Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

QUINTA PARTE

 

 

  

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2020, consequenziale a quello del 2019. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE

PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un Giro di …Giostra.

Nudi e crudi.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

Coppie che scoppiano.

Le scazzottate dei divi.

Gli acciacchi della Star.

Hall of Fame 2020.

Cinema e Musica Italiana da Oscar.

Grande Fratello Vip, perché i Big si (s)vendono così?

AC/DC.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Chechik.

Adriana Volpe.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Agostina Belli.

Ai Weiwei.

Aida Yespica.

Al Bano.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Aldo Savoldello, in arte Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alex Britti.

Al Pacino.

Alena Seredova.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Cantini.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Mahmoud in arte Mahmood.

Alessandro Preziosi.

Alessia Marcuzzi.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amandha Fox.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sartoretti.

Andrea Vianello.

Andrew Garrido.

Andy Luotto.

Angelica Scent.

Annalisa.

Anna Galiena. 

Anna Pepe.

Anna Valle.

Anna Falchi.

Anne Moore.

Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonio Ricci.

Antonello Venditti.

Antonio Zequila.

Arisa.

Asa Akira.

Asia Argento.

Asia Gianese.

Asia Valente.

Asmik Grigorian.

Autumn Falls.

Baby Marylin.

Bar Refaeli.

Barbara Alberti.

Barbara Bouchet.

Barbara Costa.

Barbara De Rossi.

Barbara D'Urso.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta Porcaroli.

Benji & Fede.

Bianca Balti.

Bianca Guaccero.

Billie Eilish.

Billy Cobham.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brigitte Bardot.

Brigitte Nielsen.

Brunori Sas.

Bugo.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cameron Diaz.

Carla Bruni.

Carla Vistarini.

Carlo Conti.

Carlo Verdone.

Carol Alt.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina Collovati.

Caterina Guzzanti.

Caterina Piretti: Katiuscia.

Catherine Spaak.

Cécile de France.

Charlie Sheen.

Checco Zalone.

Chiara Ferragni e Fedez.

Chrissie Hynde.

Christian De Sica.

Claudia Gerini.

Claudia Galanti.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bergamin.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Clementino.

Clint Eastwood.

Cochi e Renato.

Costantino della Gherardesca.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Daisy Taylor.

Dalila Di Lazzaro.

Dana Vespoli.

Daniela Martani.

Daniela Rosati.

Danika e Steve Mori.

Danny D.

Dante Ferretti.

Dario Argento.

Dario Brunori.

David Guetta.

Davide Livermore.

Davide Mengacci.

Davide Parenti.

Demi Moore.

Diego Abatantuono.

Diego «Zoro» Bianchi.

Diletta Leotta.

Domiziana Giordano.

Donatella Rettore.

Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee.

Duffy.

Ed Sheeran.

Edoardo ed Eugenio Bennato.

Elena Sofia Ricci.

Elena Sonzogni.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Daniele.

Elettra Lamborghini.

Elio Germano.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stockholma.

Emma Marrone.

Emis Killa.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Nigiotti.

Enrico Remigio: il milionario.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Iacchetti.

Enzo Ghinazzi-Pupo.

Enzo Salvi.

Erjona Sulejmani.

Eros Ramazzotti.

Eva Henger.

Eva Robin’s – Roberto Coatti.

Evan Seinfeld.

Eveline Dellai.

Ezio Bosso.

Ezio Greggio.

Fabio Canino.

Fabio Rovazzi.

Fabio Volo.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fasma.

Fausto Leali.

Federico Buffa.

Federico Zampaglione.

Ferdinando Salzano.

Ficarra e Picone.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fiorello Catena.

Fiorello Rosario.

Flavio Briatore.

Francesca Brambilla: "Bonas".

Francesca Calissoni.

Francesca Cipriani.

Francesca Sofia Novello.

Francesco Baccini.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Nero.

Franco Simone.

Franco Trentalance.

Fred De Palma.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gegè Telesforo.

Gemma Galgani.

Gene Gnocchi.

Georgina Rodriguez.

Gerardina Trovato.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gialappa’s Band.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianfranco D' Angelo.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianluca Fubelli: in arte Scintilla.

Gianna Dior.

Gianna Nannini.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi Proietti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giobbe Covatta.

Giorgio J. Squarcia.

Giorgio Moroder.

Giorgio Panariello.

Giovanna Civitillo.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanna Ralli.

Giovanni Allevi.

Giovanni Benincasa.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Veronesi.

Giuliana De Sio.

Giulia Di Quilio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Cionfoli.

Giuseppe Povia.

Giuseppe Vetrano.

Gue Pequeno.

Gwyneth Paltrow.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hitomi Tanaka.

Hoara Borselli.

Ilona Staller, per tutti Cicciolina.

Imen Jane.

Imma Battaglia.

Ines Trocchia.

Irene Ferri.

Isabella De Bernardi.

Isabella Orsini.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivan Gonzalez.

 

TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo D’Emblema.

Jake Lloyd.

Jamie Lee Curtis.

Jane Birkin e Serge Gainsbourg.

Jason Momoa.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo, ovvero Eugenia Valentini.

Jim Carrey.

Joaquin Phoenix.

Joe Bastianich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Jon Bon Jovi.

Jonas Kaufmann.

Jordan Jeffrey Baby, ossia Jordan Tinti.

Julija Majarcuk.

Julio Iglesias.

Junior Cally.

Justin Bieber.

Justin Timberlake.

Justine Mattera.

Katia Follesa.

Katia Ricciarelli.

Keanu Reeves.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kristen Stewart.

Lacey Starr.

Lady Gaga.

Lando Buzzanca.

Laura Pausini.

Le Calippe: Debora Russo e Romina Olivi.

Le Donatella: Giulia e Silvia Provvedi.

Led Zeppelin.

Lele Mora.

Le Las Ketchup.

Le Lollipop.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Levante.

Liana Orfei.

Ligabue.

Liliana Fiorelli.

Lillo&Greg.

Lino Banfi.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Battistello.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lory Del Santo.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Bizzarri e Paolo Paolo Kessisoglu.

Luca Ferrero.

Luca Guadagnino.

Luciana Turina.

Luigi Calagna e Sofia Scalia: Me contro Te.

Luigi Mario Favoloso.

Luisa Ranieri.

Lulu Chu.

Luna Star.

Macauley Culkin.

Maccio Capatonda: Marcello Macchia.

Madonna.

Maitland Ward.

Malcolm McDowell.

Malena Mastromarino.

Manila Nazzaro.

Manlio Dovì.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marcia Sedoc.

Marco Bellocchio.

Marco Carta.

Marco Castoldi, in arte Morgan.

Marco Giallini.

Marco Giusti.

Marco Masini.

Marco Mazzoli.

Marco Milano.

Marco Predolin.

Margherita Sarfatti.

Maria Cristina Maccà: la Mariangela e Uga Fantozzi.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Teresa Ruta.

Marianna Pizzolato.

Mario Salieri.

Marilena Di Stilio.

Marina La Rosa.

Marina Mantero.

Marino Bartoletti.

Mario Biondi.

Marisa Bruni Tedeschi.

Marisa Laurito.

Marta Losito.

Martina Colombari.

Martina Smeraldi.

Mason.

Massimo Boldi.

Massimo Cannoletta de “L’Eredità”.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ghini.

Massimo Giletti.

Matilda De Angelis.

Matt Dillon.

Matthew McConaughey.

Maurizia Paradiso.

Maurizio Battista.

Maurizio Costanzo.

Maurizio Ferrini.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Felicitas.

Max Giusti.

Max Pezzali e gli 883.

Mel Gibson.

Mia Khalifa.

Mia Malkova.

Michael Stefano.

Michela Miti.

Michele Bravi.

Michele Cucuzza.

Michele Duilio Rinaldi.

Michele Mirabella.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosè.

Mika.

Mick Jagger.

Milly D’Abbraccio.

Milva.

Mina.

Mingo De Pasquale.

Mirko Scarcella.

Myss Keta.

Myrta Merlino.

Monica Bellucci.

Monica Leofreddi.

Monica Setta.

Monica Vitti.

Morena Capoccia.

Morgana Forcella.

Nadia Bengala.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Noemi Blonde.

Naomi Campbell.

Niccolò Fabi.

Nicola Di Bari.

Nicola Savino.

Nicole Grimaudo.

Nicoletta Mantovani.

Niko Pandetta.

Nicolò De Devitiis.

Nina Moric.

Ninetto Davoli.

Nino Formicola.

Nino Frassica.

Oasis. Liam e Noel Gallagher.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ottaviano Dell'Acqua.

Pamela Anderson.

Paola Barale.

Paola e Chiara.

Paola Ferrari.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino.

Paola Turci.

Paolina Saulino.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Conticini.

Paolo Jannacci.

Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo.

Paolo Sorrentino.

Paolo Virzì.

Pasquale Panella.

Patty Pravo: Nicoletta Strambelli.

Patrizia De Blanck.

Patrizia Mirigliani.

Patti Smith.

Paul McCartney.

Peppino Gagliardi.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Pif.

Pilar Fogliati.

Pino Donaggio.

Pino Scotto.

Pino Strabioli.

Pio e Amedeo. Pio d’Antini e Amedeo Grieco.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Placido Domingo.

Plinio Fernando.

Pooh.

Quentin Tarantino.

Raffaella Carrà.

Rancore.

Raoul Bova.

Red Ronnie.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Righeira.

Ringo.

Ringo Starr.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Pavone.

Rita Rusic.

Robert De Niro.

Roberta Beta.

Roberta Bruzzone.

Roberto Benigni.

Roberto Bolle.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocco Steele.

Rodrigo Alves, il "Ken Umano".

Rockets.

Rosanna Lambertucci.

Roy Paci.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvo Veneziano.

Samantha De Grenet.

Sandra Milo.

Sara Croce: "Bonas".

Sara Tommasi.

Sarah Slave.

Sean Connery.

Selena Gomez.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sergio Sylvestre.

Sergio Staino.

Sfera Ebbasta.

Shannen Doherty.

Shara: al secolo Sarah Ancarola.

Sharon Mitchell.

Sharon Stone.

Silvia Rocca.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O'Connor.

Skin.

Sofia Siena.

Sonia Bergamasco.

Sophie Turner.

Sylvie Lubamba.

Spice Girls.

Stefania Sandrelli.

Stefano Bollani.

Stefano Fresi.

Stella Usvardi: Kicca Martini.

Steve Holmes.

Susanna Messaggio.

Suzanne Somers.

Tazenda.

Taylor Mega.

Taylor Swift.

Tecla Insolia.

Teo Teocoli.

The Kolors.

Tinto Brass.

Tiromancino.

Tiziano Ferro.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Tommaso Zorzi.

Tony Binarelli.

Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli.

Tony Dallara.

Tony Sperandeo.

Tony Vilar.

Tosca Tiziana Donati.

Traci Lords.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ursula Andress.

Valentina Nappi.

Valentina Pegorer.

Valentina Sampaio.

Valentine Demy alias Marisa Parra.

Valeria Curtis.

Valeria Marini.

Vanessa Incontrada.

Vasco Rossi. 

Vera Gemma.

Verona van de Leur.

Veronica Maya.

Victor Quadrelli.

Victoria Cabello.

Vincenzo Mollica.

Viola Valentino.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Wanda Nara.

Willie Garson.

Wilma Goich ed Edoardo Vianello: I Vianella.

Zaawaadi.

Zucchero.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

70 anni di moda e glamour in mostra.

Sanremo 2020, le 10 canzoni più bizzarre mai presentate in gara.

I Comizi di Sanremo.

Sanremo in salsa Leopolda.

Finalmente Sanremo…oltre le polemiche.

Il Debutto.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

L’ultima Serata.

Pronti per Sanremo 2021.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le competizioni stravaganti.

Gli Spartani: i masochisti dello sport.

I Famelici.

Quelli che…Lottano.

Quelli che l’Atletica.

Quelli che…le Biciclette. 

Quelli che…il Calcio.

Quelli che…la Palla a Volo.

Quelli che…il Basket.

Quelli che…Il Rugby.

Quelli che…i Motori. 

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…le Lame.

Quelli che…sulla Neve.

Quelli che…il Biathlon.

Quelli che …in Acqua.

Quelli che…lo Skate.

 

 

 

 LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le competizioni stravaganti.

Jessica D' Ercole per “la Verità” il 9 maggio 2020. Giocare a calcio nel fango, correre con la moglie in spalla, afferrare uova al volo. Queste sono solo alcune delle competizioni più folli al mondo in cui atleti professionisti e amatoriali si sfidano ogni anno davanti a migliaia di spettatori che accorrono da ogni parte del globo. Alcune hanno origini antiche mentre altre, più recenti, sono solo frutto della fantasia, della curiosità o di qualche birra di troppo perché, come diceva Albert Einstein, «senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia». È così, per combattere la noia, che hanno preso vita discipline che monsieur De Coubertin, ideatore delle Olimpiadi moderne, non avrebbe mai immaginato. Il calcio moderno nacque ufficialmente il 26 ottobre del 1863, quando undici club di Londra si riunirono alla Freemason's tavern di Great Queen street per creare un unico regolamento. Nessuno di loro aveva previsto di giocare nel fango. A Hyrynsalmi, cittadina nel cuore della Finlandia, sì. La coppa del mondo di calcio nel fango si svolge ufficialmente dal 1998. L' idea venne dai sciatori di fondo che, in estate, al posto delle sconfinate distese di neve, si allenavano su vere e proprie paludi di fango. E quindi qualcuno ha pensato bene di tuffarcisi dentro per giocare una partita di pallone. Ogni match dura 24 minuti ed è diviso in due tempi. In campo scendono 6 calciatori per squadra, un portiere e 5 in movimento, senza limiti per la rosa né per le sostituzioni. Possono partecipare sia uomini che donne purché riescano a restare in piedi. Nel fango però non si gioca solo a pallone, ma ci si nuota pure. A Llanwrtyd, nel Galles, ogni anno si svolge la World bog snorkelling championship, il campionato del mondo di snorkeling nel pantano. L' idea venne a due impiegati di banca che nel pub del villaggio pensarono bene di fare una gara nelle acque fangose del canale Waen Rhydd. Non ci è dato sapere chi vinse all' epoca ma l' idea piacque così tanto da farla diventare tradizione. Oggi i partecipanti, armati di pinne, maschere e boccagli, devono nuotare per 110 metri nella melma. Con loro sanguisughe, scorpioni e topi d' acqua. Fortunatamente le acque sono così torbide che queste creature non si vedono ma, assicurano i campioni, si sentono. Per complicarsi ulteriormente la vita, la prima manche della competizione prevede anche una pedalata in sella a una bicicletta zavorrata. In pratica, fuori dal pantano, c' è solo la testa. A Llanwrtyd i frequentatori del pub hanno avuto più di un' ispirazione. Nel 1980 uno di loro sostenne che sulla lunga distanza l' uomo fosse più veloce di un cavallo. Ed ecco qui che da allora ogni anno decine di maratoneti sfidano mandrie di cavalli nella Man vs Horse. A dire la verità, in 40 anni, solo due uomini hanno avuto la meglio sugli equini: Huw Lobb nel 2004 e Florian Holzinger tre anni dopo. Tra le corse più strane al mondo c' è anche il Wife carrying championship, ovvero la corsa con la moglie in spalla di Sonkarjarvi (Finlandia). La tradizione risale al 1700, quando i banditi russi in cerca di soldi e cibo andavano a far razzia nei villaggi finlandesi ma, oltre a denari e provviste, spesso rubavano anche le mogli. Stufi di essere depredati i finlandesi decisero di andare oltre confine a riprendersele. Se le caricavano sulle spalle e scappavano per boschi, attraversavano guadi, superavano ostacoli di ogni sorta inseguiti dai russi. Ne è nata una competizione. Le mogli possono essere caricate a cavacecio - braccia e gambe di lei avvinghiate a collo e fianchi di lui -, con la presa del pompiere - la donna in orizzontale sulle spalle di lui con gambe e braccia incrociate attorno ai bicipiti di lui -, o con la monta estone - il corpo della donna scivola a testa in giù sulla schiena dell' uomo, le sue cosce si stringono intorno al collo di lui, i piedi si incrociano e le mani di lei afferrano le proprie gambe per evitare di cadere. La coppia dopo una breve corsa deve affrontare un guado e superare due ostacoli. Arriva primo chi compie il percorso in meno tempo. Il vincitore oltre a medaglia e gloria vince tanta birra quanto il peso della donna che, per partecipare, deve pesare almeno cinquanta chili. Tra le altre gare podistiche che farebbero impallidire i maratoneti più temerari, A tutta birra, la corsa che si svolge a nel parco Nord di Milano. Ogni quattro chilometri, per continuare la gara, il corridore deve tracannare una birra. Più tosta la Corri & salsiccia. Qui vince non solo chi corre più velocemente ma anche chi mangia e beve di più. Per ogni salsiccia, piatto di fagioli ingurgitati o birra tracannata il partecipante ottiene dieci minuti di bonus che vengono sottratti al tempo finale. Sembra più rilassante, ma non lo è, la Bed race, la corsa al letto. Ce ne sono varianti in diverse parti del mondo, ma quella ufficiale si corre a Knaresborough (Inghilterra). Un membro dell' equipaggio deve sdraiarsi su una sorta di barella modificata, con ruote e barre di protezione, e farsi trascinare a tutta velocità da altri quattro membri della squadra per le vie in discesa della città senza mai cappottarsi. A complicare la vita ai partecipanti, il fiume Ridd che va attraversato prima di tagliare il traguardo.

Il fiume è il protagonista anche della Carton & paper rapid race di Oulx (Torino). Per partecipare a questa gara strampalata bastano scotch, cartone e due ore di tempo. Tanto è concesso ai partecipanti per costruirsi una barca che arrivi al traguardo. La maggior parte degli equipaggi - da due a quattro persone - però cola a picco nel fiume Dora. Nel laghetto del palazzo reale di Ludwigsburg (Germania) in acqua non si calano barche di cartone bensì zucche giganti da 90 chili svuotate. La difficoltà più grande sta nel riuscire a non farle capovolgere. Una regata simile si svolge anche in Oregon (Usa) dove ogni anno va in scena la Annual west coast giant pumpkin regatta. Qui però le zucche pesano anche 400 chili. Sembra che a esportare questa disciplina in mezzo mondo siano stati gli irlandesi. Hanno antiche tradizioni i mondiali di lancio dell' uovo. Nel 1322, l' abate di Swanton (Inghilterra), per attirare i suoi fedeli in chiesa, offriva loro un uovo al termine della messa. Un giorno però il fiume Eau, che separava il villaggio dalla chiesa, era in piena. I monaci quindi si misero a lanciare le uova oltre il fiume e alcuni fedeli riuscirono a prenderle al volo. Da lì nacque il gioco che nel 2004 divenne un vero e proprio campionato mondiale. Oggi i monaci sono stati sostituiti da un trébuchet, una sorta di catapulta di legno. Lanciato l' uovo, il ricevitore deve afferrarlo al volo da una distanza di 15 metri e ottiene 3 punti se non lo rompe, 1 se lo rompe, nessuno se l' uovo finisce in terra. La gara si complica nelle altre 3 manche: 30 metri, distanza a caso, e 40 metri. Altra competizione dalle storiche radici è il campionato delle smorfie. A dare il via ai giochi, nel 1267, fu Enrico III e da allora a Egremont centinaia di partecipanti infilano la testa in un collare per cavalli e si cimentano in questa buffa arte.

Il migliore si aggiudica il primato di smorfia migliore dell' anno. Anche chi non sa fare nulla può vincere un campionato. Chi sogna di fare un concerto rock ma non sa suonare può sempre esibirsi sul palco dell' Air guitar world championship di Oulu (Finlandia). Lì non vince il miglior musicista bensì chi finge meglio di suonare una chitarra immaginaria.

Tra le altre gare dove per partecipare bisogna affidarsi solo alla fantasia anche l' Air sex championship. Si tratta di un campionato in cui uomini e donne, soli e completamente vestiti, devono fare sesso con un partner invisibile. L' idea venne nel 2006 al giapponese J-Taro Sugisaku e a un gruppo di suoi amici stufi di non avere la fidanzata, che decisero di lanciare una competizione per dare un premio a chi fingeva meglio di averne una. Oggi le gare di Air sex si svolgono in ogni parte del mondo, soprattutto negli Stati Uniti. Non fanno finta i partecipanti della Shin kicking championship, ovvero del campionato mondiale di calci negli stinchi. Questo sport, nato in Gran Bretagna nel XVII secolo, ha per scopo finale quello di atterrare i propri avversari, almeno due volte in tre round, prendendoli a pedate nella parte bassa delle gambe. Esistono anche vere e proprie leghe nazionali che obbligano gli atleti a indossare pantaloni imbottiti di paglia e scarpe morbide. In origine però i partecipanti usavano stivali di ferro.

·        Gli Spartani: i masochisti dello sport.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 7 gennaio 2020. Ti svegli la mattina presto. Ti fai settecento chilometri in macchina. Arrivi e ti arrampichi sui muri, strisci nel fango, corri con un tronco sulle spalle, immergi la testa nella melma, salti sui carboni ardenti. E tutto questo, pagando: 90 euro per l' iscrizione, 15 per il servizio fotografico, più benzina, abbigliamento tecnico, annessi e connessi. Dice: cosa sei, scemo? No, sono uno spartano. Era agosto. Parlando con degli amici scopro che esiste questa cosa, la Spartan race. È una corsa a ostacoli. Sono 5, 10 o 21 chilometri, a seconda della categoria in cui ci si vuole cimentare. Nel tragitto si incontrano 20 (25, 30) barriere o difficoltà da superare. A correre sono buoni tutti. Per scavallare gli ostacoli della Spartan ci vogliono tecnica, forza, resilienza. E un po' di culo, per evitare di farsi male. Gli spartani erano i coatti della Magna Grecia. Mentre ad Atene le fighette in vestaglia inventavano cose tipo la democrazia o la metafisica, a Sparta uomini ruvidi venivano addestrati alla guerra secondo la disciplina dell'agoghé. Una roba tipo bastone e carota, ma senza carota. Joe De Sena, americano di origini napoletane, puliva le piscine nel Queens, New York. Finché un giorno, l'illuminazione. Ha fatto suo il mito di Sparta e si è inventato questa corsa a ostacoli. Come? Facendo leva sul rifiuto dell' americano medio verso un destino già scritto. Essere un pappamolla. Con la panza, la birretta nella destra e il telecomando nella sinistra. De Sena ha offerto una possibilità di riscatto. Far sentire eroe per un giorno anche l' ultimo coglione. Sottoporlo alla pressione delle prove di forza e di coraggio, senza doversi arruolare nei Marines. Le Spartan Race sono antidepressivi naturali. Durante lo sforzo il corpo produce endorfine. Arrivare alla fine e beccarsi la medaglia, poi, dà un senso di potenza. E, ovviamente, crea un esercito di invasati. Dal 2010 De Sena ha organizzato 800 eventi in 42 Paesi. La Spartan Race è una Guantanamo dove le persone si offrono alle "sevizie" spontaneamente: «Il mio sogno», rivela il patron, «è mandarvi tutti a letto alle 8 di sera e svegliarvi la mattina alle 5, con i burpees». I burpees sono la penitenza che ti tocca se fallisci un ostacolo. In pratica, delle flessioni speciali. Ti stendi a terra e ti tiri su facendo pressione con le mani, poi scatti in piedi e fai un salto sul posto. Facile? Come no: tu ripeti l' esercizio 30 volte e poi vedi se non inizi a invocare la Beata Vergine più di Matteo Salvini....L' altra crociata del santone spartano è contro gli eccessi alimentari. «Il mio obiettivo», ha annunciato parlando con la rivista Forbes, «è cancellare il cibo spazzatura». La Spartan Race non è solo sport, è «una filosofia» che non si esaurisce con l' evento in sé.

«È un programma di allenamento e nutrizione». Lo stesso De Sena si vanta di aver redento numerosi panzoni. Il cinquantunenne pel di carota, ovunque vada, si porta sempre dietro un kettlebell (un peso a forma di campanaccio) da 44 chili. È una scommessa che ha vinto (o perso) con un suo cliente al quale ha fatto perdere 195 chilogrammi di trippa. E veniamo infine al sottoscritto. Sarò scemo, ma io questa cosa l' ho presa sul serio davvero. Ho riempito il modulo di iscrizione e ho pagato i miei 90 euro. Senza protestare. Poi mi sono chiuso in palestra 30 giorni per perfezionare la mia preparazione. Quattro sessioni settimanali, anche cinque. Allenamenti di 90 minuti in sala pesi più altri 35 di corsa sul tapis roulant. Obiettivo: sudare da ogni orifizio, abituare il fisico alla resistenza e al sacrificio. Contemporaneamente ho cominciato il Ramadan alimentare: cinquanta percento di carboidrati, 30 di proteine, 20 di grassi. In cucina sono diventato il Cannavacciulo del Biafra, lo chef della tristezza. Famosa (famosa tra chi mi percula) è la mia ricetta della "water pasta": mezze maniche integrali lessate nell' acqua portata a bollore. Condimenti: niente. Manco il sale (aumenta la ritenzione idrica). I miei patimenti alimentari comprendono l' eliminazione di pizza, dolci, fritti e altri alimenti ad alto contenuto calorico. Non tocco alcol. Fumo solo succedanei delle sigarette. Ovvio che questo stile di vita mi ha condotto alla emarginazione sociale. Ma pazienza. Il giorno della Spartan Race mi rendo conto che ho strafatto. Alla linea di partenza mi sento Rambo che sale sul 43 Express alle otto del mattino.

Con me c' è quasi tutta gente normale. Noto pancette e fianchi con accumuli di grasso. Li guardo con severità. Senonché al primo muro da scavalcare, sbaglio gamba di appoggio e resto appeso come un fesso, finché uno dei falsi magri che avevano attirato il mio biasimo non mi spinge il culo dall'altra parte. Grazie fratello spartano inquartato: perdono te e la tua dieta disordinata. Il resto della gara fila liscia. L'obiettivo era tornare a casa intero. Invece chiudo con un buon tempo (buono per un giornalista). Come "finisher" mi toccano medaglia, maglietta, due banane e un buono per la birra. Ma rifiuto il boccale sdegnato: «No grazie, mi si appanna l' addome». Non sono uno spartano. Sono un caso patologico. 

·        I Famelici.

La vera storia di Tonya: dalle violenze agli abusi sessuali. Ma spunta il mistero della gamba spezzata. Tonya è il film che racconta la biografia di Tonya Harding, famosissima pattinatrice statunitense che venne accusata di aver fatto spezzare una gamba a un'avversaria per poter vincere un titolo. Erika Pomella, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale.  Tonya, la pellicola in onda questa sera su Rai 3 alle 21.20, è un film biografico dai colori accesi e i toni a volte leggeri in cui l'attrice Margot Robbie interpreta Tonya Harding, una pattinatrice originaria di Portland che ha lasciato la sua impronta nel mondo della disciplina sportiva, tanto per le sue abilità tecniche quanto per un "incidente" che ha minato per sempre la sua possibilità di far carriera. Il film di Craig Gillespie è stato presentato in anteprima mondiale al Festival di Toronto, prima di passare anche alla Festa del Cinema di Roma. In entrambi i casi la proiezione di Tonya ha diviso un po' la critica: da una parte chi è rimasto folgorato da questo film fortemente pop e chi invece ha storto il naso davanti la leggerezza con cui si è trattata una vita tanto particolare come quella di Tonya Harding, culminata quando alla sua rivale vennero spezzate le gambe per non avere l'opportunità di competere.

"Kiss and Cry", la vera storia di Tonya Harding. Nel mondo del pattinaggio di figura esiste un'espressione specifica, Kiss and Cry, letteralmente bacia e piangi. Come ricorda il sito della Lucky Red, l'espressione indica quella zona a bordo pista in cui gli atleti, insieme ai loro allenatori, attendono il verdetto dei giudizi e, quindi, la votazione che determina la classifica. Il carattere della vera Harding lo si può intuire proprio dai Kiss and Cry, dal temperamento focoso con cui non riusciva ad accettare i voti che le venivano dati. Questo perché, come mostra il film Tonya, il basso punteggio non era mai determinato dalle capacità tecniche, ma dall'aspetto estetico. A lungo, infatti, Tonya Harding non ebbe i soldi per potersi permettere i costumi pieni di lustrini richiesti dalle gare. Era sua madre LaVona a realizzarli per lei, nei ritagli di tempo tra un turno e l'altro al lavoro. Questo faceva sì che nonostante la tecnica della pattinatrice fosse eccelsa, l'aspetto sciatto della sua figura veniva sempre punito. Sul rapporto con la madre si potrebbe facilmente intessere un ritratto di Tonya Harding. Se nella pellicola sua madre viene ritratta come una donna dittatoriale e quasi crudele, alcuni colleghi di Tonya e testimoni dei suoi allenamenti raccontano, secondo Movieplayer, che LaVona era in realtà una madre premurosa e sempre attenta ai bisogni e alla necessità della figlia. Ma è indubbio che Tonya Harding non abbia avuto una vita facile.

Gli abusi sessuali. In Tonya c'è una scena in cui la protagonista si deve scrollare di dosso il fratellastro, soprannominato Creepy Chris (inquietante Chris). Sebbene sembri una scena appena accennata, Tonya subì molestie da parte di Chris Davidson quando aveva appena quindici anni. Come raccontato da Vulture, Chris molestò in modo costante e persecutorio la sorellastra. Gli eventi, poi, raggiunsero il culmine la sera del primo appuntamento che Tonya avrebbe avuto con quello che poi sarebbe diventato il marito, Jeff Gillooly. Vedendola "tirata a lucido", Chris provò a baciarla, ma la ragazza si tirò indietro, minacciandolo con il ferro dei suoi pattini puntato contro la gola. Dopo la minaccia, la Harding corse di sopra e si chiuse in bagno, ma il fratello la raggiunse e riuscì a buttare giù la porta. Solo per una mera questione di fortuna, Tonya riuscì a sgusciare via dalla sua presa e avere l'occasione di chiamare la polizia che lo arrestò quella stessa notte.

Jeff Gillooly le salva e distrugge la vita. Abbandonata dal padre e costretta a subire le molestie del fratellastro, non sorprende che Tonya approfittò della prima occasione libera per lasciare la casa di Portland in cui era cresciuta e cercare di farsi una vita. È a questo punto della sua storia che entra in scena Jeff Gillooly, quello che sarebbe diventato suo marito. I due, infatti, convolarono a giuste nozze poco tempo dopo essersi conosciute. Tonya ardeva così tanto dal desiderio di lasciarsi alle spalle le macerie della sua famiglia, che sposò il primo uomo che le dimostrò un po' di affetto. Ma la pattinatrice non poteva sapere che, in realtà, era proverbialmente caduta dalla padella alla brace: nonostante i modi da uomo innamorato, Gillooly si rivelò un uomo possessivo e violento, che aveva l'abitudine di picchiare la moglie. Nel libro autobiografico The Tonya Tapes, la pattinatrice racconta di come il marito si fosse introdotto nel suo appartamento dopo che si erano separati, obbligandola ad avere una conversazione. La Harding provò a buttarlo fuori, senza tuttavia avere successo. Quello accadde, secondo la pattinatrice, è che l'uomo minacciò di spararle e di uccidersi. A quel punto Tonya decise di uscire di casa: Gillooly, sempre secondo la versione della Harding riportata da Vulture, sparò nella sua direzione. Il proiettile colpì l'asfalto che si ruppe in una serie di frammenti, molti dei quali colpirono la donna in faccia.

Tonya Harding e l'aggressione di Nancy Kerrigan. Il 6 gennaio 1994, durante una sessione di allenamento per le qualificazioni ai campionati nazionali, la pattinatrice Nancy Kerrigan, che era in lizza per la vittoria, venne colpita all'improvviso da uno sconosciuto che le spezzò una gamba colpendola ripetutamente con una sbarra sul ginocchio destro, mettendola fuori gioco. Naturalmente la ragazza non poté partecipare alla gara, che venne vinta proprio da Tonya Harding. La donna, però, non poté festeggiare a lungo il suo primato e la vittoria. Venne immediatamente accusata di aver assoldato, insieme a Jeff Gillooly, un uomo affinché impedisse a Kerrigan di concorrere per il titolo. Il processo a cui la Harding venne sottoposta minò la sua reputazione, la sua credibilità e, soprattutto, la costrinse ad abbandonare il pattinaggio per sempre. Sebbene lei abbia sempre negato di aver avuto un ruolo nell'aggressione, i sospetti intorno a lei non sono mai spariti. La vicenda di Tonya Harding negli Stati Uniti è così nota che nel 2007, durante la campagna per la presidenza, Barack Obama usò la frase: "Fare un Tonya Harding". Il senso della frase era, per citare Lucky Red, "segare le gambe all'avversario". Intervistata riguardo al fatto, Tonya Harding dimostrò di non aver apprezzato affatto la battuta e di averla trovata fuori luogo e mise in dubbio le priorità di quello che poi sarebbe diventato il presidente degli Stati Uniti d'America. Ma alla fine, con un cinismo e un pragmatismo che fecero sorridere l'intervistatore, Tonya Harding concluse: "Tutta la pubblicità è comunque buona pubblicità".

Mattia Feltri per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Nel tennis esiste una regola secondo la quale chi fa uso improprio della racchetta, della pallina o di altri oggetti, e in conseguenza del gesto fa male a qualcuno, viene squalificato dal torneo. La regola non è interpretabile, dunque è drastica, perché poggia su un postulato indiscutibile fra adulti: se lanci la racchetta significa che non sei padrone di te stesso e non sei in grado di controllare gli effetti delle tue azioni. L'altra sera il numero uno della classifica mondiale, Nole Djokovic, ha perduto un punto importante e ha reagito con un piccolo scatto d'ira: ha spedito la palla in direzione del vuoto, e nel vuoto c'era la giudice di linea. Djokovic ha subito compreso d' averla combinata grossa: per l' assenza dei suoi epici rivali, Roger Federer e Rafa Nadal, gli Us Open avevano un solo favorito, lui. È corso dalla donna, si è preoccupato delle condizioni, le ha chiesto scusa. Agli arbitri non è rimasto che comunicargli la sanzione. Per capire il tentativo di difesa di Djokovic, si è dovuto leggergli il labiale, poiché il tono di voce era molto basso. Sosteneva la casualità dell'incidente, e gli arbitri replicavano sull' inconsistenza dell'attenuante, secondo la legge. Sembrava un dibattito fra aristocratici del Settecento, se il tè sia meglio col latte o col limone. Infine Djokovic si è arreso, ha ammesso la sciocchezza e ne ha accettato la pena senza protestare, ha stretto la mano all' avversario (rimasto zitto al suo angolo) e se n' è andato dal campo: lui ne è uscito bene e si è preservato il buon nome del torneo e del tennis. Tranquilli, non fate quella faccia: al volante, sui social e in politica, vale ancora il randello.

Stefano Semeraro per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Tutti amano Roger Federer, molti ammirano Rafa Nadal. Nessuno capisce - davvero - Novak Djokovic. L' uomo che ha voluto farsi re, e ci è riuscito, ma che fatica a farsi amare. E che in questo 2020 pazzo per chiunque e schizofrenico per lui - tutte luci in campo, solo ombre fuori - a New York è sceso all' inferno. Dei social, ma non solo. Una pallata involontaria, ma diretta alla gola di una giudice di sedia, l' umiliazione della cacciata, la fuga dal torneo senza parlare con la stampa. Da Numero 1 a Nemico pubblico numero 1. Dice John McEnroe, capitano emerito dei Maledetti: «Che gli piaccia o no, ora Novak resterà il cattivo per il resto della carriera. Sarà interessante vedere come gestirà la faccenda». Piatti: «Si è reso conto» L' anno nero del Djoker è iniziato con lo scoppio della pandemia: le dichiarazioni da no-vax, poi l' Adria Tour, esibizione senza legge trasformata in un focolaio di contagi, compreso il suo. E a New York, prima dell' inizio degli Us Open, l' attacco frontale al palazzo d' inverno del tennis, la rottura diplomatica con i finti amici Federer e Nadal arrivata con la creazione del nuovo sindacato. Novak Masaniello contro l' imborghesito duo dei miliardari: peccato che di guerre fra sportivi, nell' anno della pandemia, non si sentisse il bisogno. Imbattuto in campo, 23 vittorie consecutive da gennaio all' altro ieri, Novak non ne ha azzeccata una fuori. «Secondo me ha il malocchio», scherza il suo ex coach Riccardo Piatti. «Certo, quella palla non doveva tirarla. Ma lui è così. Sembra infallibile, invece sbaglia: come tutti. Solo che pensa di avere sempre ragione. Ha un solo obiettivo, vincere, e per inseguirlo combina qualche fesseria. Stavolta si è reso conto di aver sbagliato. Piangerà un po', poi via, riprenderà come prima». Su Instagram Novak il superbo si è cosparso di cenere il capo. «L' intera situazione mi ha lasciato vuoto e triste. Sono estremamente dispiaciuto di aver causato tanti stress. Così involontario. Così sbagliato. Dovrò trasformare il mio dispiacere in una lezione per la mia crescita sia come giocatore sia come essere umano. Mi scuso con tutti». Il pasticcio lo aveva sfiorato altre volte, spaccando racchette, violentando palline; stavolta ha avuto più sfortuna del solito. Ma è giusto chiamarla così? «Djokovic gioca bene quando è emotivo, ma se lo è troppo va fuori giri», dice un altro suo amico e coach, Boris Becker. «So che ai giornalisti piace più Federer, ma ora non tirategli troppo addosso». Suggerimento azzeccato, Boris.

Ma vale per tutti.

Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 14 settembre 2020.

Fabio, quante volte?

«Quante volte cosa?».

Quante volte ha frantumato la racchetta per terra?

«Mai abbastanza».

Fabio Fognini da Arma di Taggia, professione tennista, 33 anni, il braccio destro più veloce a ovest del torrente Argentina, non è cattivo. È che lo disegnano così. Sebbene in campo, in quasi vent' anni di carriera da professionista, abbia lasciato più cuori (la sua generosità, soprattutto con la maglia azzurra, è leggendaria) che sfuriate (un paio, però, sono rimaste proverbiali), ai posteri è passata la narrazione di un giocatore irascibile tanto quanto talentuoso, in grado di strapazzare tre volte in una stagione (2015) quel satanasso di Rafa Nadal e di dare dello zingaro al rivale serbo Krajinovic («Quando perdo la calma la bocca comincia a muoversi da sola, ma poi mi sono scusato»), di battere Andy Murray a Napoli regalando la semifinale di Coppa Davis all' Italia («La partita più bella della mia vita») e di ricoprire di insulti la giudice di sedia a New York, fino a meritarsi la squalifica dall' Open degli Stati Uniti, roba che nemmeno John McEnroe. Per spiegarci che in circolazione ci sono due Fognini, e che quello fumantino capace l' anno scorso di annettersi il torneo di Montecarlo convive serenamente con quel tenerone del marito di Flavia Pennetta, papà di Federico e Farah, Fabio da martedì manda in libreria una biografia: «Warning, la mia vita tra le righe». Con la stampa ha sempre avuto un rapporto contraddittorio ma in 225 pagine, dalla nascita all' ospedale di Sanremo («Della mia terra mi porto dietro tutto, incluso l' amore per Fabrizio De Andrè») alla recente operazione alle caviglie che non lo fa partire di certo favorito agli Internazionali d' Italia posticipati dalla pandemia, al via oggi al Foro Italico, riesce a raccontarsi con calma, prendendo fiato tra gli scambi. Ne esce il ritratto di un ligure a volte ruvido però schietto, un pesto che sa di basilico buono e si ripropone solo quando gli scappa la mano ed esagera con l' aglio.

Un libro, Fognini: esigenza o sfizio?

«Né l' uno né l' altro. Ho 33 anni, gioco a tennis da quando ero in terza media, sono padre due volte: mi sembrava il momento giusto. Ho provato a raccontarmi come la gente non mi conosce, a spiegarmi come mai avevo fatto».

E come non la conosciamo, Fabio?

«Non sono diverso dagli altri, né migliore né peggiore. In ognuno ci sono due facce, nel bene e nel male. Certo io ho gli occhi più puntati addosso, per il mestiere che faccio, ma quando appenderò la racchetta al chiodo potrò dire di essere stato Fabio Fognini sotto tutti i punti di vista. Gli errori fanno parte della crescita: non me ne vanto, non ne vado fiero. E quando ho sbagliato ne ho sempre pagate le conseguenze. Mai avuto sconti in vita mia».

Ha sofferto per essere stato incompreso?

«Mi hanno giudicato per la persona che sono in campo. Ma c' è di più. E sono sempre stato me stesso, cosa che molti campioni di fama trasformati in peggio dal successo e dai soldi non possono dire. Sono triste per loro».

Ha voglia di fare qualche nome?

«No».

Maria Sharapova sosteneva che il rivale va odiato e che, di conseguenza, le amicizie nel tennis non sono possibili.

«Il mio migliore amico è Simone Bolelli, tennista come me, un fratellone maggiore. Siamo cresciuti insieme, in doppio abbiamo vinto un titolo Slam in Australia. Nel tennis, è l' unico. Gli altri amici sono di Arma o di famiglia: Giuseppe, il marito di mia sorella Fulvia, e Maurizio, il marito di mia cugina Fabiana».

Novak Djokovic non è un amico?

«Lo conosco molto bene, lui è uno di quelli che non sono mai cambiati».

Per vincere devi per forza essere egoista?

«Sì ma per un tempo limitato. Mi spiego: quando io gioco contro di te non siamo amici, ma se poi vogliamo andare a bere una birra, io ci sto. Quello che succede in campo, finisce lì. Ecco perché dopo ogni multa o incidente di percorso sono sempre ripartito».

Ha mai detestato il tennis, come Agassi?

«Al tennis sarò sempre grato: per me è la vita. Certo ci sono stati periodi in cui non si è fatto voler bene. Nel 2019, ad esempio, prima di vincere il Master 1000 di Montecarlo, ero incavolato con il mondo: spaccavo due racchette a allenamento, vedevo tutto nero, ero frustrato. Lì è stata brava Flavia a sopportarmi: una moglie che non avesse fatto la tennista, mi avrebbe piantato. Ma non ho mai pensato di smettere, nemmeno nei momenti più bui».

Ecco, parliamo del buio. Quando cala, con quale intensità, scatenato da cosa?

«Non so neanche io perché mi succedono certe cose. Pure Flavia mi dice che non capisce: è come se in campo a volte Fabio smettesse di esistere e al suo posto arrivasse all' improvviso un altro tizio totalmente fuori controllo. Un nemico che mi porto dentro e che a volte non riesco a trattenere».

L' ha fatta più maturare il matrimonio o la paternità?

«Due momenti diversi, ma connessi. Flavia comprende le mie ombre, senza il suo appoggio non so dove sarei. Federico e Farah mi hanno reso meno menefreghista e più attento ai piccoli dettagli delle cose».

Fognini con un' altra testa avrebbe vinto molto di più di 9 titoli Atp: verità o stereotipo?

«È tutta la vita che me lo sento ripetere, mi sono anche stufato. A me va bene così: sono entrato nei top-10 del ranking restando fedele a me stesso. Diventare come mi vogliono gli altri mi farebbe stare male».

Chi le somiglia di più, Federico o Farah?

«Fede è il mio ritratto: cammina con la pancia in fuori e i piedi a papera! La bimba ha 9 mesi, è presto per dirlo. Maschio e femmina, la famiglia perfetta... Sono un uomo fortunato: nel privato non mi manca proprio nulla».

E nello sport quale riconoscimento le manca, Fabio?

«Vado avanti finché mi sento competitivo. L' operazione alle caviglie l' ho fatta proprio per allungarmi la carriera di qualche anno. Ora, dopo sei mesi che non giocavo a tennis, mi fa male tutto! Non mi vedo da numero 80-90 del mondo a remare nei challenger per risalire la classifica. Sono n.12, vorrei togliermi ancora qualche sfizio: un altro Master 1000, magari Roma, se poi è uno Slam meglio».

Nessun rimpianto di non aver fatto il calciatore, magari dell' Inter, come sognava suo padre?

«Vicino a casa nostra, ad Arma, vivevano i Dellacasa: lui era il massaggiatore ufficiale dell' Inter ed era cliente al ferramenta di mio papà, che è anche un buon amico di Altobelli, tanto che nell' 82 l' aveva invitato a seguire la Nazionale in Spagna per i Mondiali. Tutti i miei idoli di bambino sono calciatori: Materazzi il ribelle, Zamorano il guerriero. Con mio padre andavamo alla Pinetina a vedere gli allenamenti. Ma quando a 13 anni mi sono trovato davanti al bivio, non ho esitato: nel tennis sei solo, tuo il merito, tua la colpa. Non ci sono giustificazioni. È così che funziona».

Come si immagina l' ultimo match?

«Davanti alla mia famiglia, con i miei figli che vedono il papà che finisce il suo lavoro».

E poi?

«Se ne parlava con Flavia durante il lockdown, un periodo che ci ha costretti a riflettere. Ad allenare non ci penso proprio. Una scuola tennis con il mio nome non mi interessa. Mi vedo più titolare di una società di scouting, come Francesco Totti nel calcio, con sede a Milano. L' occhio per il talento tennistico ce l' ho. È un' idea che mi intriga».

Alla fine, Fabio, dopo tutti questi anni cosa non abbiamo ancora capito di lei?

«Che, vi piaccia o no, siamo tutti un po' Fognini. Rassegnatevi».

Matteo Basile per Il Giornale il 7 settembre 2020. Siamo abituati a vederli come super atleti, imperturbabili, quasi indistruttibili. Invece spesso si rompe qualcosa anche nei fenomeni dello sport. Dal calcio, al ciclismo, al tennis. Fragilità, disturbi, crisi, problemi emotivi, veri e propri blocchi sono all'ordine del giorno. Altro che supereroi. «È un'immagine mediatica, in realtà lo sportivo deve avere un equilibrio psicologico importante ma è soggetto alle stesse debolezze di una persona qualsiasi», spiega il professor Daniele Popolizio, psicologo, specialista mental coach, psicoterapeuta e presidente gruppo Cenpis.

Ieri è tornato a Bergamo Ilicic dopo la depressione che lo ha colpito e fatto fermare. Ma cosa può essergli successo?

«Quando si arriva a quel punto c'è qualcosa che è stato sottovalutato. Per intervenire in un caso di depressione serve lo specialista, uno psicoterapeuta, non va improvvisato nulla. E mi auguro non abbia utilizzato supporti di tipo farmacologico, sarebbe sbagliatissimo».

Come ne può uscirne ora?

«Psicoterapia. Con un lavoro ben fatto nel giro di qualche mese si risolve. Poi dopo la fase critica serve un mental coach per accompagnarlo».

Potrà tornare quello di prima?

«Certo, è un malessere che si risolve. L'importante è intervenire per tempo e per bene. Ci sono tanti casi che abbiamo trattato, se non risolve è perché non si cura in maniera adeguata o si minimizza. Bisogna andare a fondo a questo tipo di disagi».

L'altro giorno al Tour si è bloccato Fabio Aru. Ha detto non so cosa mi stia succedendo.

«Nel suo caso probabile abbia preso una parabola discendente e forse non si è guardato dentro per chiedersi se abbia ancora forza e voglia di competere ad alti livelli. Non è facile ammetterlo a se stessi».

Sempre l'altro ieri Djokovic ha tirato una pallata a un giudice.

«Ha avuto uno scatto. Un atteggiamento da super ego più che da follia. Non credo volesse colpirlo comunque una perdita di controllo non normale».

Quanto può aver influito il lockdown nelle fragilità mentali degli atleti?

«Tantissimo. Gli sportivi hanno perso i loro punti di riferimento. E non avendo più lo sport come elemento centrale della vita hanno cominciato a relativizzare quello che fanno, un po' come uscire da una bolla. Cambia di colpo la scala valoriale e dal punto di vista della prestazione è una distrazione».

Qualche esempio?

«Messi. Non mi sembra abbia gestito la sua situazione in maniera normale. Ha avuto una lettura distorta della realtà, un comportamento un po' disturbato. Infatti ha fatto marcia indietro».

Ha notato situazioni particolari anche da noi?

«Bonucci si è detto emozionato per la gara con la Bosnia. Gli credo ma per uno con la sua esperienza denota uno spostamento delle costellazioni mentali di riferimento».

Ma al giorno d'oggi conta la testa in un atleta di primo livello?

«L'80, 90%. Vince quello più solido e più pronto mentalmente, soprattutto nei momenti decisivi».

Maria Strada per corriere.it il 17 settembre 2020. Mike Tyson contro un gorilla? Quasi. Nel lontano 1989 l’ex campione del mondo volle regalare una serata romantica a Robin Givens, allora sua moglie. E una sera, fuori orario, prenotò un intero zoo per una visita privata. Arrivati alla gabbia dei gorilla, ha raccontato di recente il pugile, in attesa di tornare sul ring a novembre (a 54 anni) per un incontro con Roy Jones Jr., videro che il più massiccio degli animali «un grosso maschio, stava sottomettendo tutti gli altri». Ventitreenne, all’epoca detentore del titolo Wba dei pesi massimi, decise di intervenire: «Erano così potenti ma i loro occhi erano come un bambino innocente - ha spiegato Tyson - Allora ho offerto al guardiano 10.000 dollari per aprire la gabbia e permettermi di spaccare il muso di quel gorilla. Ha rifiutato». In passato Tyson ha anche convissuto con diversi animali selvatici, e in particolare delle tigri (tre animali provenienti dal Bengala, tutti dati via. In particolare l’amata Kenya, che era vissuta con lui fin da cucciolina, pagata circa 64.000 euro, ma che «strappò il braccio a uno», anche perché il pugile aveva l’abitudine - come raccontò un suo amico, Jeff Fenech - di chiudere i visitatori nella gabbia con gli animali: «Anche se non ci sono tante cose che mi fanno paura, diciamo che, quando sono uscito dalla gabbia, mi sono dovuto cambiare le mutande…». Tyson aveva anche un puma, oltre a degli animali domestici considerati «più normali» come dei cani o dei piccioni. Più recentemente, in allenamento, Tyson, è apparso nel programma Week of the Shark di Discovery Channel. Nei video pubblicati su Twitter si vede la sfida del campione che, accompagnato da un paio di istruttori, si è tuffato in mare circondato dagli squali riuscendo anche a immobilizzarne uno. Chissà se le sue imprese con gli animali entreranno a far parte del film che Martin Scorsese sta girando, con Jamie Foxx nei panni del protagonista.

Da Tyson a Suarez, i morsi che hanno fatto la storia dello sport. Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Il mondo dello sport è pieno di gesti folli passati alla storia. Il morso di Luis Suarez a Giorgio Chiellini al Mondiale in Brasile del 2014 oggi è solo un lontano ricordo di una spedizione sfortunata e che costò all'uruguaiano 4 mesi di squalifica. Ma non è un episodio isolato. Come dimenticare quello più famoso e, forse, anche il più violento, quello di Mike Tyson nei confronti di Evander Holyfield del 28 giugno del 1997 durante un incontro a Las Vegas per l'assegnazione del titolo dei pesi massimi Wba. Quel giorno "Iron Mike" strappo il lobo dell'orecchio sinistro del suo avversario per poi sputarlo sul ring. Match sospeso per qualche minuto, poi quando riprese Tyson ci riprovò e venne squalificato. Nel 2006 in Premier League Jermaine Defoe del Tottenham prese a morsi sulla spalla Javier Mascherano, all'epoca al West Ham. Nel 2012 in Corinthians-Boca Juniors Emerson Sheik scagliò la propria frustrazione contro Matias Caruzzo. Nel 2014 nella nostra serie B il "barese" Enis Nadarevic morsicò sulla coscia Diego Falcinelli, giocatore del Lanciano. Dal calcio agli altri sport, perché anche la Nba non è immune da questo genere di episodi. Nel 1983 nella sfida playoff tra i Boston Celtics e gli Atlanta Hawks, Wayne Rollins "azzannò" l'avversario Danny Ainge durante una rissa in campo. Nel 2002 nel campionato di rugby australiano, Peter Filandia addentò il pene di un avversario, Chad Davis. Nel 2011 nell'Hockey sul ghiaccio, nel corso della finale di Stanley Cup, Mikhail Grabovski dei Toronto Maple Leafs morse Max Pacioretty dei Montreal Canadiens. Anche le Olimpiadi hanno visto scene simili. Ne 2012 a Londra, in un match di Judo, categoria <100 Kg, il cubano Despaigne morse l'uzbeko Sayidov.

Da blitzquotidiano.it il 13 novembre 2020. Ancora conati di vomito in campo per Leo Messi, questa volta prima della partita tra la sua Argentina e il Paraguay. Il campione argentino Leo Messi sembra non aver superato ancora i problemi di conati di vomito durante le partite. Era già successo tante altre volte con il Barcellona. Questa volta invece è accaduto due volte durante Argentina-Paraguay. Messi prima ha avuto dei conati di vomito durante l’inno nazionale, poi anche un’altra volta in campo durante la partita. Le telecamere argentine hanno ripreso tutto. In Argentina, già da tempo, hanno individuato il problema che porta Messi ad avere spesso conati di vomito in campo. Si tratta di rinosinusite cronica, una malattia che aumenta la produzione di muco e rende difficile espellerlo dal corpo soprattutto durante l’attività fisica, sotto sforzo. Da anni, ormai, Messi segue un piano alimentare creato su misura per lui da un nutrizionista italiano, che l’ha messo al riparo da ogni disagio di natura gastroalimentare.

La partita tra Argentina e Paraguay. Alla Bombonera finisce 1-1 tra Argentina e Paraguay, sfida valida per la terza giornata di qualificazioni mondiali, ma a Messi e compagnia resta l’amaro in bocca per una prestazione nervosa segnata dal gioco duro e da alcune discutibili decisioni arbitrali. Su tutte, il gol vittoria annullato alla Pulce dopo l’intervento del Var. Poi il duro fallo di Romero che ha mandato in ospedale Palacios e un rigore non concesso per fallo su Messi. (Fonte YouTube).

Francesco Piccolo per La Lettura – il Corriere della Sera il 2 settembre 2020. Se c' è una cosa che più di ogni altra spiega l' epicità dello sport, è questa: vincitori e sconfitti, campioni e falliti, sono allo stesso modo materia di racconto. C' è l' epica di Ronaldo che vola oltre la traversa per colpire di testa e c' è l' epica di chi era famoso per sbagliare gol a porta vuota. C' è l' epica del primo, del secondo, dell' ultimo e perfino del penultimo. C' è l' epica di chi la finale l' ha vinta e di chi l' ha persa - il Brasile che perde il mondiale in casa contro l' Uruguay, e la leggendaria testata di Zidane a Materazzi; Bitossi che perde il mondiale di ciclismo sulla linea del traguardo, e Basso che vince superando di un centimetro Bitossi. C' è l' epica dei vincenti, dei perdenti, degli eterni secondi, di quelli che hanno subito dodici gol in una partita e dei portieri imbattuti per mesi. Ogni gesto, esemplare o fallimentare, ha la potenza del racconto. E poi c' è qualcuno che riesce a tenere insieme le due cose: i grandi campioni che poi sono caduti, che alla fine hanno fallito. Che hanno vinto e poi hanno perso, e molte volte si sono soprattutto persi. È quello che racconta La caduta dei campioni (Einaudi), scritto da «l' Ultimo Uomo» il nome collettivo che firma questo libro: è il titolo della rivista online che raccoglie un gruppo di appassionati, competenti (pubblicano saggi esemplari di tattica calcistica) che crede alla narrazione dello sport e che la costruisce con quella ossessione fanatica ma lucida. Ne fanno parte scrittori, giornalisti, blogger. Ci sono racconti di pallanuoto, tennis, basket, ciclismo. Ma soprattutto di calcio. Si narra la storia di Bojan che viene preso dalla nausea fin da quando ha 17 anni, essendo il predestinato del Barcellona (ancora più di Messi) e però non sapeva che giocare insieme ai campioni e avere la responsabilità del talento gli avrebbe causato conati di vomito, e alla fine riuscirà a esprimersi al meglio solo nelle amichevoli o in una squadra canadese lontana dai riflettori (ma c' è anche l' epica del gol annullato in Champions contro l' Inter, che forse avrebbe cambiato il suo destino); di Adriano che, dopo aver preso a pallonate porte e portieri, diventa depresso, grasso e alcolizzato per la scomparsa del padre; di Pantani fermato prima da auto che lo hanno travolto involontariamente nel momento migliore, e poi rovinato da un prelievo, da sé stesso, ma soprattutto da qualcuno che vicino casa, una volta che era andato a fare una sgambata in bici per capire se poteva tornare a correre, gli urla «drogato» e lui torna in lacrime (e poi tutto il resto che sappiamo - ma chiunque parli di Pantani non sa, non vuole e non può accusarlo di nulla). Ivanisevic ha detto una volta che il tennista ha cinque nemici: il giudice di sedia, il pubblico, i raccattapalle, il campo e sé stesso. E l' avversario? - qualcuno gli ha chiesto. C' è anche quello, ha risposto, ma è il problema minore. Ecco, se si legge questo libro molto interessante, ci si accorge che per la maggior parte dei talenti che si sono rovinati, i nemici sono esattamente quelli elencati - con al primo posto sé stessi, e davvero soltanto ultimi gli avversari. Si possono aggiungere anche i centimetri o i centesimi, che hanno reso felice e infelice una grande nuotatrice come Ruta Meilutyte, che prima ha vinto molto e poi ha perso altrettanto: «Se si gareggiasse sui centocinque metri, sarebbe spacciata: ma Ruta resiste e tocca per prima, per otto centesimi. E se non capite la violenza di giocarsi una vita di fatica e sacrificio, un primo o un secondo posto sulla base di otto centesimi di secondo, lo sport non fa per voi». Quasi tutta la storia degli sport è determinata da una palla da basket che si è infilata dopo essere rimbalzata due volte sul ferro, da una pallina da tennis che ha toccato il nastro ed è finita di là o di qua, da una deviazione in porta, da un dito che ha toccato il bordo vasca un millimetro prima di un altro, da un' asticella che ha danzato prima di cadere o restare in alto. E da quei sé stessi con i quali bisogna lottare o convivere o saperci avere a che fare. Quando Ruta ha deciso di uscire dalla piscina per sempre, ha dichiarato con semplicità: «So che tutti hanno amato le mie vittorie, ma nessuno riesce a vedere la persona timida e spaventata che c' è dietro a questi successi». Ed è questo, alla fine, ciò che viene fuori da La caduta dei campioni : la convivenza a volte impossibile tra una persona e il proprio talento, tra la costanza e la determinazione che necessitano, e le fragilità emotive che compaiono e a volte sono invincibili. Una volta Ratko Rudic, grande allenatore di pallanuoto, ha dato la definizione più convincente di che cosa sia un campione: ha detto che non è colui che fa qualcosa di eccezionale (o almeno non è questa la sua caratteristica principale); ma è colui che negli ultimi minuti di una gara si comporta, gioca e pensa allo stesso modo di come si è comportato, ha giocato e ha pensato nei primi minuti o durante l' allenamento o nel corso di un' amichevole. Tutti calano nei momenti decisivi, tranne il campione che continua a pensare e fare come sempre. Quindi non è qualcuno che fa di più ma è qualcuno che non fa di meno - come capita a tutti, a un certo punto. E infatti, a pensarci bene, è questo che ammiriamo, in fondo, quando siamo seduti davanti alla tv: ci chiediamo come sia possibile che chi doveva fare il punto decisivo non abbia tremato, come sia possibile fare un passante lungolinea per annullare un match point, o fare il tempo migliore della propria carriera proprio il giorno della finale olimpica. Quello che ci sembra incomprensibile, è il vero miracolo. Quindi, se la definizione di Rudic è valida, allora vuol dire che il vero avversario del proprio talento è la personalità. Ed è esattamente quello che alla fine di queste dieci storie esemplari si comprende, un po' soffrendo e un po' provando un' empatia per chi si è sfilato e vive altrove, lontano dal campione che era (ma purtroppo, come per Pantani, i finali sono anche tragici). E la sintesi di tutto rimane il libro di Andre Agassi scritto con J. R. Moheringer, Open , che racconta che si può vincere Wimbledon e intanto odiare il tennis, perché non si sarebbe scelto. E qui c' è la storia del russo Marat Safin, un altro predestinato, che dichiara lo stesso tormento: «Mia madre mi ha gettato subito nel tennis. Non volevo giocarci per niente. Per tutta la vita ho desiderato giocare a calcio. Ma mia madre, lei sapeva cos' era meglio per me». Safin si è fatto eleggere in Parlamento, pur di scappare ed essere un altro. La caduta dei campioni racconta storie di fobie, tremori e solitudini. Angosce, incapacità di ripetersi, spavento per dove si è arrivati. Ma c' è perfino una storia di mancanza di emotività, di freddezza, che riguarda Andrea Bargnani, il giocatore di basket che ha spento il proprio talento per indifferenza. Ci sono storie di povertà che si fa ricchezza troppo improvvisamente. Di ribellioni, indisciplina e voglia di fuggire. Di salite e discese, e di fallimenti. Ma i nomi dei campioni caduti, o anche falliti, restano nomi di campioni, sempre. E questo libro ne è la testimonianza.

·        Quelli che…Lottano.

Da "leggo.it" il 23 dicembre 2020. Tragedia familiare per Nino Benvenuti. Il primogenito del campione olimpico e mondiale di pugilato, Stefano, 58 anni, è stato trovato morto in un bosco del Carso. Secondo gli inquirenti si tratta di suicidio. Nel 2016 l'uomo era stato condannato al carcere per un furto di gioielli all'ex compagna ed era arrivato a scontare la metà della pena. Con l'emergenza Covid aveva ottenuto i domiciliari, ma la sofferenza non l'ha abbandonato neanche lontano dalle mura della casa circondariale del Coroneo. Tra Stefano e il padre Nino il rapporto è sempre stato difficile e conflittuale, tanto da finire davanti a un giudice: l'ex campione di pugilato pretendeva la restituzione di un orologio d'oro che aveva ricevuto dopo la vittoria delle Olimpiadi di Roma ma anche di una Bibbia di valore e un ritratto ad olio oltre a vecchi trofei. Nel 2002 l'altro procedimento giudiziario nei confronti del figlio Stefano, accusato di aver incassato un assegno da 15 milioni di lire che invece sarebbe dovuto finire sul conto della madre Giuliana. 

Piero Mei per “il Messaggero” il 24 dicembre 2020. Il corpo di un uomo era stato trovato qualche giorno fa, in un bosco sul Carso, dalle parti di Trieste. La Trieste di Nino Benvenuti. Quel corpo era di un uomo di 58 anni, morto suicida dicono gli inquirenti. Il corpo di Stefano, il figlio primogenito di Nino Benvenuti. «I cinque figli che ho avuto con Giuliana - aveva detto il campione un paio d' anni fa in una intervista - non li vedo, non li sento, non mi vogliono parlare. Lei me li ha messi contro. Ho nipoti che non conosco e penso che, anche se non sono stato un buon padre, potrei ancora essere un buon nonno». Quanta malinconia, quanto rimpianto, forse quanto rimorso: il ring della vita deve essere stato con Nino assai meno disponibile che il ring della boxe, sul quale Benvenuti sferrò (e prese anche) cazzotti micidiali, lui che incassare non era nelle sue corde. Sessant' anni fa, nel settembre 1960, Nino era diventato campione olimpico, sul quadrato messo al centro del Palaeur, Giochi di Roma, la stessa notte che vinse l' oro un americano che aveva paura di volare, Cassius Clay che poi sarebbe stato Mohammed Alì, il più grande di sempre. In quel torneo olimpico, nella categoria dei welter Nino sconfisse tutti gli avversari, meno l' ultimo, con il verdetto di 5 a 0. L' ultimo, un sovietico, lo batté 4 a 1. Teoricamente sconfisse anche Cassius Clay: la coppa assegnata al miglior pugile venne infatti attribuita all' azzurro. Ricevette vari premi, oltre la medaglia d' oro: anche un orologio d' oro, tornerà nella storia. Sconfisse pure la fame: il tecnico lo convinse a scendere di categoria e dunque dovette buttar giù cinque chili per rientrare nel peso. La vita, ora, sembrava sorridergli e gli sorrise davvero in quegli anni, e sorrise all' Italia tutta che si innamorò di lui e stette sveglia notti su notti quando andò ad affrontare, titolo mondiale in palio, Emile Griffith o Carlos Monzon. Il destino s' è accanito sui combattenti di quei ring. L' Italia si appassionò anche a quella sfida tutta nostra che vide opporsi Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti, la scimitarra e il fioretto, è stato detto. Vinceva il fioretto. Nino era divenuto professionista e papà, di Stefano. Da superwelter aveva subito la sconfitta da Ki-soo Kim: più che sconfitto, fu derubato. Ma non è questa la leggenda: è quel che venne dopo, anno 1967, inizio della trilogia contro Griffith. La televisione non trasmise il match del Madison Square Garden: una specie di lockdown, dovevamo dormire per lavorare il giorno dopo. La radio non si arrese e gli italiani neppure: è stato calcolato che 18 milioni di tifosi (per non contare i passeggeri dei sei voli charter che lo raggiunsero a New York) siano rimasti svegli all' ascolto. Il giorno dopo lavorarono ugualmente, italiani brava gente. Lavorarono con il cuore più leggero: Nino vinse il titolo fascinoso dei medi che solo un altro europeo era riuscito a conquistare venendo dal Vecchio Continente su di un ring americano, Marcel Cerdan, leggendario. Nino perse la rivincita, vinse la bella. Griffith vinse un amico: quando fu in difficoltà, fu Benvenuti a sostenerlo in ogni modo, anche economico. Epica pure la lunga sfida contro Monzon, l' argentino misterioso che dopo varie vicissitudini Nino scelse come avversario mondiale. «Scenderò da questo ring vincitore o morto» disse l' argentino. Scese vincitore. Anche dalla rivincita. E Nino si arrese, ritirandosi.

LA DENUNCIA. Un giorno, molti anni dopo, cercò quell' orologio d' oro e altre memorabilia, di valore e d' affezione. Aveva tutto Stefano. Nino lo denunciò: ormai i rapporti tra il padre che s' era creato una nuova vita, e il figlio erano deteriorati. Stefano restituì tutto. Pace? Forse tregua. Altri problemi tra i due, e anche tra Stefano e la sua compagna. Denunce, processi, carcere. Stefano, attualmente, per via del Covid, stava scontando l' ultima parte della pena ai domiciliari. Nino, il grande Nino, il nostro eroe della boxe, era a Roma, ormai la sua città pur senza mai dimenticare le sue origini istriane e la sua gioventù triestina. C' è pure un fumetto a raccontarla. A far vivere ai lettori il dramma di quegli anni e di quegli italiani, Zona A e Zona B, Tito, la Jugoslavia. Isola d' Istria, il luogo natio, è oggi Slovenia. E oggi Benvenuti è al centro non di un ring ma di una tragedia personale e familiare.

Don King compie 89 anni, da assassino a impresario ecco chi è l’uomo che ha «inventato» la boxe. Fiorenzo Radogna il 19/8/2020 su Il Corriere della Sera. Uomini fanno del sorriso il loro biglietto da visita. Ma nascondono la fra le rughe storie personali «al confine». In un chiaroscuro che sa di intelligenza e intraprendenza, ma anche di egoismo e violenza. Potere e ambizione. Donald «Don» King da Cleveland, - che oggi compie 89 anni - è uno di quelli. Con il suo capello «elettrico», la dentatura in bella mostra, la parlantina sciolta e una fisicità che dice molto. Del suo modo di affrontare la vita. E dominarla. Proprio come su un ring. Allibratore e omicida, promoter geniale e manager. Un uomo «sopra le righe» che, alle soglie dei novant’anni, non smette di proporsi. Come uno dei padroni di quella boxe che, da «noble art», è diventata (tornata ad essere) un «circo». Come era - ma per motivi differenti - ai suoi albori. Mollata l’università quasi subito, Don prese a frequentare il sottobosco delle scommesse illegali nella capitale dell’Ohio ma «dall’altra parte della barricata». Quella dove si facevano i soldi e dove un tipo intraprendente e senza scrupoli come lui, poteva arricchirsi velocemente. Bastava non porsi limiti e non avere paura. Anche di sporcarsi le mani.

Vita spericolata. Ben prima di cominciare a farsi venire i capelli dritti con spray e pettinino, King uccise due volte. In circostanze chiarite (a stento). A 21 anni uccise a colpi di pistola tale Hillary Brown, uno dei tre rapinatori che stavano tentando un colpo a una delle sue case di scommesse. La corte lo assolse per autodifesa. Gli andò un po’ più male nel 1966: un dipendente, Sam Garrett, tardò troppo a pagargli i 600 dollari che gli doveva e lui «lo gonfiò» al punto di ucciderlo. Omicidio di secondo grado, derubricato a omicidio colposo: King se la cavò con tre anni e mezzo di reclusione, che non scontò interamente per il «condono» del Governatore dell’Ohio. Un uomo con tante conoscenze importanti l’allibratore di Cleveland. Senza tanto bisogno di muoversi per afferrare il vero colpo di fortuna: quello che lo fece svoltare. Bastò essere intraprendenti e convincenti: avvicinò Muhammad Ali e per lui organizzò un incontro benefico in un ospedale di Cleveland. Niente soldi, ma il suo ingresso (dalla porta principale) nel mondo dei promoter di boxe fu cosa fatta. Non solo: in pochi anni ne divenne quasi il padrone assoluto.

Colpi di genio. Il colpo di genio fu - da manager di Ali - quello di organizzare sul ring di Kinshasa nel 1974: «The Rumble in the Jungle», forse l’incontro di pugilato più famoso della storia. L’idea fu quella di far ospitare (e spesare) l’incontro dal dittatore dello Zaire Mobutu, che era alla ricerca di visibilità internazionale ed era disposto a sborsare i 10 milioni di dollari per il cachet dei due pugili. E Ali stese il detentore della corona unificata dei massimi, George Foreman. Analoga (remunerativa) «soluzione» riuscì con il terzo match Ali-Frazier a Manila, nelle Filippine: «The thrilla in Manila». Era il 1975, Ali vinse ancora. Ma a trionfare fu soprattutto il «folkloristico» ex allibratore di Cleveland. Ormai un personaggio planetario. In quegli anni ‘70, oltre a seguire Ali, King divenne il manager di una scuderia «da far tremare i polsi» con gente da «Hall of Fame». Come Larry Holmes (che poi lo ripudiò), Wilfred Benítez, Roberto Durán, Salvador Sánchez, Wilfredo Gómez... Ovunque, dove c’era un incontro di un qualche interesse (superiore) per gli appassionati, lampeggiava la scritta «Don King Productions». E così nei decenni successivi con Evander Holyfield, Julio César Chávez, Aaron Pryor, Félix Trinidad, Mike McCallum e tanti altri. Fra cui naturalmente quel Mike Tyson che fu aiutato dal 1988 (già campione del mondo) ad «amministrare» (si fa per dire) una carriera certamente ai vertici, ma che si rivelò anche troppo breve. Come il patrimonio ben presto dilapidato. Alla fine King sarebbe riuscito a «cavalcare» anche l’ultima onda di Tyson: «suoi» i due match tra Iron Mike e Holyfield che batterono tutti i record di ascolti-tv.

Le accuse. Dopo il secondo e, dopo aver staccato a morsi un pezzo di orecchio al rivale, Mike separandosi dal manager lo accusò di averlo derubato. E gli fece causa con una richiesta di 100 milioni di dollari. Soldi che gli sarebbero stati sottratti da King nel periodo di galera. Ne ottenne 14. La lite col manager (che controllava tre delle quattro corone iridate) gli avrebbe poi limitato la possibilità di combattimenti successivi. E l’irsuto promoter (diventato collezionista di oltre 5000 orologi di valore pazzesco) non si sarebbe fermato: tra i tantissimi incontri organizzati a cavallo del nuovo secolo, ecco «The fight of the millennium». Nel match di Las Vegas del 1999, per unificare i titoli dei pesi welter Wbc e Ibf (e in accordo con l’altro «drago» Bob Arum) King fece affrontare Óscar de la Hoya e Félix Trinidad. Forse l’ultimo dei grandi match del ventesimo secolo. Così, mentre la boxe scivolava verso orizzonti non proprio luminosi, Don King proseguiva - fra film a lui dedicati, cameo cinematografici, ospitate televisive e l’ingresso nella Hall Of Fame della Boxe - a organizzare «super-incontri». Come quello fra Roy Jones e Tito Trinidad nel 2008. Fino ai giorni nostri; e fino a quando, chissà. Per un manager che ha «architettato» più di 500 match-mondiali, amministrato quasi cento pugili a cui ha fatto guadagnare almeno un milione di dollari e pianificato sette dei dieci eventi più visti in pay-per-view, tutto appare possibile. Certamente anche sopravvivere a sé stesso e alla propria coscienza.

Sergio Arcobelli per il Giornale il 21 luglio 2020. Quando nell'inferno di Manila sconfisse Joe Frazier in 14 riprese, Muhammad Ali definì quello scontro come «la cosa più vicina alla morte mai vissuta». Sette anni dopo, ci è voluta una morte vera per cambiare per sempre la boxe: quella del sudcoreano Duk Koo Kim. La mano omicida, se così si può dire, era stata quella dell'italoamericano Ray Mancini, campione del mondo dei pesi leggeri WBA, che il 13 novembre 1982 a Las Vegas tramortiva al 14° round con un terrificante destro al volto lo sfidante. Kim non si rialzò mai più. Il coreano, infatti, morirà cinque giorni dopo nel Desert Springs Hospital di Las Vegas. Quattro mesi più tardi, in preda alla disperazione, la madre di Kim si tolse la vita, idem l'arbitro dell'incontro, Richard Greene. Un solo pugno aveva causato la morte di tre persone. Mancini, per ovvie ragioni, da quel giorno non fu più lo stesso. Eppure, Kim non era stato il primo pugile a morire a causa delle lesioni subite sul ring. Né è stato l'ultimo. Ma quella tragedia scosse così tanto il mondo della boxe che la sua stessa esistenza fu messa in discussione. Ray Mancini, 38 anni fa il suo pugno cambiò la storia e fece male al mondo.

«E da allora quel senso di colpa mi ha accompagnato per quasi tutta la vita. Prima dell'incontro con Kim, ero un pugile di 21 anni così famoso che Frank Sinatra volle conoscermi. Persino Reagan mi ricevette alla Casa Bianca. Vorrei non averlo dato».

Il suo cognome rivela il suo sangue italiano.

«A Youngstown, in Ohio, dove nacque mio papà Lenny, figlio di un emigrato siciliano di Bagheria, mi veneravano, per via del mio stile aggressivo che avevo ereditato da mio padre, come del resto il soprannome Boom Boom. Anche mio papà Lenny era un pugile, lo faceva per sfamare la nostra famiglia ai tempi della crisi del '29. Lo scoprii nella lavanderia del seminterrato, quando vidi vecchi ritagli di lui sul ring. Scelsi di fare il pugile perché volevo vincere quel titolo mondiale che mio padre, ferito in maniera grave durante la seconda guerra mondiale, non poté vincere, benché fosse il numero uno. Ci riuscii. Questa storia, la nostra storia, piaceva alla gente».

Quanto l'ha cambiata l'episodio di Las Vegas?

«Quella notte, tutto l'amore che avevo per il pugilato svanì per sempre. Fino ad allora avevo combattuto per motivi validi, all'improvviso sentivo come se non ci fosse nulla di giusto in quello che facevo. Da quel momento la boxe diventò solo una questione di business. Quando tornai sul ring la fiamma si era già spenta».

Che ricordi ha del dopo match?

«Ero sdraiato sul letto in hotel con la borsa del ghiaccio su un occhio, mi si avvicinò il mio allenatore con un'espressione seria e mi disse: Ray, il tuo avversario è in pericolo di vita, devi prepararti al peggio. Ma io non mi ero neanche accorto che Kim lo avessero portato in ospedale».

Il suo primo pensiero?

«Guardai le mie mani e mi chiesi: come è potuto succedere? Non ci potevo credere. Pensai che avrei potuto essere io al suo posto. Nel giro di un paio d'ore, passai dal momento più esaltante della mia vita alla disperazione più profonda».

Come superò quella tragedia?

«Caddi in depressione, sì ma ne uscii grazie alla mia fede. Parlare con il mio prete, con uno psicologo e con la mia famiglia mi aiutò, ma riprendermi del tutto dipendeva solo da me. Ci sono riuscito».

Di recente, sono state altre tre le vite spezzate sul ring.

«Nel pugilato, come in altri sport di contatto, possono esserci incidenti, alcuni anche gravi. Ma non è uno sport fatto per uccidere. Non a caso è la nobile arte».

Dopo il suo match con Kim, cambiarono le regole: su tutte, quella di ridurre i round da 15 a 12.

«Una farsa. La scelta di diminuire il numero di riprese non ha impedito ad altri pugili di morire ancora oggi. Anzi, sono state più le morti sul ring nei 38 anni successivi al mio match con Kim che nei sessant' anni precedenti.

Ne ho parlato con neurologi e neurochirurghi: non ci sono prove sostanziali sul fatto che la maggior parte degli incidenti avvenga dal 12° al 15° round. Così facendo la boxe ha perso il suo storico fascino. Non ci saranno più fenomeni come Rocky Marciano, Carmen Basilio e Roberto Duran, il migliore di tutti e mio amico».

Nel 2011 aprì le porte di casa sua a Chi Wan, il figlio di Kim e sua madre.

«È stato un momento molto toccante. Per rompere il ghiaccio, gli ho mostrato una foto di mio padre Lenny. Poi ci siamo abbracciati, abbiamo pianto e ci siamo fatti forza l'un l'altro. Senza inibizioni».

Ora lei di cosa si occupa?

«Commercio vino e bourbon e gestisco alcune società di produzione cinematografica. Stallone ha anche prodotto un film sulla mia vita nel 1985, Il cuore di un campione. Ma non abbiamo mai recitato in un film insieme, non ancora».

GIULIA ZONCA per la Stampa il 3 luglio 2020. A incontro finito è iniziata la vera lotta e non è ancora archiviata, 110 anni dopo «Il combattimento del secolo», giriamo ancora intorno all'uguaglianza, ci facciamo ancora a pugni. Il secolo è cambiato però l'eredità di Jack Johnson, primo campione dei pesi massimi afroamericano, contro Jim Jeffries, noto come «La grande speranza bianca», non si è risolta. Quattro luglio 1910: quando Johnson manda a tappeto il rivale la gente si riversa in strada. La cintura dei pesi massimi, quasi un simbolo di onnipotenza, non può andare a un nero. Non senza rivolte, non senza spaccare un Paese in due, non nel 1910. La ferita non è più così grave ma è tutt' altro che ricomposta e guardare quell'incontro è come spiare il cuore del razzismo, le parole che lo sostengono, i pregiudizi che lo tengono vivo. Siamo negli Stati Uniti del presidente Taft a cui chiedono di arbitrare l'incontro più atteso. Lui saggiamente rifiuta la pagliacciata anche se volere l'uomo che governa la nazione a decidere del destino di bianchi e neri è una richiesta tanto assurda quanto maldestramente logica. I neri sono il 10,7 per cento della popolazione e ce ne sono ben pochi fra il pubblico. Tutti bramano il ritorno del grande Jim che cinque anni prima si è ritirato imbattuto, che non ha mai sbagliato, che deve riconsegnare l'orgoglio alla sua razza. Per questo lo convincono a tornare e lo scrittore Jack London lo supplica di «togliere il sorriso dalla faccia di Johnson». Se oggi «Via col vento» è sotto accusa, anche «Zanna bianca» e «Il richiamo della foresta» rischiano. Johnson è già campione in carica solo che è un titolo traballante: per evitare la consacrazione, la polizia è salita sul ring della sua precedente sfida prima che l'avversario cadesse giù e con lui le improbabili certezze di cui la maggioranza si nutriva in quegli anni. «Il combattimento del secolo» non è boxe, è propaganda: siamo prima di Louis contro Schmeling, prima di Frazier, di Foreman e di Ali, siamo in una terra contaminata dal settarismo e in un epoca in cui titolare «vince il negro» non è neppure scorretto. Johnson lo sa e vuole che i suoi pugni stiano lì a difendere la comunità che rappresenta. Pure Jeffries è consapevole del ruolo, non stringe la mano all'avversario e non è disprezzo, è panico. Johnson è più giovane, più preparato, schiva veloce e sceglie colpi intelligenti. Jeffries è pesante e lento, interpreta un pugilato di sola potenza, alla Carnera. Per reggere la pressione e la curiosità, invece di scegliere sparring partner che lo mettessero alla prova ha assoldato amici che sostenessero la parte. Non è preparato, il suo tempo migliore è passato ed è destinato alla catastrofe, una di quelle che restano. È il primo incontro filmato e ci sarà la coda per vederlo, le botte per ritirarlo, si muoverà l'ex presidente Theodore Roosevelt per chiedere di abbassare i toni e censurare il film. Ora si discute sulla sua statua che sarà rimossa dall'entrata del Museo di storia naturale di New York per non dare falsi messaggi. Non è la sua figura che crea disagio, piuttosto la composizione del monumento in cui lui giganteggia sopra un africano e un indigeno. Nel film del 1910 il gigante è solo Johnson, c'è un'immagine in cui «La grande speranza bianca» gli scivola letteralmente addosso, crolla tirando giù ogni stereotipo. È il quattro di luglio, il giorno in cui gli Usa rinascono di continuo. È anche presto per capire che cosa è successo, nessuno dei protagonisti trova quello che cerca, troppo coinvolti e tormentati. Johnson sarà accusato di aver portato al suicidio sua moglie, bianca come le due che verranno dopo. Resterà campione altri 5 anni poi finirà senza un soldo, costretto a scappare per non essere arrestato. Morirà in un incidente d'auto a 68 anni, mai più gigante dopo quell'attimo di eternità. Jeffries tornerà alla sua fattoria senza più un nome, deriso e insultato, andrà in bancarotta nonostante la borsa faraonica per l'epoca: 101.000 mila dollari più bonus e diritti. Si pentirà per sempre di aver ceduto alla tentazione del rientro e morirà solo e povero a 77 anni. La boxe non avrà un altro campione di colore fino a Joe Louis, nel 1937. L'America è sempre in strada anche se adesso i neri e i bianchi stanno dalla stessa parte e rifiutano di farsi definire dalla pelle, alzano i pugni invece di tirarli. In rivolta contro chi è fermo al combattimento del secolo che non finisce mai.

Claudio Arrigoni per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2020. Colpa della televisione, come spesso accade. Perché se si nasce a Falzes, che sta nelle meraviglie della Val Pusteria, in Alto Adige, è facile che lo sport diventi lo sci o il pattinaggio. Invece si innamora di altro: «Avevo 13 anni e stavo guardando Italia 1. C' era il wrestling». Una folgorazione: «In quel momento ho realizzato che era quello che volevo fare». Non facile all' inizio: «Le persone intorno a me mi guardavano con sospetto, ma ho sempre pensato: se c' è un desiderio, c' è un modo». Così Fabian Aichner da Falzes, provincia di Bolzano, è diventato uno dei più forti atleti del mondo di quel misto di sport e spettacolo che è il wrestling, vero e proprio show sportivo tutto marcato Usa, dove non ci si ferma alla tecnica della lotta, perché si è anche un po' attori e danzatori. La voce inconfondibile di Dan Peterson lo ha reso famoso in Italia. Sono decenni che negli States è uno degli spettacoli sportivi più importanti e seguiti. Aichner, noto come Adrian Severe, il suo nome da lottatore, è diventato campione del mondo nello sport dei giganti ballerini: a 29 anni ha vinto il titolo di coppia di Nxt, dedicato ai giovani, della Wwe, la World Wrestling Entertainment, la federazione più importante del mondo del wrestling. Era dal 1977 che un italiano non ci riusciva, quando Bruno Sammartino, una leggenda, emigrato a 15 anni da Chieti, salì sul tetto del mondo. «Re dell' universo»: così ha mostrato la sua gioia su Facebook. Con il tedesco Marcel Barthel, della Imperium, ha battuto gli ex campioni, i BroserWeights Matt Riddle e Timothy Thatcher. Lo ha fatto in un momento terribile per la pandemia: «Ero preoccupato per il virus quando l' Italia è diventata zona rossa. Sono negli States e non potevo tornare, ma per fortuna nella mia famiglia stanno tutti bene». Lo show è stato televisivo. «Ai miei inizi lottavo in Germania davanti a qualche decina di persone. Mi ha aiutato». Per combattere e allenarsi si dovette spostare in Germania: «Per mesi ho guidato quasi tutti i weekend per quattro ore, provando a diventare il più bravo possibile il più velocemente possibile». Ci è riuscito. Diventerà il miglior italiano di sempre. Anche perché ha un motto: «Lavorare, lavorare, lavorare». In Germania lo allenava un fenomeno, Alex Wright: «Maestro di sport e di vita. Era molto severo, ma sapevo che essendo così duro mi stava solo facendo un favore. C' è un rito, una tradizione nella scuola: chi vuole diventare un pro, deve fare 1.000 sollevamenti, 1.000 sit up e 1.000 addominali in meno di un' ora e mezzo». Fabian ha il record: 37 minuti. Ha un idolo comune a molti wrestler, uno che è stato al top nella lotta, prima di entrare a Hollywood dalla porta principale ed essere fra gli attori più famosi del mondo, diventando poi Governatore della California: Arnold Schwarzenegger. Nel suo appartamento c' è il suo poster: «È il mio eroe. Lui dice: puoi avere scuse o risultati, non entrambi. Abbiamo un percorso simile io e Arnold perché ha iniziato la sua carriera di bodybuilding in Germania, dove io ho iniziato wrestling. Poi è andato in Gran Bretagna, come ho fatto io e poi negli States». Schwarzy è una delle ragioni che lo hanno spinto a sognare il wrestling: «Quando ho iniziato guardavo a lui per costruire il mio corpo e diventare più forte. Lo vedevo come un modello. Se non fosse stato per Arnold non so se avrei mai seguito quella strada nella vita. Gli sarò sempre grato, forse un giorno avrò l' onore di incontrarlo». Ama la sua terra: «Non c' è nessuno più famoso di me lì». Sembra facile, visto che Falzes ha meno di tremila abitanti. Lo chiamano Pride of Italy, Orgoglio italiano: «Sono davvero orgoglioso di essere italiano, di quei luoghi, del Sud Tirolo. Ho raccontato la mia regione anche per spiegare perché parlo tedesco». È poliglotta, parla perfettamente tre lingue, con l' inglese oltre a italiano e tedesco. Ma Fabian ha in mente solo una cosa: «Il wrestling è come il mio sole, tutto ruota intorno a questo».

Mike Tyson non è più d'acciaio, piange al microfono e dice: "Non sono più nulla". Repubblica tv il 5 marzo 2020. Iron Mike si è commosso ricordando un passato in cui annientava i rivali sul ring, mentre registrava il suo podcast “Hotboxin’ with Mike Tyson”. Tyson ha spiegato che ha studiato tutta la vita l'arte del combattere e l'arte della guerra: "Per questo avevano paura di me sul ring - ha detto l'ex pugile - e per questo ho paura, ora. Quei giorni sono passati, adesso c'è il vuoto. E io non sono più nulla". Nel suo podcast Tyson conversa in ogni puntata con un interlocutore diverso: si va dagli ex pugili alle celebrità del mondo della musica e della tv. In questo caso l'ospite/intervistatore è Sugar Ray Leonard, ex campione di boxe negli anni Ottanta. L'ultima volta che Tyson è salito sul ring è stata nel 2005.

Da corrieredellosport.it il 31 marzo 2020. Quanto vale un braccio? Duecentocinquantamila euro, stando al "risarcimento" in questione. Mike Tyson, durante la chiacchierata con il rapper americano Fat Joe, ha raccontato una tragedia che ha visto coinvolta la sua vicina di casa. Il motivo? La tigre del Bengala che teneva in casa come animale domestico l'ha attaccata strappandole un braccio. L'ex pugile ha "chiarito" la vicenda: "Non è scappata di casa, non è andata così. Qualcuno ha scavalcato il recinto dove era la tigre e ha iniziato a giocarci. La tigre non conosceva la ragazza, è stato un brutto incidente. Ma è lei che è saltata dentro la proprietà in cui si trovava la tigre... quando ho visto quello era successo le ho comunque dato 250 mila dollari, qualunque cosa fosse... non puoi credere a quello che possono fare con la carne umana, non ne avevo idea". Poi l'aggiunta: "Ero un pazzo allora, non c'è modo di domare certi animali al 100%, non succederà mai. Ti uccidono per caso, non vogliono nemmeno farlo, succede per caso. Sono troppo forti, specialmente quando giochi duro con loro. L'idea di averne una? Ero in prigione a parlare con un amico da cui ho comprato un'auto. Il padre aveva tigri e leoni, un paio di mesi dopo sono tornato a casa e mi regalò un cucciolo..."

LUIGI PANELLA per repubblica.it il 23 febbraio 2020. L'uomo di Manchester porta la pioggia a Las Vegas e soprattutto si riporta in Inghilterra il titolo mondiale dei pesi massimi nella versione Wbc. Tyson Fury è il nuovo re della categoria più affascinante: sul ring dell'MGM Grand, l'uomo dal pugno d'acciaio, Deontay Wilder, si arrende alla settima ripresa. O meglio, per lui lo fanno i suoi secondi che, consci di un match ormai senza via di uscita, gettano la spugna. Per un match nelle previsioni equilibratissimo, specialmente dopo il pari mozzafiato nella prima sfida tra i due, un finale decisamente a sorpresa. Ma che sarebbe stata una giornata diversa dalle altre lo si era capito sin dalle prime ore del mattino, quando la città sorta sul deserto era stata innaffiata da una pioggia a tratti copiosa, arricchita addirittura da un arcobaleno. Atmosfera delle grandissime occasioni, con sfarzo agli eccessi è look esagerati. Immancabile la presenza di star del mondo dello sport e dello spettacolo. Citiamo Michael J. Fox (sempre presente dai tempi di Tyson) e Magic Johnson. Ma  clou del prematch è  stata la presenza contemporanea sul ring di tre leggende quali lo stesso Tyson, Evander Holyfield, e Lennox Lewis, protagonisti nel passato di memorabili sfide incrociate. Il match, come detto, è stato a senso unico. Wilder ha dato segnali di sé solo al primo round, quando ha piazzato un destro dei suoi che però non ha scalfito Fury.  Il britannico ha vinto di forza e di personalità, prendendo il centro del ring è lavorando alla perfezione con il jab sinistro. Due le svolte. Al terzo round un destro alla tempia ha mandato al tappeto Wilder. La replica nella quinta ripresa: Wilder di nuovo giù  dopo un tremendo sinistro al fianco. Di fatto la fine per Wilder, alle prese anche con una sospetta foratura del timpano. Il re è dunque Fury. In fondo ce lo aveva annunciato con la sua indimenticabile entrata sul ring, sostenuto in alto su un trono con una  corona e tanto di abiti reali, mentre echeggiavano le note di una vecchia canzone di Patsi Cline, crazy, pazzo. Spettacolare come il suo dopo match, quando ha preso il microfono per intonare ‘American pie' tra il tripudio dei tantissini tifosi inglesi al seguito. A proposito di Inghilterra,  va ricordato che il detentore delle cinture Wba, Wbo e Ibf è un altro suddito della regina, Anthony Joshua. Dovessero fare il derby di riunificazione, non basterebbero due Wembley.

Pugilato, Wilder e la scusa più bella di tutti i tempi: «Ho perso con Fury per la mia maschera troppo pesante». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 da Corriere.it. Di fantasia ne aveva mostrata parecchia già prima dell’incontro: all’ingresso nella MGM Grand Garden Arena di Las Vegas, per la rivincita del Mondiale Wbc dei pesi massimi di pugilato (poi persa contro Tyson Fury) Deontay Wilder si era presentato con un look piuttosto vistoso. La faccia era completamente coperta da un maschera metallica, piena di strass blu e neri, con led rossi che si accendevano attorno agli occhi. Sopra la maschera, una corona. Sotto, una tuta anch’essa di strass, con una placca metallica sul petto, un’armatura sulle spalle e un mantello. L’opera dei designer di Los Angeles Cosmo & Donato era un omaggio a tutti coloro che hanno contribuito ai progressi degli afroamericani negli Stati Uniti, essendo febbraio il Black History Month (il Mese della storia dei neri). A Wilder è costata 40.000 dollari (36.900 euro). Ma anche molto di più, in termini strettamente non economici. Perché, il giorno dopo la prima sconfitta della sua carriera, il pugile americano ha dato la colpa dello stop definitivo imposto dall’arbitro al settimo round (dopo due atterramenti al terzo e al quinto) proprio a quel travestimento: «Era troppo pesante». In effetti, «col casco e tutte le batterie pesava circa 18 chili» ha spiegato Wilder parlando con Yahoo Sports: «Ho iniziato il match con le gambe molli. E al terzo round non mi reggevano più». E a questo punto le ipotesi sono due: 1) quello che dice Wilder è vero. E allora siamo di fronte a uno dei più clamorosi autogol della storia non del pugilato, ma dello sport. Anche se va riconosciuto che nel raccontarlo il pugile di Tuscaloosa, Alabama, ha dimostrato più coraggio che a salire sul ring. Ipotesi 2): quella di Wilder è solo una scusa. E allora siamo di fronte a una delle scuse più belle della storia non del pugilato, ma di tutto lo sport: probabilmente è la spiegazione più fantasiosa che si sia mai sentita per una sconfitta. Ma, in ogni caso, migliore di quella che Wilder ha aggiunto poco dopo, tirando in ballo presunti pugni scorretti sulla nuca che l’arbitro aveva promesso di sanzionare con un’immediata squalifica. Deontay accusa Fury di avervi fatto ricorso nell’impunità più totale. Se mai ci sarà la rivincita, si ripartirà da qui. Ma soprattutto da un costume nuovo (e ben più leggero) per Wilder. Magari una cosa non tanto sobria, ma molto più astuta: come il trono da «re degli zingari», seduto sul quale Tyson Fury (figlio di nomadi irlandesi) si è fatto portare sul ring. Senza faticare nemmeno un po’.

Pugilato: Fury batte Wilder, droga e depressione. Chi è il «re gli zingari» nuovo campione dei pesi massimi. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. «E adesso?» chiesero a Osvaldo Bagnoli, che aveva appena iniziato a festeggiare lo scudetto vinto dal suo Verona. «Adesso ci vogliono freni belli forti, perché inizia la discesa» rispose lui. Quegli stessi freni che una trentina d’anni dopo quel 1985, Tyson Fury si rifiutava deliberatamente di schiacciare mentre guidava la sua Ferrari a 300 all’ora nelle buie strade statali della Scozia: le manie suicidarie, insieme alla convinzione paranoica che i suoi familiari lo volessero uccidere e il disturbo ossessivo-compulsivo che lo portava spesso in ospedale con il cuore che batteva 220 volte al minuto, erano stati gli effetti non tanto collaterali della sua vittoria sull’ucraino Wladimir Klitschko nella sfida per il titolo mondiale dei pesi massimi di pugilato. Effetti che Fury cercò di contenere bevendo e sniffando cocaina, fino al test antidoping fallito e alla squalifica per due anni e mezzo. Perciò, ora che Tyson si è conquistato (nella notte a Las Vegas) il titolo mondiale Wbc dei pesi massimi, battendo Deontay Wilder alla settima ripresa per k.o., quanto bisognerà stare preoccupati per lui? Anche perché, al suo fianco non c’è più Ben Davison, l’allenatore (ma anche amico e terapista) che prese Fury dal pavimento della sua stanza, su cui passava intere notti a piangere, gli fece perdere i 45 kg accumulati durante la squalifica e lo portò fino alla prima sfida per il Mondiale Wbc contro Wilder, nel dicembre 2018 a Miami Beach, finita in parità. Ma poco prima dell’incontro di Las Vegas, Fury lo ha licenziato, passando a Javan «Sugarhill» Steward, nipote di «Manny», storico trainer di Lennox Lewis e dello stesso Klitschko. Per prima cosa, Sugarhill lo ha messo nelle mani di George Lockhart, ex marine che ha combattuto in Iraq ma anche esperto nutrizionista che ha studiato per Tyson una dieta di 4.500 calorie al giorno, ma piena di alimenti che non viene immediato associare a un pugile che secondo la bilancia ufficiale dell’incontro pesava 123,8 kg (contro i 104,8 di Wilder): yogurt greco con frutta e maiale cotto con le mele, quinoa al salmone teriyaki (per l’omega 3) e polpette con hummus di cavolo. Più il massimo possibile di curry e soprattutto curcuma, che a Tyson piace parecchio e ha importanti proprietà anti-infiammatorie. Il secondo grande cambiamento portato da Sugarhill Steward è stato nella strategia di gara. Nell’ultima conferenza stampa prima del match Wilder aveva detto: «Andrò subito all’attacco rischiando il tutto per tutto, non ho paura di prenderle e di farmi male. Mi è già successo un sacco di volte. Ne uscirò danzando». E tutti avevano pensato che, visti i due atterramenti subiti nella prima sfida, si trattasse di pretattica. Ma quando mai. Fury ha buttato giù Wilder una prima volta al terzo round. E lo ha fatto con un destro, lui che ha nel mancino il suo colpo migliore, con il quale ha rispedito al tappeto lo statunitense nella quinta ripresa. Poi, alla settima, lo stop dell’arbitro: il sangue che Deontay perdeva dall’orecchio non prometteva niente di buono. È stato così che il 34enne di Tuscaloosa, Alabama (luogo del Bloody Tuesday, le violenze della polizia contro i neri che nel 1964 chiedevano la fine della segregazione per le fontanelle e i bagni pubblici) è stato il primo dei due massimi sul ring a Las Vegas a conoscere il sapore della sconfitta. A questa sfida, infatti, erano arrivati entrambi imbattuti. Fury con 29 vittorie e il pareggio di Miami Beach. Wilder, addirittura, con 42 vittorie, quel pari e una percentuale di successi per k.o. del 95,4%. Tutti numeri che al primo gong hanno smesso di avere importanza, a differenza di quelli del match, in cui Fury ha messo a segno 82 dei 267 colpi (30,7%). Oltre il doppio di quelli di Wilder (34 su 141, 24,1%) al quale non è riuscito l’aggancio al suo idolo Muhammad Ali, che era riuscito a difendere il suo titolo per 11 volte consecutive. Colpa, o merito, di un ragazzo alto 206 centimetri che sui calzoncini ha voluto la scritta «Gipsy King» (re degli zingari) perché i suoi genitori sono due «pavee», nomadi irlandesi che lo misero al mondo a Manchester il 12 agosto 1988. Il padre, John, ex pugile professionista, ha chiamato il figlio Tyson in omaggio proprio a un’altra leggenda della boxe, quel Mike Tyson che adesso ha una cosa in più in comune col nuovo re dei massimi Wbc: la medesima difficoltà nel gestire il successo. «Combatto per quelli che si sanno rialzare», ha detto Fury dopo il trionfo. Per questo, si è detto pronto a offrire a Wilder la rivincita. Ma all’orizzonte c’è ben di più: la sfida contro un altro britannico, Anthony Joshua, che detiene le altre tre corone dei pesi massimi (Wba, Wbo e Ibf ), per la riunificazione definitiva. Se mai ci sarà, e in base a come finirà, sapremo chi avrà avuto ragione tra quanti sostengono che il difficile arriva (anzi, si ripresenta) adesso e Paris Fury, moglie di Tyson e madre dei loro 5 figli Prince John James, Venezuela, Prince Tyson Fury II, Valencia Amber e Adonis Amaziah. Prima del match si era detta preoccupatissima per eventuali conseguenze in caso di sconfitta del marito. Chissà. In ogni caso, sia benedetta la boxe: che ci regala storie come questa. E sia maledetta, perché da troppi anni ce ne regala così poche.

Le mille vite di Tyson Fury se la boxe verrà salvata da un gigante zingaro. Il Dubbio il 25 febbraio 2020. Il britannico di nuovo campione del mondo dei pesi massimi. Arrogante, geniale empatico, si era perduto nell’alcol e nella cocaina, ma come un eroe da romanzo, ha sfidato il destino e si è ripreso il suo titolo.  È vero, non ci sono più gli Alì, i Foreman e i Frazier, non ci sono più i Tyson, i Lewis e gli Holyfield e persino i rocciosi ( e noiosi) fratelli Klichko sono ormai glorie del passato. Ma c’è lui, Tyson Fury, il “re degli zingari”, il gigante britannico che salverà la boxe, la nobile arte ormai assediata dai nuovi sport di combattimento, più o meno estremi, più o meno farlocchi, più o meno alla moda. Domenica notte a Las Vegas si è ripreso il titolo mondiale dei pesi massimi abbattendo il massiciio Deontay Wilder ( fin qui imbattuto), lo stesso titolo che cinque anni fa aveva buttato via in un fiume di alcol e cocaina, ritirandosi dalle scene; sopraffatto dalla depressione, all’epoca ha pensato seriamente di farla finita. Non con il ring, ma con la vita. «Dopo la vittoria con Klichko e la conquista del titolo stavo malissimo, sono arrivato a pesare 170 chili e a un certo punto desideravo che qualcuno mi ammazzasse e vi garantisco non è una bella cosa da pensare quando hai una famiglia». Sembrava una parabola già scritta: il successo, la fama e subito dopo la discesa, inevitabile e irreversibile. Ma il re degli zingari non il classico sportivo maledetto senza spessore, la tempra, il carattere, il “karma” sono quelli di un eroe novecentesco, capace di lottare corpo a corpo contro il proprio destino, di scoperchiare le tombe, di mettere alle corde le intemperie, di riemergere dal fango dopo la caduta. E di farlo con uno stile unico, dentro e fuori dal ring. Come Alì anche Fury sa «pungere come un’ape e volare come una farfalla», il fisico possente ( è alto 2 metri e 6 cm) e strano ( sembra una piramide di carne con una testa pelata e appuntita da alieno) non gli impedisce di combattere leggero e veloce, un grande gioco di gambe, un jab asfissiante, tanta disposizione alla sofferenza ma anche un senso innato per lo spettacolo e l’istrionismo. «Posso boxare in tanti modi, di intensità, di rapidità, so attaccare, so difendere, so fintare, so stare in guardia ortodossa o in guardia bassa, sono universale». Fury sa essere molto arrogante, ama provocare i suoi rivali che spesso sfida con sul quadrato gesti plateali, con linguacce insolenti, ma è anche un campione empatico e generoso, che alla fine si dimostra cattivo soltanto con se stesso. Quando nel 2015 butta al tappeto il vecchio Klitchko, commenta così la sua vittoria «Sono sceso sul ring in una forma pietosa, lento e grasso, faccio schifo, Klichko ha perso solo perché è un pensionato». Grande tifoso dello United suoi idoli sportivi sono, guarda un po’, altri due “pazzi furiosi” come lui: Roy Keane e soprattutto il caleidoscopico Eric Cantona, calciatore che sarebbe piaciuto anche a Ionesco. Nato da genitori di origini Pavee ( popolo di nomadi irlandesi) la boxe Fury ce l’ha nel sangue. A 11 anni quando con i tre fratelli lavorava come asfaltatore di strade nella periferia di Manchester, già incrociava i guantoni nella palestra di quartiere. Suo padre John è stato un combattente di strada e poi un pugile professionista. Attualmente è in prigione, condannato a 11 anni per aver cavato un occhio a un uomo in una rissa o una «faida», come dicono i media britannici. Quella durezza proletaria Fury se la porta dietro da sempre, ma nel suo modo di vivere e di boxare c’è qualcosa di speciale, di poetico, un estro armonico che rende elegante anche la sua goffaggine, che sottrae peso e gravità alla silohuette del ciclope. La boxe, una disciplina che da quasi 20 anni vive un’emorragia di fondi e di tifosi, ha un dannato bisogno di personaggi come Tyson Fury, gli unici che la possono salvare dal declino che le sta riservando la modernità gli unici in grado di scrivere nuove gloriose pagine del più nobile di tutti gli sport.

Dagospia il 4 febbraio 2020. Da I lunatici Radio2. Nino Benvenuti è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Benvenuti ha raccontato alcune cose di se: "Prima di salire sul ring io parlavo con mia madre, perché sapevo che soffriva per il mio incontro imminente. Volevo rasserenarla, era una madre con la M maiuscola. Era straordinaria. Anche quando se ne è andata, è rimasta parte importante della mia potenzialità pugilistica. Mi faceva sentire tranquillo, mi dava energie che andavano oltre alla palestra, agli allenamenti, alle difficoltà di un incontro. Sono nato fortunato. Mi sono reso conto che mia madre mi seguiva e io la interpellavo. E lei mi era vicina, sempre. Anche da lassù. Sono sicuro che anche adesso mi sta ascoltando e che io ho goduto di benefici che altri non hanno avuto. Sono un credente, un cristiano, cattolico. Ho goduto di quelle cose che altri non possono avere anche perché non tutti hanno ricevuto la mia educazione. Mi sono scelto i genitori giusti". Ancora il due volte campione del mondo: "Carlos Monzon? Andare a trovarlo in carcere fu importante per me. Era un grande campione e io ho rispetto dei campioni contro cui ho combattuto e che mi hanno impegnato. Il pugilato è uno sport di confronto personale. Ho avuto un rapporto che non si può dire essere stato un rapporto amichevole, ma io lo vedo dal punto di vista, il rapporto personale mio con Monzon ha soddisfatto me. Mi sento soddisfatto di essere stato battuto da uno che penso sia stato un grande, grande, grande campione. Lui era un grande campione, ma sul piano personale, del rapporto che può esserci tra due persone che anno un passato entrambi di grande rispetto, io lo riconosco, sono soddisfatto di quello che ho fatto". Di nuovo su Monzon: "Un grandissimo campione, un personaggio molto strano, non c'erano possibilità di colloquio, di intesa. Aveva molta stima di me, mi rispettava. Sull'aspetto personale, con me, non si è comportato benissimo. E' un carattere così". 

·        Quelli che l’Atletica.

Davide Romani per la Gazzetta dello Sport il 22 dicembre 2020. In pista come nella vita. Salvatore Antibo da sempre ha imparato a convivere con avversari duri da sconfiggere. Se gli africani erano i suoi rivali in gara, l'epilessia da 30 anni è una maledetta compagna di vita con la quale lotta dall' inizio degli Anni 90. Una sfida che - dai Mondiali di Tokyo del 1991 - affronta con dignità, a testa alta come nelle sue gare di mezzofondo più belle. A partire dalla doppietta europea di Spalato 1990 dove "l' africano bianco" ha trionfato nei 5000 e nei 10000. «Non mi arrenderò mai» ripete come un mantra il 58enne argento nei 10000 ai Giochi di Seul «Ho dato del filo da torcere agli africani, i più grandi. Keniani, etiopi, sono i Messi e i Cristiano Ronaldo del mezzofondo. Allo stesso modo non alzerò mai bandiera bianca davanti a questa malattia. Sono un uomo di chiesa e quando sarà il momento verrò chiamato. Ma fino ad allora combatterò». Una gara che Totò («chiamami semplicemente così» rompe il ghiaccio al telefono) affronta ogni giorno con un' amara certezza: «Non c' è nulla da fare, la malattia è incurabile. Il professor Oriano Mecarelli (neurologo, ndr), che mi segue e che non finirò mai di ringraziare, me lo ha confermato. Ho una media di 60 crisi al mese, 2 al giorno anche se in alcuni giorni sono arrivato a quattro. C' è però una possibilità di poter ridurre questo numero».

A cosa si riferisce?

«Il professore mi ha prospettato l' ipotesi di un' operazione che potrebbe ridurre il numero di crisi epilettiche. Da giugno sono in attesa di un intervento. Dovrebbero inserirmi all' altezza della spalla un elettrostimolatore vagale (nella scapola sottocutaneo dove passa il nervo vago, ndr) ma a oggi non ho più avuto notizie».

Sono passati 7 mesi.

«L' emergenza causata dal Covid ha praticamente bloccato tutto il resto del sistema sanitario. Prima mi avevano parlato di Milano, poi Monza. Alla fine a causa delle varie zone rosse mi avevano prospettato l' ipotesi Catanzaro. Ma da giugno ancora nulla. E poi se io dovessi entrare oggi in un ospedale sarei a forte rischio perché sono epilettico e asmatico. Con questo virus che prende i polmoni potrei forse durare solo due giorni».

Ha perso la speranza?

«No, io combatto, non mollo. Come in carriera quando sfidavo i campioni africani. Ma una cosa voglio dire: l' Italia si deve vergognare. A questo Paese ho dato tanto sempre il cuore, ho vinto tanto ma in cambio non ho ricevuto nulla. Ho partecipato a tre edizioni dei Giochi (1984, 1988, 1992, ndr), ho vinto un argento olimpico (1988, ndr), ho conquistato due ori europei (a Spalato nei 5000 e nei 10000, ndr) oltre a un bronzo, ho partecipato ai Mondiali, vinto prove di Coppa del mondo. È vero, mi manca l' oro all' Olimpiade ma nel 1992 ho corso imbottito di farmaci epilettici e sono finito quarto. Chissà senza».

Nessuno l' ha chiamata? Nessuno le ha offerto un aiuto?

«Aiuti non ne voglio, desidero solo essere trattato come tutti quei cittadini che hanno bisogno di cure. Ma certo, per l' atletica e per l' Italia sono scomparso (l' anno scorso però è stato ricevuto a Roma dal presidente della Fidal Giomi, ndr)».

Intanto in famiglia c'è chi sta provando a seguire le sue orme. Suo figlio Gabriele.

«Ha 16 anni (il primo figlio Cristian ne ha 19, ndr) e si allena al Cus Palermo con Gaspare Polizzi, il mio vecchio tecnico. La mia speranza però è che smetta, che non corra più. È molto bravo a scuola, al Liceo. Meglio se si concentra sugli studi».

Come convive con le crisi?

«Ho bisogno di una persona sempre accanto a me, perché se cado rischio di farmi male. Quando arrivano le crisi, per 3 minuti io sono morto. Quando mi riprendo è come se non ricordassi nulla di ciò che è successo nei minuti precedenti».

Nessun miglioramento?

«Il professor Mecarelli mi ha da poco inserito un nuovo farmaco, il settimo, nella terapia che assumo: il Gardenale. È molto potente, mi procura forti mal di testa ma da tre giorni non ho crisi epilettiche. Una cosa che non succedeva da 30 anni. Magari però la prossima potrebbe arrivare mentre parliamo. Convivere con questa malattia mi ha insegnato che in ogni momento può arrivare una crisi. Ma ci tengo a ribadire un' ultima cosa...».

Prego.

«Non è Salvatore Antibo a dover essere ascoltato, aiutato. Sono gli italiani che hanno bisogno di cure, che necessitano di interventi chirurgici. E se un Paese come l' Italia non è in grado di farlo, si deve vergognare».

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2020. Mister muscolo minimizza: «Io a 51 anni con il fisico da culturista? Ma no, non scherziamo: rispetto ad Atlanta '96 sono la metà. E va bene così: da ex atleta voglio stare bene con la mia età, la mia testa e il mio corpo». Eppure il video di Jury Chechi (il nome, ricordiamolo, proviene da un' antica fascinazione dello zio materno per Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio), indimenticato re degli anelli ai Giochi americani dopo essersi rotto il tendine d' Achille, ha fatto alzare più di un sopracciglio: una routine di esercizi, in posizione di plank, che solo braccio di ferro può sostenere senza schiantarsi al suolo. Un' antica deformazione professionale, postata da Chechi su Instagram, che ha riempito gli occhi del Web.

Jury, si allena così ogni mattina?

«Alterno gli esercizi per tenere tonici due blocchi: i tricipiti e il core, la muscolatura del tronco. Vivo a Prato, in zona rossa: il tempo per allenarmi ce l' ho. Il video voleva proprio essere un' idea per stimolare l' attività motoria».

Dopo la carriera, non è rimasto con le mani in mano.

«Ho tre attività, che purtroppo risentono molto della pandemia: un' agenzia di comunicazione, un resort dal 2013 a Ripatransone, nell' ascolano, e la Chechi Academy a Prato, dove mi occupo soprattutto di calisthenics».

Cioè?

«È l' arte di usare il proprio peso corporeo come resistenza per sviluppare il fisico».

Googolando rapidamente si legge che nell' antica Grecia gli spartani si prepararono per la battaglia delle Termopili con il calisthenics.

«La disciplina moderna è nata negli Usa all' inizio degli anni Duemila come declinazione della ginnastica usando elementi naturali. È uno street sport che piace molto ai giovani. Io formo gli istruttori: spero di organizzare, a breve, la prima gara online».

Esercizi a parte, continua a fare una vita da atleta?

«Atleta ma non asceta. L' alimentazione giusta è importante: mangiare con attenzione, sgarrando ogni tanto. Quando esagero mi sento sempre in colpa: retaggio degli anni della ginnastica. Adoro la pizza, quella con le farine giuste e la lievitazione corretta, e mi piace il vino che produco nella mia azienda agricola nelle Marche. Ma niente supera i tortelli alla ricotta fatti in casa da mamma Rosella».

La tradizione dei nomi russi è proseguita con i suoi figli, Dimitri e Anastasia.

«Sono un papà presente, ho il privilegio di poter fare meno cose per restare di più insieme a loro. Entrambi hanno iniziato con la ginnastica, dimostrando zero interesse. Meglio così. Anastasia va a cavallo e ha preso il mio carattere: è esigente, perfezionista. Dimitri è l' artista di casa: suona la batteria».

Dove tiene l' oro di Atlanta e il bronzo di Atene 2004, conquistato a 34 anni dopo un altro grave infortunio per tenere fede a una promessa fatta a suo padre?

«Chiusi in cassaforte».

E il resto (5 ori mondiali, 4 europei, eccetera...)?

«È stato tutto messo all' asta per salvare dal fallimento la Società ginnastica Etruria di Prato, dove cominciai. I trofei furono acquistati dalla Fondazione Reale Mutua. Ora che la palestra è salva, spero che vengano presto esposti».

Con la tv ha chiuso?

«I reality che mi hanno proposto, con dinamiche che solleticano il gossip, non sono nelle mie corde. Rilavorerei subito con Antonio Rossi, tre ori olimpici nella canoa, mio fratello, e non rifiuterei un intrattenimento intelligente».

La politica sportiva le interessa ancora?

«La candidatura alla Federginnastica, nel 2016, è stata un' esperienza straordinaria: una sconfitta che mi ha fatto crescere. Credo che avrei potuto dare qualcosa di buono al mio mondo, collaborando con chi mi ha tenuto fuori. Ma forse qualcuno si sarebbe sentito messo in ombra».

Il momento più bello della sua carriera?

«L' atterraggio dell' esercizio ad Atlanta: un senso di liberazione intensissimo».

Ma la croce agli anelli sarebbe ancora capace di farla?

«Me la sono regalata per i miei 50 anni. Uno sfizio. Sono riuscito a tenerla giusto un secondo, ma l' ho tenuta».

L’insegnamento di Mennea: “La fatica non è mai sprecata, soffri ma sogni”. Stefano Chimenti su larno.ilgiornale.it il 20 ottobre 2020. “Se l’ho fatto io, lo può fare chiunque”, così rispondeva Pietro Mennea a chi gli chiedeva di commentare una delle sue tante imprese. “Un ragazzo del sud senza pista” come spesso si autodefiniva che, senza tanti clamori e pubblicità, faceva visita nelle scuole per raccontare ai giovani di porsi sempre degli obiettivi sfidanti e che “dalle sconfitte nascono le grandi vittorie” (riferendosi al deludente 4° posto delle olimpiadi di Montreal nel 1976 seguito dai 4 anni successivi dove stabilì il record del mondo, ancora attuale record europeo e giungendo fino alla medaglia d’oro olimpica di Mosca nel 1980). È stato l’unico velocista al mondo a fare 5 olimpiadi: longevità atletica, purtroppo Pietro se n’è andato via troppo presto da questa vita, lasciandoci comunque un patrimonio culturale, di umanità e di integrità morale straordinarie. Poco più di un mese fa gli è stato dedicato un murales a Formia, città che lo ospitava durante i suoi allenamenti spesso solitari; restava anche d’inverno ad allenarsi al centro federale, anche in occasione delle festività. Costanza, coerenza, legalità e integrità morale appunto: “La vita è una pista di 8 corsie: 7 sono per i furbi, ma l’ottava lasciatela libera a noi che vogliamo correre e vincere in maniera corretta” (citazione della moglie Manuela). Chissà cosa direbbe oggi Pietro del nostro tempo, dello sport che si ferma per chi sì, per chi no. Di certo restano le sue parole che molti allenatori anche di altri sport dovrebbero seguire in momenti come questi, da diffondere ai ragazzi, agli atleti di livello. Valgono anche e soprattutto per noi cosiddetti sportivi che troppo spesso ci sentiamo al centro del mondo, minati dalla mancanza delle libertà individuali in periodo pandemico, privati dell’evento. Proprio per noi, che ci definiamo amatori. “In questa cosiddetta società del tempo libero c’è chi va a caccia, chi a pesca, chi corre quel rito di moda che si chiama maratona dentro la città, un rito tra l’altro molto sponsorizzato, c’è chi va in palestra, chi a donne e chi nei casinò. Io invece ho scelto di correre, ma veloce, per un gusto appreso da ragazzo, quando sfidavo le motorette sui 50 metri, e che non mi è mai passato. Così abbandonata l’attività di atleta vincente, non ho saputo o voluto lasciare quello che per me è stato il divertimento di tutta una vita, l’allenamento. Ogni tanto c’è qualcuno nel parco che mi chiede (mentre corro e mi parla delle proprie imprese di corsa, ndr): e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già fatto. 5482 giorni, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti. Rifarei tutto, di più. La fatica non è mai sprecata, soffri ma sogni”. È questo il compito più difficile per lo sport oggi, vittima di un autentico paradosso: riconoscerne il valore relativo e i suoi valori discendenti, confusamente mescolati in noi adulti e di conseguenza a digiuno nei nostri giovani dove un po’ di storia dello sport come materia propedeutica agli esercizi pratici non farebbe mai loro male. Ecco, rileggere la storia dei campioni, dove sono nati, come sono cresciuti, le difficoltà che hanno attraversato, cosa hanno fatto nella loro vita, come hanno messo a frutto il loro talento sportivo, potrebbe essere una risposta, riportando il tutto nel giusto ordine e fine come ci ha insegnato Pietro Mennea.

B come Bordin e Baldini. Se la sofferenza è d'oro. Gelindo a Seoul '88, Stefano ad Atene 2004. Da sfavoriti a vincenti, elogio di fatica e orgoglio. Oscar Eleni, Giovedì 20/08/2020 su Il Giornale. Diceva un grande scrittore come Cesare Pavese che non è bello essere nostalgici, ma è invece bellissimo, da anziani, pensare a quando lo eravamo. Erano i giorni dove l'anno bisestile fioriva con i Giochi olimpici che adesso la pandemia ci ha rubato, insieme a tante altre cose. Per questo guardiamo con nostalgia ai giorni in cui lo sport italiano presentava campioni senza mandolino, ma con cuore e gambe da leoni. Gente che stupiva, perché nessuno immaginava che potessero nascere da noi, ad esempio, due campioni olimpici di maratona come Gelindo Bordin, Seoul 1988, e Stefano Baldini, Atene 2004. Re nel regno della fatica, della sofferenza. Una lunga corsa iniziata, come ci ricorda nei suoi meravigliosi fuori tema Augusta Frasca, voce della grande atletica, con il tipografo della Gazzetta Ugo Frigerio, milanese, figlio di ortolani che avevano la bottega in via Tivoli, oro sui 10 chilometri di marcia, il primo italiano di sempre sul podio, ai Giochi di Anversa 1920, titolo poi rivinto a Parigi 4 anni dopo. Con lui lasciavamo a bocca aperta chi ci considerava soltanto attori non protagonisti. Stupore come per la doppietta nel disco a Londra 1948 della coppia Consolini-Tosi. Meraviglia come nei giorni delle fatiche vincenti di artisti del tacco e punta sui 50 chilometri come Dordoni, Helsinki 1952, Pamich, Tokio 1964. Un mondo che spalancò gli occhi per Berruti oro dei 200 con record mondiale a Roma 1960, così come per Mennea a Mosca 1980, così come era stato per Nini Beccali, oro dei 1500 a Los Angeles 1932, o, magari, per Ondina Valla sugli 80 ostacoli a Berlino 1936, la stessa cosa per Gabriella Dorio prima a Los Angeles '84 sui 1500 nei giorni dell'oro sui 10000 di Alberto Cova e di Andrei nel getto del peso. Luciano Gigliotti, il professor fatica, amante del rugby, occhi elettrici, classe 1934, che ancora oggi si agita se qualcuno associa il concetto di fatica a quello del doping che considera falsa, folle, perché il problema non è il trasporto di ossigeno, ma il consumo di glicogeno, dei serbatoi del tuo organismo li ha portati lì. Lucio che ha sempre sognato di essere un maratoneta e ai pettegoli ricorda che Bordin non prendeva neppure la vitamina C, mentre Baldini prima di Atene ha superato i quattro controlli della federazione mondiale, ripete che rifiuterà sempre di associare il concetto di doping a quello di fatica. Gelindo Bordin nato a Longare il 2 aprile del 1959 arrivò a Seoul passando dalle corse su terra seguito prima da Dalla Pria e poi Ghedini, arrivò alla maratona nel 1984 vincendo a Milano, ma il salto vero lo fece 2 anni dopo prendendosi l'oro europeo agli europei del 1986, rimuginando sul terzo posto ai mondiali romani dell'anno seguente. Gelindo cabarettista mancato, uomo di ferro che nei lunghi ritiri, insieme a Nazareno Rocchetti, fisioterapista che sussurrava ai cavalli, diventato poi artista del fuoco con le sue sculture, i suoi quadri, riusciva a far dimenticare l'isolamento, gli allenamenti duri. Erano fratelli in arme anche nei giorni dell'Olimpiade coreana, per Nazareno da Filottrano che riusciva a far sorridere anche Mennea, Sara Simeoni, Gabriella Dorio, le fiorettiste Vezzali e Trillini, giorni elettrici mentre Seoul diventava inferno per il 100 maledetto di Ben Johnson e Carl Lewis. Lui c'era quando Gelindo restò in testa dopo la scrematura al 25° chilometro, era con le borracce al vento nell'inferno degli ultimi 5 chilometri quando il keniano Wakiihuri e il gibutiano Ahmed Salah portarono il loro attacco a meno 3 dalla fine, ma ai 1000 metri finali ecco Gelindo e la sua lancia di fuoco che fece schizzare dalla tribuna la nostra ambasciatrice Graziella Simbolotti, genio della diplomazia che era stata già a Città del Messico, Manila, Parigi e Pechino. Bandiera tricolore al vento poi portata in ambasciata per una festa fino alle luci dell'alba dove il geometra Bordin, che è rimasto nell'atletica lavorando per la Diadora, promise altre meraviglie e infatti rivinse l'europeo nel 1990 e trionfò in 2 ore 8'19 nella maratona di Boston che mai aveva visto un campione olimpico prendersi quella borsa sontuosa. Stefano Baldini, nato a Castelnuovo di Sotto, Reggio Emilia, il 25 maggio del 1971, nell'azienda agricola che Tonino e Maria, i suoi genitori, ottavo di undici figli (6 maschi 5 femmine) avevano inventato per produrre latte che ancora oggi serve il consorzio del parmigiano reggiano. Diploma all'istituto tecnico di Guastalla, poliziotto di leva nel 1991 corre per le Fiamme Oro, ma un anno dopo entra alla Corradini Calcestruzzi nel settore amministrativo e ci resta fino al 2001 perché in quel mondo aveva capito di poter fare la cosa che amava di più: correre, fare sport. In pista soffriva, ma poi allungando le distanze, 13 titoli italiani fra 10mila e mezza maratona, andando su strada, professionista nell'anima, ma angelo dal cuore limpido in ogni momento della sua crescita, ecco il primo titolo mondiale di mezza maratona a Palma di Maiorca nel 1996, quello europeo di Budapest nel 1996. Ripassatina al motore in pista, con polemiche, come dice lui che voleva richiamare l'attenzione sul mondo della fatica, quarto nel 2002 a Monaco sui 10000, la mossa giusta per risvegliare muscoli che reagivano male agli attacchi degli africani nelle maratone che aveva scoperto con i tre fratelli maggiori. Ad Atene l'apoteosi facendoci piangere e sospirare nella battaglia finale, con record sul percorso storico da Maratona allo stadio ateniese di 2 ore 10'55, lasciando a 34 lo statunitense Keflezighi e ad oltre un minuto il brasiliano Vanderlei da Lima che era ancora in testa al 36° chilometro, già in debito di energie, era stato bloccato da un fanatico irlandese, un prete. Sull'episodio Stefano è sempre stato leale: non sapeva, intuiva, ma le gambe giravano bene e la sua caccia lo aveva portato oltre. Da quel giorno pensieri, parole, commenta spesso l'atletica in Tv per Sky, lavoro per l'atletica, i giovani, una costruzione paziente di cui oggi si vede qualche bel risultato, l'amarezza di averli lasciati al momento del raccolto. Un distacco da cavaliere. Un passo di lato come sanno fare i campioni veri.

Alberto Cova: «Dissi a mamma che volevo fare l’atleta e lei rispose: “Sì ma quando cominci a lavorare”?». Roberta Scorranese il 25/7/2020 su Il Corriere della Sera.

Una fotografia. Un uomo robusto, con le guance piene. Questo non sembra neanche lei.

«Pesavo 82 chili. Era il 1998, avevo smesso di correre da otto anni».

Come si può smettere di colpo di fare una cosa che hai fatto per tutta la vita?

«Per stanchezza. Perché volevo fermarmi. È questo il punto: qualche volta non concepiamo nemmeno la possibilità di fermarci e di fare cose diverse. Io l’ho fatto. Ad un certo punto non correvo più, mi godevo il cibo e il riposo. Oggi sono dimagrito e ho ripreso un po’ a correre, ma non ho rimorsi per quella fase da fermo».

Alberto Cova, 61 anni. L’unico atleta italiano a vincere i 10.000 metri a Europei, Mondiali e Olimpiadi. Consecutivamente. La sua casa di Mortara è un piccolo museo personale: le scarpe delle vittorie, le medaglie, la maglia azzurra, la foto con Pertini.

Adolescenza a Mariano Comense. Che famiglia era la sua?

«Papà operaio, mamma sarta. Prima che ci trasferissimo a Mariano, stavamo a Cremnago e papà ogni giorno si alzava alle cinque, faceva un chilometro in bici prendeva il treno per Milano e poi si faceva un altro chilometro a piedi per raggiungere la fabbrica. Comunista, conosceva bene il senso della lotta».

E la mamma?

«Quando mi iscrissi a Ragioneria cominciò a cucirmi i completi da bancario. Era naturale per lei che io andassi a lavorare in banca: sedici mensilità, ferie pagate, un impiego di tutto rispetto. E quelle giacche erano pronte per me da tempo».

Ma lei voleva correre.

«La mia era una terra di basket, tutti pensavano al canestro, come racconto nel libro scritto con Dario Ricci Con la testa e con il cuore. Forse è anche per distinguermi dagli altri che scelsi l’atletica. Intorno al nostro palazzo c’era un cantiere che sarebbe poi diventato un complesso residenziale. Lì, da solo, ho fatto l’attività motoria».

Come?

«Correvo, andavo in bici. Noi bambini ci muovevamo molto più liberamente e i piccoli atleti crescevano con questa naturalezza di movimento che oggi è rara. Oggi i bambini “li porti al campo”, “li porti a fare allenamento”. Noi si cadeva e ci si rialzava, insomma era tutto più selvaggio».

Prima l’Atletica Mariano Comense, poi il salto alla Pro Patria con Giorgio Rondelli. Eppure la corsa negli anni Settanta non era «cool».

«Macché, mica era un fenomeno di massa come oggi, che si moltiplicano le maratone amatoriali. Era una cosa di nicchia, la conoscevano in pochi. E di certo non era uno sport con cui diventavi ricco».

Così, un bel giorno, lei disse alla mamma che no, non sarebbe entrato a lavorare in banca.

«Dissi che volevo fare l’atleta e mia madre mi rispose: “Sì, ma dovrai pur lavorare, che lavoro è fare l’atleta?”». Risposi che prima di vedere qualche soldo avremmo dovuto aspettare quattro o cinque anni ma lei non voleva aspettare».

Be’, lei aveva già cucito le giacche da bancario...

«Pensi che quando vinsi la prima medaglia davvero importante, a Tokyo nel 1980, tornai a casa e lei mi accolse dicendomi: “Te se semper n’gir com ‘n strasc”, che vuol dire una cosa tipo: “Sei sempre in giro, sei un vagabondo”».

Voleva vedere i quattrini. E come se la cavò Alberto Cova?

«Beppe Mastropasqua, grande presidente della Pro Patria, aveva una piccola società e allora mi disse: “Facciamo così: vieni a fare il ragioniere part time qui da me, poi il resto della giornata ti alleni. Così mamma e papà vedono uno stipendio”. E così fu».

In effetti, lei è passato alla storia dello sport come «Il ragioniere», ma non era solo per quello.

«No, mi chiamavano così anche per la mia disciplina, per il mio senso della gara, penso anche per la misura che mettevo in ogni competizione. Anche quando mi sono trovato a correre in una Olimpiade o in un Mondiale sono rimasto, in fondo, il ragazzo che sapeva fare bene i conti».

Prima trasferta internazionale?

«Avevo diciannove anni, andammo a Donetsk, all’epoca Unione Sovietica. Rimasi scioccato: non si mangiava quasi nulla. Meno male che un atleta vicentino, Fattori, si era portato la scorta di vaschette di Nutella. Ricordo gli avversari: piccoli soldati, non potevamo assolutamente familiarizzare con loro».

Lei appartiene a quella generazione di bambini che hanno visto il primo uomo sulla Luna.

«Siamo diversi perché quell’esperienza ci ha segnato. Noi che abbiamo visto abbattere un simile confine siamo cresciuti con l’idea che molte barriere si potessero superare. Però mi ricordo anche la contestazione. Lo racconto nel libro: spesso le proteste bloccavano o il bus che mi portava da Mariano a Seregno oppure le lezioni. Quando sentivo che c’era aria di sciopero, mi mettevo le scarpette — che portavo sempre con me — e andavo ad allenarmi».

Quand’è che la mamma ha finalmente visto i «soldi veri»?

«Nel 1982 quando vinsi gli Europei. Oddio, se di soldi veri si può parlare. All’epoca eravamo pagati pochissimo, intorno all’atletica non c’era quella narrazione eroica che verrà fuori dopo».

Forse però questa narrazione nacque con lei. Molti si ricordano il grido «Cova! Cova! Cova!» ai Mondiali del 1983, a Helsinki.

«Paolo Rosi ne fece uno straordinario racconto di sport. Ma io sono un atleta e queste cose per me restano ai margini. Noi pensiamo a correre, a gareggiare, a vincere. Pensiamo solo a quel terreno, a come sono le nostre scarpe, alla pioggia e al sole. Ognuno di noi è fatto in un modo diverso e la cosa magica è che la nostra costituzione fisica oggi ci incorona e domani ci sconfigge».

Per esempio?

«Una volta feci una campestre in cui c’era anche Gelindo Bordin, robusto, muscolare. Lui scattò subito avanti io mi ripromisi di lavorarci bene verso la fine, “tanto ho dodici chilometri”, mi dissi. Però non avevo fatto bene i conti con il terreno fangoso. La mia magrezza mi fu di intralcio. È lo sport, è la gara, è la vita».

C’è una sconfitta che ha avuto un peso particolare per lei?

«Più che una sconfitta fu un episodio di per sé quasi insignificante ma che poi determinò una vera disfatta dopo. In breve: io ero un oro olimpico e per me il posto agli Europei di Stoccarda 1986 era automatico. Ma in quella che era una gara di qualificazione, io rinunciai a proseguire dopo un piccolo infortunio. Stefano Mei si qualificò e fu lui a battermi a Stoccarda. Non sono abituato a considerare le sconfitte come qualcosa di negativo, ma mi sforzo di vederle dentro un disegno più completo. Così anche le vittorie. Non ci sono avvenimenti brutti o belli: ci sono tasselli di un percorso che va sempre letto nel suo insieme».

Quando ha pianto Alberto Cova?

«Ai Giochi di Seul del 1988. Ma non perché per me fu una Olimpiade disastrosa. Piansi di gioia per Gelindo Bordin che vinse l’oro nella maratona».

La foto che la ritrae assieme a Pertini è centrale nella raccolta di ricordi in questa stanza. Perché?

«Perché all’epoca non era come oggi che, con i social, tutto diventa proprietà di tutti in pochi secondi. All’epoca essere ricevuti dal capo dello Stato era un avvenimento solenne, molto privato ma anche di grande importanza nella vita di un atleta. Il Coni imponeva una preparazione speciale, il cerimoniale ci emozionava. Era una cosa non condivisa ma proprio per questo molto più incisiva».

La corsa è stata anche un formidabile canale di inclusione sociale, penso ai grandi campioni di colore.

«Sì ma la maggioranza degli atleti africani è arrivata tardi, e solo quando molti brand ricchissimi e di rilevanza mondiale si sono accorti che laggiù c’era un tesoro da conquistare. Così sono andati giù e hanno realizzato campi e strutture».

Una forma di colonialismo?

«Una forma».

Alberto Cova è sempre stato «il campione con i baffi». Oggi non li ha più.

«Li ho tagliati quando ho cominciato a vedere che stavano diventando grigi. Prima di farlo, per un attimo ho pensato: “Ma la gente così mi riconoscerà per strada?” . Per un attimo solo, poi li ho tagliati. Fine. Va benissimo così». 

MARCO BONARRIGO per il Corriere della Sera il 13 luglio 2020. Lo scoop Il quotidiano inglese Daily Mail ha recuperato e pubblicato ieri i «contratti» secretati siglati da Uk Sport, l'agenzia governativa britannica per lo sport olimpico, e 91 atleti per l'assunzione di un prodotto sperimentale a base di chetoni in vista dei Giochi olimpici di Londra 2012. Non vietato Il prodotto non era proibito ma Uk Sport addebitava agli atleti ogni responsabilità in caso di positività o problemi per la salute, poi presentatisi (sotto forma di nausea e vomito) in molti casi Oxford Sviluppati a Oxford per l'esercito Usa, molto costosi, i chetoni sono prodotti sintetici che ridurrebbero il consumo delle scorte energetiche dell'organismo e la produzione di acido lattico. Ma gli studi che confermerebbero la loro efficacia sono una minima parte degli oltre 500 effettuati Tra il 2011 e il 2012, Uk Sport, l'agenzia governativa britannica per lo sport olimpico, utilizzò 91 atleti di altissimo livello come cavie per sperimentare un prodotto chimico non in commercio e con pesanti effetti collaterali. Lo scopo? Dominare i Giochi di Londra. Nell'accordo con gli atleti, secretato, ciascuno di loro si assumeva ogni potenziale rischio per la salute e in caso di positività al doping. Esploso ieri grazie a una meticolosa inchiesta del Daily Mail , il «caso DeltaG» rischia di sbriciolare la reputazione dello sport inglese e di macchiare la memoria di Olimpiadi trionfali. DeltaG non era in vendita: nessuno ne aveva autorizzato l'uso commerciale. Non era proibito perché non era mai stato studiato dall'antidoping, non si sa se migliorasse le prestazioni (cosa che non è chiara nemmeno oggi, dopo decine di studi) ma di certo provocava gravi malesseri: il 40% delle «cavie» vomitava o aveva problemi di stomaco, nel 28% dei casi così forti da far sospendere immediatamente l'assunzione. I cronisti hanno scoperto che il magico beverone conteneva chetoni sintetici, composti organici ritenuti «miracolosi» nel migliorare l'utilizzo di energia da parte dell'organismo e studiati segretamente nei laboratori militari americani. Ciascuna «cavia» firmava un documento con cui si impegnava a non divulgare nulla sull'esperimento, a farsi carico degli eventuali rischi per la salute e addirittura di eventuali problemi con i controlli antidoping. «Uk Sport - si legge in un "contratto" recuperato dal quotidiano - non può garantire o assicurare che gli estratti di chetone siano completamente a norma rispetto al Codice mondiale antidoping ed esclude ogni sua responsabilità in caso di positività». Rassicurando però le «cavie» (con un passaggio eticamente micidiale) sul fatto che «le variazioni della chetosi dell'organismo sono fisiologiche e quindi l'assunzione è difficile da riscontrare e dimostrare in eventuali controlli post gara e il prodotto al momento non è proibito». Il progetto DeltaG era nato nell'ambito di un programma governativo «per portare a livelli di forma altissimi i britannici e massimizzare il numero di medaglie»: gli inglesi ne conquistarono 65, garantendosi il terzo posto nel ranking per nazioni. Ieri Uk Sport ha cercato di parare il colpo senza grandi risultati: «Il nostro era un progetto di ricerca e innovazione condotto in linea con i più elevati standard etici, nell'ambito delle regole dello sport internazionale e valutato da un gruppo consultivo indipendente di esperti». I nomi dei 91 «chetonici» non sono stati resi noti ma British Cycling, che dominò in maniera quasi imbarazzante le prove su pista e su strada del ciclismo, ha confermato che «molti dei suoi atleti usarono DeltaG nel periodo di preparazione».

Doping, atleti Gb usati come cavie per sostanza sperimentale a Giochi 2012. Pubblicato domenica, 12 luglio 2020 da La Repubblica.it. Gli atleti olimpici britannici sarebbero stati usati come cavie per testare una sostanza sperimentale in un progetto segreto costato centinaia di migliaia di sterline di denaro pubblico nel tentativo di migliorare le loro prestazioni durante i Giochi olimpici di Londra 2012. Lo rivela l'edizione odierna del Daily Mail. Il comitato olimpico britannico avrebbe costretto gli atleti a firmare liberatorie a propria discolpa se qualcosa fosse andato storto e preso accordi in modo da impedire agli atleti di parlarne. Ma alcuni documenti pubblicati dal Mail on Sunday mostrano come 91 sportivi britannici di livello mondiale in otto sport olimpici siano stati sottoposti al trattamento, che consisteva nell'assunzione di una bevanda energizzante, il DeltaG.  La sostanza, una versione sintetica di un acido corporeo naturale, i chetoni, è stata originariamente sviluppata da scienziati dell'Università di Oxford con 10 milioni di dollari di finanziamenti da parte del Dipartimento della Difesa americano in modo che le forze speciali statunitensi potessero operare più a lungo dietro le linee nemiche pur a corto di viveri. I chetoni sono composti organici prodotti dal fegato in mancanza di carboidrati per bruciare grassi, sfruttati anche in alcune diete dimagranti. UK Sport, l'agenzia governativa responsabile del finanziamento dello sport olimpico e paralimpico in Gran Bretagna, ha prodotto un "foglio informativo per i partecipanti" per accompagnare la domanda di progetto che recita così: "UK Sport non garantisce, ma promette e assicura che l'uso della bevanda chetonica è assolutamente conforme al codice antidoping mondiale e quindi esclude se stessa da ogni responsabilità. La WADA potrebbe raccogliere campioni di sangue o testare retrospettivamente vecchi campioni. Ciò può verificarsi se questa storia diventasse di dominio pubblico. Tuttavia la chetosi è uno stato fisiologico temporaneo e sarebbe difficile da dimostrare o testare con qualsiasi campione post-evento." Lo scorso anno, durante il Tour de France, era emerso che la Jumbo-Visma, la formazione olandese del numero uno delle classifiche Uci Primoz Roglic, stesse usando una bevanda miracolosa a base di chetoni. Le prestazioni, secondo alcuni studi, migliorerebbero del 15%. L'uso dei chetoni non è comunque illegale, anche se all'interno del mondo del ciclismo c'è grande discussione sulla loro liceità.

Andrea Buongiovanni per “la Gazzetta dello Sport” il 29 maggio 2020. Della figlia, nata il 17 maggio, ha deciso di non parlare. Nemmeno di Kasi, neo mamma. Dev' essere una questione di privacy, di rispetto o di chissà cos' altro. Sui suoi account social, sempre molto utilizzati, al riguardo non compare né una foto, né un pensiero. Usain Bolt, l'uomo più veloce della storia, qui anche nelle vesti di ambasciatore Hublot, su tutto il resto però non si tira indietro. A cominciare, naturalmente, dai temi legati alla più stretta attualità e alla pandemia che ha fermato il mondo. Non la sua fama, che continua a prescindere: dal 10 luglio, per dirne una, su Apple Tv sarà tra i sette protagonisti di "Greatness code", una serie di mini documentari diretta da Gotham Chopra, dedicata ad altrettante leggende dello sport, tra le quali LeBron James, Tom Brady e Katie Ledecky.

Usain, com' è la situazione in Giamaica?

In confronto a tanti Paesi nel mondo, molto meno drammatica. Per ora ci sono circa 550 casi confermati di positività e nove decessi relativi. Naturalmente il Covid-19 sta avendo gravi effetti sulla nostra economia, soprattutto sull' industria del turismo, visto che nessuno al momento può ancora viaggiare».

Com' è cambiata la vita della gente in queste settimane?

«Anche da noi ci sono in essere numerose misure di contenimento del virus. Le scuole sono chiuse, la gente viene invitata a lavorare da casa invece di andare in ufficio, gli eventi sportivi sono stati posticipati o cancellati. Su quasi tutta l' isola c' è una sorta di coprifuoco che va dalle 8 di sera alle 6 di mattina. Personalmente, in aprile e maggio, avrei avuto un' agenda molto piena, tra photo shooting ed eventi all' estero. È tutto slittato a non prima di fine estate».

Siete stati o siete tuttora in regime di vero lockdown?

«Non così severo come ho capito esserci stato in altri Paesi, se non in alcune zone specifiche dell' isola».

Le manca viaggiare?

«Da molti punti di vista è bello poter rimanere a casa, non mi è capitato spesso negli ultimi anni. Ma sono così abituato a volare, che è davvero strano non ritrovarmi da così tanto tempo su un aereo».

Che cosa raccomanderebbe alla sua gente?

«La cosa migliore da fare è rispettare le norme, le indicazioni e i suggerimenti governativi.È da lì che provengono le linee-guida, al momento».

A proposito del virus: come le è venuta l' idea di postare la foto che la ritrae dominante sull' arrivo dei 100 dell'Olimpiade di Pechino 2008, quando rifilò 20 centesimi al secondo, per spiegare a modo suo il distanziamento sociale?

«È stata una trovata del mio amico-manager NJ Walker. Ho pensato fosse divertente e mi è parso che la gente abbia apprezzato. È importante, in periodi difficili come questo, provare a rimanere positivi».

Non tutti, in verità, sono sembrati così entusiasti: più d' uno ha ritenuto sia stata un' iniziativa inappropriata, quasi da sbruffone...

«Invece voleva soltanto essere un post leggero, in grado di strappare un sorriso. Nessuno avrebbe dovuto offendersi o irritarsi».

Crede che la pandemia cambierà il mondo?

«Sarà interessante verificare come il mondo tornerà alla normalità e cosa si intenderà per "normalità". Qualcuno sarà costretto a ripensare alla propria vita, a come e dove poter lavorare. E immagino che la gente non avrà tanta voglia di spostarsi e di viaggiare come in passato. Probabilmente le opportunità legate alla tecnologia diventeranno ancora più importanti. Ovviamente il passo più significativo sarà arrivare ad avere un vaccino pe il Covid-19: sino ad allora il mondo intero dovrà stare in guardia».

L' abbiamo vista molto coinvolta in attività di beneficenza e di altro genere: la cercano sempre in molti?

«Sì, tutti da me vorrebbero interviste online e ricevere qualche messaggio motivazionale».

Come ha trascorso la quarantena?

«Sono rimasto tranquillo, in contatto con familiari e amici, trascorrendo il tempo come sempre faccio quando ne ho un po' di libero, tra video giochi e film in tv. Niente sport dal vivo: e, da patito quale sono, mi è mancato molto».

Si è mantenuto in forma in qualche modo? Si è allenato?

«A casa ho alcune cyclette e una palestrina con un po' di pesi: mi sono mantenuto attivo sfruttando le une e l' altra. Ma mi piace farlo con gli amici, in gruppo. Da solo, non molto».

Qualche mese fa erano circolate voci circa un suo possibile ritorno alle gare, magari in vista di una frazione di 4x100 all' Olimpiade di Tokyo: dato che i Giochi si svolgeranno nel 2021, ci sono possibilità che ciò possa accadere?

«Non sapevo di tali speculazioni... Non ho mai pensato a un ritorno per il 2020 e non ho alcuna intenzione di tornare per il 2021. Mi sto godendo la pensione».

Ritiene che lo sport giamaicano risentirà molto dell' attuale situazione?

«È probabile: per quanto riguarda l' atletica è facile immaginare che quest' anno non avremo molte gare. Eventi come i campionati Boys & Girl, da noi popolarissimi e fucina di talenti, sono stati cancellati. Credo che molti atleti top stiano già pensando al 2021. Ho sentito che il cricket sta definendo quando ripartire, mentre il calcio rimarrà fermo sino a che non ci saranno tutte le necessarie condizioni di sicurezza».

E l' atletica quando ripartirà a Kingston?

«Ne stanno discutendo, ma non penso abbiano ancora preso decisioni definitive».

Quale sarà la priorità, in generale, una volta che si potrà tornare a gareggiare?

«Per quanto riguarda questa stagione, immagino uscirne indenni in tutti i sensi, per poi dare il meglio il prossimo anno».

È ambasciatore Hublot, azienda leader nella produzione di orologi di lusso: crede che il mondo dovrà impegnarsi in una corsa contro il tempo per recuperare quanto perso?

«Ho questo ruolo da dieci anni, ci sono tre orologi che portano il mio nome. Hublot è una grande azienda che investe molto nello sport, ma non credo che il mondo dovrà correre contro il tempo. Dobbiamo solamente pensare al futuro in modo un po' diverso e farci trovare pronti alle nuove sfide».

Parlando di novità: l' atletica, da anni, prova a rinnovarsi, con format di meeting diversi, sfide su strada, l' introduzione di gare senza tradizione e altre proposte: che cosa ne pensa?

«Ce n' è bisogno. Alcune stagioni fa, in Australia, sono stato coinvolto in Nitro Athletics, un nuovo modo di proporre la nostra disciplina, con prove a squadre. Tutti i partecipanti, al termine, hanno detto che è stato l' evento più divertente al quale abbiano mai preso parte. In un meeting, di solito, non seguo tutte le specialità. Ma quando ci sono in palio punti per la squadra di cui si fa parte, diventa molto più facile essere coinvolti. Credo accadrebbe lo stesso con gli spettatori. L' atletica resta sport individuale, ma il concetto e l' idea meritano di essere sviluppate».

Carl Lewis ripete spesso che nell' atletica di oggi è tutto sbagliato, che è giunta l' ora "di avere una conversazione onesta circa il suo futuro". Come commenta questa affermazione?

«Non diventerò mai un ex atleta che si lamenta di ogni cosa, facendo confronti col proprio passato. Tutte le discipline devono evolversi col mutare dei tempi e reagire ai gusti e alle necessità degli atleti, degli spettatori, dei media. Anche l' atletica, certamente».

Giulia Zonca per La Stampa il 28 maggio 2020. C' è chi è abituato a scattare da fermo, Filippo Tortu era pronto per uno sprint olimpico, si è bloccato e ora la sua carriera è in perfetta sintonia con l' Italia. Bisogna rimettersi in moto e andare veloci in fretta, senza farsi male: un processo che lui vive ogni stagione, solo che stavolta vede gli stessi meccanismi fuori dalla pista. Nella Brianza dove abita e nel Paese che non vede l' ora di rappresentare di nuovo, in azzurro.

Come si riparte?

«Nella testa velocissimi e sento che per chiunque è così. Anche solo essere in pista ti fa credere che il problema sia superato. Ovviamente non è così. Il fisico però ha i suoi ritmi, va riallenato: non si può proprio ripartire da dove si era rimasti altrimenti ci si spacca».

Lei dove era rimasto?

«Il mio obiettivo non si è mosso nonostante tutto. Dopo aver migliorato il record italiano di Mennea voglio abbassare quel tempo, punto a un 9"92, cronometro ambizioso. Non è detto che arrivi quest' anno ma io continuerò a provarci con tutto me stesso, anzi con qualche cosa di più».

C' è la data di una gara all' orizzonte?

«Non ho un calendario fissato, guardo alla ripresa della Diamond League come scenario. La tappa di Montecarlo, il 14 agosto, non sarebbe male: poi magari ci sarà un riscaldamento prima».

Quale è stato il giorno più difficile durante il lockdown?

«Quello in cui hanno annullato gli Europei. Ho aspettato le Olimpiadi quattro anni, smaltita la botta, posso allungare l' attesa, invece alla mia carriera mancherà sempre un Europeo. Un' occasione persa».

Come ha passato il tempo fermo?

«Ho cercato i lati positivi, ero felice di essere con la mia famiglia, di vedere per la prima volta mia madre che si allenava con noi, di guardare lei e mio fratello cucinare insieme. Forse ne avevo persino bisogno».

Lei vive in Brianza, in quella Lombardia stravolta che è passata da locomotiva a centro della paralisi. Come ha vissuto il contrasto?

«Si respirava la frustrazione dei tanti che non potevano lavorare, un sentimento collettivo, palpabile. E poi la tristezza per il numero dei morti, soprattutto a Brescia e Bergamo, impressionante. Qui, per fortuna, la situazione non era la stessa».

Questa esperienza l' ha cambiata?

«No. Ho solo i capelli più lunghi e mi sono abituato a modificare i piani».

Colonna sonora dei suoi mesi in casa?

«Paolo Conte, sarei anche dovuto andare a vedere un concerto che ovviamente è saltato. In particolare "Come mi vuoi"».

Conferma i suoi gusti non proprio in linea con i 21 anni. Dopo tanti divieti non le è venuta voglia di scatenarsi?

«Ancora non sono riuscito a fare una cena con gli amici. Ci siamo visti, rigidi come dei pali, a distanza, con mascherina, non proprio una festa».

Che cosa pensa dei suoi coetanei in strada, nella movida diventata scandalo?

«Capisco ma non posso condividere. Pure per me è stata dura, l' istinto di riprendersi la propria vita è naturale, stare insieme viene spontaneo però è come buttare via gli ultimi 30 metri dopo aver corso al massimo i primi 70... chi tiene vince».

Dallo sprint allo spritz. Voto all' Italia?

«Alto, siamo stati bravi, io darei un 10, facciamo 9, 5 perché si può sempre migliorare e rimanere responsabili fino a che non ne siamo fuori».

Si immagini la prima gara ideale: dove e con chi?

«Golden Gala a Roma, 100 metri contro Lemaitre. Ci ho corso contro solo una volta, ho perso e non ho mai avuto rivincita. Poi adesso c' è il fascino Stadio dei Marmi, il più bello del mondo, sono anni che dico che bisognerebbe scaldarsi all' Olimpico e correre lì».

Forse in quella gara del 17 settembre ci sarà il pubblico, anche se limitato, ma le prime competizioni saranno a porte chiuse.

«Nei 100 metri l' elettricità che dà la gente è quasi tutto, però non corro da così tanto che basta avere uno start».

Il calcio prova a riprendere.

Lei che è juventino praticante ha voglia di tifare per partite silenziose e sotto vetro?

«Molto. Sarei felice tornasse il campionato, darebbe pure un senso di normalità».

L' atletica gioca la carta spettacolo: l' asta in giardino, gli «Impossible Games» a Oslo.

«Giusto. Il messaggio è: non bisogna arrendersi. Io non ho 100 metri in casa altrimenti avrei sfidato qualcuno. Ho applaudito l' amico Duplantis, che talento. Sarei dovuto andare in vacanza negli Usa e passare da casa sua, dopo i Giochi. Altro programma rinviato. Mondo è stato tra i primi a chiamarmi quando l' Italia si è bloccata. Era preoccupato per me».

Quando è nata l' intesa?

«Ci conosciamo dagli euro-junior del 2017, abbiamo una storia simile. Entrambi allenati dal padre, legati alla famiglia e poi agli Europei del 2018 gli ho detto, "il record dell' asta è già tuo". Si vedeva. Quest' anno ha saltato 6 metri e18».

Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 4 dicembre 2020. Archiviazione. La chiede la procura della Repubblica di Bolzano e ora l' ultima parola spetta al Gip. La storia infinita che vede protagonista Alex Schwazer attraversa un altro passaggio cruciale: a giudizio dei pm, l' olimpionico di Pechino non deve essere processato per il caso di positività al testosterone emerso nel controllo antidoping del primo gennaio del 2016. Positività che portò poi all' udienza davanti al Tas a Rio de Janeiro e alla squalifica per otto anni. È molto probabile a questo punto che il Gip sposi la linea della Procura. Il pronunciamento potrebbe arrivare anche prima della fine dell' anno. Attenzione, giustizia penale e giustizia sportiva non percorrono necessariamente la stessa strada. Quindi non c' è nessun automatismo fra archiviazione su un fronte, e riapertura del processo dall' altra. Non è la prima volta che i verdetti contrastano, anche perché mentre nella giustizia sportiva l' onere della prova spetta all' accusato, in quella ordinaria è necessario accertare il dolo. Tuttavia l' archiviazione rappresenterebbe una vittoria per Schwazer e il suo allenatore Sandro Donati, e potrebbe riaprire il fascicolo ancora contro ignoti che ha un titolo: manipolazione. Una parola emersa ripetutamente nelle udienze presso il Gip, che ora sarà chiamato a dire la sua sulla richiesta della Procura. «Attendiamo ora i prossimi passi e un' eventuale opposizione alla richiesta di archiviazione - dice Gerhard Brandstaetter, l' avvocato di Schwazer - Poi faremo di tutto per tutelare l' integrità di Alex, sia in sede di giustizia ordinaria che sportiva». La Procura della repubblica di Bolzano, diretta da Giancarlo Bramante, si è soffermata sui diversi punti oscuri del circuito del controllo, dal prelievo all' analisi. Per poi prendere in considerazione tutti i dati che hanno portato il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris, a considerare «anomali» i valori di Dna di Schwazer confrontati con quelli di altri soggetti, atleti di alto livello compresi. Per la Procura non è logico pensare che l' atleta abbia interrotto le microdosi perché spaventato, come scrive proprio la memoria della Iaaf, che aveva chiesto il rinvio a giudizio, perché l' atleta era stato già controllato prima e sarebbe stato controllato dopo, e l' esito di quel famoso prelievo del primo gennaio fu reso noto soltanto il 21 giugno. La parola usata nelle motivazioni che portano alla richiesta di archiviazione è «opacità». Un' opacità che naturalmente può prestarsi a diversi scenari. E la Procura scrive che la sede per approfondirli è l' indagine sulla denuncia contro ignoti presentata dalla difesa di Schwazer. Insomma, l' archiviazione potrebbe non scrivere la parola fine sulla storia.

La gloria e il fango. Inchiesta sul marciatore italiano Alex Schwazer e sul complotto che lo ha distrutto per aver infranto l’omertà dell’atletica dei record e dei signori del doping. Carlo Bonini, Attilio Bolzoni e Fabio Tonacci su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Altezza 1 metro e 87 centimetri, peso 71 chilogrammi, pulsazioni cardiache a riposo 34 al minuto, marciatore, italiano, nato il 26 dicembre 1984, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 e squalificato per doping alla vigilia di quelle di Londra nel 2012, Alex Schwazer prima ha conosciuto la gloria e poi ha conosciuto il fango. Quando stava per risorgere - e dimostrare a tutti che si poteva vincere anche senza le "bombe" - gli hanno teso una trappola per insudiciarlo ...

Alex Schwazer, ora è davvero finita: atletica addio, squalifica confermata fino al 2024. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Per Alex Schwazer, ora, non ci sono più possibilità di appello («Attendiamo con fiducia che i gravi indizi vengano suffragati dal procedimento penale in corso a Bolzano», specifica però il suo legale). Il tribunale federale svizzero con sede a Losanna ha infatti respinto la richiesta di annullamento della squalifica di otto anni subita dal 35enne atleta altoatesino nell' estate 2016 - la seconda della carriera - per positività al testosterone a un controllo a sorpresa dell' 1 gennaio dello stesso anno. Gli avvocati del campione olimpico della 50 km di Pechino 2008 si erano rivolti al tribunale elvetico, che già aveva respinto una richiesta di sospensiva, dopo che il Tas aveva a sua volta rigettato il ricorso. Gli otto anni di stop scadranno nell' estate 2024, quando Schwazer avrà 39 anni. Prevedere un rientro, a questo punto, è veramente difficile.

Schwazer, il tribunale di Losanna conferma la squalifica per doping. Richiesta di sospensione respinta, resta la squalifica fino al 2024. Secondo i giudici elvetici: ''Non ci sono fatti nuovi''. Antonio Prisco, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. Niente da fare per Alex Schwazer, il tribunale di Losanna ha respinto le richieste dei legali del marciatore altoatesino: la squalifica per doping resta confermata fino al 2024. Come riporta il quotidiano ticinese La Regione il tribunale federale di Losanna ha consegnato le motivazioni con cui spiega la bocciatura del ricorso presentato da Schwazer. L’obiettivo era ottenere la sospensione della squalifica per doping di 8 anni, che resta quindi confermata fino al 2024, quando Alex avrà 40 anni. Un arco temporale troppo lungo che rischia di compromettere irrimediabilmente la carriera dell'atleta. Il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo a causa del Coronavirus di fatto aveva alimentato le speranze di poter tornare a gareggiare proprio in occasione Giochi giapponesi del 2021. Un sogno che a quanto pare resterà solo tale.

Il caso. La sentenza, datata 17 marzo, è diventata pubblica solo adesso e rappresenta l’ennesimo duro colpo nella lunga querelle giudiziaria, che vede coinvolto l’ex olimpionico azzurro. Il ricorso alla giustizia svizzera era nato sulla scia degli sviluppi giudiziari avvenuti nel tribunale di Bolzano, dove Schwazer è ancora indagato per frode sportiva, dopo la positività riscontrata nel 2016, che gli era costata l’esclusione dai Giochi di Rio. I riscontri emersi durante le indagini preliminari avevano messo messo in luce alcune anomalie nel prelievo e nella gestione delle provette che portarono alla squalifica. Era stato prima il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago, ad evidenziare alterazioni nelle provette con valori di Dna ''non compatibili fisiologicamente'' con le caratteristiche dell’atleta e poi lo stesso gip Walter Pelino ad avanzare l’ipotesi della manipolazione come l’unica ''al momento suffragata da indizi''. Sulla base di questi riscontri l'avvocato Gerhard Brandstaetter aveva deciso di rivolgersi al tribunale federale di Losanna, l’unico organo in grado di rimettere in discussione una sentenza del Tas. Il ricorso era stato presentato nel dicembre scorso e bocciato successivamente dai giudici federali. Secondo il tribunale federale gli elementi di prova presentati dagli avvocati, in realtà non costituiscono un fatto nuovo mentre in questo caso la documentazione emersa nel processo a Bolzano ''viene semplicemente utilizzata come elemento a fondamento della tesi secondo cui il campione di urina che ha condotto alla squalifica sarebbe stato manipolato''. Allo stesso modo ''la pretesa manipolazione, di cui l’atleta si era invano avvalso più volte innanzi al Tribunale arbitrale, non costituisce una novità''. E infine: ''Anche la giurisprudenza più recente esclude la possibilità di avvalersi di referti allestiti dopo l’emanazione della sentenza di cui è chiesta la revisione''. Una pietra tombale sulle speranze del marciatore altoatesino, che interpellato nel merito, non sembra aver perso la voglia di lottare e rilancia la sfida: ''Per me non cambia nulla. Io mi batto per la verità e quindi per dimostrare la mia innocenza nel processo di Bolzano. Se emergeranno delle prove apriremo un nuovo procedimento in Svizzera. Adesso che le Olimpiadi sono state spostate abbiamo più tempo e possiamo aspettare la fine del processo''.

Valerio Piccioni per gazzetta.it il 14 settembre 2020. Alex Schwazer ha commentato la giornata (e le parole di Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano) con soddisfazione: "Intanto perché la perizia ha escluso un punto, quello del collegamento fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna. Sulla possibilità che questo innalzamento sia provocato dal testosterone, è stata la Wada che non ha voluto fornire dei dati, ma c’è uno studio che smentisce il fatto che la sostanza possa aumentare il Dna in urina. Quanto a una possibile patologia alla base dei valori, non è mai emerso perché un atleta di alto livello che si allena e che fa dei risultati deve stare bene, non è che possa avere una prostatite e fare quaranta chilometri di marcia prima del controllo". "Ora bisogna vedere che cosa fa la Procura - ha continuato il marciatore di Vipiteno - ci aspettiamo l’archiviazione della mia posizione e poi dipende dalla motivazione. Questa è sicuramente una sfida più dura di qualsiasi gara. La manipolazione sicuramente c’è stata, il problema è dimostrarlo e poi in un secondo momento scoprire chi è stato il mandante . Perché è successo tutto questo? I motivi li tengo per me… Quattro anni fa siamo partiti alla ricerca della verità e ora siamo a buon punto. Ogni volta che si va avanti si scopre qualcosa in più".

Alex Schwazer, anomalia sul secondo controllo antidoping delle urine: "Dna non umano". Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. “La concentrazione del Dna nelle urine non corrisponde a una fisiologia umana e i dati confermano quindi un’anomalia”. Sono le parole di Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, nella nuova udienza dedicata all’incidente probatorio sulla seconda positività antidoping di Alex Schwazer. “Gli esami svolti su un gruppo di 37 atleti della Fidal che si sono volontariamente sottoposti alle analisi, evidenziano la mancanza di un legame fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna, anzi lo studio evidenza una riduzione rispetto a quelli della popolazione comune. Era stata una delle spiegazioni possibili per i livelli molto alti registrati nell’urina di Schwazer”, scrive la Gazzetta dello sport. A questo punto con questa ennesima conferma che qualcosa nel controllo antidoping non sia stato regolare, è sempre più concreta l'ipotesi della manipolazione delle provette di Schwazer.

Valerio Piccioni per gazzetta.it il 14 settembre 2020. “La concentrazione del Dna nelle urine non corrisponde a una fisiologia umana e i dati confermano quindi un’anomalia”. Sono le parole pronunciate questa mattina da Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, nella nuova udienza dedicata all’incidente probatorio nel caso che riguarda la seconda positività antidoping di Alex Schwazer. Lago sta illustrando le conclusioni della sua terza perizia, in merito all’elevata concentrazione di Dna nelle urine dell’atleta del controllo del primo gennaio del 2016, che portò poi alla seconda squalifica (in questo caso per la positività al testosterone), della durata di otto anni, che vietò al marciatore olimpionico la partecipazione all’Olimpiade di Rio. “Parlare di complotto? Su questo non mi esprimo, non è previsto che mi esprima e non sarebbe neanche corretto”. Sempre secondo il perito, gli esami svolti su un gruppo di 37 atleti della Fidal che si sono volontariamente sottoposti alle analisi, evidenziano la mancanza di un legame fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna, anzi lo studio evidenza una riduzione rispetto a quelli della popolazione comune. Era stata una delle spiegazioni possibili per i livelli molto alti registrati nell’urina di Schwazer. In aula a Bolzano, sono presenti lo stesso Schwazer e il suo allenatore Sandro Donati, ma anche i periti della Wada e della Iaaf. L’udienza di oggi potrebbe essere l’ultima dell’incidente probatorio. Al termine il gip dovrebbe rinviare le carte al pm che dovrà decidere sulla posizione di Schwazer. Nel frattempo, la procura della repubblica di Bolzano avrebbe già aperto un fascicolo sulla possibile manipolazione. Alex Schwazer ha commentato la giornata con soddisfazione: “Intanto perché la perizia ha escluso un punto, quello del collegamento fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna. Sulla possibilità che questo innalzamento sia provocato dal testosterone, è stata la Wada che non ha voluto fornire dei dati, ma c’è uno studio che smentisce il fatto che la sostanza possa aumentare il Dna in urina. Quanto a una possibile patologia alla base dei valori, non è mai emerso perché un atleta di alto livello che si allena e che fa dei risultati deve stare bene, non è che possa avere una prostatite e fare quaranta chilometri di marcia prima del controllo. Ora bisogna vedere che cosa fa la Procura. Ci aspettiamo l’archiviazione della mia posizione e poi dipende dalla motivazione. Questa è sicuramente una sfida più dura di qualsiasi gara. La manipolazione sicuramente c’è stata, il problema è dimostrarlo e poi in un secondo momento scoprire chi è stato il mandante . Perché è successo tutto questo? I motivi li tengo per me… Quattro anni fa siamo partiti alla ricerca della verità e ora siamo a buon punto. Ogni volta che si va avanti si scopre qualcosa in più”. La posizione della Wada è espressa dal parere del professor Vincenzo Pascali del Policlinico “Gemelli” di Roma, che nega l’anomalia e contesta anche il metodo del lavoro del comandante del Ris: “Non è possibile fare sperimentazioni in corso di perizia”. Secondo il documento, “l’abbondanza di DNA in questo estratto non è per nulla singolare e non ha bisogno di particolari spiegazioni”. Pascali nega la validità scientifica dello studio: “Il più equilibrato atteggiamento da osservare in merito alle sperimentazioni di Lago è ignorarne i risultati che sono presentati al lettore ed invitare l’autore a pubblicarle. Le ‘sperimentazioni Lago’ sono anche, nella mia personale opinione del resto basate su ipotesi troppo semplici o troppo futili o troppo inconferenti con il tema che si vorrebbe esplorare”. Infine la disputa sulla validità dei dati di un’analisi effettuata su un altro campione di Schwazer, che aveva dato valori molto alti. Per il perito del Gip, l’assenza di documentazione e di dati indispensabili è tale da rendere non ammissibile il dato. Per il perito Wada si tratta “solo di un fraintendimento sui criteri che presiedono all’accettazione delle prova nel procedimento. Il documento Wada è fondato, ben argomentato e credibile. Le obiezioni del dottor Lago sono viceversa a corto raggio, spesso futili e tutte inconferenti rispetto al tema della credibilità scientifica del documento. Ribadisco che il documento Wada rappresenta una formidabile fonte di prova”.

Il perito del Gip: “La concentrazione di Dna nelle urine di Schwazer non corrisponde a una fisiologia umana”. Il Dubbio il 15 settembre 2020. Ormai è giallo sul caso del marciatore italiano sospeso dopo un “singolare” controllo antidoping. Il perito: “troppe anomalie”. “La concentrazione del Dna nelle urine non corrisponde ad una fisiologia umana e i dati confermano quindi un’anomalia”. Cosi’ Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, nella prima parte dell’esposizione della sua terza perizia in merito all’elevata concentrazione di Dna nelle urine di Alex Schwazer del controllo antidoping dell’1 gennaio del 2016. Come noto, il controllo effettuanto nel giorno di Capodanno di quattro anni fa era inizialmente stato classificato "negativo" e oltre tre mesi dopo le stesse urine risultarono positive al testosterone che fecero scattare la squalifica per recidiva a otto anni. Lago ha spiegato che lo studio sui valori di Dna nelle urine è stato fatto sui dati completi di 37 atleti tesserati della Fidal di specialita’ di lunghe distanze. L’avvocato De Arcangelis per conto della Federatletica in aula ha ribadito che per sottoporsi ad esame di Dna c’era la disponibilita’ di ben 60 atleti e che “il lockdown ha impedito gli spostamenti degli atleti”. Il legale della Fidal ha aggiunto che “Schwazer e’ patrimonio dell’atletica, della Fidal e di questo mondo sportivo e la Fidal ha l’interesse che si faccia luce su questa vicenda”. “Il Dna anomalo di quel controllo antidoping dell’1 gennaio 2016 oltre a non essere anonimo (era inserita la localita’ del controllo, ndr.), e’ unito alle e-mail dove c’e’ scritta la parola complotto in lingua inglese (‘plot’) credo lasciano ben pochi dubbi sull’intera vicenda”. Cosi’ all’AGI, Gerhard Brandstaetter, avvocato di Alex Schwazer, durante una breve pausa dell’odierna udienza che si sta tenendo in Tribunale a Bolzano. Oggi il perito nominato dal gip Walter Pelino, Giampietro Lago, il colonnello comandante del Ris di Parma, sta esponendo la terza perizia. Il legale bolzanino si riferisce ai messaggi di posta elettronica hackerati dai russi di Fancy Bears sui quali si legge la parola ‘plot’ in comunicazioni tra il responsabile dell’antidoping della Iaaf (oggi World Athletics), Thomas Capdevielle e il legale della stessa federazione mondiale di atletica, Ross Wenzel. “Parlare di complotto? Su questo non mi esprimo, non e’ previsto che mi esprima e non sarebbe neanche corretto”. Cosi’ all’AGI, Giampietro Lago, perito nominato dal gip bolzanino Pelino e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, rispondendo ad una domanda circa un ipotizzato complotto da parte della difesa ai danni di Alex Schwazer. L’ex marciatore azzurro, reo-confesso di aver usato Epo nel 2012 (venne squalificato per 4 anni), dopo essere rientrato alle gare e’ stato fermato e squalificato a seguito di un caso, sempre piu’ oscuro, risalente ad un controllo dell’1 gennaio 2016. Il responso di quel controllo era stato inizialmente ‘negativo’ e, ritestato dopo oltre tre mesi, era risultato positivo.Oggi Giampietro Lago sta esponendo la terza perizia che riguarda anche la comparazione dei valori di Dna di Schwazer con quelli di 37 atleti di lunghe distanze tesserati per la Fidal. L’udienza di oggi dovrebbe chiudere l’incidente probatorio e successivamente il gip dovrebbe rinviare la documentazione al pubblico ministero (Bramante) che, a quel punto, decidera’ circa la posizione di Schwazer. Lago in merito ai fatti accaduti da lui descritti nella prima perizia, come il braccio di ferro da parte del laboratorio antidoping accreditato Wada (agenzia mondiale antidoping) di Colonia che non voleva consegnare alle autorita’ italiane le provette di urine di Schwazer e, al momento della consegna, negare le provette originali, ha detto, “da cittadino si percepisce reticenza, il fatto delle provette consegnate in ritardo che lasciano diversi dubbi”. Laga ha concluso dicendo, “confermo le anomalie che inizialmente avevamo sospettato, alcune spiegazioni possibili le abbiamo studiate e sono escluse, altre molte meno rimangono in piedi, tra cui quelle care alla difesa (complotto, ndr)”. In aula il colonnello Lago ha parlato di anomalie anche della catena di custodia del campione di urine quando era entrato all’interno del laboratorio di Colonia. Inoltre, l’alto ufficiale del Ris dei Carabinieri ha parlato di criticità sotto l’aspetto formale in merito ai sistemi anti-effrazione (“non c’era nessun sistema”, ha detto Lago).

Massimo Gramellini per corriere.it il 17 settembre 2020. A farmi propendere per l’innocenza di Alex Schwazer nel suo secondo pasticciaccio di doping è che nessun colpevole serio si sarebbe comportato come lui. Se fosse stato minimamente astuto — come noi ci si immagina che siano i veri colpevoli — quest’uomo dal cognome ingorgato di consonanti si sarebbe limitato, fin dalla prima volta in cui fu colto in castagna, ad ammettere le sue colpe e a chiedere perdono al sistema, come hanno fatto decine di altri atleti, bombati e pentiti, e oggi regolarmente riabilitati. Invece Alex, da vera testa dispari, ammise di essersi dopato una prima volta, ma estese la confessione alla sporcizia circostante, rompendo l’omertà che governa lo sport come ogni altro genere di consesso umano, dove vige la regola che i panni sporchi si lavano in famiglia e il capro espiatorio, sottoposto alla gogna per arginare lo scandalo, deve accettare in silenzio il proprio destino. Alex Chisciotte si difese rovesciando le parti in commedia, cioè trasformandosi in un paladino della lotta al doping: proprio lui, e proprio alla vigilia di un’altra Olimpiade, quella di Rio, dove evidentemente non faceva comodo a molti che andasse. E adesso, anziché confidare nella prescrizione della memoria di cui godono tutti gli scandali nel nostro Paese, insiste nel rievocare, a suo rischio e pericolo, quelle antiche vicende. Certo, la bizzarria della provetta che girò mezza Europa prima di essere esaminata — rivelando un contenuto di testosterone troppo basso per migliorare davvero le prestazioni e adesso, pare, una dose eccessiva di Dna — ci fa dubitare anche dell’intelligenza dei suoi eventuali nemici. Se avessero davvero voluto tendergli una trappola, perché la organizzarono in modo tanto approssimativo? Questa storia si trascina da anni e minaccia di durare almeno fino a quando un regista non si deciderà a farne un film. Ma che Alex risulti vittima oppure colpevole, la sua epopea è la prova che ormai neppure nel male esiste un briciolo di professionalità.

Giuseppe Toti per corriere.it il 17 settembre 2020. Sono più di quattro anni di battaglia legale, quasi tre di udienze preliminari al Tribunale di Bolzano e tre perizie ad avere spalancato le porte all’ipotesi del complotto contro il marciatore Alex Schwazer (oro olimpico ai Giochi di Pechino 2008e attualmente squalificato a 8 anni per la positività al doping nel 2016) e il suo allenatore Sandro Donati. Il lunghissimo lavoro di analisi compiuto su atleti in attività e popolazione comune dal colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma e genetista incaricato dal Gip di Bolzano Walter Pelino di fare luce sul «giallo» più clamoroso nella storia dello sport degli ultimi anni, ha condotto a due risultati. Il primo: ha escluso che il valore anomalo e abnorme di Dna presente in uno dei due campioni di urina (1200 picogrammi per microlitro nella provetta B) prelevata a Schwazer durante il controllo a Racines dalla Iaaf, l’1 gennaio 2016, possa essere giustificato dalla fisiologia umana. Né è spiegabile con il super allenamento, tantomeno con patologie di vario genere (mai accusate da Schwazer in nessuno dei tantissimi controlli antidoping subiti). Il secondo risultato, in pratica, è una diretta conseguenza del primo. Ossia: quel valore anomalo del Dna può essere stato determinato dalla manomissione delle provette. L’epilogo della storia è atteso nelle prossime settimane e arriverà al termine di un percorso tortuoso e tormentato, che vide la sua genesi in tempi non sospetti, quasi cinque anni fa. È il 16 dicembre quando Schwazer si presenta in aula a Bolzano e testimonia contro il gigante Russia e due medici della Iaaf (Fischetto e Fiorella, condannati in primo grado e assolti in appello: in un’intercettazione telefonica del 2016 Fischetto dirà, a proposito di Schwazer: «Sto crucco deve mori’ ammazzato»). Immediatamente dopo la conclusione dell’udienza parte l’ordine della Iaaf di controllare Schwazer il giorno di Capodanno. E questo accade. Con un «piccolo» particolare: sul foglio del prelievo destinato al laboratorio antidoping di Colonia c’è scritto Racines, il luogo dove è stato effettuato il prelievo. Ma le regole antidoping in materia sono altre: nessuna indicazione deve essere riportata che possa far risalire all’identità dell’atleta oggetto del test. L’ispettore del controllo, dipendente della ditta privata Gqs di Stoccarda, riporta sul verbale di avere consegnato lui i campioni, a mano, il 2 gennaio, al laboratorio di Colonia. Sei mesi più tardi, però, a Rio de Janeiro, davanti ai giudici del Tas, salta fuori la verità: l’ispettore ammette infatti di avere lasciato le provette presso la ditta Gqs intorno alle 15.30 dell’1 gennaio. Dunque i campioni sono rimasti incustoditi per ben 15 ore negli uffici in cui almeno 6 persone hanno libero accesso, prima di partire per Colonia il 2 mattina. E così la catena di custodia è già saltata. Il primo esame sulle urine dà esito negativo ma la Iaaf richiede al laboratorio una seconda analisi da svolgere con un metodo diverso e più meticoloso al termine del quale il laboratorio trova una piccola quantità di testosterone. Il 13 maggio informa la Iaaf che mette il risultato in un cassetto per più di un mese e lo comunica a Schwazer solo il 21 giugno, quando i Giochi sono ormai alle porte. Il 17 gennaio 2017 si apre il processo penale a Bolzano: il pm Giancarlo Bramante e il Gip Walter Pelino richiedono alla Iaaf l’urina, ottenendo un rifiuto. Dopodiché si rivolgono al giudice tedesco per opporsi. Quando il giudice di Colonia accoglie la richiesta, i magistrati italiani si sentono raccontare che possono dare solo l’urina A perché di urina B sono rimasti solo 6 millilitri e per l’esame del Dna ne occorrerebbero 10. Il perito del tribunale italiano, il colonnello Lago, scoprirà che di urina B ce n’era il triplo di quanto dichiarato e che per cercare il Dna bastava un solo millilitro. Il 7 febbraio 2018 Lago va a Colonia per prendere l’urina e il direttore del laboratorio, spalleggiato dall’avvocato della Iaaf, tenta di rifilargli non l’urina B sigillata ma un’anonima urina contenuta in una fialetta di plastica. Dietro la prospettiva di una denuncia penale, il direttore consegna la vera urina B, quella sulla quale si troverà la principale anomalia. Ora il giudice Pelino invierà il fascicolo al pubblico ministero Giancarlo Bramante, titolare dell’inchiesta e il pm dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio di Schwazer oppure l’archiviazione. In quest’ultimo caso, l’atleta avrebbe in minima parte giustizia, giacché non ci sarebbe comunque la possibilità di un nuovo processo in sede sportiva. Una decisione di archiviazione, accompagnata da adeguate motivazioni, potrebbe però aprire per Schwazer e per il suo allenatore Donati la strada a un procedimento risarcitorio.

Andrea Buongiovanni per la Gazzetta dello Sport il 9 giugno 2020. E' stato l' ultimo, sarà il primo: Gimbo Tamberi, chi se non lui? Il 29 febbraio, a Siena, con una gara inventata su due piedi, il marchigiano centrava un gran 2.31 tirato fuori da chissà dove che è valso (o quasi) il vertice della stagione mondiale indoor. Poi, il dilagare drammatico della pandemia. Con nessun altro azzurro più in pista o in pedana. Sono trascorsi oltre tre mesi. E il primatista italiano di salto in alto, sempre lui, il 18 giugno tornerà - primo atleta top tricolore - a riveder le stelle. Con una prova nella sua Ancona, nel suo stadio. Sarà un piccolo meeting regionale, probabilmente contro avversari locali. Ma dall' enorme valore simbolico.

Sarà un ritorno alla vita?

«In qualche modo sì. Certe cose anche banali, che si davano per scontate, ora si apprezzano di più. Come andare fuori a cena o stare con gli amici. Passatemi il paragone: è come quando si ha la febbre, dura due giorni, ma poi tutto ha un tono diverso. Almeno per qualche ora. Ecco, spero si torni presto alla vera normalità anche in questo senso».

Cosa resterà di questa esperienza?

«Da sportivo l' ho affrontata in modo diverso da chi ha perso o rischia di perdere il lavoro. Mi metto nei panni di chi stava per aprire un' attività o lanciare sul mercato un nuovo prodotto. O di chi ha investito per anni in un' azienda. D' un tratto ti ritrovi spiazzato. Non vorrei sembrare irriverente, soprattutto nei confronti di chi ha patito lutti: ma in qualche modo ho rivissuto quel che mi accadde alla vigilia di Rio 2016 con l' infortunio che ha spezzato il mio sogno».

Cosa si può imparare?

«Io, in quel frangente, ho capito che, dopo la mazzata, occorre reagire, rimettersi in gioco. Da tutto si può si tornare, tranne che dalla morte: poi bisogna aver la fortuna di trovare persone giuste che ti accompagnino. Avere delle ambizioni e non farle affondare. Io oggi guardo ai Giochi di Tokyo con gli stessi stimoli di allora».

Intanto però il calcio sta per ripartire, mentre l' atletica, come altri sport, sembra molto più lontana.

«Non sono invidioso, capisco la differenza tra i due mondi. Spero solo, proprio pensando a chi ha subito certe perdite, non si sia data un' accelerazione eccessiva dettata da motivi economici. Ma sono certo che si siano fatte tutte le valutazioni».

Seguirà le prime partite, quelle di Coppa Italia?

«Sarebbero le prime della mia vita. Non lo dico per snobismo, ma non sono mai stato appassionato. Mi interessano, invece, gli aspetti corollari della ripartenza: il numero dei tamponi, le regole da rispettare. In campo nessuno di sicuro si risparmierà. E presto ci si riabbraccerà dopo i gol».

È più interessato al ritorno dell' Nba il 31 luglio?

«Da settimane non faccio che vedere partite degli anni 90.Credo si debba navigare a vista, perché la situazione negli Stati Uniti è ancora critica, ma non a caso riprenderanno un mese e mezzo più tardi. Trovo valida l' idea della bolla di Disney World, a Orlando. Per i giocatori sarà un sacrificio, ma proporzionato ai loro guadagni. E alla fine anche i valori saranno gli stessi: i più forti, nel medio-lungo periodo, riemergeranno».

Cosa pensa delle proteste che infiammano il Paese?

«È sconcertante il fatto che nel 2020 ci siano menti così chiuse. Mi scandalizza che ci sia ancora chi nota la differenza tra un bianco e un nero. Il video della morte di George Floyd mette i brividi, quel "sto soffocando" è di enorme drammaticità. E le reazioni di questi giorni sono la conseguenza. La violenza non è mai giustificata, ma qui c' è una razza che è incomprensibilmente denigrata, che subisce torti che partono da lontano».

Quanto sta accadendo la tocca personalmente?

«Io mi sento più nero che bianco, ascolto rap e vivrei per il basket. A Chiara, la mia ragazza, dico spesso che non mi stupirei se nostro figlio nascesse di colore».

Com' è andata la vostra convivenza "forzata"?

«Siamo fidanzati da dieci anni, ma abitiamo insieme solo da dicembre. Ed è andata alla grande. Le avevo sempre detto che avrei voluto aspettare il dopo-Olimpiade per un simile passo. Temevo che le mie tensioni potessero farci del male, condizionarci. Poi, in ottobre, ai Mondiali di Doha, mi sono reso conto che molti colleghi, da Mutaz Barshim a Ilya Ivanuk, oro e bronzo, sono sposati, come lo è il mio amicone australiano Brandon Starc. E allora, dopo altre riflessioni, ci siamo buttati. E ora non potremmo essere più felici. Se doveva essere una prova, siamo usciti fortificati».

Siete già tornati al mare?

«Qualche giorno fa, per una scappata vicino casa. È stato estremamente suggestivo».

Come tanti, vi siete dedicati anche alle tecnologie?

«Parlo per me: ero già uno smanettone. Ma mi son trovato su piattaforme che non conoscevo e mi sono adattato. Studio economia alla Luiss: a distanza, venti giorni fa, ho superato diritto pubblico e a fine mese ho economia industriale».

Ha partecipato a "dirette"?

«A parecchie, alcune molto belle. Con Gigi Datome, Fabio Fognini, Alex Zanardi, che ho guardato e ascoltato per mezzora a bocca aperta. Anche con Jovanotti, che ringrazio per l' opportunità. E con Rocco Siffredi, la più divertente».

Siffredi l' attore porno?

«Lui: il figlio Leonardo, che ha una ventina d' anni, fa atletica. Ha 8"04 sui 60 hs e 2.02 in alto. Rocco mi ha scritto, chiedendomi qualche consiglio. Ci siamo sentiti ed è nata l' idea. Ognuno, nella vita, fa le scelte che più crede opportune. Io ho scoperto un uomo intelligente. E so che potrà far sorridere. Ma abbiano anche trovato punti di contatto. Sapete come la penso sul doping: ecco, nella sua professione lui ha sempre rifiutato pillole e punture...».

Cosa prevede, quindi, il suo calendario?

«Non ho mai smesso di allenarmi, ma se fino ad aprile la condizione è stata alta ora, cancellati i cicli di forza, è un po' calata. Ci sta. Ho però bisogno di dare stimoli al lavoro. Stiamo definendo una serie di appuntamenti-test. Salvo contrordini gareggerò giovedì 18 ad Ancona, domenica 21 a Formia in circostanze simili e giovedì 25, ancora ad Ancona, in una sfida virtuale contro il bahamense Jamal Wilson, 2.33 in febbraio, il tedesco campione europeo Mateusz Przybylko e Stefano Sottile».

Pesa la responsabilità che a Tokyo sarà l' unico azzurro candidato a una medaglia?

«Le responsabilità mi caricano. Solo ai Mondiali di Pechino 2015 le ho mal gestite. Poi è vero che non è semplice individuare tanti italiani da podio, ma ce ne sono un sacco in crescita: penso a Tortu e a Jacobs, la cui amichevole rivalità potrà solo aiutarli, a Re, a Crippa, a Stecchi, che nell' asta ha la sfortuna di vivere in un' epoca di fenomeni, a Fabbri e a diverse ragazze, Iapichino in testa, per la quale il rinvio dei Giochi potrà rivelarsi una manna. E poi ci sono io: disposto a tutto per una medaglia».

Atletica, Sara Simeoni: il salto d'oro di Mosca compie 40 anni. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da Enrico Sisto su La Repubblica.it Nonostante il boicottaggio, quella dell'alto nella capitale dell'allora Unione Sovietica fu una gara di livello assoluto. La veronese la spuntò battendo l'eterna rivale, la tedesca dell'est Ackermann. Poco tempo fa ammise: “Più mi riguardo e più penso che il mio salto aveva qualcosa di moderno”. Sarebbe stata felice, l’allenatrice e tecnica Sara Simeoni, di allenare una come sé stessa, la 12enne con la valigia dei sogni in mano che nel 1965 fu indirizzata al campo d’atletica della sua insegnante Marta Castaldo e che dietro i folti capelli neri, in quel miscuglio di fantasie che ci trascina e ci seduce nella primissima adolescenza, immaginava di diventare soprattutto una ballerina, ammesso che mamma Ilda e papà Giuseppe fossero d’accordo. Il 26 luglio di quarant’anni fa, in una Mosca vissuta a metà e vista sotto la lente nerastra del boicottaggio americano dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la ballerina Sara che avrebbe trasformato il salto in alto in una danza, si prese l’oro olimpico. Aveva una voglia dentro che non esistevano parole per definirla o contenerla. Un coraggio. Una consapevolezza. Il tutto si ricomponeva nel suo corpo come fosse un desiderio diffuso, anzi armoniosamente distribuito fra cuore, tendini, pancia, muscoli e testa. Rimase sempre composta, centrata. Sapeva di potercela fare, anche quando fu vittima di un attacco di panico, prima della finale: ebbe la tachicardia, le lacrime agli occhi. Ad un certo punto, era successo questo: ricevette la visita di un’amica scomoda. Visita tardiva, pericolosa. Era la paura. Un sentimento contrario prese possesso del movimento del suo corpo. Si estese sino ai piedi e dai piedi, passando per le scarpette, era come se quella paura l’avvertisse: guarda che fra un po’ ti incollo i chiodi alla pista! Ma Sara non ebbe paura della paura. Invece di combatterla, l’accolse. E quella perse consistenza. Sara superò 1,97. Bastò. Sul podio niente “Inno di Mameli”. Lei canticchiò “Viva l’Italia” di De Gregori, come fosse una specie di mugugno celeste. Pensava a mille cose insieme. A nessuna in particolare. Sapeva soltanto che dopo la prima prova in finale, orribile, non si sa come ma dagli spalti la raggiunse un incitamento: “Svegliati!”. Era suo marito Erminio Azzaro, che a quell’epoca era già diventato il suo allenatore. Alla misura di 1.94 la tedesca orientale Ackermann, una delle sue rivali storiche, quella che l’aveva preceduta sul podio a Montreal quattro anni prima e che per Sara era a lungo rimasta “un mito”, uscì di gara con la testa fra le mani. La polacca Kielan, dal volto viscontiano, efebico, e l’altra tedesca orientale Kirst superarono 1,94 proprio come Sara. Prima di affrontare l’1,97, Sara e la Kielan non avevano ancora sbagliato una prova e avevano anche effettuato lo stesso numero di salti. Kielan si arrese. Al secondo tentativo, forte di un temperamento che nessun’altra possedeva (e in quell’alto olimpico le più forti erano tutte in pedana, nonostante il boicottaggio…), robusta caratterialmente sin da quando venne scartata dai responsabili dell’Arena della sua Verona per il “ballo dei moretti” dell’”Aida” perché “troppo alta”, Sara grattò il cielo di Mosca con le unghie e sul saccone scese polvere di stelle. A Mosca Sara s’era presentata da primatista mondiale in carica (2,01 stabilito il 4 agosto del ’78 a Brescia). Sara è l’anello di congiunzione tra professionale e passionale. I suoi salti avevano ancora un ripieno romantico, come i piatti della tradizione. Erano il simbolo di un’Italia sportiva piena d’ardore che adesso ripensiamo, che vediamo invecchiata con dolcezza, un’atletica in cui vincere le Olimpiadi voleva dire ancora essere “premiata” con un orologio, mentre stabilire un primato mondiale significava un bonifico di sei milioni. Esprimeva una femminilità fluida e insieme “cattiva”, era una donna semplice e insieme ostinata. Quella massa di capelli che dondolavano nell’aria di Mosca si allineava al look di altre donne forti del nostro paese, che fossero scamiciate barricadere o più pacate ragazze di campagna. Sara è la figlia di un mondo che non c’è più: il mondo reso vitale dal bisogno di ricostruire e di farlo tutti insieme. Guardarla oggi in rete, mentre si commuove davanti alle sue stesse meraviglie, nei filmati di quei glory days, è una vertigine d’emozione. Ricordi unici.

Alessia Trost, i 2 metri, la bulimia e la voglia di riscatto: «Dopo una sconfitta mangiai 40 pezzi di torta, volevo ritirarmi. Ora riparto». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Non è facile parlare di emozioni all’ora di punta dell’aperitivo in una libreria del centro di Milano. Eppure Alessia Trost, 26 anni quasi 27, friulana di Pordenone dall’animo dolce e friabile come il biscotto-simbolo della sua città, prende una piccola rincorsa neanche fosse sulla pedana del salto in alto («Lo sport che amo ma che mi ha fatto soffrire») e trova un piccolo spazio interiore per raccontarsi: «C’è stato un tempo, nelle categorie giovanili, in cui battevo la primatista russa del mondo e oro mondiale Maria Kuchina. A Trinec, in Repubblica Ceca, ho saltato due metri a 19 anni. Ma quel salto non fu frutto di un percorso, né di alcuna consapevolezza. I due metri, che sono le colonne d’Ercole della mia specialità, sono arrivati troppo presto. Oggi lo posso dire. Mi hanno riempito la testa di cose e non sono stati facili da digerire. I fantasmi sono diventati paure, che sono diventate insicurezze, che sono diventate alibi». Di Alessia, oro mondiale Allievi e poi Under 18, due titoli europei Under 23, saltatrice di valore assoluto (nella storia dell’atletica italiana a scavalcare i due metri sono riuscite solo in tre: la mitica pioniera Sara Simeoni, Trost ed Elena Vallortigara), ha sempre colpito una sensibilità che le spietate dinamiche della gara e la carenza d’ossigeno dell’altitudine cui essa ti costringe per salire sul podio hanno spesso denudato. Senza pelle, con i nervi scoperti, Alessia ha vinto due belle medaglie indoor (un bronzo iridato, un argento europeo) ma l’uno-due che l’esistenza le ha assestato — la morte in rapida successione dello storico coach Gianfranco Chessa e della mamma Susanna a 54 anni — l’hanno spinta in un angolo, sola e confusa. La Federatletica e le Fiamme Gialle sono corse in soccorso, trovandole riparo dopo i Giochi di Rio 2016 (quinta) ad Ancona, dai Tamberi padre e figlio: coach Marco e il talento Gimbo, primatista italiano (2,39 m). Ma la coesistenza con la premiata ditta del salto è finita lo scorso ottobre, dopo il Mondiale a Doha (eliminata nelle qualificazioni). «Nulla da rimproverare a Tamberi — racconta — però in pedana in Qatar mi sono apparsi chiari i limiti del lavoro fatto». I fantasmi si erano dileguati strada facendo, grazie al lavoro con gli psicologi. Il primo, inutile: «Lei sta male per i lutti, mi disse, come se già non lo sapessi». Il secondo, prezioso: «Ero in un vortice, alimentazione inclusa. La dieta ferrea mi provocava sbalzi d’umore enormi. Ero bulimica: al Mondiale di Londra 2017 pesavo 66,7 chili (Alessia è alta quasi 1,90 ndr), dopo l’eliminazione mangiai 40 fette di torta, vergognandomi come una ladra. Poi ho capito che Alessia giudicava spietatamente l’atleta. Mi sono liberata dell’autismo del saltatore, dal trip di perfezione. Inizia a vivere, mi sono detta, che magari salti meglio. Mi sono perdonata, accettando di essere più morbida con me stessa e di poter fallire». La terza vita di Alessia Trost è appena cominciata a Sesto San Giovanni, al campo Dordoni dove allena Roberto Vanzillotta, lo stimato tecnico federale a cui il direttore tecnico azzurro Antonio La Torre ha affidato un talento da rigenerare e far decollare. «A pochi mesi dai Giochi di Tokyo ho traslocato di nuovo. Dentro di me si sono riaccese motivazioni che non sentivo da tempo». Il punto più basso? «L’Europeo indoor di Glasgow: ho saltato 1,85, indecorosa, non ci ho capito niente. E sì, ho pensato di smettere». Il peggio è alle spalle. Ha preso casa a Monza, vorrebbe terminare Scienze alimentari, insegue il biglietto per l’Olimpiade giapponese, dove ritroverebbe quella Maria Kuchina nel frattempo diventata la regina mondiale del salto. «Ho sempre ignorato il confronto con lei, ma era una bugia a me stessa. L’ennesima. Okay sono rimasta mille anni indietro, però non mollo. Mi sento di nuovo viva, mi si è riacceso un sogno. Sono tornata in palestra a sollevare bilancieri, Vanzillotta mi spiega che il salto è molto più naturale di come me l’hanno raccontato. Se ho superato 2 metri una volta, posso ripetermi: sento di potercela fare». Alessia gareggia mercoledì a Udine. «Non mi aspetto un miracolo». Ogni nuovo inizio, lo è.

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2020. Le ascelle non depilate. Era il 26 luglio 1980 e a Mosca, con un volo a planare sulla storia dalla stratosferica altitudine di 197 centimetri, Sara Simeoni da Rivoli Veronese, figlia di Giuseppe e Ilda, ballerina mancata, vinceva l' oro nel salto in alto all' Olimpiade. Nell' immagine-icona dell' atletica italiana (la controcopertina della nostra Bibbia laica è il ghigno stanco con cui, un paio di giorni dopo, Pietro Mennea scaverà due incommensurabili centesimi di secondo tra sé e lo scozzese Wells sul traguardo dei 200 metri), Sara è riccia, felice e non depilata sul materassone dopo l' amplesso con l' asticella. L' azione rapida e pulita - rincorsa, stacco, oplà, salto - con cui la Simeoni, a un mese dalla strage di Ustica e in pieni anni di piombo, ridiede fiato a un Paese asfittico, basterebbe da sola a giustificare un' agiografia che invece comprende molto altro: due record del mondo, due argenti olimpici, un oro europeo, più tutto il resto. Di Mosca, nel 2020 ricorre il quarantennale. Come passa il tempo, accidenti. Esercitare la memoria, oggi che l' atletica italiana si aggrappa esausta ai giovani per non vivere solo di ricordi, tiene a galla le emozioni.

Sara, partiamo dalle ascelle, se non le dispiace.

rano anni in cui non si pensava al look, c' erano priorità diverse. Le poche ragazze si allenavano con i maschi e le tute erano uguali per tutti: le taglie sfasate, i pantaloni a palloncino, un orrore... Andavo al campo con ago e filo, improvvisavo improbabili imbastiture. E se non c' era tempo, mi arrangiavo con le spille da balia».

Il sogno di fare la ballerina, a quel punto, era già alle spalle.

«I modelli femminili, quando ero bambina io, li dettava la Rai. Guardavo Canzonissima , ero rapita dai balletti. Mi iscrissi a un corso di danza classica a Verona. Ero bravina, mi piaceva molto, ma a un certo punto mi scartarono per l' altezza, preferendo mia sorella Anita. Stavamo preparando la danza dei moretti per l' Aida in Arena. Ne fui mortificata».

L' atletica come balsamo, quindi?

«Fu l' insegnante di educazione fisica delle medie a dirmi che una società stava cercando atlete. Provai. Erano anni in cui nessuno, men che meno i miei genitori, ossessionava i ragazzi con l' idea del risultato a tutti i costi. Figuriamoci le ragazze: lo sport femminile, all' epoca, non esisteva».

Fu l' ebbrezza del volo a conquistarla?

«Ah, quella sensazione la ricordo bene: la leggerezza di quando sei in forma e tutto ti viene facile. Inizialmente saltavo frontale, come si supera un ostacolo; avrei dovuto imparare lo stile ventrale, che mi intimoriva perché se sbagliavi ti facevi male. Ma dall' America arrivò la rivoluzione di Dick Fosbury: quando lo conobbi, lo ringraziai sentitamente».

L' attuale primatista del mondo, il cubano Javier Sotomayor, dice di essersi ispirato a lei per l' azione dell'«arto libero». È vero?

«Sì, l' ha detto anche a me. L' arto libero è la gamba non di stacco: io davo un calcetto, un qualcosa a metà tra ventrale e Fosbury. Quando saltavo non sentivo che critiche. Mi rivalutano ora, va bene».

Oggi, a quasi 67 anni, sogna mai di volare?

«Mi capita, ma sotto forma di rondine».

E?

«E niente, sono una rondine e volo».

Il volo più bello?

«Beh, ai Giochi di Mosca arrivò la medaglia della vita: detenevo il record del mondo, c' era stato il boicottaggio, dovevo vincere. Però la mia impresa più grande fu l' argento a Los Angeles '84: ero stata infortunata, avevo saltato poco e male, dovevo essere una delle tante e invece il volo dei due metri fu una gran cosa.Mi sentii miracolata».

Altri tempi e altri guadagni, anche.

«Mi allenavo come se timbrassi il cartellino: per me l' atletica era un lavoro serio. Stavo a Formia, il meglio che un azzurro potesse avere a disposizione, e mi impegnavo sodo. Vivevo di borse di studio della Federazione e del Cio, lo sport maschile e quello femminile erano come il giorno e la notte in quanto a importanza, materiali, peso dei risultati. A me, per dire, un appartamento sulla Cassia non l' ha mai regalato nessuno...».

Come venivano ricompensate le medaglie?

«Non c' erano premi in denaro, come oggi. Ricordo che Primo Nebiolo, presidente della Federatletica, mi regalò un orologio d' oro. Per il record del mondo mi diedero sei milioni di lire. L' ho fatto due volte: la prima, niente».

Lei e Mennea siete i simboli della nostra atletica. Avete diviso mille esperienze senza mai diventare amici, però.

«In allenamento era intrattabile. Finito il lavoro, se voleva, sapeva anche essere simpatico.Abbiamo condiviso un percorso, è vero. Dieci lunghi anni tra Formia, trasferte, gare. Non ci siamo mai frequentati fuori dall' atletica, però. Pietro aveva il suo carattere e io ero molto timida, mai la prima a rompere il ghiaccio. Aspettare che lo facesse lui, evidentemente, non è servito. Anche l' allenatore di Pietro, il professor Vittori, era burbero. Mi sentivo sempre un po' in soggezione davanti a loro, anche se si stava molto insieme. Andare a cena da Vittori, finita la carriera, mi sembrò una conquista: prima di dedicarsi alla velocità, il professore aveva allenato i salti ed era stato il coach di Erminio Azzaro, mio marito».

A chi si sente di dire grazie, otto lustri dopo l'oro di Mosca?

«Se partecipai alle mie prime Olimpiadi, Monaco '72, lo devo a Giulio Onesti, presidente del Coni. Avevo saltato 1,80, una miseria. Cosa la mandiamo a fare, si chiedevano i funzionari. Onesti s' impose: la Baviera è vicina, ci costa poco, la veneta vada a fare esperienza!».

Monaco '72 e l' attentato terroristico di Settembre Nero alla palazzina israeliana. Il giorno in cui lo sport perse l' innocenza. Cosa ricorda?

«Avevo gareggiato ed eravamo andati a festeggiare in centro con Eddy Ottoz e altri atleti. La palazzina dell' Italia, per ordine alfabetico, era vicina a quella di Israele. Non ci accorgemmo di niente fino alla colazione: il villaggio era bloccato, polizia ovunque, un silenzio irreale».

E Mosca, nel 1980, che città era?

«Feci un giro guidato dopo aver vinto l' oro. La piazza Rossa, i magazzini Gum, il Bolshoi. Ci mostrarono la città velocemente: è da allora che mi piacerebbe tornare in Russia».

La storia dell' attacco di panico prima della finale dell' alto è leggenda o verità?

«È verissimo: un caso d' ansia da manuale, l' unico della mia carriera. Tremavo come una foglia, avevo la tachicardia, piangevo, non mi ricordavo nemmeno perché ero lì. Il primo salto di prova fu un disastro. Dalle tribune dello stadio olimpico sentii un urlo: Sara svegliati! Era Erminio, che già mi allenava. Prevalse la razionalità. Poco dopo quella mezzora tragica, mi ritrovai con l' oro al collo».

Ma senza Inno di Mameli: il boicottaggio americano per l' invasione sovietica dell' Afghanistan privò l' Olimpiade dei suoi simboli.

«Sul podio, dentro di me, cantai Viva l' Italia di Francesco De Gregori».

Damilano, Simeoni e Mennea, gli ori dell' atletica di quell' Olimpiade, regalarono un sorriso a un' Italia paralizzata dagli attentati.

«Un periodo buissimo. Nel '78, nei giorni del rapimento di Aldo Moro, per allenarmi andavo avanti e indietro con Rieti, dove si pensava ci fosse un covo. Ci avevano sconsigliato i treni; la nostra auto veniva sempre fermata ai posti di blocco. Se ci ripenso ho ancora i brividi. I nostri ori furono un segnale di speranza: avevamo tutti voglia di cose nuove e belle».

Si è mai sentita sola, in pedana?

«La solitudine della saltatrice mi è sempre piaciuta. Perché la sceglievo io».

Da Adamo ed Eva, solo quattro italiane si sono spinte oltre le colonne d' Ercole dei due metri: Antonietta Di Martino (2,04), Elena Vallortigara (2,02), Sara Simeoni (2,01), Alessia Trost (2,00). Cosa significa?

«Per riuscire nell' alto non basta avere molti follower o like. L' atletica è un mestiere serio. Il record del mondo della bulgara Kostadinova, 2,09, non a caso è datato 1987».

Per l' atletica italiana ha ricette miracolose?

«No, ma ho una certezza: per appassionarsi, è necessario che l' atletica sia promossa nelle scuole. Comincia tutto lì. Negli ultimi due anni di insegnamento, nella provincia di Verona ho incontrato 20 mila ragazzi tra le elementari e il liceo. Tutti con la voglia di correre, saltare, lanciare. Un' esperienza incredibile. Ma i ragazzi vanno motivati, sennò smettono».

Simeoni e la politica. Dove hanno fallito Forlani, Berlusconi e Prodi, è riuscita Alessandra Moretti, che la convinse a candidarsi in lista civica alle regionali. Perché?

«Me lo chiedo anch' io! Venne a trovarmi a casa; una, due, tre volte. È una donna. Mi lasciai tentare: un grande errore. Avessi detto di sì prima, avrei fatto la parlamentare a Roma e non avrei dovuto aspettare 67 anni per andare in pensione!».

Ha rimpianti veri?

«Rimpianti no. Ho una curiosità: mi piacerebbe mettermi alla prova potendo allenarmi con i mezzi moderni e non con quelli giurassici dei miei tempi. Per la prima volta calcai una pista di atletica a 13 anni. Oggi a quell' età sono già semiprofessionisti».

Per noi lei è eterna. Ma in un quiz tv, «Guess my age», non la riconobbero. Sacrilegio.

«La cosa strana è che quando sono entrata nello studio è partito un applauso, poi il concorrente ha fatto scena muta. Mi è venuto il dubbio che fosse tutto preparato».

·         Quelli che…le Biciclette. 

Da corriere.it il 17 agosto 2020. Bruttissima caduta al Giro del Lombardia di Remco Evenepoel nella discesa che dalla Colma di Sormano porta al Lago di Como. Dalle immagini dell'elicottero Rai si vede il belga che, in coda al gruppetto dei fuggitivi, tocca il parapetto sulla sinistra della carreggiata, si ribalta ed finisce nel burrone, mentre la sua bicicletta rimaneva parcheggiata a bordo strada. Immediati i soccorsi, il ciclista non ha perso conoscenza ed è stato recuperato dal Soccorso Alpino per essere trasportato all'ospedale di Como.

Marco Bonarrigo per corriere.it il 17 agosto 2020. Bruttissima caduta nella discesa della Colma di Sormano, al Giro di Lombardia, per Remco Evenepoel. Il super talento belga, che cercava con fatica di tenere la ruota di Vincenzo Nibali a 42 km dall’arrivo, ha toccato il parapetto della strada sulla destra, precipitando nel vuoto per una decina di metri. Gli uomini del soccorso alpino sono intervenuti rapidamente, in un punto in cui fermarsi era molto pericoloso: ci sono voluti 20 minuti circa per stabilizzare l’atleta e portarlo a bordo strada, dove un’ambulanza l’ha caricato e trasportato all’ospedale di Como. Nelle prime immagini del crash si poteva vedere il casco dell’atleta, con un largo foro nella parte centrale. Evenepoel è sempre rimasto cosciente. Remco Evenepoel, 20 anni, è considerato il più grande talento del ciclismo mondiale: quest’anno ha partecipato a quattro corse a tappe, vincendole tutte e staccandosi dalla ruota tutti i big delle due ruote. Davide Bramati, direttore sportivo: «ho seguito Remco fino all’ambulanza, è cosciente anche se ha preso una brutta botta. Adesso aspettiamo di vedere i risultati degli esami»

Ciclismo, la storica foto di Coppi, Bartali e la borraccia: ma non erano soli. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Coppi, Bartali, la borraccia e il Galibier. Era il 6 luglio 1952, il Tour, la tappa Bourg d’Oisans-Sestriere. L’immagine apparve per la prima volta sul numero 28 della rivista "Calcio e Ciclismo illustrato". Coppi passa la borraccia a Bartali o viceversa, non s’è mai capito e forse non importa. Ma, ed è la prima volta che questa storia emerge, Coppi e Bartali non erano soli. La foto era semplicemente stata tagliata sui due grandi italiani. Alla sinistra di Coppi, infatti, ecco emergere il belga Stan Ockers, proteso alla ricerca di acqua. Alle loro spalle, le ombre di altri corridori, Ruiz, Gelabert e Geminiani. E all’attacco, con un minuto di vantaggio, il francese Le Guilly. Coppi vincerà quella tappa e quel Tour, proprio su Ockers e Ruiz. La foto “allargata” è un ritrovamento eccezionale di cui si deve ringraziare Carlo Delfino, medico di Varazze appassionato di ciclismo. La vicenda della fotografia più simbolica dell’intera storia dello sport è stata pubblicata per la prima volta dallo stesso Delfino sul sito Novauvi.it, ripresa da Tuttobiciweb e, oggi, da Valerio Arrichiello del Secolo XIX. L’originale della foto, scattata da Carlo Martini dell’agenzia Olympia di Milano, è riemerso dal grande archivio di Marino Vigna, olimpionico a Roma 1960 nell’inseguimento a squadre su pista. “Bizzarro” scrive Delfino “come il redattore abbia privilegiato a scelta di escludere dalla foto il belga e centrare per bene l’immagine dei due campioni italiani. Probabilmente l’intenzione era quella di affermare che Coppi, Bartali e la squadra italiana erano il faro unico, armonioso e dominante della Grande Boucle”.

“Cipollini mi disse: ‘Vi spello vivi tutti’. E una volta sferrò un calcio fortissimo a mia sorella”. Raffaello Binelli su larno.ilgiornale.it il 16 luglio 2020. È un racconto drammatico quello che fa Marco Landucci, in aula, al processo contro Mario Cipollini, accusato dall’ex moglie di violenza, minacce e maltrattamenti. Ex portiere della Fiorentina e membro dello staff tecnico di Massimiliano Allegri (ex allenatore della Juventus), Landucci è fratello di Sabrina, la donna che ha denunciato Cipollini. L’ex campione di ciclismo, stando alle parole di Landucci, aveva spesso reazioni incontrollate e violente. “Una volta, nel 1995, eravamo nella sua casa a San Giusto di Compito (Lucca, ndr), io con la mia ex moglie e le bimbe, e Sabrina stava facendo step nel giardino di casa. All’improvviso, durante una discussione, perché lui aveva fatto tardi la sera precedente, si avventò verso mia sorella e le sferrò un calcio fortissimo su una gamba, facendole molto male. Un’altra volta, ricordo, stava venendo via dalla casa dei miei genitori, quando lui la fermò e cominciò a prendere a calci la carrozzeria della macchina”. Alla domanda, rivoltagli dall’avvocato della parte civile, di come mai non lo avesse mai denunciato, Landucci ha risposto in questo modo: “Mi ha sempre detto (la sorella, ndr) che ci avrebbe pensato lei. Tutti noi eravamo preoccupati, mia mamma soprattutto. Lui le disse di andarsene di casa con le figlie perché si era innamorato e fidanzato con una soubrette, Magda Gomes, con la quale voleva andare a vivere nella villa di Monte San Quirico. Sabrina se ne andò dalla mamma, salvo poi andarsene di casa. Successivamente, dopo un breve ritorno, l’abbandonò definitivamente”. Landucci racconta anche di aver provato a far ragionare Cipollini, tra il 2010 e il 2011, parlando con lui al telefono. Per tutta risposta si sentì dire: “Vi spello vivi tutti, te e la tua famiglia”. E dopo l’aggressione in palestra subita dalla sorella (avvenuta il 6 gennaio 2017), Landucci rivela di averle preso una guardia del corpo perché la seguisse e proteggesse ovunque. “È andata avanti per due mesi. Una scelta quasi obbligata perché, dopo la separazione, Sabrina non era libera di andare dove voleva. Stava sempre in guardia, evitando i posti frequentati da lui”. In aula è stato ascoltato anche il proprietario della palestra dove avvenne l’aggressione, Renato Malfatti. L’uomo ha raccontato che Sabrina Landucci lavora per lui da 12 anni ed è molto stimata e apprezzata. Poi, nel rievocare il giorno in cui Cipollini l’aggredì, dice che lui arrivò solo nel pomeriggio: “Mi resi subito conto che era stravolta. Aveva un segno visibile sul collo che  aveva cercato di mascherare con il trucco, ma che si vedeva bene. Era in imbarazzo a parlarmi e io evitai di calcare la mano perché era stravolta… soltanto dopo l’aggressione e la denuncia mi raccontò il clima di intimidazione nel quale era costretta a vivere”. Sentita anche la collaboratrice domestica. Ha detto di non aver assistito a scene di violenza all’interno della casa, anche se in un’occasione avrebbe riferito di aver avuto paura di Cipollini. La colf è stata richiamata quattro volte dal giudice, perché ritenuta reticente. La prossima udienza è fissata per il 18 novembre.

Marco Bonarrigo per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2020. «No, il Puffo Blu non lo chiede più nessuno. I bambini vogliono la Puffetta Rosa - più croccante e con meno zucchero - Nutellone, Rocher e Oreo. Gli adulti il triplo pistacchio, il cioccolato dark e il mascarpone col cuore di panna alla torta Barozzi, specialità della zona». Visto dal laboratorio della gelateria Chocoloco di Vignola, il mondo è questione di gusti (23) e misure. Cono piccolo a due euro, cono magnum (un mostro di sei etti compresi panna e accessori) a sette. Chocololo apre alle 13 ma alle 9 il titolare è già lì che sbuccia, affetta, frulla, pastorizza e manteca. Si chiama Riccardo Riccò: 13 anni fa era un fenomeno del ciclismo poi si è trasformato nel più dannato antieroe dello sport italiano moderno. Pantani era il Pirata, Riccò il Cobra: mordeva gli avversari e sputava veleno. Pantani è morto, Riccò è sopravvissuto per miracolo e sabato scorso ha cominciato ufficialmente la sua nuova vita. Il suo passato lo sintetizza così: «Ero un bulletto di talento, un idiota che ha gettato al vento soldi e carriera. Avessi gestito gambe e rabbia di allora con la testa di adesso avrei vinto Giro e Tour. Ma il mio destino era segnato: nella vita non decidiamo noi quando maturare». Nel 2008, quattro anni dopo la morte di Pantani, Riccò ne prende il posto nel cuore dei tifosi. In salita è micidiale: stacca fenomeni come Contador e Valverde, li ridicolizza con smorfie e dichiarazioni pepate, vince tre tappe al Giro d'Italia (dove lo batte solo Contador) e due al Tour con facilità irrisoria sovrapponendo la maglia bianca di miglior giovane e quella a pois di scalatore principe. «Mi dopavo pesante - spiega - perché mi sembrava una scelta inevitabile per vincere: inchieste e controlli l'hanno dimostrato. Era un doping da disperati, mi hanno beccato appena hanno voluto». La discesa all'inferno inizia il 17 luglio 2008, alle 11 del mattino. Riccardo era risultato positivo all'Epo già la sera prima ma invece di fermarlo in albergo, dodici gendarmi sfilano quella mattina verso il bus della Saunier Duval alla partenza della tappa. Un centinaio di giornalisti (debitamente avvertiti) sono testimoni dell'arresto. Riccò, pallido come un cencio, sguardo perso nel vuoto, è il simbolo del male. Scaricato dalla squadra, finisce in una cella di tre metri per tre. «Volevo uscirne il prima possibile - spiega - e feci nomi e cognomi di chi mi aveva dato la roba. Mi premiarono con uno sconto di pena ma non riuscivo a far finta di piangere in pubblico come tanti altri: per i colleghi ero solo un dopato di m...». Venti mesi dopo, torna in bici. Non è solo un ciclista maledetto è anche un maledetto pentito. Trova solo squadre piccole, contratti ambigui, stipendi sontuosi solo sulla carta. «Ho perso centinaia di migliaia di euro - confessa - ma non il vizio di doparmi». La notte del 6 febbraio 2011, alla vigilia dell'ennesima stagione del riscatto, Riccò arriva all'ospedale di Baggiovara in condizioni disperate, accompagnato da Vania Rossi, la madre di suo figlio: delira per la febbre altissima, ha un blocco renale. Al dottore che lo implora di aiutarlo nella diagnosi sussurra la verità: si è fatto da solo una reinfusione di sangue con una sacca che conservava nel frigo di casa, evidentemente contaminata da un batterio. Si salva per miracolo ma uno dei medici va in Procura e lo denuncia: 12 anni di squalifica e fine della carriera. Non dei guai: Riccardo non molla la bici, si inventa patetiche imprese solitarie, rischia la vita in una tremenda caduta dal Mont Ventoux, si infila in un brutto giro di ciclo-dopati, arriva a un passo dal suicidio come ha raccontato in «Cuore di Cobra», la (bella e dura) autobiografia scritta per Piemme con Dario Ricci. «Quando ero a un passo dallo sprofondo mi ha salvato un amico gelataio. "Se dovesse andare tutto male - mi aveva detto - vieni da me che ti insegno un mestiere". Sono stato mesi da lui a pelare frutta, impastare e mantecare. Poi ho conosciuto Melissa, la figlia della mia fruttivendola. Ci siamo piaciuti, sposati e spostati a Tenerife a fare gelati. Ci ho messo il meglio del mio passato: passione, meticolosità, dedizione totale. Ma senza Melissa, la sua forza e il suo amore non ce l'avrei mai fatta. Per lei ero Riccardo, non il Cobra. Dodici anni fa guardavo il mondo dall'alto del podio del Tour ma sapevo di essere un baro. Oggi se un bambino mi dice che il mio gelato è buono sono un uomo soddisfatto e la sera posso andare a casa sereno senza dovermi guardare le spalle».

Il baronetto Simpson e il doping sul Ventoux. Piero Mei il 21 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il “caso Simpson” non è qui quello di Wallis, l’americana divorziata di Baltimora, per amore della quale un re d’Inghilterra rinunciò al trono, né quello di Orenthal James, l’americano divorziato di San Francisco, “OJ” per tutti, famoso prima come running back sui campi del football americano e poi come presunto assassino dell’ex moglie, fuggitivo sull’autostrada della California, inseguito in diretta tv dalle auto della polizia e poi assolto, e più tardi come rapinatore a mano armata, condannato. Questo “caso Simpson” è quello di Thomas detto Tom (o Tommy), inglese, ciclista, felicemente coniugato, che la Regina fece baronetto, colpita dalla rarità, oltre Manica, dell’impresa sportiva che Simpson compì: la vittoria nella Milano-Sanremo, insolita a quei tempi (era il 1964) per uno sportivo britannico. Le glorie inglesi sui pedali, e sulle strade di mezzo mondo, erano ancora lontane: c’era stato sì il pistard Reginald Harris di Manchester con i suoi quattro titoli mondiali, ma lo tsunami di Union Jack sui velodromi con Chris Hoy e compagni di pedali era allora inimmaginabile, come l’avvento della generazione di Sir Bradley Wiggins o di Chris Froome, per non citare che due dei tanti del Terzo Millennio. Questo “caso Simpson”, che accadde il 13 luglio 1967, ebbe per scenario, nella tredicesima tappa del Tour di quell’anno, il Mont Ventoux: “Fisicamente il Ventoux è terribile. È calvo. È l’essenza dell’aridità. Il suo clima lo rende un terreno dannato, un luogo adatto agli eroi. È come il più alto degli inferni. Il Ventoux è un Dio del Male al quale bisogna sacrificare. Non accetta debolezze ed esige un ingiusto tributo di sofferenze”, come lo aveva raccontato Roland Barthes, nei suoi “Miti d’oggi”, dieci anni prima del “caso”. La conquista di questo monte era già stata narrata sei secoli prima da Francesco Petrarca in una lettera al padre agostiniano Dionigi, di Borgo San Sepolcro, una lettera “sui propri affanni” che Petrarca scrisse fra cronaca e allegoria. È probabile che Tommy Simpson non avesse letto né l’uno né l’altro. Sapeva, forse, che di lassù, 1912 metri sul livello del mare e un territorio dall’aspetto di Luna, bianco e deserto, il Tour era passato per la prima volta nel ’51, e che nel ’55, su quella cima, il campione svizzero Ferdi Kubler era stramazzato al suolo ed aveva annunciato il proprio ritiro dicendo semplicemente “Ferdi si è suicidato”. E forse Simpson sapeva pure che giusto nel marzo di quel 1967 il Mistral, il vento che con la complicità del sole dà a quegli ultimi cinque chilometri verso la vetta, l’aspetto di una montagna di sale che si vede da tutta la Provenza, soffiò a 313 chilometri l’ora, un record. Simpson, ormai Sir, era divenuto campione del mondo nel ’65 e quell’anno aveva vinto anche il Giro di Lombardia. Ma voleva la consacrazione ciclistica che solo il Tour regala: difficile entrare in bicicletta nel Pantheon dei campioni se non vinci lì almeno una volta, tra i pochissimi Francesco Moser c’è riuscito. Tommy era settimo in classifica generale quella mattina, partenza da Marsiglia, arrivo a Carpentras, città che era stata la prima sede del Papa e della Curia nel periodo del Papato di Avignone, dove uno chef di nome Silvestro aveva confezionato per primo i berlingots, caramelle di zucchero al sapore di menta, proprio per il Papa Clemente V. Ma non era di berlingots che si era approvvigionato Tommy nell’albergo di Marsiglia la notte prima della tappa: nella stanza dove alloggiava con Colin Lewis, uno dei tre gregari che gli erano rimasti nella squadra di Gran Bretagna, era stato raggiunto da un paio di ceffi italiani ed aveva acquistato, al prezzo di 800 sterline, alcuni tubetti di Mickey Finns, come le chiamava lui, un po’ gergale e un po’ letterario: erano amfetamine. Simpson era stanco ma si finse allegro al raduno di partenza: gli organizzatori del Tour avevano distribuito foglie di verza da mettere sotto il berretto perché aiutassero i ciclisti a tenere la testa fresca sotto il sole; Tommy teneva in mano la borraccia e ne spruzzava l’acqua su quella verdura degli amici, benedicente come sulle palme della domenica prima di Pasqua. Si toccò i taschini posteriori della maglietta di cotone: Mickey Finn era lì. Partirono verso Carpentras: bisognava passarci, poi scalare il Ventoux e ornarci dall’altra parte del Gigante della Provenza, lo chiamavano i locali, quel Dio del Male “salire sul quale non è da pazzi: lo è ritornarci” come scandiscono gli abitanti del posto. Lì, quando la strada comincia a salire verso il cielo dove è invece l’inferno, sì incontrano prima una foresta che nasconde il sole, poi una macchia mediterranea e infine il nulla che lo svela, lo sposa con i venti che s’incrociano da sud e da nord e porta al nulla. Le pendenze sono anche del 15 per cento. Jimenez, scalatore spagnolo, cominciò a menare la danza; Poulidor gli si incollò alla sella, superandolo di quando in quando ma non per aiutarne la fuga bensì per interromperne il ritmo perché il suo capitano, Pingeon, doveva difendere la maglia gialla. In quel gruppetto intrepido con loro tre erano Gimondi e Balmamion e, tra i pochi, Janssen che avrebbe vinto la tappa. Tommy cominciò ad arrancare quando fu investito dal sole senza riparo. Colin Lewis, il gregario, si fermò a un bar: prese una coca cola e un quarto di bottiglia di cognac per il capitano assetato e disidratato; passò Aimar, ciclista francese, e offrì una borraccia a Tommy che nemmeno si accorse del gesto. Aveva lo sguardo sperduto, le gambe pedalavano da sole e faticosamente, Tommy dov’era? Prese il cognac, bevve per mandar giù la compressa che aveva tirato fuori da uno dei tre tubetti. Andava avanti a zig zag che sembrava stesse per cadere da un attimo a quello dopo, attimi eterni. “On, on, on” diceva, “avanti, avanti, avanti”. Lo fermarono, lo sdraiarono su di una petraia, il medico del Tour, il dottor Pierre Dumas, gli praticò la respirazione bocca a bocca, un chilometro e mezzo più su Jimenez scollinava per primo e solitario. Fu ripreso nella discesa, mentre un elicottero arrivò per portare Simpson all’ospedale di Avignone. In discesa ripresero Jimenez, fecero una volata a Carpentras; Janssen arrivò primo. Tommy arrivò morto ad Avignone. Nella chiesa sconsacrata di Carpentras dove era posta la sala stampa il dottor Dumas comunicò la tragedia: “Non è stata autorizzata la sepoltura” disse, annunciando l’autopsia. I risultati furono resi noti il 2 agosto: l’amfetamina fu catalogata come una delle cause, insieme con il caldo, il sole, il vento che aiutavano a nascondere quel che era successo quel giorno nel ciclismo, quando non erano arrivati soltanto Janssen al traguardo di tappa, Simpson alla fine della sua vita: era arrivato, ufficialmente, il doping nel ciclismo.

Danilo Di Luca, la vita dopo la radiazione dal ciclismo per doping «Vendo le mie bici da 16 mila euro». Marco Bonarrigo e Gaia Piccardi, inviati a Pescara, su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2020. C’è il mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. E poi, agli antipodi, c’è Danilo Di Luca, 44 anni, detto il «killer di Spoltore», il più grande talento del ciclismo italiano post-Pantani, una Freccia Vallone, un’Amstel, una Liegi, un Giro di Lombardia, un Giro d’Italia, nel 2007, vinto alla sua maniera: faccia tosta, fin troppo. Tre squalifiche in sei anni: la prima per frequentazione del discusso medico abruzzese Carlo Santuccione, la seconda e la terza, fatale, per uso di Epo. Il 5 dicembre 2013 il Tribunale nazionale antidoping emette la sentenza definitiva: radiazione. Capelli meno chiari di un tempo, stessi occhi freddi e intelligenti: «Nel club dei radiati siamo soltanto in due: io e un certo Lance Armstrong». La seconda vita del biondino che s’iniettava Epo e Cera prima di andare a dormire (sei ore di anticipo sull’arrivo dei medici gli avrebbero dovuto garantire l’impunità ai controlli, non fu così) ricomincia dove tutto è iniziato: Pescara, una bella via del centro, negozio «Di Luca» di bici da corsa per appassionati con la Visa senza plafond. Prodotti d’eccellenza («Il telaio custom con le borchie di Gucci e Valentino costa oltre 16 mila euro ma li vale: è carbonio unidirezionale, il più pregiato»), clientela d’elite («Inglesi, danesi, spedisco molto a Miami, vorrei entrare presto nel mercato asiatico»), un profilo Instagram da 11.500 follower («Fondamentale: lì possono vedermi in tutto il mondo»), design suo («Papà falegname, fratello architetto, io faccio fruttare l’Istituto d’arte dove ero uno studente svogliato: la bici Mondrian è nata così»), un ingegnere che trasforma i disegni in progetti, gli stampi del carbonio a Taiwan, verniciatura a Padova e zero, assolutamente zero, rimpianti: «Sarebbe ipocrita, all’epoca tutti facevano quello che bisognava fare per vincere. Nel mio ciclismo era impossibile riuscirci senza doping: se volevi risultati, dovevi adeguarti o mollare tutto. E io volevo vincere, a qualunque costo, fin da bambino. Triste, tristissimo ma era così. Oggi è cambiato tutto, per fortuna. Non posso dire che l’Epo facesse bene, ma c’era modo e modo di assumerla: se ti facevi il giusto, non rischiavi. Chi esagerava o faceva le trasfusioni da solo si giocava la vita: di esempi ce ne sono fin troppi...». Il re delle vittorie sporche in uno sport zozzo? Manco per niente: «Vincevo perché ero il più forte. Se nessuno di noi si fosse dopato, avrei vinto lo stesso come avrebbe vinto Pantani, un fenomeno molto più forte di me: bastava vederlo pedalare per capire». Alle pareti dell’ufficio, oltre ai telai e agli scarpini da 500 euro degni di una boutique di lusso, due foto: una grande del podio del Giro 2007, con il Trofeo Senza Fine in braccio (l’originale pende dal soffitto, recuperato e lucidato dopo anni in soffitta), un’altra dove Danilo sorride al fianco di un signore con gli occhiali e lo sguardo triste: Carlo Santuccione, medico condotto pescarese, il suo mentore, squalificato a vita dal Coni per procurato doping. «È morto tre anni fa, era il mio secondo padre. Per tutti lui era il dopatore, io il dopato. Liberi di crederlo. Ma Carlo era una persona magnifica, medico di famiglia di vecchio stampo che ha salvato molte persone. Ai miei tempi la questione non era se certi medici ti aiutassero a doparti o meno ma se tenessero alla tua salute quando chiedevi loro come doparti: lui mi amava come un figlio».

Quello che aveva perso, Danilo Di Luca ha saputo ricostruire: «Mi sono fatto male, però oggi faccio il mestiere che mi piace. Non essere più nel ciclismo mi dispiace ma non ho bisogno di quel mondo per vivere». Dice che desidera un figlio con la nuova compagna: «Ci stiamo provando...». E il biondo per un attimo s’illumina, ridandoci speranza nel potere taumaturgico della redenzione.

Armstrong shock: «Il doping forse ha causato il cancro. Ho iniziato a 21 anni...» Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it. «Non posso sapere con certezza se ci sia stato un legame tra doping e il cancro ma certamente non posso escluderlo». Lance Armstrong torna a parlare e le sue rivelazioni fanno notizia: «La prima volta che usai sostanze? Penso intorno ai 21 anni», le parole del texano che si è raccontato in un documentario della ESPN che uscirà il 24 maggio e del quale il tabloid inglese Sun e lo spagnolo Marca hanno diffuso una anticipazione. Armstrong è stato squalificato a vita nel 2012 dopo l’ammissione di aver fatto uso di sostanze dopanti e privato a tavolino della vittoria di 7 Tour de France. «Non posso sapere con certezza se ci sia stato un legame tra doping e il cancro — le parole di Armstrong — ma certamente non posso escluderlo. L’unica cosa che dirò è che l’unica volta nella mia vita che ho fatto uso dell’ormone della crescita è stato proprio nel 1996. Già nella mia prima stagione da professionista assumevo il cortisone, ma l’Epo era di un altro livello. La prima volta che usai sostanze? Penso intorno ai 21 anni. Sapevo quello che stava succedendo. Ho sempre chiesto, sempre saputo e ho sempre preso le mie decisioni da solo. Non voglio trovare scuse, ma lo facevano tutti e avrei vinto ugualmente».

Le nuove verità di Lance Armstrong: "L'Epo è molto più sicura di altre sostanze". Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 da La Repubblica.it. Il doping già a 21 anni, i benefici dell'Epo, il possibile legame fra il suo cancro e il ricorso agli ormoni della crescita, i maltrattamenti da parte del patrigno. Lance Armstrong si mette a nudo in un documentario della ESPN, una serie di interviste condotte nel 2018 e nel 2019 da Marina Zenovich (tre ore e 20 minuti la durata complessiva), la cui prima parte è stata trasmessa nella serata di domenica in America sul canale sportivo sull'onda dell'immenso successo di "The Last Dance" che ha ripercorso l'epopea di Michael Jordan e dei Chicago Bulls nella Nba. "Non ti mentirò, ti racconterò la mia verità", le parole, pronunciate come una promessa, dell'ex star decaduta del ciclismo, che sette anni dopo aver ammesso di essersi drogato durante un'intervista televisiva si è nuovamente confessato di fronte a una telecamera in "Lance". "Prime sostanze a 21 anni: sapevo cosa accadeva". Contrariamente a quanto aveva detto ad Oprah Winfrey, ora il texano rivela di aver iniziato a doparsi già nel 1992 e non nel 1996. "Probabilmente avevo 21 anni, era durante la mia prima stagione da professionista - ha affermato Armstrong - Ci venivano praticate iniezioni di vitamine e cose del genere? Sì, ma non era illegale. E chiedevo sempre cosa mi veniva dato. Sapevo quello che stava succedendo. Ho sempre chiesto, sempre saputo e ho sempre preso le mie decisioni da solo. Nessuno mi ha mai detto 'Non fare domande, te lo diamo e basta'. Non lo avrei mai accettato. Ho chiesto, è stato un passo da parte mia". Era il cortisone la sostanza assunta a quei tempi dall'atleta statunitense, laureatosi nel 1993 campione del mondo su strada a Oslo, uno dei rari titoli di cui non è ancora stato privato. Il 48enne ciclista americano ha vinto sette edizioni consecutive del Tour de France, dal 1999 al 2005, cancellate però a tavolino dopo che Armstrong è stato squalificato a vita nel 2012 per l'ammissione di aver fatto uso di sostanze dopanti a seguito dell'indagine dell'Usada che lo ha collocato a capo del "sistema di doping più sofisticato, professionale ed efficace nella storia dello sport". La prima puntata del documentario si è comunque soffermata su un altro periodo della vita di Armstong, quasi costretto al ritiro nel 1996 per un cancro ai testicoli, malattia combattuta con grande determinazione e coraggio. "Non posso sapere con certezza se ci sia stato un legame tra doping e il cancro ma certamente non posso escluderlo - ammette Lance -  La sola cosa che posso dire è che l'unica volta nella mia carriera in cui ho fatto uso dell'ormone della crescita è stato proprio nel 1996. Quindi in un angolo della mia testa, la domanda c'è...". Un anno prima Armstrong aveva deciso di rivolgersi al medico Michele Ferrari: "Ho fatto tutto quel che ha detto, avevo cieca fiducia in lui (...) Tutto ciò di cui avevo bisogno erano i globuli rossi." Riguardo all'Epo, l'ex corridore ha un'opinione ben precisa: "Quello che sto per dire non sarà popolare, ma per molti aspetti è un prodotto sicuro. Fintanto che lo usi con parsimonia, in quantità limitata, sotto la supervisione di un medico professionista. Ci sono sostanze molto più pericolose da iniettare nel tuo corpo" Al punto che "non è stato difficile" per lui recuperare dopo il cancro. 

I maltrattamenti del patrigno: "Trattato come un animale". Armstrong ricorda anche la sua infanzia segnata dall'assenza di un padre e dalla violenza di un patrigno, che lo colpiva "per un cassetto lasciato aperto". "Senza di me Lance non sarebbe diventato un campione, perché l'ho trattato come un animale", il parere da parte sua di Terry Armstrong, con il rimpianto di averlo reso "un vincitore a tutti i costi". Infine, l'ex atleta americano racconta come a 15 anni abbia infranto le regole usando un certificato di nascita falso per partecipare a una gara di triathlon: "Dovevi avere 16 anni. Falsificare il certificato, partecipare illegalmente e battere tutti", la verità del texano. E - come già accaduto in passato - c'è da credere che le sue rivelazioni susciteranno altre reazioni nel mondo del ciclismo.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 26 maggio 2020. «Non mi costava nessuna fatica mentire: ho detto migliaia di bugie. Ero convincente, mentivo guardandoti dritto negli occhi: io dopato? Come osi pensarlo? Bugie e arroganza. Ero un animale da corsa: quando scendevo dalla bici non avevo idea di come gestire un rapporto umano». Se con «The Last Dance» l' America celebra Michael Jordan, eroe assoluto dello sport, con «Lance» (in onda da ieri negli Usa) Espn seppellisce il suo campione più disgraziato, Lance Armstrong. Rivelazioni poche, le due puntate sono piuttosto un viaggio profondo nell' animo tormentato dell' uomo che ha vinto sette Tour de France e raccolto miliardi per la lotta ai tumori prima di veder sbriciolata la sua reputazione. Si parte da un ragazzino problematico: «Un bulletto negato per baseball e basket che voleva disperatamente eccellere. Provai nuoto e triathlon e poi incontrai il ciclismo, sport selvaggio come me». Si passa al dopato precoce. «A 21 anni prendevo l' ormone della crescita che stimola il buono e il cattivo nell' organismo. Possibile sia stato causa del mio cancro». Armstrong a 25 anni sviluppa un tumore devastante («Andai dal medico solo dopo aver tossito sangue a fiotti: la mia cucina sembrava una scena del crimine») e poi, dopo operazioni e cure pesanti, torna in sella con lo stesso pensiero fisso in testa: «Doparmi. Era arrivata l' Epo e sapevo che con lei potevo vincere e diventare ricco. Mi serviva solo un medico bravo, Eddy Merckx mi presentò il migliore, Michele Ferrari. Quando iniziai a vincere non dovevo nemmeno respingere le accuse: è un sopravvissuto, scrivevano i giornalisti, figuriamoci se Lance si dopa». C'è il suo disprezzo per i rivali, tutti tranne uno: «Li odiavo, odiavo questo stringersi le mani, darsi pacche sulle spalle, odiavo la loro ipocrisia. Amavo solo Jan Ullrich, mio grande avversario. Venivamo entrambi da famiglie sfasciate, abbiamo vinto tutto col doping e poi gettato al vento fama, denaro e matrimoni diventando due reietti. L'ho incontrato in Germania mentre provava a disintossicarsi: è stato angosciante». Di tre cose si è pentito: «Ho rovinato la vita a Emma O' Reilly, la mia massaggiatrice, dandole pubblicamente della prostituta per avermi smascherato. Ho rovinato Filippo Simeoni, il corridore che denunciò il mio legame col dottor Ferrari. Avrei potuto metterlo in un angolo, lo minacciai come un boss mafioso durante la diretta televisiva del Tour. Sono stato osceno quando ho piantato mia moglie Kristin e i bambini per flirtare con la starlette di turno». Sulla caduta: «Mi hanno incastrato i miei ex compagni. Tutti. Con una firma sui loro verbali avrei avuto un sconto di pena e mantenuto i miei sponsor. Lance testimonial dell' antidoping, il cattivo redento che insegna agli altri a non peccare. Li mandai a farsi fottere. Ho confessato da Oprah in tv perché volevo scegliere io come e dove immolarmi». E l' epilogo: «Ho chiuso i conti con la giustizia ma resterò un emarginato. Gli italiani glorificano un ex ciclista come Ivan Basso, gli offrono un lavoro, lo invitano in tv. Eppure Ivan ha fatto cose simili a quelle che ho fatto io. L' Italia ha ucciso Pantani, la Germania disprezza Ullrich e gli americani mi odiano. Per tre come noi non ci sarà redenzione».

Da corrieredellosport.it il 28 maggio 2020. “Ho deciso di raccontare tutta la mia verità”. Lance Armstrong, forse il più grande truffatore della storia del ciclismo, lo ha fatto in un lungo documentario di tre ore e un quarto spezzato in due puntate, la prima andata in onda su ESPN negli Usa la scorsa notte e la seconda on air il prossimo lunedì. In Europa arriverà a fine giugno. “Lance”, questo il titolo del documentario-film realizzato da Marina Zenovich, è la storia di un campione (o presunto tale) pronto a tutto pur di primeggiare. Pronto a doparsi come un cavallo con l’unico intento di vincere, sempre e comunque. “Lance” è l’anti “The Last Dance”, da una parte c’è lui, dall’altra Michael Jordan. Una divinità del basket da una parte, un millantatore senza possibilità di redenzione dall’altra. Il documentario racconta l’ascesa dell’atleta fino all’apice come “divo del ciclismo e della lotta al cancro” e poi il suo rapido declino come bugiardo seriale e truffatore in piena regola. Lance non è una biografia ma un viaggio nell’animo malato di un uomo che ha perso completamente il contatto con la realtà (“Mi sono ritrovato a mentire guardando la gente negli occhi tanto ero abituato a farlo. Avrò costruito un castello di migliaia di bugie”).

Il doping a 21 anni e il tumore. Il primo incontro tra Armstrong e il doping avviene presto, a soli 21 anni. Lance si affida all’ormone della crescita per vincere il mondiale di Oslo nel 1993 (“Mi superavano tutti, mi ero stancato di restare indietro, di uscire sconfitto. Io volevo cominciare a vincere e non fermarmi più. Divenne un’ossessione”). Spararsi ormoni nel corpo su una scelta devastante per il suo organismo: arrivò il devastante tumore ai testicoli e al cervello che Lance riuscì a superare. Dal ritorno alle corse in poi,  Armstrong non si fermò più. Provò ogni tipo di sostanza dopante “con l’imbarazzo di non dovermi nemmeno difendermi visto che per tutti ero l’eroe che aveva sconfitto un tumore e quindi al di sopra di ogni sospetto”. Nel 1998 incontrò l’Epo e fu un’attrazione fatale: “Tutti ne facevano uso, era un farmaco che ti faceva andare fortissimo senza rischi per la salute, al contrario degli ormoni che ti facevano crescere le cose buone e quelle cattive, come appunto il tumore”.

Il ritorno alle corse e il senso di onnipotenza. Armstrong lasciò il ciclismo dopo aver vinto sette Tour de France. Si godette la vita, i soldi e il successo per tre anni (“Persi tempi appresso a starlette per le quali lasciai mia moglie e la mia famiglia”), poi decise di tornare nel 2008. Era annoiato e stava guardando il Tour de France in tv: “Stavo benissimo fisicamente e vidi la vittoria di Sastre. Se uno come quello poteva vincere il Tour, lo avrei potuto fare serenamente anche io per l’ottava volta. In pochi appoggiarono la mia decisione”.

Da Basso a Pantani, gli attacchi ai ciclisti italiani. C’è spazio anche per gli italiani in questo documentario. Non sono parole dolci, tutt’altro. L’accostamento all’Epo dei vari fuoriclasse azzurri, tanto per cominciare. Nel documentario ci sono parecchi video e foto inediti che ritraggono Armstrong sul lago di Como, location da sogno che accompagnò la vita del ciclista americano per due anni. C’è anche una clip che ritrae Lance parlare durante un’intervista alla tv svizzera un corretto italiano. Ma torniamo alle bordate: “L’Italia glorifica Ivan Basso, lo tiene in gran conto gli offre un lavoro e lo invita in tv. Eppure lui non è molto differente da me o Jan Ullrich. L’Italia ha demolito e ucciso Pantani, la Germania disprezza Ullrich ma ama Zabel che pure era dopato. E Pantani è morto, fottutamente morto". Quando si parla di Italia non può non esserci un grande capitolo dedicato anche al rapporto con il medico Michele Ferrari: "Ho fatto tutto quel che ha detto, avevo cieca fiducia in lui. Tutto ciò di cui avevo bisogno erano i globuli rossi".

Le lacrime di Armstrong alla vista di Ullrich. Nel documentario si vede anche Armstrong piangere. Lo fa ricordando un episodio della sua vita molto drammatico dopo il suo ritiro. "Sono andato a trovare Jan Ullrich in Germania, nella struttura dove si disintossicava e non è stato affatto un bel viaggio. L’hanno incastrato, Jan, proprio come me. Gli voglio bene, è stata la persona più importante nella mia vita. E’ l’avversario che ho rispettato più di tutti, anzi l’unico. Le nostre storie sono molto simili, a cominciare dalla nostra infanzia difficile. Jan aveva tutto quello che avevo io, una moglie, bambini, tanti soldi ma non è servito a tenere e tutto assieme. Tutto per colpa di questo fottutissimo sport”.

Il figlio di Armstrong: "Non mi sono nascosto". Poi c’è la famiglia, distrutta dalla fama di successo di Lance. A cominciare dal figlio Luke David che appare nel documentario con una confessione da brividi: “Ho sempre pensato che mio padre col doping non c’entrasse nulla, la sera in cui ha confessato tutto da Oprah avevo 12 anni. Il giorno dopo mia madre mi suggerì di non andare a scuola, di prendermi qualche giorno di riposo. Io non le diedi retta: volevo guardare tutti in faccia”. Impressionante anche la frase che aggiunge il padre: "Luke adesso va al college ed è un talento del football americano. Se volesse parlare con me di doping? Gli direi che doparsi così giovane e a questo punto della sua carriera non conviene. E se mi dicesse che si dopa già? Beh, non saprei cosa rispondergli”.

Le tre cose di cui si pente Armstrong. Di tre cose Lance non va fiero. "Ho rovinato la vita a Emma O’Reilly, la mia massaggiatrice, minacciandola e dandole pubblicamente della prostituta per avermi smascherato. Aveva solo raccontato la verità". Il secondo: "Ho rovinato la carriera e la vita a Filippo Simeoni, il corridore che denunciò il mio legame col dottor Ferrari. Avrei potuto metterlo in un angolo e minacciarlo, lo feci come un boss mafioso durante la diretta televisiva del Tour". Il terzo: "Sono stato osceno quando ho piantato mia moglie Kristine e i bambini per flirtare con la starlette di turno. Due giorni dopo aver lasciato casa ero già sulle copertine con un bicchiere in mano".

Trattato come un animale dal patrigno. Infine Armstrong ricorda anche la sua infanzia, segnata dall'assenza di un padre e dalla violenza di un patrigno, che lo colpiva "per un cassetto lasciato aperto". "Senza di me Lance non sarebbe diventato un campione, perché l'ho trattato come un animale", il parere di Terry Armstrong, con il rimpianto di averlo reso "un vincitore a tutti i costi".

Lance Armstrong, accusa-shock all'Italia: "Avete ucciso Marco Pantani". Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Lance Armstrong è il protagonista di un lungo documentario di tre ore e un quarto sulla sua carriera ciclistica. In Usa è andato in onda la prima parte, la seconda si vedrà lunedì In Europa arriverà a fine giugno. Il titolo del documentario è Lance, realizzato da Marina Zenovich ed è la storia, scrive il Corriere dello Sport di "un campione (o presunto tale) pronto a tutto pur di primeggiare. Pronto a doparsi come un cavallo con l’unico intento di vincere, sempre e comunque". C’è spazio anche per gli italiani come Marco Pantani e Ivan Basso.  “L’Italia glorifica Basso, lo tiene in gran conto gli offre un lavoro e lo invita in tv. Eppure lui non è molto differente da me o Jan Ullrich. L’Italia poi ha demolito e ucciso Pantani. Marco è morto, fottutamente morto", ricorda amaro lo statunitense. Il primo incontro tra Armstrong e il doping avviene presto, a soli 21 anni. Si affida all’ormone della crescita per vincere il mondiale di Oslo nel 1993 (“Mi superavano tutti, mi ero stancato di restare indietro, di uscire sconfitto. Io volevo cominciare a vincere e non fermarmi più. Divenne un’ossessione”).  Ma con la conseguenza di un terribile tumore ai testicoli e al cervello che però riuscì a superare. Nel 1998 incontrò l’Epo: “Tutti ne facevano uso, era un farmaco che ti faceva andare fortissimo senza rischi per la salute, al contrario degli ormoni che ti facevano crescere le cose buone e quelle cattive, come appunto il tumore”. 

"Caro Lance, mi dispiace ma io ho pagato il conto degli errori nel ciclismo". L'ex azzurro risponde ad Armstrong, che si lamenta del diverso trattamento nell'ambiente. Pier Augusto Stagi, Mercoledì 27/05/2020 su Il Giornale. Il bulletto fa l'ultimo balletto, anche se temiamo continuerà ad agitarsi ancora un po', perché fermo non è mai stato capace di stare, e di questi tempi anche di lingua va veloce. Dance Armstrong parla e danza, nel documentario Lance, in onda da lunedì negli Usa su Espn e firmato da Marina Zenovich. Due puntate sul sopravvissuto al cancro che seppe successivamente vincere 7 Tour de France. Una storia pazzesca, conclusa nel peggiore dei modi. La sua storia è magnifica, fino ad un certo punto, però. Poi c'è l'inganno. Il Grande Inganno. Il più grande di tutti, con la complicità dell'organizzazione mondiale del ciclismo (Uci, ndr) che l'ha protetto al pari della più importante corsa ciclistica del mondo: il Tour de France. Alla fine sarà sbugiardato (da livestrong, a liestrong) dalla giustizia ordinaria americana, non da quella sportiva. Quella ha sempre chiuso entrambi gli occhi, non ha mai visto nulla, fin quando è stata costretta ad aprirli, ma ormai era tardi. Maledettamente tardi. Su Lance Armstrong sono usciti libri e film (The Program), ora anche questo documentario, che aggiunge ben poco alla narrazione di uno degli sportivi più arroganti e bari che lo sport abbia mai conosciuto. Un «dopato precoce», che conosce il dottor Mito, Michele Ferrari, grazie a Eddy Merckx, che glielo presenta. Parla di Ullrich e di Pantani, di Filippo Simeoni - che con il Giornale nei giorni scorsi si è aperto («È venuto in Italia per chiedermi scusa, ora sarei anche d'accordo per una sua riabilitazione», ha detto) - e di Ivan Basso, con il quale non è stato certamente carino. In pratica del campione varesino il texano ha detto che a lui offrono lavoro e lo invitano in tivù, «eppure Ivan ha fatto cose simili alle mie».

Ivan, cosa ha pensato nel sentirsi chiamare in causa da Lance Armstrong?

«Francamente non ho visto il documentario e non so se si sia espresso in quel modo. Da parte mia posso solo dire che a Lance sono e sarò sempre grato, perché con me si è sempre comportato non solo bene, ma benissimo. Quando mia mamma Nives si ammalò di cancro, lui si fece in quattro per darci una mano. Stessa cosa quando il problema toccò a me nel 2015. Cosa posso dirle, con me è stato davvero generoso e disponibile».

Però l'ha chiamata in causa.

«Io nel ciclismo ho fatto tante cose belle e meno belle. Nel 2006 sono stato coinvolto nell'Operacion Puerto, e per questo sono stato messo spalle al muro: ho confessato le mie colpe (frequentazione di un medico Eufemiano Fuentes inibito per questioni di doping) e ho pagato con due anni di squalifica. Dal paradiso sono finito all'inferno, adesso da oltre quindici anni lavoro con impegno nel mondo del ciclismo. Con Alberto Contador gestiamo una squadra di ragazzi, e nel mondo del ciclismo abbiamo tanti altri interessi. Cerchiamo di dare il nostro contributo per far si che questo sport possa essere migliore».

Lance era il migliore?

«Ho letto l'intervista del Giornale a Filippo Simeoni: l'ho apprezzata molto. Ha detto cose giustissime. Quello era un ciclismo molto particolare, però Lance era una forza della natura, avrebbe vinto sempre e comunque».

Meglio lui o Pantani?

«Marco era il genio assoluto. Il talento. Nessuno come lui. Nessuno».

Sa che Marco non ha mai amato Armstrong, del quale ha sempre dubitato: pensava non solo che potesse ricorrere a cure esclusive, ma fosse anche protetto...

«Lo so».

Cosimo Cito per “la Repubblica” il 27 maggio 2020. "La cosa è stata sotto gli occhi di tutti". Il racconto di Filippo Simeoni, in diretta tv, alla fine della terz'ultima tappa del Tour 2004. Armstrong era andato a prenderlo in maglia gialla, gli aveva chiesto di rinunciare alla fuga, l'aveva minacciato. Mesi prima Simeoni aveva testimoniato contro Michele Ferrari, il dottor Mito regista occulto dei successi del texano, e Armstrong l'aveva punito e l'aveva fatto vedere a tutti, mimando il gesto di chiudersi la bocca. Nella prima puntata di LANCE, il documentario della Espn in onda in questi giorni (il secondo e ultimo episodio nella notte tra domenica e lunedì), Armstrong è tornato su quell'episodio: "Sono stato un fottuto stronzo. Quello che pensavo fosse stato brutto, era stato orribile". Nel 2013 Filippo Simeoni e Lance Armstrong si sono incontrati a Roma, ne hanno riparlato, si sono confrontati e il texano si è scusato. Lo ha raccontato, Simeoni, in un'intervista per il Giornale. Ora aggiunge dei dettagli importanti.

Perché, per anni, non ha mai raccontato quell'episodio?

"Volevo capire se il suo pentimento fosse sincero. Lo era".

Come fa a dirlo?

"Lo guardai negli occhi. Gli raccontai quello che mi aveva fatto passare, lui non mi conosceva a fondo e io non conoscevo lui. Ne presi atto ma ho impiegato anni per metabolizzarlo. Poi ho avuto occasione di parlarne con Gianni Mura".

Mura la intervistò per il Venerdì, nell'ottobre del 2015. Come andò?

"Mura venne da me qui a Sezze, nel mio bar. Parlammo del film The Program ed ebbi modo di raccontargli l'incontro con Lance. Ma gli chiesi di non scriverne, perché avevo bisogno di tempo. Gianni si rivelò un gran signore, non ne scrisse mai, ma mi disse: "Filippo, quello di Armstrong è un gesto importante, se lo raccontassi gli renderesti giustizia. Ha avuto il coraggio di chiederti scusa. Non è da tutti". Quando Gianni è scomparso, mi sono venute in mente quelle parole. Mi sono convinto solo ora perché ho capito che parlarne mi avrebbe liberato".

Armstrong avrebbe voluto rendere pubbliche quelle scuse?

"Sì. Quell'anno era venuto in Europa a incontrare anche altri ex corridori che aveva danneggiato con il suo comportamento. Quando mi chiamò accettai senza remore. E ora posso dire di averlo perdonato e che non ho più risentimento nei suoi confronti".

Cosa pensa di Armstrong e di tutto quel che gli è poi successo?

"Si è realizzata una sorta di giustizia divina, ma la sua caduta, le sue vicissitudini giudiziarie, le sue difficoltà finanziarie, beh, tutto questo mi dispiace. Ma c'è un insegnamento".

Qual è?

"Ha commesso degli errori e dei soprusi, ma ha perso tutto in un attimo. Ha pagato tutto, ogni centesimo di gloria, in sofferenza. Mi fa pena, ma è una storia terribilmente umana. E i giovani devono conoscerla, per non ripetere gli stessi errori. Bisogna essere solidi, avere principi. E non parlo solo dei giovani ciclisti".

Vi siete più cercati da allora?

"Ci siamo scritti qualche mail, gli ho augurato di uscire presto da tutte le vicende giudiziarie. Posso dire di averne subito il fascino. È un personaggio enorme. E ha tutta la vita davanti ancora".

C'è qualcosa che vorrebbe sapere o chiedergli, ancora?

"Sì, una cosa che quel giorno non siamo riusciti a mettere a fuoco, qualcosa che io ho provato a sapere e lui ha evitato di dirmi in modo chiaro. Parlo del Giro 2009".

Armstrong, al rientro dopo il primo ritiro, viene invitato con tutti gli onori al Giro e lei, campione italiano in carica, e la sua Ceramica Flaminia, no.

"Avrei voluto sapere qual era stato il suo ruolo in quella decisione, se avesse espresso lui un veto sulla mia presenza. Non riuscii più a trovare motivazioni e volontà per ripartire dopo quella che io considerai un'ingiustizia. È tutto passato, ma questo dettaglio vorrei ancora chiarirlo, se sarà mai possibile".

Lei oggi ha un bar a Sezze, in provincia di Latina, e segue una piccola squadra di ciclismo con ragazzini della sua zona.

"Abbiamo riaperto lunedì, tanta gente è venuta a prendersi il primo caffè dopo tanta paura. Dei cinque dipendenti che avevo, ora ne ho solo due. Proviamo a ripartire. E poi faccio da sponsor a questa piccola squadra di ragazzini, ne ho una sessantina, di tutto il circondario: Sezze, Veroli, Priverno, Atina. Ho poco tempo, ma metto a disposizione la mia esperienza".

Il ciclismo di oggi è un mondo migliore di quello che lei ha lasciato, oltre dieci anni fa?

"Gli anni in cui ho corso io sono stati terribili. Ho sempre pensato che ci sarebbero voluti decenni per sradicare il doping. È stato fatto tanto e sono convinto che il ciclismo sia molto più pulito. Ma puoi essere smentito da un momento all'altro. Questo vale ora, come allora".

Pier Augusto Stagi per “il Giornale” il 27 maggio 2020. Il bulletto fa l' ultimo balletto, anche se temiamo continuerà ad agitarsi ancora un po', perché fermo non è mai stato capace di stare, e di questi tempi anche di lingua va veloce. Dance Armstrong parla e danza, nel documentario Lance, in onda da lunedì negli Usa su Espn e firmato da Marina Zenovich. Due puntate sul sopravvissuto al cancro che seppe successivamente vincere 7 Tour de France. Una storia pazzesca, conclusa nel peggiore dei modi. La sua storia è magnifica, fino ad un certo punto, però. Poi c' è l' inganno. Il Grande Inganno. Il più grande di tutti, con la complicità dell' organizzazione mondiale del ciclismo (Uci, ndr) che l' ha protetto al pari della più importante corsa ciclistica del mondo: il Tour de France. Alla fine sarà sbugiardato (da livestrong, a liestrong) dalla giustizia ordinaria americana, non da quella sportiva. Quella ha sempre chiuso entrambi gli occhi, non ha mai visto nulla, fin quando è stata costretta ad aprirli, ma ormai era tardi. Maledettamente tardi. Su Lance Armstrong sono usciti libri e film (The Program), ora anche questo documentario, che aggiunge ben poco alla narrazione di uno degli sportivi più arroganti e bari che lo sport abbia mai conosciuto. Un «dopato precoce», che conosce il dottor Mito, Michele Ferrari, grazie a Eddy Merckx, che glielo presenta. Parla di Ullrich e di Pantani, di Filippo Simeoni - che con il Giornale nei giorni scorsi si è aperto («È venuto in Italia per chiedermi scusa, ora sarei anche d' accordo per una sua riabilitazione», ha detto) - e di Ivan Basso, con il quale non è stato certamente carino. In pratica del campione varesino il texano ha detto che a lui offrono lavoro e lo invitano in tivù, «eppure Ivan ha fatto cose simili alle mie».

Ivan, cosa ha pensato nel sentirsi chiamare in causa da Lance Armstrong?

«Francamente non ho visto il documentario e non so se si sia espresso in quel modo. Da parte mia posso solo dire che a Lance sono e sarò sempre grato, perché con me si è sempre comportato non solo bene, ma benissimo. Quando mia mamma Nives si ammalò di cancro, lui si fece in quattro per darci una mano. Stessa cosa quando il problema toccò a me nel 2015. Cosa posso dirle, con me è stato davvero generoso e disponibile».

Però l' ha chiamata in causa.

«Io nel ciclismo ho fatto tante cose belle e meno belle. Nel 2006 sono stato coinvolto nell' Operacion Puerto, e per questo sono stato messo spalle al muro: ho confessato le mie colpe (frequentazione di un medico Eufemiano Fuentes inibito per questioni di doping) e ho pagato con due anni di squalifica. Dal paradiso sono finito all' inferno, adesso da oltre quindici anni lavoro con impegno nel mondo del ciclismo. Con Alberto Contador gestiamo una squadra di ragazzi, e nel mondo del ciclismo abbiamo tanti altri interessi. Cerchiamo di dare il nostro contributo per far si che questo sport possa essere migliore».

Lance era il migliore?

«Ho letto l' intervista del Giornale a Filippo Simeoni: l' ho apprezzata molto. Ha detto cose giustissime. Quello era un ciclismo molto particolare, però Lance era una forza della natura, avrebbe vinto sempre e comunque».

Meglio lui o Pantani?

«Marco era il genio assoluto. Il talento. Nessuno come lui. Nessuno».

Sa che Marco non ha mai amato Armstrong, del quale ha sempre dubitato: pensava non solo che potesse ricorrere a cure esclusive, ma fosse anche protetto...

«Lo so».

La leggenda di Luigi Malabrocca e la lezione di arrivare (sempre) ultimo. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Beltramin. Se oggi il suo nome non dice molto, ai tempi era popolare (quasi) quanto Coppi e Bartali. La nipote Serena gira le scuole per insegnare a rovesciare la prospettiva. Giugno 1949, in una cascina sperduta sulla Pianura Padana. Il contadino sente un rumore sospetto provenire dal magazzino. Forse un ladro, o peggio. Senza pensarci due volte prende il forcone e va a dare un’occhiata. Rannicchiato sulla paglia, si trova davanti un giovane dall’aspetto orientale, con la maglietta e i pantaloncini stretti stretti. «Un cinese!? Cosa ci fai nel mio fienile?», domanda minaccioso. L’ospite risponde con l’accento popolano di chi è cresciuto sulle sponde del Ticino: «Non mi inforchi, per carità: sto correndo il Giro d’Italia!». In effetti accanto ha una bici da corsa. Solo che per vincere, lui, deve arrivare ultimo. Luigi Malabrocca di professione ciclista gregario - ma anche meccanico-riparatore, e dopo il ritiro pescatore per i migliori ristoranti del Pavese - fin da bambino lo chiamavano tutti «Luisìn», oppure «Mala», oppure «el Cinès» per quei bizzarri, inconfondibili occhi a mandorla. Se oggi il suo nome ai più non dice nulla, ai tempi delle sue imprese era popolare (quasi) quanto Coppi e Bartali, anche se non esattamente per gli stessi meriti sportivi. Basti pensare che uno dei suoi più grandi tifosi, Mario Monicelli, gli rende omaggio nell’Armata Brancaleone, quando l’eroe eponimo per insultare il ronzino Aquilante gli urla dietro: «Malabestia!». Il vero Mala, cioè il Luisìn, era nato a Tortona nel 1920, papà ferroviere di pericolose tendenze socialiste e mamma casalinga, ultimo di sette fratelli: due erano morti nella Grande Guerra, altri due li aveva portati via la Spagnola, uno era emigrato in America e l’ultimo in Francia. Il prossimo 22 giugno compirebbe cent’anni - è morto serenamente nel 2006, nel casolare di famiglia a Garlasco - e ultimamente sta tornando a fare notizia: Matteo Caccia, Riccardo Ballerini e Massimiliano Gracili hanno portato per primi la sua epopea sui palchi dei teatri, poi l’hanno raccontata anche Luca Argentero e Carlo Lucarelli. L’illustratore Roberto Lauciello gli ha dedicato una graphic novel, appena uscita in libreria. La nipote Serena Malabrocca sta girando le scuole per trasmettere la lezione del nonno: «Quando ricordo la sua avventura - racconta - tra i ragazzi che mi ascoltano vedo sorrisi e a volte anche occhi lucidi. Si crea qualcosa di bello. La sua vita racchiude un insegnamento semplice: cambiare prospettiva, guardare le cose dal fondo, con leggerezza, può riservare sorprese. È un modo per risolvere problemi complicati, o perfino per trovare la felicità». Serena ha dedicato a Luisìn una pagina Facebook e un hashtag: #SiamoTuttiMalabrocca. Ma cosa aveva di così speciale il primo degli ultimi? Lo spiega benissimo Marco Pastonesi, che firma l’introduzione al libro a fumetti: «Rigirò Dante: il paradiso all’inferno, l’inferno in paradiso. Appoggiò Einstein: tutto è relativo. Confermò Gesù: beati gli ultimi. Nel buio delle retrovie, dall’oscurità delle cronache, sul fondo delle classifiche, Malabrocca s’illuminò di nero: decise di pedalare piano, più piano, il più piano possibile. Voleva arrivare al traguardo, ma dopo tutti gli altri». E fu questo a portarlo così vicino al cuore di chi quei corridori li stava a guardare: «Perché l’ultimo è il più fragile, debole, povero, vulnerabile, sfortunato, dunque il più umano, e tutti, ma proprio tutti, rischiano di commuoversi, intenerirsi, impietosirsi, fino a soccorrerlo, sostenerlo, aiutarlo, perché in lui si specchiano, si riflettono, si identificano». Tutto comincia al Giro d’Italia della rinascita, quello del 1946, dopo cinque anni di sospensione a causa della guerra. L’ultima volta, nel ’40, aveva vinto un esordiente ventunenne che Malabrocca conosceva bene, perché avevano gareggiato insieme da dilettanti fino a diventare amici: lo chiamava «il dardèla», «lo strafùso», uno spilungone che sembrava non avere affatto il fisico giusto per arrampicarsi in montagna e che di nome faceva Fausto Coppi. Settantanove corridori attraversano la Penisola devastata dalle bombe. Manca tutto: fabbriche, scuole, ospedali. Le strade spesso non sono percorribili e il percorso della gara viene ridisegnato più volte. Gli italiani stanno affrontando una ricostruzione che sembra interminabile, l’inflazione galoppa, molti patiscono la fame, eppure accorrono in migliaia a veder passare i loro beniamini. Il miracolo del Giro riunifica il Paese, anche se il dualismo tra Coppi e Bartali appassiona almeno quanto la scelta tra Monarchia e Repubblica. I ciclisti corrono per rabbia e per amore, ma soprattutto per guadagnarsi il pane. Malabrocca è un ragazzo sveglio e si dà da fare: consapevole di non poter competere per i primi posti in classifica generale, si concentra sui traguardi volanti, gli inutili sprint sparsi nella prima parte del percorso per vivacizzare la gara. Ogni vittoria parziale è un piccolo premio in denaro, che Luisìn da buon padre di famiglia spedisce alla moglie Ninfa. Ma è quando un giorno per caso si ritrova ultimo a fine tappa che scopre la miniera d’oro: i tifosi e gli sponsor, per solidarietà, gli offrono mance in denaro, salumi, bottiglie d’olio e altri tesori. Il giorno dopo la scena si ripete. Un pastore marchigiano gli si avvicina e gli mette una pecora tra le braccia: «Io ero l’ultimo de sei fii e nn’ho mai preso n’acca. A te che hai avuto la sfortuna d’esse l’ultimo, come me, te tocca pijà sto regalo». È un’illuminazione, come racconterà lo stesso Malabrocca all’amico scrittore Benito Mazzi, che a fine anni Novanta scrive una sua divertentissima - e poetica - biografia. «Nasce così la leggenda della maglia nera, nasce il personaggio Malabrocca, il quale astutamente starà al gioco non venendo tuttavia mai meno ai suoi compiti di gregario e di sprinter di razza». Già, perché il Cinese non è affatto il corridore più scarso della carovana: nel 1947 trionfa alla Parigi-Nantes, e quei rosiconi dei francesi titolano in prima pagina sull’Équipe: «La lanterna del Giro illumina»; nei primi Anni Cinquanta è due volte campione italiano di Ciclocross. Del resto, gli appassionati di ciclismo sanno bene che arrivare ultimo a un grande giro non è facile, non basta andare piano, serve precisione chirurgica: chi si attarda troppo finisce squalificato perché «fuori tempo massimo». Al polso due orologi «per non sbagliare i calcoli», Malabrocca nel 1946 conquista la prima maglia nera nella storia del Giro, a 4 ore, 9 minuti e 44 secondi dal vincitore Bartali. Nel 1947 raddoppia l’impresa a 5 ore, 52 minuti e 20 secondi da Coppi. A ogni tappa la concorrenza degli altri peones su due ruote si fa più pesante: «C’è chi azzarda un rallentamento, una finta foratura, per defilarsi alle sue spalle - racconta Mazzi - ma il Luisìn, cerbero implacabile, ha sotto di sé il controllo delle retrovie come Bartali e Coppi». La gente lo incita lungo la strada, i grandi inviati come Dino Buzzati e Orio Vergani stravedono per lui. Ormai il Cinese guadagna quanto i campioni finiti appena sotto il podio. L’apoteosi è al Giro del 1949. Malabrocca è una star: «Anche quest’anno - scherza in un’intervista - punto a una maglia, rosa o nera. Ma visto che la prima la indosserà Fausto, non mi resta che inseguire la seconda». E invece, una grave minaccia incombe su di lui: si chiama Sante Carollo - iscritto all’ultimo minuto al posto del Leone delle Fiandre Fiorenzo Magni, influenzato -, manovale vicentino di 25 anni, di carattere orgoglioso ma oggettivamente lentissimo. «Un soprammobile, perennemente in difficoltà, sconvolto da cotte spaventose», Malabrocca «non può tenere testa a questo mostro all’incontrario». Ci prova comunque, nascondendosi in un fienile alla penultima tappa, piatta come un tavolo da biliardo: ma quando taglia il traguardo con 2 ore di ritardo, il cronometrista ha già abbandonato la postazione, classificandolo ultimo ma con lo stesso tempo del gruppone. Negli anni successivi l’epopea della maglia nera perse il suo fascino. L’ultima fu indossata al Giro del 1951 dal trevigiano Giovanni Pinarello, ottavo di dodici fratelli (con i soldi guadagnati si aprì un’officina: le biciclette Pinarello sono diventate un’eccellenza del Made in Italy nel mondo e hanno vinto quindici Tour de France, ma questa è un’altra storia).

Nibali: "Il governo cosa fa? Quella dei ciclisti investiti è diventata una mattanza". «Un morto ogni 40 ore ma il ddl resta fermo Sembra che nessuno voglia portarlo in aula». Pier Augusto Stagi, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Per il ciclismo italiano è da anni una sicurezza, ma a Vincenzo Nibali sta a cuore anche la sicurezza sulle strade, ormai una delle tante emergenze italiane. «Il problema del ciclismo italiano è il traffico, ma quella che può apparire una battuta alla Johnny Stecchino è purtroppo una triste verità - ci spiega lo Squalo dello Stretto -. Per le festività di Capodanno ero a Fiuggi dai parenti di Rachele, mia moglie, e prima del cenone mi sono fatto come da tradizione un buon allenamento. Sulla via del ritorno, in prossimità di casa, sono incappato nell'ennesimo incidente stradale con protagonista incolpevole un ragazzino di soli 14 anni (Paolo, in coma farmacologico, ndr). Le strade sono sempre più pericolose, ormai noi ciclisti siamo d'intralcio. Le cifre sono pazzesche: un ciclista morto ogni 40 ore. È una vera mattanza, intanto però il disegno di legge sulle modifiche al Codice della Strada è dormiente e nessuno sembra volerlo portare in Parlamento». Nibali non usa mezzi termini, non l'ha mai fatto e in materia di sicurezza non è tipo da abbassare i toni, ma chiede piuttosto di alzare la soglia di attenzione. «Nel 2016 ho perso un ragazzino che correva nella mia squadra giovanile (Rosario Costa, 14 anni, ndr), anche lui travolto sulla strada davanti agli occhi di suo padre. L'anno seguente abbiamo pianto la scomparsa di Michele Scarponi, ma non passa giorno che non ci siano incidenti su due ruote. Ha ragione il Ct Cassani: la macchina ormai sta diventando un ufficio e i cellulari protesi incontrollate». Anno nuovo, Nibali esperto. Non provate a bollarlo come vecchio perché potrebbe mandarvi a quel paese: sicuro. «Intanto a 35 anni cambio vita e maglia: dal Bahrain alla Trek Segafredo dice con gli occhi che si illuminano di una luce nuova -. Sono felice di questo passaggio. Mi sembra di essere tornato a casa». C'è il Giro d'Italia in cima ai suoi pensieri. E poi i Giochi Olimpici di Tokio e un mondiale durissimo ad Aigle-Martigny, in Svizzera. «Però andiamoci piano. Facciamo un passo per volta ci dice -. Pensiamo prima al Giro. Mi dicono che sono vecchio? È almeno da tre anni che me lo dite: di vecchio c'è solo questo ritornello. Io simbolo di un movimento in declino? Io pronto a darmi da fare, ma alle mie spalle ci sono tanti corridori di assoluto livello. Vedrete, Fabio (Aru, ndr) tornerà quello di prima; Elia (Viviani, ndr) si confermerà anche quest'anno; Giulio (Ciccone, ndr) mio compagno di squadra sarà il futuro, anche se per il momento dovrà darmi una mano: io non sono ancora da pensione né da reddito di cittadinanza: io un lavoro ce l'ho e devo finire di fare alcune cose. Se quella caduta nel finale alle Olimpiadi di Rio mi è rimasta sullo stomaco? Sicuro».

·        Quelli che…il Calcio.

Cristiano Ronaldo è il giocatore del secolo: il premio ai Globe Soccer Awards 2020. Notizie.it il 27/12/2020. Cristiano Ronaldo è stato eletto migliore giocatore del secolo. Cristiano Ronaldo è stato eletto Giocatore del Secolo ai Globe Soccer Awards 2020. Il portoghese ha battuto la concorrenza dell’eterno rivale Leo Messi e dell’egiziano Momo Salah in relazione alle prestazioni e ai trofei vinti fra gli anni 2001 e 2020. L’attaccante della Juventus ha ricevuto l’onorevole riconoscimento nella splendida cornice dell’Armani Pavillion di Dubai. “Non inseguo i record, sono loro che inseguono me. E questo è bellissimo“, ha detto CR7. Cristiano Ronaldo non è l’unico premiato dei Globe Soccer Awards 2020. Il riconoscimento al miglior club del secolo è piuttosto legato all’attaccante portoghese. A vincere, infatti, è stato il Real Madrid, società in cui ha militato dal 2009 al 2018. Il miglior allenatore del secolo, invece, è Pep Guardiola. Infine, miglior agente del secolo Jorge Mendes. Per i premi annuali, invece, a trionfare su tutti i fronti è stato il Bayern Monaco. Tra i giocatori ha vinto Robert Lewandowski, insieme al suo tecnico Hans-Dieter Flick. Infine, i riconoscimenti alla carriera sono andati a Iker Casillas e Gerard Piqué.

Ronaldo miglior giocatore del secolo: "Non inseguo i record, sono loro che inseguono me..." Il "gotha" del calcio mondiale si è riunito a Dubai, negli Emirati Arabi per assegnare i riconoscimenti ai top del 2020. Ecco come è andata. Carlo Laudisa il 27 dicembre 2020 su gazzetta.it. Cristiano Ronaldo superstar ai Globe Soccer Awards, i consueti riconoscimenti ai migliori giocatori e allenatori dell'anno. Il suo sorriso apre all’ennesimo record. Sul palco CR7 è affabile più che mai nel panel con Robert Lewandowski e Iker Casillas. La prima domanda parte da una statistica incredibile: con l’inizio del 2021 sarà l’unico calciatore che va in gol da 20 anni a questa parte. Lui, più che sorpreso, ne è orgoglioso: "Bello raggiungere tanti record. Non è facile per così tanti anni ma i numeri parlano da soli. Sono orgoglioso di questi traguardi ma senza grandi compagni, club e allenatori non sarebbe stato possibile". Su quest’anno orribile per tutti lo juventino commenta con un velo di tristezza: "Giocare in stadi vuoti è noioso. Rispettiamo tutti i protocolli ma, sinceramente, questo è un altro sport. Lo faccio perché è la mia passione e per dovere professionale, ma non mi piace giocare in queste condizioni. Il pubblico mi motiva sempre, anche quando il tifo è contrario. La passione senza tifo è nulla". Ovviamente la nomination come miglior giocatore del secolo lo lusinga: "È fantastico. Sono stato nominato anche tra i migliori 11 di sempre del Pallone d’oro. È un onore. La cosa bella è che mi diverto ancora, faccio sempre le stesse cose che facevo 20 anni fa. E ho una vita fantastica". Ronaldo ha superato Messi e Salah nella graduatoria del premio Migliore del secolo 2001-2020. "Non inseguo i record, sono loro che inseguono me - ha detto CR7 -. È bellissimo. Grazie a tutte le persone che hanno votato per me e un grazie ai miei compagni di squadra, ai club con cui ho giocato, alla nazionale, alla mia famiglia e ai miei amici. È un traguardo eccezionale, questo mi dà la motivazione per continuare il mio percorso e spero di essere ancora in grado di giocare ancora per qualche anno".

Maria Strada per corriere.it il 28 dicembre 2020. Lionel Messi è il nuovo primatista di reti segnate con la maglia di un solo club, 644 contro 643. Ha strappato il primato a sua maestà O Rei, Pelé. Ha festeggiato inviando una birra per ogni gol ai portieri avversari battuti. O forse no: perché mentre il campionissimo brasiliano si è congratulato, il Santos, la storica squadra di Pelé, ha risposto polemicamente. Le reti di O Rei non sono 643, ma 1.091, e non si tratta di un errore di calcolo: le 448 reti mancanti sono state realizzate in amichevole? Devono contare. Questo perché, riporta la lunga nota del Santos, «sono state realizzate contro le principali squadre dell'epoca: l'América de México e il Colo Colo (Cile) hanno subito nove reti di Pelé ciascuno; l'Inter, una delle principali squadre europee degli anni Sessanta, altri otto gol». L'elenco dei club battuti dal tre volge campione del mondo è «immenso, con partecipanti di peso: River Plate, Boca Juniors, Racing, Universidad de Chile, Real Madrid, Juventus, Lazio, Napoli, Benfica e Anderlecht. E proprio il Barcellona dove Messi gioca fu una vittima, quattro gol in quattro partite». Lo studio è elaborato da Fernando Ribeiro, che fa parte della Asociación de Investigadores e Historiadores del Santos FC (Assophis). E prosegue sottolineando che all'epoca di Pelé si giocavano molte meno partite ufficiali rispetto a oggi, e che proprio questo fattore obbligava all'organizzazione di amichevoli anche di prestigio «disputate con uniforme ufficiale, regole ufficiali» e «con l'approvazione di federazioni nazionali e internazionali, regola imposta dalla Fifa, organizzatrice del calcio mondiale». Il Santos, quindi, sottolinea che i numeri sono numeri: un gol contro l'Eibar vale quanto uno contro il Valencia, uno contro il Transvaal (Suriname) quanto uno contro il Real Madrid. «Un piccolo esempio di quanto la statistica possa ingannare è quando analizziamo i titoli del campionato Paulista - prosegue la nota - Se consideriamo solo l'era professionistica (dal 1933), il Santos diventa il maggiore vincitore con 22 titoli, insieme al Corinthians. In questo modo supera il Palmeiras, fermo a 19. Ma senza dubbio il revisionismo storico non può cancellare la storia: i titoli dell'era dilettanti sono validi e con la stessa importanza. Così il Santos conta 22 trionfi, contro i 30 del Corinthians e i 23 del Palmeiras».

Le pagelle del 2020 del calcio. Giovanni Capuano su Panorama il 24/12/2020. Il pallone mette in archivio il suo anno horribilis. Terribile, unico (si spera), da bocciare tutto insieme perché la pandemia ne ha messo prima in discussione la stessa sopravvivenza e poi ha lasciato in eredità una crisi economica che ha riportato indietro nel tempo le lancette dell'orologio del calcio mondiale. Tutto considerato, il 2020 del calcio merita l'insufficienza piena (voto 0), anche se a ben guardare qualche segnale contrario c'è stato perché senza una forte reazione di chi il calcio lo governa (voto 8 alla Uefa ad esempio) semplicemente non ci sarebbe stato più nulla da commentare. Invece eccoci qui, con alle spalle dodici mesi indimenticabili e davanti a noi altri dodici che saranno vissuti a velocità folle, con campionati, coppa europee, manifestazioni varie, Europeo, Nations League e Olimpiadi che si salderanno in un'unica rincorsa che finirà col diventare una gara ad eliminazione per highlander. La pagella più alta del pallone italiano (voto 10) lo prende la Figc con il suo presidente Gabriele Gravina, che viaggia spedito verso una meritata riconferma. E' stato lui a tenere la barra dritta in primavera nel mezzo del lockdown che larga parte della politica (per il ministro Spadafora voto 3) sperava di rendere definitivo almeno fino ad estate consumata. Il 2020 di via Allegri è stato tutto positivo. Anche la nazionale di Mancini (voto 8,5) ha seminato e raccolto in grande quantità e potrà guardare al 2021 con grande ottimismo. Ora Gravina annuncia che andrà dritto sulla riforma dei format dei campionati. A chi scrive, l'idea di una Serie A con playoff e playout non piace (voto 4), però il tentativo di riformare un settore sempre restio agli aggiornamenti va seguito con interesse. Venendo al campo, il promosso per eccellenza è il Milan (voto 9) di Stefano Pioli (9). Un anno fa di questi tempi, dopo la manita incassata a Bergamo, Gazidis (voto 6 per essersi ravveduto in tempo) si era messo a caccia del successore innescando la crisi che ha portato al licenziamento di Boban. Oggi guarda tutti dall'alto in basso in una classifica rafforzata dal conto complessivo dei punti messi insieme nel 2020: 79, più di tutti. Non significa ancora nulla se non la conferma che la leadership ha radici più profonde della sola dipendenza da Ibrahimovic. Anche Conte (voto 6,5) può lucidare un numero di quelli che vanno tenuti a mente: da quando è sulla panchina dell'Inter nessuna squadra ha raccolto di più: 115 punti contro i 107 della Juventus e i 100 del Milan. La sufficienza e non oltre deriva dalle delusioni europee dell'Inter (voto 7,5 in Italia e 4,5 in Champions League) e dalla guerra interna ed esterna che ha dichiarato alla sua società e a chi si permette di ricordagli che con gli investimenti fatti da Suning per consegnargli una rosa all'altezza è lecito chiedere di puntare alla vittoria e nulla più. Dietro la lavagna la Juventus (voto 5) che in un anno e mezzo ha disintegrato il suo dna vincente. La scelta di Sarri (voto 6 perché alla fine l'obiettivo scudetto lo ha portato a casa) è stata sbagliata. Quella di Pirlo (5,5 fin qui, rivedibile), pare un azzardo. Non è obbligatorio vincere in eterno, però la sensazione di una marcia sportiva che ha perso la bussola è netta e il contesto economico non ha aiutato a completare l'opera di ringiovanimento della rosa iniziata sul mercato. Merita un voto altissimo (8) l'Atalanta di Gasperini (7) che ha sognato l'inimmaginabile e cioè di approdare tra le prime quattro d'Europa. Peccato per il finale con lo strappo dal Papu Gomez (voto 7 anche a lui) che ha certificato come in ogni famiglia, anche quelle apparentemente più unite, il fuoco cova sotto la cenere. Promosso anche Fonseca (voto 7), tecnico di una Roma che si barcamena tra problemi enormi di bilancio, ristrutturazione societaria e tecnica: eppure i giallorossi non mollano e sono lì in alto, alle spalle delle sole milanesi. Dietro la lavagna, invece, l'altro allenatore 'romano' Inzaghi: voto 5,5. La sua Lazio ha volato per tre mesi poi si è sciolta come neve al sole. Eppure poteva essere l'anno giusto per tornare a festeggiare lo scudetto che manca dal 2001. Meglio di Simone, ha fatto Pippo Inzaghi (voto 7): prima il dominio della Serie B e poi il Benevento rivelazione di questo avvio di campionato. Bisogna essere sinceri: in tanti hanno pensato che si fosse bruciato sulla panchina precoce del Milan, mentre nella realtà è stato capace di ricominciare daccapo con la sua gavetta e ora si sta prendendo grandi soddisfazioni. Una specie di storia alla Gattuso (voto 8) sul cui valore ormai non ci sono più dubbi. Ha preso il Napoli (voto 5) terremotato da vicende interne e lo ha ricostruito anche se talvolta pare che l'ostacolo più altro ce l'abbia dentro casa e risponda al nome di Aurelio De Laurentiis (voto 4,5). Il presidente e proprietario ha immensi meriti nel rilancio del club partenopeo, ma ora serve il salto di qualità definitivo che significa un progetto industriale complessivo per far entrare stabilmente il Napoli nelle grandi d'Europa. Tra i bocciati il Torino di Cairo (voto 4): così non si può andare avanti e gli arbitri non c'entrano nulla nel lungo tunnel in cui è entrata la storia granata. Sufficienza per Commisso (voto 6) cui le p...e cominciano a girare vorticosamente avendo capito che non gli faranno fare lo stadio nuovo "fast fast fast" e che l'Italia è un posto strano dove investire una montagna di denaro. Per tutti c'è comunque tempo di emendare i propri errori e correggere la direzione presa. Il 2021 sarà l'anno della verità, quello che dovrà trascinare il pallone italiano fuori dalla crisi e dirci se saremo stati capaci di approfittarne per migliorare o se torneremo quelli di prima. Declinanti nel confronto con i competitor europei.

Corriere.it il 22 dicembre 2020. È durata meno di un’ora l’udienza davanti al collegio di Garanzia del Coni per discutere della partita mai giocata tra Juventus e Napoli il 4 ottobre scorso. Il tempo necessario evidentemente per accogliere il ricorso del club di Aurelio De Laurentiis e ribaltare il verdetto di primo e secondo grado: Juventus Napoli va rigiocata, resta da stabilire la data, ed è stato anche tolto il punto di penalizzazione alla squadra allenata da Gattuso che riprende il quarto posto in classifica. Il Napoli era rappresentato dallo stesso De Laurentiis e dai legali Enrico Lubrano e Mattia Grassani. «Mi aspetto che venga cancellato un giudizio iniquo che è stato forzatamente portato sul tavolo. Abbiamo sempre rispettato tutto e tutti: Lega, Figc e Coni e la giustizia in senso generale», ha detto Adl al termine dell’udienza, non nascondendo l’ottimismo. Il Napoli, con due giocatori positivi al Covid, Zielinski ed Elmas, non si presentò allo Stadium bloccato dalla Asl. La discussione è stata avviata dal presidente del Collegio di garanzia del Coni Franco Frattini che ha chiesto agli avvocati del Napoli di spiegare due aspetti fondamentali per la corte: la possibilità comunque di giocare la partita (per la corte d’appello il Napoli aveva disdetto i voli) e il movente. Per i giudici di secondo grado mancavano alcuni giocatori, ma gli avvocati del club partenopeo hanno spiegato che «il Napoli poteva andare a Torino sfruttando mezz’ora in più sull’orario di inizio e che in quel momento la Juventus era l’avversario ideale perché all’inizio con tanti novità di mercato ed il Napoli non aveva interesse a posticiparlo e con una rosa ampia per sopperire alle assenze». Il passaggio più significativo, ma bisognerà aspettare la sentenza, è quello della Procura generale dello sport che ha sottolineato la situazione inedita, particolare, per il recente cambio di protocollo, le nuove indicazioni Uefa ed un contesto non definito: non c’era nulla di male ad interloquire con le Asl per approfondire. Legittima dunque la sentenza del giudice sportivo, basandosi sul regolamento e l’assenza del Napoli a Torino, ma — sempre per la Procura generale dello sport —la Corte d’appello invece «avrebbe fatto il passo più lungo della gamba andando oltre i fatti a disposizione». Questo l’aspetto che stavolta ha giocato a favore del Napoli. Sentenza dunque che «annulla senza rinvio» le precedenti. Dovrebbe quindi essere finita qui. Resta solo da capire quando sarà possibile rigiocare la partita.

Valerio Piccioni per “la Gazzetta dello Sport” il 23 dicembre 2020. Il Napoli esulta. Stavolta non in campo, ma negli spogliatoi dello stadio Maradona quando arriva la notizia del ribaltone. Il Collegio di garanzia dello sport sfratta dalla classifica di serie A il 3-0 a tavolino per la Juve del 4 ottobre, restituisce il punto di penalizzazione accessorio decretato dalle sentenze di primo e secondo grado, e dice: questa partita va giocata. Quando è un bel punto interrogativo. Di certo non tanto presto: impossibile far saltare le sfide di Coppa Italia del 13 gennaio, stessa cosa per la Supercoppa del 20 gennaio, con una data blindata dai contratti con le emittenti televisive all' estero. Per ora prevale la formula «a data da destinarsi». Al momento attuale, caselle libere non ce ne sono, le uniche disponibili sono a maggio. Ma in ogni caso il colpo di scena basta e avanza per la giornata. Franco Frattini e i suoi colleghi decidono che le ragioni del pronunciamento delle autorità sanitarie locali valgono più del protocollo, nella parte della quarantena soft, la famosa norma-polizza che consentì la ripartenza del vecchio campionato a giugno e che ancora oggi permette al calcio professionistico di aggrapparsi alle deroghe senza fermarsi in caso di positività come succede per il resto dei cittadini. Il dibattimento vola via in un' ora. Le tesi chiave dei precedenti giudizi - l' assenza di forza maggiore per il giudice sportivo Gerardo Mastrandrea, l' esistenza di una «scelta volontaria, se non addirittura preordinata della società ricorrente» a stare alle parole della Corte sportiva d' appello presieduta da Piero Sandulli - vengono cancellate. I legali del Napoli, Mattia Grassani ed Enrico Lubrano, costruiscono il ricorso, preceduto da un' abbondante memoria, su due filoni. Punto primo: non c' è una fase uno o una fase due nella vicenda, una Asl buona che aveva dato il permesso e una cattiva che lo negò fuori tempo massimo. Punto secondo: l' assenza di movente. Il Napoli non avrebbe avuto motivi per non giocare. Una posizione sostenuta anche dalle parole di Aurelio De Laurentiis: «C' era tutto l' interesse - dice il presidente del Napoli davanti ai giudici - a incontrare Pirlo in quel momento perché era all' inizio della sua carriera da allenatore e dunque poteva anche non portare sul campo una Juventus pericolosa». Grassani dice che il non andare a Torino «non fu una scelta, ma un obbligo. Il Napoli voleva giocare e ci sono i documenti a dimostrarlo. Sabato 3 ottobre l' autobus stava per partire per raggiungere l' aeroporto, solo in quel momento il capo di gabinetto della regione Campania ha comunicato che la squadra era tenuta a non allontanarsi». Il tentativo (riuscito) è dunque quello di spostare lo spartiacque della vicenda: il no alla partenza, questo hanno detto i legali convincendo evidentemente i giudici, è da collocare temporalmente già al sabato pomeriggio. E solo da quel divieto discende la decisione di disdire il volo e i tamponi dell' indomani mattina a Torino. «E poi, se non ci fosse stata la volontà di giocare - ha spiegato Lubrano - perché contattare ripetutamente le autorità sanitarie anche nella giornata di domenica? Se avessero risposto positivamente, ci sarebbe stato il tempo per raggiungere Torino». Peraltro un assist al ricorso veniva anche dall' avvocato Alessandra Flamminii Minuto, procuratore nazionale dello sport, che parlava di «passo più lungo della gamba» da parte della Corte sportiva d' appello. Boato degli spogliatoi del Maradona a parte, la decisione del Collegio di garanzia scatena l' esultanza di presidente, sindaco e governatore. «Viviamo in un Paese dove chi rispetta le leggi non può essere condannato. E il Napoli segue sempre le regole», scrive De Laurentiis in un tweet. Per Luigi De Magistris «giustizia è fatta, ora si gioca a calcio e si va a vincere sul campo». Anche Vincenzo De Luca osserva che «si ripristinano i valori della lealtà sportiva, clamorosamente violati dalle precedenti sentenze». Sull' altro fronte, la Juventus accoglie all' inizio in silenzio la sentenza. Il club bianconero non si era costituito in giudizio sin dall' appello. Quindi niente sconfinamento al Tar. In serata, però, c' è una prima reazione: «Noi siamo sempre stati estranei e indifferenti alla vicenda - dice Fabio Paratici, responsabile dell' area sportiva della Juventus, a Sky Sport - «Quando ci diranno di giocare, andremo a giocare e porteremo il pallone. Detto questo, c' eravamo anche il 4 ottobre» .

Da gazzetta.it il 25 dicembre 2020. Non sono andate giù le dichiarazioni di Andrea Pirlo al presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis dopo la sentenza del Collegio di Garanzia del Coni su Juve-Napoli: “Pirlo dovrebbe fare l’allenatore e basta, lasciare ai suoi rappresentati della società certe risposte. Quella è una sentenza dello Stato, una legge dello Stato in questo casino del Covid, con lo Stato incapace di affrontarlo, che fai? Anteponi una legge dello sport ad una legge statale rischiando il penale? Mi sembra una follia”. Martedì scorso il Collegio di Garanzia del Coni ha stabilito che la partita andrà giocata, accogliendo il ricorso del Napoli contro la sentenza del Giudice Sportivo (3-0 a tavolino più un punto di penalizzazione, confermato anche dal Tribunale Sportivo d’Appello) dopo la mancata presenza all’Allianz Stadium, il 4 ottobre scorso, per sfidare la Juve. Pirlo aveva commentato così: “Non possiamo farci niente, non abbiamo problemi a rigiocare. Dispiace per le altre squadre che hanno viaggiato e perso punti senza dir niente, partendo e giocando senza chi aveva il Covid”. E De Laurentiis, intervenuto a radio Capital, ha puntualizzato: ”Pirlo non fa di mestiere l’avvocato, non conosce certe procedure e non conosce cosa è accaduto a livello di protocolli. Non voglio prendermela con Pirlo dandogli del Pirla, sarebbe troppo facile. Faccia l’allenatore. Ha detto quello che avrebbe detto qualsiasi allenatore per difendere la società per cui lavora”. De Laurentiis ha rivelato di aver ricevuto diverse telefonate di solidarietà. “Io sono un estimatore di Mario Draghi che mi ha chiamato per gli auguri e mi ha espresso compiacimento da uomo di Stato. Mi hanno chiamato in tanti anche perché quando si vince in Italia si sale sul carro dei vincitori, ovviamente non mi riferisco a Draghi. Ma questa non è una vittoria è solo che bisognava ribaltare in punta di diritto una decisione sbagliata della Federcalcio”.

Da gazzetta.it il 25 dicembre 2020. L'avventura con il Milan, la nostalgia della Svezia e l'esperienza coronavirus. Di questo, ma non solo, ha parlato Zlatan Ibrahimovic in una lunga intervista a 7, il settimanale del Corriere della Sera. Convinto come sempre di sé e di conseguenza della sua squadra, Ibra - al momento fermo per l'infortunio a un polpaccio - sulle chance scudetto del Milan ha detto: "Deve avere il coraggio di sognarlo. E io dico che possiamo e vogliamo fare ancora di più. Adesso dobbiamo cominciare bene il 2021 e pensare partita per partita, come se fosse l’ultima. Dobbiamo avere fame: tutti i giorni, ogni momento". Zlatan è un punto di riferimento per tutto il gruppo: "Se impazzisco quando un compagno sbaglia un passaggio? Ma sì, sempre, anche in allenamento. Il problema è chi non si arrabbia. E se faccio un errore io? Io non sbaglio mai. Il talento serve se lo coltivi. Bisogna lavorare, lavorare, lavorare. Ci vuole sacrificio. Cosa sono i 90 minuti della partita? Niente, se non ti sei allenato tutti i giorni e tantissime ore. Più mi alleno e più sto bene. Lo dico a me stesso e agli altri: non mollare mai. Lo spiego in un altro modo: se non ti arrendi, vinci". E vincere è da sempre l’obiettivo di Ibra, che per questa stagione non si pone limiti:

  Sul suo futuro dice: "Fino a quando giocherò? Me lo chiedono tutti, la risposta è sempre la stessa: andrò avanti finché riuscirò a fare quanto faccio adesso. Giocare la Champions? A chi non piacerebbe... se posso restare, lo faccio".

 La famiglia è rimasta in Svezia e lui ammette: "Mi manca. Tantissimo. Ma proprio tantissimo. Sono allo stremo, non ne posso più. Vorrei stare con mia moglie e con i miei figli Maximilian e Vincent, che hanno 14 e 13 anni e vivono in Svezia. Andare a trovarli? Ci ho provato, ma Pioli mi ha risposto che non mi posso muovere e che ho famiglia anche a Milanello: dice che lì ho 2 ragazzi ma qui ne ho 25 e hanno bisogno di me".

IL COVID —   Infine il racconto della sua esperienza con il Covid: "Ovvio che mi sia preoccupato. Quando all’inizio mi è capitato, ero abbastanza tranquillo, quasi incuriosito, vabbè, voglio vedere cos'è questo Covid. Ha colpito tutto il mondo, una grande tragedia, adesso è arrivato da me. Ero a casa ad aspettare, vediamo cosa succede. Mal di testa, non fortissimo ma fastidioso, una cosa tosta. Ho anche perso un po’ il gusto. E stavo lì tutto il tempo, a casa, incazzato, non potevo uscire, non mi potevo allenare bene. Stare fermo è terribile. A un certo punto parlavo con la casa e davo i nomi ai muri. Diventa un fatto mentale. Ti fissi e ti immagini tutti i mali addosso, anche quelli che non hai. Una sofferenza per quello che senti e per quello che pensi di sentire. Questo virus è terribile e non va sfidato. Distanze e mascherine, sempre".

La malattia che ha colpito Gattuso Dove nasce e quali sono gli effetti. L'allenatore del Napoli Gattuso combatte da ormai 10 anni con una malattia autoimmune che colpisce i muscoli volontari che si indeboliscono e si affaticano rapidamente. Marco Gentile, Giovedì 24/12/2020 su Il Giornale. Gennaro Gattuso è sempre stato un grande combattente nella sua vita privata e da calciatore. L'allenatore del Napoli ormai da anni sta combattendo contro una malattia molto fastidiosa, autommune, che colpisce gli occhi: la miastenia. "Io soffro di una malattia autoimmune, la miastenia. Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che non si vedono bene allo specchio".

Che cos'è la miastenia? La miastenia è una condizione in cui tutti i muscoli volontari si indeboliscono e si affaticano rapidamente. Per questo tipo di problema, purtroppo per chi ne è colpito, non esiste una cura definitiva ma solo un trattamento adeguato che aiuta a ridurre i sintomi. Le cause di questa malattia autoimmune possono essere molteplici ma il problema scatenante é l'interruzione della corretta comunicazione fra nervi e muscoli, causata dal fatto che l'organismo inizia a produrre anticorpi che inibiscono l'attività dei recettori per il neurotrasmettitore acetilcolina, che generalmente stimola i muscoli. La miastenia oculare, quella che ha colpito Gattuso, è una forma limitata ai muscoli degli occhi e delle palpebre che si presenta perché alcuni autoanticorpi inibiscono il meccanismo nervoso che permette la contrazione dei muscoli appartenenti al compartimento oculare. I tipici sintomi della miastenia oculare sono due: diplopia (visione doppia come ha detto anche Gattuso) e ptosi, ovvero la palpebra cadente.

Il messaggio di Ringhio. "Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che hanno paura quando hanno un qualcosa di strano e non si vedono bene allo specchio: la vita è bella e bisogna affrontarla senza paura, senza nascondersi. E comunque sono vivo, perché ho sentito voci in giro che dicevano che ho un mese di vita, ma tranquilli che non muoio. Ho questa malattia da 10 anni, questa è la terza volta che mi ha colpito e stavolta mi ha colpito forte, ma tranquilli perché l’occhio tornerà al suo posto e sarò più bello, speriamo, il più presto possibile. Adesso non sono bello da vedere, ma passerà pure questa", questo il commento come sempre mai banale di Gattuso. L'ex giocatore e allenatore del Milan ha poi concluso con un messaggio di grande maturità e dignità: "I ragazzi mi sono stati tanto vicino, anche se lo nascondevo negli ultimi giorni facevo tanta fatica: vedere doppio 24 ore al giorno non è facile, solo un pazzo come me può stare in piedi. E non mi piace vedere la gente che si emoziona a vedermi in questo modo... Ma va accettato perché nella vita c'è di peggio, e io ho la fortuna di fare quello che mi piace nella vita".

Liberoquotidiano.it il 22 dicembre 2020. A 70 anni Mauro Bellugi ha dovuto affrontare una doppia amputazione. L’ex calciatore dell’Inter è stato costretto a un intervento per l’amputazione di tutte e due le gambe dopo aver contratto il coronavirus: lo ha raccontato lui stesso in una videochiamata con il giornalista Luca Serafini sul sito altropensiero.net. Un vero e proprio dramma quello di Bellugi, che a inizio novembre era stato ricoverato in ospedale dopo la positività al tampone. Purtroppo nelle ultime settimane la sua situazione si è aggravata a tal punto da rendere necessaria l’operazione agli arti inferiori. “Il Covid mi ha tolto anche la gamba con cui feci gol al Borussia Monchengladbach”, ha raccontato l’ex difensore che tra gli anni ’60 e ’70 ha vestito le maglie di Inter, Bologna, Napoli e Pistoiese. 

Il dramma di Bellugi: ischemie dopo il Covid, amputate le gambe. «Cerco già le protesi di Pistorius». Carlo Baroni su Il Corriere della Sera il 23/12/2020. Quella volta che tirò giù San Siro. E quell’altra che imbavagliò Rombo di Tuono. Sempre lui, solo lui. Mauro Bellugi, professione stopper. Ma non come quelli di una volta. Uno con i piedi che il pallone «restava incollato». Ora le conseguenze del Covid lo hanno lasciato privo delle gambe. Sono due mesi che Bellugi è in ospedale, al Niguarda di Milano. Senza piangersi addosso. Con la forza e il sorriso di quando giocava un derby. Il compagno di squadra che tutti vorrebbero avere. Una simpatia tracimata anche negli studi televisivi, a fine carriera. L’opinionista che faceva salire lo share. Urticante con stile. Proprio come quando giocava. La moglie Lory racconta che il suo Mauro resta ottimista. «La strada è lunga ma piano piano ne verrà fuori. Il virus gli ha procurato delle ischemie. L’unica soluzione era amputare le gambe». Soffriva da qualche tempo. Ai funerali di Mario Corso si era presentato con le stampelle. Quando giocava gli infortuni lo avevano tartassato. Mai piegato, però.

Il futuro. Adesso, tanto per dire chi è, guarda già avanti. Pochi giorni dopo l’intervento cercava delle protesi su Internet. «Prenderò quelle di Pistorius» garantiva. E scherzava: «Mi hanno tolto anche la gamba con cui ho segnato al Borussia». Un gol solo in una carriera da cento battaglie, ma indimenticabile. Una rete di quelle che restano nelle teche e nei ricordi. Da fuori area come Pelè e Maradona. Un tiro nell’angolo alto dove nessun portiere può arrivare. Era il 3 novembre 1971. Una delle notti magiche di San Siro. Per cancellare l’onta di un 7-1 cassata dagli archivi ma rimasto dentro la pelle di ogni interista. Mauro veniva dal vivaio. Quello buono dell’Inter. La generazione dei Bordon e degli Oriali. Toscano di Buonconvento, classe 1950 all’anagrafe, classe ottima in campo, classe infinita negli spogliatoi. «Come si faceva a non andare d’accordo con lui?» ricorda Carletto Muraro, il Jair bianco. «L’ho conosciuto quando Mauro stava finendo con l’Inter e io cominciavo. In panchina Helenio Herrera, il ritorno del Mago. La prima volta insieme a San Siro. Contro il Cagliari. E Mauro a mettere la museruola a Gigi Riva. Come giocatore non gli mancava niente. Gran difensore. E sempre pronto alla pacca sulla spalla al compagno che sbagliava».

La carriera. Inter ma anche Bologna e Napoli. E infine Pistoiese. E la nazionale. Ai Mondiali argentini del 1978, una squadra forse più bella di quella iridata di quattro anni dopo. Metà bianconera e metà granata. Più che l’Italia era Torojuve. Con un’eccezione: Mauro Bellugi. «Dicevano, lo so, che Bellugi ha una gamba più corta, che era una pazzia farmi giocare in nazionale, che Bearzot si era... innamorato di me. Ho letto, ho ascoltato, ho taciuto. Io preferisco rispondere sul campo. Il calcio è il mio mestiere: non l’ho mai tradito, non lo tradirò mai. Bellugi è un uomo». Del resto l’aveva dimostrato a Wembley nel 1973, la prima vittoria degli azzurri nello stadio-tempio degli inglesi. L’assedio dei leoni bianchi. Incessante. Spaventoso. Bellugi con le basette lunghe che si usavano nei fantastici anni Settanta a rispondere colpo su colpo. Che gli italiani non si facevano spaventare dall’orda britannica. Un giocatore di classe quando agli stopper era richiesto solo di spazzare l’area e non azzardarsi a tenere la palla più di qualche secondo. Corretto ma se c’era da picchiare non si tirava indietro. Con il tedesco Klaus Fischer, per esempio, ancora ai Mondiali del ‘78: «Credeva di intimidirmi entrando a catapulta, scalciando, colpendomi come e non appena poteva. Lo hai visto come è finita: in una entrata volante, ho allargato il gomito, c’è finito contro con il viso, è piombato il medico a cucirgli il labbro che penzolava sul mento, lì sul campo di gioco... io non cerco la rissa, ma se mi cercano mi trovano sempre». Mauro Bellugi che le partite non finiscono mai. Neanche questa che sta giocando.

Monica Colombo per corriere.it il 23 dicembre 2020. «È stato un anno allucinante, mi auguro che finisca presto e con il 2020 termini tutto il dolore che ha portato. Parlo per la mia famiglia ma anche per le tante persone che hanno subito drammi peggiori». Lory Bellugi è una donna tosta, più incline a reagire che a piangersi addosso dopo la diagnosi impietosa che ha colpito il marito. E, come Mauro faceva in campo sugli avversari, va in tackle sul Covid.

Quando è iniziata la via crucis che ha condotto all’amputazione delle gambe di suo marito?

«Era il 4 novembre, da giorni mio marito soffriva di male alle gambe. Non ci eravamo preoccupati più di tanto perché in conseguenza della sua attività sportiva non era infrequente. Negli ultimi giorni però i dolori erano aumentati e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. La domenica precedente si era sottoposto al tampone che era negativo. A quel punto lo portai al Monzino dove un cardiologo lo fece passare senza transitare dal pronto soccorso. Gli fece il tampone, stavolta l’esito era positivo».

L’ansia aveva preso il sopravvento?

«Accadde quella sera. Un medico mi chiamò per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe. Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "non c’è molto da fare"».

E lei?

«Non capivo. Mi spiegò che l’unica soluzione era l’amputazione delle gambe. Mi crollò il mondo addosso, non volevo credere che non esistesse una soluzione alternativa. Aggiunse che diversamente le gambe sarebbero andate in cancrena. Da lì fu il delirio».

Dove è stato operato?

«Fu spostato al Niguarda dove tentarono di riaprire le vene, ma invano. Aveva entrambe le gambe nere».

Come ha reagito Mauro?

«Consideri che io non potevo andare a trovarlo. Dopo il primo intervento alla gamba destra, peraltro senza anestesia totale ed epidurale, ricevetti una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui! Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto. Le racconto questo per sottolineare il suo spirito».

E ora riesce a comunicare con suo marito?

«Ci salutiamo nelle video-chiamate. Solo di recente sono riuscita a fargli visita 3-4 volte, toccata e fuga, completamente bardata. Del resto in questa lunga degenza ha preso anche la polmonite».

Che percorso lo aspetta adesso?

«Dovrà affrontare la riabilitazione, probabilmente in una clinica a Budrio».

L’Inter vi è stata vicina?

«Si sono comportati come una famiglia. Da Massimo Moratti a Beppe Marotta. Si sono dimostrate persone speciali».

Si è già informato sul web sulle caratteristiche delle protesi.

«Ah certo, lui ha grande voglia di rimettersi in pista. È già proiettato in avanti. Pensa già alla macchina da guidare con i sensori, come se dovesse uscire dall’ospedale domani. È troppo forte, per fortuna ha questo carattere».

Cosa vi siete detti quando il medico ha comunicato che non c’era altra via che l’amputazione?

«Non ne abbiamo mai parlato. Sapevamo che sarebbe dovuto accadere: avevamo il timore che affrontando l’argomento sarebbe subentrata la depressione. Mauro un giorno mi ha chiesto se quel che restava dei suoi arti mi faceva impressione. Gli ho risposto di no. Meglio sdrammatizzare piuttosto di enfatizzare. È la nostra forza».

Salvatore Riggio per “il Messaggero” il 23 dicembre 2020. Mauro Bellugi è sempre stato un combattente. A 20 anni ha vinto lo scudetto con l' Inter (1970-71), oggi si trova a duellare contro le avversità della vita. Intorno alla seconda metà di novembre all' ex difensore nerazzurro (ha giocato anche con Bologna, Napoli e Pistoiese, ritirandosi nel 1981 con 335 presenze sulle spalle) sono state amputate le gambe, dopo che qualche settimana prima era stato ricoverato a causa del Covid-19. Durante la degenza in ospedale, le sue condizioni di salute sono peggiorate per altre patologie e questo ha spinto i medici a operarlo di urgenza. Cresciuto nelle giovanili dell' Inter, è rimasto in prima squadra dal 1969 al 1974 segnando il suo unico gol. Di destro, negli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach il 3 novembre 1971, nella partita vinta dall' Inter per 4-2, giocata due settimane dopo la famosa gara della lattina in Germania e annullata per la Coca-Cola lanciata dalle tribune sulla testa di Boninsegna. Nel 1974 si è trasferito al Bologna: in Emilia è rimasto fino al 1979 diventando un punto di riferimento per la difesa rossoblù, nonostante il grave infortunio rimediato nel 1976-77 (solo due gare quell' anno). Bellugi è passato al Napoli nel 1979-80 e nella Pistoiese nel 1980-81, chiudendo la carriera in Toscana per i troppi dolori alla gambe. Con la Nazionale tra il 1972 e il 1980 ha collezionato 32 presenze, disputando i Mondiali del 1974 in Germania Ovest (azzurri eliminati al primo turno) e quelli del 1978 in Argentina (quarto posto). Dopo il ritiro, Bellugi è stato spesso ospite dei programmi calcistici dell' emittente televisiva 7 Gold. Interventi precisi, schietti. Appena ha raccontato tutto in una videochiamata con Luca Serafini, trascritta sul sito altropeniero.net, sono stati tantissimi i messaggi sui social (l' hashtag #bellugi è finito nelle tendenze Twitter). «Non sto proprio bene, diciamo. È stata una cosa micidiale», ha spiegato. Alternando momenti di sconforto a commenti ironici, scherzosi.

Come è nel suo carattere. Cosa è successo?

«Questo Covid insieme a un' anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me. Però, ho moglie e una figlia. E allora ho eliminato loro. Sinceramente se fossi stato da solo, ci avrei pensato un po'».

Perché dice così?

«Il dolore è immenso, solo chi ha provato questa cosa può dirlo, commentarlo. È un dolore continuo, sempre. Sei sempre sotto morfina, è davvero durissima. Ci sono momenti nei quali non ce la fai».

Ma adesso come sta?

«Le ferite ora vanno bene. Sto aspettando la riabilitazione. Sto facendo un po' di ginnastica con un fisioterapista. Vado avanti. Non posso fare altro. I momenti di sconforto ci sono, anche di pianto. Mi dispiace per la gamba destra. Ci tenevo più della sinistra».

È quella del gol in Coppa Campioni.

«Sì, ho segnato la mia unica rete, nel 1971 contro il Borussia Moenchengladbach».

Adesso?

«Prenderò delle protesi, voglio battere il record di Pistorius. Certo, ci vuole coraggio ad andare avanti. Però, con le protesi con quei pochi passi potrò fare qualcosa, andare al ristorante, passeggiare. Mica devo fare altre rovesciate».

Non è stato facile in queste settimane.

«Ho dovuto smettere a calcio per problemi alle gambe, giocandomi il Mondiale di Spagna 1982. Adesso è accaduta questa cosa. Nella vita sono cose che possono capitare».

Bellugi, amputate entrambe le gambe. Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter, ha subito l'amputazione di entrambi gli arti inferiori. Il 70enne era ricoverato dal 4 novembre in ospedale dopo aver contratto il coronavirus. Marco Gentile, Martedì 22/12/2020 su Il Giornale. Il mondo del calcio è sotto choc, un'altra volta: Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter e della nazionale italiana negli anni 60-70 ha subito l'amputazione di entrambi gli arti inferiori. Il 70enne di Buonconvento era stato ricoverato lo scorso 4 novembre dopo aver contratto il coronavirus e ne è uscito, purtroppo, senza le gambe. Non è chiaro se sia stato il covid-19 a creare delle complicanze agli arti inferiori di Bellugi che erano già afflitti da problemi ed altre patologie. Le sue condizioni si sono aggravate tanto da costringere i medici ad un'operazione d'urgenza con la scelta drastica di dover amputare entrambi gli arti inferiori. La moglie ha però spiegato come il marito non si sia buttato giù trovando subito di vedere il lato positivo di questa triste vicenda.

Uomo d'acciaio. Bellugi, come detto, nonostante questo grande dramma subito ha anche trovato il modo di ironizzare nel corso di una videochiamata con l'amico e giornalista Luca Serafini (tratto da altropensiero.net): "Prenderò quelle di Pistorius, così nei corridoi degli studi televisivi ti sorpasserò" e ancora: "Mi ha tolto anche la gamba con cui feci gol al Borussia Mönchengladbach". L'ex giocatore di Bologna, Napoli e Pistoiese iniziò presto a 19 anni ma fu anche costretto ad appendere gli scarpini al chiodo per i troppi problemi alle gambe e si ritirò così a soli 31 anni.

I numeri della carriera. Bellugi ha giocato 12 anni in Serie A: cinque stagioni all'Inter con 140 presenze complessive e un gol al suo attivo, quello in Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach, cinque annate al Bologna con 108 gettoni totali senza reti, più un anno al Napoli e uno alla Pistoiese. Anche con la maglia della nazionale italiana Bellugi ha messo insieme 32 partite senza mai segnare.

A livello di titoli di squadra l'ex difensore toscano ha messo in bacheca un solo scudetto con la maglia dell'Inter: quello del 1970-71 con in panchina Giovanni Invernizzi che prese il posto dopo sole sei giornate di Heriberto Herrera. Una volta appesi gli scarpini al chiodo Bellugi ha intrapreso brevemente la carriera da allenatore alla Pistoiese, per solo un anno come vice, ed è poi diventato opinionista televisivo nelle varie televisioni private lombarde.

Quel terribile dramma di Bellugi "Così il Covid mi ha tolto le gambe". L'ex difensore nerazzurro è stato operato d'urgenza dopo il ricovero ad inizio novembre perchè positivo al Covid-19. Antonio Prisco, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. ''Questo Covid insieme a un'anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena, o eliminavo loro o eliminavo me...'' Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter e oggi noto opinionista televisivo, racconta così il suo dramma. In campo è sempre stato sempre un combattente ed oggi si trova a duellare contro le avversità della vita. Cresciuto nelle giovanili dell'Inter con cui conquistò uno scudetto nell'annata 1970-71, Mauro Bellugi è stato un vero stopper, uno dei marcatori più arcigni del panorama calcistico italiano. Resta storico il suo unico gol in carrera segnato di destro, negli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach il 3 novembre 1971, nella partita vinta dall'Inter per 4-2, giocata due settimane dopo la famosa gara della lattina in Germania e annullata per la Coca-Cola lanciata dalle tribune sulla testa di Boninsegna. Intorno alla seconda metà di novembre all'ex difensore nerazzurro, oggi presenza fissa come opinionista sul canale 7Gold, sono state amputate le gambe, dopo che qualche settimana prima era stato ricoverato a causa del Covid-19. Durante la degenza in ospedale, le sue condizioni di salute sono peggiorate per altre patologie e questo ha spinto i medici a operarlo di urgenza. Ha raccontato tutto in una videochiamata con il giornalista Luca Serafini, poi trascritta sul sito altropeniero.net, e subito dopo sono stati tantissimi i messaggi arrivati sui social (l'hashtag #bellugi è finito nelle tendenze Twitter). ''Non sto proprio bene, diciamo. È stata una cosa micidiale. Questo Covid insieme a un'anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me. Però, ho moglie e una figlia. E allora ho eliminato loro. Sinceramente se fossi stato da solo, ci avrei pensato un po'...'' ha spiegato l'ex calciatore alternando momenti ironici a quelli di sconforto. Continuando così il suo racconto: ''Il dolore è immenso, solo chi ha provato questa cosa può dirlo, commentarlo. È un dolore continuo, sempre. Sei sempre sotto morfina, è davvero durissima. Ci sono momenti nei quali non ce la fai. Le ferite ora vanno bene. Sto aspettando la riabilitazione. Sto facendo un po' di ginnastica con un fisioterapista. Vado avanti. Non posso fare altro. I momenti di sconforto ci sono, anche di pianto. Mi dispiace per la gamba destra. Ci tenevo più della sinistra''. La gamba destra quella del gol in Coppa Campioni, un ricordo ancora indelebile: ''Sì, ho segnato la mia unica rete, nel 1971 contro il Borussia Moenchengladbach''. Nonostante tutto non ha alcuna voglia di mollare: ''Prenderò delle protesi, voglio battere il record di Pistorius. Certo, ci vuole coraggio ad andare avanti. Però, con le protesi con quei pochi passi potrò fare qualcosa, andare al ristorante, passeggiare. Mica devo fare altre rovesciate. Ho dovuto smettere a calcio per problemi alle gambe, giocandomi il Mondiale di Spagna 1982. Adesso è accaduta questa cosa. Nella vita sono cose che possono capitare''. Di sicuro sarà ancora lì, pronto a difendere come sempre i colori nerazzurri.

Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 25 dicembre 2020. «Sono al Niguarda, chiuso nella mia camera, con il cielo in una stanza. La bufera è passata, i giorni allucinanti della diagnosi e delle operazioni di amputazione sono alle spalle». Mauro Bellugi, iconico difensore dell' Inter degli anni Settanta, trascorre le giornate fra le medicazioni e le rare visite consentite della moglie Lory. L' ondata di affetto e commozione che ha accompagnato la notizia del peggior effetto collaterale che il Covid potesse infliggere a un giocatore, lo ha colpito. «In questo anno maledetto se ne sono già andati Corso, Maradona, Paolo Rossi. Non volevo essere io l' ultimo famoso della serie». Non ha perso il senso della battuta, lui toscano un po' guascone, abituato a sguazzare nei salotti tv del post-partita, nonostante la sorte lo abbia preso di mira. «Vede, io soffro da sempre di una forma di anemia mediterranea, come mia mamma e pure mia figlia. Di per sé non mi aveva causato grossi disturbi in precedenza ma poi con il coronavirus son diventati compagni di merende. Si sono detti "spacchiamo il mondo" e hanno spaccato me». Il giorno da segnare sul calendario è il 4 novembre. «Soffriva di male alle gambe, dolore non infrequente a causa della sua attività sportiva» racconta la moglie Loredana. «Negli ultimi giorni però le fitte erano aumentate e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. Lo portai al Monzino». Il racconto prosegue nelle parole dell' ex interista. «Scoprii gli arti, le gambe erano nere fino all' inguine». Per giunta, il tampone fatto in ospedale era positivo. «Un medico mi chiamò quella sera per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe» aggiunge Lory Bellugi. «Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "Non c' è molto da fare"». Una frase che suona già come una sentenza. Mauro vorrebbe prendere tempo, buttare la palla in tribuna come faceva in campo. «Mi dissero "Vuoi vivere o vuoi morire?", perché se non fossero intervenuti subito la cancrena sarebbe salita ancora. Dovetti decidere subito, non le dico la mia faccia quando il chirurgo Piero Rimoldi mi disse che avrebbe dovuto amputare anche la gamba con cui avevo segnato al Borussia Mönchengladbach». Dalla diagnosi alla sala operatoria il passo è breve. «Ho assistito da sveglio a quando mi hanno tagliato a fette i polpacci» rivela con il tono di chi ha visto cose che noi umani. Poi però non ha perso il consueto spirito. «Dopo il primo intervento alla gamba destra ho ricevuto una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui. Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto» svela Lory, quasi benedicendo il modo scanzonato di affrontare la vita del marito. Eppure i momenti di scoramento non sono mancati. «Ero ricoverato nel reparto Covid perché nel frattempo ero affetto anche da una polmonite. Avevo fatto amicizia con un ragazzo di 25 anni, Edoardo. Videochiamava i genitori per tirarli su di morale. Un giorno mi ha salutato mentre lo portavano via, è mancato - confessa fra le lacrime Bellugi -. Morivano come mosche». Per fortuna attorno a lui si è stretta la grande famiglia nerazzurra. «Massimo Moratti è il numero uno, era più disperato di me. La Bedy, sempre a casa mia, la numero due. E poi Beppe Marotta: mi ha detto che un posto per me in società ci sarà sempre. "Tu sei stato la storia"». E ora Bellugi guarda al futuro. «Andrò a Budrio per sostenere la riabilitazione, mi sono già informato sulle protesi. Del resto, non pretendo molto per la vita che mi resta: poter andare al bar a giocare a scopa con gli amici e al ristorante con la Lory. Con le rovesciate ho chiuso».

Francesco Persili per Dagospia il 26 dicembre 2020. “Mi hanno riempito di morfina, avevo già chiamato San Patrignano…”. Mauro Bellugi non perde il gusto della battuta e racconta a “Campioni del mondo” su "Radio 2" i giorni terribili del covid e l’operazione di amputazione alle gambe. L’ex calciatore di Inter, Bologna, Napoli, Pistoiese e della Nazionale si è informato sulle protesi per tornare a camminare. “La forza di reagire verrebbe a chiunque, soprattutto a chi ha fatto sport. Quando sei in svantaggio, non vuoi perdere”. La sua fonte di ispirazione resta Alex Zanardi. "Lui è un extraterrestre rispetto a me, un supereroe, rispetto a me è Batman”. Il leone di Wembley si commuove parlando di Paolo Rossi (“La sua scomparsa non mi è andata giù”) e di un ragazzo di 30 anni vicino di letto all’ospedale. “L’ho sentito parlare al telefono con i genitori e poi è morto. State attenti…”. ”I negazionisti? Ma come cazzo si fa? Se vedeste la situazione negli ospedali, mettereste almeno due mascherine. Io sono stato in casa da febbraio a ottobre. Sono uscito una sera e ho beccato il virus. Basta un attimo, poi è una tragedia. Heather Parisi ha detto che non si vaccinerà? Sbaglia, ma ognuno fa ciò che vuole…”. Ciccio Graziani rammenta “le meravigliose battaglie” contro l’ex difensore dell’Inter: “Giocarci contro era tosta, sentivi caldo addosso”. E Bellugi: “Graziani era un cliente scomodo. Mi faceva correre troppo. Una volta a Roma un tifoso mi ha urlato: “Sei una roccia”. E un altro ha aggiunto: ‘infatti non te movi mai”. Domenico Marocchino, invece, ricorda le mitologiche vacanze in Sardegna, a Stintino. “Era marcato molto stretto dalla moglie di allora…”. “Impossibile smarcarsi”, aggiunge Bellugi che racconta di quella serata in cui provò a salire sul palco per cantare “Roberta”. “Mi è arrivato un zoccolo in faccia da mia moglie…”. E pensare che Romeo Benetti provò a far saltare il matrimonio. “Mi ha rotto un piede prima delle nozze – ricorda Bellugi - Mi ha mandato con le stampelle e il gesso all’altare”. Una volta naufragato il  matrimonio mi disse: “Hai visto? Ti volevo salvare…”

Mario Gerevini per corriere.it il 17 novembre 2020. Ci sono due documenti ufficiali che ribaltano le certezze sulla proprietà del Milan. Un bilancio e una comunicazione antiriciclaggio (qui si possono leggere i due documenti). A «quota 6001» azioni, cioè la soglia critica della maggioranza di cui il Corriere aveva scritto pochi giorni fa, non c’è il fondo Elliott di Paul Singer ma la lussemburghese Blue Skye di Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo come ha anticipato anche Report in vista del servizio di lunedì prossimo su Rai 3.

I capitali del fondo, il controllo di Blue Skye. Quindi a quanto pare Elliott ci mette i capitali ma non ha il controllo del capitale: un controsenso e un rebus in cui forma e sostanza sembrano non coincidere. E in cui finora è mancata un’informazione trasparente, in particolare sugli assetti di Project Redblack, la società lussemburghese dove si saldano gli interessi dei due azionisti (Blue Skye ed Elliott) e che controlla pressoché interamente il club rossonero.

Il 95% dichiarato da Elliott e i finanzieri napoletani. Gli americani hanno sempre fatto sapere, mai ufficialmente però, di avere il 95%. Ma sulla base di quali criteri ora che i documenti sembrano smentirli? È ovvio d’altra parte che i due finanzieri napoletani, per quanto benestanti, non abbiano risorse economiche tali da caricarsi sulle spalle il Milan. Dunque, ci sono patti riservati con il fondo speculativo di New York? Perché una società del Delaware ha in pegno una parte del «pacchetto» Milan di Cerchione e D’Avanzo? Ci sono soci occulti? Lo scorso 27 settembre il Corriere aveva inviato una serie di domande a Elliott proprio sul tema della proprietà del Milan e dei rapporti con Blue Skye, senza ricevere risposte. Ma vediamo le carte.

Il bilancio rivelatore, Blue Skye ha il 51%. Il primo documento è un bilancio di Blue Skye appena depositato (il file è di metà novembre). Riguarda i conti del 2017, ma in Lussemburgo prendersela comoda è permesso. Queste carte contabili, inedite, ci raccontano che già alla fine del 2017 il 51% di Project Redblack, oggi controllante del Milan, è posseduto da Blue Skye. La tabella con le partecipazioni è chiarissima ed esplicita. E tra l’altro si scopre che un’altra società dei due finanzieri, la Luxembourg Investment Company 159, è entrata nella partita Milan sia con strumenti ibridi di debito sia rilevando una piccola quota di Project. In quella fase Project ha solo prestato i soldi a Yonghong Li per comprare il Milan da Silvio Berlusconi (aprile 2017) ottenendo come garanzia lo stesso Milan. Ma poi nel 2018 mister Li finisce i soldi che non aveva e Project passa all’incasso della garanzia diventando proprietaria del club. Dunque già tre anni fa l’assetto ufficiale e formale era Blue Skye al 51% circa (cioè 6001 azioni) e l’hedge fund di Singer al 49% (5.999) della società che controllerà il Milan.

Il pegno nel Delaware. Però il 10 aprile 2017 (tre giorni prima del closing Berlusconi-Li) spunta un «security agreement» firmato dai due italiani con gli americani, in base al quale Blue Skye dava in pegno alla società King George del Delaware, controllata da Elliott, gran parte della sua quota: circa il 46%. Sarà questa operazione, presumibilmente ancora in piedi, che ha autorizzato Elliott a far credere di avere il controllo del 95% (49% effettivo più 46% in pegno) del Milan? Possibile sia una delle componenti, ma avere titoli in garanzia non significa averne la proprietà.

Il documento di Elliott: abbiamo il 49%. Il secondo documento è una comunicazione obbligatoria imposta dalle più recenti norme antiriciclaggio e antiterrorismo in base alle quali le società lussemburghesi devono individuare e rendere noti i beneficiari effettivi, cioè chi sta in cima alla catena proprietaria. Così il 16 settembre scorso Project Redblack ha comunicato che il fondatore e gran capo di Elliott, Paul Singer, 76 anni, residente negli Usa è il beneficiario effettivo e quindi titolare del 49% del capitale (49,99% per l’esattezza). Lo è in quanto proprietario del fondo Elliott che gestisce patrimoni per conto terzi. Salvatore Cerchione, 49 anni, residente ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi (e precedentemente a Ibiza) è il titolare di poco più del 25% (25,0042%), così come Gianluca D’Avanzo, 45 anni, residente oggi nel Regno Unito ma fino a non molto tempo fa a Magdalenka Mazowieckie, paesino polacco di 2 mila abitanti. Anche in questo caso Elliott risulta in minoranza.

Elliott mette i soldi ma Blue Skye ha la maggioranza. Se analoga comunicazione fosse fatta oggi dal Milan la fotografia sarebbe la stessa. E dunque Cerchione e D’Avanzo hanno la maggioranza del club. Ciò detto, è indiscutibile che una serie di prerogative di governance e gran parte dei soldi siano di Elliott, denaro proveniente dal patrimonio (41 miliardi di dollari complessivamente) gestito per conto dei suoi clienti istituzionali (fondi pensione, enti pubblici, fondazioni, grandi famiglie, stati federali Usa ecc). Quindi è tutto molto strano. Non si capisce perché Elliott abbia sborsato centinaia di milioni per sostenere e valorizzare un’azienda, dovendone rispondere ai propri investitori, senza prendersi la maggioranza assoluta, e stop. Il fondo avrà tutti i contratti, i collaterali, i pegni, le clausole, gli strumenti di debito e ogni forma di garanzia e tutela ma i motivi per cui Cerchione e D’Avanzo abbiano pur sempre due azioni, due sole azioni in più, resta un rebus rossonero.

C'erano un presidente, un cinese e due napoletani. Report Rai PUNTATA DEL 23/11/2020 di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi. Chi è il vero proprietario del Milan? Se lo sono chiesto in tanti da quando Silvio Berlusconi l'ha venduto. Dopo la parabola misteriosa del cinese Mr Lì, oggi tutti parlano del Fondo Elliott ma in realtà i titolari effettivi delle società lussemburghesi che controllano il Milan sono due consiglieri di amministrazione del club rossonero, Gianluca D'Avanzo e Salvatore Cerchione. Report lo scopre perché l'ultima direttiva antiriciclaggio, voluta dall'Europa, impone a ogni paese membro un registro dei beneficiari finali delle operazioni fatte dalle società e questo al di là di accordi privati, tra soci o azionisti per la governance di una società. Mentre l'Italia non ha ancora il suo registro, il Lussemburgo si è da poco adeguato alla normativa ed è lì che leggiamo chi sono i nuovi titolari effettivi del Milan, almeno sulla carta, con una quota di poco superiore al 50%.

“C’ERANO UN PRESIDENTE, UN CINESE, DUE NAPOLETANI” di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi immagini di Giovanni De Faveri – Alfredo Farina, Davide Fonda - Fabio Martinelli montaggio di Luca Mariani.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO É il 17 ottobre 2020. Il giorno del derby a Milano, al tempo del Covid. Contro ogni regola per il distanziamento sociale le tifoserie del Milan e dell'Inter si danno appuntamento sotto lo stadio in attesa dei loro beniamini. Gli interisti da una parte. E i milanisti dall'altra. La curva sud del Milan si dà appuntamento in via Tesio davanti al ristorante la Barchetta. É proprio dove, le due società, Inter e Milan, vorrebbero costruire il nuovo stadio mandando in pensione San Siro, la Scala del calcio, dopo il duomo uno dei simboli della città.

GABRIELLA BRUSCHI – COMITATO SAN SIRO Su questo prato, su questo prato…

LUCA CHIANCA Alle spalle del vecchio Meazza…

GABRIELLA BRUSCHI – COMITATO SAN SIRO Sì proprio a ridosso delle case, secondo il progetto che hanno mostrato a 30 metri dalle case qua, inclinato lungo questa strada, è un oggetto che è alto come un palazzo di 10 piani, queste case sono alte 6,7 piani al massimo, quindi sarebbero molto più alte di queste case, per circa 200 metri.

LUCA CHIANCA Lei abita lì se ci fosse lo stadio dietro di lei potrebbe dare una mano a prendere i palloni dare una mano se serve qualcosa negli spogliatoi, no?

GABRIELLA BRUSCHI – COMITATO SAN SIRO Ma certo, come no? Asciugare il sudore ai giocatori!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO C’era una volta un presidente, un cinese e due napoletani; sembra l’inizio di una barzelletta, non lo è. Parliamo della squadra che in Italia nell’ambito del calcio ha vinto più titoli internazionali. Il Milan. Ecco, un po’ tutti si sono chiesti da quando Berlusconi l’ha venduto, chi è il reale proprietario del Milan. La risposta arriva in un colpaccio giornalistico del nostro Luca Chianca. L’ha scoperto attraverso delle carte lussemburghesi. E sono Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo. Chi sono questi due imprenditori napoletani? Le loro figure sono un po’ avvolte dal mistero, dal riservo. Loro, possiamo dirlo tranquillamente, sono i professionisti della finanza dell’offshore. Una volta hanno una basa in Polonia, un’altra volta a Ibiza, un’altra volta in Lussemburgo, poi anche a Londra. Ma come sono diventati i proprietari del Milan e soprattutto come hanno cominciato la loro carriera di successo di imprenditori? Ecco qui dobbiamo riavvolgere la pellicola di 10 anni e arrivare in una operazione fallimentare della sanità campana. C’erano i privati che avevano maturato crediti con la sanità pubblica, i due finanzieri di presentano e dicono datemi i vostri crediti. Ve li pago io. Ovviamente a prezzi stracciati. Poi i due finanzieri apolidi dell’offshore si presentano all’incasso con la sanità pubblica. Ovviamente facendosi pagare gli interessi. Ecco in quel contesto là, la sanità pubblica campana ha dovuto immettere tantissima liquidità che di fatto ha bloccato le assunzioni di infermieri e medici. Ora dalle carte inedite lussemburghesi il nostro Luca Chianca ha scoperto chi sono gli effettivi proprietari del Milan: una società che è in trattativa per realizzare un mega progetto immobiliare che prevede anche la costruzione dello stadio. Ora trattano con il comune di Milano che però non sa che loro sono gli effettivi proprietari.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I progetti presentati dalle società sono due: la cattedrale dello studio Populous e quello degli anelli di Milano a firma del Consorzio Sportium. Entrambi prevedono di costruire qui, in questo prato, alle spalle di San Siro che dovrà in parte essere demolito. Un anno fa, l'amministratore delegato dell'Inter Alessandro Antonello e il Presidente del Milan Paolo Scaroni presentano i progetti al Politecnico di Milano.

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN Un grande evento, una sala con 200 e più persone, c'era naturalmente il rettore del politecnico padrone di casa ma anche supporter del nostro progetto e questo m'ha fatto molto piacere.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il politecnico di Milano, tempio sacro del sapere, fa da consulente alle squadre ma dopo la presentazione dei progetti all'università il Rettore Ferruccio Resta è andato anche in consiglio comunale per chiarire la posizione dell'ateneo: contrario al recupero del vecchio stadio.

FERRUCCIO RESTA - RETTORE POLITECNICO DI MILANO Mancano i volumi, mancano le dotazioni per rendere accessibile lo stadio, mancano anche tutta una serie di interventi per la sicurezza che sarebbe completamente impattante da stravolgere poi il concept del Meazza stesso, e soprattutto bisogna tener conto di tutti i costi di manutenzione pensando anche al fine vita delle strutture.

BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE GRUPPO MILANO IN COMUNE Cioè noi abbiamo avuto uno che si presentava come un'immagine terza ma in realtà era consulente di una delle due parti e infatti ha confermato che si dovesse necessariamente fare…

LUCA CHIANCA Costruire un nuovo stadio.

BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE GRUPPO MILANO IN COMUNE Costruire un nuovo stadio. É chiaro che dentro il Politecnico per fortuna è un'istituzione valida nella nostra città ci sono degli altri architetti, degli altri professori che dicono che questo stadio può essere tranquillamente recuperato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra questi, chi la pensa diversamente dal suo Rettore è l'ingegnere Aceti professore di Tecnica delle Costruzioni proprio al Politecnico di Milano. Con un collega ha realizzato un altro progetto. L’obiettivo è quello di recuperare il vecchio Meazza, trasformando il terzo anello con una galleria panoramica.

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO In questi volumi si possono collocare spazi polifunzionali quali spazi commerciali, ristoranti, musei, spazi sportivi, negozi di vario genere.

LUCA CHIANCA Costo di un progetto del genere?

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO Circa 250 milioni di euro che comprende anche una riqualificazione e un ammodernamento degli anelli sottostanti.

LUCA CHIANCA Nel progetto delle squadre solo lo stadio quanto verrebbe?

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO 600 milioni di euro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quando ha finito di scrivere il progetto, Aceti lo propone alle squadre.

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO Le squadre dopo due giorni hanno risposto che la soluzione non era da loro sposabile e che quindi secondo i loro obiettivi era necessario procedere con una nuova costruzione.

DA SKY TG24 DEL 10/10/2019 PAOLO SCARONI Non c'è una lira di denaro pubblico, investiamo 1 miliardo e 200 milioni di euro, però naturalmente i nostri azionisti per investire 1 miliardo e 200 milioni di euro vogliono tempi certi, situazione diciamo non nebulose, e vogliono quella chiarezza che gli investitori internazionali ritengono necessarie prima di investire queste cifre.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO GRAFICA Ma per costruire quello che vogliono le società c'è bisogno di cambiare l'indice edificatorio che ad oggi, da piano regolatore, non supera lo 0,35. Basta guardare i bilanci del Milan per capire quanto sia importante poter costruire. Da quando Berlusconi lo ha venduto ci sono state perdite per 500 milioni di euro. Dunque il progetto immobiliare di cui lo stadio è solo una parte, potrebbe essere la manna dal cielo per rilanciare la società.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO É chiaro che chi propone ha i suoi obiettivi di redditività, ha i suoi obiettivi di risultato, chi dall'altra parte deve avallare deve vedere che l'interesse pubblico sia rispettato.

LUCA CHIANCA sposta qui Si accoglie perché sennò non sta in piedi l'operazione?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Si accoglie perché l'operazione deve avere una sua economicità.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così i vari uffici del comune di Milano iniziano a lavorare per capire se c'è l'interesse pubblico sul nuovo distretto dello sport di San Siro voluto dalle squadre di calcio.

BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE MILANO IN COMUNE Lì i diversi uffici del comune hanno presentato tutti delle proposte che dicevano: questo non va bene, questo non va bene, questo non va bene. Se uno lo legge avrebbe detto, a questo punto non gli diciamo che c'è l'interesse pubblico.

LUCA CHIANCA E invece? BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE MILANO IN COMUNE E invece miracolosamente non si può escludere la possibilità di dare l'interesse pubblico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La giunta comunale riconosce il pubblico interesse. Ma pone ben 16 condizioni. Una su tutte, obbliga le società a dichiarare i titolari effettivi, e cioè i reali proprietari. Le società rispondono “va bene”, ma solo dopo che l’operazione va in porto. Anche perché questo prevede la legge italiana.

DAVID GENTILI – PRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA COMUNE DI MILANO Dicono: i contraenti della futura concessione saranno nuove entità costituite ad hoc dai club, dimmeli subito non c'è bisogno che aspetti di costituire una società, nel momento stesso in cui tratto, io devo sapere con chi sto trattando. Con il rischio più volte paventato che soprattutto il fondo Elliott una volta messa la firma abbia già qualcuno a cui rivendere quei diritti.

LUCA CHIANCA Con chi tratta però la pubblica amministrazione?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Io oggi ho un proponente che il MILAN AC che è una società di diritto italiano che è ad oggi, non è interdetta dall'esercizio dell’attività amministrativa e dell'altra parte ho la FC internazionale spa.

LUCA CHIANCA Ma lei è in grado di dirmi che il reale proprietario del Milan? Oggi?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO La procedura prevede che io lo faccia oggi? No.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Io so cosa dice la legge e cosa dice anche la Banca d'Italia, addirittura nel 2018 ha emanato le istruzioni sulla comunicazione delle operazioni sospette da parte della pubblica amministrazione. Soprattutto questa a mio parere: il soggetto a cui è riferita l'operazione è caratterizzato da strutture societarie opache... Se è chiara non segnala, se opaca segnala.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO É questa la fotografia del retrobottega della società che in questo momento sta dialogando con il comune di Milano per la realizzazione del mega progetto immobiliare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il retrobottega, lo abbiamo visto, è un po’ ingarbugliato. Ora ci sono due progetti immobiliari da realizzare; ne va scelto ovviamente uno. Ci sono due società: Inter e Milan e il presidente del Milan Scaroni dice: attenzione, ci sono degli investitori che sono pronti a mettere sul piatto un miliardo e 200 milioni. Sono tutti soldi privati. È vero. Però qua ci sono dei terreni e delle concessioni pubbliche che devono essere rilasciate in base al presupposto d’interesse pubblico. Scaroni dice gli investitori vogliono tempi certi di realizzazione e nessuna situazione nebulosa. Meraviglioso, ma il Milan quale situazione di chiarezza offre in questo momento? Nella delibera del comune che pone alla base l’interesse pubblico, che riconosce l’interesse pubblico, chiede, pone delle condizioni. Una è: mi dite società quali saranno i titolari della concessione pubblica? Loro, le società, rispondono va bene, te lo diciamo ma solo in sede di gara. Ecco questo è quello che prevede la legge: cioè la legge prevede che il comune di Milano in una fase come questa di trattativa, possa trattare con qualcuno che ha il burqa. Ecco, una situazione nebulosa che però accompagna il Milan dal 2016, da quando cioè Berlusconi decide di vendere il suo gioiello. È un momento di difficoltà per le casse del Milan, ma anche per le società della famiglia Berlusconi. Fininvest deve parare l’attacco, della scalata di Vivendi a Mediaset. La provvidenza arriva nei panni di un cinese. Un cinese, Mister Li, residente a Hong Kong che porta milioni di euro dai paradisi fiscali. Alla fine Fininvest incasserà circa 740 milioni di euro. La maggior parte dei quali a provenienza ignota.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO É il 9 maggio del 2018 allo Stadio Olimpico c'è Juventus-Milan, finale di Coppa Italia.

LUCA CHIANCA Senatore, Chianca di Report, come sta? Oggi è una grande giornata eh per lei...

ADRIANO GALLIANI – AMMINISTRATORE DELEGATO AC MILAN 1986-2017 Sì.

LUCA CHIANCA Pronostico?

ADRIANO GALLIANI – AMMINISTRATORE DELEGATO AC MILAN 1986-2017 Non faccio mai pronostici.

LUCA CHIANCA Del suo vecchio Milan.

ADRIANO GALLIANI – AMMINISTRATORE DELEGATO AC MILAN 1986-2017 Sono rimasto scaramantico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dalla Cina arriva Yonghong Li. Il nuovo presidente della società rossonera che in un solo anno ha portato in finale il Milan. Mr Li, cinese della provincia del Guangdong ma residente a Hong Kong è arrivato avvolto da una nuvola di società offshore che nel solo 2016 ha consentito a Fininvest di ridurre l'indebitamento bancario da 275 milioni di euro a 25 milioni di euro.

LI YONGHONG – PRESIDENTE AC MILAN Forza Milan.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il Milan lo presenta alla stampa come il socio di maggioranza della più imponente miniera di fosforo della Cina. Ma a rompere l’incantesimo è il New York Times.

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Siamo andati presso la sede della sua società, quello che abbiamo trovato è un ufficio abbandonato con un avviso di sfratto appiccicato all'ingresso e addirittura i vermi nei cestini dell'immondizia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Eccole le immagini in esclusiva degli uffici della società girate da Ryan McMorrow per il New York Times.

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Insomma, voglio dire, questa è la società che ha comprato il Milan! Abbiamo chiesto in giro, nessuno ha mai saputo chi fosse questo Yonghong Li.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mister Li ha cercato a più riprese di rassicurare i suoi tifosi.

LI YONGHONG – PRESIDENTE AC MILAN Dal giorno in cui ho comprato il Milan ho incontrato molte difficoltà e ho subito pressioni senza precedenti, stando a questi documenti e irresponsabili servizi giornalistici. Vorrei tranquillizzare l'ambiente intorno alla squadra. La situazione relativa le mie risorse personali è completamente sana.

MARIO GEREVINI – GIORNALISTA - CORRIERE DELLA SERA In Cina mister Li ha avuto seri problemi con una delle sue holding, una di quelle che ha presentato sul tavolo della trattativa…

LUCA CHIANCA Come curriculum, no? Per prendere il Milan…

MARIO GEREVINI – GIORNALISTA - CORRIERE DELLA SERA …come credenziale. Solo che questa holding mentre lui stava comprando il Milan, era già in gravi difficoltà, aveva i creditori alle costole perché non aveva rimborsato dei debiti e alla fine è fallita...

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Mi chiedo chi abbia fatto la due diligence sulle società di Mister Li. Ammesso che ce ne sia stata una!

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ad affiancare Fininvest nella vendita c'è la banca d'affari Lazard, mentre mister Li lo ha seguito la Rothschild Italia. Vicepresidente a Londra è Paolo Scaroni, ex Eni, da sempre vicino al cavaliere. E dopo la vendita Scaroni diventa prima consigliere d'amministrazione e poi presidente del Milan, ma nessuno sembra aver registrato la criticità sulla solidità finanziaria di mister Li che con un patrimonio stimato di 500 milioni ha fatto un'operazione da oltre 700 milioni. Quando La famiglia Berlusconi vende il Milan al cinese, lo vende a una società dal nome “Rossoneri Sport Investment” che ha la sede in Lussemburgo, in questo palazzo.

LUCA CHIANCA Cercavo la Rossoneri Sport Investment.

RECEPTIONIST Qui c'è solo il domicilio fiscale, non ci sono fisicamente gli uffici.

LUCA CHIANCA Non c'è nessuno con cui parlare?

RECEPTIONIST Non è possibile parlare con nessuno, mi dispiace.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per acquistare il il Milan entrano 740 milioni nelle casse della Fininvest. La prima caparra di 100 milioni per bloccare l’operazione risale all’agosto del 2016. A dicembre dello stesso anno arrivano altri 100 milioni dalla Willy Shine delle British Virgin Island, a febbraio 2017 altri 100 milioni, di cui 50 dalla Rossoneri Advance sempre nel paradiso fiscale delle BVI. Dopo aver dato i primi 300 milioni per l'acquisto del Milan, il cinese ha difficoltà a saldare il conto a Fininvest che in quel momento è sotto attacco per la scalata ostile di Vivendi su Mediaset. La provvidenza per le aziende di famiglia di Berlusconi, ma anche per mister Li, veste i panni del fondo Elliott che presta al cinese 303 milioni di euro.

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Quello che sembra molto strano dell'acquisizione è anche il prestito che il fondo Elliott ha finanziato, ufficialmente per evitare le restrizioni del governo cinese per le fughe di capitali. Ma i tassi di interesse sono molto alti, intorno all'11%.

MARIO GEREVINI – GIORNALISTA – CORRIERE DELLA SERA Nella partita Milan, Elliott dà una mano al cinese e indirettamente alla Fininvest, cioè indirettamente permette dopo due anni di tira e molla, che si chiuda l’operazione Milan.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mister Li, per ottenere il prestito però è costretto a dare in pegno tutte le azioni del Milan. In caso di mancata restituzione Elliott sarebbe diventato il proprietario del Milan, pagandolo la metà del prezzo di vendita. I registi dell'ingresso del fondo Elliott nel Milan, sono due finanzieri, Gianluca D'Avanzo e Salvatore Cerchione. Oggi siedono entrambi nel consiglio di amministrazione del Milan. Hanno base a Londra e le società da cui dipende il club rossonero le hanno piazzate in Lussemburgo. Quando al cinese subentra il fondo Elliott viene costituita la società Project Redblack, partecipata a sua volta da due anonime del Delaware e da un'altra lussemburghese, la Blue Skye di D’Avanzo e Cerchione.

UOMO Blue Skye non l'ho mai sentita qua.

LUCA CHIANCA Project Redblack? UOMO Sei sicuro che sia qua?

LUCA CHIANCA Sì. LUCA CHIANCA Gianluca D'Avanzo e Salvatore Cerchione?

UOMO Di sicuro non ci sono italiani che io sappia.

LUCA CHIANCA La Project Redblack è la società veicolo che ha acquistato il Milan, quindi tu… mai sentito nulla?

UOMO No, purtroppo no.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO – DA GIRARE NUOVAMENTE Questa project ha dato alla sport che poi ha girato ovviamente anche al Milan la bellezza di 403 milioni di euro.

LUCA CHIANCA Teoricamente però sarà il Fondo Elliott a darli.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO - Ma chi lo sa? Tutti scrivono che c'è sto fondo Elliott, io vedo che dietro una catena societaria lussemburghese ci sono delle società del Delaware però la dichiarazione della controllante del Milan è che la maggioranza non è di Elliott, la maggioranza è di Salvatore Cerchione e Gianluca d'Avanzo.

LUCA CHIANCA Che sono i consiglieri di amministrazione del Milan.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO - Sì ma sono i proprietari, sono i titolari effettivi. Il vero tema è da dove arrivano i soldi? Non si può sapere perché con queste costruzioni offshore sono fatte apposta per non mostrare soprattutto la provenienza dei fondi.

LUCA CHIANCA Però lei tratta con queste scatole lussemburghesi quando va a trattare con il Milan.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Non è vero dai…

LUCA CHIANCA Come no?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Perché oggi ho davanti a me due spa italiane.

LUCA CHIANCA Il comune di Milano sta parlando con società di cui non sappiamo nulla. E lei si nasconde, tra virgolette, dietro al fatto che lei mi dice, è un spa italiana.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Io cosa dovrei fare come amministrazione dovrei dirle, no io con voi non parlo perché voi potreste avere alle spalle dei capitali di un certo tipo e allora io faccio la vezzosa dico non vi parlo insieme. No dice guarda se tu non ci parli insieme noi ricorriamo al tar e ci devi parlare per forza, la legge dello stato italiano è questa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È vero, finché non si chiude l'accordo di concessione tra il comune e le società per il nuovo stadio di Milano non c'è l'obbligo di dichiarare il titolare effettivo, ma la pubblica amministrazione anche durante la fase della trattativa ha un ruolo ben definito dalla normativa. GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma se nelle more il pubblico amministratore sospetta o ha ragionevoli motivi per sospettare che sia in corso un'operazione di riciclaggio tra cui anche la presenza di titolari effettivi non credibili deve segnalare l'operazione sospetta.

LUCA CHIANCA In questo caso siamo di fronte a titolari effettivi credibili o non credibili?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO - ESPERTO DI RICICLAGGIO Allora io non lo so, magari sono miliardari questi signori in euro o in dollari io non li conosco, non so chi siano. La valutazione la deve fare chi è preposto a questa valutazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Report, lunedì scorso, aveva anticipato che i proprietari effettivi del Milan, sono Cerchione e D’Avanzo, come riporta il registro dei titolari effettivi delle imprese in Lussemburgo. Qualche giorno dopo invece una non ben identificata fonte del Fondo Elliot fa trapelare attraverso un Ansa che Elliott sarebbe proprietaria del 96% del Milan.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Non è vero. Se così fosse tutti gli amministratori di tutte le società lussemburghesi di questa infinita catena hanno detto il falso nei pubblici registri lussemburghesi. LUCA CHIANCA Perché il falso?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Perché le dichiarazioni che hanno fatto al pubblico registro dei titolari effettivi sono per la proprietà di D’Avanzo e Cerchione al 51% circa e 49% ce l’ha l’americano.

 LUCA CHIANCA Titolare effettivo è l’ultimo beneficiario di qualsiasi operazione che fa quella società?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO E l’ultimo beneficiario indipendentemente dal fatto che abbia le azioni, abbia le quote, abbia i contratti.

LUCA CHIANCA Abbia i soldi…

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Gli accordi, poi i soldi è irrilevante il fatto che uno ci mette i soldi sarà creditore ma non è mica socio se ci mette i soldi.

LUCA CHIANCA Che problemi hanno a dichiarare quello che hanno dichiarato a un pubblico registro?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Diciamo che la dichiarazione al pubblico registro che mostra quello che si vede poi fa sorgere delle perplessità, ma come mai questi due giovanotti hanno la maggioranza del Milan?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come mai? Bisognerebbe capire che cosa che è successo quando, nel 2016 Berlusconi ha venduto. Intanto è stato scelto un cinese, Mr. Li, residente a Hong Kong, un patrimonio stimato di circa 500 milioni di euro, è proprietario di miniere di fosforo, ma quando lui entra nell’affare Milan, che è quotato circa 740 milioni di euro, le sue hodling sono già in crisi. Il new York Times quando va nella sua sede, ad un certo punto, trova nei cestini dell’immondizia i vermi, si chiede: ma qualcuno la due diligence sul cinese l’ha fatta? Ora a accompagnare nella vendita Fininvest è stata la banca d’affari Lazard. Mentre invece ad accompagnare Mr. Li, l’ha scelto lui stesso, è stata banca Rothschild Italia. Vice presidente Rothschild a Londra, Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan. Anche in rappresentanza del fondo Elliott. Elliott che ha avuto un ruolo importante in tutta questa vicenda perché quando il cinese non aveva più la possibilità di pagare l’ultima rata, l’ultima tranche, quella da 303 milioni di euro li presta Elliott. Elliott che chiede al cinese in cambio le sue quote del Milan. Ma i veri registri di questa operazione che di fatto porta soldi freschi nelle casse di Fininvest che è sotto attaco, che ha sotto attacco Mediaset, per via della scalata di Vivendi, sono due imprenditori napoletani: Cerchione e D’Avanzo. Dalle carte lussemburghesi emerge che sono loro i proprietari del Milan, lo dichiarano loro stessi, ecco. Detengono attraverso Blue Skye, poco più del 50 per cento delle quote della Project Red Black, la società che a sua volta controlla la Rossoneri Sport Investment, la società usata dal cinese per acquistare il Milan che a sua volta controlla il Milan. Cerchione e D’Avanzo hanno come soci nella Project anche due società anonime del Delaware. Ecco chi sono Cerchione e D’Avanzo? Intanto potremmo definirli due angeli custodi perché hanno salvato il Milan in qualche modo e anche Fininvest indirettamente che aveva Mediaset sotto attacco nella scalata di Vivendi. E poi hanno anche salvato la memoria di Hemingway a Venezia: vedremo chi è il nome tutelare du questa memoria. E poi si sono infilati in un’operazione finanziaria dove i protagonisti erano il privato e il pubblico della sanità campana.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I proprietari del Milan, Gianluca D’Avanzo e Salvatore Cerchione, sono nati a Napoli. Ed è qui che ha origine la loro ascesa nel mondo finanziario. Uno dei primi investimenti è nella società Beta Skye srl che a partire dal 2006 acquista circa 12 milioni di euro di crediti che vantano alcune strutture accreditate presso il servizio sanitario della regione Campania. Il problema dei mancati pagamenti in Campania si protrae per anni fino a scoppiare nel 2012 coinvolgendo anche le farmacie.

ENZO SANTAGADA - PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI FARMACISTI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI Sì decidemmo lo sciopero della fame. Questo era il mio letto io la sera allestivo con delle lenzuola e un cuscino.

LUCA CHIANCA Lei ha dormito qui per quanti giorni esattamente?

ENZO SANTAGADA - PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI FARMACISTI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI Per 11 giorni, 11 giorni io ricordo benissimo qui era testa, qui mettevo i piedi.

LUCA CHIANCA Senza mangiare.

ENZO SANTAGADA - PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI FARMACISTI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI Senza mangiare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Pierpaolo Polizzi rappresenta un comparto da 700 milioni che all'epoca aveva ritardi di pagamento fino a 3 anni.

PIERPAOLO POLIZZI, PRESIDENTE ASPAT Le Asl non pagavano più e quindi noi eravamo costretti a prendere le nostre fatture mensili e portarle alle finanziarie che acquistavano questi nostri crediti attraverso una cessione del credito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E qui compare la Beta Skye di Cerchione e D'Avanzo. Si presentano come salvatori della patria perché immettono liquidità, ma lo fanno pagando le fatture agli imprenditori della sanità privata circa il 30% in meno con commissioni altissime facendosi però rimborsare dalla regione l'intera cifra dovuta più gli interessi maturati.

PIERPAOLO POLIZZI, PRESIDENTE ASPAT Infatti gran parte di quelle aziende che hanno ceduto crediti alle finanziarie in particolare a Beta Skye hanno subito dei default gravissimi e ovviamente trascurando alcune partire come la questione dei contributi, siamo stati tutti quanti portati in tribunale dallo stesso stato che non ci paga. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Polizzi negli anni aveva accumulato migliaia di euro di interessi per i mancati pagamenti della Regione e quando il giudice li ha riconosciuti ormai erano già nella pancia di Beta skye ma lui prova a chiederli ugualmente.

PIERPAOLO POLIZZI, PRESIDENTE ASPAT E Beta Skye mi buttarono la porta in faccia dicendomi che quella somma era di assoluta loro pertinenza erano tutti soldi loro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A mettere fine a questa vicenda arriva solo dopo molti anni di latitanza la politica.

STEFANO CALDORO – PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA 2010-2015 I tribunali davano torto alla regione e garantivano gli interessi degli intermediari finanziari allora come bisognava bloccare questo sistema? Avere liquidità e fare le transazioni, non vi pagheremo più a due anni ma a 60,90 giorni e ci riuscimmo.

LUCA CHIANCA Ci furono tagli sulla sanità pubblica?

STEFANO CALDORO – PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA 2010-2015 I tagli sono stati sugli organici, medici e infermieri andavano in pensione e noi non potevamo riassumere questa è stata la grande colpa di circa 20 anni di politica sanitaria in Italia.

LUCA CHIANCA Oggi li stiamo pagando anche con il Covid?

STEFANO CALDORO – PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA 2010-2015 Ma non c'è dubbio.

PIERPAOLO POLIZZI - PRESIDENTE ASPAT Se faccia rabbia che con i soldi nostri e chissà di quante altre situazioni loro hanno fatto i loro bravi investimenti queste sono cose che…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I due finanzieri del Milan sembrano specializzati nei salvataggi. Sono intervenuti per tirare fuori dai guai anche il prestigioso bar di Hemingway, l'Harry’s di Venezia, della famiglia Cipriani quando nel 2012, rischiava di chiudere i battenti. Ed è per questo che nel 2018 eravamo andati a cercarli al C di Londra nel quartiere di Mayfair dove avevano la loro base.

LUCA CHIANCA Cercavo D'Avanzo o Cerchione.

DIPENDENTE C LONDON Eh guardi, vieni dentro. Facciamo uno alla volta. Gianluca e Salvatore non saprei vado a vedere. Non ci sono. Avevate un appuntamento qui? No?

LUCA CHIANCA No, li sto cercando dall'Italia però non rispondono alle email e non so come fare.

DIPENDENTE C LONDON Ah ok, ma posso aiutarvi io?

LUCA CHIANCA Mi sto occupando della vendita del Milan, volevo sentire loro.

DIPENDENTE C LONDON Sì, io posso sentirli nel pomeriggio. E vedo se vi chiamano?

LUCA CHIANCA E Giuseppe Cipriani?

DIPENDENTE C LONDON Giuseppe ha appena aperto a Riad, quindi probabilmente è là. Tra pochissimo sarà a Ibiza per l’estate.

LUCA CHIANCA Dove c'è la Minetti che è la sua compagna.

DIPENDENTE C LONDON Esattamente.

LUCA CHIANCA Mi chiama lei? DIPENDENTE C LONDON Io la chiamo comunque.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ovviamente non ci hanno richiamato. Giuseppe Cipriani, nel 2018 è il compagno di Nicole Minetti, l'ex consigliera regionale della Lombardia, condannata in cassazione per favoreggiamento della prostituzione per il suo ruolo nelle feste del bunga-bunga di Berlusconi. Dopo la parentesi nel parlamentino lombardo, come abbiamo appreso dal suo profilo Instagram, è passata alla passione per la musica, tra New York, Milano e Ibiza. Leggendo il curriculum di Cerchione e D’avanzo emergono i contatti con il mondo berlusconiano: i due sono stati legati a doppio filo con la finanziaria Sopaf, dove c’era l’uomo che per 31 anni ha guidato il Milan: Adriano Galliani. LUCA CHIANCA Dietro al fondo Elliott chi c'è? I due napoletani di Londra lei li conosce? É stato in Sopaf una società che ha fondato la Blue Skye che è la loro società. Lei li conosce D'Avanzo e Cerchione? Senatore, senatore.

LUCA CHIANCA Presidente, posso disturbarla?

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA Sono Chianca di Report.

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN Eh appunto.

LUCA CHIANCA Eh…

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA Ci facciamo una chiacchiera…

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA Mi può spiegare solo il ruolo di Cerchione e D'Avanzo. Mi dia una mano a ricostruire un po' i passaggi lei ha un ruolo nel fondo Elliott.

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA C’è D’avanzo, Cerchione…perchè non mi rilasciate un’intervista anche sul ruolo del fondo Elliott, presidente. Non mi dice nulla eh? Presidente…

SALVATORE CERCHIONE Hello.

LUCA CHIANCA Cerchione buongiorno sono Chianca di Report disturbo?

SALVATORE CERCHIONE Hello?

LUCA CHIANCA Cerchione? Dottore, mi sente?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E niente non c’è nulla da fare, nessuno vuole parlare con noi. Comunque Cerchione e D’Avanzo che fanno parte anche del consiglio di amministrazione del Milan, lo hanno dichiarato loro stessi: detengono poco più del 50 per cento delle quote della società che controlla a cascata il Milan. Ora questo però l’hanno detto in Lussemburgo. Perché l’hanno detto in Lussemburgo? Perché lì nel gennaio del 2019 è stato… facendo propria una direttiva europea, una normativa di antiricilaggio, hanno istituito il registro dei titolari delle società, delle quote effettive delle società, sia quelle della capitale che quelle giuridiche. Di persona. E questo l’hanno dovuto fare perché superano la quota del 25 per cento a testa, e altrimenti sarebbero andati incontro ad una multa fino a un milione e 250 mila euro. Ecco, il Lussemburgo che non brilla certo per trasparenza ha istituito il registro. Ora noi che cosa abbiamo fatto? Quando abbiamo anticipato la notizia che i proprietari del Milan erano loro, l’altra settimana, è uscita fuori un’Ansa, un’agenzia che ha ripreso la nota di un fantomatico rappresentante del fondo Elliott che ha detto: no, il Milan è di Elliott del 96 per cento. Ora chi è che dice la verità? Qui in italia non possiamo saperlo perchè l’Italia non ha ancora istituito il registro dei titolari delle imprese. E dunque delle due l’ una: o Cerchione e D’Avanzo hanno mentito a uno stato o l’hanno fatto i soci di Elliott. Ecco insomma vedremo. Quello che però è certo è che la loro società, la società di Cerchione e D’Avanzo Blue Skye, nasce da Sopaf, Sopaf che era la società, la finanziaria di Giorgio Magnoni, l’imprenditore. Nel cda c’era anche Adriano Galliani. 31 anni con Berlusconi. Forse giusto Berlusconi potrà dirci come stanno effettivamente le cose. Chi è che ha giudicato più attendibile di lui al punto di cedergli il suo gioiello. Potrebbe anche chiedere informazioni al presidente del Milan Paolo Scaroni, ex Eni,suo amico, colui che ha condiviso le politiche sul gas del suo amico Putin. Ora Cerchione e D’Avanzo ed Elliott sono anche i protagonisti di un’altra vicenda, riguarda l’azienda delle matite Fila. I manager, i proprietari sono Massimo Candela e sua sorella Simona. Ad un certo punto nel 2018 i due sono un po’ in contrasto tra loro, Simona Candela decide di vendere le sua quote. E chi se le compra? Insomma… indovinate un po’? Sempre una Project. Questa volta non è la RedBlack, ma sempre una Project. Project e cosa?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Come si chiama la società che controlla la società che controlla il Milan?

LUCA CHIANCA La Project, e anche qui abbiamo una Project che non è redblack ma Pencil.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Chi sono gli ideatori?

LUCA CHIANCA Sempre loro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sempre dal Lussemburgo, questa volta con la Project Pencil, Cerchione e d’Avanzo hanno acquistato le quote di una società italiana che controlla un'importante azienda di matite, la Fila. A vendergli le quote è la signora Simona Candela, che con il fratello Massimo è la proprietaria della Fila. A gestire la compravendita è l'avvocato Alfredo Craca, anche lui consigliere d'amministrazione del Milan, contemporaneamente il legale di chi compra e di chi vende.

LUCA CHIANCA è un po' anomalo.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Lei faccia le valutazioni che crede io non posso evidentemente su questo sindacare.

LUCA CHIANCA Ma è vero o no? Sto dicendo una cosa sbagliata è vero o no che lei è l'avvocato del compratore e del venditore.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Io non posso e non intendo rendere delle dichiarazioni in rispetto a delle attività che ho svolto come professionista.

LUCA CHIANCA Questa cosa di Ginevra, conti correnti tutti dentro la stessa banca.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Senta ma ancora, le ho risposto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I 50 milioni utilizzati per entrare in Fila sono stati spostati all'interno della stessa banca. È la Rothshild di Ginevra dove hanno i conti sia le società di D'Avanzo e Cerchione, che quella della signora Candela. 10 milioni come anticipo e 40 milioni a saldo. Ma anche in questa operazione entra in gioco Elliott. Il fondo americano attraverso due società offshore presta ben 20 milioni. Ma dopo 5 giorni le stesse cifre rientrano a chi le aveva prestate, cioè al Fondo Elliott e la Blue Sky dei due finanzieri. Quello che non si capisce dai pochi bilanci a disposizione è da dove arrivano i 40 milioni del saldo che tornano indietro creando un'operazione di fatto a saldo zero.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Tirano i 40, riprendono 40 punto. Il problema è nella società italiana cosa è rimasto?

LUCA CHIANCA Che operazione è questa?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma chi lo sa, è un progetto. Guarda per esempio la Project Pencil quand'è che restituisce i 40 milioni? Nel 2018 e l'ultimo bilancio depositato qual è?

LUCA CHIANCA 17.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello dei 40 milioni che escono e rientrano è un mistero. L’ennesimo dopo quello della compravendita del Milan. L’unico che potrebbe spiegarcelo è l’uno e trino avvocato Craca. È nel cda del Milan, è il legale dei proprietari del Milan Cerchione e D’Avanzo, che comprano anche le quote della fila, ed è il legale di chi le vende, Simona Candela.

LUCA CHIANCA Però me la spiega l'operazione fatta in Svizzera?

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Scusi ma io sono un professionista rivolgetevi alle parti se avete qualcosa da chiedere ma non sono certamente io…

LUCA CHIANCA Chiedo a Lei che ha gestito tutta l'operazione per conto dei suoi clienti.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Ma io sono un professionista non posso certamente mettermi a rendere a terzi informazioni.

LUCA CHIANCA Com'è possibile chiedere un prestito di 40 milioni e avere la restituzione di quei soldi in 5 giorni.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Forse non sono stato chiaro, lei non mi vuole ascoltare.

LUCA CHIANCA Io l'ascolto ma gradirei delle risposte, le chiedo solo i soldi la Candela li ha visti o no, ce li ha o no questi 40 milioni?

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Senta se lei non mi vuole ascoltare nelle risposte che le sto dando e continuiamo a fare questo rimpiattino, la saluto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello che scopriamo dalle carte è che l'assessore al bilancio di Milano Tasca, che segue anche la partita dello Stadio, due mesi prima l'insediamento dell'avvocato Craca nel cda del Milan, è intervenuto con una consulenza tecnica nella controversia civile che vede scontrarsi Massimo Candela, la sorella Simona, coinvolgendo anche la società lussemburghese riconducibile a D'Avanzo e Cerchione.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Quando io prendo quella consulenza Craca non è consigliere del Milan, quindi per me è un avvocato come quanti di quelli con cui lavoravo prima.

LUCA CHIANCA Però uno dei due è già dentro.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Chi? LUCA CHIANCA Cerchione mi sembra che già fosse dentro il Milan.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Ma lei mi sta citando delle persone che non ho mai incontrato in vita mia, io ho un incarico che mi è stato dato e l’unica persona che ho incontrato di quella vicenda è la signora Candela.

LUCA CHIANCA Craca fa l'avvocato per la signora Candela, fa l'avvocato in quelle cause per i due consiglieri d'amministrazione del Milan Cerchione e D'Avanzo quindi diciamo lì è quasi un tutt'uno difficile distinguere.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Io non è che ho detto che non conosco Alfredo Craca eh, mi sembra un tema fuori discussione. Le ho detto anche io che conosco Marco Patuano che un altro consigliere, le ho dato io anche un'informazione in più.

LUCA CHIANCA Ma guardi neanche di Craca è nota questa sua amicizia che è avvocato di altri due consiglieri di amministrazione del Milan e stanno lì nel consiglio di amministrazione del Milan per volontà del fondo Elliott che è dietro anche a l'operazione immobiliare dello stadio.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Scusi che cosa sta sostenendo che mi faccio influenzare dalla presenza di Patuano e Craca all’interno del Milan, allora posso dirle una cosa noi non vediamo neanche il derby insieme perché litighiamo, quindi succede spesso che dopo il derby io vada a cena con Patuano, è un mio amico da 25 anni non ho nessuna intenzione di cambiare le mie relazioni personali per qualsiasi illazione lei possa fare a proposito.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Noi crediamo all’assessore Tasca. È una persona, è un amministratore specchiato. Poi è interista, deve trattare per la sua squadra del cuore che però pure là, il 30 della proprietà è nell’offshore. È lo stato che però deve aiutare gli amministratori bravi come lui. Come? Aumentando la trasparenza. Qui l’assessore al bilancio e al demanio Tasca sta trattando con una società, il Milan, per l’autorizzazione di un progetto immobiliare importantissimo e deve rilasciare un terreno con delle concessioni pubbliche. E non sa chi ha l’effettiva proprietà. Ora perché non lo sa? Perché in Italia non è stato istituito il registro dei titolari effettivi delle imprese. Questa era una normativa che rientrava nella direttiva comunitaria contro il riciclaggio, lo spirito era quello di rendere la vita più difficile ai criminali, ai terroristi, anche semplicemente agli evasori che volevano riciclare del denaro per comprarsi pezzi di un paese che hanno contribuito a fiaccare. Ora questo registro avrebbe aiutato i professionisti, i notai, i commercialisti, le banche, le assicurazioni, i semplici imprenditori, oltre che le autorità giudiziarie e quelle che contribuiscono a recuperare l’evaso. Ma questo registro che doveva essere istituito a luglio del 2020, il ministero dell’Economia e delle Finanze e il ministero dello Sviluppo Economico si sono dimenticati di istituirlo. Ecco, ministro Patuanelli e ministro Gualtieri, vi prego istituitelo subito questo registro, prima che pezzi del nostro paese, fiaccati anche nell’economia dal Covid, finiscano nelle mani sbagliate.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 23 novembre 2020. Una vita da tifoso, anni di fatica e botte e vinci casomai cinque Champions League, otto scudetti e altrettanti Palloni d' Oro. Sempre lì, lì in tribuna, finché ce ne hai stai lì. Adriano Galliani ha 76 anni, è senatore della Repubblica e un sacco di altre cose ma non ha ancora terminato la benzina. A differenza del mediano di fatica celebrato dalla canzone di Luciano Ligabue, non è «uno che finisce presto». In compenso, quando ha la palla tra i piedi, fa le cose in fretta. Un anno per portare il Milan allo scudetto e due alla Champions. Due anni per traghettare il Monza dalla serie C alla A, traguardo mai raggiunto dalla squadra brianzola nei suoi 108 anni di vita; se tutto andrà bene e la stagione si concluderà con la promozione, è la premessa, ma non ce n' è uno tra quanti bazzicano il calcio disposto a scommettere che non finirà così. Bando alla scaramanzia, neppure l' interessato, che garantisce di «aver approntato una squadra in grado di centrare l' obiettivo», fissato ufficialmente dal presidente Berlusconi, con il quale Galliani forma la coppia più vincente e duratura del pallone italiano.

E se casomai l' anno prossimo il Monza facesse gol al Milan, i tifosi rossoneri vedranno un' esultanza sfrenata alla Galliani o i festeggiamenti sobri dell' ex?

«Non ci casco. Il Milan è nel mio cuore in una maniera pazzesca. Ma le confesso questo: quando iniziai a lavorare con Berlusconi, il primo novembre 1979, nelle tv e non nel calcio, gli diedi la mia disponibilità giorno e notte, ma gli posi una condizione: poter seguire il Monza, di cui ero vicepresidente. Lui mi guardò come se fossi pazzo e acconsentì».

Mi ha risposto.

«Esulto nello stesso modo quando segna il Milan e quando lo fa il Monza, da sempre».

Troppo diplomatico.

«Se sono arrivato al Milan lo devo al Monza. Berlusconi mi ha scelto per il calcio perché sono stato vicepresidente dei brianzoli dal 1975 all' 85, quasi sempre in B Monza».

Con il Covid è ancora calcio?

«Non è più quello di prima. Le partite hanno meno intensità e i valori sono alterati. Il calcio non è solo tecnica, ma anche emotività. Alcuni calciatori, senza i tifosi, si spengono e rendono la metà mentre altri, che si fanno intimorire dai fischi, ora giocano meglio. E poi è saltato il fattore campo, il che ha conseguenze importanti nelle coppe».

La serie A ha già perso 600 milioni, il Barcellona perde 5 milioni al giorno: il virus rischia di far fallire il calcio?

«Il calcio non fallirà, ma molte squadre potrebbero fallire perché il sistema ha avuto una contrazione dei ricavi di quasi il 25%, e non è finita. Mancano del tutto gli introiti dei biglietti, si riducono le entrate che arrivano dagli sponsor e dalla vendita di magliette e prodotti legati alla squadra e poi rischiano di venir meno molti soldi delle tv».

Come se ne esce?

«Il calcio è la quinta industria del Paese, il governo dovrebbe trattarlo come le altre aziende colpite dalla pandemia».

Soldi sui conti correnti come se le squadre fossero delle pizzerie?

«No, però almeno una dilazione delle imposte e crediti fiscali a chi sponsorizzano società sportive mi sembrano il minimo sindacale».

Improbabile. Non ci sono i soldi per i poveri e aiutiamo i milionari. Già mi vedo le proteste.

«Il calcio non è solo serie A. A primavera il 75% dei professionisti della C era in cassa integrazione. Significa che tre su quattro guadagnano meno di 50mila euro l' anno. Basta con il pauperismo d' accatto, siamo un settore dell' economia come gli altri, i calciatori sono lavoratori dipendenti con contratti a termine».

E stipendi da 60 milioni di euro l' anno.

«Quello è solo Cristiano Ronaldo, che però paga allo Stato 28 milioni di euro di tasse, spende in Italia, consuma in Italia. Chi porta i Ronaldo fa un favore al Paese, i ricchi fanno bene all' economia».

Non sarebbe il caso che i calciatori si tagliassero i lucrosi ingaggi per non affossare la barca che li rende ricchi?

«Il taglio non può essere imposto dalla Lega o dalla Federazione, perché si parla di rapporti di lavoro tra privati e nessuno ha diritto di intervenire. Sta alla società e al singolo calciatore. Certo, qualche sacrifico economico non guasterebbe».

Giacché parliamo di soldi, di chi è il Milan?

«Ho visto il servizio di Report, su Rai3, che insinuava dubbi sulla proprietà. L' ennesimo tentativo di colpire Silvio, anche a costo di infangare il Milan. Come quando insinuarono che la vendita ai cinesi fosse un' operazione per ripulire i quattrini di Berlusconi, facendoli rientrare dall' estero».

Non mi ha risposto.

«Il Milan appartiene per il 96% al fondo americano di gestione di investimenti Elliott e per il rimanente 4% a Blue Sky, la società creata dai due finanzieri napoletani che lavorano nella City londinese, Salvatore Cerchione e Luca D' Avanzo: l' hanno acquistato dal cinese Yonghong Li, un' operazione ultra trasparente, controllata e verificata più volte».

Da osservatore esterno: il Milan può vincere lo scudetto?

«Io non sono un osservatore esterno, sono pazzo del Milan. Non è che se sei amministratore delegato non sei scatenato come il più infervorato degli ultras. Ripeto: quest' anno il campionato è una lotteria, vince chi ha meno Covid. Ogni giorno è un bollettino di guerra».

La Juve sembra indebolita rispetto al passato, perde punti.

«Con Ronaldo in campo avrebbe battuto sia Crotone sia Verona. Pirlo è un predestinato. Quest' estate, dopo averlo visto in panchina con l' Under 23 bianconera, gli dissi che sarebbe diventato l' allenatore della prima squadra. Tre giorni dopo gli è arrivato l' incarico. Deve fare il suo esercizio, ma ha talento, sa tutto del calcio e si applica. Non fallirà».

È il suo rimpianto Pirlo, ceduto troppo presto e alla più forte?

«Prima di cederlo l' abbiamo preso dall' Inter e tenuto dieci anni. È vero, l' abbiamo dato troppo presto, ma i veri rimpianti sono altri».

La finale persa con il Liverpool a Istanbul nel 2005, suppongo?

«Partita incredibile, che abbiamo dominato tranne per i sei minuti in cui ci hanno fatto tre gol, i quali peraltro sarebbero stati inutili se l' arbitro non avesse annullato, per un fuorigioco inesistente, una rete di Sheva, al quale poi il portiere inglese ha parato con la testa una bomba da due metri. Però è una partita secca, può capitare. Istanbul è solo il secondo grande rimpianto, anche perché ci siamo rifatti due anni dopo, quando meritava il Liverpool ma abbiamo vinto noi con un gol di schiena di Inzaghi».

I gol di Inzaghi non sono mai casuali.

«Pippo me lo dice ogni volta che in realtà ha pilotato la palla. Io gli rispondo: sì tesoro, bravo».

Qual è il rimpianto vero?

«Il gol, regolarissimo, annullato a Muntari in Milan-Juve del febbraio 2012. Avremmo vinto il secondo scudetto consecutivo con Allegri e sarebbe cambiata la storia».

Capisco che è prima di ogni cosa un tifoso, ma non è da lei prendersela con gli arbitraggi.

«Nel calcio ci sono episodi che possono cambiare la storia di un club per due o tre anni. Se quel pomeriggio dell' ottobre '88 a Belgrado non fosse scesa la nebbia, non avremmo vinto la prima Coppa dei Campioni di Berlusconi e non sarebbe partita la nostra leggenda».

Questo non lo pensa davvero.

«Penso che avremmo vinto tanto, ma non in quel modo. Il ciclo sarebbe stato ritardato».

E cosa sarebbe cambiato se l' arbitro Tagliavento avesse convalidato il gol di Muntari?

«Avremmo vinto lo scudetto, non avremmo ceduto Ibrahimovic e Thiago Silva, due campioni che, a distanza di nove anni, ancora giocano ai massimi livelli. Saremmo potuti ripartire con il quarto grande Milan; soprattutto se mi avessero lasciato concludere l' acquisto di Tevez. Se fosse andata come dico io magari non avremmo venduto e forse oggi saremmo ancora lì. Invece Carlito l' ha preso la Juve, che con lui ha vinto tre scudetti di fila».

Ma allora anche l' Inter di Ronaldo, nel 1998, se gli arbitri Ceccarini, Rodomonti, Cesari? «Ok, lei è interista. Comunque sì: se avesse vinto quello scudetto, l' Inter avrebbe potuto aprire un ciclo».

Mi definisca i tre grandi Milan.

«Gli immortali di Sacchi, gli invincibili di Capello e i meravigliosi di Ancelotti».

Il suo 11 rossonero ideale?

«Impossibile dirlo, abbiamo avuto troppi campioni. Le posso dire però che il più grande di tutti è stato Marco Van Basten».

Per questo l' ha spuntata su Sacchi, che è dovuto emigrare?

«Ahahahahahaha. Questo non me lo può mettere in bocca».

E Ibra, non è così forte?

«È un giocatore immenso».

Non ha mai vinto il Pallone d' oro...

«È rimasto incastrato nel dualismo Ronaldo-Messi. Era difficile entrare in questa logica. E poi bisogna vincere la Champions».

L' ultima italiana a vincerla è stata l' Inter, che ora sulla carta è la più forte, ha l' allenatore più pagato ma non ingrana.

«È tutto ancora da vedere».

Che giocatore italiano le piace oggi?

«A parte Gigio Donnarumma, che è stratosferico, dico Locatelli, che era nostro e ora è a Sassuolo. Per me è uno dei più forti centrocampisti in Europa; molto completo, imposta e ruba palla».

Estratto della prefazione di Gabriele Romagnoli al libro Pasolini- il mio calcio pubblicata da La Repubblica l'11 novembre 2020. Pier Paolo Pasolini e il calcio: storia di un amore grande, insolito e chiacchierato. Come ogni cosa sua, un po' fuori dal tempo, sempre avanti e di lato. Mai sopra: dentro. L' intellettuale in campo. Con lo sguardo partecipe, il sopracciglio disteso, il taccuino aperto. Ecco, dimenticatevi il saggio di Eco su Mike Bongiorno del 1961. Pasolini non si siede per osservare, si mischia per capire. Dirà che il calcio è un linguaggio, i giocatori ne sono i cifratori e gli spettatori, i tifosi, i decifratori. E lui? In che ruolo si è espresso? Questi nove articoli, sei di suo pugno e tre interviste, usciti tra il 1956 e il 1975, sono una piccola grande antologia, un discorso aperto. Al termine del Reportage sul Dio , uscito sul Giorno nel 1963, Pasolini suggerì di lasciare il personaggio «sulla vetta nell' illusione che tutto ciò gli spetti, che sia duraturo ». E noi ci congederemo da lui così, lasciandolo interprete e profeta, calciatore e metacalciatore, fonema e traduttore di quel discorso amoroso che è il gioco. (...) Come i fuoriclasse che esprime, il calcio ha una natura difficile da cogliere, fermare, addomesticare. Scorrendo le pagine di Pasolini troviamo queste possibili definizioni: «È uno sport più un gioco», «è un sistema di segni, quindi un linguaggio», «è un concetto », «è un oppiaceo terapeutico», «è una rappresentazione sacra, l' ultimo grande rito». Tutte queste cose si possono tenere insieme per accumulazione? La risposta è sì, ma in un solo luogo: lo sguardo di Pasolini. Un diverso occhio non coglierebbe l' una o l' altra e sarebbe inutile insistere. C' è chi percepisce il gioco, chi afferra il concetto, chi partecipa al rito. Solo l' esperienza multiforme di Pasolini poteva cogliere tutti gli aspetti in un sol colpo. È come se davanti a un solido qualcuno ne vedesse alcune facce e lui l' intera complessità. La sua osservazione percorre ogni lato. A cominciare dal campo, inevitabilmente di periferia, dove scende come giocatore. Molte foto ce lo restituiscono con una maglia semplice, attillata, le maniche lunghe, i risvolti una riga controcolorata, pantaloncini corti, calzettoni abbassati alle caviglie. È un' ala destra e questo già vuol dire: mettersi di lato, lavorare di fantasia, cercare il senso per porgerlo ad altri, vanificarsi, infine farsi del male, annientarsi. Non ha fatto in tempo a riflettere sul potenziale autodistruttivo dell' ala destra, dilettante o professionista, da George Best a Gigi Meroni. E sul suo progressivo imborghesimento dopo gli anni Ottanta: con Causio, Sala, Conti sono finiti la poesia, il dribbling, la bestemmia contro la liturgia preconfezionata dall' allenatore. Con il dovuto rispetto, è bene gli sia stata risparmiata la linearità di Candreva. Ma Pasolini conosceva bene anche altri due ambienti fondamentali: il bar e lo stadio. Il primo si è dissolto, ma era il forum di quei tempi, la chat dove oggi si celebrano risse virtuali. Lì si concepivano i neologismi e i soprannomi. Scaltri giornalisti li riportavano come invenzioni proprie, ma erano gli anonimi del sublime accanto alla cassa dei gelati a partorirle. (...) Ogni frase ha la sua parola chiave che la illumina. Al punto che "parola chiave" (ormai universalmente "password") è diventata la combinazione per le vere casseforti delle nostre esistenze. In un fraseggio a cui partecipano ventidue "podemi" la parola chiave è il campione, quello che svia il flusso del discorso, lo accende di nuovo e imprevisto significato. Mai per inciso, mai avverbio, giunge per solito al fondo, come conclusione. Il portiere è uno stentato avvio o una mancanza finale provocata dall' assenza d' intervento. Gli altri son mediani costruttori, sfarfallanti terzini, aggettivanti mezze ali. Il campione è il fine/la fine del discorso. Se riuscita, in forma di gol. Pasolini ne ricostruisce il linguaggio e la natura. Bisogna ricordarsi che per lui i calciatori parlano con i piedi (come per Soriano con i piedi pensavano). Quando porterà il suo microfono davanti alle loro labbra nei famosi Comizi d' amore sarà per chiedere ai giocatori del Bologna delle loro abitudini sessuali, non certo della disposizione a giocare in attacco o di rimessa. Di fronte a Giacomo Bulgarelli sembrò avere una visione. «Come avesse incontrato Gesù Cristo», racconterà Sergio Citti, uno dei suoi attori di fiducia. Gli propose addirittura di recitare per lui nei Racconti di Canterbury . Invano. Gli occhi cerulei di Bulgarelli erano fissi sul pallone. Pasolini vedeva altro e altro sentiva. Per lui il capitano del Bologna era letteratura pura. Scriverà nel 1971 che «Bulgarelli gioca un calcio in prosa: è un "prosatore realista"». Così come Rivera è un «prosatore poetico» e Riva un «poeta realista». La poesia si connette invariabilmente al gol: è «invenzione, sovversione del codice, folgorazione ». Il campione è colui che ha questa capacità: illuminato dall' alto, crea, strappa, rimodella, riscrive la storia a modo suo. Questa sua grandezza gli è tanto familiare quanto incontrollabile. È lei a possederlo, non viceversa. Potrebbe apparire una visione idealizzata, non fosse che a Pasolini è chiaro il percorso umano, fin troppo umano, il terriccio con cui è composta e da cui prende vita questa creatura destinata al sovrumano per elezione popolare. Si forgia nelle periferie di tutto il mondo, è fatta della materia dei sogni. Quali? I sogni di riscatto di tutta quella «gioventù incastrata in una piccola sacca del destino » mossa, sentite, annotate, ricordate questa frase: «da quell' ideale, tutto sommato televisivo, della felicità sessuale». Era il 1963 e già Pasolini individuava le caratteristiche non dei re, ma dei tronisti del calcio. 

Massimo Raffaeli per “il Venerdì - la Repubblica” il 30 novembre 2020. I suoi non erano dribbling ma pases de tango, i segni fisiognomici, i capelli arruffati, gli occhi scuri e adusti o persino torvi nella incandescenza del gioco non richiamavano i tratti di un calciatore ma quelli piuttosto di un espada insolente e protervo: il gesto più caratteristico dell' oriundo argentino Enrique Omar Sivori (1935-2005) era peraltro il tunnel, cioè la palla fatta passare tra le gambe di un avversario, con cui irrideva gli arcigni difensori di un tempo, i quali ricambiavano mirando alle sue caviglie nude perché lui, quasi a volerli adescare provocandoli, giocava con il calzettoni perennemente abbassati. Aveva come si dice un piede solo, il sinistro, che tuttavia sapeva usare come un pennello prodigioso (una volta riuscì a segnare, nell' acquivento di San Siro, alzandolo dalla pozzanghera in cui era sprofondato), portava la classica maglia numero 10 dei padreterni del centrocampo ma non aveva un ruolo ben definito perché in effetti giocava da punta truccata, sbucando in area all' improvviso e colpendo con la perfida malignità di un aspide (e un' altra volta, davanti alla porta vuota, aspettò il ritorno di due difensori per dribblarli di nuovo e poi depositare il pallone con ineffabile impassibilità). Non si è mai veramente allenato in vita sua, le sue passioni erano i suoi stessi vizi, dunque whisky, poker e la musica di Carlos Gardel: ombroso, egocentrico, continuava a ribollire in lui la veemenza del peronista di sinistra, l' autentico descamisado che era stato da ragazzo, insieme con una dolcezza e una generosità del tutto introverse che però riaffioravano di colpo come quando, già gravemente malato, nel febbraio del 2004 volò da Buenos Aires a Leeds per l' estremo saluto a John Charles, ex centravanti della Juventus detto "il gigante buono", di cui aveva ammirato non solo la potenza squassante ma il profilo del gentiluomo da cui, senza battere ciglio, aveva accettato due sberle plateali mentre stava per scalciare l' arbitro durante un turbolento Juve-Sampdoria. Di tutto questo, e a specchio di un personale romanzo di formazione, tratta il volume biografico di Andrea Bosco Omar Sivori. L' angelo con la faccia sporca (prefazione di Italo Cucci, postfazione di Gino Stacchini, Minerva Edizioni, pp. 186, euro) dove la passione del tifoso, con i suoi ineluttabili moti nostalgici, è comunque mediata da una informazione di prima mano e da una scrittura nitida. Il sottotitolo viene da trio cara sucia, "angeli dalla faccia sporca", così nel 1957 chiamano gli assi giovanissimi dell' Argentina campione del Sudamerica, tre oriundi che in quella stessa estate, comperati a cifre folli, trasvolano nella terra degli avi: Humberto Maschio, di origini pavesi, che in campo è un mite Toscanini finisce al Bologna, Antonio Valentin Angelillo all' Inter, avi lucani e volitante profilo di goleador, infine Sivori, di ascendenti liguri e abruzzesi, dal River Plate passa alla Juventus. Qui, intorno a lui e a Charles, viene costruita una magnifica squadra dove Sivori sfavilla ma stenta ad accettare il carisma e il potere di Giampiero Boniperti, calciatore di classe nitidissima, che invece è l' uomo della ditta, rispettato e ascoltato dal club di cui un giorno diverrà presidente. Sivori resta otto anni alla Juve e il suo tabellino è eloquente, 215 partite e 135 gol, vince tre campionati ma colleziona per le sue intemperanze qualcosa come 9 espulsioni e 33 giornate di squalifica. Gioca in maniera ditirambica ma va a fasi alterne, tanto che la Juventus chiama ad allenarlo il suo vecchio maestro al River, Renato Cesarini, peraltro suo complice in quelle passioni che sono i suoi stessi vizi. Nel 1961, l' anno apicale, il settimanale France Football gli assegna il Pallone d' oro, massimo riconoscimento continentale, definendolo un footballeur de rêve, un calciatore da sogno. Con la maglia stavolta della nazionale italiana partecipa nel' '62, tra le polemiche, alla sventurata spedizione ai Mondiali del Cile, e anche alla Juve, come capita di dire a Gianni Agnelli, non è più concepito come un genio ma oramai come un "vizio". Per liquidarlo e metterlo alla porta, viene assunto in panchina un ex sottufficiale dell' esercito paraguayano, Heriberto Herrera, ("un ginnasiarca senza fantasia", lo battezza Italo Cucci), maniaco della preparazione atletica e del controllo del peso, nemico giurato dei fuoriclasse e di quanti pretendano sottrarsi agli schemi di gioco e ad un pressing ubiquitario che egli chiama movimiento. l' allevatore nel pallone Fatto sta che, accolto da una folla in delirio alla stazione di Mergellina, Sivori passa al Napoli di Achille Lauro e, vicino al grande intramontabile José Altafini, spende nei residui tre campionati gli spiccioli della sua classe sovrana. Ma nell' anno che più gli assomiglia e ne commemora gli estri, il 1968, questo autentico Battista di Diego Armando Maradona smette con il gioco del calcio e torna in Argentina. Vive da ricco allevatore nella nativa San Nicolàs de los Arroyos perché la carriera di Commissario tecnico della nazionale albiceleste (pare che con i giocatori fosse, per contrappasso, più inflessibile del vecchio nemico Heriberto) gli viene affossata dalla destra peronista di ritorno al potere. Negli anni della dittatura militare si rinchiude, a parte i ritorni in Italia per le comparsate alla Domenica Sportiva dove, al solito pungente, affianca l' amico Sandro Ciotti. Torna un' ultima volta nell' estate del 2004, a Senigallia, per l' inaugurazione di un monumento dedicato a Renato Cesarini. Lì, qualcuno del pubblico gli si avvicina porgendogli per un autografo copia del bellissimo romanzo di Salvatore Bruno, L' allenatore (1963, suoi sponsor, allora, Geno Pampaloni e Cesare Garboli), quasi un romanzo dell' artista da tifoso che gli è espressamente dedicato: Sivori guarda la dedica sorpreso, perplesso, poi aggiunge con un sorriso di grande tenerezza Mah io allora non leggevo uscivo, mi vedevo con Renato Cesarini, facevo altro…

Luciana Grosso per it.businessinsider.com il 28 ottobre 2020. All’età di 74 anni e 125 giorni, l’egiziano Ezzeldin Bahader, è il calciatore più anziano del mondo, superando il record dell’israeliano Isaak Hayik (portiere che ha giocato fino a 73 anni). Milita nella serie C egiziana e Bahader non ha una lunga storia di calcio alle spalle, anzi, è un neofita: ha giocato la sua seconda partita completa solo lo scorso 6 ottobre. “Non limitare le tue ambizioni”, ha detto Bahader ai giornalisti dopo la partita. “Se c’è qualcosa che non puoi ottenere da giovane, nella tua giovinezza, con una forte volontà, puoi ottenerlo in qualsiasi momento, indipendentemente dall’età e dal tempo trascorso”.

Dino Messina per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. Vittorio Feltri, giornalista a 360 gradi, in questo Ritratti di campioni. Cronache di un giornalista tifoso (Mondadori) racconta le sue passioni sportive. L' occasione gliel' ha data il direttore di «Tuttosport» Xavier Jacobelli, invitandolo a comporre una galleria di personaggi secondo il suo originale estro. Ne sono nati 29 cammei sui protagonisti degli sport più diversi in cui il filo conduttore è un trentesimo personaggio: Feltri medesimo, da Bergamo, che è tifoso dell' Atalanta, ma anche e ancor prima della Fiorentina; in gioventù ha tirato di scherma e ricordando il suo maestro Egidio Mazzucconi ancora gli vengono i lucciconi agli occhi; ama i cavalli, ha praticato l' equitazione ed è stato proprietario di purosangue. Ma si interessa anche di ciclismo, motociclismo, nuoto, sci quando i campioni si chiamano Felice Gimondi, Valentino Rossi, Federica Pellegrini, Alberto Tomba. Icone italiane più che semplici campioni sportivi. Oltre alla personalità dell' autore nelle pagine aleggia la presenza di Gianni Brera, il più grande dei cronisti sportivi, che Feltri omaggia sin dalle pagine iniziali e poi con tante citazioni, ma senza scimmiottarlo, mantenendo il suo stile di guascone del giornalismo. Come sappiamo, Vittorio Feltri è un bergamasco che si è fatto da solo, lavorando sodo e facendo scelte controcorrente. Nessuna meraviglia che il volume si apra con il ritratto di Antonio Percassi, il patron dell' Atalanta, nato a Clusone in Val Seriana, che dopo una breve carriera da calciatore, dignitosa, ma non entusiasmante, si è ritirato a 26 anni nell' azienda del padre per fare quel che gli riusciva meglio: l' imprenditore. Attivo nel settore edilizio, Percassi ha acquisito importanti marchi dell' abbigliamento, ma il suo capolavoro, scrive Feltri, è l' Atalanta, un club calcistico gestito con grande oculatezza che ha raggiunto utili di tutto rispetto, se la gioca alla pari con le grandi dei campionati in Italia e in Europa e ha un vivaio che sforna talenti. L' autore svela che Percassi è stato a un passo da entrare in società con lui nella proprietà di «Libero», ma la prudenza l' ha spinto a tirarsi indietro. Tra i proprietari di club cui viene dedicato un irriverente ritratto c' è Rocco Commisso, il proprietario della Fiorentina succeduto ai fratelli Della Valle. Con la sua stazza da Denny De Vito e la sua parlata broccolina, in realtà Commisso è uno straordinario imprenditore nato a Gioiosa Jonica in Calabria, emigrato a 12 anni negli Stati Uniti senza conoscere una parola di inglese. Laureato in ingegneria industriale, Commisso grazie soprattutto alle tv via cavo ha messo assieme un patrimonio da 4,8 miliardi di dollari. Traguardi che hanno portano nelle classifiche di «Forbes» l' uomo che gioca a interpretare la parte del provinciale che realizza un sogno giovanile. L'altro patron ritratto da Feltri è Urbano Cairo, di cui Feltri loda le doti imprenditoriali senza mancare di sottolinearne il tratto parsimonioso e vantandosi di avergli suggerito di ingaggiare il campione Andrea Belotti, simbolo del Toro. Al centro del libro naturalmente ci sono i giocatori. Uno su tutti, Gianni Rivera, con cui l' autore fece il servizio militare a Orvieto nel 1964, quando Rivera a 21 anni era già Rivera, l'«eroe gentile» che danzava con il pallone definito dal ruvido Brera «l' abatino». In realtà di campioni di quella classe si è perso lo stampo. L'unico che per classe gli poteva essere paragonato è stato Roberto Baggio, «l' ultimo calciatore italiano ad averci fatto impazzire», anche se nel ricordo viene associato, lui maestro di arti balistiche, a uno dei pochi errori, il rigore sbagliato nella finale con il Brasile ai mondiali Usa del 1994. Tra i ritratti di allenatori spicca il contrasto tra le due filosofie di Claudio Ranieri, uno che ha saputo vincere la Premier League inglese con la cenerentola Leicester, e Antonio Conte, al quale, circa le mancate vittorie in Champions League con la Juventus, si attribuisce questa frase: «Un cliente con dieci euro non può sedersi a un ristorante dove se ne pagano cento». Negli altri sport, il cuore di Feltri batte in modo particolare per il bergamasco campione di ciclismo Felice Gimondi: «I bergamaschi si commuovono per tre cose: Papa Roncalli, l' Atalanta e Gimondi». E per Lanfranco Dettori, il fantino che ha saputo tenere alta una grande tradizione italiana in Inghilterra, Paese diventato patria dell' ippica. E che ha saputo risollevarsi dopo lo scandalo della positività alla cocaina.

Silvio Baldini: un anarchico in panchina. Paolo Lazzari il 14 settembre 2020 su larno.ilgiornale.it. Essere allenatori di una squadra di calcio talvolta è una missione. Un traguardo da raggiungere per appagare la propria sete interiore. Un modo per esplicare al mondo la propria vocazione. Specie se sei un toscano sanguigno. Specie se ti chiami Silvio Baldini. Gli aggettivi per lui si sprecano: irriverente, anarchico, feroce e brusco nei modi, eppure un padre amorevole per i giocatori che ha avuto in dote. “L’allenatore senza stipendio” sembra il titolo di un cinepanettone, ma ha a che fare con la realtà. Un modo di vivere che si protrae da tre anni a questa parte, in quella Carrara che ha cucito sottopelle: un ossimoro vivente infilato dentro ad un mondo imperniato intorno a rinnovi milionari, richieste choc da parte dei procuratori di turno, mani che si sfregano a ripetizione pregustando lauti contratti pluriennali. Nulla di tutto questo per Silvio da Massa, 62 anni, una carriera come una linea parallela rispetto agli aziendalisti, agli “yes man” di turno che popolano il panorama calcistico nazionale. Percorrere la sua vicenda in lungo e in largo assomiglia tanto ad uno di quei viaggi sulle montagne russe con un doppio avvitamento mortale: scendi e non capisci mai se ti è piaciuto un sacco o se te la sei fatta addosso per la paura. L’impressione, comunque, è quella di aver camminato sempre un po’ troppo sul bordo del rischio. Baldini è un genio della tattica ed un motivatore: ovunque va, i suoi ragazzi lo idolatrano. Però ha anche dei vizi: la toscanità che ribolle nelle vene sa essere una compagna talora ilare, talvolta meschina. Il calcione nel didietro del povero Di Carlo – l’unica cosa che si ricorda davvero di uno sbiadito Parma contro Brescia di troppi anni fa – se ne sta ancora lì a testimoniare i nervi più scoperti di un uomo non asservito che, di quando in quando, trascende. Tutta quella rabbia verso il sistema, quel suo dichiararsi sfacciatamente “anarchico”, del resto, ha un contrappeso. Perché Silvio sorride, ma al contempo soffre. Perché il circuito del grande calcio prima lo mastica compiaciuto e poi lo sputa via senza deglutirlo. Arrivi in piazze importanti dopo anni di dura gavetta, ma poi tutto si sfascia. Le tue squadre propongono un calcio offensivo e disinvolto: Brescia, Parma, Catania e via dicendo. Alla gente piace, a te pure, ai giocatori anche. Certo non fate miracoli, ma un piccolo pezzo di magia vi riesce sempre ed è tutto racchiuso nei sorrisi che strappate sugli spalti. Poi si spegne la luce. Per sei lunghi anni tutti si scordano di te. Ti infilano in un cassetto. Solo che sei troppo grosso per starci dentro: scalci e spintoni, com’è tua consuetudine. Vieni fuori e ti riproponi nel modo più assurdo per gli altri: “Allenerò gratis a Carrara“. Un miraggio in mezzo ad un’oasi di rassegnazione, tra agenti tritaemozioni e imberbi che sognano la Ferrari nel vialetto di casa. “Quando smetto mi dedicherò alla natura, non voglio finire in galera”, dice in una conferenza. Perché Silvio Baldini è questo, prendere o lasciare: autentico fino al limite, fuori spartito, tutt’altro che politicamente corretto. Ma è anche così, in fondo, che si diventa un mito.

Giancarlo Dotto per Vanity Fair il 14 novembre 2020. Ventaccio che Dio lo manda. Notte fonda. La luna è una patacca gigante, biondo platino, la testa di Jayne Mansfield schizzata in cielo dopo che si è separata dal corpo. Partono da casa i tre uomini decisi a incontrarsi e, in un certo senso, sfidarsi all’alba. Il Pazzo da raccontare, lo Scriba che lo racconta, l’Ossesso, amico dei due, che li fa conoscere. Il Pazzo, Silvio Baldini, arriva da Marina di Massa. L’Ossesso, Lele Adani, da Reggio Emilia. Lo Scriba, da Roma. Appuntamento allo stadio dei Marmi di Carrara sotto le Alpi Apuane. Dove Michelangelo, altro furioso notevole, si arrampicava a scegliere e fare all’amore con il marmo giusto per le sue statue. Terra di smodati e di anarchici, Carrara. Nell’area antistante il cimitero, il monumento dedicato a Gaetano Bresci, l’anarchico che s’era messo in testa di uccidere a pistolettate re Umberto I e lo uccise davvero. Me lo sento, la prima cosa che mi chiederà Baldini sarà: cosa ti ha spinto a venire fin quassù da me? Il Pazzo Silvio abbraccia l’Ossesso Lele come un fratello. Più di un fratello. “Il giorno in cui dovessi mancare, sarà lui il riferimento dei miei tre figli”. Era un suo giocatore al Brescia, Lele, poi gli ha fatto da vice al Vicenza, prima di decidere che la sua missione era smaniare calcio a Sky. Adani parla di Baldini come il Messia, ma anche il Messi, degli allenatori. Il Marcelo Bielsa italiano. Marcelo Bielsa, detto “el loco”, per restare in tema. “Bielsa a Leeds, come Baldini a Carrara. Hanno trasformato una piazza morta in un covo di passioni. Bielsa ha mandato i suoi giocatori a pulire le gradinate dello stadio. Tre ore di ramazza. I calciatori dovevano condividere la fatica dei tifosi operai”. Silvio ascolta e ha gli occhi lucidi. Si commuove facile, Silvio, anima lirica e feroce. Un cuore enorme in petto e un punteruolo acuminato in tasca per eventuali cattivi incontri, che la vita è la stessa di quando era bambino, una foresta di emozioni forti, di fate e di lupi. Foresta è anche il nome del suo calciatore prediletto. Il Pazzo Silvio mi vede e mi fa: “Ma perché cazzo uno come te è venuto fin quassù da uno come me?”.

LA DOMANDA. È il giorno che deraglia il treno a Lodi. Silvio Baldini, 61 anni, è uno che deraglia da quando è nato. Che fosse pazzo, è cosa nota. Lui, come Pino Daniele, è il primo ad autodenunciarsi. Sente le voci di dentro, come Eduardo. Non si limita a sentirle, obbedisce ciecamente. L’immagine che lo consegna per sempre al catalogo dei fuori di testa: Parma-Catania del 2007, molla in mondovisione un calcio in culo quanto meno irrituale al suo collega, Di Carlo. “Mi aveva offeso con parole e gesti sprezzanti. A distanza di anni, quando m’incontra a Coverciano, finge di non vedermi”.

Baldini non è uno normale. Piovono conferme. Tutte le mattine alle 7 spaccate è lui che apre i cancelli dello stadio dei Marmi. Arriva in tuta col suo pick up, s’infila nella sala mensa, indossa i guanti di lattice e si mette lì a sbucciare e a centrifugare. Rape e mandarini per tutti, ospiti, giocatori e collaboratori. “La rapa aumenta l’ossigeno nel sangue del 22 per cento”. Lo aiuta Davide, un ragazzo di Carrara che arriva in sella a un Harley Davidson. Verosimilmente pazzo anche lui. “Qui a Carrara siamo da sempre abituati al niente, da quando è arrivato Baldini noi tifosi godiamo come ricci”. Lui, Silvio, non gode, ancora rimugina il rospo. Mica la sconfitta 1 a 4 con l’ultima in classifica della domenica prima. No, ce l’ha con Maccarone, suo giocatore da sempre, quarantenne ancora voglioso, un passato che conta tra calcio italiano e inglese, perché dieci giorni prima non aveva festeggiato il rigore della vittoria tirato al 96’ da Tavano, l’altro gioiello attempato di casa, e se n’era andato dritto e nero nello spogliatoio. Voleva tirarlo lui quel rigore. Baldini non lo digerisce il rospo. Lo vive come un fallimento personale. “Dentro di me penso: ma questa vittoria a che serve se te, a 41 anni, non riesci a gioire perché quell’altro ci ha fatto vincere. Sei un mio giocatore da vent’anni. Che cazzo ti ho trasmesso?”. Ma la vera domanda è: perché un grande allenatore, riconosciuto come tale dai suoi colleghi più celebri, a cominciare dall’amico amico Conte, Spalletti e Mancini, decide prima di sparire e poi, tre anni fa, di andare ad allenare gratis la Carrarese, una squadra di serie C? Lui lo chiama “il mio nuovo inizio”. E spiega perché. “Dopo che per sei anni sono andato per monti a cacciare pernici con i pastori siciliani”. Se non lo fai per i soldi, se non lo fai per ambizione, perché lo fai? Come tutti i pazzi naif, lui si lascia martellare il cuore da passioni primordiali. Sanguina a tempo pieno. È il suo genio. Il suo carisma. Comincio a capire perché Lele Adani ne parla come un messia. Baldini è nudo anche quando si veste per la montagna. Soprattutto, quando si veste per la montagna. Tutto lo confessa. Il corpo inquieto, gli occhi forastici ma capaci di lacrime e dolcezze inaudite, le mani, la voce, gli improvvisi silenzi. La mappa delle sue radici. “Non ci potevo più stare dentro il sistema. Me lo impedivano i miei valori, la mia necessità di emozioni. La società di oggi vuole solo vincenti e crea così una generazione di falliti…A un certo punto della mia vita volevo tornare a sognare. Il primo anno era la squadra più debole, ma è stato l’anno più magico, perché sognavamo. Oggi siamo più forti, ma non sogniamo più. E se qualcosa va storto, come domenica, pali, rigori sbagliati, è perché non lo meriti. Io questa cosa la so bene”.

L’ANTEFATTO. Lui questa cosa la sa bene. Sul suo whatsapp l’immagine con la scritta: la famiglia è sacra. Il padre Valentino lavorava nelle cave di marmo. “Era il mio destino. Che altro potevo fare, il bagnino?... Mia nonna aveva visto le due guerre. Alle elementari leggevamo il libro Cuore di De Amicis, la storia della piccola vedetta, la maestra piangeva e noi si piangeva con lei. Oggi le emozioni non ci sono più. Un amico, giorni addietro, mi fa: mi sono fidanzato a Belluno.  Belluno? E che ci fai tu a Belluno? L’ho conosciuta con la chat… Si sono visti, si sono piaciuti, si sono scopati. Dimmi tu, dov’è l’emozione dell’incontro, il brivido della conquista? Così è cresciuto Silvio Baldini, con le favole della nonna, le storie di De Amicis, delle osterie e delle bische, degli uomini che andavano a cavare il marmo e ogni tanto morivano, “perché se ti cade un libro addosso non ti fai niente, ma se ti cade un blocco di marmo….”. 

LA FORESTA. Maccarone e Tavano sono i suoi calciatori storici, ma il suo pupillo è Giovanni Foresta. Un piccolotto riccioluto, lo sguardo devoto. Per Baldini si farebbe squartare e, in un certo senso, si è fatto squartare. Baldini lo chiama “il mio eroe”. “Uno, dieci, dodici Foresta in una squadra e vai in cima al mondo, batti anche la Juve”.

Foresta è la sua emanazione in miniatura. “Sembra un bambino, ma è più duro del marmo. Arrivò da me con la pubalgia. Lo trovai che piangeva nel tunnel dello stadio. Volevano rimandarlo indietro. “Finché ci sono io, ci sei tu”, gli dico. Mesi fa quasi si tronca un piede in partita. Perone, legamenti, la cartilagine. Lo riporto in panchina mesi dopo, ma non sta ancora bene. Stiamo perdendo. “Ha bisogno di me, mister? Prendo un Toradol e gioco”. Questo è Foresta. Uno che guadagna trenta mila euro l’anno, non so se ci arriva. Ma perché uno così non gioca in  serie A? Foresta mi ha dato l’anima. Gli dico sempre: “Giovannino, io devo arrivare a giocare contro la Juve con te capitano”.

LE PREMONIZIONI. Ha le premonizioni da sempre, Baldini. “Mia nonna mi diceva: la vita è la legge del contrappasso”. Mi racconta la storia di Rosy, la sua fidanzata brasiliana. Quasi quarant’anni prima. “L’avevo conosciuta in un night. Rimane incinta. Dovevo sposarla. Tutto già combinato. Tre giorni prima, sento una voce dentro che mi dice: non farlo. Stavo in bisca. Alle tre di notte arriva un amico con mia mamma: la Rosi all’ospedale s’è tagliata le vene. Rosy abortisce a Napoli e torna in Brasile. Sparisce. Conosco Paola, dieci mesi dopo decido di sposarla. Alla vigilia del matrimonio, mi chiama Rosy. Non sapeva del mio matrimonio. “Spero che tu possa soffrire quello che ho sofferto io”, mi maledice. Mia moglie rimane incinta. Le ecografie sono tutte regolari, ma io le dico. “C’è qualcosa che non va per il verso giusto…me lo sento”. Valentina nasce con venti giorni di ritardo. Ha rischiato di morire nella pancia della madre. È una bimba disabile. Doveva campare 6 mesi, oggi ha 33 anni. Disabile al cento per cento. Non parla. Non può stare in piedi. Lo sapevo. L’ho sentito. E sai perché? Ho sempre saputo cos’è il male. Quel bambino avrebbe dovuto nascere, ho tolto a quella ragazza la felicità diventare mamma, ho fatto vincere il mio egoismo e sono stato punito”. Questo è Silvio Baldini. Se c’è la colpa, arriva il castigo. Inesorabile. Non si scappa. “Io so che la mia coscienza deve sempre rendere conto degli atti che compio”. Ha avuto altre due premonizioni opposte prima della nascita degli altri due figli, Mattia e Niccolò. I medici sconsigliavano: “All’ottanta per cento nasce disabile”. “Sapevo che non sarebbe stato così e così non è stato”. “La sconfitta è l’unica cosa che tiene in vita i miei sentimenti. Io la cerco. Me la chiamo…Lo dico sempre ai giocatori: io sono nato sbagliato, ma poi ci ho messo del mio. Quando ho capito che la sconfitta è il dono della mia vita, mi ci tuffo dentro, nelle difficoltà, in tutti i casini. Vuoi saperne un’altra?”.

Voglio saperlo. “A Empoli sto bene. Mi vogliono fare un contratto di cento milioni per cinque anni. All’epoca mi cercavano anche Fiorentina e Napoli. Arriva Zamparini e mi offre due miliardi l’anno per tre anni per andare al Palermo. Penso ai tre figli, mia moglie spinge, e accetto. Un madornale errore. La scelta dei soldi. Finisce il feeling con i sogni. Tradisco me stesso. Perché oggi alleno gratis secondo te? Zero assoluto, neanche un rimborso spese. Con quella scelta finisce tutto. Zamparini, ricco a palate, si sente onnipotente, metteva bocca sulla formazione. Lo insulto. Mi esonera. Mi mandano a allenare il Parma, ma la mia storia di allenatore è finita. Ho capito che dovevo mettermi da parte. Come campo? Me la cavo con i risparmi e i 2.400 euro di pensione. I soldi sono il diavolo. Avevo ceduto l’anima. Anche scopare mi piace, ma non ho mai tradito mia moglie”.

Lele Adani racconta Silvio Baldini: “Mi diede la fascia di capitano al Brescia, nonostante fossi poco più di un ragazzo. Mi ha conquistato definitivamente il giorno in cui, all’alba, mi portò nel bosco dove lui andava a trovare se stesso. Si spogliò, rimase a torso nudo in pieno inverno. Ci abbracciammo. “Non ho bisogno di coprirmi, quando trovo la mia essenza”, mi disse. “Quel giorno diventai uomo”.

LA MONTAGNA. Si alza di scatto. “Sei venuto qui per raccontarmi? Vuoi conoscermi davvero, capire dove nasce la mia ispirazione? Devi venire sulla montagna con me. Ci carica sul suo pick up, me e Lele Adani, e si va su, a picco, quasi a mille metri, tra boschi di castagni e di abeti, dirupi e strapiombi, sentieri di roccia, che nemmeno i muli. E quando penso, spaventato: qui il folle si deve fermare per forza, oltre non può andare, lui va. Si chiama “Monte Pasquilio”. Qua ci venivano a piedi Ungaretti e Montale a cercare silenzio e ispirazione. Dalla sommità, si vedono le Cinque Terre, Capraia e Gorgona, si vede l’Elba e la Corsica. “Qua ci vengo all’alba con i cani. Non si può cacciare, ma a me non me frega niente di sparare. I cani hanno le emozioni. Come te quando scrivi. Me le trasmettono quando fiutano le pernici. Quando sto qui con i miei cani, non ho bisogno di nessuno…Lo vedi quel vecchio lassù, solo soletto?”. Lo vedo. Un vecchio che s’inerpica e sparisce alla nostra vista. Probabilmente sta cercando un luogo giusto per suicidarsi o per ritrovarsi. “Di sicuro, stava parlando con la morte e noi lo abbiamo infastidito. Se porti Mihajlovic e Vialli quassù, loro vedranno le cose cento volte più grandi di come le vediamo noi. Hanno visto la morte e questo ha acuito i loro sensi…Sai qual è il mio vero rammarico?”. Non lo so. “Mia moglie Paola mi ha dato la sua vita. S’è sacrificata per me. Come hai fatto a innamorarti di uno come me che ogni tanto sparisce, le chiedo. “Mi sono innamorata dei tuoi difetti”, mi fa lei. Questo è un peso troppo grande per me…”. Ci porta alla fontana dove i cavatori di marmo mettevano la testa sotto l’acqua gelida per smaltire le sbornie. “Il giorno che porto la Carrarese in serie B, non sto allo stadio con gli altri, vengo qui da solo…Di notte, qua, è ancora più bello.”.

LO SPOGLIATOIO. “La sera vengo qui al buio da solo e dico le mie preghiere. Agli amici, alla famiglia, ai miei calciatori. Li evoco. Gli parlo della vita, del destino. Al cellulare non è la stessa cosa, non è una preghiera. Se io riesco a trasmettere questo, l’allenamento di oggi avrà un senso”. Arrivano i calciatori. Fanno cerchio. Ascoltano a testa bassa il loro strambo messia. Devoti, affascinati, perplessi. “Il destino siamo noi. Il destino vuole che noi portiamo un messaggio in questa vita. Ho portato il giornalista sulla montagna per spiegare questo. Per voi mi farei ammazzare, ma non tutti ci credete. Giocare o non giocare, conta solo questo per voi. Se non vi trasmetto questo, il senso della vita, abbiamo perso ancora prima di giocare. Azzeccare la diagonale è accessorio…”.Li inchioda ore con i suoi sermoni, i giocatori. “Sapete perché ho fatto questo? Il giornalista deve sapere fino a che punto vi posso rompere i coglioni”. Loro ascoltano in silenzio. “Sono bravi ragazzi, ma gli manca la scintilla dentro. Escono da qui e trovano a casa le mogli che parlano del rossetto di Christian Dior o gli amici al bar che parlano del nulla. È questo il mondo del calcio”. È questo Silvio Baldini, che si presenta nell’aula di Coverciano, l’università del pallone, e ai suoi titolati colleghi, invece di parlare di tattica, racconta di Mario, il pastore siciliano che domava il suo cavallo guardandolo negli occhi, di quando sui monti bevevano latte di capra e mangiavano il pane arrostito sul fuoco. “Perché se parlo di possesso palla non aiuto nessuno, ma se parlo di Mario do una speranza a tutti”.

L’ALLENAMENTO. Per spiegare l’importanza del tempo nella scelta del  pressing, Baldini fa vedere ai suoi Mandy Harvey, la ragazza americana sorda,  che canta come un usignolo, scalza, per sentire le vibrazioni della musica attraverso il pavimento. “Io non insegno calcio, insegno vita. Sono nato povero. I miei sono i valori trasmessi da chi ha vissuto le guerre. Se non avessi mia moglie e i figli, sarei già tornato nei monti in Sicilia. Mi piace la vita del pastore. Le tue idee devono essere il tuo coraggio. Troppo facile avere coraggio con le idee degli altri. Qui, in questa vita, non siamo a dipingere un quadro. Noi siamo dentro il quadro”. Maccarone, quarant’anni suonati, spinge come un ossesso, addosso a uno che potrebbe essere suo figlio. Chissà se pensa a Mandy.

Giustizia sportiva solo per fare cassa. Io, avvocato, vi racconto la malagiustizia del calcio. ​La pazienza delle società calcistiche, dei dirigenti, dei calciatori e dei tesserati ha un limite. Anche quella degli avvocati. La Voce di Manduria, sabato 27 giugno 2020. La pazienza delle società calcistiche, dei dirigenti, dei calciatori e dei tesserati ha un limite. Anche quella degli avvocati. Questo limite è stato ampiamente superato dai massimi esponenti della giustizia sportiva pugliese. Non appartengo alla categoria dei pavidi, dei vigliacchi e dei lustrascarpe ed in ogni circostanza mi assumo la responsabilità di ciò che dico mettendoci sempre la faccia. Costi quel che costi. Così, al termine di questa infausta stagione sportiva, ritengo doveroso stilare un resoconto dell’attività svolta dai giudici sportivi pugliesi. I comunicati ufficiali della stagione sportiva 2019/2020 sono stati dei bollettini di guerra. Ammende e multe salatissime per le società, continue e pesanti squalifiche per i calciatori. Un ritratto poco veritiero del movimento dilettantistico pugliese che sembrerebbe animato da indisciplinati e violenti. Queste le risultanze delle decisioni dei giudici sportivi.

Il 96% (!!!) dei reclami di appello avverso le decisioni del Giudice Sportivo sono stati dichiarati inammissibili o respinti dalla Corte Sportiva Territoriale Pugliese. Nemmeno uno accolto! Solo due irrilevanti riduzioni di sanzioni in un’annata. E' possibile che le società non abbiano mai ragione? Non credo proprio! E' un vero e proprio scandalo perché questo ha come stretta conseguenza che la FIGC incameri (oltre alle multe) anche le tasse-reclamo che le società affiliate versano (130 euro per ogni ricorso). In pratica, il Comitato Regionale quest’anno ha trovato un modo alternativo per fare cassa. Altro che aiuti economici e sostegni per le affiliate. Certo, le società potrebbero far valere i propri diritti, in ultimo grado, nelle sedi romane della giustizia sportiva ma lì il costo dei reclami è altissimo! In via Pende sicuramente questo lo sanno, così come dovrebbero sapere che le società, pur di non affrontare tali ulteriori esose spese, finiscono per subire passivamente le decisioni pugliesi, loro malgrado. Con buona pace della giustizia. Quella giustizia che non deve mostrarsi forte solo con i deboli. A ciò si aggiunga che il Tribunale Federale Territoriale si è pronunciato altre 11 volte sui deferimenti, applicando in ben 10 casi sanzioni durissime a carico delle società. I giudici di cui parlo sono gli stessi che l’estate scorsa avevano condannato pesantemente ben 4 prestigiose società pugliesi e 14 persone (dirigenti, calciatori ed allenatori) nel più grande processo per illecito sportivo che la Puglia ricordi. Una decisione che è stata totalmente annullata dalla Corte Federale di Appello con sede appunto a Roma, che ha riabilitato tutti. In tutto ciò il Presidente Tisci cosa fa? Nulla. Come al solito. Invece di mandare immediatamente a casa, Giancarlo De Peppo, Antonio Contaldi e Giuseppe Ciarli Conte (rispettivamente presidente e componenti della Corte Sportiva e del Tribunale Federale Territoriale), consente loro di continuare ad esercitare questo incarico. E questi insieme ai loro colleghi (chissà poi perché tutti di Bari) continuano a respingere tutti i ricorsi mortificando, economicamente e non solo, le società pugliesi. Possibile che nessuno paghi tra i responsabili della mancata applicazione del Codice di Giustizia Sportiva? O devono pagare solo le affiliate e i loro tesserati? Ai Presidenti delle società che giustamente si lamentano, Tisci risponde di non saperne nulla. Che non è cosa sua. Io devo ricordargli che è proprio lui che, di fatto, sceglie i membri della giustizia sportiva e sempre a lui compete la facoltà di rimuoverli. Ora basta! Si sappia che questa non è una battaglia personale. Le mie parole intendono dar voce a tantissime brave persone (dirigenti, tesserati e tifosi) che ogni domenica sono sui campi da gioco ad alimentare il fantastico mondo dilettantistico pugliese che già costa tanti sacrifici sia economici che affettivi per tutte le ore che quotidianamente gli stessi sottraggono alle proprie famiglie. È finito il tempo dei silenzi. E tra qualche mese, quando finalmente si voterà per il rinnovo delle cariche federali, finirà anche il tempo delle “elezioni per acclamazione”, che hanno visto negli ultimi 16 anni Vito Tisci quale unico candidato. Di tutto questo, con documenti alla mano, sono pronto a parlarne pubblicamente con Tisci, che da Presidente della LND Puglia deve assumersi la responsabilità di quanto è accaduto quest’anno nella “sua” giustizia sportiva. Scelga lui il luogo, la data e l'ora: io ci sarò. Giulio Destratis, avvocato

Da calciomercato.com il 3 luglio 2020. Pasquale Bruno infiamma il Derby della Mole. L'ex difensore del Torino ha dichiarato in un'intervista a La Repubblica: "La Juve vincerà lo scudetto perché ha due squadre, con Higuain e Douglas Costa in panchina. Il Toro ha speranze nel derby? Chiedetelo al padrone (Cairo, ndr), non a me. Io sono un tifoso granata di quelli scoglionati, cioè la grande maggioranza. Abbiamo un padrone che pensa solo ai soldi, invece il Toro è passione". "Nessuno era da Toro più di me, senza offesa. Da ragazzino tifavo Juve. Noi eravamo migliori senza dubbio, da ogni punto di vista: umano e tecnico. Io affrontavo Maradona o Van Basten, Careca o Giordano. Oggi esistono due fuoriclasse, Messi e Ronaldo, il resto è roba appena normale. Quando sento dire che Dybala sarebbe un grande campione, sorrido perché è solo un buon giocatore. Contro Vierchowod o Pasquale Bruno, modestamente, non avrebbe toccato palla. Il gol contro il Genoa? Molto bello, per carità, e anche quello di Ronaldo: ma i difensori dov’erano? Pure Cristiano, contro i marcatori degli anni 80, avrebbe faticato". "I calciatori di oggi sono dei fighetti che postano foto davanti a un piatto di cozze, i social hanno rovinato tutto. Ma avete visto Cristiano Ronaldo vestito in quel modo? Che pagliacciata. Oggi con qualche selfie diventi personaggio, noi ci facevamo il mazzo. I calciatori sono diventati fighetti anche in campo. Ai miei tempi per gli attaccanti era peggio, a noi difensori veniva concesso molto. Una volta Ramon Diaz andò dall'arbitro e gli gridò: 'Bruno mi ha staccato la pelle!'. Era vero, infatti fui ammonito. Per un giallo non bastava mica una spintarella, le punte non cadevano mai". "Io mi tengo i calciatori della mia epoca, persino Roberto Baggio, addirittura lui. Tra noi c’era odio vero. Una volta venimmo espulsi insieme, in Juve-Fiorentina al Comunale, lui venne a cercarmi negli spogliatoi. Con altri nemici ho poi scherzato, Van Basten, Casiraghi, con Baggio mai. Eppure, in confronto a molti giocatori di adesso era un leone. Oggi io non avrei bisogno di picchiare, sarei ammonito poco ed espulso mai. Giocherei d’anticipo. Non perderei certo il sonno contro Icardi, Belotti o Immobile. Vuoi mettere, Maradona? Non scherziamo, ragazzi". 

DAVIDE GONDOLA  per Libero Quotidiano il 2 luglio 2020. Espulso, ergo sum. Il cartellino rosso come attestazione di una presenza, di un esserci a dispetto delle statistiche da invisibile del pallone. Un arbitro che interrompe la partita per cacciarti, la telecamera che finalmente ti becca mentre te ne vai smoccolando all' indirizzo del direttore di gara. Tommaso Berni, anni 37, professione portiere "in sonno" dell' Inter, è stato buttato fuori al minuto 69 del match dei nerazzurri a Parma per le sue invettive da bordocampo ed è pure recidivo, visto che la medesima sanzione gli toccò al termine di Inter-Cagliari 1-1, finale al veleno, panca bauscia scatenata e arbitro un po' troppo permaloso. Zero minuti in campo, due espulsioni: un record, alla rovescia, ma pur sempre un record. Anche se la notizia vera, pensandoci, sarebbe stata un' altra, ovvero un Berni espulso "dal" campo, zona dello stadio che non frequenta da qualcosa come quasi otto anni. Eh sì, questo può capitare a chi sceglie - o si ritrova - di essere il "terzo", la riserva della riserva nel ruolo che specie nelle grandi squadre è ancora legato a gerarchie precise, e generalmente coinvolge in un eventuale turnover - salvo infortuni e squalifiche, chiaro - solo il cosiddetto secondo, il caro vecchio numero 12, per capirci. Tommaso è fiorentino di anagrafe, l'Inter l'ha preso a soli 15 anni e poi ripreso a 31 dopo un discreto girovagare (che l' ha portato anche alla Lazio, in Inghilterra, in Portogallo): da lì, con davanti Handanovic in primis, e poi la staffetta Carrizo-Padelli, ha lavorato tutti i giorni ad Appiano Gentile "riposandosi" durante il weekend. Partite ufficiali minga, come si dice dalle parti di San Siro. E considerando che veniva da un altro anno di naftalina al Torino, bisogna dunque tornare a un Sampdoria-Cagliari dell' ottobre 2012 per trovarlo in gara ufficiale tra due pali e una traversa: stava con i blucerchiati, e tra l' altro ha pure perso (0-1). Da allora, Tommaso è solo "a referto", almeno da quando si possono portare due portieri di riserva: 140 le panchine solo all'Inter, molte più della gran parte degli allenatori della gloriosa storia nerazzurra; e in vent' anni di carriera, tra Serie A e B, stiamo quasi a quota 330. Bisogna avere una testa davvero forte per sopprimere la voglia di giocare, e ci sta dunque che ogni tanto l' ottimo Berni scapocci un poco per sfogo, e pure - o soprattutto - per difesa dei suoi colori. Perché anche se da quota zero, il "terzo" si è costruito una reputazione da bandiera. Interista vero, low cost (200mila euro l' ingaggio annuo), rispettato e - dicono - perfino influente in uno spogliatoio storicamente dalle porte girevoli e dagli equilibri delicati, specie nell' era degli stranieri a go-go. La testa di Tommaso, oltre che completamente priva di crine, è davvero forte e saggia, e diversa, ampia, quasi controcorrente. Consigli e moniti ai compagni più giovani, ma anche "istruzioni per l' uso" e scambi di opinioni con i mister; uscito dalla Pinetina entra in altro pianeta, per un calciatore, e pianeta è la parola giusta: una delle sue passioni è il cielo, possiede - ha raccontato - frammenti di meteorite e un pezzettino di Luna, che ha sicuramente regalato alla moglie, che così si chiama. Si sono sposati in Kenya, in un rito celebrato da una tribù locale: pensano di ripetere le nozze in altre parti del globo, con altre cerimonie. Nel frattempo molti libri, molta arte (uno dei suoi idoli è Gustav Klimt) e zero videogiochi, lui di PlayStation non ne squaglia, citando la famosa uscita di Totti. A Inter Tv ha recentemente dichiarato che non tocca una consolle dal 1997 o 1998, quando era nel convitto delle giovanili nerazzurre: diavolo d' un Berni, ha cominciato lì ad allenarsi a non giocare...

Adriano Seu per gazzetta.it il 2 luglio 2020. Impegnato in una lunga lotta senza fine contro l’alcolismo, adesso Fabian O’Neill rischia di rimetterci la vita. A lanciare l’allarme è Martina, la figlia dell’ex fantasista di Cagliari, Perugia e Juventus, che ha rivelato lo stato critico in cui versa il padre ricoverato d’urgenza venerdì scorso in una clinica di Montevideo. Secondo i medici, il fisico di O’Neill avrebbe reagito bene e potrebbe essere dimesso nei prossimi giorni, “ma il quadro clinico è molto serio e il fegato è ormai compromesso dall’abuso di alcol”. A complicare il tutto, anche una seria infezione alle vie urinarie. Sulle colonne del Paìs la figlia Martina sostiene che la situazione sia “allarmante”. Tanti ex colleghi tra cui Zidane, suo grande amico sin dai tempi della Juventus, disposti ad aiutarlo sostenendo i costi della riabilitazione. “Ha bisogno di un trapianto”, ha rivelato la figlia dell’uruguaiano, “ma se non smette subito di bere non ce la farà”. L’allarme per le condizioni di salute di O’Neill è scattato venerdì scorso ed è stato lo stesso ex giocatore a lanciarlo chiamando il figlio Fabio, accorso al suo capezzale a Paso de los Toros. Bloccato a letto per giorni in preda a dolori lancinanti, l’ex trequartista è stato immediatamente trasportato in una clinica della capitale uruguaiana, dove gli è stata diagnostica una cirrosi epatica acuta. Il fisico - riferiscono i medici - è ormai irrimediabilmente debilitato da anni di abusi a causa della nota passione per l’alcol. “Solo un trapianto di fegato potrebbe salvarlo”, ha rivelato la figlia Martina. “Ma in queste condizioni non può affrontarlo. Ha bisogno di aiuto, ma prima di tutto deve decidere di cambiare”. Una decisione che però lo stesso O’Neill ha sempre detto di non voler prendere pur ammettendo di essere schiavo del proprio vizio. “Ho sperperato tutto, ma non ho mai fatto male a nessuno, solo a me stesso. Tante donne hanno cercato di cambiarmi, ma non ho mai voluto. Se avessero cercato di aiutarmi in passato mi sarei rifiutato. Sono fatto così, ribelle e orgoglioso”, dichiarò qualche anno parlando apertamente delle passioni e dei vizi che l’hanno portato a sperperare tutto quanto guadagnato in carriera (oltre 14 milioni di dollari) al punto da ridursi in povertà e dover andare a vivere nella casa della madre. Quattro anni fa fu anche costretto a sottoporsi a un intervento alla cistifellea in seguito al quale gli fu caldamente consigliato di dire addio all’alcol. Ma l’astinenza durò appena un mese e O’Neill ricadde nel tunnel dell’alcolismo. Adesso che il suo fisico è allo stremo, l’unica via di salvezza pare essere il trapianto di fegato. Prima di ogni cosa, tuttavia, è necessario affrontare un percorso di riabilitazione che lo stesso O’Neill si è sempre rifiutato d’intraprendere. Secondo quanto rivelato dalla stampa uruguaiana, dopo il ricovero ha ricevuto le telefonate di tanti ex colleghi disposti a dargli una mano, in primis quel Zinedine Zidane a cui è unito da un forte legame d’amicizia e che ha sempre affermato di ritenerlo “il giocatore più talentuoso mai visto in campo”. A offrirgli aiuto sono stati anche l’ex agente Paco Casal e la casa di produzione Tanfield, disposti a sostenere i costi della riabilitazione. Ma il primo passo, il più importante, spetta allo stesso O’Neill.

Giancarlo Dotto per il Corriere della Sport il 27 giugno 2020. A tavola con il Marziano e l’Incredibile Hulk. Due amici per la pelle. Un fumetto della Marvel? No, una giornata decisamente ben spesa. Due ex calciatori rari, che non frequentano i calciatori e non leggono le biografie dei calciatori. Lui e l’altro. L’altro, l’incredibile Hulk, è uno di poche parole ma, quando mi parla di lui, il Marziano, diventa lirico, si scioglie come un savoiardo nel caffelatte. La prima volta in una trattoria a Testaccio. “Ho avuto la fortuna di giocarci contro. Anche oggi, a distanza di anni, se fai il suo nome con molti giocatori dell’epoca si scatena l’inferno. Un talento allucinante. Non puoi non incontrarlo. La leggerei di corsa una sua intervista. Vorrei sapere tutto delle sue fughe, delle sue donne, dei suoi viaggi a Cuba. Un giorno faremo un libro a quattro mani e si chiamerà: “Cosa significa essere genoani e cosa significa essere doriani”. Lui, Alviero Chiorri, è romano, mezzo cubano, doriano nella pelle. Ci scommetto il mio gatto persiano, non lo faranno mai questo libro. Alla fine vincerà la pigrizia. Ma continueranno a dirselo fino alla fine dei loro giorni, davanti a un calice di bianco. Nessuno dei due si prende così sul serio da pensare che immaginare un libro significhi scriverlo davvero. Di Alviero mi aveva detto cose ispirate anche Franco Baldini nel suo loft a via Margutta, davanti a un cartoccio di supplì e morsi di nostalgia filanti. “Uomo raro, Alviero, calciatore unico. Lo devi incontrare. Non mi faccio vivo con lui da tempo. Chiedigli perdono da parte mia”. Chiaro il messaggio. Devo incontrare il Marziano. Appuntamento al “Don Chisciotte”. Un vecchio casolare affacciato sull’Aurelia, tra Palidoro e Passo Oscuro subito dopo lo svincolo per Fregene. Mare e mulini a vento a parte, potrebbe essere la Mancia di Cervantes, piccoli borghi, castelli, anime forti e solitarie, in qualche caso perdute. Un Far West assolato. Paolo, il proprietario del ristorante, mi prenda un colpo, è il Sancho Panza di Gustave Dorè. Lo riconosco anche senza somaro. Il “Don Chisciotte” è il ritrovo di Alviero e dei suoi amici. A portarmi da lui è l’altro. Che non sente ragioni. Me lo dice a modo suo, affettuosamente minaccioso. “Non voglio apparire, l’intervista è tutta sua, io non c’entro nulla”. Lo chiameremo dunque l’Incredibile Hulk, perché gli somiglia, specie quando gonfia il collo, e perché se ne va in giro quel giorno dentro una coraggiosa giacca verde muschio. L’elegantone di sempre. Pronto a strapparsi le vesti e a colorarsi di verde alla prima mischia. Questa volta non ne ha bisogno. “Me sembri un’oliva ascolana…”, lo accoglie il Marziano. Via le mascherine da Covid, seguono cinque ore di allegro convivio, in un viavai di cozze gratinate, gamberoni, calamari, vongole, lupini, paccheri, baccalà, vino, molto vino, scotch scozzese, amari, molti amari, e rum in omaggio al cubano. Il Marziano alias Alviero è un uomo schivo. Alviero non ha a niente a che fare con quella genia di pazzoidi, eccentrici, un po’ sbruffoni, un po’ fanfaroni che imperversano nel calcio italiano di quegli anni, settanta e ottanta, non ancora malato di tatticomania. Sublimi, sfrontati, e ingovernabili anarchici palla al piede, sulla scia del più sfrontato di tutti, George Best. Meroni, Vendrame, Dolso, Vieri padre, Zigoni, per citarne alcuni. Alviero parla sottovoce, al limite dell’udibile, nella speranza di non essere udito. Come un tra sé. Un personaggio per quanto è lontano dall’esserlo. L’essere stato tanti anni lontano da Roma ne fa un romano d’altri tempi, come solo Pasolini ha raccontato. Un Franco Citti dallo sguardo buono, un fustacchione di sessant’anni pervaso da qualcosa che sta tra la timidezza e la gentilezza. Anacronismo puro. Il codino che gli spunta dalla nuca. Due tatuaggi sulle braccia. Il terzo ce l’ha dipinto in faccia: “Perché?”. “Perché siete qui? Perché v’interessate a me?”. Ci mette quasi un’ora a liberarsi di quel “perché”. Hulk ci dà una mano con le sue muscolari invasioni di campo. “Normale” è la parola che gli viene più facile, ma non come la usano Totti e affini, vacuo intercalare tra un eventuale concetto e l’altro. Nel caso di Alviero “normale” è quello che è, un aggettivo che descrive l’uomo. Alviero è tanto normale da risultare eccezionale. La normalità è la sua pazzia. “Il mio miglior amico? Enzo il tabaccaio. Non mi ha mai chiesto una cosa di calcio”. È un arguto battutista, Alviero, fulminante come solo i romani. Le battute sono il suo modo di stare in società. Ma è lo sguardo che lo racconta. Disarmante per quanto è nudo. Ti supplica: “Lasciami stare, lasciami alle mie battute”. E ti dice, però, anche: “Insisti, abbi pazienza, ne ho di cose da raccontare, magari un giorno avrò voglia di farlo”. Devono solo crearsi le condizioni giuste. Quasi mai si creano. Il calciatore da spiaggia. “Giocavo nei campi di seria A come giocavo da ragazzo in spiaggia con gli amici”. Alviero Chiorri lascia a trentadue anni con la maglia della Cremonese. I suoi anni migliori da calciatore. Fisicamente integro. Lascia, nel senso più estremo della parola. Sparisce nel morbido nulla dei tropici. “Non ne potevo più del calcio. Quella non era la vita che volevo vivere. Quelle regole, quelle attese, quelle pressioni. A novembre parto per Cuba per una vacanza di venti giorni e sono rimasto 24 anni”. Dici Chiorri e dici talento. Ma anche indisciplina. Leggi di lui e senti dire: strano, ingestibile, una dannazione per gli allenatori, avesse avuto la testa di Del Piero e Totti... Lui ascolta, cose che è abituato ad ascoltare. “Se avessi avuto la loro testa, non sarei stato Alviero Chiorri. Per il resto sono un ragazzo normale, anche se so che me la porterò addosso tutta la vita questa nomea di tipo strano. Penso a quello che combinava Balotelli a diciotto anni. Le mie stranezze, al confronto, sono poca roba”. Romano di Valle Aurelia, tifoso romanista, “Era la Roma di Ciccio Cordova, Amarildo e Del Sol. Andavo in curva sud con mio zio. I calciatori erano minuscoli visti da lì”. Nato nel ’59, l’anno della rivoluzione di Fidel Castro. “E guarda caso finisco a Cuba. Tu dici che è un caso?”. Giovanissima preda dei tanti osservatori. “Mi prese la Sampdoria a sedici anni. Mi aveva preso anche la Roma., c’era Perinetti allora, ma scelsi la Samp. Mi avevano fatto capire che alla Roma, in quel periodo, o eri forte forte o giocavano solo i raccomandati”. Lui non si è mai reso conto di essere “forte forte”. “Così dicevano, ma io non mi rendo conto neanche adesso. Le cose che facevo in campo erano le stesse che facevo per strada. Il mio modo di giocare non è mai cambiato”. L’Incredibile Hulk ha appena spolpato un gambero e inizia a fischiettare “Tristezza, per favore vai via”. Sardo di sangue, genoano di pelle, lo fa ogni volta che il Marziano nomina la Samp. I treni perduti. “Mi dà fastidio quando mi dicono che avrei potuto fare molto di più. Sarà anche vero, ma alla fine ho fatto quello che dovevo. Avessi avuto un procuratore come quelli di oggi, uno come Mino Raiola, forse sarebbe stata una storia diversa. Non ero Maradona e nel calcio di oggi non sarei nemmeno preso in considerazione. O forse sì, sarei stato un buon esterno sinistro alla Totti nel calcio di Zeman. Un allenatore appassionante anche se un po’ estremo. Una volta gli feci gol da metà campo”. Come direbbe il suo amico Flavio Bucci, venuto a delirare e poi a morire da queste parti: “E pensare che ero partito così bene…”. Alviero, non ancora Marziano, è in serie A, con la maglia del Bologna, a diciassette anni. Mai a suo agio nella tribù dei Piedi Calcianti. “Non ero maturo, finito in una situazione più grande di me. Sì, poi qualche errore l’ho fatto”. Hulk, al suo fianco, addenta il pacchero e interviene a gamba tesa. “Non mi sembra che ‘sta maturità sia mai arrivata…”. Il Marziano annuisce, senza un filo di fastidio. “Sono rimasto lo stesso di allora, con qualche anno in più”. I treni perduti. Almeno tre. Il primo. “Le occasioni le ho avute, ma è sempre successo qualcosa. La prima volta fu colpa mia. Fui convocato per i mondiali in Tunisia con la Nazionale Juniores. Una squadra forte, avevamo appena vinto il torneo di Montecarlo. Mi rifiutai di andare perché avevo già prenotato al mare con gli amici. C’era Italo Allodi. Mi cacciò da Coverciano con i carabinieri. L’ho sicuramente pagata. Da allora m’hanno segato dal giro azzurro e quando fui in ballo per la Nazionale di Bearzot mi fermò la pubalgia. Il secondo treno. E poi il terzo, il più carico di rimpianto, se Alviero fosse capace di rimpianti. “Ero già dell’Inter. Voluto da Bersellini con cui avevo esordito in serie A con la Samp. Mantovani non mi volle vendere. Loro prendono Beccalossi al posto mio e vincono lo scudetto. Mai dato importanza io ai soldi. Con Mantovani ho sempre firmato in bianco. Anche Dino Viola mi voleva alla Roma, ma non se ne fece nulla...Rimpianti zero. Mi ritengo un uomo fortunato, che ha fatto nella vita quello che gli piaceva fare, che voleva solo essere normale in un mondo che non aveva niente di normale. Un mondo che non era il mio”. L’Incredibile Hulk torna alla carica. Il mite Marziano incassa. “Hai giocato nella Sampdoria, non è che c’è da sentirsi così fortunati…”. Chiorri sparsi.  “L’esordio in coppa Italia contro la Fiorentina. Ero un ragazzino incosciente, mi marcava Roggi ma non mi prendeva mai, quel giorno mi riusciva di tutto. Mi si avvicinò Antognoni: “Ragazzi’ ora basta, falla finita, hai rotto i cojoni”. I derby di Genova. Violenza allo stato puro. “La mia bestia nera era Fabrizio Gorin, il biondo, un mastino, non a caso non ho mai segnato nei derby. Oltre a menare come un fabbro, limava i tacchetti. Era un’usanza di quegli anni. Dentro i tacchetti di legno c’erano quattro chiodi martellati che, a furia di limarli, spuntavano fuori. Quando prendevi una scarpata, il sangue si sprecava, la carne rimaneva attaccata al tacchetto”. Il Marziano, lo trovi su youtube se non sei abbastanza vecchio, era un dribblomane, la vittima da manuale per quei sadici truccati da calciatori… quando riuscivano a prenderlo. “M’hanno gonfiato come una zampogna. Entrate da dietro, gomitate, botte, minacce. Ad Avellino, quello di Sibilia, nel sottopassaggio spegnevano la luce e ti  menavano proprio. A Carletto Mazzone gli hanno spento una sigaretta in faccia. All’epoca era permesso tutto, ogni domenica una battaglia. Le ho prese, ma non ho mai reagito. Avevo imparato che funzionava così”. “Il più cattivo? Pasquale Bruno. Io a Cremona, lui al Toro. Fischio d’inizio, palla altrove, lui mi aspetta col ginocchio alzato e mi dà una stecca micidiale. Hai presente il Tardelli su Rivera di  quel Juventus-Milan? Uscii con un ematoma gigante. Il più forte marcatore? Vierchowod di gran lunga. Soffriva solo Aguilera e Montesano. Gli unici falli li faceva solo perché arrivava troppo veloce sulla palla”. Ne ha incrociati in quindici anni di fenomeni veri e presunti. “Bruno Giordano e Roberto Baggio erano dei  mostri. Il compagno più forte? A parte Roberto Mancini, Anders Limpar. Fece un anno con noi alla Cremonese e poi vinse la Premier con l’Arsenal. Un altro era Macina. Dei tre al Bologna, lui, io e Mancini, era il più dotato. Quello sì era strano forte, non io. S’è perso per strada. In quegli anni si sprecavano i fenomeni. Tecnicamente, era un livello molto superiore. Gente come Claudio Sala e Bruno Conti si sprecava. Giampaolo Montesano, il più forte di tutti. Uno così non si è mai più visto. Non lo dico io, lo dice Vierchowod, che pure ha marcato Maradona”. Non tantissimi gol, ma ogni gol una storia da raccontare. “Il più bello? Quello a Bordon, allora al Brescia. Palla quasi ferma al limite dell’area, arrivo e gli faccio lo scavetto, non so se Totti era nato… Quello al Messina. Ero in panchina con la tuta. C’era una punizione da battere. Mi hanno spogliato di corsa in tre. Entrai a freddo e feci gol all’incrocio. Dopo, non ho più toccato palla”. Calciatori come il Marziano non calavano. Sparivano proprio dal campo, come risucchiati da un buco nero. “Il mio allenatore? Mondonico alla Cremonese in serie A. Quando dava la formazione: giocano Alviero e altri dieci. Compagni da ricordare. Liam Brady e Trevor Francis alla Samp. Grandi professionisti, molto seri. Magari avessi imparato da loro…Il più pazzo? Giuliano Fiorini era un matto vero. Un casinista simpaticissimo, da prendere a piccole dosi. Le notti erano tutte le sue… Non ho mai frequentato i calciatori, non m’interessava, erano una razza a parte e io preferivo stare con i miei amici. Un imprenditore piuttosto che uno spazzino. Non mi piaceva ostentare lo status del calciatore. Nei ristoranti e nei negozi volevo pagare. Mi dovevano trattare come un cliente qualsiasi. L’unica debolezza, una Ferrari 348. La comprai per duecento milioni dell’epoca. Feci una cazzata. Con quei soldi, nel ’90 potevo comprare due appartamenti… No, del calcio non mi manca nulla. E non mi dire di partecipare a partite da vecchie glorie, a meno che non ci sia qualche beneficienza vera”. Cuba, il ventre amico. “A Cuba vivo, qui sopravvivo”. Il Marziano ha il dono della sintesi. “Lì, fu come tornare alle origini. Non mi conosceva nessuno, le persone mi frequentavano per quello che sono, non perché ero un calciatore. La prima volta, non sapevo neanche dove fosse Cuba. M’innamorai dal primo giorno. Un mondo a parte, spiegarlo è difficile, lo devi vivere. Non c’hanno una lira e tutti che ballano, cantano. Gli italiani andavano lì per le donne, ma era l’ultima cosa che m’interessava. Ne avevo più in Italia. Per me Cuba era proprio staccare. Cominciai a fare tre mesi lì e uno in Italia. Una vita normale, il mare, gli amici, i libri. Libero, senza pressioni. Quando tornavo in Italia soffrivo il contrasto. Tutti di corsa, facce tristi. Se non sali sulla ruota, ti schiacciano. E, se sali, non sei più libero di scendere. A Cuba non esiste il tempo. Ci vediamo alle nove, ma non si sa di che giorno, di che mese, di che anno. Non devi cercare la profondità. Come stare a Cinecittà. Tornai in Italia per stare vicino a mia madre e a mio padre malato. Ora, mi accontento di andarci una volta l’anno”. Le donne. “Lì a Cuba era una caciara. Oggi per me sono un tema di fantasia. Dalla cintola in giù non ero male e dalla cintola in su che ho fatto danni”. Il Marziano è tale anche quando si tratta di amore in senso lato. Tre figli da tre donne diverse. Due cubane e un’italiana, la moglie storica che vive a Genova con il figlio titolare di un negozio di frutta e verdura. Le due ex cubane le ha portate in Italia. Vivono serenamente tutti nello stesso palazzetto, lui, le cubane, mamma Lucia, i due figli. Una al piano di sopra, una al piano di sotto, lui in mezzo. Un Harem a Passo Oscuro? Il contrario. “Vivo solo da dieci anni, loro fanno la loro vita, hanno i loro compagni. Non potevo lasciare a Cuba le madri dei miei figli”. Tre donne, tre figli. Qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra sarebbe stato raso al suolo da rancori, beghe legali, richieste sanguinose. Lui no, nel mondo di Alviero i conflitti non fanno radici. Non perché gli scivolino addosso. Al contrario. Di lui senti che puoi fidarti, anche quando sbaglia. Un libro aperto. Uno raro, da cui non ti devi difendere. “Le donne fondamentali della mia vita? Mamma, donna vecchio stampo, e mia sorella Tiziana, l’unica che non mi tradirà mai. Ha un’adorazione per me. E poi mia figlia Nicole, l’amore della mia vita”. Uomo di principi, l’ingestibile Alviero. Fa la spesa alla mamma anziana e porta i figli a scuola. “Sono stato un padre assente, soprattutto con il più grande”. Quando dice, come fosse la cosa più normale: “Sono sempre stato fedele alle mie donne….”, tutti sghignazzano al tavolo, a cominciare dall’ineffabile Hulk. Lui è serio. “Te lo giuro sui miei figli. Nessuno mi obbliga, se scelgo una donna, la rispetto. Le adoro le donne, ma avere oggi un’altra storia mi spaventa. A parte che nessuna mi vuole più”. La depressione. “A Cremona ho dato il meglio da calciatore. Avevo accettato di fare questo mestiere come va fatto, non solo in partita, nei ritiri, negli allenamenti. Luzzara, il presidente, pronto a farmi un nuovo contratto di tre anni. Era il ’90. Qualcosa scatta nella mia testa. Il buio totale. Avevo trent’anni e pensai di chiudere con il calcio ”. Una crisi depressiva da spavento. “L’apatia totale, il rigetto di tutto, a cominciare dal calcio. Non mi allenavo, non mangiavo, da 77 chili ero sceso a 66. Facevo pensieri strani, vedevo mostri. Sono stato ricoverato in clinica due mesi. M’hanno riempito di pasticche, sono arrivato a pesare 90 chili. Sono rientrato, sei mesi dopo, nello spareggio a Pescara per la promozione in A. Si va ai rigori. Sbaglio il mio. Mi cade il mondo addosso. Rampulla, il portiere, mi fa in un orecchio: “Non ti preoccupare, adesso ne paro due”. Andò così e salimmo in A”. “Le cause? Non ho mai capito. Un giorno il tappo salta e vai a fondo. Non succede a quelli che hanno solo certezze. Mi mettono paura quelli. Forse il peso dell’aver sopportato tanti anni un mondo che non era il mio. Le invidie, le pressioni, il confronto con gli altri. Non mi divertivo più. Non ritrovavo più me stesso. Anche quando mi facevano i cori e venivo osannato, mi chiedevo sempre “perché?”. Sta di fatto che quando c’era lui in campo, il Marziano, succedeva sempre qualcosa. Per tutti, ma non per lui. “Qualcuno mi disse che forse la causa scatenante veniva da lontano”. Esita. Abbassa la testa. Poi me lo pianta in faccia quel suo sguardo buono. “Questa non l’ho mai raccontata…Avevo diciotto anni e guidavo con il foglio rosa e un patentato al fianco, Lupini, un mio compagno di squadra. Andavamo a Bogliasco per l’allenamento. All’altezza di Nervi, uno gira secco per fare una conversione e mi taglia la strada. Il botto. Lo choc. Scesi dalla macchina e feci un chilometro a piedi, all’indietro. Non avevo colpe, ma fu devastante. Lui morì per le ferite. Non me la sono sentita di andare a salutare la giovane moglie…Adesso sono i miei figli a tenermi in vita. Loro sono il mio più grande rimorso. Cerco di farmi perdonare, ci provo. Sono stato egoista. Li ho trascurati. Soprattutto il primo, Simone. Un ragazzo d’oro con una mamma spettacolare”. Alla fine. Ci si alza da tavola  e si torna in maschera più allegri e più instabili di quando ci eravamo seduti. Finisce con il Marziano che canta “Una carezza della sera” dei New Trolls (“Tifosi sfegatati della Samp. Ricordo Anna Oxa, era fidanzata con uno di loro…Bellissima”, dice con un lampo fuggevole di malizia) e il sempre più Incredibile Hulk che delira di rose gialle e di tulipani neri, i suoi fiori preferiti. Il Marziano mi saluta con il suo sguardo buono: “L’articolo, se vuoi farlo, bene, se no va bene lo stesso, mi ha fatto piacere conoscerti”. Sì, una giornata spesa bene.

Perù-Argentina 328 morti per un gol annullato: 56 anni fa la tragedia più grande della storia del calcio. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Nicolao. Era bastato un gol annullato. Alla decisione dell’arbitro uruguaiano Ángel Eduardo Pazos si scatena l’inferno allo Stadio Nacional di Lima, in Perù. Quella che viene oggi raccontata, a distanza di 56 anni, come la più grande tragedia calcistica mai avvenuta nella storia. Impossibile risalire ai numeri reali del disastro, ma ufficialmente sono stati registrati 328 morti e oltre 4mila feriti. Primo pomeriggio, ore 15.30 del 24 maggio 1964. Il Perù affronta l’Argentina nella partita decisiva organizzata dalla Conmebol, la confederazione calcistica sudamericana, valida per accedere alle Olimpiadi di Tokyo, quelle che si sarebbero svolte dal 10 al 24 ottobre dello stesso anno. Selección al primo posto, Perù a pari punti con il Brasile, ma qualificandosi solo due Nazionali per i padroni di casa tutto dipendeva da quei 90 minuti. In un clima incandescente, allo stadio entrano 60mila tifosi dei due schieramenti invece della capienza massima consentita di 45-50mila. Il vantaggio degli argentini con la rete di Néstor Manfredi sembra precludere ogni speranza fino a pochi minuti dal triplice fischio, ma è appena prima del 90’ che si verifica l’episodio chiave, la miccia che provocherà la tragedia. Il difensore biancoceleste Andrés Bertolotti tenta il rinvio per mantenere la propria squadra in vantaggio. In quel momento però è Víctor Lobatóv dei peruviani che con un guizzo intercetta il pallone allungando la gamba e ribattendo la palla in rete, alle spalle dl portiere Agustín Cejas. Pazos convalida il gol poi, per le proteste degli argentini, ribalta il giudizio e lo annulla per gioco pericoloso e la gamba tesa di Lobatóv. Nell’agitazione dei tifosi, Víctor Melasio Campos, già noto alle forze dell’ordine per altri reati con il nome di El Negro Bomba, ed Edilberto Cuenca scavalcano le recinzioni per raggiungere l’arbitro. Le forze dell’ordine li fermano e da quel momento scoppia il caos. Le squadre subito mandate negli spogliatoi (vi usciranno solo in serata, verso le 20.30), i peruviani abbandonano gli spalti e invadono il campo, la polizia che reagisce con i lacrimogeni e mandando i cani nella folla. La maggior parte del pubblico prova così a lasciare lo stadio, ma il comandante Jorge Azambuja ha fatto chiudere ogni accesso, provocando di fatto una mattanza a cielo aperto, fra linciaggi dei poliziotti, repressione dei tifosi, guerriglia degli ultrà. In serata le salme vennero raccolte nel parcheggio dello stadio e molti corpi gettati insieme come in una fossa comune. Il governo decise così di proclamare una settimana di lutto nazionale e decretare per un mese la legge marziale. Azambuja per aver scelto la strada della repressione violenta sarà condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere. Per via della tragedia furono cancellate tutte le ultime partite da giocare del torneo preolimpico. Andarono così a Tokyo solo l’Argentina e il Brasile, con il Perù che non si qualificò, dopo aver perso addirittura un playoff organizzato ad hoc contro i verdeoro e perso nettamente 4-0. A distanza di anni l’arbitro Pazos ammise in un’intervista che il suo fu un errore madornale e che il gol di Lobatón era valido. A distanza di anni molti aspetti della vicenda non sono ancora stati chiariti. Sembra che molte più persone persero la vita, non tanto per le cariche della polizia quanto per l’asfissia indotta dallo schiacciamento provocato dal fuggi fuggi e dal panico generale. Lo stesso magistrato Benjamín Castañeda, che indagò sulla vicenda, ha più volte affermato che di avere forti sospetti di insabbiamento. Quella dell’Estadio Nacional è così ancora oggi la pagina più buia del calcio mondiale, per il numero delle vittime e per come si consumò la tragedia. Dopo di questa si ricordano quella del 9 maggio 2001, quando ad Accra, in Ghana, per gli scontri a seguito di una partita di campionato morirono 127 tifosi, la seconda più sanguinosa, e quella di Hillsborough, durante la semifinale di FA Cup fra Liverpoool e Nottingham Forest, il 15 aprile del 1989. Provocò la morte di 96 persone e il ferimento di oltre 200, per una suddivisione degli spalti non proprio proporzionata alla consistenza delle tifoserie.

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2020. Per capire la tragedia dell'Heysel è importante aver bene in mente la suddivisione delle tifoserie nello stadio. Quella juventina era stata concentrata nella curva sulla destra rispetto alla tribuna centrale. Era divisa in tre settori chiamati O, M e N. Stessa divisione per l' altra curva ma concentrazioni diverse. Nei settori Y ed X erano stati messi tifosi inglesi, del Liverpool, certo, ma anche alcuni Headhunter, i cacciatori di teste del Chelsea, una frangia hooligan particolarmente violenta. Nell' ultimo settore, a completamento della curva, una specie di zona neutra, il settore Z. I biglietti non facevano parte del pacchetto del tifo organizzato, erano a disposizione di chi riusciva ad acquistarli. Amici, genitori e figli, parenti emigranti da tanti Paesi, semplici turisti del grande calcio, si ritrovarono in quel settore debole per convenzione. La partita era prevista alle 20.15. Era un giorno come questi di fine maggio, quando le giornate sono le più lunghe dell' anno. C' era aria buona intorno e un celeste che non diventava mai notte. Tutto accadde in modo meno chiaro di quanto sembrò dopo, quando la tragedia divenne fredda e coprì ogni emozione. Ero in un posto della tribuna stampa collocato tra l' area di rigore e il centrocampo, nella parte sinistra dello stadio, a una trentina di metri dal settore Z che faceva angolo con la nostra tribuna. Tra noi e loro uno spicchio vuoto, uno spazio aperto come una frontiera fra i due settori. Erano circa le 19.20 quando si cominciò a vedere agitazione nei settori di curva inglesi. Si attaccavano alle reti di sbarramento e spingevano per buttarle giù. Avveniva nella distrazione generale, tra i chiacchiericci di uno stadio normali prima di una grande partita. C' è sempre una rissa. C' è sempre un pazzo. Così ognuno continuava la sua attesa. Dopo una decina di minuti le reti cominciarono a cedere, i tifosi inglesi si allargarono nel settore Z e lo invasero con forza. Questo costrinse il suo piccolo popolo a cercare una via di fuga, precipitosa, già disperata. Molti cercarono di sfondare le recinzioni che chiudevano il campo, fili spinati sopra cancelli di acciaio. Ne vidi decine spinti da dietro che andavano ad aprirsi il petto sulle spine della recinzione. Cominciammo a capire, ma la maggior parte della gente guardava come fosse cinema. Non si rendeva conto, era una battaglia confusa, estranea, la respingevamo per disabitudine a viverla. Poi vedemmo cedere il muro che chiudeva il settore Z. Centinaia di persone gli erano arrivate contro come un' onda troppo forte. Caddero con il muro, a decine, uno addosso all' altro, in un vuoto di una ventina di metri. Dallo stadio vidi quel grappolo di corpi scomparire nel niente, non capimmo le conseguenze. Fabrizio Bocca fece il primo controllo. Era e resta un vecchio ragazzo grande e grosso, un giornalista sicuro. Ma quando tornò aveva la faccia verde. Aveva contato più di trenta morti. Dalle curve O-M-N gli juventini avevano visto e capito. Stavano entrando sul terreno per vendicarsi degli inglesi. All' improvviso piombò sul campo il battaglione a cavallo della polizia belga di stanza a un chilometro dall' Heysel. Cominciava il tutti contro tutto. Ci furono scontri irreali, fuori dal tempo, fra bandiere e divise, lanceri e pedoni, avversari sconosciuti, impropri. Improvvisamente, come da una macchina aliena, l' altoparlante annunciò in tre lingue che la partita sarebbe cominciata di lì a pochi minuti e che nessuno poteva muoversi dal proprio posto nè tantomeno lasciare lo stadio. La Zdf, televisione tedesca, interruppe la trasmissione. Orf, televisione austriaca, mandò la partita con sotto questa scritta: «Questa che trasmettiamo non è una manifestazione sportiva, ma una trasmissione volta ad evitare massacri». C' era un odore di morte e di bugie, ma eravamo tutti convinti che la cosa migliore fosse allontanarci dall' Heysel prima possibile e senza discutere con nessuno. Guardiamo la partita e scappiamo da qui. Non ci fu mai niente di veramente chiaro in quell'ora. Sembrava finta anche la realtà. Bruno Pizzul avvertì i telespettatori che avrebbe fatto una telecronaca senza enfasi sportiva. Poi Boniek fu messo giù un metro fuori dall' area del Liverpool. Platini segnò il rigore. Ci furono segni soffocati di entusiasmo. Cominciò la lunga polemica sulla Coppa «che grondava sangue». Boniperti fu subito realista. «L' abbiamo pagata, l' abbiamo vinta. È nostra». Credo in sintesi avesse ragione. Ma la partita non ci fu. Alla fine i giocatori della Juve festeggiarono con il settore M, il cuore della loro curva all' Heysel. Boniek disse poi che non avrebbe voluto giocare e rinunciò al premio partita. Tardelli si scusò pubblicamente. Diciotto giorni dopo l' Uefa decise di squalificare a tempo indeterminato le squadre inglesi dalle Coppe europee. Furono riammesse nel 1990. Nel 2000, agli Europei nei Paesi Bassi, giocammo due volte all' Heysel, ormai ribattezzato Stadio Re Baldovino. Fu impedito all' Italia di giocare con il lutto al braccio. Maldini come capitano e Conte come juventino, portarono una corona sotto il vecchio settore Z. Ogni azzurro scese in campo ad ascoltare l' inno con un fiore in mano. All' Heysel morirono 39 persone: 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese. Andrea Casula di Cagliari aveva dieci anni.

Cabrini e la tragedia dell'Heysel: ''La Coppa? La vittoria fu regolare..." L'ex terzino bianconero in esclusiva a IlGiornale.it: ''La finale col Liverpool resta una macchia nera indelebile ma fu giocata come una partita vera''. Antonio Prisco, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Quindici anni su e giù per la fascia sinistra sui campi di Serie A, Antonio Cabrini non è soltanto uno dei calciatori italiani più vincenti di sempre ma rimane senza alcun dubbio un interprete unico del ruolo di terzino sinistro. Dall'eleganza innata e dallo stile inconfondibile in campo e fuori, qualità che lo hanno reso uno dei sex symbol più amati dall'universo femminile, il Bell'Antonio è riuscito come pochi altri nella storia del calcio ad anticipare i tempi, interpretando in chiave moderna rispetto ai suoi tempi quel ruolo. Pedina insostituibile nella Juventus di Giovanni Trapattoni e nella Nazionale di Enzo Bearzot, trionfatrice a Spagna '82, resta a distanza di anni un modello da seguire per gli esterni difensivi del calcio d'oggi. In occasione dei 35 anni della tragedia dell'Heysel, l'ex terzino bianconero ha parlato di quella notte e di tanto altro sulle pagine de IlGiornale.it.

Sono passati 35 anni dalla tragica notte dell'Heysel, qual è il suo ricordo dopo tanti anni?

''Sempre il solito ricordo, non importa il giorno di quella tragedia. E' un ricordo negativo del mondo che ho vissuto per tanti anni, una macchia nera indelebile che rimarrà per sempre scritta nel mondo del calcio e mi auguro venga ricordata come esempio negativo''.

All'epoca ci furono molte polemiche per la partita con il Liverpool, quale significato assume quella coppa rispetto agli altri titoli vinti in carriera?

''La partita è stata vinta correttamente. Fu una partita regolare, giocata come una partita vera. Quanto accaduto fu una cosa a se stante, l'unica rimasta in quel quadro pessimo della serata''.

Capitolo Juventus, i bianconeri sono pronti per vincere la Champions?

''E' una domanda a cui è difficile rispondere. La Juve si attrezza ogni anno per arrivare in fondo alla Champions League. Ci è arrivata ma non è ancora riuscita a portarla a casa. E' normale sia un pensiero ricorrente nella testa della società e della squadra stessa''.

Il primo anno di Sarri è stato contraddistinto da alti e bassi. La convince il tecnico toscano e proseguirebbe su questa strada?

''Alla Juve le somme si tirano sempre a fine stagione. E' prematuro dire adesso ha fatto bene o ha fatto male oppure 'cosa non ha funzionato o cosa non è andato bene'. La società tirerà le conclusioni a fine stagione''.

La sua Juve fondava tutto sull'equilibrio tra i reparti e sul gruppo degli italiani, cosa aveva quella squadra che alla Juve di oggi manca?

''Impossibile fare paragoni, il mio era un calcio totalmente diverso. Sono passati tantissimi anni e non si possono fare paragoni con la Juve attuale. Confrontare le due squadre farebbe perdere la sua logicità al calcio''.

Lei è stato un interprete moderno del suo ruolo. Esiste attualmente un altro Cabrini o un altro giocatore in cui si rivede?

''Stesso discorso di prima, impossibile poterlo dire. Il gioco del calcio è cambiato in maniera totale e quindi non si possono fare paragoni con il calcio di trent'anni fa''.

Giorni fa Giorgio Chiellini ha detto: ''Odio sportivamente l'Inter''. Il suo ex compagno di squadra Marco Tardelli ha ribattuto: ''Da capitani come Zoff e Scirea ho imparato il rispetto dell'avversario anche nella lotta più dura''. Lei da ex capitano bianconero da che parte sta?

''Sono polemiche che non fanno parte del mio modo di essere e quindi non mi interessano. Probabilmente sarebbe molto più semplice dirsi le cose in faccia, a quattrocchi e cercare di spiegarsi''.

Il calcio italiano dopo il lungo stop per il Coronavirus ripartirà a metà giugno. Quale idea si è fatto a proposito?

''Il calcio doveva ripartire assolutamente per terminare la stagione, per concludere le competizioni internazionali e per dare sostegno ad eventi sociali importanti come le partite per i tifosi. Bisognava far ripartire un'azienda che a livello economico sostiene l'80% di tutti gli altri sport''.

Il presidente Andrea Agnelli aveva già fatto sapere che non avrebbe accettato lo scudetto a tavolino. E' la decisione giusta?

''Condivido la sua scelta, perchè dovrebbe accettare uno scudetto vinto in questa maniera? Non fa parte del Dna della Juventus''.

In chiusura, un pronostico sul prosieguo della stagione. Chi vince il campionato? Chi vince la Champions League?

''La Champions è un terno a lotto, perchè una volta arrivati in finale, ti giochi tutta la stagione in novanta minuti. Il campionato invece potrebbe aprirsi a nuovi scenari dopo il Coronavirus, quindi diventa difficile fare delle previsioni''.

Dagospia il 28 Maggio 2020. Da Le Lunatiche. Stefano Tacconi ha rilasciato un’intervista alla trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti, che andrà in onda integralmente sabato notte.

Sull’Heysel: Dentro lo spogliatoio c’era un po’ di tutto: chi perdeva sangue, chi era ferito, noi abbiamo prestato i primi soccorsi, prestando anche le scarpe a chi le aveva perse, le tute. Era un’atmosfera surreale. Boniperti aveva detto che non dovevamo giocare, ma poi un generale delle Forze dell’ordine ci impose di giocarla e credo sia stato giusto perché altrimenti sarebbe successo molto di più. Entrammo in campo molto arrabbiati, perché comunque ci avevano tolto il sogno di quella finale, noi eravamo sicuri di vincere ma ci hanno tolto la gioia di esultare. Capisco le critiche, ma anche qui furono le Forze dell’ordine a chiederci di uscire con la coppa per tenere buoni i tifosi dentro lo stadio. Non dovevano uscire perché gli hooligans non erano stati ancora evacuati.

Sulla staffetta con Luciano Bodini nell’84-85: Mi fece capire tante cose, che alla Juve non bisognava adagiarsi sugli allori, dopo aver vinto la stagione precedente uno scudetto e una Coppe delle Coppe mi ero galvanizzato e avevo mollato.

Su Dino Zoff: Mi diceva sempre “io non ti devo dare consigli, ti devo allenare”, perché sapeva benissimo che un portiere è diverso dall’altro, per carattere e personalità.

Sul presidente dell’Avellino Antonio Sibilia: Incuteva timore, paura, con lui dovevi rigare dritto, se la partita andava male, tra il primo e il secondo tempo andavamo tutti in bagno sapendo che scendeva lui negli spogliatoi e insultava chi giocava male, attaccandolo al muro. Quando io e Beniamino Vignola fummo ceduti alla Juventus, andammo da lui, che ci doveva ancora un premio da 5 milioni di lire a testa. Vignola era davanti a me e quando li chiese, Sibilia rispose con una bella cinquina in faccia. Quando toccò a me gli dissi solo:”Commendatore ero venuto per salutarla”.

Su Agnelli e Boniperti: Con Boniperti amore e odio, lui non riuscì mai a gestirmi come voleva lui, secondo lo stile Juve, io ai giornalisti dicevo quello che pensavo, tante..str..e prendevo tantissime multe. Una volta, dopo la finale di Coppa Intercontinentale mi fece 10 milioni di multa per aver detto:”Con l’arrivo di Berlusconi, avrebbero fatto tutti le prove per scappar via a fine campionato con gli elicotteri”, Agnelli disse che metà multa l’avrebbe pagata lui perché avrebbe detto le stesse cose.

Su Italia’90: Prima dei rigori di Italia-Argentina, per un minuto ho creduto che la follia di Azeglio Vicini fosse tale da mettermi in campo, io qualche rigore l’avrei parato. Però è stato un gran mondiale, eravamo una grande squadra con un grande spogliatoio, la prova è che tutti e 22 ci sentiamo ancora oggi, abbiamo fatto la chat “Notti magiche”, chattiamo continuamente, ci mandiamo foto, fotine e stupidaggini varie, Berti, Serena,  sono i più attivi, Ferrara invece è lo specialista nel mandare foto.

Gerrard e i suoi primi 40 anni: l'idolo che vinse quasi tutto. Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da Enrico Sisti su La Repubblica.it E' stato il più grande calciatore inglese degli ultimi 30 anni. Con il Liverpool ha conquistato da solo la Champions del 2005 a Istanbul. Ma non è mai riuscito a prendersi la Premier. Steven Gerrard poteva vincere tutto, tanto, sempre. E’ stato uno dei più grandi e moderni interpreti del calcio totale, dove per totale si deve intendere totale: attacco e difesa, assist e reti, leadership e umiltà, origini proletarie e titolo di baronetto. “Stevie G” compie oggi 40 anni. Ma non ha vinto ciò che avrebbe meritato: solo una Champions League, e la vinse quasi da solo, due FA Cup e una di queste, la seconda, la vinse quasi da solo, tre Coppe di Lega, due Community Shield. Ciò che manca, e clamorosamente, nella sua bacheca è la Premier. Il più grande calciatore inglese degli ultimi 30 anni non ha mai vinto il suo campionato. Incredibile. Ha pagato la maledizione del suo Liverpool, che forse soltanto fra un mese o due potrà tornare a festeggiare la conquista del titolo, esattamente dopo trent’ anni. Ma Gerrard non c’è più. Trent’anni che sono durati il doppio perché pesano ancora come trenta macigni sul cuore degli appassionati che si ritrovano ad Anfield, che hanno scavato solchi nell’anima dei Reds e dei loro tifosi, che hanno inciso negativamente al punto da sbriciolare persino la Kop, la curva delle curve, che infatti è stata recentemente ristrutturata. E ampliata. Quando l’abbiamo conosciuto, a La Manga, in Andalusia, mentre preparava la sua seconda finale di Champions nel 2007, e sempre contro il Milan, “amato, rispettato, temuto”, come ci disse, Gerrard aveva ancora una vita davanti. Parlava con quel suo inglese schiacciato, dai toni sempre pacati. Raccontando di sé, si esprimeva come se non volessi disturbare, come se fosse sempre sul punto di ringraziare per l’attenzione che gli veniva ogni volta riservata. Il simbolo del Liverpool aveva i cori a lui dedicati, il più celebre di tutti sulle note di “Que sera sera”, dove si intona fra l’altro: “Steve Gerrard, Gerrard, he'll pass the ball 40 yards, he's better than Frank Lampard, Steve Gerrard, Gerrard”. Ed è un tema che si posizionava poco sotto l’eterna “You’ll never walk alone”. Oppure quello in cui si canta sulle note di “Can’t take my eyes” (la canzone nel “Cacciatore” di Cimino): “You’re just too good to be blue (allusione al colore dell’Everton, l’altra squadra di Liverpool, ndr), they can’t take the ball off of you, you’ve got a heavenly touch, you pass like Souness or Rush”. Ma di tutto questo amore, legittimo, ogni tanto Gerrard sentiva il peso: “A volte è come se troppo amore ti togliesse la concentrazione per giustificarlo…”. Quattro giorni prima della finale di Atene, alla fine un allenamento piuttosto leggero iniziato con un tuffo in mare collettivo (soltanto Dudek, eroe di Istanbul ma ormai secondo di Pepe Reina, si rifiutò: non sapeva nuotare) Gerrard ci disse: “Voglio rivincere la Champions? Certo. Ma se mi chiedete di fare a cambio con una Premier accetto”. Il Liverpool di Benitez non la vinse mai. Né lui, Stevie G. Infatti Gerrard rimane una delle poche star del calcio moderno a non aver mai vinto un campionato. “Ad un certo punto ho pensato che sarebbe stato meglio puntare altri obiettivi: per esempio la salute”. In Inghilterra dicono che la FA Cup conti più della Premier (come detto Gerrard di FA Cup ne ha vinte due): “Si equivalgono: ma non così vero che conti di più”, ammette Gerrard, “perché vincere la Premier è vincere contro tutti". Nel 2014 il traguardo sembrava vicino. Come forse mai. Gerrard poteva tornare a toccare il sogno con le mani, tante mani, migliaia di mani i cui proprietari, vivono, vanno allo stadio, dormono indossando la maglietta rossa di una squadra che non vinceva la Premier da troppo tempo: dal 1990. “Ma nessuno si deve montare la testa, nessuno deve mollare un centimetro”. Dopo la partita contro il City, ricacciate in malo modo le lacrime nei loro canali di competenza, Gerrard chiamò tutti i suoi compagni in a “huddle”, in un abbraccio collettivo. Dal capannello usciva una sola voce: la sua. “Possiamo farcela, restiamo noi stessi”. E intanto pensava a come e cosa la vita riservava: proprio nel giorno dei 25 anni dalla tragedia dello stadio di Hillsborough, il Liverpool stava rivedendo la luce, una strana luce, un cammino (fatto di quattro partite) di pura luce. Steven pensò a suo cugino, Jon-Paul, che morì anche lui in quello stadio, ora Jon-Paul Gilhooley è il più giovane nome sulla lapide che ricorda le vittime di quel drammatico pomeriggio a Sheffield. ”Aveva un anno più di me. Eravamo come fratelli”. Poi alzò lo sguardo verso il cielo che improvvisamente s’era oscurato. Un faccione sorridente gli stava facendo ombra: “Dai Steve, che adesso comincia il bello”. Era il suo allenatore Brendan Rogers, quello che avrebbe potuto trasformare il sogno di Stevie in realtà:”Con Brendan si può fare”. La stessa cosa disse Rogers: “Con Stevie si può fare!”. Specie se accanto a loro c’erano Suarez, Sturridge, Sterling, Coutinho. Rogers aveva deciso di far giocare Gerrard stabilmente davanti alla difesa, forse anche per allungargli la carriera. Steve imparò a difendere ancora meglio, ma senza dimenticare come si attaccava, come si segnava, come si calciavano le punizioni. Fra grandi, non c'è dubbio, quanto avranno impiegato per capirsi? Massimo dieci secondi. Non bastò comunque. Incredibile, ma fu proprio lo scivolone di Gerrard contro il Chelsea a bloccare di nuovo la confezione del sogno. Da “You’ll never walk alone” a “You’ll never slip alone”. Quello scivolone spinse Steven a fuggire negli Stati Uniti. Ha chiuso al Galaxy, dopo quasi 200 reti da centrocampista box to box. Ora allena i Rangers a Glasgow. Ma quando ripenserà al significato più profondo dei suoi 40 anni, e spegnerà 40 candeline, quando riavvolgerà il nastro dei desideri, tornerà quel buio oltre la siepe. E quel sogno sempre infranto. Di un campione perfetto. Se Klopp vince, vince anche per lui.

Francesco Persili per Dagospia l'1 agosto 2020. Un sentimento che si balla. Il calcio argentino come il tango nasce nelle periferie. Volver. A Buenos Aires, nel quartiere di Palermo e nel mercato dell’Abasto, il pallone rotola tra marinai, operai, umili e sfruttati e unisce italiani e spagnoli, provinciali e portegni che si riconoscono nella voce di Carlos Gardel, “el francesito dai mille mestieri” che impazzisce per i dribbling di Ochoa e gli dedica un tango. “Ochoita, el crack de la aficion”. Gesti esibiti, sguardi accesi, intenzione e desiderio, corpo e anima in comunione mistica. Invece di andare alle assemblee operaie i lavoratori si adunavano per ballare il tango il sabato sera e vedere il calcio la domenica pomeriggio.

Milonghe e futbol. A Rosario, la capitale argentina del futbol, la città di “Che” Guevara, Menotti, Messi e del “Loco” Bielsa, i calciatori sono così eleganti che sembra si muovano ballando. Parole e musica di Osvaldo Bayer, scrittore e giornalista, scomparso nel 2018, che in “Futbol” (edizioni Alegre) ci racconta attraverso il calcio le vicende politiche e sociali dell’Argentina. Una danza di scoperta, un atto ribelle. Il prologo è scritto dagli inglesi, poi arriva la mano de Dios, il sublime sberleffo post-coloniale di Maradona che chiude simbolicamente il derby con i sudditi di sua Maestà iniziato nei campetti incolti del porto di Buenos Aires nel 1867 (“Il giorno della partita alcuni non trovarono il coraggio di mettersi in pantaloncini corti perché erano presenti delle dame”).  Dimenticate le logiche del calcio-business, si tratta di tornare alle origini del Gioco, alla semplicità dell’homo ludens, alle leggende che accompagnavano la potenza di fuoco di Bernabè (che avrebbe avuto il collo del piede rivestito con una lamina d’acciaio e un osso a forma di grilletto), alle storie di riscatto come quella del “cagasotto” Monti, il capro espiatorio della sconfitta dell’Argentina contro l’Uruguay nel 1930 e poi campione del mondo con l’Italia 4 anni dopo. Si oscilla tra Soriano e Camus, si indaga la differenza tra il gioco "capitalista che richiede il rendimento" e il gioco socialista, tendenza Independiente anni '60, "perchè richiede lo sforzo di tutti", si palpita per le sfide infinite Boca-River. I balzi felini di Americo "Merico" Tesorieri, portiere degli azul-oro“, che aveva la musica di Mozart in corpo” e José Manuel Moreno, il centrocampista ribelle della squadra dalla banda rossa, grande frequentatore di milonghe, che starebbe bene in una canzone di Guccini. Prima di scendere in campo si concedeva un abbondante stufato accompagnato da una bella bottiglia di vino rosso. Lo stile Boca (“Non solo una squadra di calcio, è un’altra cosa”) esaltato da Varela, detto lo Spirito Santo, perché in campo aveva il dono dell’ubiquità e la Macchina del River, una delle squadre più spettacolari di sempre. 5 attaccanti, calcio totale e due cervelli: Carlos Peuce­lle e Renato Cesarini. E poi corruzione, pestaggi, il presidente dell’Huracan che prende a cazzotti l’arbitro nel 1941, e ancora il tango di Discepolo per raccontare il periodo di dittature militari degli anni ’30, il Decennio Infame, quello “dello scaldabagno e della Bibbia,” quando in molte case popolari il libro sacro era finito a pendere nel bagno attaccato dallo scaldabagno a una cordicella, accanto al cesso, come sostituto economico e un po’ blasfemo della carta igienica. Ci sono gli scioperi dei calciatori, la nascita nei ’60 all’interno delle curve di gruppi organizzati e violenti, le "barra bravas" e il paradosso del solito dittatore militare di turno, Onganía che ordinerà misure drastiche contro la violenza in campo quando lui stesso era il primo ad aver dato il cattivo esempio, essendosi aperto la strada verso il potere con la punta delle baionette.  Nel 1976 niente più scherzi né sorrisi. Il Paese si ricopre di sangue. Esilio, carcere, sparizioni, sequestri, torture, estorsioni, stupri. Spariscono anche i bambini. Nella notte più buia dell’Argentina, una luce. Debutta un ragazzino nell’Argentinos Juniors. Ha solo sedici anni e si chiama Maradona. Di lui venne scritto: “Diego è il rappresentante di una vecchia storia calcistica. In ogni movimento si sente la nostalgia di un calcio che se n’e andato. Il suo calcio ha la picardia, l’ironia che bisogna utilizzare per combattere con la vita”. L’Argentina, diversi anni dopo Gardel, aveva ritrovato la sua voce. Quella che unisce la città cosmopolita al barrio, il ricordo e la nostalgia, l’eleganza e la miseria, i sogni di infanzia e quel pensiero audace che ora si balla. Il tango, il futbol. La vita. Volver!

Il cartellino giallo compie 50 anni: il primo in Messico-Urss. Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it. Non ci sono personaggi e fatti banali nella storia del cartellino giallo, che compie 50 anni. Anzitutto il numero dei testimoni: oltre 100mila il 31 maggio del 1970, il giorno della prima volta. Partono i mondiali del Messico ed allo stadio dell'Azteca ad aprire le danze tocca proprio ai padroni di casa: avversaria, l'Unione Sovietica. Nessun gol, ma dopo 36' di gioco si fa la storia: l'arbitro Kurt Tschenscher, tedesco per caso (è della Slesia, se fosse nato dopo il 1945 sarebbe stato cittadino polacco) mostra il giallo al sovietico Kakhi Asatiani. Una 'vendetta' a parte invertite, visto che 4 anni prima proprio un sovietico, il guardalinee Tofik Bakhramov, è stato il giustiziere della Germania Occidentale, assegnando all'Inghilterra il gol fantasma più famoso di sempre nella finale del mondiale a Wembley . Quel 31 maggio il ruolo dell'arbitro cambia: da uomo delle ramanzine, a volte paternalistiche, altre meno, con le quali ammonisce i giocatori, diventa un pubblico ufficiale. Quel cartellino certifica a tutti le proprie decisioni. Sventola nel 1970, ma la sua origine risale a 4 anni prima. L'idea viene a Ken Aston, che dal 1966 al 1974 è responsabile degli arbitri delle fasi finali della Coppa del Mondo. Aston all'epoca è già noto in Italia: nel 1962 a Santiago i giocatori del Cile scatenano una caccia all'uomo senza precedenti contro gli azzurri nella gara decisiva per il passaggio del turno. Aston non muove un muscolo del viso per impedirlo, anzi, pensa bene di cacciare due italiani influendo in maniera determinante sul 2-0 finale. Lo spunto ad Aston glielo lo fornisce l'arbitro tedesco Kreitlein, protagonista insieme al capitano dell'Argentina Rattin di una tragicomica a Wembley. Rattin viene espulso probabilmente per avere messo un dubbio la moralità di mamma o moglie del direttore di gara. Probabilmente, perché lo stesso Kreitlein confessa ai giornalisti di aver solo intuito l'offesa. Ad ogni modo, invitato a lasciare il campo, l'argentino non raccoglie continuando a giocare per qualche minuto. Urge un provvedimento che renda ufficiale la punizione, ed ecco che il buon Aston, aspettando ad un semaforo, ha l'idea dei cartellini colorati. Non tutti si adeguano. Ad esempio in Spagna, forse per motivi legati al bianco e nero della tv, l'ammonizione viene data con il cartellino bianco. Il primo a riceverlo è Enrique Castro "Quini", altro dalla vita non banale: nel 1981, colonna del Barcellona e della Nazionale spagnola, viene rapito a scopo di estorsione. Per altro colore, il rosso, bisogna invece aspettare il Mondiale del 1974. Germania Ovest Cile: espulso Carlos Caszely, il giocatore socialista che osa sfidare il regine di Pinochet negli anni in cui farlo mette a repentaglio la vita. Fatti e personaggi, anche se i protagonisti assoluti del giallo restano tre: Tschenscher, Asatiani, Aston. Il primo, tedesco ha vissuto in tranquillità facendo l'assicuratore e il consigliere comunale. Il secondo, diventato uno degli uomini più ricchi della Georgia dopo la dissoluzione dell'Urss, fu ucciso a colpi di pistola a Tbilisi nel 2002 in circostanze mai chiarite. Quando ad Aston, che inventò anche la lavagna per indicare le sostituzioni, fu persino nominato Membro dell'Ordine dell'Impero Britannico. Di quella giornata di Santiago (esclusi gli italiani) non si ricorda quasi più nessuno.

Mezzo secolo di rigori: il primo fu di Best. Europa League e Champions senza supplementari. La lotteria varata dalla Fifa nel 1970. A inaugurarla la stella del Manchester United. Roberto Gotta, Mercoledì 05/08/2020 su Il Giornale. Tornano le Coppe, tornano le partite a eliminazione diretta: in caso di parità si andrà direttamente ai rigori, saltando i tempi supplementari. Curiosamente, proprio oggi compie 50 anni la prima gara decisa dai calci di rigore. C'erano stati casi isolati precedenti, compreso un Mestrina-Treviso di Coppa Italia nel 1958-59, ma a livello globale aveva prevalso ancora il sorteggio, e la regola era stata approvata dalla Fifa il 27 giugno 1970, subito dopo i Mondiali messicani, così il debutto toccò ad un effimero e curioso torneo precampionato inglese, la Watney Cup, che fu oltretutto il primo ad essere sponsorizzato. A partecipare, le due squadre che avevano segnato più reti nelle quattro serie professionistiche, una sorta di omaggio al gioco offensivo che però portò immediatamente ad un pareggio, 1-1, tra Hull City e Manchester United al Boothferry Park di Hull. Uno a uno anche dopo i supplementari, per cui per la prima volta nella storia si andò ai rigori. E chi fu il primo in assoluto a tirarne uno? George Best, segnando con un rasoterra alla destra del portiere Ian McKechnie, vero protagonista della serata. 28 anni, soprannominato Yuri a inizio carriera per i suoi voli che lo facevano paragonare all'astronauta Gagarin, McKechnie fu il primo estremo difensore a concedere un gol ai rigori, il primo a pararlo (al grande Denis Law) e pure il primo a sbagliarlo, scheggiando la traversa e consentendo così allo United di vincere. La nuova regola però era discrezionale: ciascuna federazione o lega poteva decidere se adottarla o meno. A livello europeo fu subito introdotta nelle coppe, e nei primi tempi ci furono gravi errori: in una partita di Coppa dei Campioni del settembre del 1972 il sovietico Valentin Lipatov dichiarò vincitore il Cska Sofia contro il Panathinaikos sul 3-2, nonostante mancassero ancora due rigori per i bulgari e uno per i greci, così la Uefa fu costretta a ripetere la partita. Caso simile in Santos-Portuguesa, finale del campionato paulista del 1973: 2-0 Santos dopo tre rigori e l'arbitro Armando Marques la chiuse lì. Con uno strascico curioso: il tecnico del Portuguesa, Otto Gloria, fece uscire i suoi in fretta, prima che i dirigenti federali presenti segnalassero l'errore, perché aveva poche speranze di vincere ai rigori e sperava nella ripetizione della partita. Che non ci fu, ma il Portuguesa fu comunque dichiarato campione congiunto con il Santos. La prima manifestazione internazionale decisa ai rigori fu l'Europeo '76, nella finale tra Germania e Cecoslovacchia: era prevista la ripetizione ma le due squadre pretesero i rigori, e fu un'occasione storica due volte, perché la vittoria dei cecoslovacchi arrivò grazie al celebre cucchiaio di Antonin Panenka al portiere tedesco Sepp Maier. Cucchiaio che, ora, viene detto proprio Panenka.

Il calcio di punizione è un'opera d'arte: ecco i 10 migliori stoccatori della storia. Juninho Pernambucano, Maradona, Pirlo, CR7 e Messi sono solo alcuni degli interpreti più forti in uno dei fondamentali più importanti, il calcio di punizione. Marco Gentile, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Il calcio di punizione: uno dei tanti fondamentali del gioco del calcio imprescindibile per una squadra. Attraverso questa sublime giocata diversi calciatori hanno spesso tolto le castagne dal fuoco ai propri allenatori permettendo di sbloccare, vincere o pareggiare determinati incontri che fino a quel momento risultavano bloccati o con un risultato negativo. Ovviamente tantissimi calciatori professionisti nel corso della loro carriera hanno realizzato diverse reti da calcio piazzato e ilgiornale.it ha cercato di mettere insieme i 10 migliori stoccatori direttamente su punizione della storia del calcio in rigoroso ordine alfabetico. In questa top 10, inoltre, mancano diversi grandi interpreti in questo fondamentale con Roberto Baggio, Alessandro Del Piero, Francesco Totti, Alvaro Recoba e tanti altri ma una scelta e una cernita andavano fatte:

David Beckham (lo specialista). David Beckham è stato un calciatore che in carriera ha sempre dimostrato di avere un piede fatato. Tanti i cross al cashmere per i compagni di squadra ma anche tanti gol con conclusioni potenti e precise e con calci di punizione chirurgici. Dopo Juninho Pernambucano, Pelé e Ronaldinho è quello ad aver segnato maggiori reti in carriera con questo fondamentale.

Mario Corso (La foglia morta). Mariolino Corso è stato un grandissimo calciatore e purtroppo si è spento solo qualche settimana a 77 anni, tre giorni prima di Pierino Prati altro grande ex giocatore ma che incantava i tifosi dell’altra sponda del Naviglio milanese. L’estroso calciatore dell’Inter di Helenio Herrera nel corso della sua favolosa carriera si è spesso messo in luce con i suoi calci di punizione con un sinistro fatato e vellutato: la cosiddetta “foglia morta”.

CR7 (la punizione alla Cristiano). Con la maglia della Juventus non è ancora riuscito a realizzare un gol su calcio di punizione ma nel corso della sua sfavillante carriera CR7 ha incantato i tifosi di Manchester United, Real Madrid e nazionale portoghese con reti direttamente su calcio da fermo. Il 35enne di Funchal nel corso degli anni ha realizzato la bellezza di 54 gemme e da diverse mattonelle tra i 20 e i 30 metri. La sua classica posa prima di battere un calcio piazzato è stata copiata per anni, e lo è ancora, da tantissimi colleghi calciatori e ragazzini in giro per il mondo. Come detto alla Juventus è ancora a bocca asciutta dopo quasi due stagioni ma non può non entrare di diritto in questa speciale classifica:

Juninho Pernambucano (la maledetta). Molti lo considerano il miglior stoccatore in assoluto della storia del calcio. Il brasiliano detiene comunque il record di maggior numero di gol segnati direttamente su calcio di punizione, 77 proprio davanti all’ex United e Milan David Beckham. Il 45enne carioca ex Lione è da tutti conosciuto per via del suo tiro al veleno, la punizione definita “Maledetta”. Il suo calcio dalla distanza, infatti, permetteva al pallone di abbassarsi molto rapidamente cogliendo di sorpresa il portiere che non riusciva quasi mai a neutralizzare la conclusione di Juninho.

Diego Armando Maradona (Il Pibe). Da anni c’è ancora gente che si chiede se come calciatore sia stato più forte Diego Armando Maradona o Pelè. Entrambi nel corso degli anni si sono scambiati diverse stoccate a livello verbale anche se hanno sempre dichiarato di stimarsi. L’argentino ritiene di essere lui il migliore di tutti i tempi, il brasiliano rivendica la paternità di questo prestigioso titolo. Chi sia stato il migliore è difficile a dirsi per stile di gioco ed epoche in cui hanno calcato i campi di calcio ma una cosa è certa: il Pibe nel fondamentale delle punizioni.

Lionel Messi (specialità della casa). La Pulce ha appena raggiunto la 700esima rete in carriera tra club e nazionale e pare che nel 2021 possa lasciare il Barcellona dopo praticamente 20 anni di militanza nella società che l’ha reso grande. 630 reti con il Barça così distribuite: 440 in Liga, 53 in Coppa del Re, 114 in Champions, 14 in Supercoppa di Spagna, tre in Supercoppa Europea e cinque nel Mondiale per club. 518 con il piede sinistro (75 su rigore e 46 su punizione), 87 di destro, 22 di testa, uno col petto, uno con la mano e uno di anca. Le reti diventano 700 in virtù dei 70 centri in nazionale. I 46 sigilli su punizione con il Barcellona, però, sono uno spettacolo puro per gli occhi:

Sinisa Mihajlovic (Il cecchino). Sinisa Mihajlovic è senza ombra di dubbio uno dei più grandi interpreti di questo fondamentale. Difensore centrale con un sinistro vellutato ma anche potente e preciso. L’ex calciatore di Inter e Lazio nel corso della sua carriera ha messo a segno diversi gol su punizione: 28 per l’esattezza e tre in un solo match. Dalla lunga distanza, da 20 metri, in posizione centrale, defilata: Sinisa sapeva sempre centrare l’angolino togliendo di fatto spesse volte la ragnatela dall’incrocio dei pali delle porte difese dai vari portieri ai quali ha segnato direttamente su punizione.

Andrea Pirlo (L’evoluzione della maledetta). In molti l’hanno considerato il “maestro” dei calci di punizione. Il 41enne di Flero ha scritto pagine importanti della storia del Milan, della Juventus e della nazionale italiana. Pirlo in carriera in Serie A ha realizzato 26 reti su punizione, due in meno rispetto a Mihajlovic, mentre in carriera ne ha segnate in totale 46 e in Champions ne ha segnate cinque facendo peggio solo di Juninho e CR7. La sua tecnica di colpire il pallone imprimendo alla sfera traiettorie impossibili e imprevedibili per i portieri sfruttando l’effetto Magnus hanno fatto la storia del calcio.

Roberto Carlos (La strana traiettoria). Roberto Carlos ha segnato oltre 100 reti in carriera su calcio di punizione e la particolarità del suo calcio era la potenza mista però alla precisione e ad una traiettoria quasi sempre impossibile da decifrare per i portieri. Le sue conclusioni da oltre 100 chilometri orari hanno fatto la storia e uno dei più celebri lo segnò alla Francia e a Barthez con un tiro che viaggiava sui 137 chilometri orari.

Ronaldinho (Il funambolo del calcio moderno). Ronaldinho è stato uno dei calciatori più talentuosi che abbiano mai calcato i terreni di gioco. L’estroso brasiliano ha sempre avuto un talento naturale per le grandi giocate di classe e per i gol impossibili. I calci di punizione sono sempre stati una sua grande peculiarità e nell’arco della sua lunga carriera tra club e nazionale in Europa e in Brasile ha realizzato la bellezza di 66 reti con questo fondamentale.

Fuori classifica.

José Luis Chilavert (il portiere goleador). Il 54enne paraguaiano, che compirà 55 anni il prossimo 27 luglio, è stato un ottimo portiere ma anche un grande marcatore. Nel corso della sua lunga carriera, infatti, ha realizzato la bellezza di 62 reti, 54 nei vari club e 8 in nazionale così distribuiti: 45 su calcio di rigore, 2 su azione e ben 15 su punizione diretta. Chilavert, dunque, non poteva mancare in questa top ten sui calci di punizione anche perché in quanto portiere non sarebbe dovuta essere una sua prerogativa.

Gian Antonio Stella per corriere.it  il 26 agosto 2020. Riproponiamo qui l’intervista di Gian Antonio Stella a Lionel Messi, pubblicata su Sette il 21 giugno del 2013. «L’ha incorniciato, quel tovagliolo di carta?». «Quale?». «Quello su cui, dice la leggenda, l’allenatore che le aveva fatto il provino per il Barcellona firmò con suo papà il primo contratto per non rischiare di farsi scappare “el niño de oro”…». Leo Messi ride. «Sono sincero: non l’ho mai visto. Non sono neanche sicuro che esista. Lo so che ogni tanto scrivono di quel tovagliolo ma io, dico davvero, non l’ho mai visto…». È una sera della tarda primavera. Il mare davanti alla trattoria sulla costa meridionale di Barcellona schiaffeggia pigramente la spiaggia, dominata da uno spuntone roccioso. Siamo dalle parti di Castelldefels, la cittadina catalana dove il fuoriclasse “blaugrana”, a dispetto della fama e della ricchezza, vive in una villa appartata e lontana mille miglia dalla movida delle Ramblas. Dal caos. Dalle discoteche. Dalle caffetterie alla moda. Dalle notti brave. “La Pulce” è allegro.  Rilassato. Apre curioso la busta che gli ho portato. Contiene la fotocopia di un vecchio “Cartellino di indice” del Comune di Recanati. È lo stato di famiglia di Angelo Messi, nato nel 1866 e domiciliato con la moglie Maria Latini in Valle Cantalupo, una povera contrada un paio di chilometri a nord della cittadina marchigiana. «I nonni di mio papà, giusto?».

Non l’aveva mai visto?

«No».

Erano di Recanati, come Giacomo Leopardi.

«Chi era?».

Un grande poeta: «sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude».

«Mai sentito. Mi dispiace».

Magari conosce la Madonna di Loreto. È lì vicino…

«No. Mi dispiace. Dov’è?».

Marche. Italia centrale. Mai avuto la curiosità di andare a vedere da dove arrivavano i nonni?

«No. Credo che mio papà conosca il posto. Che sia stato lì e abbia incontrato i nostri parenti. Magari un giorno ci andrò anch’io». ...

Lei è di Rosario, la città di Che Guevara: che rapporti ha con quella figura che campeggia sulle magliette di decine di milioni di ragazzi del pianeta?

«So chi era. È un mito. Come Evita. Ma apparteneva a un’altra epoca. Quelli della mia generazione non lo hanno vissuto come un simbolo…».

Il tango, almeno! Lo sa ballare, il tango?

«No».

Non è possibile!

«Vale quello che dicevo per Che Guevara. È di un’altra epoca, rispetto alla mia generazione. Se siamo lì e danno il tango alla radio cambiamo canale. Ma se un argentino sente il tango qui in Europa gli viene la pelle d’oca». ...

Cosa le manca di più dell’Argentina?

«Non mi manca niente… Sono venuto qui in Spagna da piccolino, la famiglia è venuta con me, loro continuano a venire e tornare, qui ho tutto quello che mi serve. Più che altro vorrei tornare nel barrio dove sono nato».

Nel barrio La Bajada?

«Sì. Il mio barrio a suo tempo era umile ma non pericoloso. Un quartiere modesto. Questo sì. Ma non pericoloso. Del resto, mio papà e mia mamma vivono ancora là…».

Era doloroso, il trattamento ormonale?

«Una puntura al giorno».

Ho letto cose diverse: il suo amico Lucas sostiene che quando era a casa sua a un certo punto si alzava, prendeva la dose nel frigo, se la iniettava e tornava a fare quel che stava facendo come fosse la cosa più normale del mondo, senza traumi.

«Era solo una puntura…».

Altri hanno scritto che quelle cure «spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l’anima. I peli in faccia che non ti crescono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare».

«Ma no… Nessun dolore particolare».

L’ha scritto Roberto Saviano…

«Chi?».

L’autore di Gomorra, il libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.

«Non lo conosco».

È vero che in tutta la sua vita ha letto solo un libro, sulla vita di Maradona?

«Sì. Vorrei leggere di più e un giorno lo farò. Ma oggi sono travolto da troppe cose».

Almeno Osvaldo Soriano lo conoscerà!

«Soriano chi?».

Vi ricordate queste "botte da fuori"? I gol e i video che hanno stravolto il calcio. Tanti giocatori nella loro carriera si sono inventati gol pazzeschi da centrocampo: da Recoba a Maradona passando per Xabi Alonso e Stankovic: ecco quelli che sono entrati nella storia. Marco Gentile, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale.  I gol da centrocampo rappresentano uno spettacolo per la vista, un emozione particolare per chi riesce a realizzare una simile gemma che rimarrà per sempre incastonata nelle menti dei tanti tifosi e appassionati di calcio. Per segnare da distanze siderali servono estro, furbizia, malizia, capacità balistiche non indifferenti e un calcio potente e preciso in grado di beffare l’estremo difensore avversario. Ilgiornale.it ha cercato di mettere insieme i dieci migliori gol da centrocampo prendendo in esame diversi campionati. Christian Vieri, Giuseppe Mascara e soprattutto Fabio Quagliarella sono i calciatori italiani riusciti a realizzare un gol da metà campo con le maglie di Atalanta, Catania (nel derby contro il Palermo) e con la Sampdoria ma non solo dato che con tutte le squadre con cui ha giocato ha sempre realizzato rete pazzesche. In questa graduatoria non poteva mancare il Pibe de Oro, ma anche Alvaro Recoba, il portiere goleador Chilavert e tanti altri ancora:

Christian Vieri (Atalanta-Siena 2006-2007) Bobo Vieri ha segnato tantissimi gol nella sua sfavillante carriera ma una sola volta è riuscito a realizzare una perla da metà campo. Stagione 2006-2007 dopo la sfortunata parentesi al Monaco in Ligue 1, dove si infortuna al ginocchio giocandosi così di fatto il mondiale del 2006 in Germania, torna in Serie A dove c’è l’Atalanta a dargli fiducia. Solo sette presenze in campionato per lui in quella stagione 2006-2007 ma una perla da centrocampo contro il Siena che è ancora negli occhi dei tifosi della Dea.

Dejan Stankovic (Inter-Schalke 04 Champions League e Genoa-Inter). Dejan Stankovic è stato un centrocampista molto prolifico in carriera con 116 reti realizzate tra Stella Rossa, Lazio e Inter e nel corso della sua carriera ha sempre realizzato reti di pregevole fattura: da fuori area, di testa, di destro e di sinistro, di potenza e di precisione. “Deki”, come veniva soprannominato all’Inter, però, è riuscito per ben due volte con la maglia nerazzurra a segnare da centrocampo: la prima volta in un Genoa-Inter finito 0-5, il serbo realizzò la rete del 3-0 con una perla da metà campo. In Champions ancora più difficile contro lo Schalke 04 sbloccò dopo pochissimi secondi la partita che si chiuse però davvero male per l’Inter di Leonardo.

Fabio Quagliarella (l’uomo dei gol impossibili). Fabio Quagliarella è senza dubbio l’uomo dei gol impossibili. Il 37enne di Castellammare di Stabia ha dimostrato di saper segnare in ogni modo: rovesciata, al volo, di tacco ma il suo marchio di fabbrica si può dire essere il tiro da fuori area. L’ex attaccante di Napoli, Torino e Juventus ha spesso provato in carriera reti impossibili dalla distanza e spesse volte ha fatto male ai portieri avversari.

Xabi Alonso (Liverpool-Newcastle). Lo spagnolo è stato sicuramente uno dei centrocampisti più completi e talentuosi degli anni 2000. L’ex di Liverpool e Bayern Monaco ha vinto tanto, segnato abbastanza e dimostrato di essere in grado di gol impossibili. Con la maglia dei Reds gli è riuscito per ben due volte ma la sua gemma da dietro il centrocampo contro il Newcastle è qualcosa che rimarrà negli annali della Premier League e del club sei volte vincitore della Champions League.

David Beckham Manchester United. L’ala inglese dello United è stato considerato per anni più un sex symbol che un bravo calciatore. In realtà David Beckham è stato uno dei calciatori inglesi, e non solo, con il piede più educato e preciso in assoluto. Le sue punizioni, i suoi cross e i suoi tiri potenti e precisi hanno sempre incantato i tifosi dei Red Devils ma anche quelli del Milan e del Los Angeles Galaxy. Con la maglia dello United riuscì a togliersi pure lo sfizio di segnare da centrocampo con in panchina Sir Alex Ferguson strabiliato.

Alvaro Recoba (Empoli-Inter). Stagione 1997-98, un giovanissimo Alvaro Recoba si affaccia al calcio italiano e permette all’Inter di pareggiare una partita complicatissima sul campo dell’Empoli che stava vincendo per 1-0. Il Chino, con una calma olimpica, prende palla a metà campo, dà uno sguardo al posizionamento del portiere avversario e lascia partire un sinistro al veleno da oltre 50 metri che permette ai nerazzurri di pareggiare la partita e al Presidente Moratti di affermare di aver acquistato un fuoriclasse.

Martin Palermo (Boca Juniores-Velez Sarsfield). Martin Palermo ha legato quasi per intero la sua carriera al Boca Juniors con cui ha segnato caterve di reti, quasi 200 in 10 anni di militanza nella squadra che fu del Pibe de Oro Diego Armando Maradona. El Loco riuscì a segnare un gol da distanza siderale di testa sul rinvio maldestro del portiere avversario: la sua incornata potente e precisa regalò al Boca la vittoria per 3-2 contro gli avversari ed è rimasta ancora negli annali del calcio argentino.

Diego Armando Maradona Argentina. Diego Armando Maradona è stato uno dei talenti più puri ammirati sul terreno di gioco. Il fuoriclasse argentino ha segnato gol assurdi con Barcellona, Boca Juniors, Napoli e con la maglia della nazionale argentina. Il gol dalla distanza, con il suo sinistro vellutato, è stato uno dei suoi marchi di fabbrica e non poteva di certo mancare in questa speciale graduatoria.

Giuseppe Mascara Catania (Palermo-Catania). Segnare da centrocampo è qualcosa di eccezionale: farlo nel derby ancora di più. Per informazione chiedere a Giuseppe Mascara capace di segnare un gol da poco dopo la metà campo in un derby tutto siciliano contro il Palermo, a La Favorita. Il piccolo e guizzante attaccante degli etnei riuscì a segnare con un gran gol di destro dalla distanza che fissò il punteggio sullo 0-3 in favore del Catania.

José Luis Chilavert (il portiere con il vizio del gol). Il portiere paraguaiano José Luis Chilavert ha sempre avuto il vizio del gol dato che ha sempre battuto calci di punizione e di rigore risultando efficace e chirurgico. In un match tra River Plate e Velez (campionato di clausura 1996), il numero uno del Velez riuscì a segnare un gol pazzesco al collega Burgos con un tiro preciso di sinistro da oltre la metà campo che non lasciò scampo al collega Burgos.

I 10 colpi di tacco indimenticabili: ecco perché hanno fatto la storia. Da Zola a Crespo passando per Roberto Mancini fino ad arrivare ad Ibrahimovic e Suarez: quando il gol di tacco diventa un vero colpo da maestro. Marco Gentile, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. Il calcio è fatto di diversi fondamentali ma uno di quelli che ha sempre fatto impazzire i tifosi e gli appassionati di questo fantastico sport è sicuramente il colpo di tacco che al pari della rovesciata è una delle acrobazie più apprezzate e difficili da mettere in atto da parte dei calciatori. Nella storia tanti giocatori si sono messi in luce con questo fondamentale e ilgiornale.it ha cercato di raggruppare i 10 più belli, o quantomeno, i più recenti che hanno fatto la storia. Quasi certamente qualcuno rimarrà fuori da questa classifica ma una scelta andava fatta. Di seguito non ci sarà una classifica ma i 10 migliori colpi di tacco in rigoroso ordine cronologico.

Hernan Crespo Juventus-Parma 2-4 (stagione 1998-99). Un giovane Hernan Crespo alla sua terza stagione con la maglia del Parma segna una fantastica tripletta in casa della Juventus. La prima di destro ad anticipare i difensori bianconeri, il secondo con un marchio di fabbrica, l’incornata di testa, il terzo con un meraviglioso colpo di tacco che lasciò a bocca aperta tutti i tifosi presenti al Delle Alpi. Quello del Valdanito resta uno dei più belli mai ammirati in Serie A.

Roberto Mancini Parma-Lazio 1-3 (stagione 1998-99). Roberto Mancini, sul finire della carriera, era ancora capace di grandi giocate e di regalare grandi emozioni ai suoi tifosi. La sfida del Tardini contro il Parma rimase negli annali grazie allo strepitoso colpo di tacco siglato dal fuoriclasse ex Sampdoria e Bologna. Angolo di Mihajlovic e tacco volante senza guardare la porta da parte dell’attuale ct della nazionale italiana.

Gianfranco Zola Chelsea Norwich 2002-2003 (FA Cup). Sei anni e mezzo per Magic Box, così fu soprannominato Gianfranco Zola dai tifosi del Chelsea, con 311 presenze e 80 reti al suo attivo. Nella sua ultima stagione l’ex attaccante di Parma, Cagliari e Napoli incantò i tifosi Blues con un gol di tacco contro il Norwich in Fa Cup che fu alla fine anche decisivo sulle sorti del risultato finale per la squadra londinese che staccò il pass per il turno successivo.

Amantino Mancini Roma-Lazio 1-0 (stagione 2007-2008). Il gol di tacco è bello, come detto, ma lo è ancora di più se si riesce a farlo in un derby come quello di Roma ha un sapore ancora più dolce. Amantino Mancini se lo ricorda bene il suo gol di tacco nella stracittadini “casalinga” vinta proprio per 1-0 dalla Roma in virtù di un suo colpo di tacco volante su un calcio di punizione battuto da Cassano.

Zlatan Ibrahimovic Inter-Bologna (stagione 2008-2009) Psg-Bastia (2013-2014) e Italia-Svezia. Il gigante svedese nonostante la grande mole fisica ha sempre deliziato i suoi tifosi con gol e giocate davvero pazzesche. Nel 2008-2009 in Inter-Bologna regalò ai tifosi uno splendido colpo di tacco che sbloccò la partita vinta poi 2-1 dai nerazzurri. Cross di Adriano da sinistra e tacco volante dello svedese che realizzò uno dei gol più belli della sua carriera. Il 38enne di Malmo si è poi ripetuto nel 2014 con la maglia del Psg con un gol strepitoso contro il Bastia. Ovviamente Ibra ha segnato di tacco anche in nazionale e proprio contro l'Italia con una rete di tacco che eliminò di fatto gli azzurri.

CR7 Real-Valencia 2-2 (stagione 2013-2014). Il Real Madrid è sotto di una rete in casa contro il Valencia e chi ci pensa a pareggiare i conti per i blancos se non lui: Cristiano Ronaldo. Cross dalla sinistra e acrobazia di tacco volante per il fuoriclasse di Funchal non nuovo a questi colpi di genio.

Jeremy Menez Parma-Milan 4-5 (stagione 2014-15). Jeremy Menez è stato spesso sregolatezza che genio ma al Tardini di Parma nel 2014-2015 segnò forse il suo gol più bello della carriera con un grande colpo di tacco a siglare il gol del provvisorio 3-5 in favore del Milan che vinse poi quella partita per 4-5. L’ex Roma superò con un dribbling sulla linea di porta il portiere dei ducali e mentre sia l’estremo difensore che altri due difendenti stavano per ritornare ecco la beffa con un colpo di tacco geniale.

Olivier Giroud (Arsenal-Crystal Palace stagione 2016-2017). L'attaccante tanto corteggiato da Inter e Lazio e oggi in forza al Chelsea, segna un gran gol quando vestiva la maglia dell'Arsenal e lo fa nel derby contro il Crystal Palace con un bel colpo dello scorpione che rimarrà negli annali della Premier League.

Fabio Quagliarella Sampdoria-Napoli 3-0 (2018-2019). Fabio Quagliarella ha spesso cercato di evitare di giocare contro il suo grande amore: il Napoli. L’attaccante della Sampdoria, però, chiuse alla grande un’ottima partita dei blucerchiati contro gli azzurri: i ragazzi di Giampaolo vinsero per 3-0 contro il partenopei di Carlo Ancelotti. Il suo colpo di tacco a battere il portiere del Napoli è una delle sue tante perle da cineteca con i suoi tantissimi gol siglati al volo da centrocampo che rimarranno per sempre nella storia.

Luis Suarez Barcellona-Maiorca 5-2 (stagione 2018-2019). Luis Suarez si è reso protagonista di un grandissimo gol di tacco nella sfida interna, vinta per 5-2 dai blaugrana, al termine di una grandissima azione corale da parte dei catalani che con pochi tocchi, tutti di prima, hanno mandato in porta il Pistolero che si è inventato letteralmente una rete da cineteca.

Calcio, la Nazionale nasce (in bianco) 110 anni fa. Con uno spareggio farsa e le squalifiche, ecco l’Italia. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. La Nazionale compie 110 anni. E quello del 15 maggio 1910 all’Arena di Milano fu un varo al risparmio, con le maglie bianche che costavano meno di quelle azzurre e abbastanza circospetto: il calcio non era popolare come il ciclismo, ma attirò comunque quattromila spettatori. La netta vittoria sulla Francia 6-2 stupì tutti, al punto che alla terza partita della sua storia — contro l’Ungheria, vittoriosa 1-0 nel gelo di gennaio sempre a Milano - il pubblico era quasi il doppio. La maglia nel frattempo era diventata azzurra, in onore dei Savoia. Ma la storia meno conosciuta è quella delle settimane che precedono il debutto dell’Italia sulla scena del calcio internazionale. Il campionato comincia in quegli anni a strutturarsi e dopo il dominio iniziale del Genoa è la Pro Vercelli la squadra più in auge. I piemontesi sono campioni in carica, ma in quel primo torneo a girone unico del 1910 con 16 partite per ogni squadra la concorrenza è forte. La Juve si stacca nelle ultime giornate, Pro Vercelli e Internazionale Milano finiscono il campionato in parità a 25 punti: si rende necessario uno spareggio scudetto. Però c’è disaccordo sulla sede (a Vercelli vogliono giocare in casa perché campioni in carica e con la miglior differenza reti) e anche sulla data, dato che i piemontesi hanno diversi giocatori impiegati in un torneo militare. La Pro chiede il rinvio dal 24 aprile all’1 maggio, ma la richiesta è respinta dalla Federazione e dagli avversari. Il 24 aprile a Vercelli la Pro schiera come clamorosa protesta «la sua quarta squadra» come la definisce il «Corriere della Sera», composta da quindicenni che perdono 10-3. Lo scudetto è dell’Inter, mentre la Federazione squalifica fino al 31 dicembre tutti i titolari della Pro Vercelli, che quindi sono esclusi anche dai primi incontri della Nazionale. Tra la squadra che gioca due volte all’Arena in 7 mesi contro Francia e Ungheria la differenza quindi è notevole: tra i titolari (finalmente azzurri) che perdono di misura coi magiari il 6 gennaio 1911 ci sono ben 6 giocatori della Pro Vercelli che hanno scontato la squalifica. La prima Nazionale era nata senza di loro. Altra curiosità: per l’ultimo nome dei primi undici giocatori da schierare contro la Francia fu necessaria una votazione, all’interno della commissione tecnica, tra i due terzini sinistri De Vecchi e Calì: quest’ultimo la spunto per 3 voti a 2. E diventò il primo capitano della Nazionale. Il primo gol lo segna invece «con un fortissimo shot da 15 metri» Pietro Lana del Milan (ma era stato tra i dissidenti fondatori dell’Inter) che realizza una tripletta: lui sarà tra i pochi a non lasciare il posto ai giocatori della Pro Vercelli quando arriverà di nuovo il loro turno.

I 92 calci alla storia di Giampiero Boniperti. Pubblicato sabato, 04 luglio 2020 da La Repubblica.it. Protetto da quella dimenticanza che scende a volte sull’età degli uomini, Giampiero Boniperti compie oggi 92 memorabili anni. La dimenticanza è purtroppo la sua, non certo quella del mondo verso di lui, perché la sua memoria si sta sfarinando pur dentro un fisico che continua a essere roccioso, granitico, come quando giocava o come quando, da dirigente, riceveva l’ospite nel suo ufficio, raccoglieva da una mensola le vecchie scarpette da calciatore, faceva tastare la punta rinforzata e diceva: «Caro, senti come sono dure, ma io lo ero di più». Quando, prima dei suoi novant’anni, gli chiedemmo cosa significasse essere arrivato tanto avanti nella strada, il presidente rispose: «Una fregatura, caro. Avrei ancora voglia di prendere tutti a calci nel sedere, te compreso, ma non riesco più». Non esiste nella storia del calcio italiano una figura così imponente, così importante, e questo va detto molto oltre il tifo e la Juventus che pure ha incarnato tutta la vita di Boniperti, da calciatore (5 scudetti, tutti i record individuali battuti) e da dirigente (9 scudetti, tutte le Coppe, purtroppo anche quella dell’Heysel nel giorno più difficile di una vita smisurata). Lui è il Santiago Bernabeu italiano, e come il leggendario presidente del Real Madrid ha segnato un’epoca. Prima quella scintillante, povera ma felice tra i Cinquanta e i Sessanta, lui a caccia insieme al suo amico Fausto Coppi, l’Italia rinata dopo la guerra, il dolore del Grande Torino, lo sport come riscatto e speranza per milioni di persone. La felicità di quel tempo pareva inattaccabile, e Boniperti diventava il nostro calciatore più moderno e completo dopo Meazza. Giocava in attacco, era un 9 e un 10 insieme ed era cattivissimo, feroce come uno stopper, dinamico come un centrocampista, agile come una mezz’ala, potente e coraggioso come un centravanti. Si ritirò a sorpresa, prima del declino, dando le scarpette al magazziniere della Juventus e dicendo: «Tieni, da oggi non mi servono più». La sua epoca, con Charles e Sivori accanto (che incredibile rivalità con il Cabezòn), resterà un simbolo non solo per gli amanti del pallone. E se Boniperti, piemontese di Barengo, Novara, e torinesissimo nei modi, nel tratto, nell’astuzia e nel caso nella cattiveria, è stato un giocatore enorme, come presidente diventò ancora di più. Gli Agnelli lo vollero al comando all’inizio degli anni Settanta, quando Boniperti fu per la Juve e per l’Avvocato quello che Vittorio Valletta era stato per la Fiat. Più di un primo ministro: un re, semmai, sottoposto al solo volere dell’imperatore nella città più monarchica d’Italia. Sembrano metafore, erano e in parte sono ancora il succo della storia. Di quest’uomo resistono immagini indelebili. Lui che telefona in redazione dicendo «buongiorno, sono il geometra Boniperti», lui che scappa dallo stadio dopo il primo tempo, lui che oggi compie gli anni nel giorno del derby, e del derby diceva «se potessi, lo abolirei», lui che faceva firmare contratti in bianco mostrando ai calciatori le fotografie delle loro (rare) sconfitte, lui che mandava sempre dal barbiere quelli con i capelli troppo lunghi, lui che da dirigente della Sisport aveva fatto vincere Mennea e la Simeoni, lui che rispondeva a ogni domanda con un’altra domanda e sempre cercava di risolverla in dribbling, scivolando altrove. Con quel sorriso a denti stretti, da belva feroce che conosce la virtù dell’autocontrollo ma quando attacca non fa prigionieri, Boniperti è anche il ricordo del suo corpo, di come stringeva la mano e con quanta forza, di come di colpiva con un cazzotto il petto di chi aveva di fronte. Ma soprattutto gli occhi, ghiaccio puro. Lo tocchi e sembra bollente, invece è il gelo.

Dagospia il 24 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Simone Perrotta è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Perrotta è tornato a parlare della spedizione dell'Italia del calcio che nel 2006 divenne campione del mondo in Germania: "Non ci si stanca mai di parlare di un mondiale vinto. E' stato incredibile e inaspettato, è sempre bello poterci ripensare. Piano piano abbiamo preso maggiore consapevolezza e abbiamo iniziato a pensare all'idea che potevamo arrivare in fondo. All'inizio eravamo convinti di essere un'ottima squadra, ma non pensavamo di poter vincere il mondiale. Il gruppo era unito, avevamo stravinto il girone di qualificazione, siamo arrivati in ottime condizioni alla vigilia del mondiale, anche se le prime due amichevoli di giugno non erano andate benissimo, avevamo fatto due pareggi con Svizzera e Ucraina. All'esordio col Ghana, però, si vedeva subito che stavamo bene in campo e fisicamente. E in un mondiale che si gioca nell'arco di un mese la condizione fisica fa la differenza".

Quella era l'estate dello scandalo "calciopoli". Perrotta la ricorda così: "Era un momento storico particolare, era appena scoppiata calciopoli, qualcuno aveva messo in discussione addirittura il mister per una serie di vicissitudini che comunque non lo colpirono in maniera personale. Altri giocatori erano stati coinvolti, qualcuno aveva caldeggiato l'idea di escluderci da quel mondiale. Tutte quelle critiche, tutte quelle parole, non hanno fatto altro che aumentare la nostra convinzione".

Sulla semifinale con la Germania: "Forse è stata quella la vera partita del secolo. Ma forse sono di parte. Mi sembra più determinante, questo mondiale poi l'abbiamo vinto, dopo il 4-3 invece abbiamo perso. E poi abbiamo vinto in uno stadio tutto loro, ricordo che nel nostro inno eravamo veramente soli. In casa, poi, la Germania non aveva mai perso, ci hanno fischiato dall'inizio alla fine, ma abbiamo dimostrato di essere una squadra di grandissima personalità. Per reggere quelle pressioni, oltre alla bravura tecnica, ci vuole carattere, personalità. E in quella occasione ne abbiamo dimostrata molta".

Sul ritiro azzurro in Germania: "Si dormiva poco, l'ansia e la tensione era altissima. In albergo da mezzanotte in poi ognuno doveva rimanere nella propria camera. Avevamo tutti una camera singola, tranne De Rossi e Pirlo. Eravamo in un albergo a conduzione familiare, gestito da una famiglia calabrese, questo è stato uno dei nostri segreti. Loro ci raccontavano cosa vivevano loro in Germania, prima della finale ci dissero che potevamo perderle tutte, tranne quella, perché per loro significava molto. Gli lanciarono anche una bomba carta nel parcheggio dell'albergo prima della partita contro la Germania. Quando siamo tornati dopo aver eliminato i tedeschi li trovammo tutti con le lacrime agli occhi. Lì ti rendi conto davvero di come vive un italiano all'estero. La gestione Lippi? Non è mai stato un sergente di ferro, non c'era bisogno. Lippi oltre a essere un allenatore straordinario è carismatico, quello è il suo miglior pregio. Qualsiasi cosa dica, tu la prendi e la fai tua".

Sulla finale con la Francia. "Ho tanti ricordi. Il primo è legato al riscaldamento. Esci dagli spogliatoi, fa una scala per entrare in campo, arrivi e vedi quella palla luminosa, che è la Coppa del Mondo. Quando l'ho vista, il cuore ha iniziato a battere molto forte. Materazzi-Zidane? Io era già stato sostituito, ma nessuno in campo si era accorto di cosa fosse successo, tranne Materazzi stesso e Buffon. A me personalmente è dispiaciuto molto, ho giocato insieme a Zidane nella Juve, lui è una persona eccezionale, terminare la carriera in quel modo nella finale di un mondiale deve essere davvero brutto. La tensione può provocare certe situazioni. Mi è dispiaciuto, Zidane non meritava di finire in quella maniera. Anche se un episodio non cancella nulla della sua carriera eccezionale".

Sul ritorno in Italia da campione del mondo: "Ho avuto la fortuna di avere lì in Germania mia moglie e mio padre. Le prime persone che ho visto uscendo dallo stadio sono state loro, è stata una soddisfazione difficile da spiegare consegnare nelle loro mani la coppa. Una volta acceso il telefono, trovai centinaia di messaggi, e non c'erano ancora i social. Feci una foto con la coppa nello spogliatoio e la mandai a mio fratello. Il ritorno in Italia è stato felice, però avevamo tutti la voglia di tornare a casa, perché tra ritiro e mondiale eravamo più di cinquanta giorni che stavamo insieme. Avevo voglia di tranquillità e serenità, volevo tornare a casa, stare in famiglia, con gli amici, un po' di spensieratezza. E credo ce l'avessero un po' tutti. Non volevamo andare da nessuna parte. Quando ci hanno detto che dovevamo andare al Quirinale o fare il pullman scoperto, eravamo contenti ma molto stanchi. Poi è stato bellissimo, comunque. Mi ricordo che mentre stavamo atterrando con l'aereo a Pratica di Mare, vedevamo dall'alto uno sciame enorme di persone e ci rendemmo conto che ci stavano aspettando. Fu molto emozionante. Lì ci siamo resi conto di cosa avevamo combinato".

ANGELO CAROTENUTO per la Repubblica il 19 giugno 2020. Tutto quello che si trovava cinquant' anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c'è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c'è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970. È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L'abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l'abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L'abbiamo vista all'epoca in bianco e nero e la rivediamo - ogni volta che le televisioni la rimandano in onda - a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo - conoscendoci - come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario - conoscendosi - come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l'hanno chiamata el partido del siglo - la partita del secolo - e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l'Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo. Questo racconta Maurizio Crosetti in " 4 a 3", il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l'impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude - non è un caso - con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv - la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte - ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall'1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera. Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene "scorre l'arte dell'agguato. Non è mai stanco". È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è "come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c'è solo bellezza". Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono , che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo, il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s' imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d'astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato - scriverà - è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico- tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.

Da gazzetta.it il 9 luglio 2020. (…) Il primo tackle, Cannavaro lo sgancia con un po' di ironia: “Ma quale rivalità con la Francia! Non c'è confronto possibile. Noi abbiamo vinto quattro mondiali e disputato sei finali. La rivalità al limite esiste magari con Germania e Brasile”. Secondo tackle: “Dite che il vostro bilancio negli ultimi 25 anni è migliore, ma voi guardate sempre le cose a vostro vantaggio, quando vi fa comodo”. Terzo tackle, o meglio, una spintarella al limite del regolamento: “La Francia però fa un lavoro eccellente sulla formazione dei giovani ed è una fonte di ispirazione per molti Paesi”.  Resta il fatto, che quella finale del 2000, per Cannavaro rimane “il ricordo più amaro e doloroso”. L'analisi è lucida: “Quella sera abbiamo dominato la partita contro una squadra molto forte, creando loro molti problemi, e abbiamo giocato meglio. Potevamo segnare meritatamente il secondo gol, ma gli errori di Del Piero e Montella ci hanno impedito di chiudere la partita. Non siamo stati troppo sicuri di noi stessi, avremmo però dovuto gestire meglio la palla negli ultimi minuti, essere un po' più lucidi, più intelligenti. (…) E poi c'è il gol di Wiltord, molto fortunato su un rinvio deviato da Iuliano e Trezeguet che io sfiorai appena, che arriva sui piedi di Wiltord. Il suo tiro passa tra le gambe di Nesta e sotto il braccio di Toldo: a volte il pallone deve entrare e non c'è nulla da fare”. Sei anni dopo però arrivò la rivincita, al Mondiale tedesco: “Prima della finale di Berlino ovviamente abbiamo ripensato all'Europeo, anche per non commettere gli stessi errori. L'esperienza ci è servita e infatti abbiamo resistito fino ai rigori. Ma era una partita molto diversa. Nel 2000 meritavamo di vincere e abbiamo perso. Nel 2006 era meno evidente”. Ma fu l'Italia a trionfare, con il rigore sbagliato proprio da Trezeguet: “Non credo nel destino. Quel rigore riassume il calcio. A volte vinci, a volte perdi. Abbiamo giocato sei finali mondiali, ne siamo abituati, e sappiamo bene che le finali si possono vincere o perdere”. Ultimo tackle: “Nel 2006 volevamo vincere a tutti i costi, e le finali di solito le perdiamo contro il Brasile. La Francia è una buona squadra, ma non è mica il Brasile”.

Riccardo Panzetta e Francesco Persili per Dagospia il 17 giugno 2020. Rivera, Tardelli o Grosso? Il 4-3 del’70, il 3-1 del 1982 o lo 0-2 del 2006? Qual è stato l’Italia-Germania più bello di sempre? Nel cinquantesimo anniversario della ‘Partita del secolo’ la retorica abbonda sulla sfida dell’Azteca. Il più grande romanzo popolare del Novecento o un mito sovradimensionato? “Errori ne sono stati commessi millanta, che tutta notte canta. I tedeschi ne hanno forse commessi meno di noi, ma uno solo, madornale, è costato loro la sconfitta”. Quando Gianni Brera sentiva usare l’espressione ‘partita del secolo’ a proposito di Italia-Germania 4-3 inorridiva. Marino Bartoletti ricorda su Facebook come “Il Grande Lombardo” sosteneva che fosse stata “una partita bruttissima, diventata leggendaria per una somma di errori tattici e individuali che generarono (quasi) altrettanto gol e una somma di emozioni indimenticabili”. Enrico Ameri la definì con sobrietà “una partita entusiasmante, drammatica e diciamo anche meravigliosa”, come rammenta Riccardo Cucchi nel libro “La partita del secolo” edito da Piemme. “Tredici eroi moderni. Gli azzurri di quella notte sono stati l’esempio di come il calcio viva di venditori di sogni e sia sostenuto, addirittura celebrato, da milioni di appassionati disposti a inseguire quei sogni, a viverli a loro volta”. Sulla sfida dell’Atzeca sono stati scritti libri, realizzati film e piece teatrali, la macchina narrativa dei baby boomer l’ha appesa nell’immaginario come la bandiera del riscatto di una nazione. Trasformandola in un santino pallonaro a cui portare lumini e devozione. A questa narrazione hanno contribuito anche i protagonisti di quella partita. Erano i figli della guerra, si chiamavano Tarcisio (Burgnich), Comunardo (Niccolai), Giacinto (Facchetti), venivano da famiglie modeste, avevano iniziato a giocare all’oratorio come Boninsegna e Albertosi oppure erano “Rombo di tuono” di una stagione in cui tutto era possibile, anche che il Cagliari si cucisse lo scudetto sulle maglie. A far saltare il banco Gigi Riva, l’uomo che mise la Sardegna al centro della cartina geografica del calcio nazionale dominato dalle grandi del Nord. Todo cambia, anche nel pallone. In quel mondiale si giocava anche mezzogiorno (ora locale) per favorire la tv, ormai globale, a costo di far boccheggiare i giocatori in campo. Tutto era pensato per la tv, anche il pallone, Telstar. Nel nome di quel pallone, il destino del gioco: Television Star. 12 pentagoni neri, 20 esagoni bianchi. Ma il sogno era a colori. Per tutti. C’è un prima e c’è un dopo, nel mezzo il gol di Rivera, estasi e tormento. Un mito per baby boomer, dicevamo. Solo che quella partita, a ben guardare, è mitologia, narrazione sovrabbondante ma da "zero tituli". Dopo quella scazzottata con i tedeschi, l’Italia arrivò spompata alla finale con il Brasile e prese quattro ceffoni. Il ct Valcareggi, che in finale rinunciò alla staffetta Mazzola-Rivera, fu scortato dalla polizia al rientro a Fiumicino quando la Nazionale venne accolta da un fitto lancio di sassi. Per l’Italia del Boom si spalancava l’inferno dei Settanta. Senza la retorica debordante di certi cantori generazionali, quella partita sarebbe considerata ancora “la partita del secolo”? Probabilmente no. E forse è ora di aggiornare gli almanacchi. Mario Sconcerti ha scritto che “la più bella partita dell'Italia nel dopoguerra” fu quella dei Prandelli boys a Euro 2012 contro i tedeschi: “Solo nell'82 ci fu altrettanto poca partita, ma erano due squadre stremate con un Paolo Rossi in più. Nel '70 rimanemmo in area tutta la partita, la leggenda nacque solo nei supplementari. Quasi nello stesso modo è andata nel 2006”. Ecco, se vogliamo incastonare un vittoria degli Azzurri nella cornice devozionale, anche se avvenuta in un altro secolo, perché non la sfida contro la Germania al mondiale 2006? “Que partidazo”, direbbe Federico Buffa. Non solo perché i tedeschi, tra i favoriti alla vigilia, erano padroni di casa ma perché ci ospitarono in un fortino, quello di Dortmund, in cui non avevano mai perso. Una partita entusiasmante, piena di occasioni da ambo le parti, una “rumble” sfacciata, palo di Gilardino, traversa di Zambrotta, i voli di Buffon, l'assist di Pirlo, magia di Grosso, anticipo di Cannavaro, il lancio di Totti, il raddoppio di Del Piero. Putiferio, orgasmo, Caressa ululante “andiamo a prenderci la coppa, Beppe”. Fu l’ardimentoso antipasto della vittoria finale. Diventammo campioni, sì.  Era l’Italia di Calciopoli, la Figc commissariata, c’era chi diceva che la nostra squadra si sarebbe dovuta autoescludere. I giornali popolari tedeschi rispolverano i luoghi comuni sugli italiani “mangiaspaghetti e mafiosi”. L’allora presidente della Fifa Blatter ci schifava al punto che si rifiutò di premiarci a Berlino. Tutto era contro di noi, anche la loro personalissima cortesia. E abbiamo vinto. Più epica di così. 

Da sportsky.it il 4 luglio 2020. "All’inizio del ritiro a Duisburg c’era un laghetto con un’acqua fangosa, davvero schifosa. Io dissi ai ragazzi che mi sarei fatto il bagno lì nel caso in cui avessimo raggiunto la finale. Mi presero in parola", ricorda divertito Lippi. Che prosegue nel suo racconto: "Quando arrivò il momento di mantenere la promessa, prima di andare a indossare la tuta – perché non volevo davvero tuffarmi nudo in quell’acqua sporca – andai in cucina e dissi al cameriere di mettermi un grosso pesce dentro un sacchetto di plastica con alcuni sassi dentro e di legarlo al lampione vicino al laghetto. Oltre a questo, anche di prepararmi una specie di fiocina. Quando mi tuffai – prosegue Lippi – presi il pesce, tolsi il sacchetto e uscì dall’acqua facendo finta di averlo pescato. Tutti si misero a ridere, mentre Iaquinta mi disse "Che fortuna mister", perché credeva che lo avessi pescato davvero".

L'aneddoto con i fotografi prima della gara col Germania. Marcello Lippi ricorda poi un altro aneddoto relativo al pre Italia-Germania: “Prima di cominciare l'allenamento mentre i ragazzi si divertivano col pallone, vidi delle luci nella pinetina intorno al campo, pensai ci fossero degli operatori con delle telecamere o comunque con delle macchine fotografiche per spiarci. Io non volevo dare vantaggi a nessuno, allora chiamai la squadra e dissi che non avremmo fatto nulla spiegando il motivo. Così andammo davanti la pinetina, ci abbassammo tutti i pantaloni e mostrammo il sedere: evidentemente non c'era nessuno nascosto, altrimenti quella foto avrebbe fatto il giro del mondo". Lippi che risponde poi così a una domanda sul futuro e su un eventuale ritorno alla guida della nostra Nazionale: "Allenare l'Italia sarebbe meraviglioso, ma ho già dato una prima volta, poi una seconda meno bella. La terza sarebbe troppo. Poi non ho più intenzione di fare l'allenatore di una squadra di club. Fra qualche mese che non avrò più voglia di far niente, se mi capitasse una nazionale più vicina ad esempio rispetto alla Cina ci penserò. È già capitata una chiamata ma è successa anche questa epidemia e ora dobbiamo solo sperare che finisca il prima possibile. Facciamo passare l'estate e poi vediamo".

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2020. Caro Dago, hai fatto benissimo a dare talmente rilievo a quella meravigliosa partita di football del campionato del mondo 2006, quella in cui l’Italia batté i favoritissimi tedeschi con un sonante 2-0 per poi andare a vincere la finale contro la Francia e laurearsi per la quarta volta campione del mondo. C’è però un piccolo particolare che stride nei resoconti per iscritto che hai offerto di quella memorabile partita. E cioè il fatto che neppure una volta viene nominata la Juventus, la squadra cui appartenevano cinque azzurri su undici di quella partita nonché il ct Marcello Lippi. Non è un particolare da due soldi perché pochi giorni dopo aver conquistato la Coppa del Mondo la Juve sarebbe stata scaraventata in serie B e derubata di due scudetti conquistati meravigliosamente sul campo. Sto parlando della Juve che aveva costruito negli anni Luciano Moggi, sto parlando di Lippi di cui voci autorevoli avrebbero voluto che venisse scartato via dalla nazionale. Non è un particolare da due soldi. Ti ricordo i nomi degli juventini: Cannavaro, Zambrotta, Buffon, Camoranesi, Del Piero. E nello scriverli e nel pronunciarli li dedico ai quaquaracquà di cui tu pubblichi ogni tanto le invettive anti-Juve. Ciao, Dago.

Italia-Germania 4-3, la follia diventata leggenda. Angelo Carotenuto su La Repubblica il 15 giugno 2020. Le storie e i protagonisti raccontati in “Quattro a tre”, il libro in edicola con Repubblica. Tutto quello che si trovava cinquant’anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c’è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c’è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970. È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L’abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l’abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L’abbiamo vista all’epoca in bianco e nero e la rivediamo — ogni volta che le televisioni la rimandano in onda — a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo — conoscendoci — come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario — conoscendosi — come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l’hanno chiamata el partido del siglo — la partita del secolo — e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l’Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo. Questo racconta Maurizio Crosetti in Quattro a tre, il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l’impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude — non è un caso — con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv — la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte — ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall’1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera. Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene “scorre l’arte dell’agguato. Non è mai stanco”. È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è “come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c’è solo bellezza”. Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono, che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo, il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s’imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d’astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato — scriverà — è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.

Approfondimento. Italia-Germania 4-3, Saragat, Rumor, Moro e quell'Italia operaia attesa da una notte indimenticabile. Concetto Vecchio su La Repubblica il 15 giugno 2020. "Achtung Azzurri!" ha titolato il Corriere dello Sport , che costa 70 lire. L'occupazione nazista è ancora un ricordo fresco. Non perdiamo contro la Germania da prima della guerra. Gli azzurri se vincono riceveranno otto milioni di lire a testa, quattro volte il salario annuo di un metalmeccanico. Pezzi di storia: a febbraio Adriano Celentano e Claudia Mori hanno vinto il ventesimo Festival di Sanremo con "Chi non lavora non fa l'amore". A Cannes il premio speciale della giuria è stato vinto da Elio Petri, per il suo "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto". Miglior interprete maschile è Marcello Mastroianni con "Dramma della gelosia". Si sono sciolti i Beatles. "Paul is quitting the Beatles" titola il Daily Mirror il 10 aprile 1970.  Il belga Eddy Merckx, 25 anni, ha vinto il Giro d'Italia: "Sono andato piano, perché voglio vincere anche il Tour", ha spiegato con baldanza. Il 21 maggio l’attore Walter Chiari e il musicista Lelio Luttazzi sono stati arrestati per droga. Il primo giugno se n'è andato Giuseppe Ungaretti. Mercoledì, 17 giugno 1970. Fa un caldo insopportabile, a Roma 34 gradi. Di buon mattino il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ha inviato un telegramma al presidente del Consiglio Mariano Rumor per i suoi 55 anni: "Nella lieta circostanza del tuo compleanno mi è gradito inviarti i più fervidi voti augurali ed un memore cordiale saluto". La scuola è finita da giorni, ma gli insegnanti hanno decretato quello che i giornali definiscono "lo sci...

Italia-Germania in tv: il silenzio di Nando Martellini prima del gol di Rivera e il grido liberatorio: "Che meravigliosa partita". Antonio Dipollina su La Repubblica il 15 giugno 2020. 17,7 milioni di italiani dalla mezzanotte incollati agli schermi. In quei Mondiali c'erano la diretta via satellite e i primi replay detti ralenti. "Che meravigliosa partita ascoltatori italiani. Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono...". Nando Martellini dixit, infine. Per 17,7 milioni di italiani alla tv, questo dice la storia. Era iniziata a mezzanotte, del resto. Ne aveva fatti due milioni in più l'Italia-Messico in prima serata, ne avrebbe fatti 28 milioni la finale col Brasile, tardo pomeriggio di domenica, da noi. Gli esegeti fanno notare da sempre una cosa, e riguarda proprio il gol di Rivera: ovvero Martellini (altri ritmi, di calcio e telecronaca) non raccontò l'azione: entrò nella medesima solo all'assist di Boninsegna, prima solo silenzio, ripresa di fiato, forse rassegnazione. Invece Rivera la mette e in quella notte cambia davvero tutto, ci si butta nelle fontane e sono le quattro del mattino, soprattutto cambia per sempre la storia della percezione del calcio, in sé e via televisione: si poteva vincere e festeggiare, in piena notte e avendo visto quello che succedeva, via tv (il Benvenuti-Griffith d'America era solo radiofonico). E il tutto per di più venendo dal Mondiale con Corea, che sembrava il destino segnato per sempre: con quell'Europeo vinto in casa due anni prima che non era, con ogni evidenza, stato abbastanza. Ma Italia-Germania 4-3 lo fu, abbastanza, eccome. Trasmissione sul Programma Nazionale: si chiamava così, il principale. In quei Mondiali c'erano la diretta via satellite, c'era il Niccolai del Cagliari scolpito per sempre dal suo tecnico Manlio Scopigno ("Tutto mi sarei aspettato nella vita tranne che vedere Niccolai via satellite"), c'erano i primi replay detti ralenti, alla francese, per cui quando l'azione tornava in diretta compariva la scritta diventata proverbiale: Vivo-Live. Per pochi fortunati sparsi per il mondo c'era anche il primo colore (oggi recuperabile su youtube e sulle mille repliche della gara del siglo viste da noi durante la pandemia). Ma la televisione, diciamo, veniva data per scontata. Per dire, nell'imminenza dei Mondiali il Radiocorriere Tv, allora la Bibbia per queste cose, uscì con un inserto dedicato a Mexico 70: ma era tutto tecnico, per accompagnare il telespettatore, le squadre, chi gioca etc. Niente sul lato televisivo, che era ovvio e dato per scontato, Niccolò Carosio, Martellini vice, Ameri e Ciotti per la radio: e le partite dell'Italia in televisione, le altre in sintesi, sull'unica televisone che c'era, mica bisognava specificare. Finché Carosio finisce nel mai chiarito, anzi sì, episodio del "negraccio" al guardalinee etiope e sparisce di scena: era per Italia-Israele di qualificazione. E quindi avanti Martellini, e Carosio a passare la vita a smentire (non risultano sue statue in giro, peraltro, quindi calmi tutti). Su quel Radiocorriere, a Mondiali in corso, scrivevano invece dal Messico cronache divertite e divertenti i medesimi inviati Rai, come Nando Martellini e Maurizio Barendson. Il primo con pezzi anche deliziosi e licenze di ogni tipo, un articolone sulla Vendetta di Montezuma senza mai entrare, per eleganza, nello specifico degli effetti. Cose oggi improponibili: in un misto di rimpianto ed esaltazione d'altura, Martellini chiude così sempre sul Radiocorriere la sua ultima corrispondenza da Mexico City: "Noi, lasciandoci, dovremo eleggere Miss Rimet fra le nostre assistenti. I pareri sono divisi: Sandro Ciotti, che se ne intende, è per la cecoslovacca Dagmar. Ameri è per Michéle, una francesina di Tolosa piena di brio. Barendson lo appoggia. Ma la saggezza e l'esperienza di Niccolò Carosio hanno già anticipato l'esito della votazione: "È inutile che vi agitiate: vincerà la messicana Flor, con maggioranza assoluta". L'intramontabile Nick - conclude Martellini - ha ragione: Flor gioca in casa...". Premesso che se oggi Caressa si inventasse una cosa simile verrebbe linciato, il consiglio ulteriore (sempre via youtube) è riascoltare anche la radiocronaca. Enrico Ameri, tambureggiante e austero, dice Burgnich con la c dura (tipo Metternich), prende e va e viene tramortito da Schnellinger, come tutti. I supplementari li vive come qualcosa di inconcepibile, urla ai gol nostri, palesa rassegnazione a quelli altrui, al 3-3 cede di schianto. E gli esce una cosa come: "E adesso speriamo che questi supplementari finiscano presto e affidiamoci al sorteggio, sia per riprendere fiato anche noi, sia per i giocatori...". Non ne poteva più. E invece. A un dipresso deve urlare ancora rete e aggiungere: non sappiamo dirvi chi ha segnato. Ma dura un secondo e poi: Riveraaaa. Bellissimo.

Italia-Germania 4-3, Giuseppe Cederna e quello storico film: "Storia di amicizia e del cambio generazionale". Luigi Bolognini su La Repubblica il 15 giugno 2020. L'attore protagonista della pellicola del 1990: "Quella partita divenne da subito il simbolo di una generazione che con entusiasmo stava provando a cambiare il mondo. Ma già alla fine del decennio successivo era divenuto chiaro che era stato il mondo a cambiare quella generazione". Tra le molte maledizioni che Karl-Heinz Schnellinger si attirò quella notte, ci furono anche quelle di un 14enne che già lo trovava poco simpatico perché era interista (il ragazzo). «Mise dentro il pallone dell'1-1 a tempo ormai scaduto, e mi disperai. Appena iniziarono i supplementari, Gerd Müller segnò l'1-2 e io me ne andai a letto in lacrime: non solo era tardi, ma ormai era chiaro che la Germania ci avrebbe battuto sull'onda dell'entusiasmo». Invece Giuseppe fece appena in tempo a tonare nella sua cameretta ed entrare nel letto sopra cui c'era il poster di Che Guevara, mentre sulla parete di fondo era appesa una foto di Boninsegna in rovesciata: il papà venne a chiamarlo per il 2-2 di Burgnich. La leggenda stava iniziando e padre e figlio la vissero assieme. Tutto questo accadeva a Roma, a casa Cederna. Antonio, il padre, era già un autorevole giornalista, ambientalista e urbanista. Giuseppe ai tempi era un liceale, poi sarebbe diventato attore, tra i più noti del cinema italiano, e tra i protagonisti (assieme a Massimo Ghini e Fabrizio Bentivoglio) di un film intitolato – guarda un po' – Italia-Germania 4-3, diretto da Andrea Barzini, tratto dall'omonima commedia di Umberto Marino. Un film uscito nel 1990, ventesimo anniversario di quel match. Un match, Cederna, che era già entrato nella storia già allora, se ne erano stati fatti una pièce teatrale e un film. «Io credo che nella storia ci sia stato dal fischio finale dell'arbitro giapponese: la prima finale mondiale dal 1938, conquistata in un modo così epico, con una partita prima noiosa ma vincente fino a quel gol allo scadere, e poi con cinque gol in mezz'ora: vantaggio loro, poi nostro, poi loro, poi nostro, col senno di poi sembrava una di quelle partite per cui la mia Inter è celebre. E credo abbia fatto la propria parte anche quel magnifico bianco e nero di allora, che ha eternato tutto come se fosse un film classico: in realtà la partita fu ripresa a colori, ma la Rai non li usava ancora nelle trasmissioni e noi italiani non avevamo i televisori adatti. Per cui quando il match viene replicato spesso spuntano fuori i colori. Ma per noi che c'eravamo ancora, resta tutto in bianco e nero, che sono i toni del ricordo, della fantasia». Proprio una replica tv della partita è lo spunto del film: tre ex sessantottini si trovano per rivederla assieme, cercando di ricreare il clima anche umano dell'epoca. «Solo che il tempo è passato per tutti: Francesco (Bentivoglio) ha un matrimonio in crisi eppure deve vivere con la ricca moglie, Federico (Ghini) è un pubblicitario rampante ben lontano dagli ideali di allora, che invece ha mantenuto Antonio (io, tra l'altro usando il nome di mio padre) il quale però non ha potuto fare il magistrato democratico, perché Federico gli aveva nascosto delle molotov in casa, e deve campare facendo l'insegnante frustrato. E l'incontro è l'occasione per sciogliere nodi, dirsi in faccia cose tenute dentro per anni, fare il bilancio della propria vita. Alla fine è un massacro. Quella partita divenne da subito il simbolo di una generazione che con entusiasmo stava provando a cambiare il mondo. Ma già alla fine del decennio successivo era divenuto chiaro che era stato il mondo a cambiare quella generazione». La cosa impressionante è che nel film i tre uomini stanno per entrare nei 40 anni, eppure stanno vivendo crisi che adesso si vivono intorno ai 60. E quella partita era già il simbolo del tempo irrimediabilmente passato, figuriamoci adesso che è trascorso mezzo secolo.

Cosa direbbero i tre personaggi, cosa sarebbero?

«Credo che con un grande sceneggiatore un nuovo incontro davanti a quella partita diventerebbe un Grande freddo. Il bilancio della vita sarebbe molto più approfondito e  definitivo, e probabilmente sconfortato, visto che la morte sarebbe più vicina. In Italia-Germania 4-3 il finale è tra il malinconico e l'allegro, coi tre amici che girano la città facendo i cretini come se fossero degli adolescenti, anzi mischiandosi proprio ai ragazzini, fino a bere il cocktail più in voga, l'Happy Sedan. Adesso è normale che dei 30-40enni si comportino così, ormai sono degli eterni adolescenti. Allora no. Certo, dovendo usare una partita come pretesto narrativo per la generazione di allora non si poteva che scegliere questa. Per i 30-40enni di adesso probabilmente bisognerebbe puntare su Italia-Francia del 2006».

Della realizzazione del film cosa ricorda?

«Il clima particolarmente allegro che c'era sul set. Ovviamente io, Francesco e Massimo la partita l'avevamo vista, a suo tempo, avevamo presente che cosa avesse rappresentato per quelli della nostra età. C'era anche Nancy Brilli, che il calcio lo segue meno, ma si fece perfettamente coinvolgere dal clima generazionale, assieme anche al regista Barzini. Eravamo dei veri amici, e lo siamo tuttora per fortuna. Perdipiù  quello era il periodo proprio dei film sull'amicizia: subito dopo questo andai a girare Mediterraneo, prima c'era stato Marrakech Express».

Guarda caso, anche quelli film con una partita di calcio dentro.

«Vero, ma il calcio affratella, unisce, perché è un veicolo straordinario di emozioni, sia che lo giochi sia che lo guardi, semplicemente. Non servono neppure le parole, spesso: il ricevere un pallone da uno sconosciuto, il mirare la porta e fare gol, o il vedere in televisione un dribbling ben riuscito o una punizione all'incrocio dei pali crea immediatamente un gruppo, un'amicizia».

Interisti a parte, di quella partita a chi è più affezionato?

«Le escludo appunto Facchetti, Burgnich, e ovviamente Bonimba. Quindi le dico Rivera: l'eleganza del gol, nella sua semplicità di un piatto all'angolino, e poi come si muoveva. Ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona anni dopo: mi impressionò come non se la menasse affatto per essere stato un campione unico, amava parlare, ascoltare, conoscere gli altri».

C'è un'altra partita che l'ha segnata così tanto?

«Un'altra sfida Italia-Germania, ma di club: Inter-Bayern Monaco del 2010. Penso a Milito, un eroe scomparso dallo sguardo triste, un' altro che meriterebbe un film».

E Italia-Germania del 1982? Per molti fu la prosecuzione di quella del 1970, con in più la vittoria finale.

«Per me il 4-3 rimane leggenda anche se poi la Coppa ci è sfuggita: in fondo affrontammo il Brasile di Pelè, perdere non fu certo un disonore. Il 3-1 del 1982 è stata una partita un po' strana per me. Gioia immensa, neanche a dirlo, ma sa dove l'ho vista? In un bar in Germania, dove stato facendo l'artista di strada, nomade, per cui dovetti starmene zitto e calmo, tenere dentro le emozioni, mentre osservavo le facce dei tedeschi progressivamente sempre più ingrugniti. E mi dispiaceva non poter prorompere in un grido, in un'esultanza, in uno sberleffo. Avrei voluto dirgli “visto? Vinciamo sempre noi”. Avrebbero capito anche se l'avessi detto in italiano. Ma ho preferito vivere».

Gerd Müller ha l’Alzheimer: a 75 anni, il più grande centravanti tedesco è perso nella nebbia. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2020. Il talento vero? Forse è «solo» ciò che fa eccellere. Qualche volta malgrado le apparenze. Così è stato per Gerhard «Gerd» Müller da Nördlingen che questo 3 novembre compie 75 anni. E che nella mente di molti ultra-cinquantenni calciofili resta sinonimo di «gol», per il Bayern Monaco e quella Germania Ovest ormai sparita. A rimanere, invece, è - appunto - il «talento per la rete» di questo attaccante sgraziato e rapidissimo. Poco armonioso nel fisico - testa grande, baricentro basso, gambe e braccia corte -; non eccelso nel palleggio, ma dalla capacità di essere ovunque fosse un pallone. In prossimità della linea di porta avversaria. Risposta teutonica, a metà dei ‘70, del calciatore-tipo olandese: bello, biondo, agile e forte tecnicamente (Cruijff. Ma non solo...). Vero terrore delle difese a qualsiasi latitudine e livello. Come raccontano soprattutto i suoi numeri.

La carriera. Fino ad ora (dati alla mano) è il più importante centravanti tedesco della storia, Müller, infatti ha vinto tutto. Col Bayern e la Nazionale. E a livello personale: un Pallone d’oro (nel 1970) e due Scarpe d’oro (1970 e 1972). Nel suo carniere: 735 gol in 793 partite (fra i giocatori con la più alta media realizzativa: 0,93 gol-gara); 68 reti con la sua Nazionale (in 62 presenze). Una storia calcisticamente semplice, quella di questo centravanti «sposato» al Bayern sin dai 19 anni, dopo un breve inizio nella squadretta locale della sua città (il TSV 1961 Nördlingen). Poco appariscente a vedersi, ma agilissimo; con un senso della posizione e una solidità fisica uniche, Müller fu notato dal mister croato Čajkovski che lo segnalò alle giovanili bavaresi; l’altro croato Zebec. invece, ebbe il compito di lanciarlo (quasi subito) in prima squadra, raffinando il suo senso per il gol. Nel 1965, in una prima squadra del Bayern che navigava nella serie B della Germania Ovest, Müller cominciò a segnare a raffica. Con Sepp Maier fra i pali e Franz Beckenbauer libero, dalla Regionalliga Süd il salto alla Bundesliga riuscì subito. E poi fu «festa grande»: nelle quindici annate al Bayern Monaco segnò 365 gol in 427 presenze; per quattro volte campione di Germania (1969, 1972, 1973 e 1974), tre volte Campione d’Europa (1974, 1975 e 1976). Ha vinto la Coppa Intercontinentale nel 1976 e la Coppa delle Coppe nel 1967. Le sue 365 reti in Bundesliga sono tutt’ora un record.

Le caratteristiche. Abile sia in acrobazia che di testa; preciso nel tiro (non potentissimo), Müller aveva tutta la solidità della sua gamba corta e la mobilità spiazzante del proprio bacino largo. Utile ai veloci cambi di traiettoria nelle finte e nei contrasti coi marcatori «a uomo» dell’epoca. Una «iradiddio» nello stretto dell’area avversaria; anche perché lui sapeva e prevedeva. Il movimento avversario; il passaggio del proprio compagno. Insomma: una macchina da gol con una «carrozzeria» particolare. Un uomo semplice, istintivo in campo, sensibile fuori. Tanto da smettere (nel momento più bello) con quella Nazionale «monca dell’Est», subito dopo il Mondiale del ‘74. Vinto (nello stadio di casa) sugli odiati olandesi (quelli «belli e aggraziati»). Sua la rete del 2-1 decisivo nella porta di Jongbloed; così come sue due reti (delle tre) con le quali gli stessi bianchi teutonici avevano battuto l’Urss nella finale dell’Europeo del 1972. Senza dimenticare i due gol nel mitico Italia-Germania 4-3 dell’Azteca (Messico ‘70, dove risultò capocannoniere con 10 reti). Il finale di carriera fu quindi speso - dai trent’anni in avanti - nella folkloristica Nasl (North American Soccer League) Usa. Ingaggiato dai Fort Lauderdale Strikers: tre stagioni e 40 gol. Prima del ritiro a 33 anni. Cosa poter vincere di più?

L’Alzeheimer. Eppure, dopo il ritiro, Müller ha dovuto affrontare, oltre a un lungo periodo di depressione, quell’alcolismo che gli ha rovinato la vita e la salute. Più volte soccorso dai suoi ex compagni del Bayern, che lo hanno spinto a terapie di disintossicazione e riabilitazione, è stato anche dirigente e allenatore delle giovanili del Bayern. Prima di rendere nota l’origine della sua ultima corsa: quella contro il morbo di Alzheimer. Oggi vive in un centro medico specializzato per malattie croniche e degenerative. «È stato sempre un combattente, sempre coraggioso, per tutta la vita. E anche ora lo è. Gerd sta riposando in attesa della sua fine. È calmo e pacifico, e non credo che soffra. Spero che non possa pensare al suo destino, in un malattia che priva una persona della sua ultima dignità», ha affermato la moglie, Uschi Müller. Gerd è comunque amato e accudito da molti; apprezzato da tutti. Per ciò che è stato e che da qualche parte (oltre che nella storia del calcio) continua a rimanere.

"O segno o non torno più a casa". Italia-Germania 4-3, intervista a Gianni Rivera: “Solo dopo capimmo di aver fatto la storia”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Giugno 1970, cinquant’anni fa. Bolle la pentola a pressione della storia. In Italia si discute molto della proposta di legge sul divorzio. Frange di estrema destra tramano per provare a mettere in atto il golpe Borghese. In Cile la sinistra si compatta dietro alla candidatura di Salvador Allende, di cui Pinochet diventa consigliere militare. Ma gli occhi del mondo sono altrove: il 17 giugno si concentrano sul Messico. Si giocano i Mondiali. Si gioca Italia-Germania, la partita del secolo. Una partita-simbolo, divisa in tempi diversi e con capovolgimenti di fronte continui. Una metafora della storia, assurta a simbolo del carattere indomito e sorprendente degli italiani, mai tanto rappresentati da un singolo evento sportivo. Protagonista indiscusso di quell’incontro è stato Gianni Rivera, inserito dalla Fifa tra i cento giocatori che hanno fatto la storia del calcio mondiale. Un calciatore tecnico raffinato e fatale in campo, capace di disegnare con i piedi le azioni più incredibili. Ma con un carattere che non le mandava a dire, e con una passione per la politica con pochi uguali nel mondo del pallone. La partita ha inizio alle ore 16:00 di mercoledì 17 giugno 1970 presso lo Stadio Azteca di Città del Messico. Successe di tutto. Gianni Brera, che seguiva dalla tribuna, la sintetizzò così: «I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti. Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato». «È una partita emozionante, ma è stata pur sempre una partita. Poi non abbiamo vinto la coppa, è servita a poco alla fine», dice Rivera al Riformista.

Ma insomma Rivera, non vi rendevate conto di fare la storia del calcio?

«Il clamore suscitato da quella vittoria ci sorprese. La telecronaca di Nando Martellini appassionò il Paese più di quanto credevamo noi uscendo dal campo, andando negli spogliatoi. Tornati in albergo io telefonai a mia madre, come facevo sempre dopo le partite. Lei mi fece sentire dal telefono la pazza gioia della gente in strada. Realizzai solo in quel momento. E capii che lo sport aveva questa potenzialità incredibile di unire le persone, di mettere insieme tutti».

Cosa ha pensato al primo goal di Boninsegna?

«Io ero in panchina e sapevo di dover entrare nel secondo tempo. Vidi il goal e dissi: questa partita si vince difendendo questo punto. E andò in tutt’altro modo! I tecnici avevano deciso per la staffetta, Mazzola doveva giocare il primo tempo e io il secondo. E così è stato. Sapevo che era un goal da difendere, perché quella Germania era una grande squadra. Riuscimmo per quasi tutto il secondo tempo a tenere fermo il risultato. Poi successe qualcosa di incredibile».

Il gol della Germania. 1-1.

«Quando Schnellinger aveva capito che l’arbitro stava per fischiare la fine della partita, umiliato per il risultato e non volendo incrociare gli sguardi dei suoi compagni del Milan, fece per avvicinarsi agli spogliatoi che erano dietro alla nostra porta. E mentre andava, ecco la palla che attraversa l’area di rigore e gli capita sotto i piedi. Ha fatto goal senza aver costruito l’azione, una rete del tutto casuale».

Quanto conta il caso nella vita?

«Il caso conta. Poi però bisogna sapere approfittare del caso per trasformarlo in opportunità. Le chances arrivano nella vita, bisogna avere la prontezza di cogliere la palla al momento giusto e saperla mettere in rete. In campo, si trasforma l’azione in pochi secondi, si decide in una frazione di secondo. Andiamo al secondo tempo. Lei fu protagonista al 110’ di una azione sfortunata, si era infilato tra i pali della nostra porta e il tiro di Muller sfiorò il suo corpo, entrando in rete».

Cosa pensò, tra sé?

«Pensai di averla fatta grossa. Ero corso tra i pali perché il portiere Albertosi era uscito troppo. Ero nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Pensai che se non fossi stato in grado di rimediare, non avrei potuto far ritorno a casa. Mi sono detto che non poteva finire così. E ho tirato fuori tutto, pur al culmine dello sforzo di un incontro così lungo. Corsi in avanti, ripresi la palla e un solo minuto dopo, segnai il quarto goal. E vincemmo».

Una metafora; l’Italia che ce la fa, contro ogni previsione, all’ultimo.

«Noi italiani abbiamo dentro una forza di volontà e di carattere non comuni. Sappiamo fare sprint, siamo un popolo che non poggia tanto sulla forza dei muscoli quanto sulla testa, la fantasia, la capacità di aggirare gli ostacoli. E quando siamo messi alle strette, diamo spesso il meglio».

La rivalità tra Mazzola e Rivera è leggenda o ha un fondo di verità?

«Ci siamo sempre rispettati, come rapporto umano. Non c’è mai stato uno scontro personale. Siamo stati sempre contrapposti: lui all’Inter, io con il Milan. E sovrapposti, perché giocavamo in campo nello stesso ruolo. Così decisero di alternarci mettendo in atto una staffetta: primo tempo lui, secondo tempo io. Lei è stato anche dirigente del Milan, quando ha smesso di giocare. Poi è arrivato Berlusconi. E mi ha fatto capire che quando c’è lui, non c’è spazio per gli altri. E lì è iniziato il mio impegno politico, cercando di capire, io che ero stato un centrocampista nel gioco del calcio, se si poteva costruire un centrocampo in politica».

Quattro volte in Parlamento, un mandato in Europa, perfino sottosegretario alla Difesa…

«Una bella contraddizione, per uno che ha fatto sempre dell’attacco in avanti una professione, finire alla Difesa. Ma è stata una bellissima esperienza, ho conosciuto persone di straordinaria professionalità e ho capito perché l’Italia è così apprezzata nel mondo, nelle missioni internazionali di pace».

Lei qualche volta nelle missioni della nazionale invece mise scompiglio, polemizzando con la federazione, gli allenatori, gli arbitri…

«Ho sempre avuto il pregio di dire le cose come stanno. Gli accordi che fanno i dirigenti del calcio e i tecnici sulle teste dei giocatori, a loro insaputa, non mi sono mai piaciuti. Ho fatto molte polemiche? Ho alzato la voce quando sentivo di doverlo fare. Il calciatore è un professionista dello sport, non è una macchina. Siamo persone con le nostre emozioni e il nostro carattere».

Com’è il campo da gioco della politica?

«È un campo molto vasto. In quello di calcio si vedono i segni perimetrali, bianchi. Nella politica no. È un campo imprevedibile, pieno di tranelli. Churchill diceva: gli italiani giocano a calcio come andassero in guerra, e vanno in guerra come se fosse una partita di calcio. Ma in entrambe le attività, la guerra come il pallone, devi mettere testa, cuore e gambe. Se lo sai fare, vinci. Altrimenti perdi. Io ho dedicato la mia vita di calciatore a mettere insieme queste tre cose».

Oggi chi vede, tra i bomber del campionato politico?

«Ho iniziato a ragionare di politica con Martinazzoli, non so se mi spiego. Oggi non mi appassiona più nessuno».

Conte in che ruolo lo metterebbe a giocare?

«È un tecnico, no? Faccia il tecnico. Il preparatore, l’allenatore. In partita si barcamena, non lo vedo in campo a lungo».

Salvini, comunque lo si guardi, è un cannoniere.

«Con me a centrocampo non sarebbe passata una sua palla. A parte tutto, no. Non mi convince».

Renzi è un altro goleador.

«Lo è stato, ha avuto un momento d’oro. Non so se quel momento possa tornare. Ha fatto autogol con il referendum su cui ha scommesso la sua uscita dalla politica. Non avrebbe dovuto rischiare così tanto».

Chi vede come avversario, tra le squadre in parlamento?

«Non mi piacciono i grillini. Il Movimento Cinque Stelle è responsabile di aver portato in politica una carica di violenza, anche solo verbale, incredibile. Un clima da curva dello stadio. Da ultras. Il populismo è la malattia di questi nostri anni».

E il no alle Olimpiadi è venuto proprio da loro.

«Non ne parliamo, che suicidio! La dirigenza sportiva internazionale era tutta orientata sulle Olimpiadi di Roma, il no della diretta interessata, la Sindaca, è stato incredibile. E ha fatto la fortuna di altre amministrazioni, perché è ovvio che c’è chi ha beneficiato economicamente da quella rinuncia italiana. Una che ha ammesso pubblicamente, con quel gesto, di non volere e di non sapere amministrare una capitale che invece deve vivere di grandi eventi internazionali».

Che cosa c’è nel futuro di Gianni Rivera?

«Sono diventato allenatore di prima categoria dopo aver seguito tutto il corso. L’esperienza non basta, serve aggiornamento, rimettersi sempre in gioco con umiltà. E adesso posso allenare club di serie A».

Il Milan, magari.

«Con Berlusconi fuori, sarebbe una rivincita. Io sono a disposizione. Certo mi piacerebbe lavorare con chi è in grado di arrivare in alto e vincere. Il Milan sarebbe un buon approdo, ma non metto gli occhi su squadre che hanno già un allenatore vincente. Il patentino ce l’ho. Se una squadra di un certo livello decide di cambiare mister, io sono qua».

Le piace ancora giocare a calcio?

«Il calcio quando ti entra nel sangue non va più via. Lei mi ricordava che sono passati cinquant’anni da quella partita, Italia-Germania. Sa come festeggio? Prendo la racchetta e vado a giocare a tennis. Al Foro Italico, ho già prenotato il campo».

Gianni Rivera: “Il mio 4-3 da leggenda. La staffetta fu una scelta politica”. Schnellinger voleva solo uscire per primo, perciò era lì: il suo gol rese memorabile una partita non certo bella. Enrico Sisti su La Repubblica il 15 giugno 2020. Di Rivera ce n’è sempre uno solo: 50 anni fa come oggi. Sempre lo stesso pacato, forse un po’ malinconico, golden boy, quello che raccontava di sé cose tipo: «Non ero un calciatore, piuttosto uno che giocava a pallone». Altri tempi, anche supplementari, altri parametri tra vita agonistica ed esistenza reale. Oggi, a 76 anni, Gianni lo puoi incontrare per il centro di Roma, dove abita («e dal quale non mi sposto più»), magari con un rig...

Enrico Sisti per la Repubblica il 16 giugno 2020. Di Rivera ce n'è sempre uno solo: 50 anni fa come oggi. Sempre lo stesso pacato, forse un po' malinconico, golden boy, quello che raccontava di sé cose tipo: «Non ero un calciatore, piuttosto uno che giocava a pallone». Altri tempi, anche supplementari, altri parametri tra vita agonistica ed esistenza reale. Oggi, a 76 anni, Gianni lo puoi incontrare per il centro di Roma, dove abita («e dal quale non mi sposto più»), magari con un rigato elegantissimo oppure con un paio di pantaloni da lavoro, con i tasconi all' altezza delle ginocchia. È diventato allenatore: «Magari la chiamata non viene, magari sì. Comunque che sappia: io sarei anche pronto».

Rivera, come sta?

«Procediamo».

Cinquant' anni fa era un Pallone d' oro in carica di cui l' Italia era orgogliosa da impazzire, al punto da tenerlo in panchina come fosse un oggetto più fragile che prezioso.

«La staffetta era una scelta politica, non calcistica. Quanto al Pallone d' oro, l' ho vinto perché avevo accanto gente come Trapattoni, Lodetti, Sormani, Prati».

Che Germania era, quella lì?

«Una delle squadre forti di quel Mondiale e ci capitò tra i piedi. Qualcuno era superiore alla media. E anche di molto. Ma siccome non erano tempi di rivoluzioni tattiche, i tedeschi giocavano sempre da tedeschi, e gli italiani da italiani».

Si sarebbe mai immaginato che cinquant' anni dopo «Italia-Germania è stato un caso, ma anche un "unicum"». Non aveste peraltro una vigilia diversa dalle altre.

«Le vigilie erano tutte uguali. Ovviamente io già sapevo, perché era una sceneggiatura scritta in anticipo, cosa mi sarebbe capitato...».

Nessun accorgimento per contrastare Müller, Seeler, Overath o Beckenbauer?

«Nessuno. Tutti noi sapevamo cosa fare, dove e quando. Albertosi compreso, che all' epoca doveva stare in porta perché così funzionava, anche se a lui piaceva giocare con i piedi, solo che era nato nel momento storico sbagliato».

Ma psicologicamente come arrivaste alla Germania?

«Direi bene. Un buon girone, un ottimo quarto».

E in quel quarto contro il Messico iniziò il Mondiale di Rivera, con la rete del 3-1.

«In qualche modo sì. Era sempre difficile attendere in panchina. Almeno per me. Soprattutto perché non avevo scelta. Ero parte di un disegno. Stavo lì seduto, non dovevo fare nulla di particolare: solo aspettare che finisse il primo tempo».

Come contro la Germania.

«Ormai Valcareggi non mi diceva più niente. Il cambio era automatico. E a quei tempi ti dovevi scaldare negli spogliatoi o nei corridoi. Sperando che corridoi e spogliatoi fossero vicini al campo».

Quel secondo tempo azzurro (e suo) per gestire il vantaggio di Boninsegna?

«Dovevamo essere bravi a non farci prendere dagli spasmi. Erano loro che dovevano sbattersi per cambiare le cose. Non noi. Sono stati aggressivi soltanto nella parte finale. Ma grandi rischi non ne abbiamo corsi, se ricordo bene. Sì, non sarebbe stata una partita bellissima se».

Se poi non fosse comparso Schnellinger.

«Ci siamo incrociati a fine partita senza dirci nulla, ma prima sì. Mi fece capire che si stava spostando in attacco solo perché la partita ormai era finita e gli spogliatoi erano dietro la nostra porta, così avrebbe evitato gli sguardi dei suoi compagni del Milan, io e Rosato. "Così", mi disse, "appena fischia l' arbitro scappo dentro!" Insomma era stufo. Invece si ritrovò la palla sul piatto destro. La sua presenza lì era talmente inaspettata e insieme sospetta che nessuno si occupò di lui. Tutti marcavano tutti, come da programma, Karl-Heinz era libero».

Lei fece la differenza anche nel primo dei supplementari: sua la punizione per il 2-2 di Burgnich e fu sempre lei ad avviare lo scambio del 3-2 di Riva.

«E nel secondo supplementare tutto il resto: ero vicino al palo sul colpo di testa di Seeler, punto nel quale forse non mi ero mai trovato in vita mia. Poi arrivò la spizzata di Müller, che si allungò, sfiorò il pallone che mi toccò il fianco: 3-3. Potevo mettere la mano, ma che sarebbe cambiato?».

E poi la storia.

«Ero partito per calciare di sinistro in diagonale, dopo il cross basso di Boninsegna. Invece in un attimo, non so quanto, ma veramente poco, ho visto Maier spostarsi rapidamente verso la sua sinistra, così ho cambiato direzione e soprattutto piede. Sapete com' è andata a finire. Pensi che solo rivedendo la partita mi sono reso conto che avevo davvero calciato di destro».

Quando è finita per lei l' eccitazione di Italia-Germania?

«Probabilmente nell' intervallo di Italia-Brasile. Eravamo negli spogliatoi. Stavo per togliermi la tuta. Mazzola cominciò a slacciarsi le scarpe ma Valcareggi lo fermò: "Tu torni in campo!". Non mi ricordo nemmeno bene cosa provai...».

Rivera: "Ma io preferivo vincere la finalissima". «I 6 minuti con il Brasile mi sono rimasti qui A Schnellinger dico: hai fatto la cosa giusta». Massimo M. Veronese, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Il primo italiano a vincere il Pallone d'oro, il primo a vincere la Coppa dei campioni, il primo della classe in tutto. Soltanto in Italia-Germania 4-3 Gianni Rivera, il più grande giocatore italiano di sempre, una vita divisa tra Milan e Nazionale, segnò per ultimo. Aveva già vinto tutto in Italia e nel mondo e con quel gol non conquistò nulla. Tranne, ovviamente, l'eternità.

Perché Italia-Germania 4-3 è ancora così popolare dopo mezzo secolo?

«Perché quei trenta minuti di supplementari sembravano non finire più. E infatti non sono finiti mai».

Si ricorda come avete festeggiato?

«Avevamo capito di aver fatto qualcosa di straordinario, ma ai Mondiali pensi subito alla partita dopo. Pensavamo di festeggiare in finale invece...».

Eppure senza quel gol di Schnellinger...

«Sarebbe stata una partita noiosa. Che nessuno oggi ricorderebbe più».

Vi sentivate durante il Mondiale?

«Con Karl? Mai. Eravamo in due città diverse, quasi in isolamento: ci era consentita qualche telefonata a casa e niente più. Eravamo milanisti quando avevamo la maglia del Milan ma quando ce la toglievamo eravamo altro».

E pensare che volevano mandarla a casa...

«Sentivo brutta aria intorno a me e allora sparai a zero sui dirigenti della Nazionale, soprattutto Mandelli che era quello che comandava. Era deciso a rispedirmi in Italia».

Cosa disse di così grave?

«Mi meravigliava il fatto che ci fossero problemi a farmi giocare. Stavo benissimo e non essendo fumatore come gli altri in altura respiravo meglio di tutti. Quindi perché?»

E invece?

«Dall'Italia arrivarono Rocco e Carraro per mediare. Fu decisivo il presidente federale Artemio Franchi: capì il motivo del mio sfogo e fece finta di niente».

Però?

«Finirono per inventare la staffetta facendo giocare Mazzola nel primo tempo e me nel secondo. Una follia».

Volevano farla tornare a casa ma c'è mancato poco che a casa non tornasse più.

«Quando abbiamo preso il gol del 3-3. Ero piazzato sul palo sinistro e quando vidi arrivare il colpo di testa di Seeler mi spostai per respingerlo».

E invece?

«La deviazione di Muller mi ingannò e la palla passò dove non doveva passare: tra me e Albertosi».

Che gliene disse di ogni...

«Non le riferisco perché siamo in fascia protetta...».

Immagino lo sconforto.

«Pensai: o vado a segnare o in Italia non torno».

Voleva scartarli tutti.

«Si, ma quel muro di maglie bianche me lo sconsigliò».

Fortuna che arrivò il gol del secolo.

«Ero convinto di aver tirato di sinistro invece avevo colpito di destro. La finta mandò Mayer a sinistra e io piazzai la palla a destra: sembrava non entrare mai come una sequenza al rallenty. Mi son tolto un peso dal cuore».

Perché questa rivalità tra Italia e Germania?

«Perché sono le due squadre europee che hanno vinto di più, perché per tradizione sono le due squadre più forti».

Adesso non è più così: l'Italia non è andata ai mondiali e la Germania ne ha fatto uno disastroso.

«Sono migliorati gli altri: i francesi, gli spagnoli. Tutto si è equilibrato, ma Italia e Germania torneranno grandi».

Ora che è allenatore farebbe giocare Rivera in finale?

«Dal primo minuto perché l'unico giocatore che doveva giocare la finale dall'inizio era lui. Almeno avremmo giocato alla pari. Mi è rimasta sul gozzo».

Poi ci fu quella frase ironica di Pelè...

«Disse, se lascia fuori Rivera allora l'Italia deve essere una squadra eccezionale. Non possiamo che perdere...».

Cosa vuol dire a Schnellinger mezzo secolo dopo?

«Mi verrebbe da dire: se stavi al tuo posto era meglio. Ma visto come è finita: Karl, hai fatto la cosa giusta...».

Valcareggi, il ct che sfiorò l'impresa (e inventò il turnover). Enrico Currò (ansa) su La Repubblica il 15 giugno 2020. Il ricordo del figlio Furio, al fianco di Ferruccio anche nella spedizione messicana del '70: "Che vergogna l'accoglienza con i pomodori dopo quel mondiale. Mio padre non si faceva condizionare e pagò la scelta della staffetta Mazzola-Rivera". E ammette: "La Germania giocò meglio". Nel giugno 1970 il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, triestino di nascita e fiorentino d’adozione, fu condannato dal tribunale del popolo per i soli sei minuti concessi nella finale del Mondiale messicano all’eroe di Italia-Germania Gianni Rivera. All’arrivo a Fiumicino misurò l’ingratitudine della volubile folla: i pomodori per un secondo posto dietro il magnifico Brasile di Pelé e Tostao, Gerson e Rivelino, Jairzinho e Carlos Alberto, due anni dopo quello che resta tuttora l’unico Europeo vinto dalla Nazionale. Di lì a poche ore sarebbe stato applaudito sotto il Quirinale, quale guida dei vicecampioni del mondo: il presidente Giuseppe Saragat li avrebbe premiati per l’eccellente torneo. Ma intanto all’aeroporto lo aspettavano per lapidarlo con gli ortaggi. Di siffatta lapidazione in salsa italiana - che oggi sarebbe virtuale, via social, e che altrove conosceva già varianti festerecce, come in Spagna la Tomatina di Buñol - Valcareggi era suo malgrado un esperto: nel 1966, quand’era il vice ct, i pomodori con l’aggiunta delle uova marce, al rientro a Genova dall’Inghilterra, erano toccati al predecessore Edmondo Fabbri e agli azzurri rei della beffa di Middlesbrough, l’eliminazione con la Corea del Nord. L’esperienza insegna: a Roma venne sottratto ai tiratori scelti (scelti da se stessi) il bersaglio principale per le munizioni alimentari: “Ci avvertirono prima dell’atterraggio che a Fiumicino ci attendeva un sacco di gente poco amichevole. Così il mio babbo e i giocatori furono caricati subito sulla prima navetta verso lo scalo, appena scesi dall’aereo, e filarono via alla svelta. Sulla seconda navetta restavamo noi altri della comitiva: ricordo Gianni Minà, il giornalista della Rai. L’autista era terrorizzato e accelerò, infilandosi in un hangar per gli apparecchi in manutenzione. La folla ci faceva dondolare, rimanemmo tre ore chiusi lì dentro. Un’accoglienza vergognosa”. La voce narrante è di Furio Valcareggi, figlio di Ferruccio, agente Fifa e memoria storica di quel Mondiale. A mezzo secolo di distanza, racconta con la partecipazione del testimone diretto lo stato d’animo della squadra: “I calciatori non vedevano l’ora di andare in vacanza, ma il protocollo imponeva la visita da Saragat per la commenda. Dormirono una notte in albergo, al Parco dei Principi, e presero ancora più consapevolezza di avere sfiorato l’impresa: quel Brasile era fortissimo, secondo solo a quello del 1958 in Svezia, e loro erano riusciti a tenerlo sull’1-1 fino al minuto 66, mancando pure il 2-1 con Domenghini. Nella storia restano il 4-1 finale e la foto del primo gol di Pelé, che sembra volare in cielo mentre Burgnich è inchiodato a terra. Mica vero: Tarcisio era in anticipo e gli sono scivolati i talloni, così non è più riuscito a saltare. Altrimenti Pelè quel colpo di testa non l’avrebbe potuto fare, il pallone non gli sarebbe arrivato mai”.

Il no a Nereo Rocco. Invece il cross di Rivelino arrivò, O’ Rey appose la firma anche su quella partita e il ct della Nazionale diventò il capro espiatorio di una sconfitta che le ricostruzioni più immediate, solo in parte corrette negli anni, attribuirono al mancato impiego del Pallone d’oro in carica Rivera e non ai due fattori tecnici e atletici prevalenti: l’oggettiva superiorità dei brasiliani e la stanchezza degli azzurri, reduci dai supplementari con la Germania Ovest. Valcareggi venne accusato di non avere schierato dall’inizio contro il Brasile il capitano del Milan - preferendogli il rivale per definizione, il capitano dell’Inter Sandro Mazzola – per ragioni politiche, come Rivera stesso ha ribadito ancora qualche giorno fa: la formazione sarebbe stata imposta da Walter Mandelli, industriale piemontese, il dirigente della Figc più vicino alla squadra. Sull’argomento Valcareggi junior ancora si accende: “Ma quale Mandelli, il babbo non si faceva mai condizionare da nessuno, il babbo aveva due coglioni così. Quando al Mondiale del 1974 Chinaglia lo mandò a quel paese per la sostituzione con Haiti, lui non lo voleva più vedere, lo voleva spedire a casa. Mandelli parlava con alcuni giornalisti influenti, tutto qui, ma a decidere era il babbo e basta. In Messico era venuto anche Nereo Rocco, che allenava il Milan e avrebbe voluto vedere in campo Rivera. Rocco era un idolo del babbo, era di Trieste come lui ed era stato suo compagno anziano alla Triestina. Nereo mi diceva: ‘Ehi Rossino, la mafia no xe in Sicilia, la xe a Firenze’: sapeva benissimo che il babbo faceva di testa sua”.

Dalla Corea al titolo europeo, così nacque la Nazionale di Valcareggi. Luigi Panella su La Repubblica il 15 giugno 2020. Così nacque la staffetta. Vallo a spiegare agli italiani, col 4-3 dell’Azteca ancora negli occhi, dopo una partita così imprevedibile che per soppesarla, come scrisse Mario Fossati su Repubblica nel 1998, “i loici hanno dovuto ammettere, a distanza di anni, di avere dovuto combattere l’emozione”. La logica in effetti non c’entra granché e forse nemmeno la tattica, che sbrigativamente – è ancora di Fossati il ricordo – alla vigilia aveva spinto un famoso giornalista belga al solito cliché sul gioco italiano: “Definì la Nazionale, che strategicamente lucrava sulle vittorie, una cassa di risparmio”. La cronaca commentata di Furio Valcareggi non ha il paraocchi: “Diciamo la verità: partita ampiamente dominata da loro, anche se noi andiamo in vantaggio quasi subito con Boninsegna. Overath sbaglia un gol di sinistro incredibile, per uno tecnico come lui. C’è un rigore e mezzo per i tedeschi, di sicuro c’è quello di Bertini su Seeler. Loro fanno gioco, ma Ricky Albertosi è impegnato solo nei supplementari. Il pareggio lo pesca al novantesimo Schnellinger, che è un difensore e si trova in area un po’ per caso. Lì noi pensiamo: è finita, perché loro adesso hanno il vantaggio psicologico. Infatti segna Müller. Ma poi c’è la svolta: Burgnich, un difensore anche lui, fa gol di sinistro. Poi il 3-2 di Gigi Riva, fantastico, poi Müller di nuovo. E alla fine Rivera: buco di Schulz, fuga di Boninsegna e cross basso, piatto destro e gol”. La staffetta, dunque, funzionò: varato a Toluca, nel felice quarto di finale contro i padroni di casa (4-1), il passaggio di testimone tra il primo e il secondo tempo - dentro il simbolo del Milan, fuori il simbolo dell’Inter - venne replicato appunto nella semifinale di Città del Messico. L’esito è diventato leggenda: “Alt. Riavvolgiamo il nastro. Io parto prima con la squadra, per 10 giorni sto sempre con loro e mi ricordo tutto. La vendetta di Montezuma, leggi dissenteria, colpisce Rivera e altri due o tre. Perciò lui inizia a stare bene, a essere pronto, soltanto a Toluca: prima no. Altra cosa: in Messico non c’era il secchio dell’acqua in campo, ma la bombola d’ossigeno. Lui pagò tantissimo l’altitudine e non fu mica l’unico: Gigi Riva all’inizio non respirava. Era tutto diverso dal normale. De Sisti mi diceva: ‘Furio, ho una castagna qui in Messico! In Italia no, ma qui sì’: alludeva al tiro, che in mancanza di resistenza forava l’aria più velocemente. Comunque il dubbio tattico era tra Rivera e Mazzola, perché nessun allenatore di buonsenso li avrebbe fatti giocare insieme, togliendo uno tra Bertini, Domenghini e De Sisti, che davano equilibrio al centrocampo. Mazzola stava dieci volte meglio e per questo partì titolare. Poi, quando la squadra ha cominciato a girare e a vincere, era impossibile togliere i titolari. E c’erano due soli cambi più il portiere, all’epoca: giocarsi una sostituzione troppo presto era rischioso”.

Il sacrificio di Lodetti.  Valcareggi resiste alle pressioni e porta avanti le proprie convinzioni. Però anche il destino gioca la sua parte: “Prima del Mondiale Rocco disse al babbo: ‘Portati Lodetti’. Era il mediano di Rivera al Milan, ma era anche un bel giocatore e infatti fu convocato. Solo che Anastasi si infortunò e Gori, che avrebbe dovuto fare il centravanti titolare accanto a Riva, non stava benissimo. Allora il mio babbo chiamò altri due attaccanti, per non rischiare di restare soltanto con Gori: Boninsegna e Prati. E sacrificò Lodetti”.ivera non la prese bene: “Ma non c’erano pregiudizi, lo posso assicurare. Ferruccio Valcareggi decideva sempre per il bene della squadra. Non cercava mai il protagonismo, non era nel suo carattere”. Figlio di un reduce dell’esercito asburgico, che aveva combattuto contro l’Italia, nasce a Trieste il 12 febbraio 1919. Condivide la passione per il calcio col fratello minore Ettore, che giocherà nella Ponziana, la seconda squadra di Trieste. Ettore, per gli almanacchi Valcareggi II, è gemello di Valdo, reduce della campagna di Russia. Ferruccio, Valcareggi I, gioca interno: arriverà alle soglie della Nazionale di Pozzo, dove la formidabile coppia Valentino Mazzola-Loik - il primo era il leggendario papà di Sandro scomparso a Superga nella tragedia del Grande Torino (“il più forte calciatore italiano di tutti i tempi, diceva il mio babbo”) – gli sbarra la strada, precludendogli la maglia azzurra. In compenso la carriera è ottima: 248 partite in A, con Triestina, Fiorentina e Bologna (più il Milan nel campionato bellico del 1943-44) come tappe più importanti. Firenze è la tappa decisiva: è lì che mette su famiglia: “Arriva in treno e incontra subito Gigi Raspini, colosso di nuoto e pallanuoto fiorentini. Gigi lo porta alla Rari Nantes: lì conoscerà Anna, che era una nuotatrice in gamba e che sarebbe diventata sua moglie e la mamma mia, di mia sorella e dei miei due fratelli. Io sono nato in piazza Santa Croce al 22, la nostra casa in affitto aveva 12 stanze e dava sulla piazza, me ne innamorai. Dopo il suo passaggio all’Atalanta, da allenatore, ci trasferimmo vicino a Coverciano”.

L’inventore del turnover. Il centro tecnico della Figc sarà la sua seconda casa dal 1966 al 1974. Il lavoro di allenatore era iniziato al Piombino, da allenatore-giocatore nel 1953. Nel 1957 vinse il Seminatore d’oro per la promozione in B col Prato. L’approdo in Nazionale è racchiuso in un aneddoto. Ugo Della Lunga, storico dirigente della Rondinella, la seconda squadra di Firenze, era un ex arbitro, nonché amico intimo del guardalinee Artemio Franchi, futuro dirigente massimo del calcio italiano e presidente Uefa. E’ Della Lunga a segnalare a Franchi Valcareggi, che entrerà nello staff di Fabbri per il Mondiale 1966. L’infortunio iniziale è noto. Incaricato di visionare la Corea del Nord, definirà “una squadra di Ridolini” la squadra che avrebbe eliminato gli azzurri e poi spaventato il Portogallo di Eusebio, costretto alla rimonta dallo 0-3 al 5-3: “Ma il babbo intendeva dire semplicemente che i giocatori nordcoreani sembravano tutti uguali”. Avrà comunque modo di farsi perdonare, succedendo a Fabbri: dopo la brevissima coabitazione con Helenio Herrera, il Mago della grande Inter cooptato per un paio di partite, Valcareggi vinse l’Europeo 1968 soprattutto grazie all’uso sapiente del turnover ante litteram, nella finale bis con la Jugoslavia: Riva, Anastasi, De Sisti, Mazzola e Salvadore entrano dopo l’1-1 della prima finale con gli jugoslavi, l’8 giugno, e l’Italia domina la ripetizione, il 10 giugno: 2-0 e coppa: “Un capolavoro tattico, dopo la famosa semifinale con la Russia (0-0) vinta alla monetina e il poco entusiasmante primo atto con gli slavi. Finita la partita, andò da Facchetti e Riva a congratularsi, poi si infilò negli spogliatoi. Quando gliene chiesi la ragione, mi rispose: "Il mio compito si era concluso: avevano vinto loro, in campo ci vanno i giocatori". Era ineccepibile”.

Una vita a Coverciano.  In campo gli azzurri andranno anche in Germania, al Mondiale 1974, quasi da favoriti: nel 1973 l’Italia aveva battuto in amichevole Brasile e Inghilterra, vincendo a Wembley con gol di Capello, un successo inedito. Ma a Stoccarda, contro la Polonia, rimedieranno la sconfitta (2-1) dell’eliminazione al primo turno. Avevano già complicato le cose il 3-1 in rimonta, all’esordio contro la fragile Haiti del velocista Sanon capace di interrompere l’imbattibilità da record di Zoff, e il successivo 1-1 con l’Argentina. La Nazionale uscì per la peggiore differenza reti rispetto all’Argentina, che con i polacchi aveva perso 3-2, ma con gli haitiani aveva vinto 4-1, il classico gol in più. In Germania niente staffetta: stavolta Rivera e Mazzola partirono titolari tutti e due, l’interista da ala destra: “Il babbo fu tradito dal cuore, non se la sentì di lasciare fuori qualche veterano”. Ci fu anche un piccolo incidente: il futuro ct Azeglio Vicini, poi demiurgo di una splendida Under 21, terzo all’Europeo 1988 e scalognato a Italia ’90 con i rigori in semifinale contro l’Argentina di Maradona, per il Mondiale tedesco doveva visionare appunto gli argentini. Corsi e ricorsi storici da incubo: “Segnalò Houseman, il talento della squadra, come un centrocampista, mentre era un attaccante molto forte. Così all’iniziò fu sbagliata la marcatura”. Quella con la Polonia fu l’ultima partita di Valcareggi ct: “Non era affatto un catenacciaro e lo dimostra il quintetto avanzato che cominciò quel Mondiale: Mazzola, Capello, Chinaglia, Rivera e Riva: schierarli contemporaneamente significava pensare all’attacco. Dopo Stoccarda Franchi lo voleva tenere, ma lui gli disse: ‘No, dottore, mi mandi via’. Allenò ancora in serie A, però la Nazionale era la sua vita. Al centro tecnico tornava spesso. Lavorò ancora al settore giovanile e fu capo delegazione di Allievi e Juniores nei tornei in Kenya e Svizzera, con Niccolai allenatore. Finché un giorno del 1988 gli arrivò una lettera di licenziamento dalla Figc, “per raggiunti limiti di età”: una lettera in ciclostile, nemmeno personalizzata”. Ferruccio ha 69 anni. Esce dal cancello, ma soltanto per attraversare la strada. Diventerà il responsabile del settore giovanile della Settignanese, squadra fiorentina i cui campi hanno la vista sul centro tecnico di Coverciano, dove nel novembre 2005, mese della sua scomparsa a 86 anni, gli verrà riservata la camera ardente. La Settignanese gli intitolerà la scuola calcio. Salendo verso Maiano, dalla collina che porta a Fiesole il panorama è bellissimo: qualche villa tra i boschi, tanti cipressi e i campi da calcio. Niente pomodori. 

La più pazza, imperfetta, divertente notte di pallone della storia. Fabrizio Bocca(ansa) su La Repubblica il 15 giugno 2020. Italia-Germania Ovest 4-3 divenne arte grazie anche tanti errori di Poletti, Rivera. Poi la notte, le televisioni in strada trasformarono quella mezz'ora dei supplementari in un'emozione perfetta e irripetibile. “Non fossi sfinito per l’emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo i ritmi e le iperboli di un autentico epinicio… Il vero calcio rientra nell’epica… "Se tutti dovessero fare quello che sanno", ha sentenziato Petrolini, "nulla o quasi verrebbe fatto su questa terra”. (Dall’attacco dell’articolo di Gianni Brera su Italia-Germania 4-3 per Il Giorno, 18 luglio 1970). Si direbbe proprio che la sintesi migliore di Italia-Germania 4-3 l’abbia fatta Brera - non potrebbe essere diversamente - citando Petrolini: “Se tutti dovessero fare quello che sanno, nulla o quasi verrebbe fatto su questa terra”. Tra tutte le forme di arte, spettacolo ed espressione umana, il calcio non è forse la più grande, ma sicuramente è unica. La sua straordinaria particolarità è l’assoluta irripetibilità del gesto artistico. Un quadro di Picasso o Pollock può regalare la stessa emozione per l’eternità, un film di Risi o Peckinpah puoi rivederlo migliaia di volte, lo stesso per la musica di Bob Dylan. Il calcio è un lampo o una raffica di lampi che ti attraversa e Italia-Germania 4-3 del 1970 questo fu. Allora nacque e allora morì nello stesso istante, diventando leggenda, potendo solo ricordarla e mai più riviverla alla stessa maniera. C’è molto di misterioso nel mito e nel fascino di Italia-Germania 4-3. Proviamo a rovesciarla 50 anni esatti dopo e vederla da altri punti di vista che non siano quelli già noti di questo piccolo immortale frammento di storia italiana. E che qui cerco di sintetizzare al massimo: l’1-0 di Bonisegna subito, la staffetta Mazzola-Rivera (un orrore democristiano), l’1-1 del milanista Schnellinger al 92’ 30’’ (che fino ad allora in rossonero non aveva fatto manco un gol), i fatidici supplementari, l’errore di Poletti e Albertosi per l’1-2 di Muller, Beckenbauer col braccio fasciato (l’eroismo), il 2-2 di Tarcisio Burgnich la roccia interista che risponde al milanista Schnellinger, il sinistro di Riva che fulmina Mayer per il 3-2, il pareggio ancora di Gerd Muller su errore di Rivera e infine l’ultimo decisivo gol del capitano del Milan per il 4-3 al 111’. L'abbraccio di Rivera con Riva per uno scatto immortale ed è fatta, la storia è già compiuta. Arriverà moltiplicata per un milione di volte fino a noi adesso e proseguirà fino a chissà dove. Italia-Germania non fu certo una “partita perfetta”, come piace dire con un certo stereotipo. Anzi, se è per questo fu un’orgia di errori. Se ad Annibale Frossi, il dottor Sottile (attaccante con gli occhiali, olimpionico a Berlino 36, laureato in legge e poi giornalista) piaceva affermare, e a Brera ripetere, che lo 0-0 fosse il risultato perfetto, Italia-Germania 4-3 fu tutto il suo contrario. L’imperfezione assoluta. Personalmente, tanto per schierarsi, ho sempre pensato che uno 0-0 sarà anche perfetto (raramente), ma molto noioso (spesso). Ecco Italia-Germania fu casomai “l’emozione perfetta”, questo sì. La più pazza, divertente, batticuore mezzora di calcio che si ricordi. Non fu nemmeno una “prima volta”, l’Italia del calcio di imprese ne aveva fatte, era già stata due volte campione del mondo, era fresca campione d’Europa (1968). Tutti quelli che il 17 giugno 1970 avevano compiuto tutto sommato 50 anni avevano sicuramente buona memoria di Italia-Ungheria 4-2 e della doppietta mondiale di Piola (1938). Quel calcio lì allora non era certo preistoria, diciamo semplicemente vintage. Come diceva e scriveva sempre Mario Fossati basta che le generazioni si prendano per mano e la storia s’accorcia parecchio. Né fu tanto meno, Italia-Germania,  una “partita epica”. Fu una “vittoria epica”. E c’è una bella differenza. Per quanto allo stadio Azteca resista ancora la famosa targa del “Partido del Siglo”, in Germania non hanno lo stesso mito e la leggenda non è così forte e presente come da noi. Insomma, non credo che in questi giorni stiano celebrando anche loro il cinquantenario. Il calcio, come la guerra figurata che rappresenta, si può sempre guardare dal lato del vincitore o dal lato dello sconfitto. E cambia completamente. 

Da Beckenbauer a Müller: l'indimenticabile Germania di Schön. Luigi Panella su La Repubblica il 15 giugno 2020. Dobbiamo ammetterlo, Italia-Germania 3-4 - risultato tutto sommato possibilissimo e cioè una sconfitta atroce - non sarebbe certo diventata lo stesso una pietra miliare del calcio italiano. Per caso avete bei ricordi delle finali perse a Usa 94 ai rigori contro il Brasile, o di Francia-Italia persa al golden gol nell’Europeo del 2000? E se proprio vogliamo essere addirittura iconoclasti, ma non troppo, Italia-Brasile 3-2 con i 3 gol di Rossi al Mundial 1982 fu addirittura un’impresa superiore: quel Brasile lì era veramente la quintessenza del football. Ci fu sicuramente, nell’esplodere della leggenda, un punta di orgoglio nazionale: la Germania Ovest (questo l’avversario preciso), l’avevamo incontrata, tra la fine della guerra e il 1970, solo 3 volte in amichevole e una ai fallimentari Mondiali in Cile (1962). Ma nemmeno quello forse fu l’elemento determinante a farne un caposaldo della nostra storia. E allora cos’è che ci tocca il cuore come nient’altro con Italia-Germania 4-3? Fu l’averla vissuta e forse anche vinta tutti insieme a farne il più bel ricordo di calcio che abbiamo. Mexico 70 fu il primo Mondiale in diretta TV intercontinentale nonostante il fuso orario sfavorevole, entrò nelle nostre case perché il progresso e la tecnologia avevano permesso negli anni precedenti di mandare in orbita due satelliti per le telecomunicazioni - il Mondiale sarebbe arrivato persino a colori, ma in Italia fu necessario aspettare ancora un po’ di tempo per vedere Riva e Rivera in azzurro - e questo permise la nuova ritualità del calcio vissuto tutti insieme, come grande liturgia collettiva di massa. Non avremmo avuto le prime tv spostate in strada e nei cortili - i maxischermi dell’epoca - i primi cortei in macchina, le prime sbandierate per le città e i tuffi nelle fontane se non ci fosse stata la Rai a farci vedere quello che accadeva in diretta, oltre Atlantico, a diecimila chilometri di distanza. Fu il nostro primo, grande colossale evento in social network dell’era moderna.

Italia-Germania 4-3, la notte che rovesciò il mondo. Francesco Merlo su La Repubblica il 15 giugno 2020. Italia-Germania 4-3 non ha precedenti nel calcio come costruzione e genesi dell’evento. E’ un grande ricordo perché ci sembrava di essere un po’ tutti fra i centomila dello stadio Azteca. Io penso che le radici di Italia-Germania 4-3 affondino casomai dentro la trilogia di Benvenuti-Griffith del 1967-68, come evento sportivo che ci porta oltre oceano. E che noi italiani vivemmo via radio, perché il governo aveva vietato la diretta tv del primo match dal Madison Square Garden ritenendo imprudente tenere sveglio il lavoratore italiano a notte fonda. Dimezzando così l’emozione al solo audio via transistor dello storico primo trionfo del campione italiano. Le radici di Italia-Germania 4-3 passano sicuramente anche dallo sbarco sulla Luna dell’anno prima (1969), avvenuto alle 4 del mattino in diretta TV. Sono gli anni in cui ormai il mondo ci entra in casa direttamente e vorticosamente, e non si può fermarlo, a qualsiasi ora sia. Italia-Germania 4-3 fu uno straordinario cancello spazio-temporale che ci scaraventò dentro tutti quanti, rotolando insieme ad Albertosi e Burgnich, Mazzola e Rivera, Riva e Boninsegna, agli anni 70. Eccoci, siamo noi, gli “italianuzzi” capaci di fare cose folli e straordinarie. Nelle Hit Parade dell’epoca campeggiavano “La Lontananza” di Modugno, “Insieme” di Mina e “La Prima Cosa Bella” di Nicola di Bari. Un chiromante ci avrebbe sicuramente letto qualcosa, un disegno superiore. A fine estate Eric Clapton lanciò “After Midnight”. Dopo mezzanotte…

Brera: "Chi si è staccato dal palo sul 3-3? La verità me la rivelò la tv". Gianni Brera su La Repubblica il 15 giugno 2020. Il racconto della grande firma di Repubblica, scomparsa nel 1992: quella sera in Messico rivede la partita in televisione. "Un azzurro, appoggiato al primo palo, si scansò letteralmente per lasciar entrare la palla del 3-3. Che fosse avvenuta una scansata tanto illogica e chi l'avesse perpetrata mai era cosa ignorata da tutti: ed ecco la Tv ritrarre impietosa il gestarello ambiguo di Rivera arretrato sul palo!" Come tutti i cronisti da corsa, sono stato dapprima intrigato e poi insospettito dall'avvento della Tv. Il nuovo mezzo di cogliere e trasmettere a distanza gli eventi sportivi mi sembrava addirittura prezioso per lo studio di alcune discipline come la scherma, il pugilato, la ginnastica, l'atletica, per tacere del motorismo in tutte le sue accezioni. Istintivamente, però, tornava giusto difendersi dalle intrusioni calcistiche. Già gli operatori e i registi lasciavano a desiderare come i telecronisti, i quali stranamente si ritenevano all'altezza solo emettendo parole, parole, parole. La gente vedeva il pallone volare correre rimbalzare e la voce del telecronista la perseguitava ribadendole visioni elementari, scontate, inutili come i commenti che le accompagnavano. C'era poi un argomento principe da tirare in ballo, caso mai servisse dare ostracismo alla Tv: che il regista, quasi sempre sprovveduto, inseguiva semplicemente la palla, non riteneva di dover dare una visione d'insieme dell'azione così come si andava delineando: per conseguenza lo spettatore, competente o no, non era in grado di valutare il gioco sotto l'aspetto tecnico, in quanto l'uomo con la palla operava magari un'apertura sulla destra ("cambia gioco", si sentiva dire al microfono) e la camera trascurava di mostrarti l'ala o il centravanti completamente libero a sinistra. Questa lacuna è tuttora alla base di qualsiasi critica fondata ai servizi Tv sulle partite di calcio. In compenso, debbo ammettere per onestà di professionista che il costante miglioramento dei registi e degli operatori consente da qualche tempo di cogliere quasi ogni aspetto del gioco. Dalla tribuna vedi bensì lo scacchiere (disemm inscì) sul quale si muovono le pedine: gli schemi geometrici si delineano, sia pur labili, in tutta la loro estensione e durata: ma la camera è per solito prodigiosa testimone di particolari momenti agonistici dei quali non è possibile cogliere nulla o quasi dalla tribuna. Il primo esempio clamoroso l'ho avuto in Messico, durante la semifinale Italia-Germania, tanto esaltata per la ridda di emozioni venute dal gioco. La sera non avevo ancora smaltito il surplus di adrenalina collezionata e sofferta dal mio sangue spesso e greve: dovevo sempre orientarmi in quel bailamme di sensazioni più cutanee che profonde: molta gente batteva addirittura in testa come se l'agonismo l'avesse drogata: nessuno sapeva riandare con un po' di freddezza alla reale successione di fatti e di errori che stavano alla base di quel risultato in sé molto strambo. Poi, non so per quale caso, qualcuno accese la Tv: i messicani stavano giusto trasmettendo la partitissima: si rividero i gol: e tutti ammirarono la prodezza balistica di Riva che, puntando alla bandierina dell'angolo sinistro, con improvvisa torsione batteva il collo interno sinistro indirizzando la palla in diagonale destra verso la base del secondo palo: il portiere tedesco rimane interdetto: la palla del 3-2 era un arcano miracolo di bravura (Gigirriva l'aveva già provato con il Messico a Toluca). Partirono allora i tedeschi e ottennero un angolo che Libuda (me par) battè da destra: Seeler ribattè in acrobazia da sinistra: Müller incornò quella molle rifinitura e un azzurro, appoggiato al primo palo, si scansò letteralmente per lasciar entrare la palla del 3-3. Che fosse avvenuta una scansata tanto illogica e chi l'avesse perpetrata mai era cosa ignorata da tutti: ed ecco la Tv ritrarre impietosa il gestarello ambiguo di Rivera arretrato sul palo!, e la palla beffarda in rete: e Albertosi scagliarsi come folle addosso a quel précieus fuori luogo e accennare a strangolarlo. Sull'incontro si sono scritte prose uterine e perfino versi cutanei fino al prurito: è stata quella in realtà un'avventurosa partita di ciucchi diretti piuttosto male, specie da parte tedesca ("Grazie Schön!" aveva titolato il "Guerino": grazie molte: ma Schön era anche il C.T. dei tedeschi). Senza la Tv avremmo capito poco, anzi nulla dei particolari così contrastanti. La Tv lavora sul calcio con autentico furore agonistico. Notizie strabilianti pervengono sul numero dei teleascoltatori: si parla di oltre milioni 3 per Padova-Juventus, che certo valeva tanto entusiasmo. La vecchia Signora dei campionati sta facendo 31 (parliamo pure di miliardi) dopo aver fatto - magari - il doppio di 30: il buon vecchio Trap ha riportato il suo prodigioso pragmatismo sulla panchina più illustre d'Italia. Che piacere constatare come il tifo prenda anche i Principi dai quali dipendono le sorti della Polis e non solo di quella. Il fedel valvassino dilata la bocca a salvadanaio e si rassegna a confortare l' insonnia del Signore piacevolmente ispirato dalle pedate. La camera curiosa fino al pettegolezzo indugia dove la buonanima di Rocco faceva il verso ai rusteghi goldoniani. Roberto Baggio ha sentito l'alma Poesis esprimersi nei fantasiosi guizzi con la palla. L'anima olimpica di Casiraghi (reviviscenza priva di turbe del desiatissimo Farfallino Borel) se ne giova come Schillaci, i cui occhi lanciano lampi mesmerici. La leggenda si conforta delle immagini fedelmente riportate dalla Tv. Poi viene il Milan e confonde maledettamente le cose opponendo ricordi e constatazioni così reali da poter sembrare bislacche. Capello sa di pedagogia e consente alla fantasia di librarsi dietro all'orgoglio. I batavi fanno faville, mulatti e no. Righetto Sacchi era un duro alemanno. Il bisiaco Fabio fa aggio sul metodo crudo. Ne vedremo di immense, ammonisce monna Tv. E capite anche l' Inter, che a Cagliari non la schioda, ma sì a Lucca. Capite la Samp, che non ha ancora saputo smaltire le tossine dello scudetto. La Tv ha privilegiato scelte per nulla casuali. In ordine di merito ha fissato immagini da accreditare anche per la stagione che viene. Il vecchio cronista ha dovuto arrendersi alla Tv con l' onore delle armi. Non stupite che adesso ci lavori a sua volta. (17 agosto 1991)

Introduzione di ''La partita del secolo'' di Nando Dalla Chiesa, pubblicato da Solferino editore, tratta da ''La Lettura - Corriere della Sera'' il 7 giugno 2020. Ogni popolo stabilisce silenziosamente e senza intenzione quali giorni resteranno nella sua memoria. Quali saranno simbolo di dolore o evocheranno la paura, quali restituiranno senso alla speranza o regaleranno sempre e comunque un sorriso. Un popolo non lo decide mai sul momento. Tutto viene scavato e rielaborato nel tempo. È lo stesso cammino con cui la storia seleziona i suoi grandi: i pensatori o gli scrittori, i leader civili o gli eroi delle rivoluzioni. Le ragioni per cui alla prova del tempo vince uno anziché un altro sono in genere imprevedibili. Perché si ricorda un romanziere o un artista o un cantautore piuttosto che un altro? A volte si dà la responsabilità al caso, alla fortuna. E invece, a pensarci, c' è sempre un impasto di ragioni. Che affondano nelle sensibilità più inavvertite, nelle pieghe riposte della cultura, in una somma di episodi e di circostanze che creano la famosa combinazione chimica che decide. Con qualche fattore ricorrente. Perché a ben guardare a essere premiati dal sentimento popolare sono di norma gli irregolari, soprattutto se sono bandiera di genio o di generosità. E in particolare se la loro generosità non è stata ricambiata dal destino. Perché Leopardi più di Manzoni? Perché Garibaldi più di Cavour? Perché il Che più di Fidel? E passando al calcio: perché Baggio più di Platini o Maradona più di Pelè? Naturalmente si può sempre argomentare: per i loro meriti. Ma in realtà i meriti vengono cesellati e attribuiti in funzione di affinità psicologiche, di auto-proiezioni, di sogni e sentimenti complessi. E anche di qualcosa che è difficile decifrare ma che possiamo chiamare «lo spirito del tempo». Ve ne sono esempi al limite della leggenda. Proviamo a pensare a Italia-Germania del 4-3. Città del Messico, 1970, mezzanotte tra il 17 e il 18 giugno, ora italiana. E a rispondere alla domanda regina: perché è diventata questa la partita del secolo? Perché, ad esempio, non l' Italia-Germania del 3-1 di dodici anni dopo, Madrid, 11 luglio 1982, ore 20? Eppure fu proprio con quest' ultima partita che l' Italia divenne per la terza volta nella sua storia campione del mondo, la prima dalla fine della guerra, dopo una interminabile attesa di 44 anni. Eppure anche nella finale del Santiago Bernabeu a Madrid si vissero momenti memorabili. Memorabile, come poche altre cose viste in vita mia, fu la corsa infinita di Tardelli, il «coyote» di Bearzot, su una sua prateria sterminata e immaginaria. Memorabile quel «gol» urlato ossessivamente dal più atleta degli Azzurri, come nessun altro somigliante a un Milone di Crotone o a un Leonida di Rodi. E c' era pure stata, prima, l' ansia collettiva da malaugurio, il rigore di Cabrini tirato disperatamente fuori a metà del primo tempo. E la nuova prodezza di Paolo Rossi ribattezzato Pablito, l' eroe di quel «mundial» assurto a gloria come in un favoloso gioco di prestigio, destinato a diventare dopo quei giorni azzurri l' idolo dei bambini di tutto il mondo. Senza dimenticare il presidente più amato, Sandro Pertini, ieratico in tribuna mentre grida «non ce n' è per nessuno», pronto a riabbottonarsi subito la giacca, e a fare ricomparire la celebre pipa nel viaggio di ritorno con gli Azzurri, accanto a Bearzot e ai «vecchi» Zoff e Causio. Quanti ingredienti...E tuttavia non diventò la partita del secolo, mentre lo divenne una semifinale seguita da una disfatta con tanto di pomodori ad attendere a Roma il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, con due tempi supplementari giocati alla viva il parroco, e nessun simbolo delle nostre istituzioni a dare un senso solenne a quanto accadeva in campo. Perché? La risposta è appunto nello spirito del tempo e in quella irregolarità, a due passi dalla pazzia, che caratterizzò la partita. Come si cercherà poi di raccontare, quella notte fu infatti la notte delle prime volte . Che nessuno aveva preordinato. Fu certo la prima volta in cui l' Italia giocò in televisione a mezzanotte, nell' ora in cui i sogni si liberano e le convenzioni sociali si allentano. Con la fine dei supplementari che scoccò alle due, orario convenzionalmente impossibile per festeggiare e che invece scatenò una delle feste più spontanee e liberatorie e di massa di cui vi sia memoria. Fu la prima volta che un popolo intero, di tutte le classi e le età e le idee politiche, si diede spontaneamente convegno nelle piazze illuminate di ogni città italiana. Prima di allora non era mai successo, tanto che per circa mezz' ora, dopo le due, i tifosi vagarono quasi alla ricerca di un' idea su come potere sfogare la loro felicità. I clacson di passaggio verso il centro diedero la linea. Fu anche la prima volta delle donne. La metà del cielo fin lì tenuta fuori dagli stadi, tanto da far nascere sul tema anni prima una canzone di successo, quella notte sentì il brivido delle atmosfere domestiche, e più volte gioì abbracciata all' altra metà, come Rivera e Riva dopo il gol del 4-3. Fu ancora, senza ombra di dubbio, la prima volta del tricolore, per lunghi anni, soprattutto in quel periodo di contestazione, monopolio dei simpatizzanti dell' estrema destra. E invece i colori della bandiera si affacciarono progressivamente nella notte. Nessuno ne aveva esemplari in casa, nessuno si era preparato a venderne, sicché tutto venne fatto artificialmente con una camicia, uno spray, da issare sulle auto che ancora potevano circolare in piazza Duomo o piazza del Plebiscito. Anche se si ha un po' di pudore a dirlo, davvero la bandiera nazionale si liberò della crosta ideologica che la soffocava grazie a una vittoria in uno stadio lontano. Lì, precisamente lì, si aprì la strada su cui sarebbe arrivato, quasi trent' anni dopo, Carlo Azeglio Ciampi. Tante prime volte tutte insieme, dunque, concentrate in un pugno di ore notturne. Un' esperienza collettiva indimenticabile. Ma era anche stata la prima volta, e fu questo a sprigionare la magia, che l' Italia aveva giocato in attacco, senza cautele tattiche e con il cuore a mille. Perché, inutile negarlo e senza nulla togliere al gol iniziale di Roberto Boninsegna detto Bonimba, la vera partita furono i tempi supplementari. Gli italiani maledissero nei modi più rabbiosi e coloriti Karl-Heinz Schnellinger, il terzino tedesco del Milan che, ingrato verso il Paese che lo aveva reso ricco, aveva con la sua zampata al secondo minuto di recupero dato il pareggio alla grande Germania di Franz Beckenbauer. E invece a Schnellinger gli italiani avrebbero dovuto erigere un monumento. Perché fu lui a regalarci quell' incredibile mezz' ora di vita davanti al video. Dove ogni tattica saltò. E una virtù fra tutte si levò: la generosità nell' assalto alla baionetta, reso intrepido dall' aria rarefatta dei duemila metri dell' Azteca. Nel decennio precedente le squadre italiane avevano vinto ovunque grazie alla tattica del cosiddetto «catenaccio» e del contropiede. Erano l' Inter di Helenio Herrera e il Milan di Nereo Rocco. Ma la nazionale con quella tattica aveva sempre perso. Nemmeno ammessa ai Mondiali in Svezia, fuori subito in Cile, fuori subito indecorosamente in Inghilterra contro la Corea del dentista Pak Doo-ik. Aveva vinto gli europei del '68 grazie a un fortunato sorteggio nelle semifinali contro l' Unione Sovietica. La meraviglia di tutti fu vederla vincere di slancio e forza, e genio insieme, proprio contro la Germania, verso cui il popolo italiano sentiva un inconfessabile complesso di inferiorità. Era la Germania distrutta dalla guerra che, risorta miracolosamente a potenza economica, dava lavoro ai nostri braccianti. Come osservò Giuseppe Fava in un bellissimo reportage del '67, le strade di Palma di Montechiaro, provincia di Agrigento, si riempivano in estate di auto dalla targa tedesca, segno di un riscatto sociale raggiunto grazie alle industrie di Düsseldorf e Colonia. Mentre per anni erano state le ragazze tedesche (le «tedeschine») a fare impazzire sulle spiagge i nostri giovani, costretti ad aspettare il '68 per sapere qualcosa in più del libero amore. E proprio contro la Germania tutta disciplina e organizzazione l' Italia dimenticò quella notte, nel momento cruciale della sfida, la tattica che l' aveva resa famosa. Sembrò un suicidio. Già dall' inizio dei supplementari si capì che non c' erano più regole. Fabrizio Poletti, roccia granata, subentrato a Rosato per infortunio, appena entrato in campo fece quasi un autogol servendo un' assurda palla al pirata Müller a un metro dalla porta. Sembrava un sortilegio. L' Italia affondava per colpa dei terzini, dell' una e dell' altra parte. Commentò il telecronista Nando Martellini: «Tutto facile per la Germania adesso (), squadra demoralizzata ormai la nostra». E invece un altro terzino pareggiò per l' Italia, Tarcisio Burgnich, incredibile. E anche quella fu una prima volta. Perché se l' altro terzino, Giacinto Facchetti, di gol in carriera ne fece più di sessanta, Burgnich li faceva ogni morte di papa e in una partita ufficiale della nazionale non ne aveva mai segnati. Perciò fu ancora più bello. Chissà come si era trovato al centro dell' area tedesca, fatto sta che ci fece amare d' impeto quel nome, Tarcisio, che sapeva di Friuli e di civiltà contadina. Burgnich a fare il centravanti...C' era qualcosa di incredibile in quanto vedevamo, perfino l' estetica andava assumendo qualcosa di surreale. Beckenbauer con il braccio al collo che piombava sul pallone come una locomotiva; De Sisti, sempre ordinato ed elegante, che girava con i calzettoni alla cacaiola, come si diceva ai tempi, per significare che erano arrotolati alle caviglie; Domenghini con la maglia fuori dai pantaloncini che gli si allungava fino alle cosce. Finché in quel paesaggio da fumetti giunse il gol di Riva con un diagonale rasoterra di potenza irresistibile. Ma poi di nuovo tutto saltò. Perché la Germania pareggiò ancora e d' incanto vedemmo Rivera sulla linea della nostra porta, a difendere dietro Albertosi. E ci domandammo «che ci fa Rivera sulla linea di porta?». Nemmeno il tempo di chiedercelo e la palla colpita da Müller gli sfiorò letteralmente il fianco finendo indisturbata in rete, come se nemmeno lui fosse riuscito prendere sul serio quella posizione astrusa. Allora mandammo improperi a Rivera. E invece partì in fuga sulla sinistra Boninsegna. Secondo gli schemi regolari, lui era il goleador e Rivera il rifinitore. Ma di schemi non ce n' erano più. E dunque Boninsegna fece il rifinitore passando la palla al centro dell' area tedesca e Rivera fece il goleador quasi con passo di danza. Di qua il portiere di là la palla. E mentre l' Italia si abbracciava davanti ai televisori, con l' urlo «gol! gol!» che prorompeva moltiplicandosi dalle finestre aperte della notte estiva, vi fu l' abbraccio vittorioso tra i due GR, Gianni Rivera e Gigi Riva, che una splendida foto immortalò avvinti tra loro, inginocchiati sul prato. Sì, nel conto mettiamo dunque anche quella prima volta. La volta, cioè, che l' Italia degli Azzurri andò all' attacco e vinse, interpretando il sentimento di un' intera generazione, non solo studentesca, che un' utopia dopo l' altra si stava trasformando in un Icaro collettivo pronto a volare verso un paradiso irraggiungibile. Andare all' attacco per cambiare il mondo, per realizzare diritti, libero amore e giustizia sociale, dentro un grande disordine creativo; come quello che era andato in scena all' Azteca, in quei Mondiali da cui, come viene ricordato nel primo capitolo, il Sessantotto messicano venne tenuto fuori con la strage terribile della Piazza delle Tre Culture. L'immaginazione fa scherzi mancini, ma è bello pensare che lo spirito del tempo sia entrato comunque dentro quei Mondiali, almeno metaforicamente, grazie alla squadra italiana più pazza della storia. Già, lo spirito del tempo. Categoria hegeliana, leopardiana, per dire che probabilmente è stato questo a contare, insieme con le tante «prime volte», perché l' Italia-Germania del 4-3 si inchiodasse nella nostra memoria ben più dell' Italia-Germania del 3-1. Una partita che non incoronò nessuno, seguita come fu dal crollo contro il Brasile di Pelé, ma che fu più specchio dell' anima del Paese. L' Italia dell' 82 brancolava. Non ebbe il tempo di leccarsi le ferite del terrorismo che si trovò colpita al cuore dalla mafia, come i giornali dei mesi prima e dopo l' urlo di Tardelli raccontano restituendo al lettore l' aria di nuovo insanguinata. Lo stesso Pertini felice della tribuna sarebbe restato d' altronde, nella nostra memoria, come il presidente dei funerali pubblici degli uomini migliori della Repubblica. L' Italia del '70, che pure aveva alle spalle il 12 dicembre di Piazza Fontana, era invece il Paese della speranza, del protagonismo fiducioso della generazione del baby boom postbellico, era il Paese in cui i genitori con i calli sulle mani sognavano il figlio dottore. Diciamolo: era il Paese fatto, con fatica e dedizione, dalla generazione degli ottantenni contro cui cinquanta anni dopo si sarebbe accanito vigliaccamente il coronavirus di questo 2020. Quegli ottantenni inizialmente visti con sconcertante sollievo come le vittime sole e predilette del virus assassino videro nel 4-3 la conferma che con la loro fatica e i loro risparmi stavano costruendo una Italia orgogliosa e nuova, capace di trionfare nello sport più amato contro la nazione più forte. Proprio con quei nomi da albero degli zoccoli: Tarcisio e Giacinto, Angelo e Giovanni. E non c' è contrasto più straziante di quello che a questo punto si affaccia, come per legge di gravità, tra la straordinaria e quasi orgiastica festa di popolo, quella comunione felice del 1970, e il silenzio livido e solitario dei camion militari che portano via le bare delle vittime da Bergamo, sottraendole a ogni affetto possibile. E tuttavia, proprio di fronte alla tragedia nazionale improvvisa, quella partita resta, cinquant' anni dopo, una bandiera piantata nella storia del nostro Novecento. Simboleggia, con altri indimenticabili momenti delle istituzioni, della politica, della cultura, le vittorie raggiunte con le unghie e con i denti dal popolo italiano. Che sembrava schiavo senza speranza della ferocia nazista e se ne è liberato grazie a minoranze coraggiose; che sembrava destinato solo a emigrare e ha costruito una delle maggiori potenze economiche mondiali; che sembrava obbligato, come pure si scrisse, a convivere per sempre con il terrorismo, e di nuovo con minoranze coraggiose lo ha battuto; che sembrò in ginocchio contro Cosa Nostra e ancora grazie a importanti e coraggiose minoranze l' ha decapitata e indebolita. Per questo anche oggi quella partita può essere un emblema. Le perdite del 2020 non sono state e non saranno né poche né indolori. Ma l' Italia del 4-3 non è stata solo una squadra di calcio. E può tornare.

Dagospia l'8 giugno 2020. Da Un Giorno da Pecora. Sandro Mazzola e i 50 anni di Italia Germania 4-3, che ricorreranno il prossimo 17 giugno. Ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, il calciatore della nazionale, bandiera dell'Inter, ha ricordato ai conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari: “tutti pensavano che avremmo perso, ma ci fu qualcosa tra noi giocatori, un qualcosa che ci dava la consapevolezza di esser forti. Volevamo far vedere che gli italiani erano qualcosa di eccezionale. E ci riuscimmo”.

Cosa ricorda di quel giorno? “La faccia ed il fisico giocatori tedeschi non riuscivano a lasciare il campo, loro erano fortissimi, più forti di noi. Noi non potevamo crederci”. Quello fu il mondiale divenuto famoso per la staffetta Mazzola-Rivera. Perché non potevate giocare insieme, visto che eravate i più forti? “Perché gli italiani sono sempre speciali...si preferiva la questione tattica, nessuno dei due andava a marcare l'avversario”.

Cosa pensò quando vide l'errore di Rivera al 5° minuto del 2° tempo supplementare? “Che era un milanista”, ha detto ironico Mazzola a Un Giorno da Pecora, “Rivera però dimostrò di avere un grande carattere segnando un minuto dopo. Quello vuol dire che hai carattere e qualità”. Avrebbe preferito che il gol del 4-3 lo avesse segnato un altro? “No, chiunque andava bene”.

Oggi siete amici col 'Golden Boy'? “Oggi si, lo siamo. Ma allora...” Mazzola ha poi raccontato un aneddoto sulla creazione dell'Assocalciatori, che lo vide tra i fondatori. “Mi telefonò Andreotti per dirmi di non farlo, perché era qualcosa contro la Repubblica. Ma iniziò la telefonata dicendo che andava sempre a vedere le partite di mio papà...” Lei cosa gli rispose? “Che saremmo andati fino in fondo. E lui, alla fine, disse: “va bene”...”

Le verità di papà Mazzola giornalista. "L'Inter vicina e mio figlio campione". Valentino, mito del Toro, non fu ceduto perché i nerazzurri non avevano i 30 milioni per il cartellino. Quelle parole profetiche sul piccolo Sandro...Riccardo Signori, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. «Domenica prossima ci sarà Torino-Inter... l'Inter è la mia squadra preferita, beninteso dopo il Torino». Scriveva Valentino Mazzola. L'attesa di una partita come fosse oggi, anche se stavolta sarà lunedì ed è Inter-Torino. Inter-Torino fu anche l'ultima partita giocata in Italia dal fantastico capitano prima di morire in aereo. Ma qui siamo nel 1947, 7 dicembre. Valentino Mazzola ha cominciato una collaborazione, a sua firma a fondo articolo, con l'Europeo: una lenzuolata di giornale, non striminziti patinati come oggi. L'Europeo, allora diretto da Arrigo Benedetti, era un periodico che si occupava di cronache, fatti e misfatti. In aggiunta il supplemento sportivo. Mazzola racconta di intravedere il suo tramonto e dunque di pensare anche ad altro. Non si nega lo spot pubblicitario. «Ho deciso, soprattutto per l'avvenire dei miei due bambini, di iniziare un commercio di scarpe da calcio e palloni di marca Mazzola. E Parola, mio maggior concorrente in questo campo, verrà a comperare le mie perché saranno più a buon mercato». Oggi ci avrebbe aggiunto un emoticon sorridente. Ma in realtà il titolo dell'articolo, e il contenuto, ci riportano al calcio senza tempo: stessi temi, stessi problemi di oggi. «Solo nel sistema l'avvenire del calcio», annuncia il capitano del Torino che, ai tempi guadagnava centomila lire, il doppio dei compagni. Però, prima di addentrarci nella lucida analisi, ecco due chicche. Mazzola parla degli avversari: «Credo di essere uno dei giocatori più francobollati d'Italia: Marchi e Campedelli sono due grandi giocatori, ho avuto modo di sperimentare il blocco difensivo del Bologna: durissimo e pericoloso. Tra i compagni Maroso se si deciderà ad allungare il pallone con intelligenza ai suoi avanti». E d'improvviso compare la citazione di Sandrino, quasi lo pensasse difensore o fosse solo una battuta. «E poi mio figlio! Mio figlio Sandrino ha 5 anni ma sa toccare il pallone come un giocatore consumato. Credo sia nato col gioco del calcio nel sangue». Valentino ci aveva visto giusto, Sandro non è stato un difensore ma uno nato con il pallone nel sangue. Destinato pure lui a diventare uno dei giocatori più francobollati d'Italia e d'Europa. E chissà mai, il caso o il sesto senso, Mazzola si è poi messo a parlare di Torino-Inter e di quell'Inter. La consequenzialità tra l'opinione sul figlio e il discorso sull'Inter mette i brividi, avendo tra le mani la storia del calcio che è stato. Era destino... «Finalmente vedrò giocare Lorenzi (per Sandro fu un tutore calcistico, ndr) del quale tutti parlano e che non ho mai giudicato con i miei occhi. All'inizio stagione ho avuto parecchi scambi di lettere con Masseroni per il mio passaggio tra i neroazzurri. Credo che il prezzo della cessione si aggirasse sui 30 milioni, ma il presidente dell'Inter non poteva disporre di tale cifra dopo i milioni pagati per gli altri acquisti. Mi piace l'Inter perché ha nelle tradizioni bel gioco senza scorrettezze. Ma per ora penso solo al Torino e a vincere il quarto scudetto consecutivo, anche se sarà forse un'impresa più difficile della scorsa stagione». Che penseranno i tifosi dell'Inter? Mettere nell'album delle figurine di sempre Valentino Mazzola insieme a Meazza e Ronaldo: un trio di immortali del pallone. Massimo Moratti ci poteva aggiungere anche Messi, se avesse avuto più sprint decisionale. L'articolo vale il ricordo anche e solo per queste confessioni. Ma Valentino, allora 28enne, ci racconta dei tempi suoi e quasi par di essere nell'oggi. «In Italia il foot-ball (così allora si scriveva e diceva, ndr) è in un periodo di crisi dovuto a due ragioni. La maggior parte dei calciatori non prendono con sufficiente serietà l'allenamento. Bisogna saper fare sacrifici. Rebuffo, ex giocatore del Torino, che fu anche il mio miglior maestro, dice che hanno troppi vizi, non sanno cosa significhi la disciplina. Io da anni ho abbandonato vizi e divertimenti, non mi troverete mai a ballare nei locali notturni. Ho fatto togliere il telefono dal mio appartamento perché mi svegliavano di notte alla vigilia di ogni partita importante con telefonate di ogni genere. Alle dieci di sera sono sempre a letto. Curo il mio fisico secondo i sistemi che seguiva Monti, il famoso centromediano juventino. Mangio presto, sempre, non solo la domenica, perché è soltanto a stomaco vuoto e a digestione ben avvenuta che i polmoni possono assolvere bene la loro funzione». Aggiunge una riflessione molto personale. «E per questa mia vita da certosino ho sacrificato anche la felicità coniugale, perché mia moglie non si è assoggettata a condividerla con me». Infatti Mazzola, raccontano le cronache, aveva un altro legame sentimentale. Infine una spiegazione del titolo. «Il sistema rappresenterà l'avvenire del calcio, ma sistema significa precedere l'avversario e non interrompere la sua azione con spinte, colpi duri o illeciti. Ecco la seconda ragione della crisi che stiamo attraversando: non si bada più a fare del bel gioco ma si bada a vincere con tutti i mezzi. Il calcio è diventato una specie di caccia all'uomo, di picchi e ripicchi con relativo spezzettamento del gioco, infortuni anche gravi che ne seguono, mancanza di sicurezza da parte di tutti». Arrigo Sacchi sarebbe corso a stringergli la mano. Leggete qualcosa di diverso rispetto al calcio di oggi? E, in quella stagione, il Torino vinse il quarto scudetto consecutivo.

Trent'anni fa le notti magiche: 10 cose che non sai su Italia 90. L'Italia di Azeglio Vicini sfiorò la grande impresa e fece sognare milioni di tifosi con Totò Schillaci grande rivelazione per gli azzurri. Il Mondiale fu però vinto dalla Germania Ovest. Marco Gentile, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Trent'anni, sono quasi passati 30 anni dallo storico mondiale italiano nel 1990, quello che incoronò la Germania Ovest che ebbe la meglio sull'Argentina di Diego Armando Maradona. L'Italia di Azeglio Vicini fece sognare e non poco i tanti tifosi azzurri presenti sugli spalti dei dodici stadi che hanno ospitato la manifestazione e incollati davanti ai televisori. Purtroppo per quella talentuosa ed esperta nazionale il cammino si interruppe in semifinale dopo aver subito un solo gol in tutta la competizione e solo dopo la lotteria dei calci di rigore contro l'Argentina del Pibe de Oro Diego Armando Maradona.

I convocati per Italia 90

Portieri: Zenga, Pagliuca e Tacconi

Difensori: Baresi, Bergomi, Ferrara, Ferri, Maldini e Vierchowood

Centrocampisti: Ancelotti, Berti, De Agostini, De Napoli, Giannini, Donadoni, Mancini, Marocchi

Attaccanti: Baggio, Schillaci, Carnevale, Serena, Vialli

La formazione tipo dell'Italia:

Zenga, Baresi, Bergomi, De Agostini, Ferri, Maldini, Donadoni, Giannini, Baggio, Vialli, Schillaci

Ct: Azeglio Vicini

Il cammino degli azzurri. L'Italia di Azeglio Vicini fece sognare i tanti milioni di tifosi azzurri che hanno a lungo accarezzato il sogno di poter conquistare il quarto mondiale della storia della nazionale dopo quelli conquistati nel 1934, 1938 e 1982. Gli azzurri superarono agevolmente il girone A battendo nell'ordine Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia, tutte e tre le sfide si giocarono allo stadio Olimpico di Roma, segnando quattro reti e senza subirne alcuna. Mattatori di questi incontro Totò Schillaci con due reti (contro l'Austria e contro la Cecoslovacchia), Giuseppe Giannini in rete contro gli Usa e Roberto Baggio che chiuse la sfida contro i cechi, nell'ultima sfida del girone.

Il grande sogno. L'Italia approda dunque alla fase successiva da imbattuta e a punteggio pieno, senza subire gol e mostrando una forma fisica strepitosa e un entusiasmo alle stelle, spinti dal pubblico di casa. Gli ottavi di finale contro l'Uruguay rappresentano un ostacolo da non sottovalutare per gli azzurri che prendono seriamente la partita con Azeglio Vicini che ha un'illuminazione durante la partita: il ct, infatti, vedendo che la sua nazionale non riesce a sfondare inserisce l'ariete Aldo Serena che serve prima l'assist a Schillaci, che con un sinistro di rara potenza e precisione batte il portiere, e chiude poi la pratica con il suo primo gol nel mondiale con il suo marchio di fabbrica, il colpo di testa. Ai quarti di finale l'Italia affronta l'Eire che si era sbarazzato della Romania ai calci di rigore. Sulla carta la partita sembra scontata ma gli irlandesi vendono come al loro solita cara la pelle con la nazioale di Vicini che tira fuori il carattere e la grinta, oltre che le qualità tecniche: e chi poteva risolvere la partita se non Totò Schillaci? L'attaccante della Juventus fu il più lesto a colpire dopo una respinta del portiere avversario sul tiro di Roberto Donadoni da fuori area.

La grande amarezza. L'Italia stacca così il pass per la semifinale dove affronta l'Argentina che tra ottavi e quarti aveva fatto fuori prima i "cugini" del Brasile e poi la Jugoslavia. La sfida si disputò, forse volutamente, allo stadio San Paolo di Napoli contro l'Albiceleste dell'idolo locale per i tifosi partenopei Diego Armando Maradona. La partita fu dura ed equilibrata con gli azzurri che la sbloccarono nel primo tempo con il solito Schillaci ma che vennero poi ripresi nel secondo tempo dall'ex Atalanta Caniggia con un gol di testa sull'uscita dell'incerto e poi criticato Zenga. La battaglia si trascina fino ai tempi supplementari e poi ai calci di rigore, amari, amarissimi per l'Italia. Nella lotteria dei penalty, infatti, furono decisivi gli errori di Roberto Donadoni e Aldo Serena che sancirono l'eliminazione della nazionale di Vicini dalla manifestazione di casa.

La finale 3-4 posto. Nell'agrodolce finale per il 3-4 posto i ragazzi di Vicini tirarono fuori l'orgoglio battendo per 2-1 l'Inghilterra, sconfitta dalla Germania Ovest in semifinale, conquistando così il gradino più basso del podio. In rete sempre Schillaci che vinse anche la classifica dei cannonieri e Roberto Baggio che resero vano il pareggio siglato dall'inglese Platt.

Gli stadi e le polemiche. La competizione iniziò l'8 di giugno e terminò l'8 di luglio con la finale di Roma. Gli stadi impegnati per il mondiale italiano furono 12, con il San Nicola di Bari costruito appositamente per la manifestazione. Gli altri 11 furono: il Delle Alpi di Torino, lo stadio Giuseppe Meazza di Milano, il Luigi Ferraris di Genova, La Favorita di Palermo, il Bentegodi di Verona, il San Paolo di Napoli, il Friuli di Udine, il Dall'Ara di Bologna, il comunale di Firenze e il Sant'Elia di Cagliari e lo stadio Olimpico di Roma che ospitò la finale del mondiale Germania Ovest-Argentina e che ha visto l'Italia di Vicini protagonista per ben cinque partite (le tre della fase a gironi, ottavi e quarti di finale). Nel Bel Paese, però, divamparono le polemiche per i costi ingenti per l’organizzazione del mondiale. Solo per i dodici stadi vennero spesi 1.248 miliardi delle vecchie lire con la competizione che inghiottì 7.230 miliardi di lire: questa questione sollevò un mare di polemiche.

Le notti magiche azzurre. Una nazionale da sogno con l'inno cantato da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato "Notti magiche" a riecheggiare per tutta la durata del Mondiale. Quell'Italia era imbottita di talenti e di giocatori d'esperienza e tutto faceva pensare che si potesse vincere la competizione con la spinta del pubblico italiano che forse "tradì", un po' gli azzurri nella semifinale disputata a Napoli contro l'Argentina con il pubblico "diviso" tra la nazionale italiana e il tifo sfrenato per il Pibe de Oro, vero idolo di tutti i supporter azzurri.

La rivelazione del mondiale. Totò Schillaci fu il grande protagonista dell'Italia ma anche l'uomo copertina di quella edizione mondiale. Il 25enne di Palermo disputò il primo anno in Serie A con la maglia della Juventus segnando 21 reti in 50 presenze tra campionato e coppe europee. Alla sua prima esperienza con l'Italia risultò decisivo con ben sei reti al suo attivo che lo consacrarono capocannoniere del mondiale con una rete di vantaggio su Tomas Skuravy e due su quattro pezzi da novanta come Gary Lineker, Michel, Lotthar Matthaus e Roger Milla.

Gli altri gironi e i suoi protagonisti

Girone B Camerun 4, Argentina 3, Romania 3, Eliminata Unione Sovietica 2

Gli africani vinsero a sorpresa il girone davanti all'Argentina del Pibe de Oro con quattro punti e con uno scatenato Roger Milla capace a 38 anni di segnare 4 reti in tutta la competizione. L'ex attaccante di Saint-Etienne e Montpellier disputò anche Usa 94 alla veneranda età di 42 anni togliendosi anche lo sfizio di segnare.

Girone C: Brasile 6 e Costa Rica 4, Eliminate: Scozia 2 e Svezia 0

Il Brasile di Careca, come l'Italia, fece percorso netto in un girone semplice con la Costa Rica che arrivò però seconda battendo le due più quotate Scozia e Svezia che furono eliminate.

Girone D: Germania Ovest 5, Jugoslavia 4 e Colombia 3 Eliminata Emirati Arabi Uniti 0

La Germania Ovest di Matthaus, Voeller e Brehme vinse le prime due sfide contro Jugoslavia e Emirati Arabi Uniti. Nell'ultimo match contro la Colombia si fece pareggiare al 93' giungendo comunque prima con i sudamericani terzi e "ripescati".

Girone E: Spagna 5, Belgio 4, Uruguay 3, Eliminata Corea del Sud 0

La Spagna pareggia all'esordio contro l'Uruguay ma poi si scatena contro Corea del Sud e Belgio battute grazie a Michel, autore di quattro reti. I sudamericani giungono terzi ma accedono agli ottavi come una delle quattro migliori terze classificate.

Girone F: Inghilterra 4, Irlanda 3, Paesi Bassi 3 Eliminata Egitto 2

Girone equilibrato quello dell'Inghilterra che si qualifica al primo posto con quattro punti con una vittoria e due pareggi. Irlanda e Paesi Bassi con Gullit, Rijkaard e van Basten, staccano il pass per gli ottavi come seconda e terza con tre pareggi. Eliminato e beffato l'Egitto con 2 punti.

Le 4 migliori terze: Argentina, Colombia, Paesi Bassi e Uruguay ebbero la meglio sulle altre due terze classificate Scozia

La finale al veleno. Come detto l'atto finale vide affrontarsi la Germania Ovest e l'Argentina di Diego Armando Maradona. La sfida fu spigolosa, ruvida, equilibrata e decisa da un calcio di rigore assegnato all'85' dall'arbitro Mendez per un fallo, ingenuo, di Sensini su Voeller. Dal dischetto Brehme fece impazzire i tedeschi presenti sugli spalti dell'Olimpico e fece infuriare gli argentini che lamentavano un mancato penalty concesso poco prima per un fallo analogo subito da Dezotti che fu così espulso per le vibranti protest e con l'Albiceleste che rimase in 9 contro 11 dato che al 65' Monzón fu espulso per un duro intervento su Klinsmann. Dopo tanti minuti di attesa l'interista Andrea Brehme fu freddo a realizzare un gol che valse il titolo mondiale. Il terzino nerazzurro calciò il rigore nonostante il rigorista designato fosse Lothar Matthaus che di recente ha spiegato il perché non calciò lui il penalty "Lo tirò Brehme, scelsi io di non tirarlo perché avevo un problema allo scarpino, era rotto".

Maradona scatenato. Il pubblico italiano presente sugli spalti dell'Olimpico che si schierò palesemente in favore della Germania Ovest dato che l’Albiceleste eliminò tra le polemiche gli azzurri. Un Maradona visibilmente contrariato per questa cosa, durante gli inni nazionali, fu pizzicato dalle telecamere ad insultare i tanti tifosi italiani con un labiale eloquente: “Figli di p…”. 

Testo di Edoardo Bennato pubblicato da “Leggo” il 9 giugno 2020. La grande attesa e poi la delusione. Ma quella dei Mondiali del ‘90 era un’Italia da paradiso se confrontata con l’in