a una ipotetica minaccia fascista, argomento che da sinistra viene sostenuto fin dai momenti immediatamente successivi allo scontro. Ma la percezione dei cittadini in questo momento è un'altra ed è alienata dalla preoccupazione per il proprio futuro lavorativo. Non c'è connessione tra le due posizioni e lo certifica anche il report Socialcom: "I termini legati al mondo del lavoro sono utilizzati con più frequenza rispetto al termine 'fascista'. Segno che gli italiani percepiscono con maggior preoccupazione il pericolo della perdita dell’impiego, o del salario, piuttosto che una minaccia estremista". Nella classifica dei termini correlati al macro argomento "Green pass", nei primi tre posti per numero di interazioni si trovano, in quest'ordine: "vaccinare", "15 ottobre", "vaccino". Seguiti da "entrare", "Italia", "vivere", "lavorare". Il termine "fascista" è scivolato al 14esimo posto.

E proprio questa distanza è alla base di un'altra importante rilevazione effettuata da Socialcom. Tutti i politici hanno subìto un contraccolpo nel sentiment ma, come si legge nel report, "a sorprendere più di tutti è il crollo del sentimento positivo nei confronti di Maurizio Landini, leader della Cgil". In particolare, in sole 48 ore il sentimento negativo verso Landini è passato dal 50% dell’8 ottobre al 91,21% del 10 ottobre. E questo nonostante l'assalto alla sede romana del sindacato di cui Landini è segretario. Socialcom fornisce un'ipotesi per giustificare questo calo, correlato a quello di Enrico Letta: "È presumibile ipotizzare che gli utenti abbiano giudicato affrettate le conclusioni dei due relative alla matrice degli atti di violenza".

Francesca Galici

Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

No pass, disoccupati, complottisti, centri sociali: le (molte) anime della protesta. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Non solo estremisti di destra o sinistra: c’è anche chi è in povertà, chi teme il futuro, precari, rider e pensionati. Il sociologo Domenico De Masi: ci sono cinque milioni di poveri assoluti e sette di poveri relativi, una insicurezza che tracima. Come i sanfedisti d’un tempo lontano, anche i ribelli del green pass possono pensare che lassù qualcuno li ami. Carlo Maria Viganò, dopo aver tuonato in videomessaggio contro «la tirannide globale» ed essersi spinto, crocefisso al collo, a sostenere che «i camion di Bergamo contenevano poche bare» e che ai medici d’ospedale era stato «vietato di somministrare cure» anti Covid, ha benedetto i diecimila di piazza del Popolo invitandoli a recitare il Padre Nostro prima della pugna. La predica complottista del controverso monsignore ostile a Bergoglio è stata poi oscurata dall’assalto di Castellino, Fiore e dei camerati di Forza nuova contro la sede della Cgil. E tuttavia sarebbe miope derubricare a folclore antilluminista da un lato o a rigurgito neofascista dall’altro il magma ribollente che da sabato scorso a sabato prossimo ha unito e unirà, in decine di sit-in e marce, sindacati di base e antagonisti, disoccupati e camalli, camionisti, mamme spaventate e pensionati indigenti, rider e insegnanti, contro il lavoro povero, l’esclusione dalla ripresa, la precarietà, le scorie di un anno e mezzo di reclusione collettiva: un mix di rivendicazioni per un nuovo autunno caldo al quale l’obbligo di passaporto sanitario sembra fare da collante e casus belli. Siano centomila come i manifestanti delle quaranta piazze di sabato scorso o il milione in sciopero lunedì secondo le sigle di base o, ancora, siano quelli che già domani si sono dati nuovi appuntamenti di battaglia, i disagiati di questa stagione ribollente si muovono veloci e si autoconvocano sui social (quarantuno le chat e i canali Telegram censiti a settembre dagli analisti di «Baia.Tech», con circa duecentomila partecipanti). Fatte salve le buone ragioni per sciogliere un’organizzazione che pare ricadere in pieno nelle previsioni della legge Scelba, le manifestazioni successive, da Milano a Trieste, da Torino a Napoli e in mezza Italia, dicono molto altro. «Al netto della violenza, la tensione sociale e le preoccupazioni per lavoro e condizioni di vita sono oggettive», ammette Valeria Fedeli, senatrice pd dalla lunga militanza sindacale: «È un passaggio anche drammatico, con scadenze come lo stop al blocco dei licenziamenti a fine mese e la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali. La responsabilità delle organizzazioni confederali è aumentata, le associazioni minoritarie cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio». Le ricorda il clima del ’77? «Con una differenza, però: stavolta abbiamo risorse di sostegno che dobbiamo fare arrivare, effettivamente, alla gente. Politica e sindacato devono controllare che avvenga».

Un carico di rancore

La sfilata di Milano sotto la Camera del Lavoro, con Cobas, Usb, neocomunisti e centri sociali che hanno strillato «i fascisti siete voi!» ai militanti della Cgil, in cordone a difesa della loro sede, ha impressionato per il carico di rancore in giornate (dopo il sabato egemonizzato da Forza nuova a Roma) che avrebbero dovuto portare solidarietà nella sinistra: pia illusione. Ai microfoni di Radio Radio (l’emittente romana cara al candidato del centrodestra capitolino Enrico Michetti), il segretario comunista Marco Rizzo (stalinista mai davvero pentito), dopo aver bastonato il Pd come «geneticamente mutato» e il green pass quale «misura discriminatoria», s’è avventurato a intravedere una «nuova strategia della tensione» (teoria peraltro rilanciata ieri alla Camera da Giorgia Meloni) che avrebbe «permesso» l’aggressione alla Cgil di Roma: «La polizia aveva tutti gli strumenti per fermare quel gruppo di persone. O hanno lasciato fare o qualcosa di peggio. Dopo quell’episodio si rafforza il governo e vengono criminalizzati i movimenti di opposizione. Si stringe sulle manifestazioni e i cortei d’autunno. Questo governo vuole la divisione del popolo perché così non si vedono 60 milioni di cartelle esattoriali che arriveranno, non si vedono le nuove norme sulla Green economy con un aumento delle bollette dell’energia». Se radicalismi di destra e sinistra s’incrociano nel complottismo, teorie di sapore antico si mescolano e si moltiplicano, oggi, tramite i moderni strumenti del mondo globale. Su Telegram i legali del Movimento Libera Scelta indottrinano chi, fra i tre milioni e passa di lavoratori sprovvisti di green pass, voglia tenere duro e chiamano allo sciopero generale per domani: «Non presentatevi al lavoro e impugnate la sanzione, il governo non ha dimostrato la persistenza dell’epidemia, si viola l’articolo 13 della Costituzione». L’avvocata Linda Corrias, citando Gandhi, invita anche «alla preghiera e al digiuno, che necessitano di dedizione e pertanto di astensione dal lavoro per essere in pienezza di grazia: questo l’informazione di regime non ve lo dirà mai».

Veri dolori e assurde paranoie

E mentre rimbalzano di post in post locandine sulle manifestazioni di domani (a Messina in piazza Antonello ore 10, a Roma in Santi Apostoli con la pasionaria Sara Cunial), Hard Lock si chiede se «qualcosa di concreto si organizzerà anche a Napoli» (dove sbucano gli immancabili neoborbonici), Michele impreca perché «le ore passano e tra poco resterò senza lavoro, Paese gestito da parassiti velenosi», si minacciano blocchi a porti, trasporti e rifornimenti, Gianluca è convinto che «ricattano i giovani con la discoteca e li spingono a vaccinarsi», e Angelo scolpisce il suo aforisma: «Non ci sono più i giovani d’una volta!». È questo insondabile minestrone di pubblico e privato, veri dolori e assurde paranoie a complicare le analisi. Perché se è ovvio che vadano presi molto sul serio gli 800 (su 950) portuali triestini i quali (cantilenando «Draghi in miniera/Bonomi in fonderia/questa la cura per l’economia») minacciano di fermare lo scalo, o i loro compagni di Genova che già hanno fermato Voltri non tanto per il green pass quanto per il contratto integrativo, una vertigine coglie chi si imbatta nella teoria del «transumanesimo» di cui Draghi sarebbe apostolo («fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti, siano questi umani, intelligenze artificiali, animali o eventuali extraterrestri...») o nelle «rivelazioni» sulla soluzione fisiologica inoculata a Speranza in luogo del vaccino e sulla letalità dei vaccini medesimi (un caso su due su un campione di... dieci) propugnata da una dottoressa altoatesina assai contrita. Per una testa balenga di «Io Apro» finito in copertina per essersi filmato durante l’incursione nella Cgil, «si sfonda! si sfonda!», ci sono tanti gestori di bistrot, bar e ristoranti piegati da diciotto mesi di provvedimenti ballerini. Per un violento, cento violentati.

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

Antonio Rapisarda per “Libero Quotidiano” il 12 ottobre 2021. «È impossibile che Beppe, nato a Milena, abbia fatto un errore così enorme...».

E invece Peppe Provenzano, vice di Letta, lo ha detto eccome: vuole Giorgia Meloni fuori dall'arco repubblicano...

 «Uno come lui, formato alla scuola del Pci siciliano, un allievo di Emanuele Macaluso - il comunista che fece in Sicilia il governo col Msi - non può conoscere l'odio politico. Due sono le cose: o lo ha rovinato Roma o non è stato lui ad aver scritto tale follia. Ma il suo fake...».

Pietrangelo Buttafuoco, quando si parla dei suoi compatrioti di Sicilia, adotta la moratoria della polemica. Li affonda, quando il caso lo richiede, con l'ironia. La stessa cosa capita quando la fiction della politica lo costringe ad intervenire su un tema che reputa lunare come il procurato allarme chiamato "onda nera".

Prima l'inchiesta sulla fantomatica "lobby sovranista". Poi la tirata di giacchetta dopo l'assalto alla sede della Cgil, ad opera di facinorosi che nulla hanno a che fare con FdI. E mancano ancora cinque giorni al ballottaggio...

«Strategia della tensione, per tutta questa settimana saremo negli anni '70... Detto ciò, se al posto di Giorgia Meloni ci fosse Gianfranco Rotondi al 20%, in contrapposizione alla sinistra, Fanpage e Formigli avrebbero di certo approntato un reportage con un infiltrato mettendo insieme la lobby dei pedofili della Chiesa, le tangenti della neo-Dc, la Mafia e le organizzazioni clandestine inneggianti a Sbardella o a Salvo Lima...».

Si è capito che il "metodo Fanpage" non ti piace...

«No, anzi, mi piace. Peccato sprecarlo per così poco. Sarebbe stato utile un infiltrato sulla rotta della Via della Seta alle calcagna di Romano Prodi a Pechino: un bel Watergate. Così invece fa ridere: troppo olio per un cavolo...».

Che poi fa sorridere che con tutti questi presunti "neri" in azione sia sempre la sinistra ad occupare i ' posti di governo senza vincere un'elezione.

«Premessa. È perfettamente inutile vincere le elezioni se non sei nelle condizioni di poter comandare. Dal dopoguerra a oggi c'è un unico sistema di potere: che è quello guelfo. In assenza di ghibellini, i guelfi hanno preso tutte le parti in commedia: ereditando un sistema di potere che è figlio dei due fondamentali partiti, il Pci e la Dc, con un'unica metodologia, che è quella gesuitica. Ora non c'è dubbio che per fare carriera una signorina di buona famiglia debba avere la tessera del Pd: questa gli consente di avere carriere in tutti gli ambiti a prescindere da qualunque sia il risultato elettorale».

Diciamo poi che questa cospirazione sembra una copia venuta male de "Vogliamo i colonnelli" di Monicelli...

«Non Monicelli, Renzo Arbore piuttosto. Il Barone Nero su cui Formigli mobilita l'allarme nero altro non è che la prosecuzione di Catenacci in altro canale radio».

Catenacci?

«Era il personaggio interpretato da Giorgio Bracardi in Alto Gradimento, la trasmissione di Renzo Arbore. Il Barone Nero di oggi, invece, prende notorietà grazie ai microfoni de La Zanzara di Cruciani. Soltanto la malafede e la raffinata furbizia può costruire un capitolo del giornalismo su personaggi simili. Altrimenti l'ultimo Nobel lo avrebbero già dato a loro». 

Il punto è che il pueblo unido nelle redazioni sembra essersi messo in testa un obiettivo: spegnere la Fiamma. Fare del 20% di FdI una caricatura.

«Il metodo è sempre quello: o ridicolizzi o criminalizzi. Accadde col Psi di Bettino Craxi. E il berlusconismo naturalmente: c'erano le donne che venivano considerate alla stregua di puttane; il partito di plastica; "il banana" e "al Tappone". Sono cose che abbiamo già visto. È Karl Mark ad avere dato un indirizzo e un metodo: calunniate, calunniate, calunniate, qualcosa resterà. Ma poi soprattutto è una capacità di distrazione rispetto ai fatti veri».

 Si aggrappano a un saluto romano, fatto come sfottò...

«Ti confesso che chi mi ha insegnato come si fa perfettamente è Eugenio Scalfari. Ora, con questa logica da cancel culture che succede, che lo tolgono dalla gerenza del suo giornale e invece che Fondatore di Repubblica diventa Fondatore dell'Impero? C'è anche molto provincialismo in queste cose. È un'applicazione psicotica della cancel culture».

Come si risponde a questa campagna nevrotica?

«Avendo una struttura d'industria editoriale davvero autorevole, professionale e incisiva. Quelli parlano di saluti romani? E tu parlagli invece dello scandalo delle mascherine di Arcuri - cosa loro - e dei traffici in seno alla magistratura, sempre cosa loro, delle lottizzazioni in Rai, cosissima loro...».

Dimenticavo. Non si contano le esortazioni a Giorgia Meloni da parte dei soliti noti: devi fare come Fini. Ossia, per dirla con la critica di Tarchi, rinnegare senza elaborare...

«Ha ragione Tarchi ma questa formulazione retorica - devi fare, devi fare - è l'estremo collante della malafede italiana. Finirà quando Meloni non diventerà più "pericolosa" per il sistema di potere. L'argomento disarmante è quello che ha usato lei stessa: Rachele Mussolini che prende i voti è pericolosa. Alessandra Mussolini, la sorella, che invece è a favore del ddl Zan è meravigliosa. Nel frattempo ti buttano nel '900 con l'aiuto dell'arbitro: perché sanno che quando tu subirai fallo - grazie agli utili idioti sempre presenti - l'arbitro chiuderà un occhio sì, ma per l'altro». 

Questa caccia alle streghe durerà fino alle Politiche. Cosa deve fare la destra per scansare la trappola?

«Misurarsi con la realtà. Come dice sempre Giancarlo Giorgetti "quando sei all'opposizione devi approfittarne per studiare e per farti trovare pronto". L'unica cosa da fare è quella di avere una prospettiva... uscire fuori dalla pesca delle occasioni». 

FdI al 20% non sembra frutto del caso.

«È il 20% di Giorgia Meloni, non di FdI. La vera scommessa è costruire un progetto politico, non un partito». 

La sinistra, invece, continuerà a sperare politicamente - come scrivesti più di dieci anni fa - di cavasela con un "fascista"...

«Tutti quelli che fanno professione d'antifascismo in assenza di fascismo, oggi - compresi tanti degli attuali vertici di potere - hanno l'aria e la faccia di quelli che, ieri, in presenza di fascismo, se ne sarebbero stati in orbace, fascistissimi. E già li vedi: gli scrittori sinceramente democratici reclutati nei Littoriali, gli attori dell'impegno al seguito di Vittorio Mussolini, il Corriere della Sera in camicia nera e con Otto e Mezzo - ogni sera - a segnare l'ora del destino»!

I vigilanti dell’antifascismo sono come gli stalker. E la loro vittima è Giorgia Meloni. Annalisa Terranova mercoledì 6 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. Gli animi sono sovreccitati. Un po’ troppo. La sinistra crede che la destra sia già liquidata. I talk show si stanno attrezzando per la caccia al nostalgico. Ora hanno trovato un consigliere circoscrizionale di FdI a Torino che in un messaggio privato ringrazia i “camerati” che lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Sono cose gravi, cose che allarmano, cose che devono mobilitare le coscienze. Poi ci sono quelli della redazione di Fanpage che pensano di meritare il Pulitzer. E quelli che sui social vanno facendo loro complimenti da una settimana. Sono veri ghostbusters, acchiappafantasmi, dovrebbero fare un film su questi eroi del bene. In questo impazzimento generale, occhio, possono rimproverarti di tutto. Tipo: hai votato Rachele Mussolini. Che brutto segnale. Il Paese si preoccupa, il Paese non lo meritava. Dice: ma scusate era in lista, era candidabile, era tutto ok, non è mica un reato darle la preferenza. E no caro elettore: prima di votarla dovevi dire che eri antifascista. Che so al presidente del seggio, oppure scriverlo sulla scheda, una notarella a margine: scusate, voto Rachele Mussolini ma sono antifascista eh, tranquilli. Dice: ma prima di lei è stata votata e rivotata Alessandra Mussolini. Non fa niente. Alessandra ora è una “pentita”. C’è del fascismo strisciante, signori. Occorre denunciarlo. La Meloni non lo denuncia, vergogna.  Ma chi lo dice? Lo dice un certo Andrea Scanzi. Ma anche Enrico Letta, quello che crede di avere l’Italia in pugno ed è diventato più querulo di un cardellino. E allora bisogna fare molta attenzione, perché i vigilanti dell’antifascismo sono sempre in agguato, proprio come gli stalker che non mollano la vittima un secondo. Ogni segnale, anche il più innocente, rientra nel pacchetto “fascista perfetto”. Pure se ti vesti di nero. Il look è importante. Il nero evoca lo squadrismo, non sia mai. Tutto è ormai sotto il loro controllo. Sono pervasivi, sono maestri del lessico. Meloni dice che non c’è posto per i nazisti nel suo partito? Mica basta eh. Deve dire non c’è posto per i fa-sci-sti. Se dice che è contro ogni regime totalitario vuol dire che si rifugia in un artificio dialettico. Dice: ma nella Costituzione non c’è l’obbligo di dichiararsi antifascisti. Ma stiamo scherzando? I vigilanti antifascisti non ti consentono questa osservazione. Bisogna perpetuare gli schemi del 1945 perché altrimenti la sinistra che fine fa? A che serve? Chi se la fila più? Va bene, allora condanniamo il fascismo e finalmente storicizziamo il periodo. Non l’ha già fatto Alleanza nazionale a Fiuggi? Ma siamo matti? Non si può fare. Il fascismo è eterno. Lo dice Umberto Eco. E poi certi riti di purificazione vanno ripetuti nel tempo. Tutte le “religioni” lo impongono, e quella antifascista non fa eccezione.

Dice: ma allora siete ossessionati dal fascismo. E no, non si è mai abbastanza adoratori della religione dell’antifascismo. Mica lo si fa per fanatismo, ma per essere buoni cittadini. E chi non vuole aderire a questa religione? Lasciamo stare, per loro “a Piazzale Loreto c’è sempre posto”. Dice: ma fior di storici hanno confutato la tesi crociana del fascismo come “malattia morale” degli italiani. Storici? E chi sono? Noi si guarda ai topic trend, ai troll di Putin. E’ così che la Bestia ti azzanna…Ma non si potrebbe guardare avanti? Lasciarsi alle spalle il passato? Consegnare gli odi della guerra civile alla storia? No, mica si può. E perché? Eppure lo disse un comunista, uno che si chiamava Luciano Violante. Siamo impazziti? E Saviano poi cosa scrive sui social? E Jonghi Lavarini, lo vuoi lasciare lì a ricostituire il partito fascista senza battere ciglio? I vigilanti antifascisti non ti mollano un secondo. Ti spiano i messaggi su whatsapp, già è tanto che non pretendano di guardarti in biblioteca. Ascoltano come parli, che sport fai, cosa ordini dal menu, osservano i like che hai messo sui social, e magari te ne è scappato uno a un post della cugina di tuo cognato che dava ragione a Salvini. E magari sei passato una volta nella vita vicino a Predappio. O ti sei fatto un selfie al Foro Italico (ex Foro Mussolini). E allora non c’è scampo. Il fascismo è un’infezione che ritorna come un herpes e i guardiani lo devono segnalare al primo sintomo. Guai a distrarsi. Lo fanno per tutti noi. Per renderci più democratici, per renderci migliori. Loro sono i detentori del tampone ideologico che scova il contagio. Non c’è obiezione che tenga. Lo stalking politico ti insegue ovunque. Siamo tutti sotto sorveglianza.

Solo i regimi sciolgono i partiti. Sciogliere Forza Nuova è un’idea cretina, tentazione autoritaria e illiberale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. La legge Scelba è del 1952. Prevede il reato di apologia di fascismo. Probabilmente era stata immaginata per poi permettere un secondo passo e la messa fuorilegge del Msi, partito neofascista fondato nel 1947 da Giorgio Almirante e Arturo Michelini. Pochi mesi dopo la legge Scelba nacque l’idea della nuova legge elettorale – che la sinistra ribattezzò “legge truffa” – la quale doveva servire a consegnare il 65 per cento dei seggi parlamentari ai partiti che – dichiarandosi alleati – avessero ottenuto più del 50 per cento dei voti alle elezioni. La Dc disponeva nel 1952 del 48 per cento dei voti e il successo della legge truffa era quasi assicurato, e avrebbe ridotto in modo evidentissimo la forza parlamentare delle opposizioni. In particolare del Psi e del Pci. Che si opposero fieramente, insieme al Msi. La legge fu approvata, dopo una feroce battaglia parlamentare, dopo l’ostruzionismo e lotte persino fisiche tra Dc e sinistre. Ma alle successive elezioni il blocco centrista prese solo il 49,9 per cento dei voti, il premio di maggioranza non scattò, De Gasperi fu travolto, la legge cancellata. E nessuno più pensò l’idea balzana di sciogliere il Msi. Poi, negli anni settanta, la questione tornò a porsi. Lotta Continua, nei cortei, gridava lo slogan “Emme esse i / fuorilegge/ a morte la Diccì / che lo protegge”. Però il Pci si oppose sempre a questa linea. Il Pci – dico – quello ancora legato stretto stretto a tutte le sue tradizioni e litanie comuniste. Però il Pci era un partito politico. Faceva politica. Era guidato da dirigenti colti, preparati, esperti. Nel Pci si capiva quali conseguenze devastanti poteva avere lo scioglimento del Msi. Specialmente per le opposizioni, che sarebbero finite tutte sotto tiro e minacciate. Ma anche – in generale – per la tenuta della democrazia. Il Pci ci teneva molto alla saldezza della democrazia, perché era l’acqua nella quale nuotava. Del resto si sapeva benissimo che la stessa legge Scelba, varata per colpire il Msi, apriva la prospettiva di iniziative legislative contro il Pci, se non anche contro il Psi. Mario Scelba, ministro dell’Interno, era l’espressione della parte più reazionaria della Democrazia cristiana. Ho scritto queste cose perché mi pare che l’idea di sciogliere Forza Nuova sia una assoluta idiozia. È chiaro che non è possibile nessun paragone tra Forza Nuova e il Msi anni 50. Forza Nuova è un gruppetto, il Msi era un partito strutturato e popolare. Ed era anche – nessuno credo che lo possa negare – un partito abbastanza nettamente fascista. Il problema sta nella natura del provvedimento, a prescindere dal bersaglio. Sciogliere un partito, un gruppo, un’organizzazione, per motivi ideologici è una stupidaggine gigantesca, che porta all’immagine della democrazia una ferita molto più grande della modestia del gesto. E che apre varchi pericolosissimi. Se oggi si scioglie Forza Nuova niente esclude che tra qualche mese o tra qualche anno qualcuno chieda lo scioglimento di organizzazioni di sinistra. Anche più forti e radicate di Forza Nuova. Riducendo sempre di più i margini del possibile dissenso politico. Oltretutto alle richieste di scioglimento di Forza Nuova – che sembrano un po’ ripetizioni quasi automatiche di slogan e atteggiamenti di 30 anni fa – si accompagna la folle idea del vicesegretario del Pd di mettere il partito di Giorgia Meloni (che forse oggi, secondo i sondaggi, è il più grande partito italiano) fuori dall’arco democratico e repubblicano. Siamo al diapason della tentazione autoritaria e illiberale. Io mi auguro che Letta intervenga in fretta. Può restare vicesegretario del Partito democratico una persona che chiede di prendere a frustate la nostra democrazia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il solito vizietto della sinistra: l'allarme fascismo scatta alla vigilia di ogni elezione. Francesco Giubilei il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. ​A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. Siano elezioni politiche, regionali o amministrative, le accuse della sinistra al centrodestra di essere fascista o di strizzare l'occhio al fascismo, tornano in auge e le elezioni di questi giorni non sono da meno. Poco importa se la coalizione di centrodestra non abbia nulla a che fare e abbia preso le distanze in modo netto dall'attacco alla Cgil e da Forza Nuova, la retorica della destra fascista è dura a morire ed è funzionale agli scopi politici della sinistra. D'altro canto, come sottolinea la trasmissione Quarta Repubblica, le tempistiche degli ultimi giorni sono quantomeno sospette: a poche ore dal voto è uscita l'inchiesta di Fanpage, la settimana successiva è stata mandata in onda la seconda puntata fino ai fatti di Roma in cui c'è stata un'evidente falla nella sicurezza. Il pericolo fascista evocato da più parti torna con cadenza ciclica nonostante i leader del centrodestra si siano espressi con chiarezza contro ogni forma di estremismo e violenza. Basta scorrere le cronache degli ultimi trent'anni per rendersi conto di come lo spauracchio fascista sia utilizzato dalla sinistra con finalità politiche ed elettorali. Vale la pena rileggere la prima pagina de l'Unità del 12 settembre 2003 che titola a carattere cubitali «Berlusconi come Mussolini». Sin dalla sua discesa in campo, Berlusconi si è dovuto difendere dalle accuse di fascismo nonostante la sua estrazione liberale, in particolare per l'alleanza con An. Così, mentre Gustavo Zagrebelsky nel 1994 affermava «c'è il rischio di un nuovo regime», Berlusconi rispondeva «Fascismo? L'ho già condannato, i pericoli sono altri». Una condanna non sufficiente visto che nel 2009 il vicedirettore de l'Unità firmava un editoriale dal titolo emblematico: «Il fascista di Arcore». Nonostante la svolta di Fiuggi e la lezione di Pinuccio Tatarella di allargare la destra fondando Alleanza Nazionale, Giorgio Bocca, intervistato su l'Unità, bollava il nuovo partito come composto da «veri fascisti». A poco sono servite le parole di Gianfranco Fini nel 2003 sul «fascismo male assoluto» che fecero tanto discutere e, se oggi Fini è riabilitato dalla sinistra per attaccare gli attuali leader del centrodestra, al tempo le accuse ad An di essere un partito neofascista erano quotidiane. Più o meno lo stesso che accade a Fdi nonostante Giorgia Meloni, già nel 2016, alla domanda di Lucia Annunziata «lei è fascista?», avesse risposto: «Io sono di destra. Sono nata nel 1977, quindi mai stata fascista». Non è andata meglio alla Lega e, se le dichiarazioni contro Salvini si sprecano, già nel 2005, l'allora parlamentare socialista Ugo Intini, intervistato su l'Unità, affermava: «gli estremismi di Pontida sono di tutto il Polo» aggiungendo «il fascismo leghista è sottovalutato». Gli attacchi peggiori a Salvini avvengono proprio nelle settimane precedenti le elezioni come nel caso delle europee del 2019 quando Furio Colombo dichiarava: «Salvini fascista, ma nega come facevano i mafiosi», stessa accusa rivolta dal fotografo Oliviero Toscani, mentre a inizio 2019 lo storico Luciano Canfora a l'Espresso sosteneva «Matteo Salvini alimenta la mentalità fascista». Ma c'è chi, come lo scrittore Claudio Gatti, si è spinto oltre intitolando un suo libro I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. Un modus operandi utilizzato anche in occasione delle elezioni del 2018 e testimoniato da un articolo di Annalisa Camilli del 5 febbraio 2018 su Internazionale intitolato «Da Fermo a Macerata, la vera emergenza è il fascismo». Come se non bastassero i media nostrani, anche il New York Times, a poche settimane dalle politiche, denunciava il rischio di «antieuropeismo e ritorno al fascismo». Ripercorrendo questi episodi, viene da chiedersi se non esista un altro problema nel nostro paese: una sinistra incapace di accettare un confronto democratico con il centrodestra senza dover in ogni occasione attualizzare un clima da guerra civile polarizzando il dibattito e accusando di fascismo anche chi non ha nulla a che fare con violenti ed estremisti e, pur riconoscendosi nei valori democratici, non si definisce di sinistra.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più i 

Smascherata l'ipocrisia della sinistra: "Quando Fn li faceva vincere..." Francesco Boezi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Storace ricorda quando, con Forza Nuova sulla scheda, il centrodestra perse voti. E sulla fiamma nel simbolo rammenta la parabola di Fini. É un Francesco Storace in vena di ricordi quello che ha commentato le recenti vicende riguardanti Forza Nuova e la relativa mozione di scioglimento dell'organizzazione estremista avanzata da parte del Partito Democratico. Storace ha infatti elencato una serie di circostanze in cui, la presenza del partito di Roberto Fiore sulle schede elettorali, ha a parer suo penalizzato la destra parlamentare, contribuendo ad una dispersione di voti che è servita al centrosinistra per trionfare in determinati appuntamenti elettivi. La prima riflessione del vicedirettore de Il Tempo, però, è dedicata all'accomunare la destra in generale:"La gravità del comportamento politico della sinistra - ha fatto presente l'ex presidente della Regione Lazio - è voler assimilare chi ha fatto violenze a una comunità che le violenze le subisce. Mentre parliamo, in questi mesi si sono accumulate azioni criminali contro FdI, Lega e addirittura il sindacato Ugl, senza che nessuno abbia condannato o si sia sognato di sciogliere le organizzazioni di sinistra". Insomma, la destra che siede in Parlamento sarebbe la prima vittima delle violenze. E l'associazione con Forza Nuova sarebbe unicamente strumentale. Poi l'ex Alleanza Nazionale, che è stato sentito in merito dall'Agi, presenta un excursus sui rapporti tra la destra di governo ed i microcosmi posizionati sul lato dell'estremismo ideologico: "È evidente - ha continuato l'ex leader laziale - che c’è la strumentalità. Chi conosce la destra sa che c’è sempre stato fin dai tempi del Msi uno spartiacque tra i partiti e le formazioni extraparlamentari. Ci sono state occasioni di contatto - ha ammesso - ma mai sulla pratica della violenza, e comunque si è trattato di occasioni contingenti. Si vuol far partire una sorta di abiura per un’operazione politica di parte". Quindi Forza Nuova e Fratelli d'Italia, ad esempio, sono due universi ben distanti, pure per via del pregresso. A questo punto, arriva il passaggio sulle sconfitte subite, secondo Storace, pure per via di Forza Nuova: "Fiore e Casapound - ha ricordato alla fonte sopracitata - li ho avuti contro alle Regionali, quando correvo contro Zingaretti ma all’epoca la sinistra non insorgeva perchè toglievano i voti a me. Nel 2005 stessa storia, con la Mussolini, che fece vincere Marrazzo". Due episodi precisi in cui il centrodestra non è riuscito ad affermarsi pure a causa dei voti andati a finire tra le sacche di Forza Nuova e dintorni. Sulla mozione di scioglimento, peraltro, l'ex vertice di An segnala la mancata unità persino tra gli esponenti della sinistra, citando Stefano Fassina: "Ho letto le sue affermazioni e ha ragione: se la mozione sullo scioglimento di Forza Nuova venisse votata solo dalla sinistra, vorrebbe dire che solo quella parte è depositaria di valori come la democrazia". E ancora: "Tutto appare quindi strumentale, in campagna elettorale. Addirittura è stata indetta una manifestazione sindacale durante il silenzio elettorale. Che ci andrebbero a fare Salvini e la Meloni, a prendersi i fischi?". Dunque la manifestazione antifascista annunciata sarebbe, in buona sostanza, una trappola. C'è, infine, chi ha attaccato Giorgia Meloni per via della presenza della fiamma nel simbolo del partito che presiede. Ebbene, Storace ha ancora pescato dalla memoria, rammentando a tutti come la vicenda non sia proprio una novità, per usare un eufemismo: "Ebbene - ha detto riferendosi a Gianfranco Fini - lui è andato al governo nel 1994 come ultimo segretario del Msi, è stato vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera, e nessuno gli ha mai rinfacciato la Fiamma tricolore. Addirittura Mirko Tremaglia - ha chiosato Storace - ex-combattente della Rsi, è stato ministro. Punire violenza d’accordo, ma che c’entra con l’abiura".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali e

Ecco chi sono i veri violenti: estremisti rossi e anarchici. Lo dice lo studio Ue. Chiara Giannini il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. I dati del rapporto sul terrorismo: nel 2020 mai attacchi da destra. L'Italia è il Paese più colpito dagli assalti degli ultrà di sinistra. I partiti di sinistra chiedono di sciogliere Forza Nuova e tutte le realtà legate al neofascismo, ma la realtà è che la maggior parte degli attacchi terroristici non di matrice jihadista avvenuti negli ultimi anni in Europa e in Italia sono stati messi in atto da gruppi di estrema sinistra o anarco-insurrezionalisti. La conferma arriva dalla pubblicazione del report annuale Te-Sat (Terrorism situation and trend report 2021) che riporta come nel corso del 2020 gli attacchi di tipo terroristico avvenuti in Europa sono stati 422. Di questi 314 sono attribuibili a jihadisti e 48 a gruppi di estrema sinistra. In Italia lo scorso anno non si è avuto alcun episodio terroristico legato all'estrema destra, mentre 23 sono stati i casi di attacchi da parte dei gruppi anarco-insurrezionalisti o similari. Basti ricordare i cortei violenti di Torino, l'attacco ai cantieri Tav e molti altri episodi che quando si tratta di attaccare tutto ciò che è di destra magicamente scompaiono dai ricordi degli esponenti di sinistra. Nel rapporto 2021 dell'osservatorio ReAct sul radicalismo e il contrasto al terrorismo si specifica che «gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti nel 2018 in Europa - 19 eventi, di cui 13 in Italia - si situano al secondo posto dopo quelli di matrice jihadista - 24 azioni con 13 morti. Nel complesso si impone l'inconsistenza degli attacchi attribuiti a gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei 5 del 2017». Si chiarisce anche che l'Italia «nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70% di tutti gli attacchi in Europa». Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e dell'Osservatorio ReaCt, specifica: «La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti rilevanti sulla società, andando ad alimentare e a fomentare forme di disagio sociale latente che sono presto esplose. Un fenomeno sommerso che si diffonde e consolida con le chat di Telegram, di Signal o con la diffusione di video e notizie false attraverso altri social. E sono proprio le notizie false, spesso associate a fittizi studi scientifici o informatori anonimi, che alimentano il fenomeno di un sempre più pericoloso e diffuso fenomeno cospirazionista». Peraltro sempre più ampio e tutt'altro che imprevedibile. «Questo - dice ancora - accomuna per le strategie operative e le metodologie comunicative sia gli ambienti di estrema destra che quelli di estrema sinistra, come dimostrano i numerosi episodi di violenza, anche in Italia, nelle manifestazioni del 9 ottobre che richiamano alla memoria gli episodi di violenza insurrezionale alimentata dall'ideologia di QAnon dello scorso 6 gennaio a Washington e alle immagini evocative che sono giunte da Capitol Hill». Bertolotti chiarisce che «l'estremismo violento di destra si sta evolvendo in un fenomeno transnazionale, mentre sviluppa una preoccupante relazione simbiotica e una stretta interdipendenza con l'estremismo di matrice islamista e si pone in un rapporto di competizione collaborativa, condividendone alcune ragioni di fondo (in particolare l'opposizione all'imposizione da parte dello Stato di regole e presidi sanitari, recepiti come minaccia alla libertà), con la violenza della sinistra estrema e dei movimenti anarco-insurrezionalisti. Un'evoluzione che avviene attraverso il comune terreno dell'ideologia No vax e, ora, No green pass».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dil barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo. 

Altro che galassia fascista. Le chat No Vax inneggiano alle Br. Francesca Galici il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gli scontri di Roma e Milano sono stati solo "un'anteprima": i no pass alzano il tiro e minacciano azioni sempre più violente in vista del 15 ottobre. I no pass non si arrendono e dopo gli scontri di Roma lo dicono chiaro e tondo nelle ormai celebri chat su Telegram: "Sabato 9 ottobre è stata solo un'anteprima". Annunciano un crescendo di tensioni nelle città italiane per arrivare al 15 ottobre quando, dicono, "sarà guerrà". Il Viminale si sta organizzando per scongiurare altre piazze calde come quelle di Roma e di Milano dello scorso weekend, si stanno predisponendo controlli serrati e strette sulle manifestazioni ma dall'altra parte non sembrano intenzionati ad arrendersi, alzi, considerano le azioni del governo come una sfida nei loro confronti. "Che guerra sia, per come si stanno muovendo le cose", dicono spavaldi facendosi forza gli uni con gli altri. Al momento, nei gruppi Telegram e su Facebook si stanno organizzando per scendere in piazza dal 15 ottobre, giorno in cui il Green pass diventerà obbligatorio per tutti i lavoratori. Vogliono manifestare a oltranza e il 19 ottobre pare sia in programma un "girotondo" a Montecitorio. Sono tanti quelli che spingono per la protesta pacifica ma quelli che, invece, vogliono arrivare allo scontro frontale non sono certo pochi. "Gli devi tirare le bombe a questi per capire come si lotta", si legge scorrendo nei loro discorsi, spesso deliranti, che inneggiano alle "bombe a mano per i poliziotti antisommossa". I due grandi cortei di sabato 9 si sono svolti a Milano e a Roma. In entrambe le città i manifestanti e le forze dell'ordine sono arrivati allo scontro ma è nella Capitale che la lotta si è fatta più dura. "La prossima volta non ci troverete a mani nude", minacciano i no pass violenti, come se a Roma non siano state lanciate bombe carta nei pressi di Montecitorio. E sono proprio i palazzi di piazza Colonna l'obiettivo di parte dei manifestanti, che nelle loro intenzioni vorrebbero occupare palazzo Chigi e il parlamento per spingere i politici al passo indietro. "Prendete i Palazzi", "Draghi, ti veniamo a prendere sotto casa", si legge ancora. Ma gli obiettivi sono molto più ampi, perché l'auspicio di qualcuno è che "brucino in piazza tutti quei criminali". Ma la strategia sembra più complessa di quello che non appare limitandosi a leggere questi discorsi, perché scorrendo nelle chat si intuisce che i fronti sui quali vogliono combattere sono molteplici e non si fanno scrupoli nel portare in piazza i più deboli da utilizzare come scudi umani davanti alle forze dell'ordine. "Ma se mettiamo anziani e bambini davanti alle manifestazioni, che faranno?", si domanda qualcuno. Il popolo dei "pronti a tutto", come si definiscono in alcuni scambi di vedute, ha principalmente tre obiettivi: la politica, la stampa e le forze dell'ordine. I giornalisti vengono definiti "servi del potere", "schiavi della dittatura" ed ecco che arrivano anche le proposte di "sfasciare" le redazioni perché "dicono una marea di cazzate", oppure di "occupare le emittenti tv". Ai manifestanti di Milano è stato chiesto di andare a Mediaset e alla Rai e i giornalisti, come si è visto sabato 9 ottobre, hanno rischiato in più di un'occasione di essere aggrediti dai manifestanti mentre documentavano gli scontri. E così, tra chi incita alla violenza al grido di "speriamo di bruciarli tutti", ci sono anche i nostalgici, non solo quelli neri, che rimpiangono gli anni di piombo: "Purtroppo non ci sono più le Br". E ci sono anche gli irriducibili dei primi Duemila: "Sono qui, no Global 100%, insieme a molti altri. Combattevo allora per diritti di altri che sono nati in altri Paesi, oggi combatto per il mio, dove i diritti sono stati corrotti e negoziati per Big pharma. Ora come oggi mi oppongo allo strapotere delle multinazionali. Di black block non voglio sentir parlare". Nelle chat le minacce non sono più troppo velate e nemmeno la consapevolezza che i gruppi siano strettamente attenzionati dalle forze dell'ordine che, nello svolgimento del loro lavoro, controllano le frange più eversive funziona come deterrente. "Guardarli in faccia e poi aspettarli sotto casa... Vedi come gli passa", è la promessa fatta ai poliziotti, ai politici e ai giornalisti.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Landini vittima di se stesso: suoi gli slogan più feroci contro il green pass. Laura Cesaretti il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato il leader Cgil ad aizzare il popolo No Vax: "Non si può pagare per lavorare". E anche il ministro Orlando l'ha bacchettato: "Ambiguo". La nemesi, a volte: «Non si può pagare per lavorare», era lo slogan più ripetuto per eccitare le caotiche piazze novax che manifestavano contro il Green Pass obbligatorio. Compresa la piazza di Roma, quella che ha prodotto l'assalto teppistico dei manifestanti, guidati da neofascisti noti alle cronache giudiziarie della Capitale, alla sede della Cgil. Peccato che l'inventore del fortunato slogan fosse proprio il padrone di casa, Maurizio Landini, che per settimane lo ha ripetuto in ogni microfono a sua disposizione, guidando una bellicosa resistenza alla decisione del governo Draghi di introdurre l'obbligo di vaccino o tampone per accedere ai luoghi di lavoro e di socialità. «Il lavoro è un diritto - era il suo ragionamento - non può esistere che si debba pagare per poter entrare in fabbrica o in ufficio». Una questione di principio, per Landini, che (siamo a metà settembre) sfidava Draghi: «Il governo non ha saputo prendere la decisione dell'obbligo vaccinale per le sue divisioni interne, abbia il coraggio di dirlo. Hanno fatto tutto senza consultarci, come sempre, e ora pretendono che a pagare siano i lavoratori». La soluzione proposta dal leader sindacale era la stessa escogitata ora da Beppe Grillo: tamponi gratis (ossia a spese dei «padroni» e dei contribuenti vaccinati) per i novax: «Il costo non può essere a carico del lavoratore: siano le aziende, con l'aiuto dello Stato, a sostenere le spese per garantire a tutti il diritto di lavorare». Rivendicazioni simili a quelle arrivate dai tumulti no-green pass, in sostanza. È una classica vicenda da apprendisti stregoni, che prima invocano e animano la sarabanda, e poi ne rimangono vittime. Prova ne sia il fatto che non sono stati solo gli squadristi di Forza Nuova a prendersela col capo della Cgil, ma anche il fronte uguale e contrario della «protesta rossa»: dai Cobas a Rifondazione comunista, passando per centri sociali e studenti di sinistra, che hanno bersagliato Landini e la Cgil, che ha contestato prima ma non impedito poi l'introduzione del pass, a suon di «venduti» e «servi dei padroni». Che la posizione iniziale di Landini sia stata ambigua lo ha riconosciuto anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando: «Si è illuso, secondo me sbagliando, che l'obbligo vaccinale gli risparmiasse la gestione dei conflitti sui luoghi di lavoro: credo sia stata una scelta errata». E non è un caso che, dopo l'assalto novax alla Cgil, Landini abbia un po' pattinato sui fatti, negando l'evidenza: «L'attacco squadrista non c'entra nulla con il Green Pass», ha sostenuto. «È stato un assalto contro il mondo del lavoro e il sindacato». E subito ha convocato una manifestazione pro-Cgil (da tenere, certo del tutto casualmente, alla vigilia dei ballottaggi) con parole d'ordine sufficientemente vaghe da non entrare minimamente nel merito delle agitazioni degenerate in vandalismo: «Per il lavoro e la democrazia». Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma non un fiato contro i novax del no-green pass. Laura Cesaretti 

I disordini, i terribili giorni del Quirinale e le Porte dell'Inferno. Piccole Note l'11 ottobre 2021. “Né con lo Stato né con i No Vax è un lusso che nessuno può concedersi”. Così Michele Serra sulla Repubblica (vedi Dagospia) a commento delle recenti violenze di piazza. L’azione degli estremisti di destra, che è riuscita a dirottare una manifestazione contro il Green pass su lidi violenti e contro la sede della Cgil, si è così realizzata con successo, avendo conseguito il risultato di criminalizzare la resistenza a un’iniziativa politica discutibile e che si vuole indiscutibile. Ciò non perché lo scriva il povero Serra, ma perché egli dà voce alla narrativa che va consolidandosi e che porta in tale direzione. Gli estremi, al solito, fanno il gioco del potere, anzi ne sono utilizzati, una pratica che l’Italia conosce dai tempi della strategia della tensione. Ma allora occorreva cercare i manovratori dei fili – i Burattinai, come da titolo di un interessante libro di Philip Willan, cronista inglese e quindi più libero di altri – oltre i nostri confini, come ad esempio la scuola parigina di lingue Hyperion, frequentata da Mario Moretti e Corrado Simioni, alti funzionari della macchina del Terrore. Oggi le scuole dove si intrecciano tali indebiti rapporti sembrano essere più prossime, dato che quelle che un tempo erano infiltrazioni negli apparati dello Stato e nella politica hanno ormai rotto gli argini e dilagato. Peraltro, la funzionalità al potere di tali frange estreme la denota l’obiettivo delle violenze: la sede della Cgil, che nulla ha a che vedere con l’introduzione del green pass. Si restringono così i già esigui spazi di resistenza al provvedimento, diventato, agli occhi di tanti, un simbolo di un’asserita deriva autoritaria, nonostante forse tale deriva si concretizzi in altro e ben più stringente (anche se un pass per lavorare, in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, così il primo articolo della Costituzione, lascia ovviamente perplessi). In realtà, reputare che il green pass sia un mezzo di controllo dei cittadini, almeno al momento e in tali forme, appare tema controverso, per il fatto che, ad esempio, tale controllo si verifica da tempo e in modo ben più capillare attraverso la rete e l’intelligenza artificiale che la scandaglia a strascico a uso e consumo del potere reale.

Certo, il pass è un simbolo, ma la guerra ai simboli rischia di diventare anch’essa simbolica, cioè distaccata dal reale e, come tale, si presta alle strumentalizzazioni del caso. Il potere, quello reale, vive di simboli, e nella dialettica simbolica si rafforza. Servirebbe un singulto di realismo, ma sembra ormai troppo tardi, dato che l’Italia è stata consegnata, e si è consegnata, a certo potere transnazionale, con la politica inerme o funzionale a esso (ma meglio gli inermi, ovviamente). Da questo punto di vista, le elezioni amministrative sembrano aver confermato tale deriva: non per nulla, all’indomani di queste, Dagospia, l’ultimo media italiano e come tale organo ufficiale del potere reale (con labili spazi alternativi), dichiarava con enfasi: “Ha vinto Draghi”. E ciò non tanto per la vittoria del cosiddetto centro-sinistra (che di sinistra non ha più nulla) nelle città più importanti, un risultato che dopo i disordini di sabato sembra doversi confermare nel secondo turno romano – dove tale vittoria era più che probabile, ma non certa -, quanto per la stretta che il potere ha operato in questa occasione, come confermato dai disordini in oggetto. Da questo punto di vista, per tornare nel campo dei simboli, come il crollo del ponte Morandi ha salutato, con saluto nefasto, l’intemerata sfida al potere reale posta, nonostante le tante ambiguità, dal cosiddetto governo giallo-verde, le fiamme che hanno divorato il ponte di ferro di Roma sembrano inaugurare una nuova stagione italica. Una stagione che vede aprirsi i terribili giorni del Quirinale, come ebbe a definirli l’ex presidente Francesco Cossiga al momento di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato. Giorni che, in maniera simbolica, si aprono con una mostra realizzata presso le Scuderie del Quirinale, dedicata all’Inferno, con i visitatori che verranno accolti al loro ingresso, come recita la guida, dall’opera di Rodin “Le porte dell’Inferno“. In realtà, si tratta di una celebrazione in onore di Dante, nella quale le artistiche evocazioni infernali vanno a concludersi col noto finale della sua Commedia divina, cioè con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Conclusione di una commedia, appunto, che, come tale, ha il lieto fine ascritto nella sua essenza. Nel caso italico, che più che commedia appare tragedia, tale conclusione resta tutta da vedere.

Alessandro Sallusti, tra le spranghe di Forza Nuova e le parole del Pd non vedo grande differenza. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. È vero, la democrazia è in pericolo. Ma non perché quattro pregiudicati di estrema destra hanno trascinato qualche decina di idioti a sfasciare una sede della Cgil, tanto è vero che sono stati arrestati e denunciati. No, la democrazia è più in pericolo perché ieri il vicesegretario del Pd ed ex ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha buttato lì l'idea di chiudere per legge Fratelli d'Italia, unico partito democratico di opposizione di questo Paese, oltre che di governo in quasi tutte le più importanti regioni italiane senza che ciò provochi alcun turbamento democratico. Tra le spranghe di Fiore, leader di Forza Nuova a capo dell'assalto alla Cgil, e le parole di Provenzano non vedo una grande differenza: l'avversario va distrutto materialmente con la forza dei bastoni o con quella della legge. C'è però una differenza non da poco: quelli di Forza Nuova vivono ai margini della società e oggi sono in galera, Provenzano e quelli come lui siedono in Parlamento. Ricordate il teorema secondo il quale "Berlusconi non è legittimato a governare" espresso più volte dalla sinistra (anche giudiziaria) nonostante gli oltre dieci milioni di voti raccolti ad ogni elezione? Ecco, ci risiamo. In Italia o sei di sinistra - e allora i conti con la storia e con le tue frange estreme puoi non doverli fare - oppure sei fuori dall'arco costituzionale a prescindere. Altro che fascismo, questa è la peggiore forma di totalitarismo perché non dichiarata, subdola. Ci fu un momento nella storia recente d'Italia - primi anni Settanta - in cui il Pci e i sindacati furono, loro sì, se non collaterali almeno omertosi e quindi protettivi nei confronti del nascente terrorismo rosso, che stava attecchendo nelle fabbriche e nei quartieri popolari come ha raccontato uno che c'era, Giuliano Ferrara. Ma nessuno si permise di chiedere la messa al bando del Pci e il terrorismo fu sconfitto anche dall'argine che quel partito poi innalzò contro la violenza. Ecco, Fratelli d'Italia è l'argine più sicuro e democratico che abbiamo contro rigurgiti fascisti e chi lo nega è in evidente malafede. Se non fosse ridicola, se dovessimo prenderla sul serio, la proposta di Provenzano metterebbe di fatto il Pd fuori dall'arco costituzionale.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 ottobre 2021. Caro Dago, il mio amico e conterraneo Francesco Merlo, che non è soltanto uno dei più valorosi giornalisti della sua generazione ma anche uno dei più colti (Il che non guasta persino nell’attività giornalistica), mi fa via mail alcune obiezioni alla mia riluttanza a usare il termine “fascismo” a proposito di quelle oscene macchiette che hanno sfondato le finestre per poi devastare gli arredi della sede nazionale della Cgil. A me che sul “Foglio” avevo scritto che Benito Mussolini e Giuseppe Bottai si stanno rivoltando nella tomba a sentire chiamare “fascisti” le suddette macchiette. Francesco replica che nel fascismo non c’erano soltanto tipi come Bottai ma anche come il famigerato Alessandro Carosi, strenuo combattente nella Prima guerra mondiale, uno che da squadrista e uomo di fiducia del capo della federazione fascista pisana si autoproclamava autore a colpi di una rivoltella Mauser di 11 omicidi e 20 ferimenti. Se è per questo era un fascista cento per cento anche Amerigo Dumini (accento sulla “u”), quello che a capo di altri quattro squadristi agguantò per una strada di Roma il deputato socialista Giacomo Matteotti per poi martoriarlo e ucciderlo nella stessa auto con cui lo avevano rapito. Ebbene, nell’usare noi il termine “fascista” a cento anni dalla marcia su Roma è su personaggi alla maniera di Carosi e di Dumini che dobbiamo fare perno - e dunque stabilire eguaglianze tra ieri e oggi - o valutare il fascismo italiano (forse sarebbe più esatto dire “il mussolinismo”) nel quadro dello spaventoso collasso delle democrazie occidentali nel primo dopoguerra, e tanto più alla luce della minaccia che su quelle democrazie proveniva dal riuscitissimo colpo di mano bolscevico nella San Pietroburgo dell’ottobre 1917? A cento anni di distanza dobbiamo valutare il fascismo (e la sua riuscita e la sua durata) come un fenomeno storico-politico o come un fenomeno meramente criminale? A cento anni di distanza, ripeto. E’ assurdo dire che il fascismo storico è morto e sepolto il 25 aprile 1945, e che da quel giorno tutti coloro che levano la mano destra nel saluto fascista rientrano in una tutt’altra narrazione civile e culturale? E’ assurdo, caro Francesco, dire che a usare il termine “fascismo” oggi come un randello con cui bastonare i più volgari tra quelli che ci stanno antipatici non spieghi nulla di ciò che è proprio alle democrazie complesse dell’Europa del terzo millennio? A me sembra evidente che non è assurdo affatto, anzi è salutare a voler fronteggiare i pericoli odierni che incombono sulla nostra democrazia. Dirò di più. E’ totale la mia riluttanza a usare termini generalissimi nati nei contesti i più drammatici del Novecento. Fosse per me non userei mai e poi mai il termine “Resistenza”, e bensì il termine “guerra civile”, un termine che fino a vent’anni fa era off-limits fra le persone politicamente dabbene e che invece spiega cento volte meglio che cosa accadde lungo tutto lo stivale in quei due anni stramaledetti. Certo che nel fascismo c’era anche Carosi. Epperò nella Resistenza c’erano anche quei partigiani che al limitare di Bologna - non ricordo più se alla fine del 1945 o all’inizio del 1946 - intercettarono un diciassettenne in bicicletta e gli chiesero chi fosse. Era il figlio di Giorgio Pini, un giornalista fascista (e persona immacolata) che era in quel momento in carcere e al quale suo figlio aveva appena fatto visita. Il cadavere di quel diciassettenne non è mai più stato ritrovato. Per essere un episodio meramente criminale, fa adeguatamente il paio con l’atroce itinerario umano e politico di Carosi. Non per questo noi useremo il termine “Resistenza” a partire da questo episodio. Semplicemente, almeno per quanto mi riguarda, lo useremo il meno possibile. Tutto qui. Un abbraccio, Francesco

Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro il 12 Maggio 2019 su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su

La lezione di Pasolini a Fiano: “Antifascismo, arma di distrazione di massa”. Redazione martedì 12 Dicembre 2017 su Il Secolo D’Italia. “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Un’arma di distrazione di massa, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia, con la quale, se oggi fosse vivo, sarebbe stato additato di collateralismo con Mussolini e la destra estrema e magari sarebbe sto sbattuto in prima pagina con un editoriale su Repubblica. Pasolini, oggi, non piacerebbe Fiano, l’artefice della legge contro la nostalgia del fascismo, ma neanche a Laura Boldrini, paladina della sinistra partigiana che getta benzina sul fuoco per alimentare una vecchia contrapposizione ormai inattuale. E che per Pasolini lo era già negli anni Settanta, altro che onda nera. Ecco cosa scriveva nei suoi “Scritti corsari”. “Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E i fascisti dell’epoca? “Si tratta di una definizione puramente nominalistica e che porta fuori strada. È inutile e retorico fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo ,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Oggi, ovviamente, la distrazione di massa impone di cavalcare l’allarme fascista, unico collante di una sinistra che forse stava iniziano a morire fin dai tempi di Pasolini…

“MI CHIEDO, CARO ALBERTO, SE QUESTO ANTIFASCISMO RABBIOSO…” – DALLA SECONDA LETTERA DI PASOLINI A MORAVIA (?) “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso…” – dalla seconda lettera di Pasolini a Moravia (?)  Shadow Ranger 3 Aprile 2019 su Bufale.net. La lettera del caro Alberto è uno degli apocrifi più famigerati della storia Italiana, seguito solo dall’apocrifo di Pertini cavernicolo armato di mazze e pietre. Ricostruzione di uno dei memes originali dell'”apocrifo di Pasolini del “Caro Alberto”. 

L’apocrifo del Caro Alberto, per intero, recita così: Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda. E sostanzialmente non è mai comparso in alcuna produzione letteraria prima di un post (ora rimosso e non più accessibile) di un blog del 2016, archiviato e censito dalla fondazione Elia Spallanzani. Il linguaggio è un evidente centone Pasoliniano nel quale l’imitazione del linguaggio dello scrittore è quasi perfetta, un falso creato a tavolino da un autore zelante ma non troppo. In primo luogo, la locuzione arma di distrazione, che nelle versioni più arcaiche del testo viene addirittura esplicitata nella forma estesa “arma di distrazione di massa” non è apparsa nell’orizzonte letterario e linguistico italiano prima del 1997. Come ricorda Internazionale, tale frase fu resa popolare dapprima da un film di quegli anni, e poi, sei anni dopo, da una trasmissione satirica di Sabina Guzzanti (chiamata appunto RaiOT – Armi di distrazione di massa). E sarebbe ben strano per Pasolini, morto nel 1975, arricchire il suo linguaggio con costrutti e metafore introdotti dopo la sua morte. Neppure possiamo credere all’immagine di un Pasolini “teledipendente” che si abbassa a svilire il suo ricercato linguaggio coi tormentoni del piccolo schermo come l’ultimo dei vidioti, i teledipendenti drogati dal piccolo schermo descritti dalla fantascienza del fumetto americano Machine Man. In secondo luogo, come anticipato non esistono iterazioni della frase precedenti al post del 2016 che ha dato origine a questa singolare buriana. Non esistono nell’epistolario di Pasolini, né alla data indicata e neppure altrove. Non esistono in alcun altro luogo testuale possibile, o malamente attribuito da ulteriori iterazioni della bufala.

La querelle epistolare tra Moravia, Pasolini e Calvino infatti non era ancora partita. L’avrebbe inaugurata un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974, intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, poi incluso negli Scritti corsari con il titolo “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”. Il che ci porta a dover ricercare le origini del Caro Alberto dapprima in un periodo letterario in cui semplicemente Pasolini si occupava di tutt’altro, per poi cercare, anche volendo posdatarla, una sua traccia negli Scritti Corsari nel quale… appunto non ve ne è traccia. Siamo quindi al confine tra l’inversione dell’onere della prova ed il sempiterno analfabetismo funzionale del la notizia è su Internet, e quindi non vi è ragione di dubitarne, quel triste fenomeno in cui domani potrei dichiarare convinto che Albert Einstein è il noto autore della frase “Due mucche fanno muu, ma una fa mu-mu!” e limitarmi, dichiarando di essere convinto che Albert Einstein abbia proferito una simile frase, a rispondere a chiunque mi dica di aver analizzato l’opera omnia del noto scienziato alla ricerca della stessa con: E chi ti dice che magari non l’ha scritta ma l’ha solo pensata, o l’ha detta a suo cugino una volta che erano chiusi in una stanza senza testimoni e poi il cugino è morto professorone?!?! E non solo: come tutte le bufale, la bufala del Caro Alberto si è evoluta nel tempo. La misteriosa ed ineffabile “epistola al caro Alberto Moravia” si trasfigura infatti in un intervento televisivo alla RAI del 1973 (del quale, altrettanto curiosamente, non si trova traccia in alcuna delle ricche Teche RAI) o un “dialogo”se non, ancora più grottescamente, in una lettera o intervento televisivo dove il “Caro Alberto” non è più Moravia, ma diventa l’amato attore comico, regista, sceneggiatore, compositore e doppiatore Alberto Sordi. Se questi non fosse spirato nel 2003 (tredici anni prima della presumibile creazione della bufala) avrebbe col suo sorriso buono ed il suo senso dell’umorismo trovato assai divertente diventare il centro di una storia sfuggita di mano e finita nel novero degli apocrifi rilanciati dalla stampa e dalla politica nazionale. Da una lettura del corpus Pasoliniano inoltre non si evince mai, in una singola riga, una critica contro un presunto “antifascismo”, bensì una teoria per cui Il Pasolini degli ultimi anni sostiene, tornando più volte sul tema, che il vecchio fascismo, coi suoi codici, le sue retoriche, il suo rapporto tra capo e massa, è stato superato da un “fascismo” peggiore, quello del neocapitalismo, della “società dei consumi”. I fascisti non scompaiono né diventano innocui, ma sono integrati nel nuovo sistema, omologati e funzionali alla sua logica. Del tutto antitetica rispetto al meme costruito scimmiottandone il linguaggio. Rimandiamo a questa analisi pubblicata su Internazionale per chi volesse approfondire il tema: l’oggetto di questa pagina si ferma ad appurare l’esistenza di una bufala.

L’antifascismo più dannoso del fascismo, l’eterna lezione di Pasolini all’Italia. Gian Luca Campagna e Redazione il 13 Febbraio 2018 su nazionefutura.it. Se parli ti tacciano di (estrema) destra o di (estrema) sinistra, anche se poi dentro si è anarcoindividualiberisti (e talvolta anarcoindividuaibertini). Se non parli ti indicano come un qualunquista menefreghista lontano dalla res publica. Allora, cito. Non in giudizio, per carità, che una volta m’è bastato per il senso del grottesco che alberga nelle aule giudiziarie. Mi ripeto, allora cito. E citiamo. PPP. Cioè PierPaolo Pasolini, che resta il più grande intellettuale italiano del Novecento, visionario e anticipatore. Mi limito a due sue citazioni, che faccio mie. La prima, caro PierPaolo (tanto questa confidenza me l’avrebbe concessa, abbiamo un poker di passioni comuni: il mare-lago-dune di Sabaudia, il calcio come sacra rappresentazione della vita, la narrativa e il senso di obiettività fotografando la realtà anticipando il futuro) affonda il parallelo col brutale pestaggio di un carabiniere a Piacenza durante un corteo pacifico. Ecco, appunto, fotografiamo il reale, con l’obiettivo di PPP. Eccola la prima citazione. “II PCI ai giovani! È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati… Adesso i giornalisti di tutto il mondo vi leccano il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Beh, il blob coraggioso che sfilava per la lama d’asfalto di Piacenza in un corteo pacifico (!) in nome del razzismo e dell’antifascismo poi ha preso a sberle e calci un (uno!) carabiniere, che era lì per scortarli, per salvaguardarli, per proteggerli, che ha giurato sulla Costituzione che difenderà sempre questo Paese dal Fascismo. Bella prova di coerenza da parte di chi inneggiava alla pax. E poi, ancora, la seconda citazione di PPP. Uno dei maggiori pensatori del secolo scorso e della storia italiana scriveva a Moravia: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. È il 1973. E siamo nel brutto mezzo degli anni di piombo. Ah, vorrei continuare con la parte finale dell’ode al poliziotto da parte di PPP, tornando alla prima citazione: “Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. Ecco, appunto, che fine ha fatto il mantra peace and love che scandiva le vostre giornate? I più grandi nemici degli italiani sono gli italiani, appartenenti a un Paese evidentemente fermo a quarant’anni fa (secondo PPP) e a oltre settant’anni fa (secondo me, perché non abbiamo fatto i conti con la Storia) e che fatica a immaginare che possa esserci un domani, altrimenti spiegatemi – perché ancora non l’ho capito – che a Macerata sfila il corteo antirazzista e antifascista contro un povero demente (tal Traini) mentre ci si è dimenticato che tre (ora sono diventati quattro) spacciatori in carriera (neri rossi verdi o gialli o bianchi non ha importanza) hanno squartato una povera ragazza. Gian Luca Campagna

(Nessuna) Pietà per la nazione che crede alle bufale su #Pasolini. Pubblicato il 06.07.2018 da Wu Ming su wumingfoundation.com. Una poesia di Lawrence Ferlinghetti, per giunta scritta trentadue anni dopo la morte di Pasolini, prima viene attribuita a quest’ultimo, poi viene usata come pezza d’appoggio per sostenere che era… cosa? Nazionalista? «Sovranista»? Non l’hanno nemmeno letta: plausibilmente, qualcuno ha visto la parola «nazione» e si è eccitato all’istante.  Wu Ming 1 (con la collaborazione di Yàdad de Guerre e Nicoletta Bourbaki)

INDICE

1. Pietà per la nazione?

2. Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

3. Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto»

4. Due parole in più su questo “network”

5. Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

6. Ma sempre Pasolini? Come mai?

Lo psichiatra di destra e personaggio televisivo Alessandro Meluzzi è solo uno dei tanti diffusori del meme che vedete qui sopra. È composto da una delle più celebri foto di Pier Paolo Pasolini e da una traduzione italiana di Pity The Nation, componimento di Lawrence Ferlinghetti, 99 anni, poeta e scrittore, libraio ed editore, esponente di spicco e mentore della Beat Generation, pilastro della letteratura e della controcultura americana del XX secolo. Un libertario che si è sempre espresso contro ogni nazionalismo, bigottismo, razzismo e ha scritto: «I am waiting for the final withering away of all governments» [Attendo la scomparsa definitiva di ogni governo]. Nel meme, la poesia è però firmata «P. P. P.». Meluzzi, poi, l’introduce con una balzana domanda retorica: «Anche Pasolini era fascista?» Il senso sembra essere: voi che chiamate “fascista” chi ama la propria nazione, beccatevi questa poesia di Pasolini contro chi non la ama! Vale a dire: se hanno letto la poesia (cosa di cui dubito), l’hanno capita esattamente al contrario. Diamole un’occhiata.

Pietà per la nazione?

Ferlinghetti scrisse Pity The Nation nel 2007, ultimo anno dell’amministrazione Bush Jr. Un’epoca segnata a fondo dalla «War on Terror», dal liberticida Patriot Act, da imperialismo e militarismo imbellettati con la retorica sull’«esportare la democrazia», dalle torture nel carcere di Abu Ghraib, dalle detenzioni illegali nella base di Guantanamo (che peraltro proseguono). La poesia rimane attualissima. Al titolo si accompagna una specificazione tra parentesi: «(After Kahlil Gibran)», che potremmo rendere con «Alla maniera di Kahlil Gibran». La poesia, infatti, è anche un omaggio al grande poeta libanese-americano morto nel 1931. È costruita su un’anafora, figura retorica che consiste nel cominciare ogni frase con la stessa parola o sequenza di parole. L’anafora «Pity the nation» — che sarebbe più corretto tradurre con «compatite la nazione» o «commiserate la nazione» — si trova nel libro postumo di Gibran Il giardino del profeta (1933), nel quale il profeta Almustafa, «l’eletto e l’amato», pronuncia un sermone di questo tenore:

«Compatite la nazione il cui uomo di stato è un furbo, il cui filosofo è un giocoliere e la cui arte è l’arte del raffazzonare e dello scimmiottare». [Se volessimo fare il giochino ozioso delle allegorie a chiave retroattive, tradurremmo: compatite la nazione dove al governo c’è Salvini, dove l’intellettuale organico è Fusaro e dove si fabbricano memi con false citazioni.]

Ecco il testo completo, in inglese, della poesia di Ferlinghetti, con mia traduzione di ogni strofa.

«PITY THE NATION»

(After Khalil Gibran)

Pity the nation whose people are sheep And whose shepherds mislead them

(Compatite la nazione il cui popolo è un gregge che i suoi pastori mal conducono)

Pity the nation whose leaders are liars Whose sages are silenced And whose bigots haunt the airwaves

(Compatite la nazione i cui capi sono bugiardi e i cui saggi sono messi a tacere e i cui bigotti infestano le frequenze radio e tv)

Pity the nation that raises not its voice Except to praise conquerers And acclaim the bully as hero And aims to rule the world By force and by torture

(Compatite la nazione che non alza la voce se non per lodare i conquistatori e acclamare il bullo come eroe e punta a dominare il mondo con la forza e con la tortura)

Pity the nation that knows No other language but its own And no other culture but its own

(Compatite la nazione che non conosce altra lingua che la propria e altra cultura che la propria)

Pity the nation whose breath is money And sleeps the sleep of the too well fed

(Compatite la nazione il cui fiato è denaro e dorme il sonno del troppo ben pasciuto)

Pity the nation oh pity the people who allow their rights to erode and their freedoms to be washed away My country, tears of thee Sweet land of liberty!

(Compatite la nazione, oh, compatite la gente che lascia erodere i propri diritti e spazzare via le proprie libertà. Mio paese, lacrime per te dolce terra di libertà!)

Gli ultimi due versi sono ironici, parodiano la canzone patriottica My Country, ‘Tis Of Thee [Paese mio, parlo di te], scritta da Samuel Francis Smith nel 1831 e rimasta per un secolo inno nazionale ufficioso degli USA, finché nel 1931 non fu imposto per legge Star Spangled Banner. In questo finale Ferlinghetti si autocita, perché il verso «My country, tears of thee» lo aveva già usato nella sua raccolta più famosa, A Coney Island Of The Mind (1958), per la precisione nella poesia Junkman’s Obbligato.

Dovrebbe risultare evidente a chiunque che Pity The Nation non esprime alcun «amore per la nazione», né veicola alcunché di «sovranista» o che altro. Ferlinghetti, del resto, ha definito il nazionalismo «la superstizione idiota che può far saltare in aria il mondo», e in una celebre intervista rilasciata a Robert Dana ha detto: «I nazionalismi devono scomparire. Sono i postumi barbarici di tempi antichi.» Perché usare questa poesia per inventarsi un Pasolini nazionalista? Pasolini una poesia dedicata alla sua nazione la scrisse, si intitola proprio Alla mia nazione, ed è difficilmente appropriabile dai “sovranisti”: negli ultimi versi si augura che l’Italia, paese di «milioni di piccoli borghesi come milioni di porci», sprofondi in mare e «liberi il mondo». Eccola musicata dal gruppo metal bolognese Malnàtt: Ma l’uso di memi pseudo-pasoliniani come pezze d’appoggio per discorsi di destra, nazionalisti, a volte razzisti e tout court fascisti, non si limita a questo caso.

Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

Nei giorni scorsi qualcuno ha provato a rimettere in circolazione il meme del «Caro Alberto», del quale ci siamo occupati un mese fa. Si tratta di una frase che Pasolini non ha mai scritto né pronunciato, inventata di sana pianta nel gennaio 2017, circolante con la dicitura «Lettera di Pasolini a Moravia, 1973». 

La bufala anti-antifascista del «Caro Alberto», riproposta dalla pagina FB Fronte dei Popoli il 4 luglio 2018. Su questa pagina e sul milieu di cui fa parte, si veda sotto.

Nel mio articolo su Internazionale facevo notare che:

la frase non si trova in nessun punto dell’opera omnia di Pasolini;

nel 1973 la polemica pasoliniana sul «nuovo fascismo della società dei consumi» non era ancora cominciata;

l’espressione «arma di distrazione» non era in uso nell’Italia degli anni Settanta;

soprattutto, ricostruendo il contesto, dimostravo che Pasolini non avrebbe mai potuto scrivere una frase così, perché se è vero che individuava il «nuovo fascismo» nel consumismo, è altrettanto vero che non sottovalutò mai la violenza dei neofascisti. Come avrebbe potuto, lui che diverse volte l’aveva subita? Pasolini, in quegli anni, non solo non condannò mai le manifestazioni antifasciste, ma chiamò più volte i fascisti «assassini» e li additò come esecutori materiali di stragi e attentati. Nel marzo 1974, in un intervento poi incluso negli Scritti corsari, Pasolini chiamò a un «impegno totale» per il quale indicava «ragioni oggettive», tra le quali la necessità di difendersi dai «vecchi assassini fascisti che cercano la tensione non più lanciando le loro bombe, ma mobilitando le piazze in disordini in parte giustificati dal malcontento estremo». Dopo aver letto il mio pezzo, il blogger Yàdad de Guerre, in un commento pubblicato su Giap il 24 giugno scorso, ha ricostruito la genesi del meme, dimostrando che è nato in ambienti a cavallo tra neofascismo e rossobrunismo. Ripropongo qui la sua ricostruzione.

Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto» di Yàdad de Guerre. Quando la farlocca citazione sull’antifascismo «rabbioso» attribuita a Pasolini cominciò a girare cercai di spiegarmela. Eppure, nonostante le varie spiegazioni che cercavo di darmi, una cosa non tornava mai, insieme alle parole «arma di distrazione»: l’uso dell’aggettivo «rabbioso». Avrebbe mai potuto Pasolini usare l’aggettivo «rabbioso» in quel modo, così sbrigativo e approssimativo? Non solo e non tanto per il film del 1963 intitolato La rabbia, ma anche per il documentario televisivo del 1966 realizzato da Jean-André Fieschi e intitolato Pasolini l’enragé, ossia Pasolini l’arrabbiato. In uno dei momenti del film, Pasolini parla apertamente del concetto di rabbia, associandola alla rivolta, alla rivoluzione, alla Resistenza, al marxismo. Dice chiaramente: «In fondo la Resistenza è stata una sorta di grande rabbia organizzata, organizzata e impiantata soprattutto sull’ideologia marxista». Questa sua definizione di «rabbia», cioè di motore primario per una rivoluzione condivisa (innanzitutto contro il fascismo e la borghesia, evidentemente), serve a Pasolini per spiegare la mancanza di “arrabbiati” nell’Italia degli anni Sessanta. Per il Pasolini intervistato da Fieschi, i giovani (borghesi) del tempo trovavano conforto in uno schema di critica già pronto ma invecchiato – invecchiato «come tutti gli schemi» – quello della Resistenza e della cultura marxista italiana. Uno schema che non funzionava più perché il tempo l’aveva reso borghese. Quindi, per Pasolini, l’arrabbiato (principalmente giovane) «sent[iva] immediatamente il dovere di non essere arrabbiato, ma rivoluzionario». Questo non vuol dire che Pasolini rinnegasse la rivoluzione, chiaramente. Voleva piuttosto indicare come il senso dell’essere rivoluzionario fosse stato svuotato, privato della rabbia come motore. Il “rivoluzionario” è qui associato a una forma di morale borghese, già sussunta dalla borghesia, tanto da permettere a certi «comunisti rivoluzionari italiani» di essere nient’altro che piccolo-borghesi «in doppio petto» schiacciati dai «dogmi» dell’ideologia marxista. Fin qui la lettura dell’antifascismo «rabbioso» potrebbe ancora trovare un suo senso, se non fosse che – come ricorda il titolo stesso del documentario – Pasolini rivendica la rabbia, la sua rabbia «non catalogabile», e precisa che l’arrabbiato ideale, il «meraviglioso arrabbiato della tradizione storica», è Socrate. Pasolini, a me pare, cerca cioè una strada per attualizzare e rinnovare la rabbia, renderla collettiva, cercando strumenti che portino alla rivolta e alla rivoluzione contro la borghesia. Questo non può voler dire disconoscere le forme di fascismo o la Resistenza. «Rabbioso» e «arrabbiato» hanno due significati differenti, ovviamente, ma proprio in questa differenza si è fondata la mia diffidenza nei confronti di quella citazione. Avrebbe mai potuto Pasolini usare la parola «rabbioso» nel 1973, lui che sul concetto di rabbia ci aveva costruito un discorso nella metà degli anni ’60? Avrebbe mai potuto disconoscere la «rabbia! con tanto sdegno, medicalizzandola mi verrebbe da dire, sminuendola a una sorta di malattia animalesca e momentanea? Avrebbe potuto associare un antifascismo «rabbioso» alla classe dominante, se la rabbia è uno strumento (emotivo e politico) di azione che non fa gli interessi della borghesia? Avrebbe potuto Pasolini associare la rabbia, anche solo in una sua versione deformata, alla classe dominante che – si ricava dal suo ragionamento – mai potrebbe essere arrabbiata (e forse neanche «rabbiosa»)? Mi sono quindi concentrato sulle parole «antifascismo rabbioso» e le ho cercate ovunque nei testi di Pasolini che possiedo, nelle interviste e nei documentari. Non sono mai venute alla luce. Ho usato Google, ristretto i campi di ricerca. Quando è spuntata la prima volta quella citazione e quell’uso delle parole «antifascismo rabbioso» da parte di Pasolini? Prima del 29 gennaio 2017, non spunta nulla, da nessuna parte. In quel giorno, su Facebook si sono moltiplicati i post con la citazione: «Mi chiedo, caro Alberto…» accompagnata da foto di Pasolini e Moravia o di Pasolini e basta. Il più vecchio risultato che avevo ottenuto non è più online, ma era di un tale che lavora per il sito fascista Oltre la Linea (ho ancora l’URL, se mai qualcun* volesse controllare da sé). La citazione, però, non era riferita a una fantomatica lettera del 1973 a Moravia, bensì recitava: «Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, “Incontro con…”, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia». Cito qui, a mo’ d’esempio, l’uso che si modifica col tempo da parte di una stessa pagina Facebook, cioè La Via Culturale, «network» fondato da Alessandro Catto. Il 31 gennaio 2017, La Via Culturale pubblica la citazione con gli stessi riferimenti che ho dato prima. L’11 luglio 2017, in un attacco di rimozione mnemonica, la stessa pagina Facebook pubblica la stessa citazione con riferimenti più generici da un punto di vista temporale ma più precisi rispetto al momento: «Pier Paolo Pasolini in una discussione con Alberto Moravia». Non sappiamo più quando, ma sappiamo che c’era una discussione tra Pasolini e Moravia. Ancor meglio fa la pagina Facebook Il RossoBruno che, addirittura, scrive che la citazione deriverebbe da «Pierpaolo [sic] Pasolini ad Alberto Moravia, Incontro con Ezra Pound, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia».

Che cosa c’entri Ezra Pound non è chiaro;

che cosa ci facesse Alberto Moravia tra Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini e perché si parlasse di antifascismo italiano è un non-sense;

come Ezra Pound potesse nel 1973 essere vivo, quand’è morto nel 1972, resta un miracolo divino;

perché un’intervista di Pasolini a Pound del 1967 sia celebre e discussa ancora oggi e una rubrica RAI con Pound, Pasolini e presumibilmente Moravia del 1973 non la conosca nessuno è un mistero.

Comunque sia, il 29 gennaio 2017 su RaiStoria, in tempi coincidenti con le prime apparizioni della citazione, andava in onda Italiani con Paolo Mieli. Forse la puntata dedicata ad Alberto Moravia, «Appunti di viaggio», in cui effettivamente si parla dello scontro intellettuale tra Moravia e Pasolini ma, ovviamente, mai si citano quelle esatte parole. Né, a scanso di equivoci, se ne trova traccia nell’episodio dedicato a Pasolini stesso, «Il santo infame», recuperabile tranquillamente sul web. Dicembre 2017: dopo l’invenzione e “tornitura” della falsa frase di Pasolini, Antonio Marras la riprende sul Secolo d’Italia, ex-organo ufficiale del MSI, oggi sito crivellato di pubblicità. Sarà, invece, Antonio Marras per Il Secolo d’Italia a trasformare la citazione in uno stralcio di lettera, il 12 dicembre 2017, quando — già da qualche mese — aveva cominciato a strabordare fuori da Facebook per via del disegno di legge contro la propaganda fascista, il cosiddetto DDL Fiano. Da quel momento in particolare, la citazione ha cominciato a viaggiare da sé perché, tanto, chi va a controllare le lettere di Pasolini, anche quelle non raccolte e pubblicate da Nico Naldini? (Disclaimer: non esiste alcuna lettera scritta da Pasolini a Moravia che contenga quelle parole.) Una cosa è certa, in tutto questo: non solo nessun@ ha compiuto mai alcun lavoro di ricerca per portare alla luce la citazione (che su internet non si trova se non in forme ridicole), ma soprattutto nessun@ si è preso la briga di insegnare a Matteo Salvini che cos’è, davvero, la rabbia.

Due parole in più su questo «network»

Abbiamo visto che il meme del «Caro Alberto», prima di essere ripreso dal Secolo d’Italia, è circolato per mesi e ha preso la sua forma odierna in un certo arcipelago di blog e pagine Facebook. Descriviamolo brevemente. Oltre La Linea, Giano Bifronte e Azione culturale sono sigle riconducibili allo stesso progetto rossobruno. Il simbolo è Giano che guarda sia a destra sia a sinistra. Un altro simbolo ricorrente è la bandiera dell’Eurasia, progetto geopolitico caro ai rossobruni e teorizzato principalmente dal guru russo Aleksandr Dugin. Animatore di Oltre La Linea (che è solo un altro nome di Giano Bifronte) è almeno fino al maggio 2017 tale Luigi Ciancio, che oggi su Facebook si firma «Luigi Cianciox». 

Alessandro Catto

Azione Culturale — come dichiarano loro stessi  —  è stata formata da Giano Bifronte e La Via Culturale (già La Via Culturale al Socialismo), blog “sovranista” gestito da Alessandro Catto sul sito de Il Giornale.

A quanto sembra, la “mente” è Catto. Tanto per capirci, Catto, per conto di Azione Culturale, ha intervistato Simone Di Stefano di Casapound per cercare una sinergia tra “comunismo” e fascismo. Ecco uno stralcio dell’intervista: 

Simone Di Stefano

Lei è aperto ad un dialogo con formazioni coerentemente comuniste che si rifanno alle esperienze di governo del socialismo reale, per come abbiamo imparato a conoscerle nel ‘900? Se sì, su quali temi? 

«Come detto precedentemente la base del dialogo deve essere il riconoscimento della nazione Italia, l’esistenza dei suoi confini e del suo popolo. I temi possono essere la critica al liberismo, la lotta alla globalizzazione e tanti altri. Resta un fatto: siamo incompatibili con l’idea di abolizione della proprietà privata e della esclusiva proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Il fine ultimo della nostra rivoluzione è la potenza della nazione Italia e di conseguenza la piena giustizia sociale […]» 

Stelio Fergola

Oltre a Ciancio e Catto, in relazione a tutto questo va menzionato Stelio Fergola, direttore responsabile e co-fondatore di Azione Culturale, Oltre la Linea, ecc. Fergola è autore del libro L’inganno antirazzista, che ha pubblicato con Passaggio al bosco, casa editrice la cui impronta ideologica è chiarissima.

In questo milieu telematico troviamo anche Fronte dei Popoli, pagina Facebook attualmente gestita dal bolognese Dario Giovetti. Nel dicembre 2016 Fronte dei Popoli annunciava soddisfatto e ammiccante «la nuova stagione di Azione Culturale».

Fronte dei Popoli condivide spesso contenuti delle pagine di Ciancio e Catto, come del resto fa Ufficio Sinistri, pagina FB gestita dal sanremese Roberto Vallepiano, autore di un libro dallo stesso titolo. Vallepiano condivide e commenta favorevolmente contenuti di Ciancio, Catto e Giovetti, che a loro volta condividono e commentano favorevolmente le prese di posizione di Vallepiano.

Il campionario ha poco di sorprendente: contro l’immigrazione, il complotto di Soros, chiudere i porti alle ONG, la sinistra “buonista”, la nazione ecc. Il tutto ornato di specchietti rossi, per le allodole che volano nei dintorni.

Attualmente, la vecchia pagina Facebook di Azione Culturale rimanda a Il Mondo Nuovo.

Da quest’arcipelago di siti e pagine FB, come dimostrato nei dettagli da Nicoletta Bourbaki, è partita anche la diffusione di una falsa frase di Samora Machel contro i migranti.

In costante interazione con tutte queste pagine è il sito rossobruno L’Antidiplomatico.

Si incazzino pure, descrivano il paragrafo che avete appena letto come una «lista di proscrizione». È la reazione standard ogni volta che qualcuno, fuori e contro una certa omertà «tra compagni», ha l’onestà di fare nomi e cognomi.

I rossobruni non sono miei compagni, perché, molto semplicemente, non sono compagni.

Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

Il meme del «Caro Alberto» è stato riproposto il 4 luglio — insieme ad altre citazioni pasoliniane formalmente corrette ma decontestualizzate — da Fronte dei Popoli, evidentemente non contento della figuraccia appena rimediata con la frase falsa di Samora Machel.

Quando gli è stato fatto notare — a un certo punto anche da Nicoletta Bourbaki  — che pure quella frase era un fake, per giunta “debunkato” settimane prima, Giovetti ha arrampicato specchi unti, ha più volte citato come “fonte” il — per la precisione: dato la colpa al  —  Secolo d’Italia, infine si è “incantato”, come un vinile graffiato, a ripetere «anche Wu Ming 1 ha detto che la frase era verosimile!». Una balla presto ripetuta a pappagallo da altri commentatori. 

Due esempi tra i molti rinvenibili sulla pagina Facebook «Fronte dei Popoli».

Ovviamente, costoro si sono ben guardati dal riportare il passaggio del mio articolo in cui la parola «verosimile» compariva. Ebbene, lo faccio io, con tanto di sottolineature for dummies. 

Clicca per leggere l’articolo completo Pasolini e il neofascismo come merce.

Vorrei però soffermarmi sulla cosa più interessante scritta dall’amministratore di Fronte dei Popoli: secondo lui Pasolini

«in “Scritti corsari”, come del resto nell’editoriale per il “Corriere della Sera” “il fascismo degli antifascisti” esprimere [sic] concetti che risultano assolutamente compatibili con quelli della citazione di cui stiamo parlando».

Abbiamo già spiegato che non è così: gli Scritti corsari contengono molte condanne della violenza neofascista, e i neofascisti vi sono chiamati più volte «sicari», «assassini» e quant’altro. Basterebbe leggere l’intero libro, anziché ravanare nel web in cerca di virgolettati. Addirittura, nell’intervento intitolato «Fascista», incluso nella sezione «Documenti e allegati», Pasolini dice che la violenza dei neofascisti suoi contemporanei è peggiore di quella del vecchio regime mussoliniano: «Vent’anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime che ha fatto il fascismo di questi ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia, di Bologna [quella del treno Italicus, N.d.R.] non erano mai avvenute in vent’anni. C’è stato il delitto Matteotti certo, ci sono state altre vittime da tutte due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei delitti compiuti dal 12 dicembre del 1969 in poi non s’era mai vista in Italia.» Pasolini sbagliava: il fascismo “storico” di stragi ne aveva fatte eccome, non solo all’estero ma anche in Italia, e anche prima della RSI. Basti dire che era andato al potere sull’onda del terrorismo squadrista, che aveva ucciso mezzo migliaio di persone e ne aveva ferite migliaia.

Il punto, tuttavia, non è questo: il punto è che negli Scritti corsari Pasolini non sminuisce mai la violenza dei neofascisti, anzi, delle due la accentua.

Il commento di Fronte dei Popoli contiene altri sfondoni:

quello uscito sul Corriere il 16 luglio 1974 non era un «editoriale»;

sul giornale l’articolo si intitolava «Apriamo un dibattito sul caso Pannella»;

nel testo l’espressione «fascismo degli antifascisti» non compariva mai;

l’oggetto della critica non erano affatto gli antifascisti tout court bensì i sedicenti «antifascisti» che stavano al governo e sedevano in parlamento, colpevoli di non accogliere alcune richieste di Marco Pannella che digiunava da settanta giorni.

Se non si fosse fermato alla parola «verosimile» e avesse letto il mio pezzo per intero, Giovetti queste cose le saprebbe: sono spiegate in un apposito paragrafo, intitolato proprio «L’equivoco sul “fascismo degli antifascisti”». Problemi ed equivoci, ad ogni modo, sono a monte, e conviene esporli con la massima chiarezza. Il primo riguarda specificamente Pasolini, o meglio: la sua ricezione nell’Italia di oggi. Scritti corsari è una raccolta di articoli di giornale e interventi estemporanei risalenti a quasi mezzo secolo fa. Il libro è pieno zeppo di riferimenti alla cronaca e alla situazione politica di quei giorni, di allusioni oggi indecifrabili ai più, di nomi e cognomi oggi ricordati da pochissime persone. Il senso di molti interventi può essere ricostruito solo con la loro, spesso faticosa, ricontestualizzazione. Non solo del libro manca un’edizione critica, ma è stato eternato, pietrificato dalla morte e dalla santificazione post mortem di Pasolini, ergo continua a essere ristampato e a tornare in libreria completamente fuori contesto e come una sorta di «libro sacro». Posizioni transitorie, che di certo l’autore avrebbe approfondito o superato, sono diventate comandamenti incisi su pietra. Formulazioni ambigue sono diventate corpi contundenti da usare nelle tenzoni di oggi. Se aggiungiamo che su alcuni fenomeni allora in corso Pasolini sbagliò clamorosamente il giudizio, non penso di esagerare se dico che Scritti corsari, suo malgrado, si è trasformato in qualcosa di molto simile a uno sciocchezzaio. L’altro problema è la generale ignoranza su cosa sia una fonte. 

– E dove starebbe ‘sta frase di Pasolini?

– Cosa credi, di cogliermi in castagna? Sta sul Secolo d’Italia!

Ieri, su Twitter, Benedetta Pierfederici ha citato una frase di Marc Bloch: Marc Bloch (1886 – 1944) «In tutti i casi in cui non si tratti dei liberi giochi della fantasia, un’affermazione non ha il diritto di presentarsi se non a condizione di poter essere verificata; per uno storico, se usa un documento, indicarne il più brevemente possibile la collocazione, cioè il modo di ritrovarlo, non equivale ad altro che a sottomettersi ad una regola universale di probità. Avvelenata dai dogmi e dai miti, la nostra opinione, anche la meno nemica dei “lumi”, ha perduto persino il gusto del controllo. Il giorno in cui noi, avendo prima avuto cura di non disgustarla con una vana pedanteria, saremo riusciti a persuaderla a misurare il valore di una conoscenza dalla sua premura di offrirsi in anticipo alla confutazione, le forze della ragione riporteranno una delle loro più significative vittorie.» (Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998, pp. 68-69)

Benedetta aggiungeva: «Cosa significa “poter essere verificata”? Significa che chi presenta, ad esempio, una citazione deve rintracciarne e poi dirne l’origine (la fonte, appunto). Chi legge la citazione deve poter rifare la strada a ritroso e, se necessario, confutarla. Se chiedo conto di una citazione “Pasolini a Moravia”, la fonte non è un articolo online o un blog o un tweet. La fonte è il documento che contiene la citazione. È faticoso trovare le fonti e presentarle? Il più delle volte, in effetti, lo è. Risalire la corrente, evitare le rapide, non perdersi negli affluenti… Ma non ci sono altri modi per procedere nella conoscenza.» Dovrebbe essere l’ABC, ma non lo è, per tanti motivi. Per questo Nicoletta Bourbaki ha scritto il suo “manuale” su come riconoscere le bufale, intitolato Questo chi lo dice? E perché?

Ma sempre Pasolini? Come mai?

Pasolini, lo abbiamo visto, non è l’unico intellettuale di sinistra morto e impossibilitato a difendersi il cui pensiero viene decontestualizzato, distorto, falsificato. Ma è di gran lunga il più utilizzato. Perché? Ripropongo qui, per discuterne insieme, uno spunto di riflessione risalente a qualche mese fa, quando il lavoro di debunking del Pasolini «anti-antifascista» era ancora agli inizi. «Prima o poi andrà ricostruita la genealogia di quest’utilizzo di Pasolini come auctoritas per ogni stagione e occasione. Un processo di lungo corso che, banalizzandone l’opera e la figura, lo ha trasformato in fashion icon per ipse dixit pronti da indossare. Di sicuro c’entra la sua “santificazione” dopo il martirio, ma non basta a spiegare tutto. C’entra anche la contraddittoria complessità del suo percorso, unita all’oltraggiosità di molte sue prese di posizione. E c’entra il suo modo di esprimersi, il suo “senso della frase” […] Il contesto discorsivo costruito da Pasolini è un campo di tensioni, un vasto reticolo di corde tese all’estremo, a collegare vari temi, concetti, momenti. Corde sempre sul punto di spezzarsi. Seguendole con lo sguardo si trovano vere e proprie “rime narrative” e tematiche, ed è ciò che più affascina nell’installazione. Ma c’è anche un aspetto spaventoso: si capisce che per snaturare un’affermazione di Pasolini basta davvero pochissimo. Il modo più facile di snaturarla è dire, su qualunque argomento: “Pasolini la pensava così, punto”.» Questo punto, che rende perentorie affermazioni spesso insensate, toccherà ogni volta farlo saltare, finché, un giorno, non smetteranno di usare Pasolini, e si concentreranno su qualcun altro. Noi dobbiamo restare vigili.

Nel suo The Mexican Night Ferlinghetti si fa una domanda che vale la pena riproporre: «From which way will the fascists come this time, baby?»

“Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)”, di Alessandro Viola il 13 maggio 2021 su centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it. Tra i libri dedicati a Pier Paolo Pasolini usciti nel corso del 2020 non si può non ricordare l’interessante volume di Alessandro Viola intitolato Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975), pubblicato a maggio dalla casa editrice Mimesis. «Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)», di Alessandro Viola (Mimesis, 2020). La riflessione pasoliniana sul fascismo è complessa, peculiare, controversa. Complice la natura letteraria del suo linguaggio, Pasolini è diventato in tempi recenti un’autorità ambigua, contesa e rivendicata, a colpi di citazioni, dalle parti politiche più varie. Questo lavoro si propone di affrontare tale ambiguità, comprendendola. Che cosa pensava Pasolini del fascismo, vecchio e nuovo? E che cosa pensava dell’antifascismo e degli antifascisti del suo tempo? Il saggio cerca di rispondere a questi interrogativi calandoli all’interno del pensiero e della poetica dell’autore, a partire dai primi contributi giornalistici degli anni Quaranta, fino a culminare con gli interventi critici e polemici degli anni Settanta. Ne viene fuori una genealogia a tutto tondo della riflessione pasoliniana, che contempla tanto la natura intimamente letteraria quanto l’ispirazione politica della sua prospettiva. Il volume che è dedicato “A Guido Pasolini, caduto durante la Resistenza; e al nostro Guido, che ancora resiste” si apre con, in exergo, un brano della “celebre” lettera che Pasolini avrebbe scritto ad Alberto Moravia nel 1973: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Questo presunto brano pasoliniano, che è stato usato perfino da Matteo Salvini in un suo comizio del 24 febbraio 2018 in piazza Duomo a Milano, sempre più frequentemente viene citato dalla destra in modo strumentale per minimizzare la portata della violenza squadristica e razzista di questi ultimi tempi. In realtà l’autore di questo lavoro svela, dopo aver setacciato i tanti scritti pasoliniani ed in particolare l’epistolario pubblicato da Einaudi nel 1988 per la cura di Nico Naldini, l’inesistenza di tale lettera a Moravia. Affermazione che trova ulteriore conferma in un articolo apparso su “L’Internazionale” dal titolo Pasolini, Salvini e il neofascismo come merce, dove il collettivo Wu Ming 1 è in grado di dimostrare, dopo un’attenta analisi linguistica, che si tratta di una citazione assolutamente falsa. Alessandro Viola nel suo approfondito studio cerca anche di mettere in guardia il lettore dal rischio che anche chi cerca di dimostrare l’antifascismo intransigente di Pasolini finisce per trascurare il rigore nell’analisi dei suoi testi. Per questo motivo l’autore ha scelto di analizzare i testi e il suo autore calandoli all’interno della cornice storica corrispondente, tentando in questo modo di far emergere la visione che Pasolini ha del fascismo il più possibile in stretta aderenza con i testi considerati. Il volume si suddivide in due ampi capitoli: nel primo, intitolato “Le due strade che sole potevano portarmi all’antifascismo (1942-1948)”, si cerca di dare una panoramica della formazione culturale di Pasolini, e della sua prima opposizione al fascismo. Nel secondo capitolo, “Il fascismo secondo Pasolini”, si entra nel cuore dell’analisi pasoliniana introducendo anche il nuovo punto di vista che assimila il nuovo fascismo alla mutazione antropologica in atto causata dal consumismo e dalla nuova cultura edonistica imperante. L’autore in conclusione pone l’attenzione sui versi bilingui della poesia Saluto e Augurio contenuta nella raccolta La nuova gioventù (1975) dove si rivolge ad un giovane ragazzo fascista come già aveva fatto nel testo teatrale Bestia da stile (1974). – Alessandro Viola è dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si occupa di Storia culturale e di Letteratura italiana moderna e contemporanea. 

Ma Pasolini non stava con i poliziotti. Il 1° marzo ’68 gli scontri di Valle Giulia che gli ispirarono la famosa (e fraintesa) poesia contro gli studenti borghesi. Giovanni De Luna l'1 Marzo 2018 modificato il 16 Giugno 2019 su La Stampa. Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news. Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espresso del 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica. Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità. Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti». Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia…I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda. Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti. Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati - l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana». Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare.

Pier Paolo Pasolini. Lo ricordiamo con questo articolo per l'interpretazione autentica, scritto per il Corriere della Sera il 24 giugno 1974, che fa parte dei famosi scritti corsari. Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975). «Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo “Potere” con la P maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su «l’Unità» (12-6-1974) – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale). Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare. L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. Maurizio Ferrara, nell’articolo citato (come del resto Ferrarotti, in « Paese Sera », 14-6-1974) mi accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la mia può essere l’ottica di un «artista», cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere (che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo) si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di «anomia». Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli. Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza. Per tornare così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni per sostenere che la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e estremamente povero – di linguaggio verbale. È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. I problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa. Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il cosiddetto «compromesso storico», unico modo per cercare di correggere quello Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al CC del partito comunista (cfr. «l’Unità », 4-6-1974). Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non competono le «facce», a me non compete questa manovra di pratica politica. Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica, donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i miei problemi? Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa polemica («Corriere della sera», 10-6-1974) dicevo che i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla:

1) perché parlare di « Strage di Stato » non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì;

2) (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza.

In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima (letteratura per letteratura!) ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto (come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane) perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore. Pensate (se ne avete la forza) a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza dì Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, si, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo… Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.

Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975)

L'intervista del 74 a Pier Paolo Pasolini: "Oggi buona parte dell'antifascismo è ingenuo, stupido o in malafede". Massimo Fini il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Massimo Fini chiese il parere dello scrittore che sorprese tutti: "La società dei consumi è peggio del Regime". Mai come in questi anni in Italia si è sentita risuonare la parola «antifascista», insieme ai suoi due corollari «laico» e «democratico». Non c'è persona oggi in Italia (a parte i fascisti dichiarati) che non si proclami tutta insieme «laica, democratica e antifascista». Eppure mai come in questi anni la Repubblica è stata, al di là di certe apparenze permissive, percorsa da sindromi di intolleranza, di corporativismo, di antidemocrazia: di fascismo, infine, se fascismo significa anche la prepotenza del potere... Il fatto è che essere genericamente antifascista oggi in Italia non costa nulla, anzi spesso e volentieri paga. Ecco perché il termine è diventato ambiguo, si è consumato al punto da non voler dire quasi più nulla. Del resto è già abbastanza straordinario che a trent'anni dalla Resistenza e dalla caduta del regime si ragioni ancora in termini di fascismo e antifascismo. Questo vuol dire solo due cose: o che siamo rimasti perfettamente immobili e che trent'anni sono passati invano, o che dietro un certo antifascismo di maniera (che nulla ha a che vedere con l'antifascismo reale pagato di persona) si nascondono sotto mentite spoglie i vizi di ieri, le intolleranze, il conformismo, il servilismo di fronte al potere. Un «antifascismo» oltretutto pericoloso perché rischia con il suo conformismo e la sua intolleranza di fare dei fascisti reali dei martiri ingiustificati, e rischia di fare apparire quasi dalla parte della ragione chi ha indiscutibilmente torto. Da questi dubbi nasce la nostra inchiesta. Un'inchiesta, come si vede, delicata (l'accusa che ci verrà immediatamente rivolta, lo sappiamo, è di «fare il gioco delle destre»). Per questo abbiamo chiamato a rispondere a questi dubbi e a queste domande uomini della cui reale, antica e provata fede antifascista non è lecito dubitare.

PASOLINI: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. Partiamo dal recente film di Naldini: Fascista. Ebbene quel film, che si è posto il problema del rapporto fra un capo e la folla, ha dimostrato che sia quel capo, Mussolini, che quella folla sono due personaggi assolutamente archeologici. Un capo come quello oggi è assolutamente inconcepibile non solo per la nullità e per l'irrazionalità di quello che dice, per il nulla logico che sta dietro quello che dice, ma anche perché non troverebbe assolutamente spazio e credibilità nel mondo moderno. Basterebbe la televisione per vanificarlo, per ucciderlo politicamente. Le tecniche di quel capo andavano bene su di un palco, in un comizio, di fronte alle folle oceaniche, non funzionerebbero assolutamente su uno schermo a 22 pollici... Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo, io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell'urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa bonaria e grassoccia società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un fascismo bello e buono. Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa. Ma se noi guardiamo i giovani di oggi, anch'essi sono inquadrati, in divisa. Con una differenza però. Allora i giovani, nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant'anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, li aveva repressi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio nel fondo dell'anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell'intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all'epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato la loro anima. Il che significa, in definitiva, che questa civiltà dei consumi è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo... Secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività fatta cadere dall'alto, voluta dall'alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l'antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime. Se vogliamo fare dell'antifascismo sul serio noi non dobbiamo pronunciare nei confronti dei fascisti dei giudizi intellettuali o moralistici ma dei giudizi storici e politici. Non sono dei peccatori: sono dei nemici. Dei nemici di cui si deve tener conto, della cui cultura si deve tener conto. In questo senso gli intellettuali italiani di sinistra hanno delle gravissime colpe. Perché hanno sempre giudicato con sufficienza, con boria, con stupida superficialità la cultura di destra. Hanno sempre preferito ignorare la cultura di destra, chiudere gli occhi, basti pensare al caso clamoroso di Nietzsche. Le tesi di destra non vanno respinte a priori. Vanno giudicate. Perché, per quanto possa sembrare strano, i fascisti hanno un pensiero, una filosofia, una cultura. Che è una grande cultura che partecipa strettamente della cultura democratica e antifascista: perché il pensiero di Gentile è l'altra faccia di Croce. Perché la filosofia di Gentile la ritroviamo in Hegel. Ci si vergogna a dover spiegare ancora queste cose. Infine l'antifascismo, anche il più vero, anche quello vissuto e pagato sul campo non significa mancanza di misericordia. E voglio concludere col distico che Paul Éluard, poeta comunista, dedicò alle ragazze rapate a zero perché erano state con i nazisti: A quel tempo per non punire i colpevoli si rapavano delle ragazze». Massimo Fini

Moravia, uno scrittore passato dagli omissis all’oblio. Marcello Veneziani il  30 Settembre 2020 su La Verità. È passato quasi inosservato nei giorni scorsi il trentennale della morte di Alberto Moravia. Quando era in vita Moravia era lo Scrittore per antonomasia, l’Intellettuale civile impegnato, il personaggio pubblico. Veniva citato e omaggiato come un Classico vivente. La sua immagine era dappertutto, al centro dei dibattiti, punto di riferimento dell’Intellettuale Collettivo. Le sue prese di posizione, i suoi ritratti, come quello che gli fece Guttuso (nella foto), le sue pose, le sue donne – da Elsa Morante che grandeggia su di lui a Dacia Maraini che alla sua ombra prende corpo come scrittrice – i suoi reportage di viaggi, il cinema, la sua Sabaudia che fu la Capalbio ante litteram, il suo moralismo ideologico, il suo vibrante discorso alla morte di Pasolini. Tanti suoi libri diventarono film. Poi subito dopo la sua morte, il suo nome scomparve, i suoi libri pure, tutto apparve passato remoto e polveroso. Di lui restò solo il secondo cognome a Carmen Llera, l’ultima sua consorte. E un paio di folte sopracciglia grandeggianti come cespugli nei suoi ritratti.

Pasolini

Eppure si parlava e si parla ancora tanto del suo sodale PierPaolo Pasolini, morto molto prima di lui, si ripubblicano i suoi scritti, si ridiscutono le sue tesi; invece di Moravia si sono perse le tracce. Dimenticato. Ora, a trent’anni dalla morte, quasi coeva alla morte del Pci, è difficile risvegliare interesse intorno a lui. Eppure, nonostante tutto alcune sue opere, dagli Indifferenti, opera più che precoce, alla Noia e La Ciociara, hanno il respiro di testi significativi. Rispecchiano una condizione, riflettono un’epoca e un mondo. Moravia restò il prototipo dell’Intellettuale Impegnato, antifascista, vicino al Pci, di cui fu pure europarlamentare seppure “laico”.  La macchina del consenso che a volte è macchina dell’oblio, aveva dimenticato il suo primo libro pubblicato con la casa editrice di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, l’Alpes; e poi la lettera col cappello in mano che Moravia aveva scritto a Galeazzo Ciano, genero del duce e ministro, per rassicurarlo che il suo libro Le ambizioni sbagliate era “tutt’altro che antitetico alla Rivoluzione fascista”; aveva dimenticato le coperture fasciste assicurategli da suo zio Augusto de Marsanich, gerarca e viceministro ai tempi del regime e poi primo presidente dell’Msi nel dopoguerra; non ricordava che suo cugino antifascista Carlo Rosselli lo riteneva un esponente scettico ma verace della “nuova generazione fascista”.

Prezzolini

Si dimenticò di Prezzolini che ai tempi del fascismo lo aveva invitato alla Columbia University negli Stati Uniti per far conoscere i suoi romanzi in America e che il famigerato Minculpop lo reclutò per un viaggio di Cina degli intellettuali nazionali (che poi, sull’onda di Malaparte, diventerà anni dopo la sua infatuazione maoista). Nessuno ricordava più, ai tempi del suo antifascismo militante e del suo ruolo di vetrina, gli aiutini di regime e la protezione dello stesso Duce ai suoi “Indifferenti”. Nessuno ricordava più che per anni Alberto Moravia era stato nel dopoguerra il segretario personale dell’Arcitaliano Curzio Malaparte a partire dalla sua rivista Prospettive. Può essere ancora istruttivo scorrere libri come Intellettuali sotto due bandiere di Nino Tripodi o Camerata dove sei? di Claudio Quarantotto (che si firmava Anonimo Nero) per rendersi conto di lui e dei suoi tanti compagni di viaggio che voltarono gabbana. Col passare del tempo, Moravia era diventato “Il Conformista”, per citare il titolo di un suo libro, incarnava il Canone ideologico della cultura italiana. E dava la linea, sgridava gli eretici che non seguivano la linea progressista, marx-freudiana e filocomunista. Per esempio, nell’aprile del 1963 su L’Espresso Moravia rimproverava il compagno Pasolini per aver accettato di girare un film con Giovannino Guareschi un conservatore che era stato nel campo di concentramento nazista per la sua fedeltà al regno d’Italia.

Guareschi

Moravia scriveva che “in questi tempi ci accade di vergognarci degli altri, riferendosi a Guareschi e invitando Pasolini a non cadere nella “trappola”. Sei troppo candido per Guareschi, diceva Alberto a Pierpaolo, non contaminarti. E usava proprio l’espressione “candido” per alludere all’omonimo settimanale di battaglia di Guareschi. Divertente era il perbenismo di Moravia che accusava Guareschi di scrivere per una rivista “pornografica” che era poi Il Borghese, per via delle foto osé al centro della rivista. Eppure alla letteratura pornografica in salsa psicanalitica Moravia avrebbe presto dato i suoi contributi (per esempio il pessimo romanzo Io e lui, solo per fare un esempio, dove lui è il suo organo sessuale).

Certo, uno scrittore non si può ridurre al suo ruolo civile e alle sue amnesie, alle sue piccole viltà, ai suoi camaleontismi e alle sue opere peggiori. E gli scrittori in fondo vanno giudicati per le opere e non per la biografia o il mondo in cui si comportarono nella vita pubblica. Però è bene non dimenticare l’emisfero in ombra di Moravia, soprattutto quando tutti gli altri tendono a non ricordarsene. MV, La Verità

Il Pci si celebra Cento anni di menzogne. Alessandro Gnocchi il 19 Gennaio 2021 su Il Giornale. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un'invenzione della propaganda. L'Unione Sovietica era pacifista a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da... (ex?) comunisti. Massì. Non facciamo i bastian contrari a tutti i costi. È stupido ricordare fatti sgradevoli. San Gramsci disse che la piccola e media borghesia erano «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè». Quindi proseguiva, con divino afflato, che la classe sociale in questione bisognava «espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Col ferro e col fuoco, che carino. Sul riformismo di Togliatti, sarebbe proprio cercare il pelo nell'uovo il voler ricordare queste parole del Migliore: «Nella persona e nell'attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L'insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l'insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero». Uno zero, dai Palmiro, non fare l'invidioso, sappiamo tutti (?) che in realtà Turati fu il tuo maestro. Quanto alla guerra di Liberazione, chiedere informazioni nel triangolo rosso e lungo il confine orientale: regolamento di conti a mano armata (quella comunista), brigate tradite e sotterrate (dai gappisti), infoibamenti (dai gappisti e dai compagni titini). La «svolta» democratica era tatticismo, voluto e ordinato da Mosca, che stava rafforzando la presa sull'Europa dell'Est e non poteva permettersi l'apertura di un fronte in Italia. In quanto alle posizioni del Partito comunista davanti all'ingresso dei carri armati in Ungheria, sono limpide. Ecco qua cosa scriveva Giorgio Napolitano: «L'intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo». Secondo l'Unità, gli insorti non erano socialisti in cerca di riforme ma «teppisti, spregevoli provocatori e fascisti». Beh, direte voi, però a Praga nel 1968... No, signori, davanti alla repressione, il Partito comunista, con Berlinguer in ascesa a fianco di Luigi Longo, non riuscì ad andare oltre un «forte dissenso». Ah, il dissenso. Vogliamo parlare del tentativo, andato a vuoto, di impedire la pubblicazione del Dottor Zivago di Boris Pasternak? Rossana Rossanda si prese la briga di far capire all'editore Giangiacomo Feltrinelli che quel romanzo era brutta propaganda anti-comunista. Darlo alle stampe significava «passare il segno». Non solo Rossana Rossanda. Scese in campo tutta la prima linea della dirigenza: Pietro Secchia, Paolo Robotti, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Mario Alicata. E quando il premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solgenitsin fu esiliato? I comunisti di casa nostra giudicarono l'atto proporzionato, una dimostrazione di responsabilità da parte dei sovietici. Certo, l'esilio era una misura restrittiva dei diritti individuali, ma Solgenitsin aveva sfidato lo Stato e sostenuto aberranti tesi controrivoluzionarie. Sì, però dopo... a un certo punto le cose saranno cambiate. Nel 1977, non ancora. Quello fu l'anno della Biennale del dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana. Ordine diretto di Mosca, subito raccolto dai compagni italiani: boicottate la mostra veneziana. Inutilmente cercherete notizia di questi o analoghi fatti. Prevale, nella stampa e nell'editoria, l'adorazione per la storia formidabile del comunismo italiano, senza macchia e senza paura. D'altronde, il comunismo ha perso come sistema politico ma ha vinto come sistema culturale, come mentalità di massa. Facciamo un esempio. Chi ha pagato il conto più salato in questi mesi piagati dalla pandemia? La piccola o media borghesia, impossibilitata a lavorare e ingannata dai mitici ristori, ovvero soldi a pioggia che non arriveranno mai nella misura necessaria e promessa. D'altro canto come potrebbe lo Stato italiano, che non ha un centesimo, provvedere davvero a tutto? Bene, ricordate le parole di Gramsci da cui siamo partiti? La borghesia «da espellere... col ferro e col fuoco»? Alessandro Gnocchi 

VERITÀ STORICA E STRATEGIA DELLA MENZOGNA: IL TOTALITARISMO COMUNISTA. Renato Cristin il 24 aprile 2019 su opinione.it. «Ciò che più colpisce gli studiosi che hanno esaminato con attenzione i regimi comunisti non è tanto l’entità e la mostruosità dei crimini commessi, quanto la vastità delle complicità e delle omertà che essi sono sempre riusciti a trovare nei Paesi occidentali». Infatti, «il comunismo è riuscito, per durata e diffusione, a condizionare la vita politica e sociale di tanti popoli e a soggiogare, con i suoi metodi e con le sue menzogne, interi continenti», ma «la sua influenza è stata enorme anche perché era sorretta da una formidabile organizzazione internazionale», che consisteva in una incomparabile potenza ideologica e in un vastissimo appoggio negli ambienti culturali, accademici e giornalistici occidentali. Così scriveva Sandro Fontana dieci anni fa in un libro intitolato Le grandi menzogne della storia contemporanea (Edizioni Ares, Milano 2009). In quanto entità statale, a parte alcune sacche marginali di persistenza (la Cina, pur essendo guidata dal partito comunista, è un fenomeno più complesso e non immediatamente classificabile), il comunismo è crollato, ma la sua idea, deflagrata oggi in molte metamorfosi, è sopravvissuta, e il sostegno a questa ideologia sanguinaria (oltre cento milioni di morti, secondo gli studi più accurati, come quello a cura di R. Conquest, Il costo umano del comunismo, Edizioni del Borghese, Roma 1973), è ancora forte in tutti gli ambienti che sono in grado di plasmare l’opinione pubblica occidentale. Le forme di questo sostegno sono svariate e dalle molteplici sfumature, ma hanno in comune l’affermazione di una presunta superiorità intellettuale e l’intento di consolidamento del potere, istituzionale quando possibile e culturale in ogni caso. In questa logica, detto in breve, ideologia comunista e produzione culturale sono diventate sinonimi: dove c’è l’una, dovrà per forza esserci anche l’altra. Su questo assioma si sono rette per decenni molte delle coordinate politiche dell’Europa occidentale e su di esso hanno fatto la loro fortuna i partiti della sinistra europea. Questa però è una menzogna che ha potuto passare per verità solo perché l’ideologia che l’ha spacciata ha un intrinseco carattere violento e totalitario, come aveva perfettamente visto il bulgaro Tzvetan Todorov: «mentre i Paesi occidentali hanno imboccato la via della democrazia, scelta per decisione maggioritaria della popolazione, i loro intellettuali hanno invece optato per regimi violenti e tirannici. Se in quei Paesi il voto fosse stato riservato ai soli intellettuali, oggi vivremmo sotto regimi totalitari». A questa tendenza ideologica va aggiunto il fatto che la retorica sinistrista si è, quasi sempre, fondata sulla falsità, perché, uso ancora parole di Sandro Fontana, «con la menzogna è facile distruggere l’avversario politico e anche conquistare il potere». Tuttavia l’impostura, per quanto grande e ramificata, non consente di governare Stati di grande complessità e di grande autoconsapevolezza come quelli europei, e quindi il limite di quella ideologia consiste nella sua stessa strategia. Per poter avere successo, la strategia della menzogna deve spingere ogni discorso al parossismo, deve portare ogni situazione al suo estremo, deve torcere il linguaggio a scopi sofistici. Se non viene scoperta, questa tecnica offre esiti pragmatici durevoli, ma se viene smascherata, il velo cade, il fumo si dirada e si svela la verità.

L’eccezione e la legge

Un filo di questa trama pende oggi in una polemica che le sinistre genericamente definibili hanno lanciato contro l’amministrazione regionale del Friuli-Venezia Giulia, il cui Presidente Massimiliano Fedriga ha deciso di recepire una mozione approvata dal Consiglio finalizzata a «sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo o in qualunque modo a diffondere azioni volte a non accettare l’esistenza di vicende quali le Foibe o l’Esodo, ovvero a sminuirne la portata». Da qualunque parte del mondo una simile mozione verrebbe classificata nella normale attività legislativa: è normale che la politica contribuisca a custodire la memoria storica, difendendola da menzogne e mistificazioni. È normale che il crimine forse più spregevole che ha colpito gli italiani, in quanto comunità etnica-nazionale, in tutta la loro storia venga definito come tale e, in quanto tale, diventi una sorta di unicum che non può essere associato ad altri, pur gravi. Se dunque quella pulizia etnica contro gli italiani in quanto tali ha il carattere di eccezione storica, eccezionale dev’essere anche la considerazione che la riguarda, e quindi anche il potere legislativo deve trattarla in forma di eccezione. Con ciò, la ricerca storica non viene inficiata nella sua libertà, ma, analogamente a quanto accade per la legislazione tedesca in materia di Shoah, fatte ovviamente salve tutte le differenze, per portata e per conseguenze, fra queste due tragedie storiche, quando si scalfisce il perimetro che protegge l’eccezione si infrange un limite. Da qui la mozione e la decisione del Presidente Fedriga. È normale dunque che una eccezione sia trattata distintamente dagli altri casi. Ma in Italia, e soprattutto a Trieste, sembra che questa normalità non venga accettata da coloro che, dunque, non ritengono che quella spaventosa tragedia costituisca eccezione, e la ridimensionano, la minimizzano. Le forme di questa denegazione (termine psicoanalitico quanto mai appropriato) sono svariate: si rifiuta la realtà storica (oggi però i casi di questa forma estrema non sono più molto frequenti), le si nega dignità, le si nega visibilità, le si nega memoria piena, le si nega il senso dell’unicità, ma tutte queste versioni si discostano dalla verità, che dunque sarebbe oggetto di confutazione storica, non di esperienza esistenziale, come se la verità dovesse essere stabilita dalla storiografia e non dalla memoria delle persone, sempre vivente perché incarnata nell’esperienza. Agli storici spetterebbe sancire la verità dell’esperienza esistenziale? L’oggettività dello storico sarebbe superiore all’esperienza della vittima o alla memoria di coloro che ne rivivono la testimonianza? Alla denigrazione diretta si affianca lo scherno: oltre al disconoscimento di un crimine eccezionale nella sua portata etnico-politica, si mostra qui un positivismo gretto e totalitario, che pretende di imporre agli individui, ai popoli e allo spirito le tabelle del computo storiografico. La tesi della superiorità intellettuale della sinistra applicata al terreno dell’esperienza vissuta: l’ideologia di sinistra ci dice cosa è politicamente giusto; la storiografia di sinistra determina come interpretare gli eventi storici. Ma poiché questi ultimi sono un intreccio inestricabile di fatti reali e di vissuti esistenziali, la loro verità – nel senso filosofico e quindi nel senso originario – non è riducibile agli schemi storiografici. E, in questo senso, il caso di cui sto parlando è paradigmatico.

Il totalitarismo dell’ideologia comunista

Siamo di fronte a un frutto velenoso del pensiero totalitario, perché il totalitarismo si produce mediante la negazione della verità e l’imposizione di schemi strumentali. E a questo scopo si dice pure che quella mozione e la sua conseguente adozione sarebbero divisive. È uno schema talmente vecchio da risultare noioso, se non fosse però sempre dannoso: solo ciò che propone o impone la sinistra sarebbe unitivo, tutto il resto è divisivo. Se si accettano i dettami della sinistra si ha la pace, altrimenti scatenano la guerra. Questa miscela tra sofisma e intimidazione è micidiale, ma da qualche tempo si intravedono alcune crepe nella corazza politicamente corretta, si incominciano a vedere le menzogne che la strutturano; gli italiani si stanno rendendo conto, e lo hanno spesso dimostrato nell’esercizio democratico del voto, che quella retorica è finalizzata all’inganno. Infatti, sotto la maschera di un appello alla libertà di ricerca si vogliono imporre schemi ideologici e, molto più in basso, sistemi di finanziamento che retroalimentano quegli schemi, in un circolo che serve a consolidare e magari rafforzare posizioni acquisite nel corso di decenni di dominio culturale. In gioco dunque è il potere che per decenni la sinistra, la sua retorica e la sua storiografia sono riuscite a imporre all’opinione pubblica. Il confine orientale continua ad essere aggredito da un’ideologia che, nonostante il passare del tempo, nonostante l’affermarsi delle verità storiche, nonostante i suoi fallimenti planetari, sembra la stessa di settant’anni fa, con la stessa struttura logica e con le stesse formule. È la prova che, detto sommariamente, il comunismo, come teoria e come prassi, è vivo, e non è limitato solo all’estremo lembo del Nordest, ma è diffuso in tutto il Paese e, in forme diverse, ovunque nel mondo. Dopo un secolo di aggressioni verbali (per non parlare delle violenze fisiche e degli stermini di massa), i militanti di questa ideologia, oggi mascherati da buonisti e proliferati nella galassia progressista, hanno la spudoratezza di ergersi a paladini del discorso pacato e da inflessibili fustigatori di quelli che, furbescamente, essi chiamano «i discorsi d’odio» e che, invece, sono argomenti teorico-politici avversi al dilagante politicamente corretto o, talvolta, semplici espressioni di buon senso. Con la sicumera che solo i professionisti della menzogna e della dissimulazione riescono ad avere, gli apologeti del buonismo si sono ritagliati uno spazio ragguardevole nel discorso pubblico, nei media e nei social, e lo consolidano con la sistematica aggressione nei confronti di qualsiasi espressione che possa anche solo minimamente mettere in crisi la loro ideologia. È la solita e arcinota mossa dell’attacco preventivo: da un punto di vista politico, tutto ciò che minaccia il piedestallo etico-linguistico su cui si ergono questi sinistri censori va attaccato con accuse pesanti anche se infondate: nazionalismo, populismo, xenofobia, fascismo e così via; da un punto di vista psicologico, bisogna diffamare qualsiasi persona e qualunque idea che possa smascherare la menzogna su cui si regge il politicamente corretto. Che questa truce ideologia, in più di un secolo di vita, non abbia mai cambiato questo schema è un fatto inquietante e al tempo stesso risibile. L’assurda tesi della superiorità etica e politica della sinistra, pur essendo palesemente errata è talmente diffusa da esser diventata luogo comune. Nonostante il crollo dei consensi ai partiti della sinistra, dovuta anche alla diffusione delle idee liberali, del liberal-conservatorismo e del cattolicesimo non di sinistra, nonostante il lavoro di smascheramento ideologico che dal 1994 il centrodestra italiano ha realizzato (e a cui bisognerà attribuire il giusto riconoscimento storico e teorico), le carte continuano a darle gli esponenti di quella ideologia: politici, intellettuali, giornalisti, docenti che assegnano patenti di democraticità, di antifascismo e di qualsivoglia definizione utile ai propri scopi. E gran parte della popolazione, spesso inconsciamente o per timore reverenziale, con comprensibile ma immotivata sudditanza, accetta quelle classificazioni, quelle categorie che hanno la pretesa di regolare i processi culturali, i rapporti sociali e perfino le dinamiche psicologiche degli individui: una pretesa chiaramente totalitaria. Si tratta di una sceneggiata ideologica i cui numerosi attori però hanno fatto e continuano a fare tremendamente sul serio: un tempo agivano per conto dell’internazionale comunista, sul sottile e rovente filo che congiunge l’impegno politico al terrorismo; oggi agiscono in nome dell’internazionale buonista (camuffamento di quella precedente), non più contigui alle frange terroristiche, ma con il medesimo atteggiamento di terrorismo psicologico e linguistico di un tempo. Se, come sosteneva Guglielmo Ferrero, il terrore è lo sbocco inevitabile della rivoluzione, e se il terrore si pratica non solo con la violenza fisica ma pure con quella linguistica, il terrore della nostra epoca è quel blocco culturale che chiamiamo «il politicamente corretto», forma modificata e aggiornata del rivoluzionarismo comunista.

Il diritto democratico di governare

Se la sofistica classica, detestabile ma eccellente, porta al limite ogni ragionamento, la deprimente sofistica attuale, che è un perfetto impasto di leninismo e di postmodernismo (e che nel nostro caso specifico è la sofistica con cui agiscono i negazionisti, i riduzionisti e i loro conniventi, in tutte le numerose sfumature), adotta lo stesso canone eristico, ma poiché è oggettivamente molto al di sotto del livello di quella antica, non riesce a reggere il discorso al limite, tradendo una volontà che sotto la nuova retorica sofistico-decostruzionistica continua a riprodurre la vecchia pretesa di superiorità, la tendenza alla sopraffazione, la concezione totalitaria. Difficile stare sul limite senza varcarlo, se si è tronfi di suprematismo ideologico, culturale, politico e perfino morale. Il vizio antico della sinistra trova in se stesso la causa del suo fallimento. Questo recente episodio – che dalle cronache locali si è esteso alla ribalta nazionale, sia perché, riguardando la pulizia etnica anti-italiana, tocca un nodo molto sentito nella coscienza nazionale, sia perché fra i contestatori di quella mozione del centrodestra ci sono istituti di importanza nazionale – mostra infatti che, in un crescendo di risentimento, la sinistra, che pur raccoglie studiosi seri insieme a ciarlatani, che raggruppa moderati ed estremisti, persone oneste e faccendieri in malafede, negazionisti e riduzionisti, ha oltrepassato quel limite. Forse non lo ha nemmeno visto, ritenendosi infallibile e al di sopra di ogni vincolo morale, ma di fatto ha superato una linea di demarcazione: la tragedia delle foibe è intangibile. Questo è il limite invalicabile, al di là del quale si aprono scenari raccapriccianti, che ci fanno ripiombare a epoche in cui l’ideologia comunista imperava. E forse proprio questa è la nostalgia segreta che spinge a spostare sempre più in avanti il limite del discorso, in una pulsione di autoaffermazione che vuole distruggere, tacitare o negare l’avversario politico e culturale. Sul crimine delle foibe non si transige, come non si transige sulla criminale aberrazione della Shoah. Tutto qui. Al di là di questa linea c’è il divieto, perché si entra nella zona oscura in cui tutto è possibile, anche Auschwitz, in un territorio mefitico in cui si nega l’essenza dell’essere umano. Con questo divieto la libertà della ricerca non viene impedita né minimamente compromessa, e consiste nella responsabilità scientifica e morale di ciascuno, che può liberamente decidere se valicare o meno il limite. Ma la politica, quando ha la responsabilità di governare, ha anche il diritto di decidere come perseguire nel modo migliore il bene comune, perché il potere democratico si fonda su tale diritto. E poiché la nozione di bene comune non è soltanto oggettiva ma si determina anche in base alla concezione della società e del mondo propria di chi è stato eletto per governare, questi decide come indirizzare gli investimenti pubblici per il conseguimento di ciò che è ritenuto bene e giusto. Questo è il senso di legittimità del potere, di quello costituente e di quello ordinario, perché in ciò consiste il principio della democrazia nella sua applicazione concreta. Si può contestare una decisione, e anche questo è un aspetto della dialettica democratica, ma non si può discutere il diritto di decidere, perché se il potere è legittimato dalla maggioranza degli elettori, negare questo diritto è un atto eversivo.

I crimini del comunismo

Il linguaggio è un’arma a doppio taglio, come ben sapeva Freud. Infatti può anche tradire intenzioni nascoste, come nel caso di un recente documento di un istituto di ricerca storica, nel quale la parola «crimini», che è la più adatta per designare gli eventi delle foibe e dintorni, viene usata solo per i «crimini di guerra italiani». I crimini delle foibe vengono chiamati «stragi», con un termine neutro, semanticamente ambiguo, ideologicamente idoneo. E ancora, in una lettera di protesta contro la mozione del Consiglio Regionale FVG, sarebbero «velenose nostalgie» gli sforzi che l’amministrazione regionale e le associazioni a difesa della memoria della tragedia istriano-dalmata stanno compiendo affinché l’intangibilità di quella memoria venga preservata nella sua integrità. Ma in realtà quell’espressione è una parola, freudianamente, caduta, che tradisce la volontà di riprodurre gli inganni ideologici su cui si sono costruite le strutture del potere culturale e che, quindi, evoca la nostalgia di un predominio parzialmente compromesso e, ci si augura, in esaurimento. Questa sì che è nostalgia, e pure venefica. E su questa linea semantica si inserisce pure uno schiaffo denigratorio lanciato contro la Lega Nazionale, associazione insignita benemerita per l’italianità, che nella medesima lettera di protesta viene definita «un ente privo delle necessarie credenziali di competenza e serietà sul terreno della ricerca storica». Ancora una volta la prassi della denigrazione, ma la Lega Nazionale non necessita di difensori: la sua storia, la sua caratura scientifica e la sua integrità morale bastano, da sole, a rintuzzare qualsiasi aggressione, qualsiasi diffamazione. Il modulo è sempre il medesimo: i migliori stanno a sinistra, e chiunque altro, singolo o associazione, si collochi dall’altra parte è per definizione peggiore. E così si svela il nucleo teorico e ideologico da cui discendono, come conseguenze applicative, tutte le pratiche qui brevemente descritte e molte altre non esaminate. I crimini del comunismo sarebbero, per varie ragioni, meno gravi di quelli del nazionalsocialismo: questa è la logica, chiamiamola così, che ancora oggi sembra guidare, talvolta anche come un riflesso condizionato (imposto da decenni di ideologico lavaggio del cervello), le mosse degli intellettuali di sinistra e, più in generale, l’azione del politicamente corretto applicato alla storia. Contro l’essenza criminogena e gli esiti criminali del nazionalsocialismo abbiamo, tutti, non solo la sinistra, detto parole definitive, che si riassumono in un’espressione un poco usurata ma del tutto adeguata: male assoluto. Lo stesso però va detto, e su ciò una parte non marginale della sinistra continua a non essere d’accordo, nei confronti dell’essenza e degli esiti, parimenti criminali del comunismo, pur nella diversità di scenario, di implicazioni e di conseguenze. Di qui la necessità, ormai improcrastinabile, di affiancare oggi al sacrosanto Processo di Norimberga (e a tutti i sotto-processi che hanno permesso di catturare e condannare altri criminali nazionalsocialisti; uno per tutti: il processo che a Gerusalemme ha visto alla sbarra Eichmann) una Norimberga del comunismo, ovviamente nelle forme che la nostra epoca può concedere. O si accetta di stare su questo piano culturale, scientifico ed etico, oppure si sta dalla parte del comunismo: tertium non datur. 

Comunismo: quando il falso diventa vero. Marco Gervasoni il 23 Giugno 2020 su culturaidentita.it. Sorvegliare e mentire: se c’è un distico che caratterizza il comunismo, come ideologia e come regime, è proprio questo. Sorvegliare e pure reprimere, ovvio; anzi in questo il comunismo non accetta confronti, salvo forse con il nazional-socialismo tedesco. Il mentire però è una caratteristica che definisce ancor più l’esperienza storica comunista, ne è anzi il tratto saliente: il comunista è comunista soprattutto perché mente. Bisogna intendersi sul concetto di menzogna e in ciò ci aiuta l’etimologia. Proveniente dal latino mentiri, che sta anche per “indicare”, condivide la radice sanscrita men, cioè “ricordare”. Mentire quindi non significa tanto celare la verità, quanto indicarne un’altra, alternativa a quella vera. Una verità che deve essere intesa in tre forme: empirica (vero è ciò che vedo), logica (vero è ciò che è conforme al principio di non contraddizione) e ontologica (vero è ciò che è coerente con il senso metafisico). Per questo distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, fin dall’antica Grecia diventa uno degli obiettivi fondamentali della filosofia. Perché il falso si maschera da vero o si confonde con esso e anzi, come scrive Sant’Agostino nel De Mendacio, il falso è tanto più dannoso quanto più si presenta come vero, come gli dei pagani.

Il comunismo rappresenta l’esempio più compiuto nella storia di falso che si presenta vero. Dal punto di vista dottrinale, è infatti figlio dell’Illuminismo e della idea settecentesca di “critica”. Secondo la celebre definizione di Paul Ricoeur, Marx assieme a Nietzsche e Freud, è uno dei tre “maestri del sospetto”. E infatti per Marx quello che si presenta come “vero” è, in realtà, frutto della costruzione del mondo ideologico della classe dominante. Per Marx la realtà è già una narrazione e in qualche modo egli è il primo decostruzionista, non per caso Michel Foucault e Jacques Derrida si definivano seguaci di Marx. Compito dei comunisti è quindi criticare, cioè decostruire, la narrazione dominante. Alla quale però, essi oppongono un’altra narrazione, che si presenta come vera: non vera in assoluto, perché la verità per Marx non esiste, ma vera agli occhi della classe operaia. Finché i marxisti stanno all’opposizione, la critica prevale sulla costruzione della verità alternativa, anche se essa è già presente nella propaganda moderna, di cui i partiti socialisti della Seconda Internazionale, a fine Ottocento, sono gli inventori. I problemi si pongono quando il comunismo, da opposizione, diventa governo, cioè regime. Ciò avviene per la prima volta in Russia, dove la cultura politica marxista si incontra con un’altra, pure di matrice europea occidentale, ma che aveva molto attecchito nel populismo russo. Vale a dire il nichilismo di Sergej Gennadievič Nečaev, seguace del tedesco Max Stirner, per il quale la realtà è solo proiezione della volontà del soggetto individuale, il mondo esterno essendo una sua costruzione. Nonostante la cultura positivista, che pure Lenin e i bolscevichi condividono, nel regime comunista si affermano l’idea e la prassi nichilistiche che è il partito a costruire la realtà. Da quel momento verità sarà solo ciò che viene affermato, deciso e messo in pratica dal Partito comunista. Ma poiché il Partito comunista coincide con lo Stato, i comunisti si impegnano a costruire una realtà e una verità alternative. Cosicché, da quel momento, nella propaganda comunista la menzogna diventa ciò che è vero, mentre ciò che è falso dal punto di vista empirico, logico ed ontologico, diventa il vero. Si potrebbero riportare centinaia di esempi della realtà alternativa, fondata sulla menzogna, che i regimi comunisti, da quello sovietico a quelli sudamericani e asiatici a quello cinese, hanno costruito nel corso dei decenni, tanto che i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quei paesi, si trovavano di fronte una sorta di Disneyland comunista: i più smaliziati se ne accorgevano e magari cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni di strada ci cascava o faceva finta di cascarci. Vecchia storia, si dirà. Mica tanto. In primo luogo, mentre nazismo e fascismo sono spariti da decenni, i regimi comunisti sono vivi e vegeti: da Cuba al Vietnam fino, ovviamente, alla Cina. Che sul tema della menzogna è perfettamente in linea con la tradizione di Marx, Lenin, Stalin, Mao (del resto tutti, tranne il georgiano, sempre rivendicati laggiù). In secondo luogo, gli eredi dei Partiti comunisti sono ben attivi: dal Pd in Italia alle varie opposizioni in paesi come Ungheria e Polonia. Molti dei loro dirigenti sono cresciuti nelle scuole di partito che, anche se alle Frattocchie, condividevano l’idea di “verità” di Mosca, cioè la logica della menzogna. E che ora, nel governo Conte, ammiratori di XI ed eredi di Togliatti e di Berlinguer siano fianco a fianco spiega molte cose: tutte preoccupanti.

La storia a metà. Il 25 aprile e la menzogna rossa che impedisce la riconciliazione nazionale. Alfonso Baviera il 25 aprile 2021 su loccidentale.it. E’ un nuovo 25 aprile, data che per la Repubblica Italiana segna un momento di svolta storico. Terminava la seconda guerra mondiale e con essa doveva scomparire ogni traccia del regime fascista che aveva governato il Paese per oltre 20 anni. Per ancora pochi giorni truppe dello sconfitto esercito fascista repubblichino avrebbero ancora imbracciato le armi, più in azioni di autodifesa che di vera e propria guerra. La guerra in Italia era stata brutale. Non solo tra gli eserciti regolari che combattevano al fronte, ma anche per “gli eserciti di partito”, da un lato i fascisti e dall’altro i partigiani (comunisti e non), che forse si combatterono con ancor più brutalità con episodi di impiccagioni e fucilazioni quasi quotidiane. Non mancarono episodi di violenza inaudita che coinvolsero anche le inermi popolazioni civili. Tanto brutale fu questa guerra civile che non fu possibile interromperla all’improvviso e, purtroppo, fece ancora molte vittime nei mesi successivi al 25 aprile 1945 tra fascisti, ex fascisti, conservatori, cattolici ed anche gente innocente. Questa scia di sangue fu dovuta ad un semplice fatto che storicamente in Italia si è sempre cercato di far dimenticare. Oltre alla guerra di liberazione nazionale era in corso una vera e propria rivoluzione “rossa” con il tentativo delle forze comuniste sia di egemonizzare il movimento partigiano (anche con atti violenti come la strage di Porzus che vide la morte di 17 partigiani cattolici per mano di partigiani comunisti) sia di favorire l’ingresso in Italia di eserciti stranieri ma di fede comunista (l’esercito nazionale yugoslavo del regime comunista guidato da Tito che condusse numerose azioni violente come le stragi delle foibe). Purtroppo per chi era favorevole a tale progetto, ma fortunatamente per molti altri, altri eserciti si trovarono ad invadere il territorio nazionale. Gli inglesi e gli americani oramai dilagavano per tutta pianura padana e, in un clima di diffidenza reciproca in embrione tra gli alleati vincitori, riuscirono ad arginare sia le forze partigiane, portando avanti un processo di rapida smilitarizzazione, che quelle dell’esercito yugoslavo. Risulta, quindi, evidente che tale circostanza ha sempre avuto un posto secondario nella Storia italiana (quella con la lettera S maiuscola), poiché ammettere tale fatto storico avrebbe significato allargare il concetto di “liberazione” collegato alla ricorrenza del 25 aprile. Perché se fu liberazione, ed è certo che lo fu, lo fu riferita a due pericoli antidemocratici che avevano dominato in passato il Paese o cercavano di farlo in futuro: quello fascista e quello comunista. Purtroppo per l’onestà storica i partiti di origine comunista si trovarono dalla parte dei vincitori e, quindi, ebbero facile gioco ad accreditarsi come “liberatori” e difensori della democrazia. Per comprendere come questo dato sia falsato basta verificare il livello di democrazia che è stato presente in tutti i regimi comunisti europei dopo la seconda guerra mondiale. Elezioni truccate, opposizioni arrestate, militarizzazione dell’apparato statale, costruzioni di barriere e muri quasi invalicabili, crollo del benessere popolare. Tutto questo “percorso democratico comunista” all’Italia fu evitato grazie alla presenza di migliaia di militari americani e inglesi e non perché le forze partigiane comuniste mirassero ad instaurare realmente un regime democratico nel nostro Paese. Chi lo affermava, e lo continua ad affermare, mentiva allora e mente oggi. E questa menzogna costringe l’attuale sinistra a mantenere costantemente un livello di scontro ideologico contro tutti coloro che o dichiaravano o dichiarano legami ideologici con il passato regime fascista. Questo scontro è servito a mantenere le forze ideologiche di origine comunista dalla parte dei vincitori e, quindi, gli ha permesso di creare una barriera nebulosa sui fatti storici di quegli anni. Sappiamo bene quante critiche furono indirizzate allo storico Renzo De Felice, che per molti anni cercò di riportare la “verità storica istituzionale” sui binari “della verità Storica”. Purtroppo, accettare questa verità storica, porterebbe molti di coloro che oggi sventolano la bandiera dell’antifascismo militante, in versione di forza democratica, a dover considerare proprio avversario anche chi rappresenta una ideologia come quella comunista, con la possibilità di potersi trovare nello stesso momento nella duplice posizione di democratico e antidemocratico. Forse accettare la verità storica sarebbe il primo passo fondamentale per iniziare un vero percorso di riconciliazione nazionale. Fascisti e comunisti, ex fascisti ed ex comunisti, post fascisti e post comunisti, tutti insieme messi dalla stessa parte della barricata, non avrebbero più motivo di continuare uno scontro politico e dialettico che oramai dura da oltre 75 anni e si potrebbe realmente considerare la data del 25 aprile come la “festa della riconciliazione nazionale”.

Berlusconi: Il comunismo é un grande viaggio dentro la menzogna. Il Presidente alla presentazione del libro ''Il sangue di Abele'' su forzaitalia.it. "Il comunismo fu un grande viaggio dentro la menzogna che coinvolse anche il mondo libero. E ancora oggi sul comunismo l’occidente fa fatica ad accettare e riconoscere la verità storica. E’ come se si dovesse fare conti con la propria coscienza e con l’indifferenza e la superficialità con cui molti intellettuali spalleggiarono il comunismo e qualcuno continua così ancora. Con questo libro ho avuto la conferma di ciò che sapevo e pensavo: l’ideologia comunista é la più criminale e disumana della storia dell’uomo. 16 anni fa ho voluto che Mondadori pubblicasse una testimonianza, forse la più vasta, di cosa è’ stato il comunismo e credo che tutti si siano resi conto dell’efferatezze di quell’ideologia. L’Ideologia comunista mirava a prendere il potere, era il potere per il potere. Ho letto questo libro e non sono riuscito a dormire. Sono poi d’accordo sul fatto che sia stato una malattia, una vera follia tanto e’ stata esasperata la sua realizzazione. E’ una speranza di tutti noi, seguiamo le vicende e vediamo se davvero la sinistra italiana riuscirà a fare quello che fece l’Inghilterra 100 anni fa. Sarebbe una cosa meravigliosa se anche il Pci che ha fatto molti lifting cambiando molte volte il nome si trasformerà in un partito socialdemocratico"

PILLOLE LETTERARIE. I maiali comunisti e le loro menzogne, in George Orwell. Simone Chiani il 20 luglio 2021 su lacittanews.it. In “La Fattoria degli Animali” George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair) compie un’impressionante denuncia allegorica al comunismo, colpevole di distruggere nella pratica tutto ciò che promette nella teoria. Il tradimento della rivoluzione bolscevica osservato da vasta distanza ha permesso allo scrittore britannico di comporre questa pungente novella in maniera impeccabile. Gli animali sono stufi di sottostare alle ingiuste prepotenze degli uomini, così decidono di ribellarsi tutti insieme: nella Fattoria Padronale gli esseri su due zampe sono cacciati durante una rivoluzione e rimangono, in “autogestione”, le bestie; la fattoria, pertanto, diviene “degli animali”. Tuttavia dopo un’iniziale gioia incontenibile, data dal fatto che per la prima volta sono coloro sempre consideratisi “schiavi” al potere, si iniziano a delineare nuove dinamiche, e nuove gerarchie. I maiali, capitani dell’insurrezione, sembrano via via dimenticarsi sempre più delle promesse fatte durante la rivolta, e arrivano ad accomodarsi così tanto al potere da divenire, alla fine del racconto, veri e propri umani. E’ l’utopia del comunismo raccontata con una pungente allegoria: i maiali, cioè i principali comunisti autori della rivoluzione, finiscono per diventare come i padroni, cioè i ricchi/borghesi/industriali/aristocratici, e per tradire dunque il resto degli animali, cioè il popolo che aveva creduto nella rivoluzione ed è finito per essere più schiavo di quanto non fosse in partenza. Con la sua lucidità disarmante, Orwell riesce a cogliere il declinare della situazione giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, finendo per regalare al lettore una favola socio-politica facilmente rapportabile alla realtà per tutta la durata del racconto. Il popolo (cioè il resto degli animali) finisce, come avviene in 1984, per perdere addirittura la memoria, pilotato dall’abile Gazzettino (chiamato così nella traduzione di Luca Manini per Liberamente) e da alcuni comandamenti che paiono cambiare nel corso del tempo. E allora non è difficile rivedere alcuni grandi nomi della storia russa nei principali personaggi della novella: Lenin è il “Vecchio Maggiore”, che dà il via alla rivolta con i più buoni propositi ma vedrà poi, dopo la sua morte, svanire ogni progetto di parità e uguaglianza; Stalin è “Napoleone”, il colpevole di aver tramutato, con metodi scorretti, la rivolta dei pari in un nuovo totalitarismo; infine, “Palla di Neve” è Trockij, comunista incorruttibile costretto a scappare dalla fattoria perché fedele sostenitore dei principi contro le nuove pieghe impresse dal nuovo Capo. In molte porzioni di testo, in realtà, pare di rivedere anche tutti gli altri totalitarismi: il culto del capo, la modifica perpetua della memoria popolare e una sorta di schiavitù lavorativa eretta a incontestabile virtù, oltre che l’allontanamento dalle proposte iniziali, possono facilmente rimandare anche a situazioni viste in dittature realmente avvenute sotto la fazione politica opposta, ossia l’Estrema Destra. Rimane comunque il fatto che, nei caldissimi anni ’40, con questa novella Orwell preferì scagliarsi contro il comunismo, in maniera incontestabilmente evidente. Forse scioccato dal totale ribaltamento degli ideali utopici pre-rivoluzione, e forse preoccupato che qualcosa di simile potesse avvenire anche negli altri Paesi europei, sentì la necessità di farsi portavoce di tutte le menzogne e dell’impossibilità effettiva di concretizzarsi che sono proprie dell’Estrema Sinistra. Sono esemplari, sennonché lapidarie, le battute finali dell’opera, nelle quali i maiali comunisti che avevano promesso la rivoluzione, dopo un climax prolungato per tutto il racconto, finiscono con l’assimilarsi confusamente agli umani, ossia proprio coloro contro i quali insorsero molti anni prima, anche a livello fisiologico: “Dodici voci gridavano piene di rabbia e tutti loro erano uguali. Non importava ormai che cosa fosse accaduto alle facce dei maiali. Le creature, da fuori, spostavano lo sguardo da maiale a uomo e da uomo a maiale, e ancora da maiale a uomo; ma già era impossibile dire chi fosse chi.”

Alcuni spezzoni allegorici evidentemente riferiti al regime comunista sovietico: “Dopo di che, non parve strano che, il giorno seguente, i maiali che sovrintendevano il lavoro della fattoria reggessero tutti una frusta nella zampa. Non parve strano venire a sapere che i maiali si erano comprati una radio senza fili, che stavano facendo i preparativi per installare un telefono e che si erano abbonati a John Bull, Tit-Bits e al Daily Mirror. Non parve strano quando si vide Napoleone che passeggiava nel giardino della casa padronale con una pipa in bocca… no, neppure quando i maiali tolsero dall’armadio del signor Jones i vestiti e li indossarono. Napoleone si fece vedere con indosso una giacca nera, calzoni da caccia e gambali di pelle, mentre la sua scrofa favorita apparve nell’abito di seta marezzata che la signora Jones indossava solitamente la domenica.” – A sottolineare, nel finale, l’assoggettamento e asservimento degli ormai ex-rivoluzionari al mondo capitalista/borghese del resto d’Europa. “Non si parlava più, però, dei lussi che Palla di Neve aveva insegnato agli animali a sognare: le stalle con la luce elettrica e l’acqua calda e fredda. e la settimana lavorativa di tre giorni. Napoleone aveva dichiarato che quell’idea era contraria allo spirito dell’Animalismo. La felicità più autentica, diceva, consisteva nel lavorare duramente e nel vivere frugalmente.” – L’allontanamento progressivo dagli ideali bolscevichi. “Gli anni passarono. Le stagioni vennero e se ne andarono, le brevi vite degli animali fuggirono via. Venne il giorno in cui non ci fu più nessuno che ricordasse i giorni prima della Ribellione […]” – Il tempo (e l’informazione corrotta) che cancella la memoria ed elimina le premesse iniziali della rivoluzione “Verrà il giorno, o presto o tardi, che abbattuto sarà l’Uomo Tiranno e che d’Inghilterra i fertili campi solo dalle bestie saranno calpestati” – Un canto popolare degli animali che intende mostrare la bellezza priva di concretezza delle utopiche promesse comuniste. “Ben presto fu svelato il mistero di dove andasse a finire il latte. Ogni giorno, veniva mescolato al pastone per i maiali. Le prime mele stavano in quel periodo giungendo a maturazione e l’erba del frutteto era cosparsa di mele cadute. Gli animali supponevano che, naturalmente, esse sarebbero state distribuite in modo equo. Un giorno, però, giunse l’ordine che tutte le mele […] fossero portate alla selleria per l’uso esclusivo dei maiali. […] Gazzettino fu mandato in giro per dare la necessaria spiegazione: ‘Compagni! Non immaginerete, spero, che i maiali lo stiano facendo per puro egoismo e per avere un privilegio? A molti di noi in verità non piacciono né il latte né le mele. Non piacciono neanche a me. […] Il latte e le mele contengono sostanze assolutamente necessarie al benessere di un maiale. Noi maiali lavoriamo di cervello. Da noi dipende completamente la gestione e l’amministrazione di questa fattoria. Giorno e notte noi vegliamo sul vostro benessere. E’ per il vostro bene che noi beviamo quel latte e mangiamo quelle mele. […] Così, senza ulteriori discussioni, tutti furono d’accordo che il latte e le mele cadute dai rami dovessero essere riservati ai soli maiali.” – Il paradosso implicito di un regime comunista.

Simone Chiani. Nato nel 1997. Viterbo. Diplomato al Liceo Psicopedagogico e laureato in Lettere Moderne. Autore dei libri Evasione (Settecittà, 2018) e Impronte (Ensemble, 2020).

Ballottaggi, Giorgia Meloni: "Centrodestra sconfitto. Ma la sinistra lotta nel fango per criminalizzarci". Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. "Buona sera, diciamo per mordo di dire". Esordisce così Giorgia Meloni nella conferenza stampa post-ballottaggi, che hanno visto il centrodestra sconfitto. "Si deve riconoscere che il centrodestra esce sconfitto e ne siamo tutti consapevoli. Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia confermano Trieste, ma non riescono a strappare le altre cinque grandi città". Per la leader di FdI non si tratta affatto di una débâcle come molti vogliono far credere. Piuttosto, chi esce ampiamente battuto è il Movimento 5 Stelle. Una buona notizia per la Meloni, perché "si sta lentamente tornando a un sistema bipolare". In ogni caso, confermato Fratelli d'Italia il primo partito nei sondaggi a livello nazionale, la Meloni non intende indietreggiare: "Anche noi ci prenderemo le nostre responsabilità".  Non sono comunque mancate le difficoltà. In particolare la leader di FdI ne rivela due: "Prima tra tutte l'astensionismo. Nessuno può veramente gioire con i dati con cui viene eletto un sindaco di Roma. Questa è una crisi a cui tutti devono rispondere e per me è legata a una politica che con i suoi giochi di palazzo ha mortificato il voto". Ma non è l'unico problema. "Poi - prosegue - la campagna elettorale è stata trasformata dalla sinistra in una lotta nel fango, criminalizzando l'avversario e rendendolo impresentabile. Questo ha portato i cittadini interessati al lavoro e all'economia a non presentarsi alle urne. Questo ha comportato la mobilitazione di un elettorato molto ideologico della sinistra lasciando invece indietro tutti gli altri". Un capolavoro per cui la Meloni vorrebbe "farei i complimenti alla sinistra", se non fosse che così "si distrugge la democrazia". A quel punto a FdI non resta che guardare al futuro ragionando sugli errori commessi: "Condivido con Salvini l'idea che la prossima volta dobbiamo scegliere i candidati più in fretta e questi dovranno essere politici anche a dispetto di queste campagne elettorali aggressive dei nostri avversari". Da qui l'auspicio: "Fra un anno e mezzo votiamo e voglio chiedere alla sinistra se farà ancora così criminalizzando l'avversario e non scendendo ad armi pari, a loro d'altronde basta stare al potere".

Mattia Feltri per "la Stampa" il 19 ottobre 2021. Giorgia Meloni, persuasa di aver perso per la lotta nel fango in cui la sinistra ha trasformato la battaglia elettorale, scorda che il fango è l'elemento naturale in cui la politica sguazza ormai da un trentennio e la gara è a chi ne rimane addosso di meno. E scorda che per quanto gliene abbiano tirato addosso, Silvio Berlusconi nelle città perdeva e spesso vinceva, e quando Massimo D'Alema nel 2008 tirò fuori l'onda nera, a Roma vinse lo stesso Gianni Alemanno. Il fango e le onde nere e le onde rosse non sono mai servite per disincentivare l'elettorato avversario, piuttosto per incentivare il proprio, e sulle pulsioni più elementari. Ma stavolta è capitato qualcosa di diverso: i candidati di destra hanno preso il prendibile al primo turno e non hanno preso un voto in più al secondo, tutti gli altri voti sono diventati voti contro di loro. Una specie di Fronte repubblicano, quello francese contro Jean-Marie e Marine Le Pen, adattato ai ballottaggi italiani. A furia di chiedere l'affondamento delle barche dei migranti, di invocare celle piene e chiavi buttate, di accompagnarsi coi peggiori ceffi del mercato internazionale, da Putin a Orban, di tratteggiare l'Europa come una congrega di borseggiatori e massoni, di tenere su il capino ai No Vax e ai no Green Pass, senza rendersi conto che il nemico comune, alla stragrande maggioranza del Paese, è il Covid e solo il Covid, insomma a furia di ritirarsi nella ridotta del peggio della destra, hanno respinto il meglio della destra. Oggi c'è un pezzo di destra a cui questa destra fa ribrezzo, e preferisce votare a sinistra o rimanersene a casa.

Quarta Repubblica, "Giorgia Meloni a piazzale Loreto": ecco chi c'era in piazza per la Cgil. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2021. “Giorgia Meloni la immagino più a piazzale Loreto”, ovvero a testa in giù. Lo ha dichiarato ai microfoni di Quarta Repubblica uno dei manifestanti che sabato è sceso in piazza, rispondendo alla chiamata della Cgil e della sinistra per sfilare contro il fascismo. Quella convocata dal sindacato in risposta alla violenza squadrista e all’assedio di Forza Nuova non è stata propriamente una piazza “trasversale”. Addirittura c’era una bandiera dell’Unione Sovietica, oltre all’immancabile Bella Ciao e ad inni del tipo “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. Il Giornale lo definisce “armamentario ideologico” schierato al suo completo, senza dimenticare nostalgici dell’Urss, marxisti, leninisti e castristi. E allora alla luce di tutto ciò forse il centrodestra ha fatto una scelta saggia a non presentarsi in piazza, pur condannando fermamente le violenze squadriste e fasciste perpetrate ai danni della Cgil. Probabilmente se Giorgia Meloni e Matteo Salvini si fossero presentati alla manifestazione - aperta a tutti solo apparentemente, ma poi si è rivelata a dir poco “schierata” - sarebbero stati sommersi dai fischi una volta saliti sul palco, seppur per condannare il fascismo. Ufficialmente i due leader hanno disertato perché non ritenevano fosse il caso di tenere una manifestazione proprio alla vigilia dei ballottaggi: difficile dargli torto, anche se ormai l’esito della tornata elettorale era già scritto. 

Milano, anarchici assaltano la sede della Cgil ma stavolta la sinistra tace...Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. Mentre a Roma, sabato scorso, il segretario della Cgil Maurizio Landini riempiva piazza San Giovanni per denunciare la «minaccia fascista» dopo l’assalto alla sede del sindacato ad opera di militanti di Forza Nuova, nel mezzo delle manifestazioni contro il Green pass, a Milano nelle stesse ore veniva presa di mira un’altra sede della Cgil. Sempre durante una manifestazione contro il lasciapassare verde, ma questa volta con tre differenze. La prima: a puntare sulla sede del sindacato questa volta sono stati gli anarchici. La seconda: a differenza di quanto accaduto con il blitz di Forza Nuova, a Milano le forze dell’ordine hanno prontamente bloccato i manifestanti. Due di loro sono stati arrestati e otto denunciati al pool antiterrorismo della procura lombarda. La terza differenza: da sinistra non si sono sentite voci allarmate contro il «pericolo anarchico». E chissà se adesso la Cgil vorrà organizzare un’altra manifestazione per denunciare, dopo la minaccia fascista, questa minaccia di diverso colore.

"Rimandare tutto". Covid, come saremo ridotti a Natale. No global e "Sentinelli" parte la caccia al fascista.

Chiara Campo il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Giovedì presidio davanti a Palazzo Marino Verri (Lega): «Noi pensiamo ai problemi seri». Sul volantino c'è un wc a muro e lo slogan: «Fascisti, il loro posto non è in consiglio comunale». Opera dei Sentinelli di Milano, l'associazione per i diritti gay che ha organizzato per giovedì alle 17.45, in concomitanza con la prima seduta del nuovo consiglio comunale, un presidio davanti a Palazzo Marino. «Un'eletta in Fratelli d'Italia orgogliosamente fascista e tre eletti nella Lega grazie al sostegno di Lealtà e Azione» tuona il portavoce Luca Paladino sull'onda dell'inchiesta di Fanpage sulla presunta «Lobby nera». I Sentinelli saranno in buona compagnia, visto che anche sui canali social dei centri sociali gira la chiamata a radunarsi in piazza Scala dalle 18 per «pretendere la chiusura delle sedi delle organizzazioni neofasciste subito» e «le dimissioni» dei consiglieri citati nell'inchiesta. E, guarda un po', osservano «con sgomento e orrore come ancora in queste ore ci siano tentativi a livello cittadino e nazionale di riproporre vecchie e irricevibili equiparazioni» tra orrori del fascismo e di matrice comunista, «no al revisionismo storico con mozioni e contromozioni». Il centrodestra ha già anticipato una mozione di condanna a ogni forma di estremismo. Il coordinatore di Fdi Stefano Maullu già giorni fa ha anticipato che sarà depositato un documento «contro ogni forma di violenza e totalitarismo, seguendo esattamente la risoluzione approvata esattamente due anni fa dal Parlamento europeo dove si equipara nazismo, fascismo e comunismo ricordando la tragedia di questi totalitarismi che hanno commesso omicidi di massa, genocidi, deportazioni e perdite di libertà. Vedremo se il sindaco Beppe Sala sarà con noi e voterà questa mozione oppure preferirà la solita scorciatoia a uso e consumo dei soliti noti a sinistra». Approderà in aula però la prossima settimana. Il deputato milanese di Fdi Marco Osnato osservato il volantino dei Sentinelli e commenta: «Immagino che questa elegante proposta sia il massimo della capacità democratica di queste persone». Il neo capogruppo della Lega Alessandro Verri ribadisce che «stanno facendo una caccia alle streghe senza senso. Noi pensiamo al bene di Milano e stiamo lavorando su questioni più impellenti, come la sicurezza dopo gli accoltellamenti in zona corso Como dello questo weekend. E siamo già pronti a portare la questione in aula per chiedere all'assessore Granelli cosa farà per controllare la movida violenta». Sulla movida violenta Sala ha premesso ieri che «è un problema in tutte le grandi città, è inutile nasconderlo, e se tutte le forze dell'ordine sono necessariamente concentrate nel contrasto di manifestazioni che avvengono, non sono illimitate, anche questo può essere parte del tema. Inutile negare che le tensioni che ci sono nelle città dopo la pandemia vanno gestite, i più giovani spesso in mancanza di luoghi dove incontrarsi sono più difficili da gestire». E dopo l'ennesimo sabato di proteste No Pass e caos ha rimarcato: «Era incontrollabile. Per ogni corteo in Italia bisogna indicare e autorizzare il percorso, con loro non avviene e questa è l'unica eccezione che ho visto in questi anni». Chiara Campo

 L'allarme fascismo finisce con le elezioni. Ma presto ritornerà. Paolo Bracalini il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. Anche progressisti come Mieli, Mentana e Mauro lo ammettono: era strumentale. Finite le elezioni, finito l'allarme fascismo. È stato il tema che ha dominato la campagna elettorale, anche se c'entrava pochissimo con l'amministrazione delle città al voto, eppure ha monopolizzato il dibattito come se fossimo all'alba di una nuova marcia su Roma. Dal filmato-trappolone su Fratelli d'Italia, alla caccia ai «neonazisti» infiltrati anche nella Lega, alle dichiarazioni sulla shoah di Michetti, ex tesserato Dc trasformato in un nostalgico dell'olio di ricino. Ma tutto lascia supporre che il clima sia cambiato in un sol colpo, con la chiusura delle urne. Puff, svanite le camicie nere, fino a nuovo ordine. Improvvisamente diventa chiaro che parlare di un ritorno al Ventennio sia una manipolazione a fini elettorali. Ed è una evidenza testimoniata da opinionisti di chiara fama antifascista, come Paolo Mieli. L'altro giorno a La7 ha colto di sorpresa lo studio: «Com'è possibile che questo tema spunti magicamente in ogni tornata elettorale?» si è domandato l'ex direttore del Corriere della Sera, ricordando come già nel 1946 un simile trattamento era toccato ad Alcide De Gasperi, e da allora in poi «fascisti sono diventati Fanfani, Craxi, Berlusconi e persino Renzi», tutti gli avversari della sinistra postcomunista. Una analisi che ha trovato concorde Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, rete che sull'«allarme fascismo» ci ha costruito ore e ore di talk show: «Il fascismo ha osservato, chiosando Mieli - è come il conflitto d'interesse di Berlusconi. Ricordate? Lo tiravano fuori solo quando il Cavaliere era al governo e spariva magicamente quando tornava all'opposizione». Quel che era incosciente anche solo pensare fino a pochi giorni fa, diventa una constatazione elementare, innocua. Dopo il voto.

Una circostanza che colpisce Guido Crosetto, che l'altro giorno si ha lasciato gli studi di Piazza Pulita perché il programma era orchestrato come «un plotone di esecuzione contro Giorgia Meloni». «Anche per questa volta il pericolo dell'insediamento di un regime nazi-fascista è scongiurato. Riemergerà con estrema gravità, nei 45/60 giorni prima della prossima scadenza elettorale. La Meloni da oggi torna ad essere una peracottara pesciaiola della Garbatella» twitta il cofondatore di Fdi. Anche Pierluigi Battista sfotte la propaganda: «Ora che il nazismo è stato sbaragliato a Romagrad vogliamo sbaragliare pure la monnezza?». Ma addirittura su Repubblica, e a firma del suo ex direttore Ezio Mauro, si prende coscienza di quel che appare lampante, ma che ha alimentato paginate sullo stesso giornale. Il chiarimento chiesto alla Meloni «non significa automaticamente evocare il pericolo di una riemersione del fascismo - scrive Mauro -. È chiaro che il dramma italiano del secolo scorso non potrà riproporsi in mezzo all'Europa delle costituzioni liberali e nel cuore dell'Occidente democratico. Nessuno lo pensa». A Repubblica forse qualcuno sì, vista la frequenza con cui compare la parola fascismo nei pezzi e titoli del quotidiano («Fondi illeciti e culto del fascismo. Il volto nero di Fratelli d'Italia», «Fascismo e Tolkien. L'educazione sentimentale di Giorgia-Calimera», due titoli a caso). Ieri scambio di tweet tra una giornalista appunto di Repubblica e la Meloni. La prima appunta che la leader Fdi, alla Camera per sentire la ministra Lamorgese sugli scontri di Roma, è «vestita interamente di nero». Le risponde la Meloni: «È blu. Interamente vestita di blu. Quanto vi piace la mistificazione». Paolo Bracalini

Le ideologie sono finite ma ancora ci tormentano. Stenio Solinas il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. "I rondoni" mette in scena gli strascichi, anche famigliari, delle guerre politiche del XX secolo. Cinquantenne, professore di filosofia che detesta i colleghi quanto gli studenti, un matrimonio fallito alle spalle, un figlio difficile, un unico amico, nessuna vita affettiva, Toni, il protagonista di I rondoni, il nuovo libro di Fernando Aramburu (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pagg. 720, euro 22), si dà ancora un anno di tempo prima di togliersi la vita. Proprio perché è in buona salute, non vuole correre il rischio di ritrovarsi un domani solo, vecchio e malato. Proprio perché la sua è stata al fondo un'esistenza noiosa ritiene che a un certo punto anche la noia rischi di farsi insopportabile. Viene in mente quella frase di André Malraux: «Al mercato della vita le cose si comprano in azioni. La maggior parte degli uomini non compra nulla». Toni, almeno in questo, fa parte della maggioranza. I rondoni appartiene a quel genere di narrativa che si potrebbe definire minimalista nella storia, consolatrice nello stile. Non succede nulla, ma è il nulla che in fondo ci accomuna tutti, dissapori familiari, insoddisfazioni sul lavoro, rimpianti e rimorsi, stanchezza esistenziale, lutti. Nel leggerla ci si può insomma identificare, il che non è esaltante, ma fa sentire meno soli. Una scrittura familiare, quasi colloquiale funge poi da anestetico, una sorta di lungo fiume che si snoda tranquillo, senza mulinelli ritmici che impegnino la mente del lettore-nuotatore, senza correnti di pensiero che lo obblighino a riflettere più di tanto. Ci si lascia trascinare, semplicemente, e che questo possa funzionare, nel caso in questione, per più di settecento pagine è comunque una prova d'autore. Naturalmente, Aramburu è uno scrittore interessante e basterebbe Patria, il libro che lo ha fatto conoscere in Italia, per rendersene conto. Ma mentre lì si aveva a che fare con le passioni ideologiche e politiche, con la violenza della Storia e delle idee, con la cecità che spesso si accompagna alla prima come alle seconde, qui siamo come di fronte a un'atarassia dei sentimenti come del pensiero, un'atarassia non appagata però e che rimanda all'unico gesto possibile per dare un senso al non senso dell'esistere. Spagnolo, Aramburu è un autore contemporaneo e la Spagna novecentesca ha molti tratti in comune con l'Italia, una dittatura, una democrazia che ne prende il posto, ma che comunque deve fare i conti con un passato che non si decide a passare. Toni, il protagonista come abbiamo già detto del suo romanzo, ha un padre comunista, come si può essere comunisti nella Spagna franchista degli anni Cinquanta e Sessanta. È anche lui un professore, universitario, però, la cui carriera dipende dal grado di acquiescenza al regime, e quindi il suo è un comunismo sommerso, non esibito, che però non gli ha evitato una volta il carcere e la tortura E però il nonno di Toni, e quindi il padre di suo padre, era un falangista caduto nella Guerra civile e non sorprende che il figlio comunista se ne vergogni e gli inventi un passato e una morte da eroe repubblicano. Sono gli scherzi della storia quando ci si ostina a vederla in bianco e nero, Bene e Male. I compromessi del padre, il suo conformismo, per quanto riluttante, rispetto al franchismo in cui è vissuto, Toni non li ha dovuti fare. Quando ha vent'anni quel regime non c'è più e lui in fondo è un conformista-eroe del nostro tempo: è uno studente universitario di sinistra, il che, «volente o nolente, ti dava in facoltà una specie di salvacondotto, così come nei secoli passati per evitare problemi con il Sant'Uffizio, la gente approfittava di qualunque pretesto per affermare in pubblico la sua fedeltà alla fede. Tutti noi studenti eravamo di sinistra. Essere di destra, alla nostra età, ci sembrava una disgrazia; non so, come avere una deformità o la faccia punteggiata dall'acne». Il problema di Toni è che la sua è una sinistra mainstream, nel ventre di vacca del progresso, quella che, illudendosi, pensa che il non essere di destra sia la condizione sufficiente perché tutto vada avanti e vada bene. Più che una sinistra all'acqua di rose, è una sinistra insapore, che non nutre dubbi semplicemente perché non ha idee, se non generiche, ecumeniche, rassicuranti. Sotto questo aspetto, lì dove Toni si è ritrovato in democrazia grazie semplicemente all'anagrafe, il padre ha fiutato subito che non era roba per lui: «Mi sono ricordato della sua amarezza politica, dell'uscita dal partito due anni dopo la sua legalizzazione. Per questo ho rischiato la pelle?' si lamentava. Per continuare con la stessa bandiera, lo stesso inno, e restaurare la monarchia?'» Andando più in profondità, anche Toni però si rende conto che «papà sognava una Spagna simile a quella di Franco, ma con un leader comunista al posto di un caudillo ultracattolico e militare» Del resto, è un marito manesco e un padre che non sopporta figli piagnucolosi, tanto meno effemminati Il mainstream di oggi lo definirebbe un fascista, il che aggiunge confusione, ma rassicura comunque le coscienze. Se un comunista si comporta male è perché si comporta da fascista, evidentemente una categoria dello Spirito ignota a Kant. Alla fine, il risultato a cui il cinquantenne Toni arriva, mentre contempla l'idea del proprio suicidio, è quello di essere un militante «da lunghi anni del PPSS, del Partito di chi preferisce Stare Solo, in cui non ho alcun incarico. Tutto il programma del mio partito si riduce a uno slogan: lasciatemi in pace». È un approdo interessante che riguarda molti della sua generazione, e non solo in Spagna, ma anche in Italia, dove a un certo punto il mainstream del politicamente corretto va in tilt per il troppo uso, per il voler essere sempre e comunque in accordo con le idee «giuste», con il ron ron benpensante del mondo senza guerre, dove tutti si devono voler bene, dove non si devono avere pensieri cattivi, dove c'è spazio solo per i buoni sentimenti e dove, va da sé, ci si deve sempre scusare di qualcosa Per quanto seppellito, c'è sempre un fondo reazionario che spunta fuori quando la misura è colma e l'acqua del politicamente corretto tracima: «I nostri attuali legislatori si sono inventati un cosiddetto delitto di odio'. Immagino che pensino al terrorismo e cose del genere; ma dov'è il limite fra dimensione pubblica e quella privata? Ci mancherebbe soltanto che una legge approvata alla Camera dei Deputati mi proibisse di odiare la preside della mia scuola. Il giorno dopo mi incatenerei con un cartello di protesta al carro della Fontana di Cibele. Ora i governanti si mettono a regolare a scopi restrittivi i nostri sentimenti come chi detta le norme del traffico. Fa un po' schifo quest'epoca». Sulla stessa lunghezza d'onda si situa del resto il programma ministeriale spagnolo volto alla Prevenzione del Suicidio, con annessa Giornata Mondiale dedicata all'argomento: «Mi domando come faranno a dissuadermi dalle mie intenzioni. Circuendomi con denaro pubblico? Ricoverandomi in un frenocomio? Mandandomi ogni mattina un cantautore a casa a cantarmi Gracias a la vida? Il programma ministeriale contempla il rilevamento precoce di indizi chiamati, in linguaggio burocratico, ideazioni suicide', per la qual cosa si richiede la collaborazione delle persone vicine all'imminente suicida». Senza scomodare la Spagna, vale la pena ricordare che anni fa andava di moda in Italia lo slogan «intercettateci tutti», una sorta di polizia del pensiero travestita da principio etico. Torneremo alla fine sul tema del suicidio, che è poi il tema centrale di I rondoni. Prima però l'altro elemento di questo mainstream progressista cui Aramburu accenna nel libro è un tipo di letteratura «superficiale nel suo pretenzioso psicologismo, nell'eccessivo peso dell'introversione sentimentale», tipico di chi «si unisce al coro dei grilli che cantano alla luna, per vedere se pensando in gruppo la sua mediocrità passi inosservata». È un po' quella narrativa ombelicale da cui siamo partiti, che è una cosa diversa dal solipsismo di certa grande letteratura che sente il suo io diverso dagli altri e perciò lo racconta. Qui l'importante è essere assolutamente come gli altri, cercarne e/o vellicarne il consenso. Anche I rondoni qui e lì cade in questa trappola-cliché, non fosse che Aramburu ha sufficiente padronanza di scrittore per limitarne i danni. Lo salva anche, è una considerazione di Toni, mai come in questo caso alter ego dell'autore, il suo essere «di sinistra, ma non in forma permanente». Applicato al tema del suicidio, questa intermittenza suona tuttavia paradossale. Toni ritiene che la celebre frase di Camus «c'è soltanto un problema filosofico davvero serio. Il suicidio», sia «una trovata gratuita». Vivere, dice, non è un compito filosofico e quindi «ci mancava soltanto questo: suicidarsi perché non quadrano gli enunciati di un sillogismo!». Per quello che lo riguarda, il suo è una forma di stanchezza e di noia nello «svolgere un ruolo in un film che mi sembra mal concepito e peggio realizzato. Questo è tutto, Nuland». Anche il nulla è però un tema filosofico, e se Camus non lo convince non si capisce perché dovrebbe andargli bene Sartre... Ma è, sia pure ironicamente, la «permanenza» della sinistra a prevalere alla fine, l'idea di una sorta di solidarietà: «Perché non avere l'eleganza, persino la dignità, di lasciare il posto ad altri? Uscire di scena sulle mie gambe non potrebbe anche essere interpretato come un apporto?» Il gesto più individuale che ci sia, diventa un surrogato del benessere altrui, il che è tipicamente del mainstream del progresso. Noi restiamo con Montherlant: «Essere padroni del proprio destino: almeno del suo strumento, e della sua ora». Stenio Solinas

Il suo “marchio indelebile” è il dispotismo. Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 12 Ottobre 2021.

1917 – Rivoluzione Russa. Piazza di Pietroburgo con rivoluzionari attorno alla statua dello zar. Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”. A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto. Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana. Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo. Biagio De Giovanni

Quei fantasmi del Novecento. Vittorio Macioce il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana: evoca l'ostracismo contro l'avversario parlamentare. Non lo riconosce e lo indica come nemico. A tracciare la linea è Giuseppe Provenzano, ex ministro del governo Conte e soprattutto vice segretario del Partito democratico. Dice Provenzano: «L'ambiguità della Meloni la pone inevitabilmente fuori dall'arco democratico e repubblicano». È un foglio di via. Alla base di questo discorso ci sono gli squadristi di Forza Nuova, un movimento che si definisce fascista e da tempo sguazza nel caos e nella paura. Sono perfetti per il ruolo e si godono il quarto d'ora di celebrità. Non si preoccupano più di tanto di essere messi fuori legge. È quello che in fondo aspettano da tempo. È la loro reale legittimazione. È il segno che la democrazia li teme, li porta al centro del discorso, dentro la storia. Non sono mai stati così centrali. L'assalto alla sede dalla Cgil, violento e vergognoso, sembra una citazione del «biennio rosso», vecchia un secolo. È il teatro delle camicie nere. L'obiettivo è spargere pezzi di Novecento per sentirsi protagonisti. È prendere i fantasmi, le questioni irrisolte, e incarnarli nelle nostre paure, vomitando vecchie parole d'ordine e nuovi razzismi. E sono furbi, perché ottengono le contromosse sperate. Al Novecento si risponde con il Novecento e ci si impantana nel passato, riesumandolo, scommettendo sull'eterna roulette del rosso e del nero. Come disarmare Forza Nuova? La strada più diretta è punirli per quello che fanno: la violenza è un reato. Non sottovalutarli, ma neppure farli diventare i protagonisti di una campagna elettorale. Non giocare questa partita per conquistare Roma. Non sciogliere Forza Nuova solo per colpire la Meloni. Il rischio è fare danni, perché delegittimi l'opposizione e disconosci più o meno il 18 per cento degli elettori. Non è un bene per nessuno. Se la Meloni è fascista allora tutto torna in discussione. È fascista un ex ministro. È fascista un partito che sta in Parlamento e partecipa alla vita democratica. È fascista il presidente dei conservatori europei e sono fascisti i suoi alleati. È fascista chi la vota. Davvero il Pd è pronto a sottoscrivere tutto questo? Non c'è democrazia se un solo partito concede patenti di legittimità a tutti gli altri. E questo perfino Enrico Letta e Giuseppe Provenzano, forse, lo sanno. Il buon senso è quello di Mattarella: «Il turbamento è forte, la preoccupazione no. Si è trattato di fenomeni limitati». Vittorio Macioce

L'aria che tira, Guido Crosetto gela Fiano: "Per fortuna che sono un ex democristiano, altrimenti..." Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. Ora tocca a Giorgia Meloni. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia, riflette sulla "strategia" contro FdI messa in atto anche da esponenti ufficiali del Pd come Beppe Provenzano. "Un classico di ogni campagna elettorale - spiega Crosetto -. Ma è un tema che deve porsi innanzitutto la Meloni: deve togliere queste frecce dalle mani dei suoi avversari, che alla fine non la fanno parlare delle sue proposte e la costringono a difendersi". Dietro l'onda di indignazione "a comando" che si sta riversando sulla Meloni per effetto dell'inchiesta Lobby nera di Fanpage e Piazzapulita prima e delle violenze di piazza dei No Green pass di sabato scorso a Roma (e frettolosamente spedite nel "campo" della Meloni, secondo Crosetto però c'è una buona dose di strumentalizzazione politica. E a Emanuele Fiano, big democratico anche lui in collegamento con La7, forse fischieranno le orecchie. "Parlate di Fratelli d'Italia come un partito nato ieri da quello Nazista - sottolinea Crosetto in collegamento -. Il percorso di Giorgia Meloni è passato attraverso la svolta di Fiuggi, non ha mai avuto legami col fascismo. Ricordo che La Russa è stato ministro della Difesa e non ha invaso Libia ed Etiopia, che anche la Meloni è stata ministra...". Qualora non bastasse questo elenco, arriva l'ironia amara di Crosetto: quelli di Fratelli d'Italia "sono gli avversari principali di Forza Nuova o degli elementi estremistici di destra. Fossi in loro mi sentirei offeso di questa necessità di chiedere patenti di democrazia a persone che sono sempre state democratiche. Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero...". Qualcuno ride di fronte a questa battuta, ma la situazione è decisamente deprimente.

Donna Rachele. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 07 ottobre 2021. Se un partito candida una persona che si chiama Mussolini ed è nipote di Mussolini, lo fa per attrarre i voti di chi rimpiange Mussolini. Punto. Ha ragione Rachele Mussolini, prima eletta a Roma nelle liste di Fratelli d’Italia, quando dice che è stata votata non solo per il cognome. L’hanno votata anche per il nome: quello della nonna, moglie del dittatore. Rachele M. — proprio come la sua leader Giorgia M. — appena le si chiede che cosa pensa del fascismo risponde che si tratta di un discorso troppo lungo. Dipende. In realtà può essere anche molto breve. Se un partito candida una persona che si chiama Mussolini ed è nipote di Mussolini, lo fa per attrarre i voti di chi rimpiange Mussolini. Punto. Uno dei libri più amati dalla comunità di Giorgia Meloni e Rachele Mussolini jr. è «Il Signore degli Anelli» di Tolkien. Entrambe ricorderanno senz’altro che l’eroe della saga non rischia la pelle per conquistare qualcosa, ma per sbarazzarsene. Lo abbiamo sperimentato un po’ tutti nella vita: si evolve solo rinunciando, anche dolorosamente, a un pezzo del proprio passato. L’Anello dei Fratelli (e delle Sorelle) d’Italia è il legame ambiguo con il fascismo. Se lo gettano via, perdono un consistente pacchetto di voti e di candidati che parlano a braccio (teso), ma in compenso possono finalmente intercettare quel vasto elettorato allergico alla sinistra, però non reazionario, che un tempo fu terreno di caccia della democrazia cristiana e di Berlusconi. Se invece l’Anello se lo legano al dito, resteranno per sempre prigionieri nella terra di mezzo: arroccati in un angolo, a destra.

Rachele Mussolini, la "colpa" del suo cognome: "Da bambina, a scuola...", l'orrore subito dalla nipote del Duce. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. È Rachele Mussolini la consigliera di Fratelli d'Italia più votata a Roma. Un vero e proprio successo quello della nipote del Duce, da sempre costretta a fare i conti con il peso del suo cognome. "Ho imparato sin da bambina a conviverci. A scuola mi additavano, ma poi è venuta fuori Rachele e la persona prevale sul proprio cognome, per quanto pesante. Ho molte amiche di sinistra. Una ha certamente votato per me. Ma non mi hanno votata per il cognome". D'altronde, come ammesso a Repubblica, la Mussolini nutre buoni rapporti con tutti. Perfino con i colleghi del Partito democratico: "La politica è una cosa, i rapporti umani un'altra". E a proposito di rapporti Rachele parla anche della sorella Alessandra Mussolini. Con lei invece "non ci sono grandi rapporti. Mio padre si è risposato. Io sono l'unica figlia nata nel 1974 dalle seconde nozze". Figlia di Romano Mussolini, uno dei figli di Benito, la consigliera di FdI dice di essere sempre stata "pudica, equilibrata. Le pose colorite non mi sono mai piaciute". Insomma alla Mussolini l'esaltazione del fascismo ha sempre dato fastidio, lasciandola perplessa: "Anche mio padre era così. Se uno gli faceva il saluto romano lui si schermiva". La sua, tiene a precisare, era una famiglia molto aperta: "Papà è stato un jazzista importante. Mi ha educato alla tolleranza. Ha portato il suo cognome con molta dignità. Inizialmente si esibiva con uno pseudonimo, poi anche per lui il jazzista ha prevalso sul cognome". A chi le contesta la presenza a Predappio, la Mussolini replica: "Lì è sepolto mio padre". Anche sul fiocco pubblicato sui social all'anniversario della morte di Benito Mussolini la consigliera ha la risposta pronta: "È mio nonno. Quel fiocco aveva un valore esclusivamente familiare".

Tony Damascelli per "il Giornale" il 6 ottobre 2021. Non bastava il cognome, ha aggiunto il nome. Dunque Mussolini e poi Rachele, il massimo della provocazione e il minimo per il disprezzo e la derisione dei suoi avversari, direi nemici. Rachele Mussolini ha ricevuto il più alto numero di preferenze nella lista di Fratelli d'Italia, ribadendo il posto nel consiglio comunale di Roma. L'elezione provoca malumori vari e commenti di repertorio, i Mussolini si portano avanti non soltanto nella storia ma pure nella cronaca. Rachele è figlia di Carla Maria Puccini, donna affascinante e attrice di televisione e di teatro, seconda moglie di Romano Mussolini; se portasse il cognome della madre non creerebbe fastidi di salotto e di piazza ma si ritrova a fare i conti con Alessandra, figlia di Maria Scicolone, prima consorte del succitato Romano grande artista di musica jazz e figlio di Benito. Va da sé che l'araldica di famiglia non segnala rapporti sempre sereni, non siamo a Parenti Serpenti (Monicelli) ma non sono tutti fratelli d'Italia, al di là dell'appartenenza di partito. Ad esempio va segnalato Caio Giulio Cesare, nato a Buenos Aires il 4 marzo del Sessantotto, pure lui Mussolini, figlio di Guido e nipote di Vittorio, primo maschio del duce, divenuto famoso anche come produttore e sceneggiatore cinematografico con lo pseudonimo di Tito Silvio Mursino (trattavasi dell'anagramma del nome e del cognome) scrivendo soggetti di un film, «Un pilota ritorna», con Massimo Girotti e Michela Belmonte, sceneggiato, tra gli altri, da Michelangelo Antonioni e diretto dalla regia di Roberto Rossellini. Vittorio, fedele al regime e al padre, dopo la guerra si rifugiò in Sudamerica da cui l'origine natale argentina del Caio Giulio Cesare sposo di Francesca Boselli e padre di Carlo Alberto che prosegue la dinastia, insieme con la sorella Costanza, la quale, dicono, si sia data all'ippica nel senso della disciplina dell'equitazione. C'è sempre aria di spettacolo nel reality mussoliniano. Ad esempio il Caio Giulio Cesare ha preso le distanze dall'Alessandra, ricordandone il curriculum di attrice del cinema e frequentatrice di gossip, territorio che lui disconosce essendo titolare di due lauree e frequentatore di tre lingue e non di salotti televisivi del pettegolezzo. La saga continua nel vociare romano, Rachele si deve difendere da pregiudizi di repertorio, nella sana democrazia nostrana il suo cognome è un handicap che non ha alcuna zona di parcheggio riservato, anzi le viene negato l'accesso a Instagram nel momento in cui ha osato commemorare l'anniversario della morte del nonno, che da vivo commise errori mille ma pure da defunto non permette a parenti vicini e lontani qualunque tipo di memoria e rispetto. La chiacchiera corre veloce nella capitale, Rachele ha spiazzato chi la dava fuori dai nuovi giochi comunali, dopo aver riconosciuto maggiore perizia e militanza politica alla «sorellastra», termine che lei respinge con fastidio, sta prendendo gusto alla carriera, lo riprovano gli oltre 5mila voti di preferenza che ha raccolto, nonostante il nome e nonostante il cognome. È un nuovo inizio, come si usa dire, evitando spettacoli in prima serata, cantando e ballando. Come palcoscenico, basta il comune di Roma.

Se i razzisti, quelli veri, parlano da antirazzisti. Alessandro Gnocchi il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nirenstein smonta le tesi di chi alimenta l'odio per gli ebrei in nome dei diritti umani. L'accusa di razzismo è forse la più infamante e comporta l'esclusione dal dibattito pubblico. Ma... Un tempo l'antirazzismo era la sacrosanta protezione delle razze perseguitate. Ora ha cambiato direzione, si è espanso, ha conquistato territori sempre più ampi e dai confini generici. I razzisti veri parlano oggi la lingua degli antirazzisti (falsi). In nome dei diritti umani, gli antirazzisti falsi si comportano proprio come i razzisti veri più violenti: linciaggi mediatici, cause giudiziarie, distruzione della libertà d'espressione... Per questo è così difficile combattere il razzismo, specie l'antisemitismo. Nella agenda dei falsi antirazzisti, è razzista rifiutare il burkini, è razzista chiedersi quali siano i benefici dell'immigrazione, è razzista difendere il diritto alla continuità storica per l'Italia e l'Europa. Tutti argomenti sui quali si può (si deve) dibattere senza correre il rischio di essere squalificati come razzisti. Gli antisemiti oggi si nascondono dietro all'antirazzismo. Ci dicono: Israele è razzista nei confronti dei palestinesi. Israele è lo Stato degli ebrei. Quindi gli ebrei sono razzisti ed eredi del vecchio colonialismo europeo. È un falso sillogismo. Ma funziona e scatena l'antisemitismo. Così l'Europa diventa un posto sempre meno sicuro per gli ebrei, un posto dove sedicenti associazioni per la pace bruciano la bandiera di Israele nelle piazze. Nel frattempo, in America, movimenti come Black Lives Matter, partendo da una giusta rivendicazione, deragliano nell'odio per il bianco e non ripudiano certo le maniere spicce. In Francia, autori come Pascal Bruckner, Pierre-André Taguieff e Alain Finkielkraut, figlio di sopravvissuti alla Shoah, ma comunque accusato di sionismo razzista, hanno cercato di smontare questo micidiale meccanismo linguistico, costruito per celare, appunto, il vero razzismo dietro alle litanie sui diritti umani. Ad esempio, Taguieff ha detto a questo giornale parole illuminanti: «Essere antirazzista nella vita sociale ordinaria significa prendere posizione contro gli incitamenti all'odio, al disprezzo, all'esclusione o alla violenza nei confronti di certe persone, a causa delle loro appartenenze o delle loro origini. Ma il presunto nuovo antirazzismo, chiamato anche antirazzismo politico dagli ideologi del decolonialismo, non è altro che una macchina da guerra contro i bianchi e la società bianca». L'antirazzismo politico esercita una critica radicale ma suicida contro l'Occidente. È erede di Karl Marx, non di Martin Luther King, perfino quando crede il contrario. Ora anche l'Italia, finalmente, porta un contributo al dibattito con il prezioso libro di Fiamma Nirenstein, Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo (Giuntina, pagg. 126, euro 10). Non è una difesa d'ufficio di Israele, semmai è una difesa ben argomentata, passo dopo passo, data dopo data, guerra dopo guerra. Terminata la lettura, non si possono mettere in discussione l'esistenza di Israele e il suo diritto a difendersi, anche con la deterrenza. Il libro va ben oltre, alla radice del problema. Come è possibile che gli ebrei siano accusati di razzismo, dopo aver subito l'oltraggio della Shoah? Spiega Nirenstein: «Molte delle manifestazioni di odio antiisraeliano che hanno un evidente aspetto antisemita hanno il loro motivo nel fatto che i movimenti filopalestinesi odierni hanno trovato, specie in America ma anche in Francia tramite il nesso islamico, un legame concettuale col tema dell'ingiustizia razziale, del razzismo coloniale, della persecuzione dei neri e delle donne nella storia. Per quanto gli ebrei solo da un osservatore molto distratto e manipolatore possano essere identificati con l'oppressore bianco o maschio, questo è proprio ciò che è accaduto. È stata la cosiddetta intersezionalità per i diritti umani il concime dell'ondata di antisemitismo attuale». Ecco qua, la saldatura errata, il trucco linguistico, la confusione lessicale fra il biasimo verso gli ebrei e l'esaltazione dei diritti umani: in un battibaleno i veri razzisti si camuffano da (falsi) antirazzisti. In realtà, per trovare un desiderio esplicito di genocidio, non si deve cercare in Israele ma tra i suoi nemici. Il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha condannato Israele in totale 95 volte. Uguale attenzione non è stata riservata all'abuso dei diritti, all'oppressione islamista, allo Statuto di Hamas, che invita a spazzare via Israele, prima tappa per soggiogare l'Occidente. Cosa sarebbe oggi la Striscia di Gaza se i leader politico-religiosi, invece di comprare missili, avessero investito nello sviluppo le centinaia di milioni di aiuti internazionali? Il libro di Nirenstein è anche rivolto agli amici, che tentennano di fronte al pericolo di essere indicati come fiancheggiatori di uno Stato accusato di non rispettare i diritti umani. Sono amici di destra e di sinistra, a ulteriore riprova che antichi schemi sono saltati. Ma il problema è ancora vivo e non riguarda soltanto gli ebrei e il risorgere dell'antisemitismo. La battaglia culturale, per i veri diritti umani, riguarda tutto l'Occidente. Alessandro Gnocchi

Shylock eterno. La menzogna antisemita degli ebrei inventori del capitalismo. Joshua Sukoff, da Unsplash. Francesca Trivellato su L’Inkiesta il 7 ottobre 2021. Il libro di Francesca Trivellato, pubblicato da Laterza, esplora una leggenda che per secoli ha accompagnato lo sviluppo dei primi strumenti finanziari (come le lettere di cambio), tanto da essere ripresa come verità dai pensatori illuministi. Ora è caduta nel dimenticatoio, ma racconta una ennesima storia di diffidenza e pregiudizio. Cleirac giunse così a formulare la sua prima tesi: «Le lettere di cambio e le polizze d’assicurazione sono ebraiche di nascita, sia per invenzione che per denominazione». Ogni espulsione venne accompagnata dalla confisca dei beni degli ebrei, i quali prima di partire – spiega l’autore – consegnarono mercanzie e denari nelle mani di persone di loro fiducia; e per riscattare il valore di questi beni all’estero, inventarono le lettere di cambio. Cleirac ne sottolineava quindi le caratteristiche di opacità – «biglietti scritti con poche parole e sostanza» –, e così facendo inaugurava un tema sui cui la letteratura successiva continuerà a tornare.

Abbiamo visto nel capitolo precedente come dietro la terminologia tecnica e le frasi laconiche delle lettere di cambio si annidassero innumerevoli diritti e obblighi. Ma il vantaggio di omettere le formule prolisse e circonvolute utilizzate da avvocati e notai poteva tramutarsi in un inconveniente. L’opacità delle lettere di cambio rendeva diffidenti quanti non erano in grado di decifrarne tutti i codici, separando così gli insider dagli outsider nei mercati del credito. Agli occhi dei cristiani, l’opacità era anche un tratto distintivo degli ebrei, che riguardava tanto la loro infedeltà religiosa quanto la loro slealtà economica, e li rendeva sospetti di essere una cricca di infedeli dedita ai raggiri. Per i cristiani, insomma, gli ebrei erano enigmatici come una lettera di cambio: avevano respinto la natura divina di Cristo e continuavano a seguire tradizioni e riti che i cristiani trovavano incomprensibili e irrazionali. La pubblicazione, nel 1637, della prima spiegazione dei rituali religiosi ebraici destinata a un pubblico cristiano, la “Historia de’ riti hebraici” del rabbino veneziano Leon Modena, non servì a dissipare questa impressione diffusa; ancora all’epoca della Rivoluzione francese, i massimi fautori dell’eguaglianza dei diritti per gli ebrei invocarono l’eliminazione dell’yiddish (descritto talvolta come un «gergo todescoebraico-rabbinico»), perché lo consideravano da un lato un segno di ignoranza e dall’altro la fonte di infiniti raggiri perpetrati da prestatori ebrei ai danni di poveri contadini ignari di quella lingua. Dopo aver inventato questi portentosi biglietti (un’affermazione che, apparentemente, non richiedeva ulteriori prove), secondo Cleirac gli ebrei impiegarono le loro superiori abilità finanziarie per assicurarsi di «non essere truffati al cambio» o addirittura «per ricavarne un profitto». In questa storia, gli ebrei e pochi prestatori cristiani loro adepti erano gli unici depositari di tutte le conoscenze utili, sia riguardo al cambio della valuta straniera, sia riguardo al valore intrinseco delle monete metalliche, comprese quelle sullo svilimento (cioè la diminuzione del contenuto di metallo prezioso), sul signoraggio (ovvero i redditi ricavati dalle autorità sulla coniazione di nuova moneta) e sulla tosatura (cioè la rasatura del metallo prezioso dai bordi della moneta). Cleirac, e con lui i suoi lettori, davano dunque per scontato che gli ebrei possedessero la perizia necessaria per controllare la volatilità dei mercati finanziari. Agli occhi dei cristiani, gli ebrei erano un gruppo di interesse coeso e dotato di un talento innato per il commercio, che disponeva di un indebito vantaggio sui propri concorrenti e prosperava ingannando clienti male informati. Le accuse di infedeltà in materia di religione e di opportunismo in materia di economia si rafforzavano a vicenda. Cleirac sembra aver scelto con cura le parole: sebbene fossero entrate nell’uso corrente all’epoca in cui scriveva, quelle con cui si riferiva agli ebrei erano pur sempre cariche di significati teologici. Affermava infatti che gli ebrei erano stati banditi dalla Francia «per i loro misfatti e crimini esecrabili», una formula di origine ecclesiastica entrata nel linguaggio comune con riferimento a ebrei ed eretici. Descriveva inoltre gli ebrei come «furbi infami» (dove infami significa, secondo l’etimologia, privi di fama, cioè di pubblica fiducia o reputazione, pertanto sforniti di una qualità indispensabile per partecipare alla vita sociale) e «persone prive di coscienza». Per lui gli ebrei erano sempre separati dal mondo che li circondava e, nutrendo «diffidenza» anche nei confronti di coloro che li aiutavano a fuggire, fecero tesoro della loro destrezza per tramutare «i rischi e i pericoli di un viaggio» in «un dono o un prezzo modesto», ovvero in profitto. Questa presunta ossessione degli ebrei per il guadagno era un sintomo della loro separazione dalla società cristiana e del loro mettere le proprie abilità finanziarie al servizio dell’interesse personale invece che di quello collettivo. In un libretto più tardo (pubblicato un anno prima della sua morte), dedicato esclusivamente alle lettere di cambio (un genere di monografia allora relativamente nuovo) e intitolato Usance du négoce, il linguaggio di Cleirac si caricava ulteriormente di significati teologici. Non solo qualificava di nuovo gli ebrei come «infami», ma giungeva ad affermare che il commercio di lettere di cambio non si era mai affrancato dal «suo peccato originale, cioè la perfidia ebraica». Perfidia era un’altra parola chiave del linguaggio teologico, ricca di echi e risonanze. Derivata dalla parola latina che indicava il rifiuto degli ebrei di riconoscere la natura divina di Cristo, transitando nelle lingue volgari europee acquisì un significato al contempo più ampio e più minaccioso e divenne sinonimo della generale inaffidabilità degli ebrei e della loro esclusione dalla cristianità. Perfidia era anche un lemma strettamente legato all’usura. Il canone 67 (Quanto amplius) del Concilio Lateranense IV del 1215, dedicato interamente all’usura ebraica e citato da Cleirac nel suo commento sull’assicurazione marittima, prendeva le mosse dalla nozione che «la perfidia degli ebrei» (Iudaeorum perfidia) – ossia ciò che li spingeva a esigere tassi di interesse esorbitanti – era cresciuta in proporzione alla capacità dei cristiani di astenersi dal prestito a interesse, e dunque drenava denaro e risorse dalla comunità cristiana. Poco dopo il Concilio Lateranense IV, il re di Francia fece realizzare un manoscritto riccamente illustrato dove questi e altri precetti dottrinali vennero tradotti in un sinistro repertorio visivo. Il commento di Cleirac rivela la straordinaria longevità della retorica e dell’immaginario antigiudaici medievali: intorno alla metà del XVII secolo era ancora possibile attingere a una serie di consolidate associazioni lessicali e discorsive per dipingere l’assicurazione marittima e le lettere di cambio come «ebree di nascita» e frutti di un «intrigo ebraico».

da “Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata”, di Francesca Trivellato, Laterza, 2021, pagine 384, euro 25