Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

QUINTA PARTE

 

 

  

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2020, consequenziale a quello del 2019. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE

PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un Giro di …Giostra.

Nudi e crudi.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

Coppie che scoppiano.

Le scazzottate dei divi.

Gli acciacchi della Star.

Hall of Fame 2020.

Cinema e Musica Italiana da Oscar.

Grande Fratello Vip, perché i Big si (s)vendono così?

AC/DC.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Chechik.

Adriana Volpe.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Agostina Belli.

Ai Weiwei.

Aida Yespica.

Al Bano.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Aldo Savoldello, in arte Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alex Britti.

Al Pacino.

Alena Seredova.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Cantini.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Mahmoud in arte Mahmood.

Alessandro Preziosi.

Alessia Marcuzzi.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amandha Fox.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sartoretti.

Andrea Vianello.

Andrew Garrido.

Andy Luotto.

Angelica Scent.

Annalisa.

Anna Galiena. 

Anna Pepe.

Anna Valle.

Anna Falchi.

Anne Moore.

Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonio Ricci.

Antonello Venditti.

Antonio Zequila.

Arisa.

Asa Akira.

Asia Argento.

Asia Gianese.

Asia Valente.

Asmik Grigorian.

Autumn Falls.

Baby Marylin.

Bar Refaeli.

Barbara Alberti.

Barbara Bouchet.

Barbara Costa.

Barbara De Rossi.

Barbara D'Urso.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta Porcaroli.

Benji & Fede.

Bianca Balti.

Bianca Guaccero.

Billie Eilish.

Billy Cobham.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brigitte Bardot.

Brigitte Nielsen.

Brunori Sas.

Bugo.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cameron Diaz.

Carla Bruni.

Carla Vistarini.

Carlo Conti.

Carlo Verdone.

Carol Alt.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina Collovati.

Caterina Guzzanti.

Caterina Piretti: Katiuscia.

Catherine Spaak.

Cécile de France.

Charlie Sheen.

Checco Zalone.

Chiara Ferragni e Fedez.

Chrissie Hynde.

Christian De Sica.

Claudia Gerini.

Claudia Galanti.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bergamin.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Clementino.

Clint Eastwood.

Cochi e Renato.

Costantino della Gherardesca.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Daisy Taylor.

Dalila Di Lazzaro.

Dana Vespoli.

Daniela Martani.

Daniela Rosati.

Danika e Steve Mori.

Danny D.

Dante Ferretti.

Dario Argento.

Dario Brunori.

David Guetta.

Davide Livermore.

Davide Mengacci.

Davide Parenti.

Demi Moore.

Diego Abatantuono.

Diego «Zoro» Bianchi.

Diletta Leotta.

Domiziana Giordano.

Donatella Rettore.

Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee.

Duffy.

Ed Sheeran.

Edoardo ed Eugenio Bennato.

Elena Sofia Ricci.

Elena Sonzogni.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Daniele.

Elettra Lamborghini.

Elio Germano.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stockholma.

Emma Marrone.

Emis Killa.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Nigiotti.

Enrico Remigio: il milionario.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Iacchetti.

Enzo Ghinazzi-Pupo.

Enzo Salvi.

Erjona Sulejmani.

Eros Ramazzotti.

Eva Henger.

Eva Robin’s – Roberto Coatti.

Evan Seinfeld.

Eveline Dellai.

Ezio Bosso.

Ezio Greggio.

Fabio Canino.

Fabio Rovazzi.

Fabio Volo.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fasma.

Fausto Leali.

Federico Buffa.

Federico Zampaglione.

Ferdinando Salzano.

Ficarra e Picone.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fiorello Catena.

Fiorello Rosario.

Flavio Briatore.

Francesca Brambilla: "Bonas".

Francesca Calissoni.

Francesca Cipriani.

Francesca Sofia Novello.

Francesco Baccini.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Nero.

Franco Simone.

Franco Trentalance.

Fred De Palma.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gegè Telesforo.

Gemma Galgani.

Gene Gnocchi.

Georgina Rodriguez.

Gerardina Trovato.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gialappa’s Band.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianfranco D' Angelo.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianluca Fubelli: in arte Scintilla.

Gianna Dior.

Gianna Nannini.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi Proietti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giobbe Covatta.

Giorgio J. Squarcia.

Giorgio Moroder.

Giorgio Panariello.

Giovanna Civitillo.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanna Ralli.

Giovanni Allevi.

Giovanni Benincasa.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Veronesi.

Giuliana De Sio.

Giulia Di Quilio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Cionfoli.

Giuseppe Povia.

Giuseppe Vetrano.

Gue Pequeno.

Gwyneth Paltrow.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hitomi Tanaka.

Hoara Borselli.

Ilona Staller, per tutti Cicciolina.

Imen Jane.

Imma Battaglia.

Ines Trocchia.

Irene Ferri.

Isabella De Bernardi.

Isabella Orsini.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivan Gonzalez.

 

TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo D’Emblema.

Jake Lloyd.

Jamie Lee Curtis.

Jane Birkin e Serge Gainsbourg.

Jason Momoa.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo, ovvero Eugenia Valentini.

Jim Carrey.

Joaquin Phoenix.

Joe Bastianich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Jon Bon Jovi.

Jonas Kaufmann.

Jordan Jeffrey Baby, ossia Jordan Tinti.

Julija Majarcuk.

Julio Iglesias.

Junior Cally.

Justin Bieber.

Justin Timberlake.

Justine Mattera.

Katia Follesa.

Katia Ricciarelli.

Keanu Reeves.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kristen Stewart.

Lacey Starr.

Lady Gaga.

Lando Buzzanca.

Laura Pausini.

Le Calippe: Debora Russo e Romina Olivi.

Le Donatella: Giulia e Silvia Provvedi.

Led Zeppelin.

Lele Mora.

Le Las Ketchup.

Le Lollipop.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Levante.

Liana Orfei.

Ligabue.

Liliana Fiorelli.

Lillo&Greg.

Lino Banfi.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Battistello.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lory Del Santo.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Bizzarri e Paolo Paolo Kessisoglu.

Luca Ferrero.

Luca Guadagnino.

Luciana Turina.

Luigi Calagna e Sofia Scalia: Me contro Te.

Luigi Mario Favoloso.

Luisa Ranieri.

Lulu Chu.

Luna Star.

Macauley Culkin.

Maccio Capatonda: Marcello Macchia.

Madonna.

Maitland Ward.

Malcolm McDowell.

Malena Mastromarino.

Manila Nazzaro.

Manlio Dovì.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marcia Sedoc.

Marco Bellocchio.

Marco Carta.

Marco Castoldi, in arte Morgan.

Marco Giallini.

Marco Giusti.

Marco Masini.

Marco Mazzoli.

Marco Milano.

Marco Predolin.

Margherita Sarfatti.

Maria Cristina Maccà: la Mariangela e Uga Fantozzi.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Teresa Ruta.

Marianna Pizzolato.

Mario Salieri.

Marilena Di Stilio.

Marina La Rosa.

Marina Mantero.

Marino Bartoletti.

Mario Biondi.

Marisa Bruni Tedeschi.

Marisa Laurito.

Marta Losito.

Martina Colombari.

Martina Smeraldi.

Mason.

Massimo Boldi.

Massimo Cannoletta de “L’Eredità”.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ghini.

Massimo Giletti.

Matilda De Angelis.

Matt Dillon.

Matthew McConaughey.

Maurizia Paradiso.

Maurizio Battista.

Maurizio Costanzo.

Maurizio Ferrini.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Felicitas.

Max Giusti.

Max Pezzali e gli 883.

Mel Gibson.

Mia Khalifa.

Mia Malkova.

Michael Stefano.

Michela Miti.

Michele Bravi.

Michele Cucuzza.

Michele Duilio Rinaldi.

Michele Mirabella.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosè.

Mika.

Mick Jagger.

Milly D’Abbraccio.

Milva.

Mina.

Mingo De Pasquale.

Mirko Scarcella.

Myss Keta.

Myrta Merlino.

Monica Bellucci.

Monica Leofreddi.

Monica Setta.

Monica Vitti.

Morena Capoccia.

Morgana Forcella.

Nadia Bengala.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Noemi Blonde.

Naomi Campbell.

Niccolò Fabi.

Nicola Di Bari.

Nicola Savino.

Nicole Grimaudo.

Nicoletta Mantovani.

Niko Pandetta.

Nicolò De Devitiis.

Nina Moric.

Ninetto Davoli.

Nino Formicola.

Nino Frassica.

Oasis. Liam e Noel Gallagher.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ottaviano Dell'Acqua.

Pamela Anderson.

Paola Barale.

Paola e Chiara.

Paola Ferrari.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino.

Paola Turci.

Paolina Saulino.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Conticini.

Paolo Jannacci.

Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo.

Paolo Sorrentino.

Paolo Virzì.

Pasquale Panella.

Patty Pravo: Nicoletta Strambelli.

Patrizia De Blanck.

Patrizia Mirigliani.

Patti Smith.

Paul McCartney.

Peppino Gagliardi.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Pif.

Pilar Fogliati.

Pino Donaggio.

Pino Scotto.

Pino Strabioli.

Pio e Amedeo. Pio d’Antini e Amedeo Grieco.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Placido Domingo.

Plinio Fernando.

Pooh.

Quentin Tarantino.

Raffaella Carrà.

Rancore.

Raoul Bova.

Red Ronnie.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Righeira.

Ringo.

Ringo Starr.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Pavone.

Rita Rusic.

Robert De Niro.

Roberta Beta.

Roberta Bruzzone.

Roberto Benigni.

Roberto Bolle.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocco Steele.

Rodrigo Alves, il "Ken Umano".

Rockets.

Rosanna Lambertucci.

Roy Paci.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvo Veneziano.

Samantha De Grenet.

Sandra Milo.

Sara Croce: "Bonas".

Sara Tommasi.

Sarah Slave.

Sean Connery.

Selena Gomez.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sergio Sylvestre.

Sergio Staino.

Sfera Ebbasta.

Shannen Doherty.

Shara: al secolo Sarah Ancarola.

Sharon Mitchell.

Sharon Stone.

Silvia Rocca.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O'Connor.

Skin.

Sofia Siena.

Sonia Bergamasco.

Sophie Turner.

Sylvie Lubamba.

Spice Girls.

Stefania Sandrelli.

Stefano Bollani.

Stefano Fresi.

Stella Usvardi: Kicca Martini.

Steve Holmes.

Susanna Messaggio.

Suzanne Somers.

Tazenda.

Taylor Mega.

Taylor Swift.

Tecla Insolia.

Teo Teocoli.

The Kolors.

Tinto Brass.

Tiromancino.

Tiziano Ferro.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Tommaso Zorzi.

Tony Binarelli.

Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli.

Tony Dallara.

Tony Sperandeo.

Tony Vilar.

Tosca Tiziana Donati.

Traci Lords.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ursula Andress.

Valentina Nappi.

Valentina Pegorer.

Valentina Sampaio.

Valentine Demy alias Marisa Parra.

Valeria Curtis.

Valeria Marini.

Vanessa Incontrada.

Vasco Rossi. 

Vera Gemma.

Verona van de Leur.

Veronica Maya.

Victor Quadrelli.

Victoria Cabello.

Vincenzo Mollica.

Viola Valentino.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Wanda Nara.

Willie Garson.

Wilma Goich ed Edoardo Vianello: I Vianella.

Zaawaadi.

Zucchero.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

70 anni di moda e glamour in mostra.

Sanremo 2020, le 10 canzoni più bizzarre mai presentate in gara.

I Comizi di Sanremo.

Sanremo in salsa Leopolda.

Finalmente Sanremo…oltre le polemiche.

Il Debutto.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

L’ultima Serata.

Pronti per Sanremo 2021.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le competizioni stravaganti.

Gli Spartani: i masochisti dello sport.

I Famelici.

Quelli che…Lottano.

Quelli che l’Atletica.

Quelli che…le Biciclette. 

Quelli che…il Calcio.

Quelli che…la Palla a Volo.

Quelli che…il Basket.

Quelli che…Il Rugby.

Quelli che…i Motori. 

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…le Lame.

Quelli che…sulla Neve.

Quelli che…il Biathlon.

Quelli che …in Acqua.

Quelli che…lo Skate.

 

 

 

 LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le competizioni stravaganti.

Jessica D' Ercole per “la Verità” il 9 maggio 2020. Giocare a calcio nel fango, correre con la moglie in spalla, afferrare uova al volo. Queste sono solo alcune delle competizioni più folli al mondo in cui atleti professionisti e amatoriali si sfidano ogni anno davanti a migliaia di spettatori che accorrono da ogni parte del globo. Alcune hanno origini antiche mentre altre, più recenti, sono solo frutto della fantasia, della curiosità o di qualche birra di troppo perché, come diceva Albert Einstein, «senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia». È così, per combattere la noia, che hanno preso vita discipline che monsieur De Coubertin, ideatore delle Olimpiadi moderne, non avrebbe mai immaginato. Il calcio moderno nacque ufficialmente il 26 ottobre del 1863, quando undici club di Londra si riunirono alla Freemason's tavern di Great Queen street per creare un unico regolamento. Nessuno di loro aveva previsto di giocare nel fango. A Hyrynsalmi, cittadina nel cuore della Finlandia, sì. La coppa del mondo di calcio nel fango si svolge ufficialmente dal 1998. L' idea venne dai sciatori di fondo che, in estate, al posto delle sconfinate distese di neve, si allenavano su vere e proprie paludi di fango. E quindi qualcuno ha pensato bene di tuffarcisi dentro per giocare una partita di pallone. Ogni match dura 24 minuti ed è diviso in due tempi. In campo scendono 6 calciatori per squadra, un portiere e 5 in movimento, senza limiti per la rosa né per le sostituzioni. Possono partecipare sia uomini che donne purché riescano a restare in piedi. Nel fango però non si gioca solo a pallone, ma ci si nuota pure. A Llanwrtyd, nel Galles, ogni anno si svolge la World bog snorkelling championship, il campionato del mondo di snorkeling nel pantano. L' idea venne a due impiegati di banca che nel pub del villaggio pensarono bene di fare una gara nelle acque fangose del canale Waen Rhydd. Non ci è dato sapere chi vinse all' epoca ma l' idea piacque così tanto da farla diventare tradizione. Oggi i partecipanti, armati di pinne, maschere e boccagli, devono nuotare per 110 metri nella melma. Con loro sanguisughe, scorpioni e topi d' acqua. Fortunatamente le acque sono così torbide che queste creature non si vedono ma, assicurano i campioni, si sentono. Per complicarsi ulteriormente la vita, la prima manche della competizione prevede anche una pedalata in sella a una bicicletta zavorrata. In pratica, fuori dal pantano, c' è solo la testa. A Llanwrtyd i frequentatori del pub hanno avuto più di un' ispirazione. Nel 1980 uno di loro sostenne che sulla lunga distanza l' uomo fosse più veloce di un cavallo. Ed ecco qui che da allora ogni anno decine di maratoneti sfidano mandrie di cavalli nella Man vs Horse. A dire la verità, in 40 anni, solo due uomini hanno avuto la meglio sugli equini: Huw Lobb nel 2004 e Florian Holzinger tre anni dopo. Tra le corse più strane al mondo c' è anche il Wife carrying championship, ovvero la corsa con la moglie in spalla di Sonkarjarvi (Finlandia). La tradizione risale al 1700, quando i banditi russi in cerca di soldi e cibo andavano a far razzia nei villaggi finlandesi ma, oltre a denari e provviste, spesso rubavano anche le mogli. Stufi di essere depredati i finlandesi decisero di andare oltre confine a riprendersele. Se le caricavano sulle spalle e scappavano per boschi, attraversavano guadi, superavano ostacoli di ogni sorta inseguiti dai russi. Ne è nata una competizione. Le mogli possono essere caricate a cavacecio - braccia e gambe di lei avvinghiate a collo e fianchi di lui -, con la presa del pompiere - la donna in orizzontale sulle spalle di lui con gambe e braccia incrociate attorno ai bicipiti di lui -, o con la monta estone - il corpo della donna scivola a testa in giù sulla schiena dell' uomo, le sue cosce si stringono intorno al collo di lui, i piedi si incrociano e le mani di lei afferrano le proprie gambe per evitare di cadere. La coppia dopo una breve corsa deve affrontare un guado e superare due ostacoli. Arriva primo chi compie il percorso in meno tempo. Il vincitore oltre a medaglia e gloria vince tanta birra quanto il peso della donna che, per partecipare, deve pesare almeno cinquanta chili. Tra le altre gare podistiche che farebbero impallidire i maratoneti più temerari, A tutta birra, la corsa che si svolge a nel parco Nord di Milano. Ogni quattro chilometri, per continuare la gara, il corridore deve tracannare una birra. Più tosta la Corri & salsiccia. Qui vince non solo chi corre più velocemente ma anche chi mangia e beve di più. Per ogni salsiccia, piatto di fagioli ingurgitati o birra tracannata il partecipante ottiene dieci minuti di bonus che vengono sottratti al tempo finale. Sembra più rilassante, ma non lo è, la Bed race, la corsa al letto. Ce ne sono varianti in diverse parti del mondo, ma quella ufficiale si corre a Knaresborough (Inghilterra). Un membro dell' equipaggio deve sdraiarsi su una sorta di barella modificata, con ruote e barre di protezione, e farsi trascinare a tutta velocità da altri quattro membri della squadra per le vie in discesa della città senza mai cappottarsi. A complicare la vita ai partecipanti, il fiume Ridd che va attraversato prima di tagliare il traguardo.

Il fiume è il protagonista anche della Carton & paper rapid race di Oulx (Torino). Per partecipare a questa gara strampalata bastano scotch, cartone e due ore di tempo. Tanto è concesso ai partecipanti per costruirsi una barca che arrivi al traguardo. La maggior parte degli equipaggi - da due a quattro persone - però cola a picco nel fiume Dora. Nel laghetto del palazzo reale di Ludwigsburg (Germania) in acqua non si calano barche di cartone bensì zucche giganti da 90 chili svuotate. La difficoltà più grande sta nel riuscire a non farle capovolgere. Una regata simile si svolge anche in Oregon (Usa) dove ogni anno va in scena la Annual west coast giant pumpkin regatta. Qui però le zucche pesano anche 400 chili. Sembra che a esportare questa disciplina in mezzo mondo siano stati gli irlandesi. Hanno antiche tradizioni i mondiali di lancio dell' uovo. Nel 1322, l' abate di Swanton (Inghilterra), per attirare i suoi fedeli in chiesa, offriva loro un uovo al termine della messa. Un giorno però il fiume Eau, che separava il villaggio dalla chiesa, era in piena. I monaci quindi si misero a lanciare le uova oltre il fiume e alcuni fedeli riuscirono a prenderle al volo. Da lì nacque il gioco che nel 2004 divenne un vero e proprio campionato mondiale. Oggi i monaci sono stati sostituiti da un trébuchet, una sorta di catapulta di legno. Lanciato l' uovo, il ricevitore deve afferrarlo al volo da una distanza di 15 metri e ottiene 3 punti se non lo rompe, 1 se lo rompe, nessuno se l' uovo finisce in terra. La gara si complica nelle altre 3 manche: 30 metri, distanza a caso, e 40 metri. Altra competizione dalle storiche radici è il campionato delle smorfie. A dare il via ai giochi, nel 1267, fu Enrico III e da allora a Egremont centinaia di partecipanti infilano la testa in un collare per cavalli e si cimentano in questa buffa arte.

Il migliore si aggiudica il primato di smorfia migliore dell' anno. Anche chi non sa fare nulla può vincere un campionato. Chi sogna di fare un concerto rock ma non sa suonare può sempre esibirsi sul palco dell' Air guitar world championship di Oulu (Finlandia). Lì non vince il miglior musicista bensì chi finge meglio di suonare una chitarra immaginaria.

Tra le altre gare dove per partecipare bisogna affidarsi solo alla fantasia anche l' Air sex championship. Si tratta di un campionato in cui uomini e donne, soli e completamente vestiti, devono fare sesso con un partner invisibile. L' idea venne nel 2006 al giapponese J-Taro Sugisaku e a un gruppo di suoi amici stufi di non avere la fidanzata, che decisero di lanciare una competizione per dare un premio a chi fingeva meglio di averne una. Oggi le gare di Air sex si svolgono in ogni parte del mondo, soprattutto negli Stati Uniti. Non fanno finta i partecipanti della Shin kicking championship, ovvero del campionato mondiale di calci negli stinchi. Questo sport, nato in Gran Bretagna nel XVII secolo, ha per scopo finale quello di atterrare i propri avversari, almeno due volte in tre round, prendendoli a pedate nella parte bassa delle gambe. Esistono anche vere e proprie leghe nazionali che obbligano gli atleti a indossare pantaloni imbottiti di paglia e scarpe morbide. In origine però i partecipanti usavano stivali di ferro.

·        Gli Spartani: i masochisti dello sport.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 7 gennaio 2020. Ti svegli la mattina presto. Ti fai settecento chilometri in macchina. Arrivi e ti arrampichi sui muri, strisci nel fango, corri con un tronco sulle spalle, immergi la testa nella melma, salti sui carboni ardenti. E tutto questo, pagando: 90 euro per l' iscrizione, 15 per il servizio fotografico, più benzina, abbigliamento tecnico, annessi e connessi. Dice: cosa sei, scemo? No, sono uno spartano. Era agosto. Parlando con degli amici scopro che esiste questa cosa, la Spartan race. È una corsa a ostacoli. Sono 5, 10 o 21 chilometri, a seconda della categoria in cui ci si vuole cimentare. Nel tragitto si incontrano 20 (25, 30) barriere o difficoltà da superare. A correre sono buoni tutti. Per scavallare gli ostacoli della Spartan ci vogliono tecnica, forza, resilienza. E un po' di culo, per evitare di farsi male. Gli spartani erano i coatti della Magna Grecia. Mentre ad Atene le fighette in vestaglia inventavano cose tipo la democrazia o la metafisica, a Sparta uomini ruvidi venivano addestrati alla guerra secondo la disciplina dell'agoghé. Una roba tipo bastone e carota, ma senza carota. Joe De Sena, americano di origini napoletane, puliva le piscine nel Queens, New York. Finché un giorno, l'illuminazione. Ha fatto suo il mito di Sparta e si è inventato questa corsa a ostacoli. Come? Facendo leva sul rifiuto dell' americano medio verso un destino già scritto. Essere un pappamolla. Con la panza, la birretta nella destra e il telecomando nella sinistra. De Sena ha offerto una possibilità di riscatto. Far sentire eroe per un giorno anche l' ultimo coglione. Sottoporlo alla pressione delle prove di forza e di coraggio, senza doversi arruolare nei Marines. Le Spartan Race sono antidepressivi naturali. Durante lo sforzo il corpo produce endorfine. Arrivare alla fine e beccarsi la medaglia, poi, dà un senso di potenza. E, ovviamente, crea un esercito di invasati. Dal 2010 De Sena ha organizzato 800 eventi in 42 Paesi. La Spartan Race è una Guantanamo dove le persone si offrono alle "sevizie" spontaneamente: «Il mio sogno», rivela il patron, «è mandarvi tutti a letto alle 8 di sera e svegliarvi la mattina alle 5, con i burpees». I burpees sono la penitenza che ti tocca se fallisci un ostacolo. In pratica, delle flessioni speciali. Ti stendi a terra e ti tiri su facendo pressione con le mani, poi scatti in piedi e fai un salto sul posto. Facile? Come no: tu ripeti l' esercizio 30 volte e poi vedi se non inizi a invocare la Beata Vergine più di Matteo Salvini....L' altra crociata del santone spartano è contro gli eccessi alimentari. «Il mio obiettivo», ha annunciato parlando con la rivista Forbes, «è cancellare il cibo spazzatura». La Spartan Race non è solo sport, è «una filosofia» che non si esaurisce con l' evento in sé.

«È un programma di allenamento e nutrizione». Lo stesso De Sena si vanta di aver redento numerosi panzoni. Il cinquantunenne pel di carota, ovunque vada, si porta sempre dietro un kettlebell (un peso a forma di campanaccio) da 44 chili. È una scommessa che ha vinto (o perso) con un suo cliente al quale ha fatto perdere 195 chilogrammi di trippa. E veniamo infine al sottoscritto. Sarò scemo, ma io questa cosa l' ho presa sul serio davvero. Ho riempito il modulo di iscrizione e ho pagato i miei 90 euro. Senza protestare. Poi mi sono chiuso in palestra 30 giorni per perfezionare la mia preparazione. Quattro sessioni settimanali, anche cinque. Allenamenti di 90 minuti in sala pesi più altri 35 di corsa sul tapis roulant. Obiettivo: sudare da ogni orifizio, abituare il fisico alla resistenza e al sacrificio. Contemporaneamente ho cominciato il Ramadan alimentare: cinquanta percento di carboidrati, 30 di proteine, 20 di grassi. In cucina sono diventato il Cannavacciulo del Biafra, lo chef della tristezza. Famosa (famosa tra chi mi percula) è la mia ricetta della "water pasta": mezze maniche integrali lessate nell' acqua portata a bollore. Condimenti: niente. Manco il sale (aumenta la ritenzione idrica). I miei patimenti alimentari comprendono l' eliminazione di pizza, dolci, fritti e altri alimenti ad alto contenuto calorico. Non tocco alcol. Fumo solo succedanei delle sigarette. Ovvio che questo stile di vita mi ha condotto alla emarginazione sociale. Ma pazienza. Il giorno della Spartan Race mi rendo conto che ho strafatto. Alla linea di partenza mi sento Rambo che sale sul 43 Express alle otto del mattino.

Con me c' è quasi tutta gente normale. Noto pancette e fianchi con accumuli di grasso. Li guardo con severità. Senonché al primo muro da scavalcare, sbaglio gamba di appoggio e resto appeso come un fesso, finché uno dei falsi magri che avevano attirato il mio biasimo non mi spinge il culo dall'altra parte. Grazie fratello spartano inquartato: perdono te e la tua dieta disordinata. Il resto della gara fila liscia. L'obiettivo era tornare a casa intero. Invece chiudo con un buon tempo (buono per un giornalista). Come "finisher" mi toccano medaglia, maglietta, due banane e un buono per la birra. Ma rifiuto il boccale sdegnato: «No grazie, mi si appanna l' addome». Non sono uno spartano. Sono un caso patologico. 

·        I Famelici.

La vera storia di Tonya: dalle violenze agli abusi sessuali. Ma spunta il mistero della gamba spezzata. Tonya è il film che racconta la biografia di Tonya Harding, famosissima pattinatrice statunitense che venne accusata di aver fatto spezzare una gamba a un'avversaria per poter vincere un titolo. Erika Pomella, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale.  Tonya, la pellicola in onda questa sera su Rai 3 alle 21.20, è un film biografico dai colori accesi e i toni a volte leggeri in cui l'attrice Margot Robbie interpreta Tonya Harding, una pattinatrice originaria di Portland che ha lasciato la sua impronta nel mondo della disciplina sportiva, tanto per le sue abilità tecniche quanto per un "incidente" che ha minato per sempre la sua possibilità di far carriera. Il film di Craig Gillespie è stato presentato in anteprima mondiale al Festival di Toronto, prima di passare anche alla Festa del Cinema di Roma. In entrambi i casi la proiezione di Tonya ha diviso un po' la critica: da una parte chi è rimasto folgorato da questo film fortemente pop e chi invece ha storto il naso davanti la leggerezza con cui si è trattata una vita tanto particolare come quella di Tonya Harding, culminata quando alla sua rivale vennero spezzate le gambe per non avere l'opportunità di competere.

"Kiss and Cry", la vera storia di Tonya Harding. Nel mondo del pattinaggio di figura esiste un'espressione specifica, Kiss and Cry, letteralmente bacia e piangi. Come ricorda il sito della Lucky Red, l'espressione indica quella zona a bordo pista in cui gli atleti, insieme ai loro allenatori, attendono il verdetto dei giudizi e, quindi, la votazione che determina la classifica. Il carattere della vera Harding lo si può intuire proprio dai Kiss and Cry, dal temperamento focoso con cui non riusciva ad accettare i voti che le venivano dati. Questo perché, come mostra il film Tonya, il basso punteggio non era mai determinato dalle capacità tecniche, ma dall'aspetto estetico. A lungo, infatti, Tonya Harding non ebbe i soldi per potersi permettere i costumi pieni di lustrini richiesti dalle gare. Era sua madre LaVona a realizzarli per lei, nei ritagli di tempo tra un turno e l'altro al lavoro. Questo faceva sì che nonostante la tecnica della pattinatrice fosse eccelsa, l'aspetto sciatto della sua figura veniva sempre punito. Sul rapporto con la madre si potrebbe facilmente intessere un ritratto di Tonya Harding. Se nella pellicola sua madre viene ritratta come una donna dittatoriale e quasi crudele, alcuni colleghi di Tonya e testimoni dei suoi allenamenti raccontano, secondo Movieplayer, che LaVona era in realtà una madre premurosa e sempre attenta ai bisogni e alla necessità della figlia. Ma è indubbio che Tonya Harding non abbia avuto una vita facile.

Gli abusi sessuali. In Tonya c'è una scena in cui la protagonista si deve scrollare di dosso il fratellastro, soprannominato Creepy Chris (inquietante Chris). Sebbene sembri una scena appena accennata, Tonya subì molestie da parte di Chris Davidson quando aveva appena quindici anni. Come raccontato da Vulture, Chris molestò in modo costante e persecutorio la sorellastra. Gli eventi, poi, raggiunsero il culmine la sera del primo appuntamento che Tonya avrebbe avuto con quello che poi sarebbe diventato il marito, Jeff Gillooly. Vedendola "tirata a lucido", Chris provò a baciarla, ma la ragazza si tirò indietro, minacciandolo con il ferro dei suoi pattini puntato contro la gola. Dopo la minaccia, la Harding corse di sopra e si chiuse in bagno, ma il fratello la raggiunse e riuscì a buttare giù la porta. Solo per una mera questione di fortuna, Tonya riuscì a sgusciare via dalla sua presa e avere l'occasione di chiamare la polizia che lo arrestò quella stessa notte.

Jeff Gillooly le salva e distrugge la vita. Abbandonata dal padre e costretta a subire le molestie del fratellastro, non sorprende che Tonya approfittò della prima occasione libera per lasciare la casa di Portland in cui era cresciuta e cercare di farsi una vita. È a questo punto della sua storia che entra in scena Jeff Gillooly, quello che sarebbe diventato suo marito. I due, infatti, convolarono a giuste nozze poco tempo dopo essersi conosciute. Tonya ardeva così tanto dal desiderio di lasciarsi alle spalle le macerie della sua famiglia, che sposò il primo uomo che le dimostrò un po' di affetto. Ma la pattinatrice non poteva sapere che, in realtà, era proverbialmente caduta dalla padella alla brace: nonostante i modi da uomo innamorato, Gillooly si rivelò un uomo possessivo e violento, che aveva l'abitudine di picchiare la moglie. Nel libro autobiografico The Tonya Tapes, la pattinatrice racconta di come il marito si fosse introdotto nel suo appartamento dopo che si erano separati, obbligandola ad avere una conversazione. La Harding provò a buttarlo fuori, senza tuttavia avere successo. Quello accadde, secondo la pattinatrice, è che l'uomo minacciò di spararle e di uccidersi. A quel punto Tonya decise di uscire di casa: Gillooly, sempre secondo la versione della Harding riportata da Vulture, sparò nella sua direzione. Il proiettile colpì l'asfalto che si ruppe in una serie di frammenti, molti dei quali colpirono la donna in faccia.

Tonya Harding e l'aggressione di Nancy Kerrigan. Il 6 gennaio 1994, durante una sessione di allenamento per le qualificazioni ai campionati nazionali, la pattinatrice Nancy Kerrigan, che era in lizza per la vittoria, venne colpita all'improvviso da uno sconosciuto che le spezzò una gamba colpendola ripetutamente con una sbarra sul ginocchio destro, mettendola fuori gioco. Naturalmente la ragazza non poté partecipare alla gara, che venne vinta proprio da Tonya Harding. La donna, però, non poté festeggiare a lungo il suo primato e la vittoria. Venne immediatamente accusata di aver assoldato, insieme a Jeff Gillooly, un uomo affinché impedisse a Kerrigan di concorrere per il titolo. Il processo a cui la Harding venne sottoposta minò la sua reputazione, la sua credibilità e, soprattutto, la costrinse ad abbandonare il pattinaggio per sempre. Sebbene lei abbia sempre negato di aver avuto un ruolo nell'aggressione, i sospetti intorno a lei non sono mai spariti. La vicenda di Tonya Harding negli Stati Uniti è così nota che nel 2007, durante la campagna per la presidenza, Barack Obama usò la frase: "Fare un Tonya Harding". Il senso della frase era, per citare Lucky Red, "segare le gambe all'avversario". Intervistata riguardo al fatto, Tonya Harding dimostrò di non aver apprezzato affatto la battuta e di averla trovata fuori luogo e mise in dubbio le priorità di quello che poi sarebbe diventato il presidente degli Stati Uniti d'America. Ma alla fine, con un cinismo e un pragmatismo che fecero sorridere l'intervistatore, Tonya Harding concluse: "Tutta la pubblicità è comunque buona pubblicità".

Mattia Feltri per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Nel tennis esiste una regola secondo la quale chi fa uso improprio della racchetta, della pallina o di altri oggetti, e in conseguenza del gesto fa male a qualcuno, viene squalificato dal torneo. La regola non è interpretabile, dunque è drastica, perché poggia su un postulato indiscutibile fra adulti: se lanci la racchetta significa che non sei padrone di te stesso e non sei in grado di controllare gli effetti delle tue azioni. L'altra sera il numero uno della classifica mondiale, Nole Djokovic, ha perduto un punto importante e ha reagito con un piccolo scatto d'ira: ha spedito la palla in direzione del vuoto, e nel vuoto c'era la giudice di linea. Djokovic ha subito compreso d' averla combinata grossa: per l' assenza dei suoi epici rivali, Roger Federer e Rafa Nadal, gli Us Open avevano un solo favorito, lui. È corso dalla donna, si è preoccupato delle condizioni, le ha chiesto scusa. Agli arbitri non è rimasto che comunicargli la sanzione. Per capire il tentativo di difesa di Djokovic, si è dovuto leggergli il labiale, poiché il tono di voce era molto basso. Sosteneva la casualità dell'incidente, e gli arbitri replicavano sull' inconsistenza dell'attenuante, secondo la legge. Sembrava un dibattito fra aristocratici del Settecento, se il tè sia meglio col latte o col limone. Infine Djokovic si è arreso, ha ammesso la sciocchezza e ne ha accettato la pena senza protestare, ha stretto la mano all' avversario (rimasto zitto al suo angolo) e se n' è andato dal campo: lui ne è uscito bene e si è preservato il buon nome del torneo e del tennis. Tranquilli, non fate quella faccia: al volante, sui social e in politica, vale ancora il randello.

Stefano Semeraro per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Tutti amano Roger Federer, molti ammirano Rafa Nadal. Nessuno capisce - davvero - Novak Djokovic. L' uomo che ha voluto farsi re, e ci è riuscito, ma che fatica a farsi amare. E che in questo 2020 pazzo per chiunque e schizofrenico per lui - tutte luci in campo, solo ombre fuori - a New York è sceso all' inferno. Dei social, ma non solo. Una pallata involontaria, ma diretta alla gola di una giudice di sedia, l' umiliazione della cacciata, la fuga dal torneo senza parlare con la stampa. Da Numero 1 a Nemico pubblico numero 1. Dice John McEnroe, capitano emerito dei Maledetti: «Che gli piaccia o no, ora Novak resterà il cattivo per il resto della carriera. Sarà interessante vedere come gestirà la faccenda». Piatti: «Si è reso conto» L' anno nero del Djoker è iniziato con lo scoppio della pandemia: le dichiarazioni da no-vax, poi l' Adria Tour, esibizione senza legge trasformata in un focolaio di contagi, compreso il suo. E a New York, prima dell' inizio degli Us Open, l' attacco frontale al palazzo d' inverno del tennis, la rottura diplomatica con i finti amici Federer e Nadal arrivata con la creazione del nuovo sindacato. Novak Masaniello contro l' imborghesito duo dei miliardari: peccato che di guerre fra sportivi, nell' anno della pandemia, non si sentisse il bisogno. Imbattuto in campo, 23 vittorie consecutive da gennaio all' altro ieri, Novak non ne ha azzeccata una fuori. «Secondo me ha il malocchio», scherza il suo ex coach Riccardo Piatti. «Certo, quella palla non doveva tirarla. Ma lui è così. Sembra infallibile, invece sbaglia: come tutti. Solo che pensa di avere sempre ragione. Ha un solo obiettivo, vincere, e per inseguirlo combina qualche fesseria. Stavolta si è reso conto di aver sbagliato. Piangerà un po', poi via, riprenderà come prima». Su Instagram Novak il superbo si è cosparso di cenere il capo. «L' intera situazione mi ha lasciato vuoto e triste. Sono estremamente dispiaciuto di aver causato tanti stress. Così involontario. Così sbagliato. Dovrò trasformare il mio dispiacere in una lezione per la mia crescita sia come giocatore sia come essere umano. Mi scuso con tutti». Il pasticcio lo aveva sfiorato altre volte, spaccando racchette, violentando palline; stavolta ha avuto più sfortuna del solito. Ma è giusto chiamarla così? «Djokovic gioca bene quando è emotivo, ma se lo è troppo va fuori giri», dice un altro suo amico e coach, Boris Becker. «So che ai giornalisti piace più Federer, ma ora non tirategli troppo addosso». Suggerimento azzeccato, Boris.

Ma vale per tutti.

Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 14 settembre 2020.

Fabio, quante volte?

«Quante volte cosa?».

Quante volte ha frantumato la racchetta per terra?

«Mai abbastanza».

Fabio Fognini da Arma di Taggia, professione tennista, 33 anni, il braccio destro più veloce a ovest del torrente Argentina, non è cattivo. È che lo disegnano così. Sebbene in campo, in quasi vent' anni di carriera da professionista, abbia lasciato più cuori (la sua generosità, soprattutto con la maglia azzurra, è leggendaria) che sfuriate (un paio, però, sono rimaste proverbiali), ai posteri è passata la narrazione di un giocatore irascibile tanto quanto talentuoso, in grado di strapazzare tre volte in una stagione (2015) quel satanasso di Rafa Nadal e di dare dello zingaro al rivale serbo Krajinovic («Quando perdo la calma la bocca comincia a muoversi da sola, ma poi mi sono scusato»), di battere Andy Murray a Napoli regalando la semifinale di Coppa Davis all' Italia («La partita più bella della mia vita») e di ricoprire di insulti la giudice di sedia a New York, fino a meritarsi la squalifica dall' Open degli Stati Uniti, roba che nemmeno John McEnroe. Per spiegarci che in circolazione ci sono due Fognini, e che quello fumantino capace l' anno scorso di annettersi il torneo di Montecarlo convive serenamente con quel tenerone del marito di Flavia Pennetta, papà di Federico e Farah, Fabio da martedì manda in libreria una biografia: «Warning, la mia vita tra le righe». Con la stampa ha sempre avuto un rapporto contraddittorio ma in 225 pagine, dalla nascita all' ospedale di Sanremo («Della mia terra mi porto dietro tutto, incluso l' amore per Fabrizio De Andrè») alla recente operazione alle caviglie che non lo fa partire di certo favorito agli Internazionali d' Italia posticipati dalla pandemia, al via oggi al Foro Italico, riesce a raccontarsi con calma, prendendo fiato tra gli scambi. Ne esce il ritratto di un ligure a volte ruvido però schietto, un pesto che sa di basilico buono e si ripropone solo quando gli scappa la mano ed esagera con l' aglio.

Un libro, Fognini: esigenza o sfizio?

«Né l' uno né l' altro. Ho 33 anni, gioco a tennis da quando ero in terza media, sono padre due volte: mi sembrava il momento giusto. Ho provato a raccontarmi come la gente non mi conosce, a spiegarmi come mai avevo fatto».

E come non la conosciamo, Fabio?

«Non sono diverso dagli altri, né migliore né peggiore. In ognuno ci sono due facce, nel bene e nel male. Certo io ho gli occhi più puntati addosso, per il mestiere che faccio, ma quando appenderò la racchetta al chiodo potrò dire di essere stato Fabio Fognini sotto tutti i punti di vista. Gli errori fanno parte della crescita: non me ne vanto, non ne vado fiero. E quando ho sbagliato ne ho sempre pagate le conseguenze. Mai avuto sconti in vita mia».

Ha sofferto per essere stato incompreso?

«Mi hanno giudicato per la persona che sono in campo. Ma c' è di più. E sono sempre stato me stesso, cosa che molti campioni di fama trasformati in peggio dal successo e dai soldi non possono dire. Sono triste per loro».

Ha voglia di fare qualche nome?

«No».

Maria Sharapova sosteneva che il rivale va odiato e che, di conseguenza, le amicizie nel tennis non sono possibili.

«Il mio migliore amico è Simone Bolelli, tennista come me, un fratellone maggiore. Siamo cresciuti insieme, in doppio abbiamo vinto un titolo Slam in Australia. Nel tennis, è l' unico. Gli altri amici sono di Arma o di famiglia: Giuseppe, il marito di mia sorella Fulvia, e Maurizio, il marito di mia cugina Fabiana».

Novak Djokovic non è un amico?

«Lo conosco molto bene, lui è uno di quelli che non sono mai cambiati».

Per vincere devi per forza essere egoista?

«Sì ma per un tempo limitato. Mi spiego: quando io gioco contro di te non siamo amici, ma se poi vogliamo andare a bere una birra, io ci sto. Quello che succede in campo, finisce lì. Ecco perché dopo ogni multa o incidente di percorso sono sempre ripartito».

Ha mai detestato il tennis, come Agassi?

«Al tennis sarò sempre grato: per me è la vita. Certo ci sono stati periodi in cui non si è fatto voler bene. Nel 2019, ad esempio, prima di vincere il Master 1000 di Montecarlo, ero incavolato con il mondo: spaccavo due racchette a allenamento, vedevo tutto nero, ero frustrato. Lì è stata brava Flavia a sopportarmi: una moglie che non avesse fatto la tennista, mi avrebbe piantato. Ma non ho mai pensato di smettere, nemmeno nei momenti più bui».

Ecco, parliamo del buio. Quando cala, con quale intensità, scatenato da cosa?

«Non so neanche io perché mi succedono certe cose. Pure Flavia mi dice che non capisce: è come se in campo a volte Fabio smettesse di esistere e al suo posto arrivasse all' improvviso un altro tizio totalmente fuori controllo. Un nemico che mi porto dentro e che a volte non riesco a trattenere».

L' ha fatta più maturare il matrimonio o la paternità?

«Due momenti diversi, ma connessi. Flavia comprende le mie ombre, senza il suo appoggio non so dove sarei. Federico e Farah mi hanno reso meno menefreghista e più attento ai piccoli dettagli delle cose».

Fognini con un' altra testa avrebbe vinto molto di più di 9 titoli Atp: verità o stereotipo?

«È tutta la vita che me lo sento ripetere, mi sono anche stufato. A me va bene così: sono entrato nei top-10 del ranking restando fedele a me stesso. Diventare come mi vogliono gli altri mi farebbe stare male».

Chi le somiglia di più, Federico o Farah?

«Fede è il mio ritratto: cammina con la pancia in fuori e i piedi a papera! La bimba ha 9 mesi, è presto per dirlo. Maschio e femmina, la famiglia perfetta... Sono un uomo fortunato: nel privato non mi manca proprio nulla».

E nello sport quale riconoscimento le manca, Fabio?

«Vado avanti finché mi sento competitivo. L' operazione alle caviglie l' ho fatta proprio per allungarmi la carriera di qualche anno. Ora, dopo sei mesi che non giocavo a tennis, mi fa male tutto! Non mi vedo da numero 80-90 del mondo a remare nei challenger per risalire la classifica. Sono n.12, vorrei togliermi ancora qualche sfizio: un altro Master 1000, magari Roma, se poi è uno Slam meglio».

Nessun rimpianto di non aver fatto il calciatore, magari dell' Inter, come sognava suo padre?

«Vicino a casa nostra, ad Arma, vivevano i Dellacasa: lui era il massaggiatore ufficiale dell' Inter ed era cliente al ferramenta di mio papà, che è anche un buon amico di Altobelli, tanto che nell' 82 l' aveva invitato a seguire la Nazionale in Spagna per i Mondiali. Tutti i miei idoli di bambino sono calciatori: Materazzi il ribelle, Zamorano il guerriero. Con mio padre andavamo alla Pinetina a vedere gli allenamenti. Ma quando a 13 anni mi sono trovato davanti al bivio, non ho esitato: nel tennis sei solo, tuo il merito, tua la colpa. Non ci sono giustificazioni. È così che funziona».

Come si immagina l' ultimo match?

«Davanti alla mia famiglia, con i miei figli che vedono il papà che finisce il suo lavoro».

E poi?

«Se ne parlava con Flavia durante il lockdown, un periodo che ci ha costretti a riflettere. Ad allenare non ci penso proprio. Una scuola tennis con il mio nome non mi interessa. Mi vedo più titolare di una società di scouting, come Francesco Totti nel calcio, con sede a Milano. L' occhio per il talento tennistico ce l' ho. È un' idea che mi intriga».

Alla fine, Fabio, dopo tutti questi anni cosa non abbiamo ancora capito di lei?

«Che, vi piaccia o no, siamo tutti un po' Fognini. Rassegnatevi».

Matteo Basile per Il Giornale il 7 settembre 2020. Siamo abituati a vederli come super atleti, imperturbabili, quasi indistruttibili. Invece spesso si rompe qualcosa anche nei fenomeni dello sport. Dal calcio, al ciclismo, al tennis. Fragilità, disturbi, crisi, problemi emotivi, veri e propri blocchi sono all'ordine del giorno. Altro che supereroi. «È un'immagine mediatica, in realtà lo sportivo deve avere un equilibrio psicologico importante ma è soggetto alle stesse debolezze di una persona qualsiasi», spiega il professor Daniele Popolizio, psicologo, specialista mental coach, psicoterapeuta e presidente gruppo Cenpis.

Ieri è tornato a Bergamo Ilicic dopo la depressione che lo ha colpito e fatto fermare. Ma cosa può essergli successo?

«Quando si arriva a quel punto c'è qualcosa che è stato sottovalutato. Per intervenire in un caso di depressione serve lo specialista, uno psicoterapeuta, non va improvvisato nulla. E mi auguro non abbia utilizzato supporti di tipo farmacologico, sarebbe sbagliatissimo».

Come ne può uscirne ora?

«Psicoterapia. Con un lavoro ben fatto nel giro di qualche mese si risolve. Poi dopo la fase critica serve un mental coach per accompagnarlo».

Potrà tornare quello di prima?

«Certo, è un malessere che si risolve. L'importante è intervenire per tempo e per bene. Ci sono tanti casi che abbiamo trattato, se non risolve è perché non si cura in maniera adeguata o si minimizza. Bisogna andare a fondo a questo tipo di disagi».

L'altro giorno al Tour si è bloccato Fabio Aru. Ha detto non so cosa mi stia succedendo.

«Nel suo caso probabile abbia preso una parabola discendente e forse non si è guardato dentro per chiedersi se abbia ancora forza e voglia di competere ad alti livelli. Non è facile ammetterlo a se stessi».

Sempre l'altro ieri Djokovic ha tirato una pallata a un giudice.

«Ha avuto uno scatto. Un atteggiamento da super ego più che da follia. Non credo volesse colpirlo comunque una perdita di controllo non normale».

Quanto può aver influito il lockdown nelle fragilità mentali degli atleti?

«Tantissimo. Gli sportivi hanno perso i loro punti di riferimento. E non avendo più lo sport come elemento centrale della vita hanno cominciato a relativizzare quello che fanno, un po' come uscire da una bolla. Cambia di colpo la scala valoriale e dal punto di vista della prestazione è una distrazione».

Qualche esempio?

«Messi. Non mi sembra abbia gestito la sua situazione in maniera normale. Ha avuto una lettura distorta della realtà, un comportamento un po' disturbato. Infatti ha fatto marcia indietro».

Ha notato situazioni particolari anche da noi?

«Bonucci si è detto emozionato per la gara con la Bosnia. Gli credo ma per uno con la sua esperienza denota uno spostamento delle costellazioni mentali di riferimento».

Ma al giorno d'oggi conta la testa in un atleta di primo livello?

«L'80, 90%. Vince quello più solido e più pronto mentalmente, soprattutto nei momenti decisivi».

Maria Strada per corriere.it il 17 settembre 2020. Mike Tyson contro un gorilla? Quasi. Nel lontano 1989 l’ex campione del mondo volle regalare una serata romantica a Robin Givens, allora sua moglie. E una sera, fuori orario, prenotò un intero zoo per una visita privata. Arrivati alla gabbia dei gorilla, ha raccontato di recente il pugile, in attesa di tornare sul ring a novembre (a 54 anni) per un incontro con Roy Jones Jr., videro che il più massiccio degli animali «un grosso maschio, stava sottomettendo tutti gli altri». Ventitreenne, all’epoca detentore del titolo Wba dei pesi massimi, decise di intervenire: «Erano così potenti ma i loro occhi erano come un bambino innocente - ha spiegato Tyson - Allora ho offerto al guardiano 10.000 dollari per aprire la gabbia e permettermi di spaccare il muso di quel gorilla. Ha rifiutato». In passato Tyson ha anche convissuto con diversi animali selvatici, e in particolare delle tigri (tre animali provenienti dal Bengala, tutti dati via. In particolare l’amata Kenya, che era vissuta con lui fin da cucciolina, pagata circa 64.000 euro, ma che «strappò il braccio a uno», anche perché il pugile aveva l’abitudine - come raccontò un suo amico, Jeff Fenech - di chiudere i visitatori nella gabbia con gli animali: «Anche se non ci sono tante cose che mi fanno paura, diciamo che, quando sono uscito dalla gabbia, mi sono dovuto cambiare le mutande…». Tyson aveva anche un puma, oltre a degli animali domestici considerati «più normali» come dei cani o dei piccioni. Più recentemente, in allenamento, Tyson, è apparso nel programma Week of the Shark di Discovery Channel. Nei video pubblicati su Twitter si vede la sfida del campione che, accompagnato da un paio di istruttori, si è tuffato in mare circondato dagli squali riuscendo anche a immobilizzarne uno. Chissà se le sue imprese con gli animali entreranno a far parte del film che Martin Scorsese sta girando, con Jamie Foxx nei panni del protagonista.

Da Tyson a Suarez, i morsi che hanno fatto la storia dello sport. Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Il mondo dello sport è pieno di gesti folli passati alla storia. Il morso di Luis Suarez a Giorgio Chiellini al Mondiale in Brasile del 2014 oggi è solo un lontano ricordo di una spedizione sfortunata e che costò all'uruguaiano 4 mesi di squalifica. Ma non è un episodio isolato. Come dimenticare quello più famoso e, forse, anche il più violento, quello di Mike Tyson nei confronti di Evander Holyfield del 28 giugno del 1997 durante un incontro a Las Vegas per l'assegnazione del titolo dei pesi massimi Wba. Quel giorno "Iron Mike" strappo il lobo dell'orecchio sinistro del suo avversario per poi sputarlo sul ring. Match sospeso per qualche minuto, poi quando riprese Tyson ci riprovò e venne squalificato. Nel 2006 in Premier League Jermaine Defoe del Tottenham prese a morsi sulla spalla Javier Mascherano, all'epoca al West Ham. Nel 2012 in Corinthians-Boca Juniors Emerson Sheik scagliò la propria frustrazione contro Matias Caruzzo. Nel 2014 nella nostra serie B il "barese" Enis Nadarevic morsicò sulla coscia Diego Falcinelli, giocatore del Lanciano. Dal calcio agli altri sport, perché anche la Nba non è immune da questo genere di episodi. Nel 1983 nella sfida playoff tra i Boston Celtics e gli Atlanta Hawks, Wayne Rollins "azzannò" l'avversario Danny Ainge durante una rissa in campo. Nel 2002 nel campionato di rugby australiano, Peter Filandia addentò il pene di un avversario, Chad Davis. Nel 2011 nell'Hockey sul ghiaccio, nel corso della finale di Stanley Cup, Mikhail Grabovski dei Toronto Maple Leafs morse Max Pacioretty dei Montreal Canadiens. Anche le Olimpiadi hanno visto scene simili. Ne 2012 a Londra, in un match di Judo, categoria <100 Kg, il cubano Despaigne morse l'uzbeko Sayidov.

Da blitzquotidiano.it il 13 novembre 2020. Ancora conati di vomito in campo per Leo Messi, questa volta prima della partita tra la sua Argentina e il Paraguay. Il campione argentino Leo Messi sembra non aver superato ancora i problemi di conati di vomito durante le partite. Era già successo tante altre volte con il Barcellona. Questa volta invece è accaduto due volte durante Argentina-Paraguay. Messi prima ha avuto dei conati di vomito durante l’inno nazionale, poi anche un’altra volta in campo durante la partita. Le telecamere argentine hanno ripreso tutto. In Argentina, già da tempo, hanno individuato il problema che porta Messi ad avere spesso conati di vomito in campo. Si tratta di rinosinusite cronica, una malattia che aumenta la produzione di muco e rende difficile espellerlo dal corpo soprattutto durante l’attività fisica, sotto sforzo. Da anni, ormai, Messi segue un piano alimentare creato su misura per lui da un nutrizionista italiano, che l’ha messo al riparo da ogni disagio di natura gastroalimentare.

La partita tra Argentina e Paraguay. Alla Bombonera finisce 1-1 tra Argentina e Paraguay, sfida valida per la terza giornata di qualificazioni mondiali, ma a Messi e compagnia resta l’amaro in bocca per una prestazione nervosa segnata dal gioco duro e da alcune discutibili decisioni arbitrali. Su tutte, il gol vittoria annullato alla Pulce dopo l’intervento del Var. Poi il duro fallo di Romero che ha mandato in ospedale Palacios e un rigore non concesso per fallo su Messi. (Fonte YouTube).

Francesco Piccolo per La Lettura – il Corriere della Sera il 2 settembre 2020. Se c' è una cosa che più di ogni altra spiega l' epicità dello sport, è questa: vincitori e sconfitti, campioni e falliti, sono allo stesso modo materia di racconto. C' è l' epica di Ronaldo che vola oltre la traversa per colpire di testa e c' è l' epica di chi era famoso per sbagliare gol a porta vuota. C' è l' epica del primo, del secondo, dell' ultimo e perfino del penultimo. C' è l' epica di chi la finale l' ha vinta e di chi l' ha persa - il Brasile che perde il mondiale in casa contro l' Uruguay, e la leggendaria testata di Zidane a Materazzi; Bitossi che perde il mondiale di ciclismo sulla linea del traguardo, e Basso che vince superando di un centimetro Bitossi. C' è l' epica dei vincenti, dei perdenti, degli eterni secondi, di quelli che hanno subito dodici gol in una partita e dei portieri imbattuti per mesi. Ogni gesto, esemplare o fallimentare, ha la potenza del racconto. E poi c' è qualcuno che riesce a tenere insieme le due cose: i grandi campioni che poi sono caduti, che alla fine hanno fallito. Che hanno vinto e poi hanno perso, e molte volte si sono soprattutto persi. È quello che racconta La caduta dei campioni (Einaudi), scritto da «l' Ultimo Uomo» il nome collettivo che firma questo libro: è il titolo della rivista online che raccoglie un gruppo di appassionati, competenti (pubblicano saggi esemplari di tattica calcistica) che crede alla narrazione dello sport e che la costruisce con quella ossessione fanatica ma lucida. Ne fanno parte scrittori, giornalisti, blogger. Ci sono racconti di pallanuoto, tennis, basket, ciclismo. Ma soprattutto di calcio. Si narra la storia di Bojan che viene preso dalla nausea fin da quando ha 17 anni, essendo il predestinato del Barcellona (ancora più di Messi) e però non sapeva che giocare insieme ai campioni e avere la responsabilità del talento gli avrebbe causato conati di vomito, e alla fine riuscirà a esprimersi al meglio solo nelle amichevoli o in una squadra canadese lontana dai riflettori (ma c' è anche l' epica del gol annullato in Champions contro l' Inter, che forse avrebbe cambiato il suo destino); di Adriano che, dopo aver preso a pallonate porte e portieri, diventa depresso, grasso e alcolizzato per la scomparsa del padre; di Pantani fermato prima da auto che lo hanno travolto involontariamente nel momento migliore, e poi rovinato da un prelievo, da sé stesso, ma soprattutto da qualcuno che vicino casa, una volta che era andato a fare una sgambata in bici per capire se poteva tornare a correre, gli urla «drogato» e lui torna in lacrime (e poi tutto il resto che sappiamo - ma chiunque parli di Pantani non sa, non vuole e non può accusarlo di nulla). Ivanisevic ha detto una volta che il tennista ha cinque nemici: il giudice di sedia, il pubblico, i raccattapalle, il campo e sé stesso. E l' avversario? - qualcuno gli ha chiesto. C' è anche quello, ha risposto, ma è il problema minore. Ecco, se si legge questo libro molto interessante, ci si accorge che per la maggior parte dei talenti che si sono rovinati, i nemici sono esattamente quelli elencati - con al primo posto sé stessi, e davvero soltanto ultimi gli avversari. Si possono aggiungere anche i centimetri o i centesimi, che hanno reso felice e infelice una grande nuotatrice come Ruta Meilutyte, che prima ha vinto molto e poi ha perso altrettanto: «Se si gareggiasse sui centocinque metri, sarebbe spacciata: ma Ruta resiste e tocca per prima, per otto centesimi. E se non capite la violenza di giocarsi una vita di fatica e sacrificio, un primo o un secondo posto sulla base di otto centesimi di secondo, lo sport non fa per voi». Quasi tutta la storia degli sport è determinata da una palla da basket che si è infilata dopo essere rimbalzata due volte sul ferro, da una pallina da tennis che ha toccato il nastro ed è finita di là o di qua, da una deviazione in porta, da un dito che ha toccato il bordo vasca un millimetro prima di un altro, da un' asticella che ha danzato prima di cadere o restare in alto. E da quei sé stessi con i quali bisogna lottare o convivere o saperci avere a che fare. Quando Ruta ha deciso di uscire dalla piscina per sempre, ha dichiarato con semplicità: «So che tutti hanno amato le mie vittorie, ma nessuno riesce a vedere la persona timida e spaventata che c' è dietro a questi successi». Ed è questo, alla fine, ciò che viene fuori da La caduta dei campioni : la convivenza a volte impossibile tra una persona e il proprio talento, tra la costanza e la determinazione che necessitano, e le fragilità emotive che compaiono e a volte sono invincibili. Una volta Ratko Rudic, grande allenatore di pallanuoto, ha dato la definizione più convincente di che cosa sia un campione: ha detto che non è colui che fa qualcosa di eccezionale (o almeno non è questa la sua caratteristica principale); ma è colui che negli ultimi minuti di una gara si comporta, gioca e pensa allo stesso modo di come si è comportato, ha giocato e ha pensato nei primi minuti o durante l' allenamento o nel corso di un' amichevole. Tutti calano nei momenti decisivi, tranne il campione che continua a pensare e fare come sempre. Quindi non è qualcuno che fa di più ma è qualcuno che non fa di meno - come capita a tutti, a un certo punto. E infatti, a pensarci bene, è questo che ammiriamo, in fondo, quando siamo seduti davanti alla tv: ci chiediamo come sia possibile che chi doveva fare il punto decisivo non abbia tremato, come sia possibile fare un passante lungolinea per annullare un match point, o fare il tempo migliore della propria carriera proprio il giorno della finale olimpica. Quello che ci sembra incomprensibile, è il vero miracolo. Quindi, se la definizione di Rudic è valida, allora vuol dire che il vero avversario del proprio talento è la personalità. Ed è esattamente quello che alla fine di queste dieci storie esemplari si comprende, un po' soffrendo e un po' provando un' empatia per chi si è sfilato e vive altrove, lontano dal campione che era (ma purtroppo, come per Pantani, i finali sono anche tragici). E la sintesi di tutto rimane il libro di Andre Agassi scritto con J. R. Moheringer, Open , che racconta che si può vincere Wimbledon e intanto odiare il tennis, perché non si sarebbe scelto. E qui c' è la storia del russo Marat Safin, un altro predestinato, che dichiara lo stesso tormento: «Mia madre mi ha gettato subito nel tennis. Non volevo giocarci per niente. Per tutta la vita ho desiderato giocare a calcio. Ma mia madre, lei sapeva cos' era meglio per me». Safin si è fatto eleggere in Parlamento, pur di scappare ed essere un altro. La caduta dei campioni racconta storie di fobie, tremori e solitudini. Angosce, incapacità di ripetersi, spavento per dove si è arrivati. Ma c' è perfino una storia di mancanza di emotività, di freddezza, che riguarda Andrea Bargnani, il giocatore di basket che ha spento il proprio talento per indifferenza. Ci sono storie di povertà che si fa ricchezza troppo improvvisamente. Di ribellioni, indisciplina e voglia di fuggire. Di salite e discese, e di fallimenti. Ma i nomi dei campioni caduti, o anche falliti, restano nomi di campioni, sempre. E questo libro ne è la testimonianza.

·        Quelli che…Lottano.

Da "leggo.it" il 23 dicembre 2020. Tragedia familiare per Nino Benvenuti. Il primogenito del campione olimpico e mondiale di pugilato, Stefano, 58 anni, è stato trovato morto in un bosco del Carso. Secondo gli inquirenti si tratta di suicidio. Nel 2016 l'uomo era stato condannato al carcere per un furto di gioielli all'ex compagna ed era arrivato a scontare la metà della pena. Con l'emergenza Covid aveva ottenuto i domiciliari, ma la sofferenza non l'ha abbandonato neanche lontano dalle mura della casa circondariale del Coroneo. Tra Stefano e il padre Nino il rapporto è sempre stato difficile e conflittuale, tanto da finire davanti a un giudice: l'ex campione di pugilato pretendeva la restituzione di un orologio d'oro che aveva ricevuto dopo la vittoria delle Olimpiadi di Roma ma anche di una Bibbia di valore e un ritratto ad olio oltre a vecchi trofei. Nel 2002 l'altro procedimento giudiziario nei confronti del figlio Stefano, accusato di aver incassato un assegno da 15 milioni di lire che invece sarebbe dovuto finire sul conto della madre Giuliana. 

Piero Mei per “il Messaggero” il 24 dicembre 2020. Il corpo di un uomo era stato trovato qualche giorno fa, in un bosco sul Carso, dalle parti di Trieste. La Trieste di Nino Benvenuti. Quel corpo era di un uomo di 58 anni, morto suicida dicono gli inquirenti. Il corpo di Stefano, il figlio primogenito di Nino Benvenuti. «I cinque figli che ho avuto con Giuliana - aveva detto il campione un paio d' anni fa in una intervista - non li vedo, non li sento, non mi vogliono parlare. Lei me li ha messi contro. Ho nipoti che non conosco e penso che, anche se non sono stato un buon padre, potrei ancora essere un buon nonno». Quanta malinconia, quanto rimpianto, forse quanto rimorso: il ring della vita deve essere stato con Nino assai meno disponibile che il ring della boxe, sul quale Benvenuti sferrò (e prese anche) cazzotti micidiali, lui che incassare non era nelle sue corde. Sessant' anni fa, nel settembre 1960, Nino era diventato campione olimpico, sul quadrato messo al centro del Palaeur, Giochi di Roma, la stessa notte che vinse l' oro un americano che aveva paura di volare, Cassius Clay che poi sarebbe stato Mohammed Alì, il più grande di sempre. In quel torneo olimpico, nella categoria dei welter Nino sconfisse tutti gli avversari, meno l' ultimo, con il verdetto di 5 a 0. L' ultimo, un sovietico, lo batté 4 a 1. Teoricamente sconfisse anche Cassius Clay: la coppa assegnata al miglior pugile venne infatti attribuita all' azzurro. Ricevette vari premi, oltre la medaglia d' oro: anche un orologio d' oro, tornerà nella storia. Sconfisse pure la fame: il tecnico lo convinse a scendere di categoria e dunque dovette buttar giù cinque chili per rientrare nel peso. La vita, ora, sembrava sorridergli e gli sorrise davvero in quegli anni, e sorrise all' Italia tutta che si innamorò di lui e stette sveglia notti su notti quando andò ad affrontare, titolo mondiale in palio, Emile Griffith o Carlos Monzon. Il destino s' è accanito sui combattenti di quei ring. L' Italia si appassionò anche a quella sfida tutta nostra che vide opporsi Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti, la scimitarra e il fioretto, è stato detto. Vinceva il fioretto. Nino era divenuto professionista e papà, di Stefano. Da superwelter aveva subito la sconfitta da Ki-soo Kim: più che sconfitto, fu derubato. Ma non è questa la leggenda: è quel che venne dopo, anno 1967, inizio della trilogia contro Griffith. La televisione non trasmise il match del Madison Square Garden: una specie di lockdown, dovevamo dormire per lavorare il giorno dopo. La radio non si arrese e gli italiani neppure: è stato calcolato che 18 milioni di tifosi (per non contare i passeggeri dei sei voli charter che lo raggiunsero a New York) siano rimasti svegli all' ascolto. Il giorno dopo lavorarono ugualmente, italiani brava gente. Lavorarono con il cuore più leggero: Nino vinse il titolo fascinoso dei medi che solo un altro europeo era riuscito a conquistare venendo dal Vecchio Continente su di un ring americano, Marcel Cerdan, leggendario. Nino perse la rivincita, vinse la bella. Griffith vinse un amico: quando fu in difficoltà, fu Benvenuti a sostenerlo in ogni modo, anche economico. Epica pure la lunga sfida contro Monzon, l' argentino misterioso che dopo varie vicissitudini Nino scelse come avversario mondiale. «Scenderò da questo ring vincitore o morto» disse l' argentino. Scese vincitore. Anche dalla rivincita. E Nino si arrese, ritirandosi.

LA DENUNCIA. Un giorno, molti anni dopo, cercò quell' orologio d' oro e altre memorabilia, di valore e d' affezione. Aveva tutto Stefano. Nino lo denunciò: ormai i rapporti tra il padre che s' era creato una nuova vita, e il figlio erano deteriorati. Stefano restituì tutto. Pace? Forse tregua. Altri problemi tra i due, e anche tra Stefano e la sua compagna. Denunce, processi, carcere. Stefano, attualmente, per via del Covid, stava scontando l' ultima parte della pena ai domiciliari. Nino, il grande Nino, il nostro eroe della boxe, era a Roma, ormai la sua città pur senza mai dimenticare le sue origini istriane e la sua gioventù triestina. C' è pure un fumetto a raccontarla. A far vivere ai lettori il dramma di quegli anni e di quegli italiani, Zona A e Zona B, Tito, la Jugoslavia. Isola d' Istria, il luogo natio, è oggi Slovenia. E oggi Benvenuti è al centro non di un ring ma di una tragedia personale e familiare.

Don King compie 89 anni, da assassino a impresario ecco chi è l’uomo che ha «inventato» la boxe. Fiorenzo Radogna il 19/8/2020 su Il Corriere della Sera. Uomini fanno del sorriso il loro biglietto da visita. Ma nascondono la fra le rughe storie personali «al confine». In un chiaroscuro che sa di intelligenza e intraprendenza, ma anche di egoismo e violenza. Potere e ambizione. Donald «Don» King da Cleveland, - che oggi compie 89 anni - è uno di quelli. Con il suo capello «elettrico», la dentatura in bella mostra, la parlantina sciolta e una fisicità che dice molto. Del suo modo di affrontare la vita. E dominarla. Proprio come su un ring. Allibratore e omicida, promoter geniale e manager. Un uomo «sopra le righe» che, alle soglie dei novant’anni, non smette di proporsi. Come uno dei padroni di quella boxe che, da «noble art», è diventata (tornata ad essere) un «circo». Come era - ma per motivi differenti - ai suoi albori. Mollata l’università quasi subito, Don prese a frequentare il sottobosco delle scommesse illegali nella capitale dell’Ohio ma «dall’altra parte della barricata». Quella dove si facevano i soldi e dove un tipo intraprendente e senza scrupoli come lui, poteva arricchirsi velocemente. Bastava non porsi limiti e non avere paura. Anche di sporcarsi le mani.

Vita spericolata. Ben prima di cominciare a farsi venire i capelli dritti con spray e pettinino, King uccise due volte. In circostanze chiarite (a stento). A 21 anni uccise a colpi di pistola tale Hillary Brown, uno dei tre rapinatori che stavano tentando un colpo a una delle sue case di scommesse. La corte lo assolse per autodifesa. Gli andò un po’ più male nel 1966: un dipendente, Sam Garrett, tardò troppo a pagargli i 600 dollari che gli doveva e lui «lo gonfiò» al punto di ucciderlo. Omicidio di secondo grado, derubricato a omicidio colposo: King se la cavò con tre anni e mezzo di reclusione, che non scontò interamente per il «condono» del Governatore dell’Ohio. Un uomo con tante conoscenze importanti l’allibratore di Cleveland. Senza tanto bisogno di muoversi per afferrare il vero colpo di fortuna: quello che lo fece svoltare. Bastò essere intraprendenti e convincenti: avvicinò Muhammad Ali e per lui organizzò un incontro benefico in un ospedale di Cleveland. Niente soldi, ma il suo ingresso (dalla porta principale) nel mondo dei promoter di boxe fu cosa fatta. Non solo: in pochi anni ne divenne quasi il padrone assoluto.

Colpi di genio. Il colpo di genio fu - da manager di Ali - quello di organizzare sul ring di Kinshasa nel 1974: «The Rumble in the Jungle», forse l’incontro di pugilato più famoso della storia. L’idea fu quella di far ospitare (e spesare) l’incontro dal dittatore dello Zaire Mobutu, che era alla ricerca di visibilità internazionale ed era disposto a sborsare i 10 milioni di dollari per il cachet dei due pugili. E Ali stese il detentore della corona unificata dei massimi, George Foreman. Analoga (remunerativa) «soluzione» riuscì con il terzo match Ali-Frazier a Manila, nelle Filippine: «The thrilla in Manila». Era il 1975, Ali vinse ancora. Ma a trionfare fu soprattutto il «folkloristico» ex allibratore di Cleveland. Ormai un personaggio planetario. In quegli anni ‘70, oltre a seguire Ali, King divenne il manager di una scuderia «da far tremare i polsi» con gente da «Hall of Fame». Come Larry Holmes (che poi lo ripudiò), Wilfred Benítez, Roberto Durán, Salvador Sánchez, Wilfredo Gómez... Ovunque, dove c’era un incontro di un qualche interesse (superiore) per gli appassionati, lampeggiava la scritta «Don King Productions». E così nei decenni successivi con Evander Holyfield, Julio César Chávez, Aaron Pryor, Félix Trinidad, Mike McCallum e tanti altri. Fra cui naturalmente quel Mike Tyson che fu aiutato dal 1988 (già campione del mondo) ad «amministrare» (si fa per dire) una carriera certamente ai vertici, ma che si rivelò anche troppo breve. Come il patrimonio ben presto dilapidato. Alla fine King sarebbe riuscito a «cavalcare» anche l’ultima onda di Tyson: «suoi» i due match tra Iron Mike e Holyfield che batterono tutti i record di ascolti-tv.

Le accuse. Dopo il secondo e, dopo aver staccato a morsi un pezzo di orecchio al rivale, Mike separandosi dal manager lo accusò di averlo derubato. E gli fece causa con una richiesta di 100 milioni di dollari. Soldi che gli sarebbero stati sottratti da King nel periodo di galera. Ne ottenne 14. La lite col manager (che controllava tre delle quattro corone iridate) gli avrebbe poi limitato la possibilità di combattimenti successivi. E l’irsuto promoter (diventato collezionista di oltre 5000 orologi di valore pazzesco) non si sarebbe fermato: tra i tantissimi incontri organizzati a cavallo del nuovo secolo, ecco «The fight of the millennium». Nel match di Las Vegas del 1999, per unificare i titoli dei pesi welter Wbc e Ibf (e in accordo con l’altro «drago» Bob Arum) King fece affrontare Óscar de la Hoya e Félix Trinidad. Forse l’ultimo dei grandi match del ventesimo secolo. Così, mentre la boxe scivolava verso orizzonti non proprio luminosi, Don King proseguiva - fra film a lui dedicati, cameo cinematografici, ospitate televisive e l’ingresso nella Hall Of Fame della Boxe - a organizzare «super-incontri». Come quello fra Roy Jones e Tito Trinidad nel 2008. Fino ai giorni nostri; e fino a quando, chissà. Per un manager che ha «architettato» più di 500 match-mondiali, amministrato quasi cento pugili a cui ha fatto guadagnare almeno un milione di dollari e pianificato sette dei dieci eventi più visti in pay-per-view, tutto appare possibile. Certamente anche sopravvivere a sé stesso e alla propria coscienza.

Sergio Arcobelli per il Giornale il 21 luglio 2020. Quando nell'inferno di Manila sconfisse Joe Frazier in 14 riprese, Muhammad Ali definì quello scontro come «la cosa più vicina alla morte mai vissuta». Sette anni dopo, ci è voluta una morte vera per cambiare per sempre la boxe: quella del sudcoreano Duk Koo Kim. La mano omicida, se così si può dire, era stata quella dell'italoamericano Ray Mancini, campione del mondo dei pesi leggeri WBA, che il 13 novembre 1982 a Las Vegas tramortiva al 14° round con un terrificante destro al volto lo sfidante. Kim non si rialzò mai più. Il coreano, infatti, morirà cinque giorni dopo nel Desert Springs Hospital di Las Vegas. Quattro mesi più tardi, in preda alla disperazione, la madre di Kim si tolse la vita, idem l'arbitro dell'incontro, Richard Greene. Un solo pugno aveva causato la morte di tre persone. Mancini, per ovvie ragioni, da quel giorno non fu più lo stesso. Eppure, Kim non era stato il primo pugile a morire a causa delle lesioni subite sul ring. Né è stato l'ultimo. Ma quella tragedia scosse così tanto il mondo della boxe che la sua stessa esistenza fu messa in discussione. Ray Mancini, 38 anni fa il suo pugno cambiò la storia e fece male al mondo.

«E da allora quel senso di colpa mi ha accompagnato per quasi tutta la vita. Prima dell'incontro con Kim, ero un pugile di 21 anni così famoso che Frank Sinatra volle conoscermi. Persino Reagan mi ricevette alla Casa Bianca. Vorrei non averlo dato».

Il suo cognome rivela il suo sangue italiano.

«A Youngstown, in Ohio, dove nacque mio papà Lenny, figlio di un emigrato siciliano di Bagheria, mi veneravano, per via del mio stile aggressivo che avevo ereditato da mio padre, come del resto il soprannome Boom Boom. Anche mio papà Lenny era un pugile, lo faceva per sfamare la nostra famiglia ai tempi della crisi del '29. Lo scoprii nella lavanderia del seminterrato, quando vidi vecchi ritagli di lui sul ring. Scelsi di fare il pugile perché volevo vincere quel titolo mondiale che mio padre, ferito in maniera grave durante la seconda guerra mondiale, non poté vincere, benché fosse il numero uno. Ci riuscii. Questa storia, la nostra storia, piaceva alla gente».

Quanto l'ha cambiata l'episodio di Las Vegas?

«Quella notte, tutto l'amore che avevo per il pugilato svanì per sempre. Fino ad allora avevo combattuto per motivi validi, all'improvviso sentivo come se non ci fosse nulla di giusto in quello che facevo. Da quel momento la boxe diventò solo una questione di business. Quando tornai sul ring la fiamma si era già spenta».

Che ricordi ha del dopo match?

«Ero sdraiato sul letto in hotel con la borsa del ghiaccio su un occhio, mi si avvicinò il mio allenatore con un'espressione seria e mi disse: Ray, il tuo avversario è in pericolo di vita, devi prepararti al peggio. Ma io non mi ero neanche accorto che Kim lo avessero portato in ospedale».

Il suo primo pensiero?

«Guardai le mie mani e mi chiesi: come è potuto succedere? Non ci potevo credere. Pensai che avrei potuto essere io al suo posto. Nel giro di un paio d'ore, passai dal momento più esaltante della mia vita alla disperazione più profonda».

Come superò quella tragedia?

«Caddi in depressione, sì ma ne uscii grazie alla mia fede. Parlare con il mio prete, con uno psicologo e con la mia famiglia mi aiutò, ma riprendermi del tutto dipendeva solo da me. Ci sono riuscito».

Di recente, sono state altre tre le vite spezzate sul ring.

«Nel pugilato, come in altri sport di contatto, possono esserci incidenti, alcuni anche gravi. Ma non è uno sport fatto per uccidere. Non a caso è la nobile arte».

Dopo il suo match con Kim, cambiarono le regole: su tutte, quella di ridurre i round da 15 a 12.

«Una farsa. La scelta di diminuire il numero di riprese non ha impedito ad altri pugili di morire ancora oggi. Anzi, sono state più le morti sul ring nei 38 anni successivi al mio match con Kim che nei sessant' anni precedenti.

Ne ho parlato con neurologi e neurochirurghi: non ci sono prove sostanziali sul fatto che la maggior parte degli incidenti avvenga dal 12° al 15° round. Così facendo la boxe ha perso il suo storico fascino. Non ci saranno più fenomeni come Rocky Marciano, Carmen Basilio e Roberto Duran, il migliore di tutti e mio amico».

Nel 2011 aprì le porte di casa sua a Chi Wan, il figlio di Kim e sua madre.

«È stato un momento molto toccante. Per rompere il ghiaccio, gli ho mostrato una foto di mio padre Lenny. Poi ci siamo abbracciati, abbiamo pianto e ci siamo fatti forza l'un l'altro. Senza inibizioni».

Ora lei di cosa si occupa?

«Commercio vino e bourbon e gestisco alcune società di produzione cinematografica. Stallone ha anche prodotto un film sulla mia vita nel 1985, Il cuore di un campione. Ma non abbiamo mai recitato in un film insieme, non ancora».

GIULIA ZONCA per la Stampa il 3 luglio 2020. A incontro finito è iniziata la vera lotta e non è ancora archiviata, 110 anni dopo «Il combattimento del secolo», giriamo ancora intorno all'uguaglianza, ci facciamo ancora a pugni. Il secolo è cambiato però l'eredità di Jack Johnson, primo campione dei pesi massimi afroamericano, contro Jim Jeffries, noto come «La grande speranza bianca», non si è risolta. Quattro luglio 1910: quando Johnson manda a tappeto il rivale la gente si riversa in strada. La cintura dei pesi massimi, quasi un simbolo di onnipotenza, non può andare a un nero. Non senza rivolte, non senza spaccare un Paese in due, non nel 1910. La ferita non è più così grave ma è tutt' altro che ricomposta e guardare quell'incontro è come spiare il cuore del razzismo, le parole che lo sostengono, i pregiudizi che lo tengono vivo. Siamo negli Stati Uniti del presidente Taft a cui chiedono di arbitrare l'incontro più atteso. Lui saggiamente rifiuta la pagliacciata anche se volere l'uomo che governa la nazione a decidere del destino di bianchi e neri è una richiesta tanto assurda quanto maldestramente logica. I neri sono il 10,7 per cento della popolazione e ce ne sono ben pochi fra il pubblico. Tutti bramano il ritorno del grande Jim che cinque anni prima si è ritirato imbattuto, che non ha mai sbagliato, che deve riconsegnare l'orgoglio alla sua razza. Per questo lo convincono a tornare e lo scrittore Jack London lo supplica di «togliere il sorriso dalla faccia di Johnson». Se oggi «Via col vento» è sotto accusa, anche «Zanna bianca» e «Il richiamo della foresta» rischiano. Johnson è già campione in carica solo che è un titolo traballante: per evitare la consacrazione, la polizia è salita sul ring della sua precedente sfida prima che l'avversario cadesse giù e con lui le improbabili certezze di cui la maggioranza si nutriva in quegli anni. «Il combattimento del secolo» non è boxe, è propaganda: siamo prima di Louis contro Schmeling, prima di Frazier, di Foreman e di Ali, siamo in una terra contaminata dal settarismo e in un epoca in cui titolare «vince il negro» non è neppure scorretto. Johnson lo sa e vuole che i suoi pugni stiano lì a difendere la comunità che rappresenta. Pure Jeffries è consapevole del ruolo, non stringe la mano all'avversario e non è disprezzo, è panico. Johnson è più giovane, più preparato, schiva veloce e sceglie colpi intelligenti. Jeffries è pesante e lento, interpreta un pugilato di sola potenza, alla Carnera. Per reggere la pressione e la curiosità, invece di scegliere sparring partner che lo mettessero alla prova ha assoldato amici che sostenessero la parte. Non è preparato, il suo tempo migliore è passato ed è destinato alla catastrofe, una di quelle che restano. È il primo incontro filmato e ci sarà la coda per vederlo, le botte per ritirarlo, si muoverà l'ex presidente Theodore Roosevelt per chiedere di abbassare i toni e censurare il film. Ora si discute sulla sua statua che sarà rimossa dall'entrata del Museo di storia naturale di New York per non dare falsi messaggi. Non è la sua figura che crea disagio, piuttosto la composizione del monumento in cui lui giganteggia sopra un africano e un indigeno. Nel film del 1910 il gigante è solo Johnson, c'è un'immagine in cui «La grande speranza bianca» gli scivola letteralmente addosso, crolla tirando giù ogni stereotipo. È il quattro di luglio, il giorno in cui gli Usa rinascono di continuo. È anche presto per capire che cosa è successo, nessuno dei protagonisti trova quello che cerca, troppo coinvolti e tormentati. Johnson sarà accusato di aver portato al suicidio sua moglie, bianca come le due che verranno dopo. Resterà campione altri 5 anni poi finirà senza un soldo, costretto a scappare per non essere arrestato. Morirà in un incidente d'auto a 68 anni, mai più gigante dopo quell'attimo di eternità. Jeffries tornerà alla sua fattoria senza più un nome, deriso e insultato, andrà in bancarotta nonostante la borsa faraonica per l'epoca: 101.000 mila dollari più bonus e diritti. Si pentirà per sempre di aver ceduto alla tentazione del rientro e morirà solo e povero a 77 anni. La boxe non avrà un altro campione di colore fino a Joe Louis, nel 1937. L'America è sempre in strada anche se adesso i neri e i bianchi stanno dalla stessa parte e rifiutano di farsi definire dalla pelle, alzano i pugni invece di tirarli. In rivolta contro chi è fermo al combattimento del secolo che non finisce mai.

Claudio Arrigoni per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2020. Colpa della televisione, come spesso accade. Perché se si nasce a Falzes, che sta nelle meraviglie della Val Pusteria, in Alto Adige, è facile che lo sport diventi lo sci o il pattinaggio. Invece si innamora di altro: «Avevo 13 anni e stavo guardando Italia 1. C' era il wrestling». Una folgorazione: «In quel momento ho realizzato che era quello che volevo fare». Non facile all' inizio: «Le persone intorno a me mi guardavano con sospetto, ma ho sempre pensato: se c' è un desiderio, c' è un modo». Così Fabian Aichner da Falzes, provincia di Bolzano, è diventato uno dei più forti atleti del mondo di quel misto di sport e spettacolo che è il wrestling, vero e proprio show sportivo tutto marcato Usa, dove non ci si ferma alla tecnica della lotta, perché si è anche un po' attori e danzatori. La voce inconfondibile di Dan Peterson lo ha reso famoso in Italia. Sono decenni che negli States è uno degli spettacoli sportivi più importanti e seguiti. Aichner, noto come Adrian Severe, il suo nome da lottatore, è diventato campione del mondo nello sport dei giganti ballerini: a 29 anni ha vinto il titolo di coppia di Nxt, dedicato ai giovani, della Wwe, la World Wrestling Entertainment, la federazione più importante del mondo del wrestling. Era dal 1977 che un italiano non ci riusciva, quando Bruno Sammartino, una leggenda, emigrato a 15 anni da Chieti, salì sul tetto del mondo. «Re dell' universo»: così ha mostrato la sua gioia su Facebook. Con il tedesco Marcel Barthel, della Imperium, ha battuto gli ex campioni, i BroserWeights Matt Riddle e Timothy Thatcher. Lo ha fatto in un momento terribile per la pandemia: «Ero preoccupato per il virus quando l' Italia è diventata zona rossa. Sono negli States e non potevo tornare, ma per fortuna nella mia famiglia stanno tutti bene». Lo show è stato televisivo. «Ai miei inizi lottavo in Germania davanti a qualche decina di persone. Mi ha aiutato». Per combattere e allenarsi si dovette spostare in Germania: «Per mesi ho guidato quasi tutti i weekend per quattro ore, provando a diventare il più bravo possibile il più velocemente possibile». Ci è riuscito. Diventerà il miglior italiano di sempre. Anche perché ha un motto: «Lavorare, lavorare, lavorare». In Germania lo allenava un fenomeno, Alex Wright: «Maestro di sport e di vita. Era molto severo, ma sapevo che essendo così duro mi stava solo facendo un favore. C' è un rito, una tradizione nella scuola: chi vuole diventare un pro, deve fare 1.000 sollevamenti, 1.000 sit up e 1.000 addominali in meno di un' ora e mezzo». Fabian ha il record: 37 minuti. Ha un idolo comune a molti wrestler, uno che è stato al top nella lotta, prima di entrare a Hollywood dalla porta principale ed essere fra gli attori più famosi del mondo, diventando poi Governatore della California: Arnold Schwarzenegger. Nel suo appartamento c' è il suo poster: «È il mio eroe. Lui dice: puoi avere scuse o risultati, non entrambi. Abbiamo un percorso simile io e Arnold perché ha iniziato la sua carriera di bodybuilding in Germania, dove io ho iniziato wrestling. Poi è andato in Gran Bretagna, come ho fatto io e poi negli States». Schwarzy è una delle ragioni che lo hanno spinto a sognare il wrestling: «Quando ho iniziato guardavo a lui per costruire il mio corpo e diventare più forte. Lo vedevo come un modello. Se non fosse stato per Arnold non so se avrei mai seguito quella strada nella vita. Gli sarò sempre grato, forse un giorno avrò l' onore di incontrarlo». Ama la sua terra: «Non c' è nessuno più famoso di me lì». Sembra facile, visto che Falzes ha meno di tremila abitanti. Lo chiamano Pride of Italy, Orgoglio italiano: «Sono davvero orgoglioso di essere italiano, di quei luoghi, del Sud Tirolo. Ho raccontato la mia regione anche per spiegare perché parlo tedesco». È poliglotta, parla perfettamente tre lingue, con l' inglese oltre a italiano e tedesco. Ma Fabian ha in mente solo una cosa: «Il wrestling è come il mio sole, tutto ruota intorno a questo».

Mike Tyson non è più d'acciaio, piange al microfono e dice: "Non sono più nulla". Repubblica tv il 5 marzo 2020. Iron Mike si è commosso ricordando un passato in cui annientava i rivali sul ring, mentre registrava il suo podcast “Hotboxin’ with Mike Tyson”. Tyson ha spiegato che ha studiato tutta la vita l'arte del combattere e l'arte della guerra: "Per questo avevano paura di me sul ring - ha detto l'ex pugile - e per questo ho paura, ora. Quei giorni sono passati, adesso c'è il vuoto. E io non sono più nulla". Nel suo podcast Tyson conversa in ogni puntata con un interlocutore diverso: si va dagli ex pugili alle celebrità del mondo della musica e della tv. In questo caso l'ospite/intervistatore è Sugar Ray Leonard, ex campione di boxe negli anni Ottanta. L'ultima volta che Tyson è salito sul ring è stata nel 2005.

Da corrieredellosport.it il 31 marzo 2020. Quanto vale un braccio? Duecentocinquantamila euro, stando al "risarcimento" in questione. Mike Tyson, durante la chiacchierata con il rapper americano Fat Joe, ha raccontato una tragedia che ha visto coinvolta la sua vicina di casa. Il motivo? La tigre del Bengala che teneva in casa come animale domestico l'ha attaccata strappandole un braccio. L'ex pugile ha "chiarito" la vicenda: "Non è scappata di casa, non è andata così. Qualcuno ha scavalcato il recinto dove era la tigre e ha iniziato a giocarci. La tigre non conosceva la ragazza, è stato un brutto incidente. Ma è lei che è saltata dentro la proprietà in cui si trovava la tigre... quando ho visto quello era successo le ho comunque dato 250 mila dollari, qualunque cosa fosse... non puoi credere a quello che possono fare con la carne umana, non ne avevo idea". Poi l'aggiunta: "Ero un pazzo allora, non c'è modo di domare certi animali al 100%, non succederà mai. Ti uccidono per caso, non vogliono nemmeno farlo, succede per caso. Sono troppo forti, specialmente quando giochi duro con loro. L'idea di averne una? Ero in prigione a parlare con un amico da cui ho comprato un'auto. Il padre aveva tigri e leoni, un paio di mesi dopo sono tornato a casa e mi regalò un cucciolo..."

LUIGI PANELLA per repubblica.it il 23 febbraio 2020. L'uomo di Manchester porta la pioggia a Las Vegas e soprattutto si riporta in Inghilterra il titolo mondiale dei pesi massimi nella versione Wbc. Tyson Fury è il nuovo re della categoria più affascinante: sul ring dell'MGM Grand, l'uomo dal pugno d'acciaio, Deontay Wilder, si arrende alla settima ripresa. O meglio, per lui lo fanno i suoi secondi che, consci di un match ormai senza via di uscita, gettano la spugna. Per un match nelle previsioni equilibratissimo, specialmente dopo il pari mozzafiato nella prima sfida tra i due, un finale decisamente a sorpresa. Ma che sarebbe stata una giornata diversa dalle altre lo si era capito sin dalle prime ore del mattino, quando la città sorta sul deserto era stata innaffiata da una pioggia a tratti copiosa, arricchita addirittura da un arcobaleno. Atmosfera delle grandissime occasioni, con sfarzo agli eccessi è look esagerati. Immancabile la presenza di star del mondo dello sport e dello spettacolo. Citiamo Michael J. Fox (sempre presente dai tempi di Tyson) e Magic Johnson. Ma  clou del prematch è  stata la presenza contemporanea sul ring di tre leggende quali lo stesso Tyson, Evander Holyfield, e Lennox Lewis, protagonisti nel passato di memorabili sfide incrociate. Il match, come detto, è stato a senso unico. Wilder ha dato segnali di sé solo al primo round, quando ha piazzato un destro dei suoi che però non ha scalfito Fury.  Il britannico ha vinto di forza e di personalità, prendendo il centro del ring è lavorando alla perfezione con il jab sinistro. Due le svolte. Al terzo round un destro alla tempia ha mandato al tappeto Wilder. La replica nella quinta ripresa: Wilder di nuovo giù  dopo un tremendo sinistro al fianco. Di fatto la fine per Wilder, alle prese anche con una sospetta foratura del timpano. Il re è dunque Fury. In fondo ce lo aveva annunciato con la sua indimenticabile entrata sul ring, sostenuto in alto su un trono con una  corona e tanto di abiti reali, mentre echeggiavano le note di una vecchia canzone di Patsi Cline, crazy, pazzo. Spettacolare come il suo dopo match, quando ha preso il microfono per intonare ‘American pie' tra il tripudio dei tantissini tifosi inglesi al seguito. A proposito di Inghilterra,  va ricordato che il detentore delle cinture Wba, Wbo e Ibf è un altro suddito della regina, Anthony Joshua. Dovessero fare il derby di riunificazione, non basterebbero due Wembley.

Pugilato, Wilder e la scusa più bella di tutti i tempi: «Ho perso con Fury per la mia maschera troppo pesante». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 da Corriere.it. Di fantasia ne aveva mostrata parecchia già prima dell’incontro: all’ingresso nella MGM Grand Garden Arena di Las Vegas, per la rivincita del Mondiale Wbc dei pesi massimi di pugilato (poi persa contro Tyson Fury) Deontay Wilder si era presentato con un look piuttosto vistoso. La faccia era completamente coperta da un maschera metallica, piena di strass blu e neri, con led rossi che si accendevano attorno agli occhi. Sopra la maschera, una corona. Sotto, una tuta anch’essa di strass, con una placca metallica sul petto, un’armatura sulle spalle e un mantello. L’opera dei designer di Los Angeles Cosmo & Donato era un omaggio a tutti coloro che hanno contribuito ai progressi degli afroamericani negli Stati Uniti, essendo febbraio il Black History Month (il Mese della storia dei neri). A Wilder è costata 40.000 dollari (36.900 euro). Ma anche molto di più, in termini strettamente non economici. Perché, il giorno dopo la prima sconfitta della sua carriera, il pugile americano ha dato la colpa dello stop definitivo imposto dall’arbitro al settimo round (dopo due atterramenti al terzo e al quinto) proprio a quel travestimento: «Era troppo pesante». In effetti, «col casco e tutte le batterie pesava circa 18 chili» ha spiegato Wilder parlando con Yahoo Sports: «Ho iniziato il match con le gambe molli. E al terzo round non mi reggevano più». E a questo punto le ipotesi sono due: 1) quello che dice Wilder è vero. E allora siamo di fronte a uno dei più clamorosi autogol della storia non del pugilato, ma dello sport. Anche se va riconosciuto che nel raccontarlo il pugile di Tuscaloosa, Alabama, ha dimostrato più coraggio che a salire sul ring. Ipotesi 2): quella di Wilder è solo una scusa. E allora siamo di fronte a una delle scuse più belle della storia non del pugilato, ma di tutto lo sport: probabilmente è la spiegazione più fantasiosa che si sia mai sentita per una sconfitta. Ma, in ogni caso, migliore di quella che Wilder ha aggiunto poco dopo, tirando in ballo presunti pugni scorretti sulla nuca che l’arbitro aveva promesso di sanzionare con un’immediata squalifica. Deontay accusa Fury di avervi fatto ricorso nell’impunità più totale. Se mai ci sarà la rivincita, si ripartirà da qui. Ma soprattutto da un costume nuovo (e ben più leggero) per Wilder. Magari una cosa non tanto sobria, ma molto più astuta: come il trono da «re degli zingari», seduto sul quale Tyson Fury (figlio di nomadi irlandesi) si è fatto portare sul ring. Senza faticare nemmeno un po’.

Pugilato: Fury batte Wilder, droga e depressione. Chi è il «re gli zingari» nuovo campione dei pesi massimi. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. «E adesso?» chiesero a Osvaldo Bagnoli, che aveva appena iniziato a festeggiare lo scudetto vinto dal suo Verona. «Adesso ci vogliono freni belli forti, perché inizia la discesa» rispose lui. Quegli stessi freni che una trentina d’anni dopo quel 1985, Tyson Fury si rifiutava deliberatamente di schiacciare mentre guidava la sua Ferrari a 300 all’ora nelle buie strade statali della Scozia: le manie suicidarie, insieme alla convinzione paranoica che i suoi familiari lo volessero uccidere e il disturbo ossessivo-compulsivo che lo portava spesso in ospedale con il cuore che batteva 220 volte al minuto, erano stati gli effetti non tanto collaterali della sua vittoria sull’ucraino Wladimir Klitschko nella sfida per il titolo mondiale dei pesi massimi di pugilato. Effetti che Fury cercò di contenere bevendo e sniffando cocaina, fino al test antidoping fallito e alla squalifica per due anni e mezzo. Perciò, ora che Tyson si è conquistato (nella notte a Las Vegas) il titolo mondiale Wbc dei pesi massimi, battendo Deontay Wilder alla settima ripresa per k.o., quanto bisognerà stare preoccupati per lui? Anche perché, al suo fianco non c’è più Ben Davison, l’allenatore (ma anche amico e terapista) che prese Fury dal pavimento della sua stanza, su cui passava intere notti a piangere, gli fece perdere i 45 kg accumulati durante la squalifica e lo portò fino alla prima sfida per il Mondiale Wbc contro Wilder, nel dicembre 2018 a Miami Beach, finita in parità. Ma poco prima dell’incontro di Las Vegas, Fury lo ha licenziato, passando a Javan «Sugarhill» Steward, nipote di «Manny», storico trainer di Lennox Lewis e dello stesso Klitschko. Per prima cosa, Sugarhill lo ha messo nelle mani di George Lockhart, ex marine che ha combattuto in Iraq ma anche esperto nutrizionista che ha studiato per Tyson una dieta di 4.500 calorie al giorno, ma piena di alimenti che non viene immediato associare a un pugile che secondo la bilancia ufficiale dell’incontro pesava 123,8 kg (contro i 104,8 di Wilder): yogurt greco con frutta e maiale cotto con le mele, quinoa al salmone teriyaki (per l’omega 3) e polpette con hummus di cavolo. Più il massimo possibile di curry e soprattutto curcuma, che a Tyson piace parecchio e ha importanti proprietà anti-infiammatorie. Il secondo grande cambiamento portato da Sugarhill Steward è stato nella strategia di gara. Nell’ultima conferenza stampa prima del match Wilder aveva detto: «Andrò subito all’attacco rischiando il tutto per tutto, non ho paura di prenderle e di farmi male. Mi è già successo un sacco di volte. Ne uscirò danzando». E tutti avevano pensato che, visti i due atterramenti subiti nella prima sfida, si trattasse di pretattica. Ma quando mai. Fury ha buttato giù Wilder una prima volta al terzo round. E lo ha fatto con un destro, lui che ha nel mancino il suo colpo migliore, con il quale ha rispedito al tappeto lo statunitense nella quinta ripresa. Poi, alla settima, lo stop dell’arbitro: il sangue che Deontay perdeva dall’orecchio non prometteva niente di buono. È stato così che il 34enne di Tuscaloosa, Alabama (luogo del Bloody Tuesday, le violenze della polizia contro i neri che nel 1964 chiedevano la fine della segregazione per le fontanelle e i bagni pubblici) è stato il primo dei due massimi sul ring a Las Vegas a conoscere il sapore della sconfitta. A questa sfida, infatti, erano arrivati entrambi imbattuti. Fury con 29 vittorie e il pareggio di Miami Beach. Wilder, addirittura, con 42 vittorie, quel pari e una percentuale di successi per k.o. del 95,4%. Tutti numeri che al primo gong hanno smesso di avere importanza, a differenza di quelli del match, in cui Fury ha messo a segno 82 dei 267 colpi (30,7%). Oltre il doppio di quelli di Wilder (34 su 141, 24,1%) al quale non è riuscito l’aggancio al suo idolo Muhammad Ali, che era riuscito a difendere il suo titolo per 11 volte consecutive. Colpa, o merito, di un ragazzo alto 206 centimetri che sui calzoncini ha voluto la scritta «Gipsy King» (re degli zingari) perché i suoi genitori sono due «pavee», nomadi irlandesi che lo misero al mondo a Manchester il 12 agosto 1988. Il padre, John, ex pugile professionista, ha chiamato il figlio Tyson in omaggio proprio a un’altra leggenda della boxe, quel Mike Tyson che adesso ha una cosa in più in comune col nuovo re dei massimi Wbc: la medesima difficoltà nel gestire il successo. «Combatto per quelli che si sanno rialzare», ha detto Fury dopo il trionfo. Per questo, si è detto pronto a offrire a Wilder la rivincita. Ma all’orizzonte c’è ben di più: la sfida contro un altro britannico, Anthony Joshua, che detiene le altre tre corone dei pesi massimi (Wba, Wbo e Ibf ), per la riunificazione definitiva. Se mai ci sarà, e in base a come finirà, sapremo chi avrà avuto ragione tra quanti sostengono che il difficile arriva (anzi, si ripresenta) adesso e Paris Fury, moglie di Tyson e madre dei loro 5 figli Prince John James, Venezuela, Prince Tyson Fury II, Valencia Amber e Adonis Amaziah. Prima del match si era detta preoccupatissima per eventuali conseguenze in caso di sconfitta del marito. Chissà. In ogni caso, sia benedetta la boxe: che ci regala storie come questa. E sia maledetta, perché da troppi anni ce ne regala così poche.

Le mille vite di Tyson Fury se la boxe verrà salvata da un gigante zingaro. Il Dubbio il 25 febbraio 2020. Il britannico di nuovo campione del mondo dei pesi massimi. Arrogante, geniale empatico, si era perduto nell’alcol e nella cocaina, ma come un eroe da romanzo, ha sfidato il destino e si è ripreso il suo titolo.  È vero, non ci sono più gli Alì, i Foreman e i Frazier, non ci sono più i Tyson, i Lewis e gli Holyfield e persino i rocciosi ( e noiosi) fratelli Klichko sono ormai glorie del passato. Ma c’è lui, Tyson Fury, il “re degli zingari”, il gigante britannico che salverà la boxe, la nobile arte ormai assediata dai nuovi sport di combattimento, più o meno estremi, più o meno farlocchi, più o meno alla moda. Domenica notte a Las Vegas si è ripreso il titolo mondiale dei pesi massimi abbattendo il massiciio Deontay Wilder ( fin qui imbattuto), lo stesso titolo che cinque anni fa aveva buttato via in un fiume di alcol e cocaina, ritirandosi dalle scene; sopraffatto dalla depressione, all’epoca ha pensato seriamente di farla finita. Non con il ring, ma con la vita. «Dopo la vittoria con Klichko e la conquista del titolo stavo malissimo, sono arrivato a pesare 170 chili e a un certo punto desideravo che qualcuno mi ammazzasse e vi garantisco non è una bella cosa da pensare quando hai una famiglia». Sembrava una parabola già scritta: il successo, la fama e subito dopo la discesa, inevitabile e irreversibile. Ma il re degli zingari non il classico sportivo maledetto senza spessore, la tempra, il carattere, il “karma” sono quelli di un eroe novecentesco, capace di lottare corpo a corpo contro il proprio destino, di scoperchiare le tombe, di mettere alle corde le intemperie, di riemergere dal fango dopo la caduta. E di farlo con uno stile unico, dentro e fuori dal ring. Come Alì anche Fury sa «pungere come un’ape e volare come una farfalla», il fisico possente ( è alto 2 metri e 6 cm) e strano ( sembra una piramide di carne con una testa pelata e appuntita da alieno) non gli impedisce di combattere leggero e veloce, un grande gioco di gambe, un jab asfissiante, tanta disposizione alla sofferenza ma anche un senso innato per lo spettacolo e l’istrionismo. «Posso boxare in tanti modi, di intensità, di rapidità, so attaccare, so difendere, so fintare, so stare in guardia ortodossa o in guardia bassa, sono universale». Fury sa essere molto arrogante, ama provocare i suoi rivali che spesso sfida con sul quadrato gesti plateali, con linguacce insolenti, ma è anche un campione empatico e generoso, che alla fine si dimostra cattivo soltanto con se stesso. Quando nel 2015 butta al tappeto il vecchio Klitchko, commenta così la sua vittoria «Sono sceso sul ring in una forma pietosa, lento e grasso, faccio schifo, Klichko ha perso solo perché è un pensionato». Grande tifoso dello United suoi idoli sportivi sono, guarda un po’, altri due “pazzi furiosi” come lui: Roy Keane e soprattutto il caleidoscopico Eric Cantona, calciatore che sarebbe piaciuto anche a Ionesco. Nato da genitori di origini Pavee ( popolo di nomadi irlandesi) la boxe Fury ce l’ha nel sangue. A 11 anni quando con i tre fratelli lavorava come asfaltatore di strade nella periferia di Manchester, già incrociava i guantoni nella palestra di quartiere. Suo padre John è stato un combattente di strada e poi un pugile professionista. Attualmente è in prigione, condannato a 11 anni per aver cavato un occhio a un uomo in una rissa o una «faida», come dicono i media britannici. Quella durezza proletaria Fury se la porta dietro da sempre, ma nel suo modo di vivere e di boxare c’è qualcosa di speciale, di poetico, un estro armonico che rende elegante anche la sua goffaggine, che sottrae peso e gravità alla silohuette del ciclope. La boxe, una disciplina che da quasi 20 anni vive un’emorragia di fondi e di tifosi, ha un dannato bisogno di personaggi come Tyson Fury, gli unici che la possono salvare dal declino che le sta riservando la modernità gli unici in grado di scrivere nuove gloriose pagine del più nobile di tutti gli sport.

Dagospia il 4 febbraio 2020. Da I lunatici Radio2. Nino Benvenuti è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Benvenuti ha raccontato alcune cose di se: "Prima di salire sul ring io parlavo con mia madre, perché sapevo che soffriva per il mio incontro imminente. Volevo rasserenarla, era una madre con la M maiuscola. Era straordinaria. Anche quando se ne è andata, è rimasta parte importante della mia potenzialità pugilistica. Mi faceva sentire tranquillo, mi dava energie che andavano oltre alla palestra, agli allenamenti, alle difficoltà di un incontro. Sono nato fortunato. Mi sono reso conto che mia madre mi seguiva e io la interpellavo. E lei mi era vicina, sempre. Anche da lassù. Sono sicuro che anche adesso mi sta ascoltando e che io ho goduto di benefici che altri non hanno avuto. Sono un credente, un cristiano, cattolico. Ho goduto di quelle cose che altri non possono avere anche perché non tutti hanno ricevuto la mia educazione. Mi sono scelto i genitori giusti". Ancora il due volte campione del mondo: "Carlos Monzon? Andare a trovarlo in carcere fu importante per me. Era un grande campione e io ho rispetto dei campioni contro cui ho combattuto e che mi hanno impegnato. Il pugilato è uno sport di confronto personale. Ho avuto un rapporto che non si può dire essere stato un rapporto amichevole, ma io lo vedo dal punto di vista, il rapporto personale mio con Monzon ha soddisfatto me. Mi sento soddisfatto di essere stato battuto da uno che penso sia stato un grande, grande, grande campione. Lui era un grande campione, ma sul piano personale, del rapporto che può esserci tra due persone che anno un passato entrambi di grande rispetto, io lo riconosco, sono soddisfatto di quello che ho fatto". Di nuovo su Monzon: "Un grandissimo campione, un personaggio molto strano, non c'erano possibilità di colloquio, di intesa. Aveva molta stima di me, mi rispettava. Sull'aspetto personale, con me, non si è comportato benissimo. E' un carattere così". 

·        Quelli che l’Atletica.

Davide Romani per la Gazzetta dello Sport il 22 dicembre 2020. In pista come nella vita. Salvatore Antibo da sempre ha imparato a convivere con avversari duri da sconfiggere. Se gli africani erano i suoi rivali in gara, l'epilessia da 30 anni è una maledetta compagna di vita con la quale lotta dall' inizio degli Anni 90. Una sfida che - dai Mondiali di Tokyo del 1991 - affronta con dignità, a testa alta come nelle sue gare di mezzofondo più belle. A partire dalla doppietta europea di Spalato 1990 dove "l' africano bianco" ha trionfato nei 5000 e nei 10000. «Non mi arrenderò mai» ripete come un mantra il 58enne argento nei 10000 ai Giochi di Seul «Ho dato del filo da torcere agli africani, i più grandi. Keniani, etiopi, sono i Messi e i Cristiano Ronaldo del mezzofondo. Allo stesso modo non alzerò mai bandiera bianca davanti a questa malattia. Sono un uomo di chiesa e quando sarà il momento verrò chiamato. Ma fino ad allora combatterò». Una gara che Totò («chiamami semplicemente così» rompe il ghiaccio al telefono) affronta ogni giorno con un' amara certezza: «Non c' è nulla da fare, la malattia è incurabile. Il professor Oriano Mecarelli (neurologo, ndr), che mi segue e che non finirò mai di ringraziare, me lo ha confermato. Ho una media di 60 crisi al mese, 2 al giorno anche se in alcuni giorni sono arrivato a quattro. C' è però una possibilità di poter ridurre questo numero».

A cosa si riferisce?

«Il professore mi ha prospettato l' ipotesi di un' operazione che potrebbe ridurre il numero di crisi epilettiche. Da giugno sono in attesa di un intervento. Dovrebbero inserirmi all' altezza della spalla un elettrostimolatore vagale (nella scapola sottocutaneo dove passa il nervo vago, ndr) ma a oggi non ho più avuto notizie».

Sono passati 7 mesi.

«L' emergenza causata dal Covid ha praticamente bloccato tutto il resto del sistema sanitario. Prima mi avevano parlato di Milano, poi Monza. Alla fine a causa delle varie zone rosse mi avevano prospettato l' ipotesi Catanzaro. Ma da giugno ancora nulla. E poi se io dovessi entrare oggi in un ospedale sarei a forte rischio perché sono epilettico e asmatico. Con questo virus che prende i polmoni potrei forse durare solo due giorni».

Ha perso la speranza?

«No, io combatto, non mollo. Come in carriera quando sfidavo i campioni africani. Ma una cosa voglio dire: l' Italia si deve vergognare. A questo Paese ho dato tanto sempre il cuore, ho vinto tanto ma in cambio non ho ricevuto nulla. Ho partecipato a tre edizioni dei Giochi (1984, 1988, 1992, ndr), ho vinto un argento olimpico (1988, ndr), ho conquistato due ori europei (a Spalato nei 5000 e nei 10000, ndr) oltre a un bronzo, ho partecipato ai Mondiali, vinto prove di Coppa del mondo. È vero, mi manca l' oro all' Olimpiade ma nel 1992 ho corso imbottito di farmaci epilettici e sono finito quarto. Chissà senza».

Nessuno l' ha chiamata? Nessuno le ha offerto un aiuto?

«Aiuti non ne voglio, desidero solo essere trattato come tutti quei cittadini che hanno bisogno di cure. Ma certo, per l' atletica e per l' Italia sono scomparso (l' anno scorso però è stato ricevuto a Roma dal presidente della Fidal Giomi, ndr)».

Intanto in famiglia c'è chi sta provando a seguire le sue orme. Suo figlio Gabriele.

«Ha 16 anni (il primo figlio Cristian ne ha 19, ndr) e si allena al Cus Palermo con Gaspare Polizzi, il mio vecchio tecnico. La mia speranza però è che smetta, che non corra più. È molto bravo a scuola, al Liceo. Meglio se si concentra sugli studi».

Come convive con le crisi?

«Ho bisogno di una persona sempre accanto a me, perché se cado rischio di farmi male. Quando arrivano le crisi, per 3 minuti io sono morto. Quando mi riprendo è come se non ricordassi nulla di ciò che è successo nei minuti precedenti».

Nessun miglioramento?

«Il professor Mecarelli mi ha da poco inserito un nuovo farmaco, il settimo, nella terapia che assumo: il Gardenale. È molto potente, mi procura forti mal di testa ma da tre giorni non ho crisi epilettiche. Una cosa che non succedeva da 30 anni. Magari però la prossima potrebbe arrivare mentre parliamo. Convivere con questa malattia mi ha insegnato che in ogni momento può arrivare una crisi. Ma ci tengo a ribadire un' ultima cosa...».

Prego.

«Non è Salvatore Antibo a dover essere ascoltato, aiutato. Sono gli italiani che hanno bisogno di cure, che necessitano di interventi chirurgici. E se un Paese come l' Italia non è in grado di farlo, si deve vergognare».

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2020. Mister muscolo minimizza: «Io a 51 anni con il fisico da culturista? Ma no, non scherziamo: rispetto ad Atlanta '96 sono la metà. E va bene così: da ex atleta voglio stare bene con la mia età, la mia testa e il mio corpo». Eppure il video di Jury Chechi (il nome, ricordiamolo, proviene da un' antica fascinazione dello zio materno per Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio), indimenticato re degli anelli ai Giochi americani dopo essersi rotto il tendine d' Achille, ha fatto alzare più di un sopracciglio: una routine di esercizi, in posizione di plank, che solo braccio di ferro può sostenere senza schiantarsi al suolo. Un' antica deformazione professionale, postata da Chechi su Instagram, che ha riempito gli occhi del Web.

Jury, si allena così ogni mattina?

«Alterno gli esercizi per tenere tonici due blocchi: i tricipiti e il core, la muscolatura del tronco. Vivo a Prato, in zona rossa: il tempo per allenarmi ce l' ho. Il video voleva proprio essere un' idea per stimolare l' attività motoria».

Dopo la carriera, non è rimasto con le mani in mano.

«Ho tre attività, che purtroppo risentono molto della pandemia: un' agenzia di comunicazione, un resort dal 2013 a Ripatransone, nell' ascolano, e la Chechi Academy a Prato, dove mi occupo soprattutto di calisthenics».

Cioè?

«È l' arte di usare il proprio peso corporeo come resistenza per sviluppare il fisico».

Googolando rapidamente si legge che nell' antica Grecia gli spartani si prepararono per la battaglia delle Termopili con il calisthenics.

«La disciplina moderna è nata negli Usa all' inizio degli anni Duemila come declinazione della ginnastica usando elementi naturali. È uno street sport che piace molto ai giovani. Io formo gli istruttori: spero di organizzare, a breve, la prima gara online».

Esercizi a parte, continua a fare una vita da atleta?

«Atleta ma non asceta. L' alimentazione giusta è importante: mangiare con attenzione, sgarrando ogni tanto. Quando esagero mi sento sempre in colpa: retaggio degli anni della ginnastica. Adoro la pizza, quella con le farine giuste e la lievitazione corretta, e mi piace il vino che produco nella mia azienda agricola nelle Marche. Ma niente supera i tortelli alla ricotta fatti in casa da mamma Rosella».

La tradizione dei nomi russi è proseguita con i suoi figli, Dimitri e Anastasia.

«Sono un papà presente, ho il privilegio di poter fare meno cose per restare di più insieme a loro. Entrambi hanno iniziato con la ginnastica, dimostrando zero interesse. Meglio così. Anastasia va a cavallo e ha preso il mio carattere: è esigente, perfezionista. Dimitri è l' artista di casa: suona la batteria».

Dove tiene l' oro di Atlanta e il bronzo di Atene 2004, conquistato a 34 anni dopo un altro grave infortunio per tenere fede a una promessa fatta a suo padre?

«Chiusi in cassaforte».

E il resto (5 ori mondiali, 4 europei, eccetera...)?

«È stato tutto messo all' asta per salvare dal fallimento la Società ginnastica Etruria di Prato, dove cominciai. I trofei furono acquistati dalla Fondazione Reale Mutua. Ora che la palestra è salva, spero che vengano presto esposti».

Con la tv ha chiuso?

«I reality che mi hanno proposto, con dinamiche che solleticano il gossip, non sono nelle mie corde. Rilavorerei subito con Antonio Rossi, tre ori olimpici nella canoa, mio fratello, e non rifiuterei un intrattenimento intelligente».

La politica sportiva le interessa ancora?

«La candidatura alla Federginnastica, nel 2016, è stata un' esperienza straordinaria: una sconfitta che mi ha fatto crescere. Credo che avrei potuto dare qualcosa di buono al mio mondo, collaborando con chi mi ha tenuto fuori. Ma forse qualcuno si sarebbe sentito messo in ombra».

Il momento più bello della sua carriera?

«L' atterraggio dell' esercizio ad Atlanta: un senso di liberazione intensissimo».

Ma la croce agli anelli sarebbe ancora capace di farla?

«Me la sono regalata per i miei 50 anni. Uno sfizio. Sono riuscito a tenerla giusto un secondo, ma l' ho tenuta».

L’insegnamento di Mennea: “La fatica non è mai sprecata, soffri ma sogni”. Stefano Chimenti su larno.ilgiornale.it il 20 ottobre 2020. “Se l’ho fatto io, lo può fare chiunque”, così rispondeva Pietro Mennea a chi gli chiedeva di commentare una delle sue tante imprese. “Un ragazzo del sud senza pista” come spesso si autodefiniva che, senza tanti clamori e pubblicità, faceva visita nelle scuole per raccontare ai giovani di porsi sempre degli obiettivi sfidanti e che “dalle sconfitte nascono le grandi vittorie” (riferendosi al deludente 4° posto delle olimpiadi di Montreal nel 1976 seguito dai 4 anni successivi dove stabilì il record del mondo, ancora attuale record europeo e giungendo fino alla medaglia d’oro olimpica di Mosca nel 1980). È stato l’unico velocista al mondo a fare 5 olimpiadi: longevità atletica, purtroppo Pietro se n’è andato via troppo presto da questa vita, lasciandoci comunque un patrimonio culturale, di umanità e di integrità morale straordinarie. Poco più di un mese fa gli è stato dedicato un murales a Formia, città che lo ospitava durante i suoi allenamenti spesso solitari; restava anche d’inverno ad allenarsi al centro federale, anche in occasione delle festività. Costanza, coerenza, legalità e integrità morale appunto: “La vita è una pista di 8 corsie: 7 sono per i furbi, ma l’ottava lasciatela libera a noi che vogliamo correre e vincere in maniera corretta” (citazione della moglie Manuela). Chissà cosa direbbe oggi Pietro del nostro tempo, dello sport che si ferma per chi sì, per chi no. Di certo restano le sue parole che molti allenatori anche di altri sport dovrebbero seguire in momenti come questi, da diffondere ai ragazzi, agli atleti di livello. Valgono anche e soprattutto per noi cosiddetti sportivi che troppo spesso ci sentiamo al centro del mondo, minati dalla mancanza delle libertà individuali in periodo pandemico, privati dell’evento. Proprio per noi, che ci definiamo amatori. “In questa cosiddetta società del tempo libero c’è chi va a caccia, chi a pesca, chi corre quel rito di moda che si chiama maratona dentro la città, un rito tra l’altro molto sponsorizzato, c’è chi va in palestra, chi a donne e chi nei casinò. Io invece ho scelto di correre, ma veloce, per un gusto appreso da ragazzo, quando sfidavo le motorette sui 50 metri, e che non mi è mai passato. Così abbandonata l’attività di atleta vincente, non ho saputo o voluto lasciare quello che per me è stato il divertimento di tutta una vita, l’allenamento. Ogni tanto c’è qualcuno nel parco che mi chiede (mentre corro e mi parla delle proprie imprese di corsa, ndr): e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già fatto. 5482 giorni, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti. Rifarei tutto, di più. La fatica non è mai sprecata, soffri ma sogni”. È questo il compito più difficile per lo sport oggi, vittima di un autentico paradosso: riconoscerne il valore relativo e i suoi valori discendenti, confusamente mescolati in noi adulti e di conseguenza a digiuno nei nostri giovani dove un po’ di storia dello sport come materia propedeutica agli esercizi pratici non farebbe mai loro male. Ecco, rileggere la storia dei campioni, dove sono nati, come sono cresciuti, le difficoltà che hanno attraversato, cosa hanno fatto nella loro vita, come hanno messo a frutto il loro talento sportivo, potrebbe essere una risposta, riportando il tutto nel giusto ordine e fine come ci ha insegnato Pietro Mennea.

B come Bordin e Baldini. Se la sofferenza è d'oro. Gelindo a Seoul '88, Stefano ad Atene 2004. Da sfavoriti a vincenti, elogio di fatica e orgoglio. Oscar Eleni, Giovedì 20/08/2020 su Il Giornale. Diceva un grande scrittore come Cesare Pavese che non è bello essere nostalgici, ma è invece bellissimo, da anziani, pensare a quando lo eravamo. Erano i giorni dove l'anno bisestile fioriva con i Giochi olimpici che adesso la pandemia ci ha rubato, insieme a tante altre cose. Per questo guardiamo con nostalgia ai giorni in cui lo sport italiano presentava campioni senza mandolino, ma con cuore e gambe da leoni. Gente che stupiva, perché nessuno immaginava che potessero nascere da noi, ad esempio, due campioni olimpici di maratona come Gelindo Bordin, Seoul 1988, e Stefano Baldini, Atene 2004. Re nel regno della fatica, della sofferenza. Una lunga corsa iniziata, come ci ricorda nei suoi meravigliosi fuori tema Augusta Frasca, voce della grande atletica, con il tipografo della Gazzetta Ugo Frigerio, milanese, figlio di ortolani che avevano la bottega in via Tivoli, oro sui 10 chilometri di marcia, il primo italiano di sempre sul podio, ai Giochi di Anversa 1920, titolo poi rivinto a Parigi 4 anni dopo. Con lui lasciavamo a bocca aperta chi ci considerava soltanto attori non protagonisti. Stupore come per la doppietta nel disco a Londra 1948 della coppia Consolini-Tosi. Meraviglia come nei giorni delle fatiche vincenti di artisti del tacco e punta sui 50 chilometri come Dordoni, Helsinki 1952, Pamich, Tokio 1964. Un mondo che spalancò gli occhi per Berruti oro dei 200 con record mondiale a Roma 1960, così come per Mennea a Mosca 1980, così come era stato per Nini Beccali, oro dei 1500 a Los Angeles 1932, o, magari, per Ondina Valla sugli 80 ostacoli a Berlino 1936, la stessa cosa per Gabriella Dorio prima a Los Angeles '84 sui 1500 nei giorni dell'oro sui 10000 di Alberto Cova e di Andrei nel getto del peso. Luciano Gigliotti, il professor fatica, amante del rugby, occhi elettrici, classe 1934, che ancora oggi si agita se qualcuno associa il concetto di fatica a quello del doping che considera falsa, folle, perché il problema non è il trasporto di ossigeno, ma il consumo di glicogeno, dei serbatoi del tuo organismo li ha portati lì. Lucio che ha sempre sognato di essere un maratoneta e ai pettegoli ricorda che Bordin non prendeva neppure la vitamina C, mentre Baldini prima di Atene ha superato i quattro controlli della federazione mondiale, ripete che rifiuterà sempre di associare il concetto di doping a quello di fatica. Gelindo Bordin nato a Longare il 2 aprile del 1959 arrivò a Seoul passando dalle corse su terra seguito prima da Dalla Pria e poi Ghedini, arrivò alla maratona nel 1984 vincendo a Milano, ma il salto vero lo fece 2 anni dopo prendendosi l'oro europeo agli europei del 1986, rimuginando sul terzo posto ai mondiali romani dell'anno seguente. Gelindo cabarettista mancato, uomo di ferro che nei lunghi ritiri, insieme a Nazareno Rocchetti, fisioterapista che sussurrava ai cavalli, diventato poi artista del fuoco con le sue sculture, i suoi quadri, riusciva a far dimenticare l'isolamento, gli allenamenti duri. Erano fratelli in arme anche nei giorni dell'Olimpiade coreana, per Nazareno da Filottrano che riusciva a far sorridere anche Mennea, Sara Simeoni, Gabriella Dorio, le fiorettiste Vezzali e Trillini, giorni elettrici mentre Seoul diventava inferno per il 100 maledetto di Ben Johnson e Carl Lewis. Lui c'era quando Gelindo restò in testa dopo la scrematura al 25° chilometro, era con le borracce al vento nell'inferno degli ultimi 5 chilometri quando il keniano Wakiihuri e il gibutiano Ahmed Salah portarono il loro attacco a meno 3 dalla fine, ma ai 1000 metri finali ecco Gelindo e la sua lancia di fuoco che fece schizzare dalla tribuna la nostra ambasciatrice Graziella Simbolotti, genio della diplomazia che era stata già a Città del Messico, Manila, Parigi e Pechino. Bandiera tricolore al vento poi portata in ambasciata per una festa fino alle luci dell'alba dove il geometra Bordin, che è rimasto nell'atletica lavorando per la Diadora, promise altre meraviglie e infatti rivinse l'europeo nel 1990 e trionfò in 2 ore 8'19 nella maratona di Boston che mai aveva visto un campione olimpico prendersi quella borsa sontuosa. Stefano Baldini, nato a Castelnuovo di Sotto, Reggio Emilia, il 25 maggio del 1971, nell'azienda agricola che Tonino e Maria, i suoi genitori, ottavo di undici figli (6 maschi 5 femmine) avevano inventato per produrre latte che ancora oggi serve il consorzio del parmigiano reggiano. Diploma all'istituto tecnico di Guastalla, poliziotto di leva nel 1991 corre per le Fiamme Oro, ma un anno dopo entra alla Corradini Calcestruzzi nel settore amministrativo e ci resta fino al 2001 perché in quel mondo aveva capito di poter fare la cosa che amava di più: correre, fare sport. In pista soffriva, ma poi allungando le distanze, 13 titoli italiani fra 10mila e mezza maratona, andando su strada, professionista nell'anima, ma angelo dal cuore limpido in ogni momento della sua crescita, ecco il primo titolo mondiale di mezza maratona a Palma di Maiorca nel 1996, quello europeo di Budapest nel 1996. Ripassatina al motore in pista, con polemiche, come dice lui che voleva richiamare l'attenzione sul mondo della fatica, quarto nel 2002 a Monaco sui 10000, la mossa giusta per risvegliare muscoli che reagivano male agli attacchi degli africani nelle maratone che aveva scoperto con i tre fratelli maggiori. Ad Atene l'apoteosi facendoci piangere e sospirare nella battaglia finale, con record sul percorso storico da Maratona allo stadio ateniese di 2 ore 10'55, lasciando a 34 lo statunitense Keflezighi e ad oltre un minuto il brasiliano Vanderlei da Lima che era ancora in testa al 36° chilometro, già in debito di energie, era stato bloccato da un fanatico irlandese, un prete. Sull'episodio Stefano è sempre stato leale: non sapeva, intuiva, ma le gambe giravano bene e la sua caccia lo aveva portato oltre. Da quel giorno pensieri, parole, commenta spesso l'atletica in Tv per Sky, lavoro per l'atletica, i giovani, una costruzione paziente di cui oggi si vede qualche bel risultato, l'amarezza di averli lasciati al momento del raccolto. Un distacco da cavaliere. Un passo di lato come sanno fare i campioni veri.

Alberto Cova: «Dissi a mamma che volevo fare l’atleta e lei rispose: “Sì ma quando cominci a lavorare”?». Roberta Scorranese il 25/7/2020 su Il Corriere della Sera.

Una fotografia. Un uomo robusto, con le guance piene. Questo non sembra neanche lei.

«Pesavo 82 chili. Era il 1998, avevo smesso di correre da otto anni».

Come si può smettere di colpo di fare una cosa che hai fatto per tutta la vita?

«Per stanchezza. Perché volevo fermarmi. È questo il punto: qualche volta non concepiamo nemmeno la possibilità di fermarci e di fare cose diverse. Io l’ho fatto. Ad un certo punto non correvo più, mi godevo il cibo e il riposo. Oggi sono dimagrito e ho ripreso un po’ a correre, ma non ho rimorsi per quella fase da fermo».

Alberto Cova, 61 anni. L’unico atleta italiano a vincere i 10.000 metri a Europei, Mondiali e Olimpiadi. Consecutivamente. La sua casa di Mortara è un piccolo museo personale: le scarpe delle vittorie, le medaglie, la maglia azzurra, la foto con Pertini.

Adolescenza a Mariano Comense. Che famiglia era la sua?

«Papà operaio, mamma sarta. Prima che ci trasferissimo a Mariano, stavamo a Cremnago e papà ogni giorno si alzava alle cinque, faceva un chilometro in bici prendeva il treno per Milano e poi si faceva un altro chilometro a piedi per raggiungere la fabbrica. Comunista, conosceva bene il senso della lotta».

E la mamma?

«Quando mi iscrissi a Ragioneria cominciò a cucirmi i completi da bancario. Era naturale per lei che io andassi a lavorare in banca: sedici mensilità, ferie pagate, un impiego di tutto rispetto. E quelle giacche erano pronte per me da tempo».

Ma lei voleva correre.

«La mia era una terra di basket, tutti pensavano al canestro, come racconto nel libro scritto con Dario Ricci Con la testa e con il cuore. Forse è anche per distinguermi dagli altri che scelsi l’atletica. Intorno al nostro palazzo c’era un cantiere che sarebbe poi diventato un complesso residenziale. Lì, da solo, ho fatto l’attività motoria».

Come?

«Correvo, andavo in bici. Noi bambini ci muovevamo molto più liberamente e i piccoli atleti crescevano con questa naturalezza di movimento che oggi è rara. Oggi i bambini “li porti al campo”, “li porti a fare allenamento”. Noi si cadeva e ci si rialzava, insomma era tutto più selvaggio».

Prima l’Atletica Mariano Comense, poi il salto alla Pro Patria con Giorgio Rondelli. Eppure la corsa negli anni Settanta non era «cool».

«Macché, mica era un fenomeno di massa come oggi, che si moltiplicano le maratone amatoriali. Era una cosa di nicchia, la conoscevano in pochi. E di certo non era uno sport con cui diventavi ricco».

Così, un bel giorno, lei disse alla mamma che no, non sarebbe entrato a lavorare in banca.

«Dissi che volevo fare l’atleta e mia madre mi rispose: “Sì, ma dovrai pur lavorare, che lavoro è fare l’atleta?”». Risposi che prima di vedere qualche soldo avremmo dovuto aspettare quattro o cinque anni ma lei non voleva aspettare».

Be’, lei aveva già cucito le giacche da bancario...

«Pensi che quando vinsi la prima medaglia davvero importante, a Tokyo nel 1980, tornai a casa e lei mi accolse dicendomi: “Te se semper n’gir com ‘n strasc”, che vuol dire una cosa tipo: “Sei sempre in giro, sei un vagabondo”».

Voleva vedere i quattrini. E come se la cavò Alberto Cova?

«Beppe Mastropasqua, grande presidente della Pro Patria, aveva una piccola società e allora mi disse: “Facciamo così: vieni a fare il ragioniere part time qui da me, poi il resto della giornata ti alleni. Così mamma e papà vedono uno stipendio”. E così fu».

In effetti, lei è passato alla storia dello sport come «Il ragioniere», ma non era solo per quello.

«No, mi chiamavano così anche per la mia disciplina, per il mio senso della gara, penso anche per la misura che mettevo in ogni competizione. Anche quando mi sono trovato a correre in una Olimpiade o in un Mondiale sono rimasto, in fondo, il ragazzo che sapeva fare bene i conti».

Prima trasferta internazionale?

«Avevo diciannove anni, andammo a Donetsk, all’epoca Unione Sovietica. Rimasi scioccato: non si mangiava quasi nulla. Meno male che un atleta vicentino, Fattori, si era portato la scorta di vaschette di Nutella. Ricordo gli avversari: piccoli soldati, non potevamo assolutamente familiarizzare con loro».

Lei appartiene a quella generazione di bambini che hanno visto il primo uomo sulla Luna.

«Siamo diversi perché quell’esperienza ci ha segnato. Noi che abbiamo visto abbattere un simile confine siamo cresciuti con l’idea che molte barriere si potessero superare. Però mi ricordo anche la contestazione. Lo racconto nel libro: spesso le proteste bloccavano o il bus che mi portava da Mariano a Seregno oppure le lezioni. Quando sentivo che c’era aria di sciopero, mi mettevo le scarpette — che portavo sempre con me — e andavo ad allenarmi».

Quand’è che la mamma ha finalmente visto i «soldi veri»?

«Nel 1982 quando vinsi gli Europei. Oddio, se di soldi veri si può parlare. All’epoca eravamo pagati pochissimo, intorno all’atletica non c’era quella narrazione eroica che verrà fuori dopo».

Forse però questa narrazione nacque con lei. Molti si ricordano il grido «Cova! Cova! Cova!» ai Mondiali del 1983, a Helsinki.

«Paolo Rosi ne fece uno straordinario racconto di sport. Ma io sono un atleta e queste cose per me restano ai margini. Noi pensiamo a correre, a gareggiare, a vincere. Pensiamo solo a quel terreno, a come sono le nostre scarpe, alla pioggia e al sole. Ognuno di noi è fatto in un modo diverso e la cosa magica è che la nostra costituzione fisica oggi ci incorona e domani ci sconfigge».

Per esempio?

«Una volta feci una campestre in cui c’era anche Gelindo Bordin, robusto, muscolare. Lui scattò subito avanti io mi ripromisi di lavorarci bene verso la fine, “tanto ho dodici chilometri”, mi dissi. Però non avevo fatto bene i conti con il terreno fangoso. La mia magrezza mi fu di intralcio. È lo sport, è la gara, è la vita».

C’è una sconfitta che ha avuto un peso particolare per lei?

«Più che una sconfitta fu un episodio di per sé quasi insignificante ma che poi determinò una vera disfatta dopo. In breve: io ero un oro olimpico e per me il posto agli Europei di Stoccarda 1986 era automatico. Ma in quella che era una gara di qualificazione, io rinunciai a proseguire dopo un piccolo infortunio. Stefano Mei si qualificò e fu lui a battermi a Stoccarda. Non sono abituato a considerare le sconfitte come qualcosa di negativo, ma mi sforzo di vederle dentro un disegno più completo. Così anche le vittorie. Non ci sono avvenimenti brutti o belli: ci sono tasselli di un percorso che va sempre letto nel suo insieme».

Quando ha pianto Alberto Cova?

«Ai Giochi di Seul del 1988. Ma non perché per me fu una Olimpiade disastrosa. Piansi di gioia per Gelindo Bordin che vinse l’oro nella maratona».

La foto che la ritrae assieme a Pertini è centrale nella raccolta di ricordi in questa stanza. Perché?

«Perché all’epoca non era come oggi che, con i social, tutto diventa proprietà di tutti in pochi secondi. All’epoca essere ricevuti dal capo dello Stato era un avvenimento solenne, molto privato ma anche di grande importanza nella vita di un atleta. Il Coni imponeva una preparazione speciale, il cerimoniale ci emozionava. Era una cosa non condivisa ma proprio per questo molto più incisiva».

La corsa è stata anche un formidabile canale di inclusione sociale, penso ai grandi campioni di colore.

«Sì ma la maggioranza degli atleti africani è arrivata tardi, e solo quando molti brand ricchissimi e di rilevanza mondiale si sono accorti che laggiù c’era un tesoro da conquistare. Così sono andati giù e hanno realizzato campi e strutture».

Una forma di colonialismo?

«Una forma».

Alberto Cova è sempre stato «il campione con i baffi». Oggi non li ha più.

«Li ho tagliati quando ho cominciato a vedere che stavano diventando grigi. Prima di farlo, per un attimo ho pensato: “Ma la gente così mi riconoscerà per strada?” . Per un attimo solo, poi li ho tagliati. Fine. Va benissimo così». 

MARCO BONARRIGO per il Corriere della Sera il 13 luglio 2020. Lo scoop Il quotidiano inglese Daily Mail ha recuperato e pubblicato ieri i «contratti» secretati siglati da Uk Sport, l'agenzia governativa britannica per lo sport olimpico, e 91 atleti per l'assunzione di un prodotto sperimentale a base di chetoni in vista dei Giochi olimpici di Londra 2012. Non vietato Il prodotto non era proibito ma Uk Sport addebitava agli atleti ogni responsabilità in caso di positività o problemi per la salute, poi presentatisi (sotto forma di nausea e vomito) in molti casi Oxford Sviluppati a Oxford per l'esercito Usa, molto costosi, i chetoni sono prodotti sintetici che ridurrebbero il consumo delle scorte energetiche dell'organismo e la produzione di acido lattico. Ma gli studi che confermerebbero la loro efficacia sono una minima parte degli oltre 500 effettuati Tra il 2011 e il 2012, Uk Sport, l'agenzia governativa britannica per lo sport olimpico, utilizzò 91 atleti di altissimo livello come cavie per sperimentare un prodotto chimico non in commercio e con pesanti effetti collaterali. Lo scopo? Dominare i Giochi di Londra. Nell'accordo con gli atleti, secretato, ciascuno di loro si assumeva ogni potenziale rischio per la salute e in caso di positività al doping. Esploso ieri grazie a una meticolosa inchiesta del Daily Mail , il «caso DeltaG» rischia di sbriciolare la reputazione dello sport inglese e di macchiare la memoria di Olimpiadi trionfali. DeltaG non era in vendita: nessuno ne aveva autorizzato l'uso commerciale. Non era proibito perché non era mai stato studiato dall'antidoping, non si sa se migliorasse le prestazioni (cosa che non è chiara nemmeno oggi, dopo decine di studi) ma di certo provocava gravi malesseri: il 40% delle «cavie» vomitava o aveva problemi di stomaco, nel 28% dei casi così forti da far sospendere immediatamente l'assunzione. I cronisti hanno scoperto che il magico beverone conteneva chetoni sintetici, composti organici ritenuti «miracolosi» nel migliorare l'utilizzo di energia da parte dell'organismo e studiati segretamente nei laboratori militari americani. Ciascuna «cavia» firmava un documento con cui si impegnava a non divulgare nulla sull'esperimento, a farsi carico degli eventuali rischi per la salute e addirittura di eventuali problemi con i controlli antidoping. «Uk Sport - si legge in un "contratto" recuperato dal quotidiano - non può garantire o assicurare che gli estratti di chetone siano completamente a norma rispetto al Codice mondiale antidoping ed esclude ogni sua responsabilità in caso di positività». Rassicurando però le «cavie» (con un passaggio eticamente micidiale) sul fatto che «le variazioni della chetosi dell'organismo sono fisiologiche e quindi l'assunzione è difficile da riscontrare e dimostrare in eventuali controlli post gara e il prodotto al momento non è proibito». Il progetto DeltaG era nato nell'ambito di un programma governativo «per portare a livelli di forma altissimi i britannici e massimizzare il numero di medaglie»: gli inglesi ne conquistarono 65, garantendosi il terzo posto nel ranking per nazioni. Ieri Uk Sport ha cercato di parare il colpo senza grandi risultati: «Il nostro era un progetto di ricerca e innovazione condotto in linea con i più elevati standard etici, nell'ambito delle regole dello sport internazionale e valutato da un gruppo consultivo indipendente di esperti». I nomi dei 91 «chetonici» non sono stati resi noti ma British Cycling, che dominò in maniera quasi imbarazzante le prove su pista e su strada del ciclismo, ha confermato che «molti dei suoi atleti usarono DeltaG nel periodo di preparazione».

Doping, atleti Gb usati come cavie per sostanza sperimentale a Giochi 2012. Pubblicato domenica, 12 luglio 2020 da La Repubblica.it. Gli atleti olimpici britannici sarebbero stati usati come cavie per testare una sostanza sperimentale in un progetto segreto costato centinaia di migliaia di sterline di denaro pubblico nel tentativo di migliorare le loro prestazioni durante i Giochi olimpici di Londra 2012. Lo rivela l'edizione odierna del Daily Mail. Il comitato olimpico britannico avrebbe costretto gli atleti a firmare liberatorie a propria discolpa se qualcosa fosse andato storto e preso accordi in modo da impedire agli atleti di parlarne. Ma alcuni documenti pubblicati dal Mail on Sunday mostrano come 91 sportivi britannici di livello mondiale in otto sport olimpici siano stati sottoposti al trattamento, che consisteva nell'assunzione di una bevanda energizzante, il DeltaG.  La sostanza, una versione sintetica di un acido corporeo naturale, i chetoni, è stata originariamente sviluppata da scienziati dell'Università di Oxford con 10 milioni di dollari di finanziamenti da parte del Dipartimento della Difesa americano in modo che le forze speciali statunitensi potessero operare più a lungo dietro le linee nemiche pur a corto di viveri. I chetoni sono composti organici prodotti dal fegato in mancanza di carboidrati per bruciare grassi, sfruttati anche in alcune diete dimagranti. UK Sport, l'agenzia governativa responsabile del finanziamento dello sport olimpico e paralimpico in Gran Bretagna, ha prodotto un "foglio informativo per i partecipanti" per accompagnare la domanda di progetto che recita così: "UK Sport non garantisce, ma promette e assicura che l'uso della bevanda chetonica è assolutamente conforme al codice antidoping mondiale e quindi esclude se stessa da ogni responsabilità. La WADA potrebbe raccogliere campioni di sangue o testare retrospettivamente vecchi campioni. Ciò può verificarsi se questa storia diventasse di dominio pubblico. Tuttavia la chetosi è uno stato fisiologico temporaneo e sarebbe difficile da dimostrare o testare con qualsiasi campione post-evento." Lo scorso anno, durante il Tour de France, era emerso che la Jumbo-Visma, la formazione olandese del numero uno delle classifiche Uci Primoz Roglic, stesse usando una bevanda miracolosa a base di chetoni. Le prestazioni, secondo alcuni studi, migliorerebbero del 15%. L'uso dei chetoni non è comunque illegale, anche se all'interno del mondo del ciclismo c'è grande discussione sulla loro liceità.

Andrea Buongiovanni per “la Gazzetta dello Sport” il 29 maggio 2020. Della figlia, nata il 17 maggio, ha deciso di non parlare. Nemmeno di Kasi, neo mamma. Dev' essere una questione di privacy, di rispetto o di chissà cos' altro. Sui suoi account social, sempre molto utilizzati, al riguardo non compare né una foto, né un pensiero. Usain Bolt, l'uomo più veloce della storia, qui anche nelle vesti di ambasciatore Hublot, su tutto il resto però non si tira indietro. A cominciare, naturalmente, dai temi legati alla più stretta attualità e alla pandemia che ha fermato il mondo. Non la sua fama, che continua a prescindere: dal 10 luglio, per dirne una, su Apple Tv sarà tra i sette protagonisti di "Greatness code", una serie di mini documentari diretta da Gotham Chopra, dedicata ad altrettante leggende dello sport, tra le quali LeBron James, Tom Brady e Katie Ledecky.

Usain, com' è la situazione in Giamaica?

In confronto a tanti Paesi nel mondo, molto meno drammatica. Per ora ci sono circa 550 casi confermati di positività e nove decessi relativi. Naturalmente il Covid-19 sta avendo gravi effetti sulla nostra economia, soprattutto sull' industria del turismo, visto che nessuno al momento può ancora viaggiare».

Com' è cambiata la vita della gente in queste settimane?

«Anche da noi ci sono in essere numerose misure di contenimento del virus. Le scuole sono chiuse, la gente viene invitata a lavorare da casa invece di andare in ufficio, gli eventi sportivi sono stati posticipati o cancellati. Su quasi tutta l' isola c' è una sorta di coprifuoco che va dalle 8 di sera alle 6 di mattina. Personalmente, in aprile e maggio, avrei avuto un' agenda molto piena, tra photo shooting ed eventi all' estero. È tutto slittato a non prima di fine estate».

Siete stati o siete tuttora in regime di vero lockdown?

«Non così severo come ho capito esserci stato in altri Paesi, se non in alcune zone specifiche dell' isola».

Le manca viaggiare?

«Da molti punti di vista è bello poter rimanere a casa, non mi è capitato spesso negli ultimi anni. Ma sono così abituato a volare, che è davvero strano non ritrovarmi da così tanto tempo su un aereo».

Che cosa raccomanderebbe alla sua gente?

«La cosa migliore da fare è rispettare le norme, le indicazioni e i suggerimenti governativi.È da lì che provengono le linee-guida, al momento».

A proposito del virus: come le è venuta l' idea di postare la foto che la ritrae dominante sull' arrivo dei 100 dell'Olimpiade di Pechino 2008, quando rifilò 20 centesimi al secondo, per spiegare a modo suo il distanziamento sociale?

«È stata una trovata del mio amico-manager NJ Walker. Ho pensato fosse divertente e mi è parso che la gente abbia apprezzato. È importante, in periodi difficili come questo, provare a rimanere positivi».

Non tutti, in verità, sono sembrati così entusiasti: più d' uno ha ritenuto sia stata un' iniziativa inappropriata, quasi da sbruffone...

«Invece voleva soltanto essere un post leggero, in grado di strappare un sorriso. Nessuno avrebbe dovuto offendersi o irritarsi».

Crede che la pandemia cambierà il mondo?

«Sarà interessante verificare come il mondo tornerà alla normalità e cosa si intenderà per "normalità". Qualcuno sarà costretto a ripensare alla propria vita, a come e dove poter lavorare. E immagino che la gente non avrà tanta voglia di spostarsi e di viaggiare come in passato. Probabilmente le opportunità legate alla tecnologia diventeranno ancora più importanti. Ovviamente il passo più significativo sarà arrivare ad avere un vaccino pe il Covid-19: sino ad allora il mondo intero dovrà stare in guardia».

L' abbiamo vista molto coinvolta in attività di beneficenza e di altro genere: la cercano sempre in molti?

«Sì, tutti da me vorrebbero interviste online e ricevere qualche messaggio motivazionale».

Come ha trascorso la quarantena?

«Sono rimasto tranquillo, in contatto con familiari e amici, trascorrendo il tempo come sempre faccio quando ne ho un po' di libero, tra video giochi e film in tv. Niente sport dal vivo: e, da patito quale sono, mi è mancato molto».

Si è mantenuto in forma in qualche modo? Si è allenato?

«A casa ho alcune cyclette e una palestrina con un po' di pesi: mi sono mantenuto attivo sfruttando le une e l' altra. Ma mi piace farlo con gli amici, in gruppo. Da solo, non molto».

Qualche mese fa erano circolate voci circa un suo possibile ritorno alle gare, magari in vista di una frazione di 4x100 all' Olimpiade di Tokyo: dato che i Giochi si svolgeranno nel 2021, ci sono possibilità che ciò possa accadere?

«Non sapevo di tali speculazioni... Non ho mai pensato a un ritorno per il 2020 e non ho alcuna intenzione di tornare per il 2021. Mi sto godendo la pensione».

Ritiene che lo sport giamaicano risentirà molto dell' attuale situazione?

«È probabile: per quanto riguarda l' atletica è facile immaginare che quest' anno non avremo molte gare. Eventi come i campionati Boys & Girl, da noi popolarissimi e fucina di talenti, sono stati cancellati. Credo che molti atleti top stiano già pensando al 2021. Ho sentito che il cricket sta definendo quando ripartire, mentre il calcio rimarrà fermo sino a che non ci saranno tutte le necessarie condizioni di sicurezza».

E l' atletica quando ripartirà a Kingston?

«Ne stanno discutendo, ma non penso abbiano ancora preso decisioni definitive».

Quale sarà la priorità, in generale, una volta che si potrà tornare a gareggiare?

«Per quanto riguarda questa stagione, immagino uscirne indenni in tutti i sensi, per poi dare il meglio il prossimo anno».

È ambasciatore Hublot, azienda leader nella produzione di orologi di lusso: crede che il mondo dovrà impegnarsi in una corsa contro il tempo per recuperare quanto perso?

«Ho questo ruolo da dieci anni, ci sono tre orologi che portano il mio nome. Hublot è una grande azienda che investe molto nello sport, ma non credo che il mondo dovrà correre contro il tempo. Dobbiamo solamente pensare al futuro in modo un po' diverso e farci trovare pronti alle nuove sfide».

Parlando di novità: l' atletica, da anni, prova a rinnovarsi, con format di meeting diversi, sfide su strada, l' introduzione di gare senza tradizione e altre proposte: che cosa ne pensa?

«Ce n' è bisogno. Alcune stagioni fa, in Australia, sono stato coinvolto in Nitro Athletics, un nuovo modo di proporre la nostra disciplina, con prove a squadre. Tutti i partecipanti, al termine, hanno detto che è stato l' evento più divertente al quale abbiano mai preso parte. In un meeting, di solito, non seguo tutte le specialità. Ma quando ci sono in palio punti per la squadra di cui si fa parte, diventa molto più facile essere coinvolti. Credo accadrebbe lo stesso con gli spettatori. L' atletica resta sport individuale, ma il concetto e l' idea meritano di essere sviluppate».

Carl Lewis ripete spesso che nell' atletica di oggi è tutto sbagliato, che è giunta l' ora "di avere una conversazione onesta circa il suo futuro". Come commenta questa affermazione?

«Non diventerò mai un ex atleta che si lamenta di ogni cosa, facendo confronti col proprio passato. Tutte le discipline devono evolversi col mutare dei tempi e reagire ai gusti e alle necessità degli atleti, degli spettatori, dei media. Anche l' atletica, certamente».

Giulia Zonca per La Stampa il 28 maggio 2020. C' è chi è abituato a scattare da fermo, Filippo Tortu era pronto per uno sprint olimpico, si è bloccato e ora la sua carriera è in perfetta sintonia con l' Italia. Bisogna rimettersi in moto e andare veloci in fretta, senza farsi male: un processo che lui vive ogni stagione, solo che stavolta vede gli stessi meccanismi fuori dalla pista. Nella Brianza dove abita e nel Paese che non vede l' ora di rappresentare di nuovo, in azzurro.

Come si riparte?

«Nella testa velocissimi e sento che per chiunque è così. Anche solo essere in pista ti fa credere che il problema sia superato. Ovviamente non è così. Il fisico però ha i suoi ritmi, va riallenato: non si può proprio ripartire da dove si era rimasti altrimenti ci si spacca».

Lei dove era rimasto?

«Il mio obiettivo non si è mosso nonostante tutto. Dopo aver migliorato il record italiano di Mennea voglio abbassare quel tempo, punto a un 9"92, cronometro ambizioso. Non è detto che arrivi quest' anno ma io continuerò a provarci con tutto me stesso, anzi con qualche cosa di più».

C' è la data di una gara all' orizzonte?

«Non ho un calendario fissato, guardo alla ripresa della Diamond League come scenario. La tappa di Montecarlo, il 14 agosto, non sarebbe male: poi magari ci sarà un riscaldamento prima».

Quale è stato il giorno più difficile durante il lockdown?

«Quello in cui hanno annullato gli Europei. Ho aspettato le Olimpiadi quattro anni, smaltita la botta, posso allungare l' attesa, invece alla mia carriera mancherà sempre un Europeo. Un' occasione persa».

Come ha passato il tempo fermo?

«Ho cercato i lati positivi, ero felice di essere con la mia famiglia, di vedere per la prima volta mia madre che si allenava con noi, di guardare lei e mio fratello cucinare insieme. Forse ne avevo persino bisogno».

Lei vive in Brianza, in quella Lombardia stravolta che è passata da locomotiva a centro della paralisi. Come ha vissuto il contrasto?

«Si respirava la frustrazione dei tanti che non potevano lavorare, un sentimento collettivo, palpabile. E poi la tristezza per il numero dei morti, soprattutto a Brescia e Bergamo, impressionante. Qui, per fortuna, la situazione non era la stessa».

Questa esperienza l' ha cambiata?

«No. Ho solo i capelli più lunghi e mi sono abituato a modificare i piani».

Colonna sonora dei suoi mesi in casa?

«Paolo Conte, sarei anche dovuto andare a vedere un concerto che ovviamente è saltato. In particolare "Come mi vuoi"».

Conferma i suoi gusti non proprio in linea con i 21 anni. Dopo tanti divieti non le è venuta voglia di scatenarsi?

«Ancora non sono riuscito a fare una cena con gli amici. Ci siamo visti, rigidi come dei pali, a distanza, con mascherina, non proprio una festa».

Che cosa pensa dei suoi coetanei in strada, nella movida diventata scandalo?

«Capisco ma non posso condividere. Pure per me è stata dura, l' istinto di riprendersi la propria vita è naturale, stare insieme viene spontaneo però è come buttare via gli ultimi 30 metri dopo aver corso al massimo i primi 70... chi tiene vince».

Dallo sprint allo spritz. Voto all' Italia?

«Alto, siamo stati bravi, io darei un 10, facciamo 9, 5 perché si può sempre migliorare e rimanere responsabili fino a che non ne siamo fuori».

Si immagini la prima gara ideale: dove e con chi?

«Golden Gala a Roma, 100 metri contro Lemaitre. Ci ho corso contro solo una volta, ho perso e non ho mai avuto rivincita. Poi adesso c' è il fascino Stadio dei Marmi, il più bello del mondo, sono anni che dico che bisognerebbe scaldarsi all' Olimpico e correre lì».

Forse in quella gara del 17 settembre ci sarà il pubblico, anche se limitato, ma le prime competizioni saranno a porte chiuse.

«Nei 100 metri l' elettricità che dà la gente è quasi tutto, però non corro da così tanto che basta avere uno start».

Il calcio prova a riprendere.

Lei che è juventino praticante ha voglia di tifare per partite silenziose e sotto vetro?

«Molto. Sarei felice tornasse il campionato, darebbe pure un senso di normalità».

L' atletica gioca la carta spettacolo: l' asta in giardino, gli «Impossible Games» a Oslo.

«Giusto. Il messaggio è: non bisogna arrendersi. Io non ho 100 metri in casa altrimenti avrei sfidato qualcuno. Ho applaudito l' amico Duplantis, che talento. Sarei dovuto andare in vacanza negli Usa e passare da casa sua, dopo i Giochi. Altro programma rinviato. Mondo è stato tra i primi a chiamarmi quando l' Italia si è bloccata. Era preoccupato per me».

Quando è nata l' intesa?

«Ci conosciamo dagli euro-junior del 2017, abbiamo una storia simile. Entrambi allenati dal padre, legati alla famiglia e poi agli Europei del 2018 gli ho detto, "il record dell' asta è già tuo". Si vedeva. Quest' anno ha saltato 6 metri e18».

Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 4 dicembre 2020. Archiviazione. La chiede la procura della Repubblica di Bolzano e ora l' ultima parola spetta al Gip. La storia infinita che vede protagonista Alex Schwazer attraversa un altro passaggio cruciale: a giudizio dei pm, l' olimpionico di Pechino non deve essere processato per il caso di positività al testosterone emerso nel controllo antidoping del primo gennaio del 2016. Positività che portò poi all' udienza davanti al Tas a Rio de Janeiro e alla squalifica per otto anni. È molto probabile a questo punto che il Gip sposi la linea della Procura. Il pronunciamento potrebbe arrivare anche prima della fine dell' anno. Attenzione, giustizia penale e giustizia sportiva non percorrono necessariamente la stessa strada. Quindi non c' è nessun automatismo fra archiviazione su un fronte, e riapertura del processo dall' altra. Non è la prima volta che i verdetti contrastano, anche perché mentre nella giustizia sportiva l' onere della prova spetta all' accusato, in quella ordinaria è necessario accertare il dolo. Tuttavia l' archiviazione rappresenterebbe una vittoria per Schwazer e il suo allenatore Sandro Donati, e potrebbe riaprire il fascicolo ancora contro ignoti che ha un titolo: manipolazione. Una parola emersa ripetutamente nelle udienze presso il Gip, che ora sarà chiamato a dire la sua sulla richiesta della Procura. «Attendiamo ora i prossimi passi e un' eventuale opposizione alla richiesta di archiviazione - dice Gerhard Brandstaetter, l' avvocato di Schwazer - Poi faremo di tutto per tutelare l' integrità di Alex, sia in sede di giustizia ordinaria che sportiva». La Procura della repubblica di Bolzano, diretta da Giancarlo Bramante, si è soffermata sui diversi punti oscuri del circuito del controllo, dal prelievo all' analisi. Per poi prendere in considerazione tutti i dati che hanno portato il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris, a considerare «anomali» i valori di Dna di Schwazer confrontati con quelli di altri soggetti, atleti di alto livello compresi. Per la Procura non è logico pensare che l' atleta abbia interrotto le microdosi perché spaventato, come scrive proprio la memoria della Iaaf, che aveva chiesto il rinvio a giudizio, perché l' atleta era stato già controllato prima e sarebbe stato controllato dopo, e l' esito di quel famoso prelievo del primo gennaio fu reso noto soltanto il 21 giugno. La parola usata nelle motivazioni che portano alla richiesta di archiviazione è «opacità». Un' opacità che naturalmente può prestarsi a diversi scenari. E la Procura scrive che la sede per approfondirli è l' indagine sulla denuncia contro ignoti presentata dalla difesa di Schwazer. Insomma, l' archiviazione potrebbe non scrivere la parola fine sulla storia.

La gloria e il fango. Inchiesta sul marciatore italiano Alex Schwazer e sul complotto che lo ha distrutto per aver infranto l’omertà dell’atletica dei record e dei signori del doping. Carlo Bonini, Attilio Bolzoni e Fabio Tonacci su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Altezza 1 metro e 87 centimetri, peso 71 chilogrammi, pulsazioni cardiache a riposo 34 al minuto, marciatore, italiano, nato il 26 dicembre 1984, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 e squalificato per doping alla vigilia di quelle di Londra nel 2012, Alex Schwazer prima ha conosciuto la gloria e poi ha conosciuto il fango. Quando stava per risorgere - e dimostrare a tutti che si poteva vincere anche senza le "bombe" - gli hanno teso una trappola per insudiciarlo ...

Alex Schwazer, ora è davvero finita: atletica addio, squalifica confermata fino al 2024. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Per Alex Schwazer, ora, non ci sono più possibilità di appello («Attendiamo con fiducia che i gravi indizi vengano suffragati dal procedimento penale in corso a Bolzano», specifica però il suo legale). Il tribunale federale svizzero con sede a Losanna ha infatti respinto la richiesta di annullamento della squalifica di otto anni subita dal 35enne atleta altoatesino nell' estate 2016 - la seconda della carriera - per positività al testosterone a un controllo a sorpresa dell' 1 gennaio dello stesso anno. Gli avvocati del campione olimpico della 50 km di Pechino 2008 si erano rivolti al tribunale elvetico, che già aveva respinto una richiesta di sospensiva, dopo che il Tas aveva a sua volta rigettato il ricorso. Gli otto anni di stop scadranno nell' estate 2024, quando Schwazer avrà 39 anni. Prevedere un rientro, a questo punto, è veramente difficile.

Schwazer, il tribunale di Losanna conferma la squalifica per doping. Richiesta di sospensione respinta, resta la squalifica fino al 2024. Secondo i giudici elvetici: ''Non ci sono fatti nuovi''. Antonio Prisco, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. Niente da fare per Alex Schwazer, il tribunale di Losanna ha respinto le richieste dei legali del marciatore altoatesino: la squalifica per doping resta confermata fino al 2024. Come riporta il quotidiano ticinese La Regione il tribunale federale di Losanna ha consegnato le motivazioni con cui spiega la bocciatura del ricorso presentato da Schwazer. L’obiettivo era ottenere la sospensione della squalifica per doping di 8 anni, che resta quindi confermata fino al 2024, quando Alex avrà 40 anni. Un arco temporale troppo lungo che rischia di compromettere irrimediabilmente la carriera dell'atleta. Il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo a causa del Coronavirus di fatto aveva alimentato le speranze di poter tornare a gareggiare proprio in occasione Giochi giapponesi del 2021. Un sogno che a quanto pare resterà solo tale.

Il caso. La sentenza, datata 17 marzo, è diventata pubblica solo adesso e rappresenta l’ennesimo duro colpo nella lunga querelle giudiziaria, che vede coinvolto l’ex olimpionico azzurro. Il ricorso alla giustizia svizzera era nato sulla scia degli sviluppi giudiziari avvenuti nel tribunale di Bolzano, dove Schwazer è ancora indagato per frode sportiva, dopo la positività riscontrata nel 2016, che gli era costata l’esclusione dai Giochi di Rio. I riscontri emersi durante le indagini preliminari avevano messo messo in luce alcune anomalie nel prelievo e nella gestione delle provette che portarono alla squalifica. Era stato prima il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago, ad evidenziare alterazioni nelle provette con valori di Dna ''non compatibili fisiologicamente'' con le caratteristiche dell’atleta e poi lo stesso gip Walter Pelino ad avanzare l’ipotesi della manipolazione come l’unica ''al momento suffragata da indizi''. Sulla base di questi riscontri l'avvocato Gerhard Brandstaetter aveva deciso di rivolgersi al tribunale federale di Losanna, l’unico organo in grado di rimettere in discussione una sentenza del Tas. Il ricorso era stato presentato nel dicembre scorso e bocciato successivamente dai giudici federali. Secondo il tribunale federale gli elementi di prova presentati dagli avvocati, in realtà non costituiscono un fatto nuovo mentre in questo caso la documentazione emersa nel processo a Bolzano ''viene semplicemente utilizzata come elemento a fondamento della tesi secondo cui il campione di urina che ha condotto alla squalifica sarebbe stato manipolato''. Allo stesso modo ''la pretesa manipolazione, di cui l’atleta si era invano avvalso più volte innanzi al Tribunale arbitrale, non costituisce una novità''. E infine: ''Anche la giurisprudenza più recente esclude la possibilità di avvalersi di referti allestiti dopo l’emanazione della sentenza di cui è chiesta la revisione''. Una pietra tombale sulle speranze del marciatore altoatesino, che interpellato nel merito, non sembra aver perso la voglia di lottare e rilancia la sfida: ''Per me non cambia nulla. Io mi batto per la verità e quindi per dimostrare la mia innocenza nel processo di Bolzano. Se emergeranno delle prove apriremo un nuovo procedimento in Svizzera. Adesso che le Olimpiadi sono state spostate abbiamo più tempo e possiamo aspettare la fine del processo''.

Valerio Piccioni per gazzetta.it il 14 settembre 2020. Alex Schwazer ha commentato la giornata (e le parole di Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano) con soddisfazione: "Intanto perché la perizia ha escluso un punto, quello del collegamento fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna. Sulla possibilità che questo innalzamento sia provocato dal testosterone, è stata la Wada che non ha voluto fornire dei dati, ma c’è uno studio che smentisce il fatto che la sostanza possa aumentare il Dna in urina. Quanto a una possibile patologia alla base dei valori, non è mai emerso perché un atleta di alto livello che si allena e che fa dei risultati deve stare bene, non è che possa avere una prostatite e fare quaranta chilometri di marcia prima del controllo". "Ora bisogna vedere che cosa fa la Procura - ha continuato il marciatore di Vipiteno - ci aspettiamo l’archiviazione della mia posizione e poi dipende dalla motivazione. Questa è sicuramente una sfida più dura di qualsiasi gara. La manipolazione sicuramente c’è stata, il problema è dimostrarlo e poi in un secondo momento scoprire chi è stato il mandante . Perché è successo tutto questo? I motivi li tengo per me… Quattro anni fa siamo partiti alla ricerca della verità e ora siamo a buon punto. Ogni volta che si va avanti si scopre qualcosa in più".

Alex Schwazer, anomalia sul secondo controllo antidoping delle urine: "Dna non umano". Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. “La concentrazione del Dna nelle urine non corrisponde a una fisiologia umana e i dati confermano quindi un’anomalia”. Sono le parole di Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, nella nuova udienza dedicata all’incidente probatorio sulla seconda positività antidoping di Alex Schwazer. “Gli esami svolti su un gruppo di 37 atleti della Fidal che si sono volontariamente sottoposti alle analisi, evidenziano la mancanza di un legame fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna, anzi lo studio evidenza una riduzione rispetto a quelli della popolazione comune. Era stata una delle spiegazioni possibili per i livelli molto alti registrati nell’urina di Schwazer”, scrive la Gazzetta dello sport. A questo punto con questa ennesima conferma che qualcosa nel controllo antidoping non sia stato regolare, è sempre più concreta l'ipotesi della manipolazione delle provette di Schwazer.

Valerio Piccioni per gazzetta.it il 14 settembre 2020. “La concentrazione del Dna nelle urine non corrisponde a una fisiologia umana e i dati confermano quindi un’anomalia”. Sono le parole pronunciate questa mattina da Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, nella nuova udienza dedicata all’incidente probatorio nel caso che riguarda la seconda positività antidoping di Alex Schwazer. Lago sta illustrando le conclusioni della sua terza perizia, in merito all’elevata concentrazione di Dna nelle urine dell’atleta del controllo del primo gennaio del 2016, che portò poi alla seconda squalifica (in questo caso per la positività al testosterone), della durata di otto anni, che vietò al marciatore olimpionico la partecipazione all’Olimpiade di Rio. “Parlare di complotto? Su questo non mi esprimo, non è previsto che mi esprima e non sarebbe neanche corretto”. Sempre secondo il perito, gli esami svolti su un gruppo di 37 atleti della Fidal che si sono volontariamente sottoposti alle analisi, evidenziano la mancanza di un legame fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna, anzi lo studio evidenza una riduzione rispetto a quelli della popolazione comune. Era stata una delle spiegazioni possibili per i livelli molto alti registrati nell’urina di Schwazer. In aula a Bolzano, sono presenti lo stesso Schwazer e il suo allenatore Sandro Donati, ma anche i periti della Wada e della Iaaf. L’udienza di oggi potrebbe essere l’ultima dell’incidente probatorio. Al termine il gip dovrebbe rinviare le carte al pm che dovrà decidere sulla posizione di Schwazer. Nel frattempo, la procura della repubblica di Bolzano avrebbe già aperto un fascicolo sulla possibile manipolazione. Alex Schwazer ha commentato la giornata con soddisfazione: “Intanto perché la perizia ha escluso un punto, quello del collegamento fra super allenamento e innalzamento dei valori di Dna. Sulla possibilità che questo innalzamento sia provocato dal testosterone, è stata la Wada che non ha voluto fornire dei dati, ma c’è uno studio che smentisce il fatto che la sostanza possa aumentare il Dna in urina. Quanto a una possibile patologia alla base dei valori, non è mai emerso perché un atleta di alto livello che si allena e che fa dei risultati deve stare bene, non è che possa avere una prostatite e fare quaranta chilometri di marcia prima del controllo. Ora bisogna vedere che cosa fa la Procura. Ci aspettiamo l’archiviazione della mia posizione e poi dipende dalla motivazione. Questa è sicuramente una sfida più dura di qualsiasi gara. La manipolazione sicuramente c’è stata, il problema è dimostrarlo e poi in un secondo momento scoprire chi è stato il mandante . Perché è successo tutto questo? I motivi li tengo per me… Quattro anni fa siamo partiti alla ricerca della verità e ora siamo a buon punto. Ogni volta che si va avanti si scopre qualcosa in più”. La posizione della Wada è espressa dal parere del professor Vincenzo Pascali del Policlinico “Gemelli” di Roma, che nega l’anomalia e contesta anche il metodo del lavoro del comandante del Ris: “Non è possibile fare sperimentazioni in corso di perizia”. Secondo il documento, “l’abbondanza di DNA in questo estratto non è per nulla singolare e non ha bisogno di particolari spiegazioni”. Pascali nega la validità scientifica dello studio: “Il più equilibrato atteggiamento da osservare in merito alle sperimentazioni di Lago è ignorarne i risultati che sono presentati al lettore ed invitare l’autore a pubblicarle. Le ‘sperimentazioni Lago’ sono anche, nella mia personale opinione del resto basate su ipotesi troppo semplici o troppo futili o troppo inconferenti con il tema che si vorrebbe esplorare”. Infine la disputa sulla validità dei dati di un’analisi effettuata su un altro campione di Schwazer, che aveva dato valori molto alti. Per il perito del Gip, l’assenza di documentazione e di dati indispensabili è tale da rendere non ammissibile il dato. Per il perito Wada si tratta “solo di un fraintendimento sui criteri che presiedono all’accettazione delle prova nel procedimento. Il documento Wada è fondato, ben argomentato e credibile. Le obiezioni del dottor Lago sono viceversa a corto raggio, spesso futili e tutte inconferenti rispetto al tema della credibilità scientifica del documento. Ribadisco che il documento Wada rappresenta una formidabile fonte di prova”.

Il perito del Gip: “La concentrazione di Dna nelle urine di Schwazer non corrisponde a una fisiologia umana”. Il Dubbio il 15 settembre 2020. Ormai è giallo sul caso del marciatore italiano sospeso dopo un “singolare” controllo antidoping. Il perito: “troppe anomalie”. “La concentrazione del Dna nelle urine non corrisponde ad una fisiologia umana e i dati confermano quindi un’anomalia”. Cosi’ Giampietro Lago, perito nominato dal gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, nella prima parte dell’esposizione della sua terza perizia in merito all’elevata concentrazione di Dna nelle urine di Alex Schwazer del controllo antidoping dell’1 gennaio del 2016. Come noto, il controllo effettuanto nel giorno di Capodanno di quattro anni fa era inizialmente stato classificato "negativo" e oltre tre mesi dopo le stesse urine risultarono positive al testosterone che fecero scattare la squalifica per recidiva a otto anni. Lago ha spiegato che lo studio sui valori di Dna nelle urine è stato fatto sui dati completi di 37 atleti tesserati della Fidal di specialita’ di lunghe distanze. L’avvocato De Arcangelis per conto della Federatletica in aula ha ribadito che per sottoporsi ad esame di Dna c’era la disponibilita’ di ben 60 atleti e che “il lockdown ha impedito gli spostamenti degli atleti”. Il legale della Fidal ha aggiunto che “Schwazer e’ patrimonio dell’atletica, della Fidal e di questo mondo sportivo e la Fidal ha l’interesse che si faccia luce su questa vicenda”. “Il Dna anomalo di quel controllo antidoping dell’1 gennaio 2016 oltre a non essere anonimo (era inserita la localita’ del controllo, ndr.), e’ unito alle e-mail dove c’e’ scritta la parola complotto in lingua inglese (‘plot’) credo lasciano ben pochi dubbi sull’intera vicenda”. Cosi’ all’AGI, Gerhard Brandstaetter, avvocato di Alex Schwazer, durante una breve pausa dell’odierna udienza che si sta tenendo in Tribunale a Bolzano. Oggi il perito nominato dal gip Walter Pelino, Giampietro Lago, il colonnello comandante del Ris di Parma, sta esponendo la terza perizia. Il legale bolzanino si riferisce ai messaggi di posta elettronica hackerati dai russi di Fancy Bears sui quali si legge la parola ‘plot’ in comunicazioni tra il responsabile dell’antidoping della Iaaf (oggi World Athletics), Thomas Capdevielle e il legale della stessa federazione mondiale di atletica, Ross Wenzel. “Parlare di complotto? Su questo non mi esprimo, non e’ previsto che mi esprima e non sarebbe neanche corretto”. Cosi’ all’AGI, Giampietro Lago, perito nominato dal gip bolzanino Pelino e comandante del Ris dei carabinieri di Parma, rispondendo ad una domanda circa un ipotizzato complotto da parte della difesa ai danni di Alex Schwazer. L’ex marciatore azzurro, reo-confesso di aver usato Epo nel 2012 (venne squalificato per 4 anni), dopo essere rientrato alle gare e’ stato fermato e squalificato a seguito di un caso, sempre piu’ oscuro, risalente ad un controllo dell’1 gennaio 2016. Il responso di quel controllo era stato inizialmente ‘negativo’ e, ritestato dopo oltre tre mesi, era risultato positivo.Oggi Giampietro Lago sta esponendo la terza perizia che riguarda anche la comparazione dei valori di Dna di Schwazer con quelli di 37 atleti di lunghe distanze tesserati per la Fidal. L’udienza di oggi dovrebbe chiudere l’incidente probatorio e successivamente il gip dovrebbe rinviare la documentazione al pubblico ministero (Bramante) che, a quel punto, decidera’ circa la posizione di Schwazer. Lago in merito ai fatti accaduti da lui descritti nella prima perizia, come il braccio di ferro da parte del laboratorio antidoping accreditato Wada (agenzia mondiale antidoping) di Colonia che non voleva consegnare alle autorita’ italiane le provette di urine di Schwazer e, al momento della consegna, negare le provette originali, ha detto, “da cittadino si percepisce reticenza, il fatto delle provette consegnate in ritardo che lasciano diversi dubbi”. Laga ha concluso dicendo, “confermo le anomalie che inizialmente avevamo sospettato, alcune spiegazioni possibili le abbiamo studiate e sono escluse, altre molte meno rimangono in piedi, tra cui quelle care alla difesa (complotto, ndr)”. In aula il colonnello Lago ha parlato di anomalie anche della catena di custodia del campione di urine quando era entrato all’interno del laboratorio di Colonia. Inoltre, l’alto ufficiale del Ris dei Carabinieri ha parlato di criticità sotto l’aspetto formale in merito ai sistemi anti-effrazione (“non c’era nessun sistema”, ha detto Lago).

Massimo Gramellini per corriere.it il 17 settembre 2020. A farmi propendere per l’innocenza di Alex Schwazer nel suo secondo pasticciaccio di doping è che nessun colpevole serio si sarebbe comportato come lui. Se fosse stato minimamente astuto — come noi ci si immagina che siano i veri colpevoli — quest’uomo dal cognome ingorgato di consonanti si sarebbe limitato, fin dalla prima volta in cui fu colto in castagna, ad ammettere le sue colpe e a chiedere perdono al sistema, come hanno fatto decine di altri atleti, bombati e pentiti, e oggi regolarmente riabilitati. Invece Alex, da vera testa dispari, ammise di essersi dopato una prima volta, ma estese la confessione alla sporcizia circostante, rompendo l’omertà che governa lo sport come ogni altro genere di consesso umano, dove vige la regola che i panni sporchi si lavano in famiglia e il capro espiatorio, sottoposto alla gogna per arginare lo scandalo, deve accettare in silenzio il proprio destino. Alex Chisciotte si difese rovesciando le parti in commedia, cioè trasformandosi in un paladino della lotta al doping: proprio lui, e proprio alla vigilia di un’altra Olimpiade, quella di Rio, dove evidentemente non faceva comodo a molti che andasse. E adesso, anziché confidare nella prescrizione della memoria di cui godono tutti gli scandali nel nostro Paese, insiste nel rievocare, a suo rischio e pericolo, quelle antiche vicende. Certo, la bizzarria della provetta che girò mezza Europa prima di essere esaminata — rivelando un contenuto di testosterone troppo basso per migliorare davvero le prestazioni e adesso, pare, una dose eccessiva di Dna — ci fa dubitare anche dell’intelligenza dei suoi eventuali nemici. Se avessero davvero voluto tendergli una trappola, perché la organizzarono in modo tanto approssimativo? Questa storia si trascina da anni e minaccia di durare almeno fino a quando un regista non si deciderà a farne un film. Ma che Alex risulti vittima oppure colpevole, la sua epopea è la prova che ormai neppure nel male esiste un briciolo di professionalità.

Giuseppe Toti per corriere.it il 17 settembre 2020. Sono più di quattro anni di battaglia legale, quasi tre di udienze preliminari al Tribunale di Bolzano e tre perizie ad avere spalancato le porte all’ipotesi del complotto contro il marciatore Alex Schwazer (oro olimpico ai Giochi di Pechino 2008e attualmente squalificato a 8 anni per la positività al doping nel 2016) e il suo allenatore Sandro Donati. Il lunghissimo lavoro di analisi compiuto su atleti in attività e popolazione comune dal colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma e genetista incaricato dal Gip di Bolzano Walter Pelino di fare luce sul «giallo» più clamoroso nella storia dello sport degli ultimi anni, ha condotto a due risultati. Il primo: ha escluso che il valore anomalo e abnorme di Dna presente in uno dei due campioni di urina (1200 picogrammi per microlitro nella provetta B) prelevata a Schwazer durante il controllo a Racines dalla Iaaf, l’1 gennaio 2016, possa essere giustificato dalla fisiologia umana. Né è spiegabile con il super allenamento, tantomeno con patologie di vario genere (mai accusate da Schwazer in nessuno dei tantissimi controlli antidoping subiti). Il secondo risultato, in pratica, è una diretta conseguenza del primo. Ossia: quel valore anomalo del Dna può essere stato determinato dalla manomissione delle provette. L’epilogo della storia è atteso nelle prossime settimane e arriverà al termine di un percorso tortuoso e tormentato, che vide la sua genesi in tempi non sospetti, quasi cinque anni fa. È il 16 dicembre quando Schwazer si presenta in aula a Bolzano e testimonia contro il gigante Russia e due medici della Iaaf (Fischetto e Fiorella, condannati in primo grado e assolti in appello: in un’intercettazione telefonica del 2016 Fischetto dirà, a proposito di Schwazer: «Sto crucco deve mori’ ammazzato»). Immediatamente dopo la conclusione dell’udienza parte l’ordine della Iaaf di controllare Schwazer il giorno di Capodanno. E questo accade. Con un «piccolo» particolare: sul foglio del prelievo destinato al laboratorio antidoping di Colonia c’è scritto Racines, il luogo dove è stato effettuato il prelievo. Ma le regole antidoping in materia sono altre: nessuna indicazione deve essere riportata che possa far risalire all’identità dell’atleta oggetto del test. L’ispettore del controllo, dipendente della ditta privata Gqs di Stoccarda, riporta sul verbale di avere consegnato lui i campioni, a mano, il 2 gennaio, al laboratorio di Colonia. Sei mesi più tardi, però, a Rio de Janeiro, davanti ai giudici del Tas, salta fuori la verità: l’ispettore ammette infatti di avere lasciato le provette presso la ditta Gqs intorno alle 15.30 dell’1 gennaio. Dunque i campioni sono rimasti incustoditi per ben 15 ore negli uffici in cui almeno 6 persone hanno libero accesso, prima di partire per Colonia il 2 mattina. E così la catena di custodia è già saltata. Il primo esame sulle urine dà esito negativo ma la Iaaf richiede al laboratorio una seconda analisi da svolgere con un metodo diverso e più meticoloso al termine del quale il laboratorio trova una piccola quantità di testosterone. Il 13 maggio informa la Iaaf che mette il risultato in un cassetto per più di un mese e lo comunica a Schwazer solo il 21 giugno, quando i Giochi sono ormai alle porte. Il 17 gennaio 2017 si apre il processo penale a Bolzano: il pm Giancarlo Bramante e il Gip Walter Pelino richiedono alla Iaaf l’urina, ottenendo un rifiuto. Dopodiché si rivolgono al giudice tedesco per opporsi. Quando il giudice di Colonia accoglie la richiesta, i magistrati italiani si sentono raccontare che possono dare solo l’urina A perché di urina B sono rimasti solo 6 millilitri e per l’esame del Dna ne occorrerebbero 10. Il perito del tribunale italiano, il colonnello Lago, scoprirà che di urina B ce n’era il triplo di quanto dichiarato e che per cercare il Dna bastava un solo millilitro. Il 7 febbraio 2018 Lago va a Colonia per prendere l’urina e il direttore del laboratorio, spalleggiato dall’avvocato della Iaaf, tenta di rifilargli non l’urina B sigillata ma un’anonima urina contenuta in una fialetta di plastica. Dietro la prospettiva di una denuncia penale, il direttore consegna la vera urina B, quella sulla quale si troverà la principale anomalia. Ora il giudice Pelino invierà il fascicolo al pubblico ministero Giancarlo Bramante, titolare dell’inchiesta e il pm dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio di Schwazer oppure l’archiviazione. In quest’ultimo caso, l’atleta avrebbe in minima parte giustizia, giacché non ci sarebbe comunque la possibilità di un nuovo processo in sede sportiva. Una decisione di archiviazione, accompagnata da adeguate motivazioni, potrebbe però aprire per Schwazer e per il suo allenatore Donati la strada a un procedimento risarcitorio.

Andrea Buongiovanni per la Gazzetta dello Sport il 9 giugno 2020. E' stato l' ultimo, sarà il primo: Gimbo Tamberi, chi se non lui? Il 29 febbraio, a Siena, con una gara inventata su due piedi, il marchigiano centrava un gran 2.31 tirato fuori da chissà dove che è valso (o quasi) il vertice della stagione mondiale indoor. Poi, il dilagare drammatico della pandemia. Con nessun altro azzurro più in pista o in pedana. Sono trascorsi oltre tre mesi. E il primatista italiano di salto in alto, sempre lui, il 18 giugno tornerà - primo atleta top tricolore - a riveder le stelle. Con una prova nella sua Ancona, nel suo stadio. Sarà un piccolo meeting regionale, probabilmente contro avversari locali. Ma dall' enorme valore simbolico.

Sarà un ritorno alla vita?

«In qualche modo sì. Certe cose anche banali, che si davano per scontate, ora si apprezzano di più. Come andare fuori a cena o stare con gli amici. Passatemi il paragone: è come quando si ha la febbre, dura due giorni, ma poi tutto ha un tono diverso. Almeno per qualche ora. Ecco, spero si torni presto alla vera normalità anche in questo senso».

Cosa resterà di questa esperienza?

«Da sportivo l' ho affrontata in modo diverso da chi ha perso o rischia di perdere il lavoro. Mi metto nei panni di chi stava per aprire un' attività o lanciare sul mercato un nuovo prodotto. O di chi ha investito per anni in un' azienda. D' un tratto ti ritrovi spiazzato. Non vorrei sembrare irriverente, soprattutto nei confronti di chi ha patito lutti: ma in qualche modo ho rivissuto quel che mi accadde alla vigilia di Rio 2016 con l' infortunio che ha spezzato il mio sogno».

Cosa si può imparare?

«Io, in quel frangente, ho capito che, dopo la mazzata, occorre reagire, rimettersi in gioco. Da tutto si può si tornare, tranne che dalla morte: poi bisogna aver la fortuna di trovare persone giuste che ti accompagnino. Avere delle ambizioni e non farle affondare. Io oggi guardo ai Giochi di Tokyo con gli stessi stimoli di allora».

Intanto però il calcio sta per ripartire, mentre l' atletica, come altri sport, sembra molto più lontana.

«Non sono invidioso, capisco la differenza tra i due mondi. Spero solo, proprio pensando a chi ha subito certe perdite, non si sia data un' accelerazione eccessiva dettata da motivi economici. Ma sono certo che si siano fatte tutte le valutazioni».

Seguirà le prime partite, quelle di Coppa Italia?

«Sarebbero le prime della mia vita. Non lo dico per snobismo, ma non sono mai stato appassionato. Mi interessano, invece, gli aspetti corollari della ripartenza: il numero dei tamponi, le regole da rispettare. In campo nessuno di sicuro si risparmierà. E presto ci si riabbraccerà dopo i gol».

È più interessato al ritorno dell' Nba il 31 luglio?

«Da settimane non faccio che vedere partite degli anni 90.Credo si debba navigare a vista, perché la situazione negli Stati Uniti è ancora critica, ma non a caso riprenderanno un mese e mezzo più tardi. Trovo valida l' idea della bolla di Disney World, a Orlando. Per i giocatori sarà un sacrificio, ma proporzionato ai loro guadagni. E alla fine anche i valori saranno gli stessi: i più forti, nel medio-lungo periodo, riemergeranno».

Cosa pensa delle proteste che infiammano il Paese?

«È sconcertante il fatto che nel 2020 ci siano menti così chiuse. Mi scandalizza che ci sia ancora chi nota la differenza tra un bianco e un nero. Il video della morte di George Floyd mette i brividi, quel "sto soffocando" è di enorme drammaticità. E le reazioni di questi giorni sono la conseguenza. La violenza non è mai giustificata, ma qui c' è una razza che è incomprensibilmente denigrata, che subisce torti che partono da lontano».

Quanto sta accadendo la tocca personalmente?

«Io mi sento più nero che bianco, ascolto rap e vivrei per il basket. A Chiara, la mia ragazza, dico spesso che non mi stupirei se nostro figlio nascesse di colore».

Com' è andata la vostra convivenza "forzata"?

«Siamo fidanzati da dieci anni, ma abitiamo insieme solo da dicembre. Ed è andata alla grande. Le avevo sempre detto che avrei voluto aspettare il dopo-Olimpiade per un simile passo. Temevo che le mie tensioni potessero farci del male, condizionarci. Poi, in ottobre, ai Mondiali di Doha, mi sono reso conto che molti colleghi, da Mutaz Barshim a Ilya Ivanuk, oro e bronzo, sono sposati, come lo è il mio amicone australiano Brandon Starc. E allora, dopo altre riflessioni, ci siamo buttati. E ora non potremmo essere più felici. Se doveva essere una prova, siamo usciti fortificati».

Siete già tornati al mare?

«Qualche giorno fa, per una scappata vicino casa. È stato estremamente suggestivo».

Come tanti, vi siete dedicati anche alle tecnologie?

«Parlo per me: ero già uno smanettone. Ma mi son trovato su piattaforme che non conoscevo e mi sono adattato. Studio economia alla Luiss: a distanza, venti giorni fa, ho superato diritto pubblico e a fine mese ho economia industriale».

Ha partecipato a "dirette"?

«A parecchie, alcune molto belle. Con Gigi Datome, Fabio Fognini, Alex Zanardi, che ho guardato e ascoltato per mezzora a bocca aperta. Anche con Jovanotti, che ringrazio per l' opportunità. E con Rocco Siffredi, la più divertente».

Siffredi l' attore porno?

«Lui: il figlio Leonardo, che ha una ventina d' anni, fa atletica. Ha 8"04 sui 60 hs e 2.02 in alto. Rocco mi ha scritto, chiedendomi qualche consiglio. Ci siamo sentiti ed è nata l' idea. Ognuno, nella vita, fa le scelte che più crede opportune. Io ho scoperto un uomo intelligente. E so che potrà far sorridere. Ma abbiano anche trovato punti di contatto. Sapete come la penso sul doping: ecco, nella sua professione lui ha sempre rifiutato pillole e punture...».

Cosa prevede, quindi, il suo calendario?

«Non ho mai smesso di allenarmi, ma se fino ad aprile la condizione è stata alta ora, cancellati i cicli di forza, è un po' calata. Ci sta. Ho però bisogno di dare stimoli al lavoro. Stiamo definendo una serie di appuntamenti-test. Salvo contrordini gareggerò giovedì 18 ad Ancona, domenica 21 a Formia in circostanze simili e giovedì 25, ancora ad Ancona, in una sfida virtuale contro il bahamense Jamal Wilson, 2.33 in febbraio, il tedesco campione europeo Mateusz Przybylko e Stefano Sottile».

Pesa la responsabilità che a Tokyo sarà l' unico azzurro candidato a una medaglia?

«Le responsabilità mi caricano. Solo ai Mondiali di Pechino 2015 le ho mal gestite. Poi è vero che non è semplice individuare tanti italiani da podio, ma ce ne sono un sacco in crescita: penso a Tortu e a Jacobs, la cui amichevole rivalità potrà solo aiutarli, a Re, a Crippa, a Stecchi, che nell' asta ha la sfortuna di vivere in un' epoca di fenomeni, a Fabbri e a diverse ragazze, Iapichino in testa, per la quale il rinvio dei Giochi potrà rivelarsi una manna. E poi ci sono io: disposto a tutto per una medaglia».

Atletica, Sara Simeoni: il salto d'oro di Mosca compie 40 anni. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da Enrico Sisto su La Repubblica.it Nonostante il boicottaggio, quella dell'alto nella capitale dell'allora Unione Sovietica fu una gara di livello assoluto. La veronese la spuntò battendo l'eterna rivale, la tedesca dell'est Ackermann. Poco tempo fa ammise: “Più mi riguardo e più penso che il mio salto aveva qualcosa di moderno”. Sarebbe stata felice, l’allenatrice e tecnica Sara Simeoni, di allenare una come sé stessa, la 12enne con la valigia dei sogni in mano che nel 1965 fu indirizzata al campo d’atletica della sua insegnante Marta Castaldo e che dietro i folti capelli neri, in quel miscuglio di fantasie che ci trascina e ci seduce nella primissima adolescenza, immaginava di diventare soprattutto una ballerina, ammesso che mamma Ilda e papà Giuseppe fossero d’accordo. Il 26 luglio di quarant’anni fa, in una Mosca vissuta a metà e vista sotto la lente nerastra del boicottaggio americano dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la ballerina Sara che avrebbe trasformato il salto in alto in una danza, si prese l’oro olimpico. Aveva una voglia dentro che non esistevano parole per definirla o contenerla. Un coraggio. Una consapevolezza. Il tutto si ricomponeva nel suo corpo come fosse un desiderio diffuso, anzi armoniosamente distribuito fra cuore, tendini, pancia, muscoli e testa. Rimase sempre composta, centrata. Sapeva di potercela fare, anche quando fu vittima di un attacco di panico, prima della finale: ebbe la tachicardia, le lacrime agli occhi. Ad un certo punto, era successo questo: ricevette la visita di un’amica scomoda. Visita tardiva, pericolosa. Era la paura. Un sentimento contrario prese possesso del movimento del suo corpo. Si estese sino ai piedi e dai piedi, passando per le scarpette, era come se quella paura l’avvertisse: guarda che fra un po’ ti incollo i chiodi alla pista! Ma Sara non ebbe paura della paura. Invece di combatterla, l’accolse. E quella perse consistenza. Sara superò 1,97. Bastò. Sul podio niente “Inno di Mameli”. Lei canticchiò “Viva l’Italia” di De Gregori, come fosse una specie di mugugno celeste. Pensava a mille cose insieme. A nessuna in particolare. Sapeva soltanto che dopo la prima prova in finale, orribile, non si sa come ma dagli spalti la raggiunse un incitamento: “Svegliati!”. Era suo marito Erminio Azzaro, che a quell’epoca era già diventato il suo allenatore. Alla misura di 1.94 la tedesca orientale Ackermann, una delle sue rivali storiche, quella che l’aveva preceduta sul podio a Montreal quattro anni prima e che per Sara era a lungo rimasta “un mito”, uscì di gara con la testa fra le mani. La polacca Kielan, dal volto viscontiano, efebico, e l’altra tedesca orientale Kirst superarono 1,94 proprio come Sara. Prima di affrontare l’1,97, Sara e la Kielan non avevano ancora sbagliato una prova e avevano anche effettuato lo stesso numero di salti. Kielan si arrese. Al secondo tentativo, forte di un temperamento che nessun’altra possedeva (e in quell’alto olimpico le più forti erano tutte in pedana, nonostante il boicottaggio…), robusta caratterialmente sin da quando venne scartata dai responsabili dell’Arena della sua Verona per il “ballo dei moretti” dell’”Aida” perché “troppo alta”, Sara grattò il cielo di Mosca con le unghie e sul saccone scese polvere di stelle. A Mosca Sara s’era presentata da primatista mondiale in carica (2,01 stabilito il 4 agosto del ’78 a Brescia). Sara è l’anello di congiunzione tra professionale e passionale. I suoi salti avevano ancora un ripieno romantico, come i piatti della tradizione. Erano il simbolo di un’Italia sportiva piena d’ardore che adesso ripensiamo, che vediamo invecchiata con dolcezza, un’atletica in cui vincere le Olimpiadi voleva dire ancora essere “premiata” con un orologio, mentre stabilire un primato mondiale significava un bonifico di sei milioni. Esprimeva una femminilità fluida e insieme “cattiva”, era una donna semplice e insieme ostinata. Quella massa di capelli che dondolavano nell’aria di Mosca si allineava al look di altre donne forti del nostro paese, che fossero scamiciate barricadere o più pacate ragazze di campagna. Sara è la figlia di un mondo che non c’è più: il mondo reso vitale dal bisogno di ricostruire e di farlo tutti insieme. Guardarla oggi in rete, mentre si commuove davanti alle sue stesse meraviglie, nei filmati di quei glory days, è una vertigine d’emozione. Ricordi unici.

Alessia Trost, i 2 metri, la bulimia e la voglia di riscatto: «Dopo una sconfitta mangiai 40 pezzi di torta, volevo ritirarmi. Ora riparto». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Non è facile parlare di emozioni all’ora di punta dell’aperitivo in una libreria del centro di Milano. Eppure Alessia Trost, 26 anni quasi 27, friulana di Pordenone dall’animo dolce e friabile come il biscotto-simbolo della sua città, prende una piccola rincorsa neanche fosse sulla pedana del salto in alto («Lo sport che amo ma che mi ha fatto soffrire») e trova un piccolo spazio interiore per raccontarsi: «C’è stato un tempo, nelle categorie giovanili, in cui battevo la primatista russa del mondo e oro mondiale Maria Kuchina. A Trinec, in Repubblica Ceca, ho saltato due metri a 19 anni. Ma quel salto non fu frutto di un percorso, né di alcuna consapevolezza. I due metri, che sono le colonne d’Ercole della mia specialità, sono arrivati troppo presto. Oggi lo posso dire. Mi hanno riempito la testa di cose e non sono stati facili da digerire. I fantasmi sono diventati paure, che sono diventate insicurezze, che sono diventate alibi». Di Alessia, oro mondiale Allievi e poi Under 18, due titoli europei Under 23, saltatrice di valore assoluto (nella storia dell’atletica italiana a scavalcare i due metri sono riuscite solo in tre: la mitica pioniera Sara Simeoni, Trost ed Elena Vallortigara), ha sempre colpito una sensibilità che le spietate dinamiche della gara e la carenza d’ossigeno dell’altitudine cui essa ti costringe per salire sul podio hanno spesso denudato. Senza pelle, con i nervi scoperti, Alessia ha vinto due belle medaglie indoor (un bronzo iridato, un argento europeo) ma l’uno-due che l’esistenza le ha assestato — la morte in rapida successione dello storico coach Gianfranco Chessa e della mamma Susanna a 54 anni — l’hanno spinta in un angolo, sola e confusa. La Federatletica e le Fiamme Gialle sono corse in soccorso, trovandole riparo dopo i Giochi di Rio 2016 (quinta) ad Ancona, dai Tamberi padre e figlio: coach Marco e il talento Gimbo, primatista italiano (2,39 m). Ma la coesistenza con la premiata ditta del salto è finita lo scorso ottobre, dopo il Mondiale a Doha (eliminata nelle qualificazioni). «Nulla da rimproverare a Tamberi — racconta — però in pedana in Qatar mi sono apparsi chiari i limiti del lavoro fatto». I fantasmi si erano dileguati strada facendo, grazie al lavoro con gli psicologi. Il primo, inutile: «Lei sta male per i lutti, mi disse, come se già non lo sapessi». Il secondo, prezioso: «Ero in un vortice, alimentazione inclusa. La dieta ferrea mi provocava sbalzi d’umore enormi. Ero bulimica: al Mondiale di Londra 2017 pesavo 66,7 chili (Alessia è alta quasi 1,90 ndr), dopo l’eliminazione mangiai 40 fette di torta, vergognandomi come una ladra. Poi ho capito che Alessia giudicava spietatamente l’atleta. Mi sono liberata dell’autismo del saltatore, dal trip di perfezione. Inizia a vivere, mi sono detta, che magari salti meglio. Mi sono perdonata, accettando di essere più morbida con me stessa e di poter fallire». La terza vita di Alessia Trost è appena cominciata a Sesto San Giovanni, al campo Dordoni dove allena Roberto Vanzillotta, lo stimato tecnico federale a cui il direttore tecnico azzurro Antonio La Torre ha affidato un talento da rigenerare e far decollare. «A pochi mesi dai Giochi di Tokyo ho traslocato di nuovo. Dentro di me si sono riaccese motivazioni che non sentivo da tempo». Il punto più basso? «L’Europeo indoor di Glasgow: ho saltato 1,85, indecorosa, non ci ho capito niente. E sì, ho pensato di smettere». Il peggio è alle spalle. Ha preso casa a Monza, vorrebbe terminare Scienze alimentari, insegue il biglietto per l’Olimpiade giapponese, dove ritroverebbe quella Maria Kuchina nel frattempo diventata la regina mondiale del salto. «Ho sempre ignorato il confronto con lei, ma era una bugia a me stessa. L’ennesima. Okay sono rimasta mille anni indietro, però non mollo. Mi sento di nuovo viva, mi si è riacceso un sogno. Sono tornata in palestra a sollevare bilancieri, Vanzillotta mi spiega che il salto è molto più naturale di come me l’hanno raccontato. Se ho superato 2 metri una volta, posso ripetermi: sento di potercela fare». Alessia gareggia mercoledì a Udine. «Non mi aspetto un miracolo». Ogni nuovo inizio, lo è.

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2020. Le ascelle non depilate. Era il 26 luglio 1980 e a Mosca, con un volo a planare sulla storia dalla stratosferica altitudine di 197 centimetri, Sara Simeoni da Rivoli Veronese, figlia di Giuseppe e Ilda, ballerina mancata, vinceva l' oro nel salto in alto all' Olimpiade. Nell' immagine-icona dell' atletica italiana (la controcopertina della nostra Bibbia laica è il ghigno stanco con cui, un paio di giorni dopo, Pietro Mennea scaverà due incommensurabili centesimi di secondo tra sé e lo scozzese Wells sul traguardo dei 200 metri), Sara è riccia, felice e non depilata sul materassone dopo l' amplesso con l' asticella. L' azione rapida e pulita - rincorsa, stacco, oplà, salto - con cui la Simeoni, a un mese dalla strage di Ustica e in pieni anni di piombo, ridiede fiato a un Paese asfittico, basterebbe da sola a giustificare un' agiografia che invece comprende molto altro: due record del mondo, due argenti olimpici, un oro europeo, più tutto il resto. Di Mosca, nel 2020 ricorre il quarantennale. Come passa il tempo, accidenti. Esercitare la memoria, oggi che l' atletica italiana si aggrappa esausta ai giovani per non vivere solo di ricordi, tiene a galla le emozioni.

Sara, partiamo dalle ascelle, se non le dispiace.

rano anni in cui non si pensava al look, c' erano priorità diverse. Le poche ragazze si allenavano con i maschi e le tute erano uguali per tutti: le taglie sfasate, i pantaloni a palloncino, un orrore... Andavo al campo con ago e filo, improvvisavo improbabili imbastiture. E se non c' era tempo, mi arrangiavo con le spille da balia».

Il sogno di fare la ballerina, a quel punto, era già alle spalle.

«I modelli femminili, quando ero bambina io, li dettava la Rai. Guardavo Canzonissima , ero rapita dai balletti. Mi iscrissi a un corso di danza classica a Verona. Ero bravina, mi piaceva molto, ma a un certo punto mi scartarono per l' altezza, preferendo mia sorella Anita. Stavamo preparando la danza dei moretti per l' Aida in Arena. Ne fui mortificata».

L' atletica come balsamo, quindi?

«Fu l' insegnante di educazione fisica delle medie a dirmi che una società stava cercando atlete. Provai. Erano anni in cui nessuno, men che meno i miei genitori, ossessionava i ragazzi con l' idea del risultato a tutti i costi. Figuriamoci le ragazze: lo sport femminile, all' epoca, non esisteva».

Fu l' ebbrezza del volo a conquistarla?

«Ah, quella sensazione la ricordo bene: la leggerezza di quando sei in forma e tutto ti viene facile. Inizialmente saltavo frontale, come si supera un ostacolo; avrei dovuto imparare lo stile ventrale, che mi intimoriva perché se sbagliavi ti facevi male. Ma dall' America arrivò la rivoluzione di Dick Fosbury: quando lo conobbi, lo ringraziai sentitamente».

L' attuale primatista del mondo, il cubano Javier Sotomayor, dice di essersi ispirato a lei per l' azione dell'«arto libero». È vero?

«Sì, l' ha detto anche a me. L' arto libero è la gamba non di stacco: io davo un calcetto, un qualcosa a metà tra ventrale e Fosbury. Quando saltavo non sentivo che critiche. Mi rivalutano ora, va bene».

Oggi, a quasi 67 anni, sogna mai di volare?

«Mi capita, ma sotto forma di rondine».

E?

«E niente, sono una rondine e volo».

Il volo più bello?

«Beh, ai Giochi di Mosca arrivò la medaglia della vita: detenevo il record del mondo, c' era stato il boicottaggio, dovevo vincere. Però la mia impresa più grande fu l' argento a Los Angeles '84: ero stata infortunata, avevo saltato poco e male, dovevo essere una delle tante e invece il volo dei due metri fu una gran cosa.Mi sentii miracolata».

Altri tempi e altri guadagni, anche.

«Mi allenavo come se timbrassi il cartellino: per me l' atletica era un lavoro serio. Stavo a Formia, il meglio che un azzurro potesse avere a disposizione, e mi impegnavo sodo. Vivevo di borse di studio della Federazione e del Cio, lo sport maschile e quello femminile erano come il giorno e la notte in quanto a importanza, materiali, peso dei risultati. A me, per dire, un appartamento sulla Cassia non l' ha mai regalato nessuno...».

Come venivano ricompensate le medaglie?

«Non c' erano premi in denaro, come oggi. Ricordo che Primo Nebiolo, presidente della Federatletica, mi regalò un orologio d' oro. Per il record del mondo mi diedero sei milioni di lire. L' ho fatto due volte: la prima, niente».

Lei e Mennea siete i simboli della nostra atletica. Avete diviso mille esperienze senza mai diventare amici, però.

«In allenamento era intrattabile. Finito il lavoro, se voleva, sapeva anche essere simpatico.Abbiamo condiviso un percorso, è vero. Dieci lunghi anni tra Formia, trasferte, gare. Non ci siamo mai frequentati fuori dall' atletica, però. Pietro aveva il suo carattere e io ero molto timida, mai la prima a rompere il ghiaccio. Aspettare che lo facesse lui, evidentemente, non è servito. Anche l' allenatore di Pietro, il professor Vittori, era burbero. Mi sentivo sempre un po' in soggezione davanti a loro, anche se si stava molto insieme. Andare a cena da Vittori, finita la carriera, mi sembrò una conquista: prima di dedicarsi alla velocità, il professore aveva allenato i salti ed era stato il coach di Erminio Azzaro, mio marito».

A chi si sente di dire grazie, otto lustri dopo l'oro di Mosca?

«Se partecipai alle mie prime Olimpiadi, Monaco '72, lo devo a Giulio Onesti, presidente del Coni. Avevo saltato 1,80, una miseria. Cosa la mandiamo a fare, si chiedevano i funzionari. Onesti s' impose: la Baviera è vicina, ci costa poco, la veneta vada a fare esperienza!».

Monaco '72 e l' attentato terroristico di Settembre Nero alla palazzina israeliana. Il giorno in cui lo sport perse l' innocenza. Cosa ricorda?

«Avevo gareggiato ed eravamo andati a festeggiare in centro con Eddy Ottoz e altri atleti. La palazzina dell' Italia, per ordine alfabetico, era vicina a quella di Israele. Non ci accorgemmo di niente fino alla colazione: il villaggio era bloccato, polizia ovunque, un silenzio irreale».

E Mosca, nel 1980, che città era?

«Feci un giro guidato dopo aver vinto l' oro. La piazza Rossa, i magazzini Gum, il Bolshoi. Ci mostrarono la città velocemente: è da allora che mi piacerebbe tornare in Russia».

La storia dell' attacco di panico prima della finale dell' alto è leggenda o verità?

«È verissimo: un caso d' ansia da manuale, l' unico della mia carriera. Tremavo come una foglia, avevo la tachicardia, piangevo, non mi ricordavo nemmeno perché ero lì. Il primo salto di prova fu un disastro. Dalle tribune dello stadio olimpico sentii un urlo: Sara svegliati! Era Erminio, che già mi allenava. Prevalse la razionalità. Poco dopo quella mezzora tragica, mi ritrovai con l' oro al collo».

Ma senza Inno di Mameli: il boicottaggio americano per l' invasione sovietica dell' Afghanistan privò l' Olimpiade dei suoi simboli.

«Sul podio, dentro di me, cantai Viva l' Italia di Francesco De Gregori».

Damilano, Simeoni e Mennea, gli ori dell' atletica di quell' Olimpiade, regalarono un sorriso a un' Italia paralizzata dagli attentati.

«Un periodo buissimo. Nel '78, nei giorni del rapimento di Aldo Moro, per allenarmi andavo avanti e indietro con Rieti, dove si pensava ci fosse un covo. Ci avevano sconsigliato i treni; la nostra auto veniva sempre fermata ai posti di blocco. Se ci ripenso ho ancora i brividi. I nostri ori furono un segnale di speranza: avevamo tutti voglia di cose nuove e belle».

Si è mai sentita sola, in pedana?

«La solitudine della saltatrice mi è sempre piaciuta. Perché la sceglievo io».

Da Adamo ed Eva, solo quattro italiane si sono spinte oltre le colonne d' Ercole dei due metri: Antonietta Di Martino (2,04), Elena Vallortigara (2,02), Sara Simeoni (2,01), Alessia Trost (2,00). Cosa significa?

«Per riuscire nell' alto non basta avere molti follower o like. L' atletica è un mestiere serio. Il record del mondo della bulgara Kostadinova, 2,09, non a caso è datato 1987».

Per l' atletica italiana ha ricette miracolose?

«No, ma ho una certezza: per appassionarsi, è necessario che l' atletica sia promossa nelle scuole. Comincia tutto lì. Negli ultimi due anni di insegnamento, nella provincia di Verona ho incontrato 20 mila ragazzi tra le elementari e il liceo. Tutti con la voglia di correre, saltare, lanciare. Un' esperienza incredibile. Ma i ragazzi vanno motivati, sennò smettono».

Simeoni e la politica. Dove hanno fallito Forlani, Berlusconi e Prodi, è riuscita Alessandra Moretti, che la convinse a candidarsi in lista civica alle regionali. Perché?

«Me lo chiedo anch' io! Venne a trovarmi a casa; una, due, tre volte. È una donna. Mi lasciai tentare: un grande errore. Avessi detto di sì prima, avrei fatto la parlamentare a Roma e non avrei dovuto aspettare 67 anni per andare in pensione!».

Ha rimpianti veri?

«Rimpianti no. Ho una curiosità: mi piacerebbe mettermi alla prova potendo allenarmi con i mezzi moderni e non con quelli giurassici dei miei tempi. Per la prima volta calcai una pista di atletica a 13 anni. Oggi a quell' età sono già semiprofessionisti».

Per noi lei è eterna. Ma in un quiz tv, «Guess my age», non la riconobbero. Sacrilegio.

«La cosa strana è che quando sono entrata nello studio è partito un applauso, poi il concorrente ha fatto scena muta. Mi è venuto il dubbio che fosse tutto preparato».

·         Quelli che…le Biciclette. 

Da corriere.it il 17 agosto 2020. Bruttissima caduta al Giro del Lombardia di Remco Evenepoel nella discesa che dalla Colma di Sormano porta al Lago di Como. Dalle immagini dell'elicottero Rai si vede il belga che, in coda al gruppetto dei fuggitivi, tocca il parapetto sulla sinistra della carreggiata, si ribalta ed finisce nel burrone, mentre la sua bicicletta rimaneva parcheggiata a bordo strada. Immediati i soccorsi, il ciclista non ha perso conoscenza ed è stato recuperato dal Soccorso Alpino per essere trasportato all'ospedale di Como.

Marco Bonarrigo per corriere.it il 17 agosto 2020. Bruttissima caduta nella discesa della Colma di Sormano, al Giro di Lombardia, per Remco Evenepoel. Il super talento belga, che cercava con fatica di tenere la ruota di Vincenzo Nibali a 42 km dall’arrivo, ha toccato il parapetto della strada sulla destra, precipitando nel vuoto per una decina di metri. Gli uomini del soccorso alpino sono intervenuti rapidamente, in un punto in cui fermarsi era molto pericoloso: ci sono voluti 20 minuti circa per stabilizzare l’atleta e portarlo a bordo strada, dove un’ambulanza l’ha caricato e trasportato all’ospedale di Como. Nelle prime immagini del crash si poteva vedere il casco dell’atleta, con un largo foro nella parte centrale. Evenepoel è sempre rimasto cosciente. Remco Evenepoel, 20 anni, è considerato il più grande talento del ciclismo mondiale: quest’anno ha partecipato a quattro corse a tappe, vincendole tutte e staccandosi dalla ruota tutti i big delle due ruote. Davide Bramati, direttore sportivo: «ho seguito Remco fino all’ambulanza, è cosciente anche se ha preso una brutta botta. Adesso aspettiamo di vedere i risultati degli esami»

Ciclismo, la storica foto di Coppi, Bartali e la borraccia: ma non erano soli. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Coppi, Bartali, la borraccia e il Galibier. Era il 6 luglio 1952, il Tour, la tappa Bourg d’Oisans-Sestriere. L’immagine apparve per la prima volta sul numero 28 della rivista "Calcio e Ciclismo illustrato". Coppi passa la borraccia a Bartali o viceversa, non s’è mai capito e forse non importa. Ma, ed è la prima volta che questa storia emerge, Coppi e Bartali non erano soli. La foto era semplicemente stata tagliata sui due grandi italiani. Alla sinistra di Coppi, infatti, ecco emergere il belga Stan Ockers, proteso alla ricerca di acqua. Alle loro spalle, le ombre di altri corridori, Ruiz, Gelabert e Geminiani. E all’attacco, con un minuto di vantaggio, il francese Le Guilly. Coppi vincerà quella tappa e quel Tour, proprio su Ockers e Ruiz. La foto “allargata” è un ritrovamento eccezionale di cui si deve ringraziare Carlo Delfino, medico di Varazze appassionato di ciclismo. La vicenda della fotografia più simbolica dell’intera storia dello sport è stata pubblicata per la prima volta dallo stesso Delfino sul sito Novauvi.it, ripresa da Tuttobiciweb e, oggi, da Valerio Arrichiello del Secolo XIX. L’originale della foto, scattata da Carlo Martini dell’agenzia Olympia di Milano, è riemerso dal grande archivio di Marino Vigna, olimpionico a Roma 1960 nell’inseguimento a squadre su pista. “Bizzarro” scrive Delfino “come il redattore abbia privilegiato a scelta di escludere dalla foto il belga e centrare per bene l’immagine dei due campioni italiani. Probabilmente l’intenzione era quella di affermare che Coppi, Bartali e la squadra italiana erano il faro unico, armonioso e dominante della Grande Boucle”.

“Cipollini mi disse: ‘Vi spello vivi tutti’. E una volta sferrò un calcio fortissimo a mia sorella”. Raffaello Binelli su larno.ilgiornale.it il 16 luglio 2020. È un racconto drammatico quello che fa Marco Landucci, in aula, al processo contro Mario Cipollini, accusato dall’ex moglie di violenza, minacce e maltrattamenti. Ex portiere della Fiorentina e membro dello staff tecnico di Massimiliano Allegri (ex allenatore della Juventus), Landucci è fratello di Sabrina, la donna che ha denunciato Cipollini. L’ex campione di ciclismo, stando alle parole di Landucci, aveva spesso reazioni incontrollate e violente. “Una volta, nel 1995, eravamo nella sua casa a San Giusto di Compito (Lucca, ndr), io con la mia ex moglie e le bimbe, e Sabrina stava facendo step nel giardino di casa. All’improvviso, durante una discussione, perché lui aveva fatto tardi la sera precedente, si avventò verso mia sorella e le sferrò un calcio fortissimo su una gamba, facendole molto male. Un’altra volta, ricordo, stava venendo via dalla casa dei miei genitori, quando lui la fermò e cominciò a prendere a calci la carrozzeria della macchina”. Alla domanda, rivoltagli dall’avvocato della parte civile, di come mai non lo avesse mai denunciato, Landucci ha risposto in questo modo: “Mi ha sempre detto (la sorella, ndr) che ci avrebbe pensato lei. Tutti noi eravamo preoccupati, mia mamma soprattutto. Lui le disse di andarsene di casa con le figlie perché si era innamorato e fidanzato con una soubrette, Magda Gomes, con la quale voleva andare a vivere nella villa di Monte San Quirico. Sabrina se ne andò dalla mamma, salvo poi andarsene di casa. Successivamente, dopo un breve ritorno, l’abbandonò definitivamente”. Landucci racconta anche di aver provato a far ragionare Cipollini, tra il 2010 e il 2011, parlando con lui al telefono. Per tutta risposta si sentì dire: “Vi spello vivi tutti, te e la tua famiglia”. E dopo l’aggressione in palestra subita dalla sorella (avvenuta il 6 gennaio 2017), Landucci rivela di averle preso una guardia del corpo perché la seguisse e proteggesse ovunque. “È andata avanti per due mesi. Una scelta quasi obbligata perché, dopo la separazione, Sabrina non era libera di andare dove voleva. Stava sempre in guardia, evitando i posti frequentati da lui”. In aula è stato ascoltato anche il proprietario della palestra dove avvenne l’aggressione, Renato Malfatti. L’uomo ha raccontato che Sabrina Landucci lavora per lui da 12 anni ed è molto stimata e apprezzata. Poi, nel rievocare il giorno in cui Cipollini l’aggredì, dice che lui arrivò solo nel pomeriggio: “Mi resi subito conto che era stravolta. Aveva un segno visibile sul collo che  aveva cercato di mascherare con il trucco, ma che si vedeva bene. Era in imbarazzo a parlarmi e io evitai di calcare la mano perché era stravolta… soltanto dopo l’aggressione e la denuncia mi raccontò il clima di intimidazione nel quale era costretta a vivere”. Sentita anche la collaboratrice domestica. Ha detto di non aver assistito a scene di violenza all’interno della casa, anche se in un’occasione avrebbe riferito di aver avuto paura di Cipollini. La colf è stata richiamata quattro volte dal giudice, perché ritenuta reticente. La prossima udienza è fissata per il 18 novembre.

Marco Bonarrigo per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2020. «No, il Puffo Blu non lo chiede più nessuno. I bambini vogliono la Puffetta Rosa - più croccante e con meno zucchero - Nutellone, Rocher e Oreo. Gli adulti il triplo pistacchio, il cioccolato dark e il mascarpone col cuore di panna alla torta Barozzi, specialità della zona». Visto dal laboratorio della gelateria Chocoloco di Vignola, il mondo è questione di gusti (23) e misure. Cono piccolo a due euro, cono magnum (un mostro di sei etti compresi panna e accessori) a sette. Chocololo apre alle 13 ma alle 9 il titolare è già lì che sbuccia, affetta, frulla, pastorizza e manteca. Si chiama Riccardo Riccò: 13 anni fa era un fenomeno del ciclismo poi si è trasformato nel più dannato antieroe dello sport italiano moderno. Pantani era il Pirata, Riccò il Cobra: mordeva gli avversari e sputava veleno. Pantani è morto, Riccò è sopravvissuto per miracolo e sabato scorso ha cominciato ufficialmente la sua nuova vita. Il suo passato lo sintetizza così: «Ero un bulletto di talento, un idiota che ha gettato al vento soldi e carriera. Avessi gestito gambe e rabbia di allora con la testa di adesso avrei vinto Giro e Tour. Ma il mio destino era segnato: nella vita non decidiamo noi quando maturare». Nel 2008, quattro anni dopo la morte di Pantani, Riccò ne prende il posto nel cuore dei tifosi. In salita è micidiale: stacca fenomeni come Contador e Valverde, li ridicolizza con smorfie e dichiarazioni pepate, vince tre tappe al Giro d'Italia (dove lo batte solo Contador) e due al Tour con facilità irrisoria sovrapponendo la maglia bianca di miglior giovane e quella a pois di scalatore principe. «Mi dopavo pesante - spiega - perché mi sembrava una scelta inevitabile per vincere: inchieste e controlli l'hanno dimostrato. Era un doping da disperati, mi hanno beccato appena hanno voluto». La discesa all'inferno inizia il 17 luglio 2008, alle 11 del mattino. Riccardo era risultato positivo all'Epo già la sera prima ma invece di fermarlo in albergo, dodici gendarmi sfilano quella mattina verso il bus della Saunier Duval alla partenza della tappa. Un centinaio di giornalisti (debitamente avvertiti) sono testimoni dell'arresto. Riccò, pallido come un cencio, sguardo perso nel vuoto, è il simbolo del male. Scaricato dalla squadra, finisce in una cella di tre metri per tre. «Volevo uscirne il prima possibile - spiega - e feci nomi e cognomi di chi mi aveva dato la roba. Mi premiarono con uno sconto di pena ma non riuscivo a far finta di piangere in pubblico come tanti altri: per i colleghi ero solo un dopato di m...». Venti mesi dopo, torna in bici. Non è solo un ciclista maledetto è anche un maledetto pentito. Trova solo squadre piccole, contratti ambigui, stipendi sontuosi solo sulla carta. «Ho perso centinaia di migliaia di euro - confessa - ma non il vizio di doparmi». La notte del 6 febbraio 2011, alla vigilia dell'ennesima stagione del riscatto, Riccò arriva all'ospedale di Baggiovara in condizioni disperate, accompagnato da Vania Rossi, la madre di suo figlio: delira per la febbre altissima, ha un blocco renale. Al dottore che lo implora di aiutarlo nella diagnosi sussurra la verità: si è fatto da solo una reinfusione di sangue con una sacca che conservava nel frigo di casa, evidentemente contaminata da un batterio. Si salva per miracolo ma uno dei medici va in Procura e lo denuncia: 12 anni di squalifica e fine della carriera. Non dei guai: Riccardo non molla la bici, si inventa patetiche imprese solitarie, rischia la vita in una tremenda caduta dal Mont Ventoux, si infila in un brutto giro di ciclo-dopati, arriva a un passo dal suicidio come ha raccontato in «Cuore di Cobra», la (bella e dura) autobiografia scritta per Piemme con Dario Ricci. «Quando ero a un passo dallo sprofondo mi ha salvato un amico gelataio. "Se dovesse andare tutto male - mi aveva detto - vieni da me che ti insegno un mestiere". Sono stato mesi da lui a pelare frutta, impastare e mantecare. Poi ho conosciuto Melissa, la figlia della mia fruttivendola. Ci siamo piaciuti, sposati e spostati a Tenerife a fare gelati. Ci ho messo il meglio del mio passato: passione, meticolosità, dedizione totale. Ma senza Melissa, la sua forza e il suo amore non ce l'avrei mai fatta. Per lei ero Riccardo, non il Cobra. Dodici anni fa guardavo il mondo dall'alto del podio del Tour ma sapevo di essere un baro. Oggi se un bambino mi dice che il mio gelato è buono sono un uomo soddisfatto e la sera posso andare a casa sereno senza dovermi guardare le spalle».

Il baronetto Simpson e il doping sul Ventoux. Piero Mei il 21 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il “caso Simpson” non è qui quello di Wallis, l’americana divorziata di Baltimora, per amore della quale un re d’Inghilterra rinunciò al trono, né quello di Orenthal James, l’americano divorziato di San Francisco, “OJ” per tutti, famoso prima come running back sui campi del football americano e poi come presunto assassino dell’ex moglie, fuggitivo sull’autostrada della California, inseguito in diretta tv dalle auto della polizia e poi assolto, e più tardi come rapinatore a mano armata, condannato. Questo “caso Simpson” è quello di Thomas detto Tom (o Tommy), inglese, ciclista, felicemente coniugato, che la Regina fece baronetto, colpita dalla rarità, oltre Manica, dell’impresa sportiva che Simpson compì: la vittoria nella Milano-Sanremo, insolita a quei tempi (era il 1964) per uno sportivo britannico. Le glorie inglesi sui pedali, e sulle strade di mezzo mondo, erano ancora lontane: c’era stato sì il pistard Reginald Harris di Manchester con i suoi quattro titoli mondiali, ma lo tsunami di Union Jack sui velodromi con Chris Hoy e compagni di pedali era allora inimmaginabile, come l’avvento della generazione di Sir Bradley Wiggins o di Chris Froome, per non citare che due dei tanti del Terzo Millennio. Questo “caso Simpson”, che accadde il 13 luglio 1967, ebbe per scenario, nella tredicesima tappa del Tour di quell’anno, il Mont Ventoux: “Fisicamente il Ventoux è terribile. È calvo. È l’essenza dell’aridità. Il suo clima lo rende un terreno dannato, un luogo adatto agli eroi. È come il più alto degli inferni. Il Ventoux è un Dio del Male al quale bisogna sacrificare. Non accetta debolezze ed esige un ingiusto tributo di sofferenze”, come lo aveva raccontato Roland Barthes, nei suoi “Miti d’oggi”, dieci anni prima del “caso”. La conquista di questo monte era già stata narrata sei secoli prima da Francesco Petrarca in una lettera al padre agostiniano Dionigi, di Borgo San Sepolcro, una lettera “sui propri affanni” che Petrarca scrisse fra cronaca e allegoria. È probabile che Tommy Simpson non avesse letto né l’uno né l’altro. Sapeva, forse, che di lassù, 1912 metri sul livello del mare e un territorio dall’aspetto di Luna, bianco e deserto, il Tour era passato per la prima volta nel ’51, e che nel ’55, su quella cima, il campione svizzero Ferdi Kubler era stramazzato al suolo ed aveva annunciato il proprio ritiro dicendo semplicemente “Ferdi si è suicidato”. E forse Simpson sapeva pure che giusto nel marzo di quel 1967 il Mistral, il vento che con la complicità del sole dà a quegli ultimi cinque chilometri verso la vetta, l’aspetto di una montagna di sale che si vede da tutta la Provenza, soffiò a 313 chilometri l’ora, un record. Simpson, ormai Sir, era divenuto campione del mondo nel ’65 e quell’anno aveva vinto anche il Giro di Lombardia. Ma voleva la consacrazione ciclistica che solo il Tour regala: difficile entrare in bicicletta nel Pantheon dei campioni se non vinci lì almeno una volta, tra i pochissimi Francesco Moser c’è riuscito. Tommy era settimo in classifica generale quella mattina, partenza da Marsiglia, arrivo a Carpentras, città che era stata la prima sede del Papa e della Curia nel periodo del Papato di Avignone, dove uno chef di nome Silvestro aveva confezionato per primo i berlingots, caramelle di zucchero al sapore di menta, proprio per il Papa Clemente V. Ma non era di berlingots che si era approvvigionato Tommy nell’albergo di Marsiglia la notte prima della tappa: nella stanza dove alloggiava con Colin Lewis, uno dei tre gregari che gli erano rimasti nella squadra di Gran Bretagna, era stato raggiunto da un paio di ceffi italiani ed aveva acquistato, al prezzo di 800 sterline, alcuni tubetti di Mickey Finns, come le chiamava lui, un po’ gergale e un po’ letterario: erano amfetamine. Simpson era stanco ma si finse allegro al raduno di partenza: gli organizzatori del Tour avevano distribuito foglie di verza da mettere sotto il berretto perché aiutassero i ciclisti a tenere la testa fresca sotto il sole; Tommy teneva in mano la borraccia e ne spruzzava l’acqua su quella verdura degli amici, benedicente come sulle palme della domenica prima di Pasqua. Si toccò i taschini posteriori della maglietta di cotone: Mickey Finn era lì. Partirono verso Carpentras: bisognava passarci, poi scalare il Ventoux e ornarci dall’altra parte del Gigante della Provenza, lo chiamavano i locali, quel Dio del Male “salire sul quale non è da pazzi: lo è ritornarci” come scandiscono gli abitanti del posto. Lì, quando la strada comincia a salire verso il cielo dove è invece l’inferno, sì incontrano prima una foresta che nasconde il sole, poi una macchia mediterranea e infine il nulla che lo svela, lo sposa con i venti che s’incrociano da sud e da nord e porta al nulla. Le pendenze sono anche del 15 per cento. Jimenez, scalatore spagnolo, cominciò a menare la danza; Poulidor gli si incollò alla sella, superandolo di quando in quando ma non per aiutarne la fuga bensì per interromperne il ritmo perché il suo capitano, Pingeon, doveva difendere la maglia gialla. In quel gruppetto intrepido con loro tre erano Gimondi e Balmamion e, tra i pochi, Janssen che avrebbe vinto la tappa. Tommy cominciò ad arrancare quando fu investito dal sole senza riparo. Colin Lewis, il gregario, si fermò a un bar: prese una coca cola e un quarto di bottiglia di cognac per il capitano assetato e disidratato; passò Aimar, ciclista francese, e offrì una borraccia a Tommy che nemmeno si accorse del gesto. Aveva lo sguardo sperduto, le gambe pedalavano da sole e faticosamente, Tommy dov’era? Prese il cognac, bevve per mandar giù la compressa che aveva tirato fuori da uno dei tre tubetti. Andava avanti a zig zag che sembrava stesse per cadere da un attimo a quello dopo, attimi eterni. “On, on, on” diceva, “avanti, avanti, avanti”. Lo fermarono, lo sdraiarono su di una petraia, il medico del Tour, il dottor Pierre Dumas, gli praticò la respirazione bocca a bocca, un chilometro e mezzo più su Jimenez scollinava per primo e solitario. Fu ripreso nella discesa, mentre un elicottero arrivò per portare Simpson all’ospedale di Avignone. In discesa ripresero Jimenez, fecero una volata a Carpentras; Janssen arrivò primo. Tommy arrivò morto ad Avignone. Nella chiesa sconsacrata di Carpentras dove era posta la sala stampa il dottor Dumas comunicò la tragedia: “Non è stata autorizzata la sepoltura” disse, annunciando l’autopsia. I risultati furono resi noti il 2 agosto: l’amfetamina fu catalogata come una delle cause, insieme con il caldo, il sole, il vento che aiutavano a nascondere quel che era successo quel giorno nel ciclismo, quando non erano arrivati soltanto Janssen al traguardo di tappa, Simpson alla fine della sua vita: era arrivato, ufficialmente, il doping nel ciclismo.

Danilo Di Luca, la vita dopo la radiazione dal ciclismo per doping «Vendo le mie bici da 16 mila euro». Marco Bonarrigo e Gaia Piccardi, inviati a Pescara, su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2020. C’è il mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. E poi, agli antipodi, c’è Danilo Di Luca, 44 anni, detto il «killer di Spoltore», il più grande talento del ciclismo italiano post-Pantani, una Freccia Vallone, un’Amstel, una Liegi, un Giro di Lombardia, un Giro d’Italia, nel 2007, vinto alla sua maniera: faccia tosta, fin troppo. Tre squalifiche in sei anni: la prima per frequentazione del discusso medico abruzzese Carlo Santuccione, la seconda e la terza, fatale, per uso di Epo. Il 5 dicembre 2013 il Tribunale nazionale antidoping emette la sentenza definitiva: radiazione. Capelli meno chiari di un tempo, stessi occhi freddi e intelligenti: «Nel club dei radiati siamo soltanto in due: io e un certo Lance Armstrong». La seconda vita del biondino che s’iniettava Epo e Cera prima di andare a dormire (sei ore di anticipo sull’arrivo dei medici gli avrebbero dovuto garantire l’impunità ai controlli, non fu così) ricomincia dove tutto è iniziato: Pescara, una bella via del centro, negozio «Di Luca» di bici da corsa per appassionati con la Visa senza plafond. Prodotti d’eccellenza («Il telaio custom con le borchie di Gucci e Valentino costa oltre 16 mila euro ma li vale: è carbonio unidirezionale, il più pregiato»), clientela d’elite («Inglesi, danesi, spedisco molto a Miami, vorrei entrare presto nel mercato asiatico»), un profilo Instagram da 11.500 follower («Fondamentale: lì possono vedermi in tutto il mondo»), design suo («Papà falegname, fratello architetto, io faccio fruttare l’Istituto d’arte dove ero uno studente svogliato: la bici Mondrian è nata così»), un ingegnere che trasforma i disegni in progetti, gli stampi del carbonio a Taiwan, verniciatura a Padova e zero, assolutamente zero, rimpianti: «Sarebbe ipocrita, all’epoca tutti facevano quello che bisognava fare per vincere. Nel mio ciclismo era impossibile riuscirci senza doping: se volevi risultati, dovevi adeguarti o mollare tutto. E io volevo vincere, a qualunque costo, fin da bambino. Triste, tristissimo ma era così. Oggi è cambiato tutto, per fortuna. Non posso dire che l’Epo facesse bene, ma c’era modo e modo di assumerla: se ti facevi il giusto, non rischiavi. Chi esagerava o faceva le trasfusioni da solo si giocava la vita: di esempi ce ne sono fin troppi...». Il re delle vittorie sporche in uno sport zozzo? Manco per niente: «Vincevo perché ero il più forte. Se nessuno di noi si fosse dopato, avrei vinto lo stesso come avrebbe vinto Pantani, un fenomeno molto più forte di me: bastava vederlo pedalare per capire». Alle pareti dell’ufficio, oltre ai telai e agli scarpini da 500 euro degni di una boutique di lusso, due foto: una grande del podio del Giro 2007, con il Trofeo Senza Fine in braccio (l’originale pende dal soffitto, recuperato e lucidato dopo anni in soffitta), un’altra dove Danilo sorride al fianco di un signore con gli occhiali e lo sguardo triste: Carlo Santuccione, medico condotto pescarese, il suo mentore, squalificato a vita dal Coni per procurato doping. «È morto tre anni fa, era il mio secondo padre. Per tutti lui era il dopatore, io il dopato. Liberi di crederlo. Ma Carlo era una persona magnifica, medico di famiglia di vecchio stampo che ha salvato molte persone. Ai miei tempi la questione non era se certi medici ti aiutassero a doparti o meno ma se tenessero alla tua salute quando chiedevi loro come doparti: lui mi amava come un figlio».

Quello che aveva perso, Danilo Di Luca ha saputo ricostruire: «Mi sono fatto male, però oggi faccio il mestiere che mi piace. Non essere più nel ciclismo mi dispiace ma non ho bisogno di quel mondo per vivere». Dice che desidera un figlio con la nuova compagna: «Ci stiamo provando...». E il biondo per un attimo s’illumina, ridandoci speranza nel potere taumaturgico della redenzione.

Armstrong shock: «Il doping forse ha causato il cancro. Ho iniziato a 21 anni...» Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it. «Non posso sapere con certezza se ci sia stato un legame tra doping e il cancro ma certamente non posso escluderlo». Lance Armstrong torna a parlare e le sue rivelazioni fanno notizia: «La prima volta che usai sostanze? Penso intorno ai 21 anni», le parole del texano che si è raccontato in un documentario della ESPN che uscirà il 24 maggio e del quale il tabloid inglese Sun e lo spagnolo Marca hanno diffuso una anticipazione. Armstrong è stato squalificato a vita nel 2012 dopo l’ammissione di aver fatto uso di sostanze dopanti e privato a tavolino della vittoria di 7 Tour de France. «Non posso sapere con certezza se ci sia stato un legame tra doping e il cancro — le parole di Armstrong — ma certamente non posso escluderlo. L’unica cosa che dirò è che l’unica volta nella mia vita che ho fatto uso dell’ormone della crescita è stato proprio nel 1996. Già nella mia prima stagione da professionista assumevo il cortisone, ma l’Epo era di un altro livello. La prima volta che usai sostanze? Penso intorno ai 21 anni. Sapevo quello che stava succedendo. Ho sempre chiesto, sempre saputo e ho sempre preso le mie decisioni da solo. Non voglio trovare scuse, ma lo facevano tutti e avrei vinto ugualmente».

Le nuove verità di Lance Armstrong: "L'Epo è molto più sicura di altre sostanze". Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 da La Repubblica.it. Il doping già a 21 anni, i benefici dell'Epo, il possibile legame fra il suo cancro e il ricorso agli ormoni della crescita, i maltrattamenti da parte del patrigno. Lance Armstrong si mette a nudo in un documentario della ESPN, una serie di interviste condotte nel 2018 e nel 2019 da Marina Zenovich (tre ore e 20 minuti la durata complessiva), la cui prima parte è stata trasmessa nella serata di domenica in America sul canale sportivo sull'onda dell'immenso successo di "The Last Dance" che ha ripercorso l'epopea di Michael Jordan e dei Chicago Bulls nella Nba. "Non ti mentirò, ti racconterò la mia verità", le parole, pronunciate come una promessa, dell'ex star decaduta del ciclismo, che sette anni dopo aver ammesso di essersi drogato durante un'intervista televisiva si è nuovamente confessato di fronte a una telecamera in "Lance". "Prime sostanze a 21 anni: sapevo cosa accadeva". Contrariamente a quanto aveva detto ad Oprah Winfrey, ora il texano rivela di aver iniziato a doparsi già nel 1992 e non nel 1996. "Probabilmente avevo 21 anni, era durante la mia prima stagione da professionista - ha affermato Armstrong - Ci venivano praticate iniezioni di vitamine e cose del genere? Sì, ma non era illegale. E chiedevo sempre cosa mi veniva dato. Sapevo quello che stava succedendo. Ho sempre chiesto, sempre saputo e ho sempre preso le mie decisioni da solo. Nessuno mi ha mai detto 'Non fare domande, te lo diamo e basta'. Non lo avrei mai accettato. Ho chiesto, è stato un passo da parte mia". Era il cortisone la sostanza assunta a quei tempi dall'atleta statunitense, laureatosi nel 1993 campione del mondo su strada a Oslo, uno dei rari titoli di cui non è ancora stato privato. Il 48enne ciclista americano ha vinto sette edizioni consecutive del Tour de France, dal 1999 al 2005, cancellate però a tavolino dopo che Armstrong è stato squalificato a vita nel 2012 per l'ammissione di aver fatto uso di sostanze dopanti a seguito dell'indagine dell'Usada che lo ha collocato a capo del "sistema di doping più sofisticato, professionale ed efficace nella storia dello sport". La prima puntata del documentario si è comunque soffermata su un altro periodo della vita di Armstong, quasi costretto al ritiro nel 1996 per un cancro ai testicoli, malattia combattuta con grande determinazione e coraggio. "Non posso sapere con certezza se ci sia stato un legame tra doping e il cancro ma certamente non posso escluderlo - ammette Lance -  La sola cosa che posso dire è che l'unica volta nella mia carriera in cui ho fatto uso dell'ormone della crescita è stato proprio nel 1996. Quindi in un angolo della mia testa, la domanda c'è...". Un anno prima Armstrong aveva deciso di rivolgersi al medico Michele Ferrari: "Ho fatto tutto quel che ha detto, avevo cieca fiducia in lui (...) Tutto ciò di cui avevo bisogno erano i globuli rossi." Riguardo all'Epo, l'ex corridore ha un'opinione ben precisa: "Quello che sto per dire non sarà popolare, ma per molti aspetti è un prodotto sicuro. Fintanto che lo usi con parsimonia, in quantità limitata, sotto la supervisione di un medico professionista. Ci sono sostanze molto più pericolose da iniettare nel tuo corpo" Al punto che "non è stato difficile" per lui recuperare dopo il cancro. 

I maltrattamenti del patrigno: "Trattato come un animale". Armstrong ricorda anche la sua infanzia segnata dall'assenza di un padre e dalla violenza di un patrigno, che lo colpiva "per un cassetto lasciato aperto". "Senza di me Lance non sarebbe diventato un campione, perché l'ho trattato come un animale", il parere da parte sua di Terry Armstrong, con il rimpianto di averlo reso "un vincitore a tutti i costi". Infine, l'ex atleta americano racconta come a 15 anni abbia infranto le regole usando un certificato di nascita falso per partecipare a una gara di triathlon: "Dovevi avere 16 anni. Falsificare il certificato, partecipare illegalmente e battere tutti", la verità del texano. E - come già accaduto in passato - c'è da credere che le sue rivelazioni susciteranno altre reazioni nel mondo del ciclismo.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 26 maggio 2020. «Non mi costava nessuna fatica mentire: ho detto migliaia di bugie. Ero convincente, mentivo guardandoti dritto negli occhi: io dopato? Come osi pensarlo? Bugie e arroganza. Ero un animale da corsa: quando scendevo dalla bici non avevo idea di come gestire un rapporto umano». Se con «The Last Dance» l' America celebra Michael Jordan, eroe assoluto dello sport, con «Lance» (in onda da ieri negli Usa) Espn seppellisce il suo campione più disgraziato, Lance Armstrong. Rivelazioni poche, le due puntate sono piuttosto un viaggio profondo nell' animo tormentato dell' uomo che ha vinto sette Tour de France e raccolto miliardi per la lotta ai tumori prima di veder sbriciolata la sua reputazione. Si parte da un ragazzino problematico: «Un bulletto negato per baseball e basket che voleva disperatamente eccellere. Provai nuoto e triathlon e poi incontrai il ciclismo, sport selvaggio come me». Si passa al dopato precoce. «A 21 anni prendevo l' ormone della crescita che stimola il buono e il cattivo nell' organismo. Possibile sia stato causa del mio cancro». Armstrong a 25 anni sviluppa un tumore devastante («Andai dal medico solo dopo aver tossito sangue a fiotti: la mia cucina sembrava una scena del crimine») e poi, dopo operazioni e cure pesanti, torna in sella con lo stesso pensiero fisso in testa: «Doparmi. Era arrivata l' Epo e sapevo che con lei potevo vincere e diventare ricco. Mi serviva solo un medico bravo, Eddy Merckx mi presentò il migliore, Michele Ferrari. Quando iniziai a vincere non dovevo nemmeno respingere le accuse: è un sopravvissuto, scrivevano i giornalisti, figuriamoci se Lance si dopa». C'è il suo disprezzo per i rivali, tutti tranne uno: «Li odiavo, odiavo questo stringersi le mani, darsi pacche sulle spalle, odiavo la loro ipocrisia. Amavo solo Jan Ullrich, mio grande avversario. Venivamo entrambi da famiglie sfasciate, abbiamo vinto tutto col doping e poi gettato al vento fama, denaro e matrimoni diventando due reietti. L'ho incontrato in Germania mentre provava a disintossicarsi: è stato angosciante». Di tre cose si è pentito: «Ho rovinato la vita a Emma O' Reilly, la mia massaggiatrice, dandole pubblicamente della prostituta per avermi smascherato. Ho rovinato Filippo Simeoni, il corridore che denunciò il mio legame col dottor Ferrari. Avrei potuto metterlo in un angolo, lo minacciai come un boss mafioso durante la diretta televisiva del Tour. Sono stato osceno quando ho piantato mia moglie Kristin e i bambini per flirtare con la starlette di turno». Sulla caduta: «Mi hanno incastrato i miei ex compagni. Tutti. Con una firma sui loro verbali avrei avuto un sconto di pena e mantenuto i miei sponsor. Lance testimonial dell' antidoping, il cattivo redento che insegna agli altri a non peccare. Li mandai a farsi fottere. Ho confessato da Oprah in tv perché volevo scegliere io come e dove immolarmi». E l' epilogo: «Ho chiuso i conti con la giustizia ma resterò un emarginato. Gli italiani glorificano un ex ciclista come Ivan Basso, gli offrono un lavoro, lo invitano in tv. Eppure Ivan ha fatto cose simili a quelle che ho fatto io. L' Italia ha ucciso Pantani, la Germania disprezza Ullrich e gli americani mi odiano. Per tre come noi non ci sarà redenzione».

Da corrieredellosport.it il 28 maggio 2020. “Ho deciso di raccontare tutta la mia verità”. Lance Armstrong, forse il più grande truffatore della storia del ciclismo, lo ha fatto in un lungo documentario di tre ore e un quarto spezzato in due puntate, la prima andata in onda su ESPN negli Usa la scorsa notte e la seconda on air il prossimo lunedì. In Europa arriverà a fine giugno. “Lance”, questo il titolo del documentario-film realizzato da Marina Zenovich, è la storia di un campione (o presunto tale) pronto a tutto pur di primeggiare. Pronto a doparsi come un cavallo con l’unico intento di vincere, sempre e comunque. “Lance” è l’anti “The Last Dance”, da una parte c’è lui, dall’altra Michael Jordan. Una divinità del basket da una parte, un millantatore senza possibilità di redenzione dall’altra. Il documentario racconta l’ascesa dell’atleta fino all’apice come “divo del ciclismo e della lotta al cancro” e poi il suo rapido declino come bugiardo seriale e truffatore in piena regola. Lance non è una biografia ma un viaggio nell’animo malato di un uomo che ha perso completamente il contatto con la realtà (“Mi sono ritrovato a mentire guardando la gente negli occhi tanto ero abituato a farlo. Avrò costruito un castello di migliaia di bugie”).

Il doping a 21 anni e il tumore. Il primo incontro tra Armstrong e il doping avviene presto, a soli 21 anni. Lance si affida all’ormone della crescita per vincere il mondiale di Oslo nel 1993 (“Mi superavano tutti, mi ero stancato di restare indietro, di uscire sconfitto. Io volevo cominciare a vincere e non fermarmi più. Divenne un’ossessione”). Spararsi ormoni nel corpo su una scelta devastante per il suo organismo: arrivò il devastante tumore ai testicoli e al cervello che Lance riuscì a superare. Dal ritorno alle corse in poi,  Armstrong non si fermò più. Provò ogni tipo di sostanza dopante “con l’imbarazzo di non dovermi nemmeno difendermi visto che per tutti ero l’eroe che aveva sconfitto un tumore e quindi al di sopra di ogni sospetto”. Nel 1998 incontrò l’Epo e fu un’attrazione fatale: “Tutti ne facevano uso, era un farmaco che ti faceva andare fortissimo senza rischi per la salute, al contrario degli ormoni che ti facevano crescere le cose buone e quelle cattive, come appunto il tumore”.

Il ritorno alle corse e il senso di onnipotenza. Armstrong lasciò il ciclismo dopo aver vinto sette Tour de France. Si godette la vita, i soldi e il successo per tre anni (“Persi tempi appresso a starlette per le quali lasciai mia moglie e la mia famiglia”), poi decise di tornare nel 2008. Era annoiato e stava guardando il Tour de France in tv: “Stavo benissimo fisicamente e vidi la vittoria di Sastre. Se uno come quello poteva vincere il Tour, lo avrei potuto fare serenamente anche io per l’ottava volta. In pochi appoggiarono la mia decisione”.

Da Basso a Pantani, gli attacchi ai ciclisti italiani. C’è spazio anche per gli italiani in questo documentario. Non sono parole dolci, tutt’altro. L’accostamento all’Epo dei vari fuoriclasse azzurri, tanto per cominciare. Nel documentario ci sono parecchi video e foto inediti che ritraggono Armstrong sul lago di Como, location da sogno che accompagnò la vita del ciclista americano per due anni. C’è anche una clip che ritrae Lance parlare durante un’intervista alla tv svizzera un corretto italiano. Ma torniamo alle bordate: “L’Italia glorifica Ivan Basso, lo tiene in gran conto gli offre un lavoro e lo invita in tv. Eppure lui non è molto differente da me o Jan Ullrich. L’Italia ha demolito e ucciso Pantani, la Germania disprezza Ullrich ma ama Zabel che pure era dopato. E Pantani è morto, fottutamente morto". Quando si parla di Italia non può non esserci un grande capitolo dedicato anche al rapporto con il medico Michele Ferrari: "Ho fatto tutto quel che ha detto, avevo cieca fiducia in lui. Tutto ciò di cui avevo bisogno erano i globuli rossi".

Le lacrime di Armstrong alla vista di Ullrich. Nel documentario si vede anche Armstrong piangere. Lo fa ricordando un episodio della sua vita molto drammatico dopo il suo ritiro. "Sono andato a trovare Jan Ullrich in Germania, nella struttura dove si disintossicava e non è stato affatto un bel viaggio. L’hanno incastrato, Jan, proprio come me. Gli voglio bene, è stata la persona più importante nella mia vita. E’ l’avversario che ho rispettato più di tutti, anzi l’unico. Le nostre storie sono molto simili, a cominciare dalla nostra infanzia difficile. Jan aveva tutto quello che avevo io, una moglie, bambini, tanti soldi ma non è servito a tenere e tutto assieme. Tutto per colpa di questo fottutissimo sport”.

Il figlio di Armstrong: "Non mi sono nascosto". Poi c’è la famiglia, distrutta dalla fama di successo di Lance. A cominciare dal figlio Luke David che appare nel documentario con una confessione da brividi: “Ho sempre pensato che mio padre col doping non c’entrasse nulla, la sera in cui ha confessato tutto da Oprah avevo 12 anni. Il giorno dopo mia madre mi suggerì di non andare a scuola, di prendermi qualche giorno di riposo. Io non le diedi retta: volevo guardare tutti in faccia”. Impressionante anche la frase che aggiunge il padre: "Luke adesso va al college ed è un talento del football americano. Se volesse parlare con me di doping? Gli direi che doparsi così giovane e a questo punto della sua carriera non conviene. E se mi dicesse che si dopa già? Beh, non saprei cosa rispondergli”.

Le tre cose di cui si pente Armstrong. Di tre cose Lance non va fiero. "Ho rovinato la vita a Emma O’Reilly, la mia massaggiatrice, minacciandola e dandole pubblicamente della prostituta per avermi smascherato. Aveva solo raccontato la verità". Il secondo: "Ho rovinato la carriera e la vita a Filippo Simeoni, il corridore che denunciò il mio legame col dottor Ferrari. Avrei potuto metterlo in un angolo e minacciarlo, lo feci come un boss mafioso durante la diretta televisiva del Tour". Il terzo: "Sono stato osceno quando ho piantato mia moglie Kristine e i bambini per flirtare con la starlette di turno. Due giorni dopo aver lasciato casa ero già sulle copertine con un bicchiere in mano".

Trattato come un animale dal patrigno. Infine Armstrong ricorda anche la sua infanzia, segnata dall'assenza di un padre e dalla violenza di un patrigno, che lo colpiva "per un cassetto lasciato aperto". "Senza di me Lance non sarebbe diventato un campione, perché l'ho trattato come un animale", il parere di Terry Armstrong, con il rimpianto di averlo reso "un vincitore a tutti i costi".

Lance Armstrong, accusa-shock all'Italia: "Avete ucciso Marco Pantani". Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Lance Armstrong è il protagonista di un lungo documentario di tre ore e un quarto sulla sua carriera ciclistica. In Usa è andato in onda la prima parte, la seconda si vedrà lunedì In Europa arriverà a fine giugno. Il titolo del documentario è Lance, realizzato da Marina Zenovich ed è la storia, scrive il Corriere dello Sport di "un campione (o presunto tale) pronto a tutto pur di primeggiare. Pronto a doparsi come un cavallo con l’unico intento di vincere, sempre e comunque". C’è spazio anche per gli italiani come Marco Pantani e Ivan Basso.  “L’Italia glorifica Basso, lo tiene in gran conto gli offre un lavoro e lo invita in tv. Eppure lui non è molto differente da me o Jan Ullrich. L’Italia poi ha demolito e ucciso Pantani. Marco è morto, fottutamente morto", ricorda amaro lo statunitense. Il primo incontro tra Armstrong e il doping avviene presto, a soli 21 anni. Si affida all’ormone della crescita per vincere il mondiale di Oslo nel 1993 (“Mi superavano tutti, mi ero stancato di restare indietro, di uscire sconfitto. Io volevo cominciare a vincere e non fermarmi più. Divenne un’ossessione”).  Ma con la conseguenza di un terribile tumore ai testicoli e al cervello che però riuscì a superare. Nel 1998 incontrò l’Epo: “Tutti ne facevano uso, era un farmaco che ti faceva andare fortissimo senza rischi per la salute, al contrario degli ormoni che ti facevano crescere le cose buone e quelle cattive, come appunto il tumore”. 

"Caro Lance, mi dispiace ma io ho pagato il conto degli errori nel ciclismo". L'ex azzurro risponde ad Armstrong, che si lamenta del diverso trattamento nell'ambiente. Pier Augusto Stagi, Mercoledì 27/05/2020 su Il Giornale. Il bulletto fa l'ultimo balletto, anche se temiamo continuerà ad agitarsi ancora un po', perché fermo non è mai stato capace di stare, e di questi tempi anche di lingua va veloce. Dance Armstrong parla e danza, nel documentario Lance, in onda da lunedì negli Usa su Espn e firmato da Marina Zenovich. Due puntate sul sopravvissuto al cancro che seppe successivamente vincere 7 Tour de France. Una storia pazzesca, conclusa nel peggiore dei modi. La sua storia è magnifica, fino ad un certo punto, però. Poi c'è l'inganno. Il Grande Inganno. Il più grande di tutti, con la complicità dell'organizzazione mondiale del ciclismo (Uci, ndr) che l'ha protetto al pari della più importante corsa ciclistica del mondo: il Tour de France. Alla fine sarà sbugiardato (da livestrong, a liestrong) dalla giustizia ordinaria americana, non da quella sportiva. Quella ha sempre chiuso entrambi gli occhi, non ha mai visto nulla, fin quando è stata costretta ad aprirli, ma ormai era tardi. Maledettamente tardi. Su Lance Armstrong sono usciti libri e film (The Program), ora anche questo documentario, che aggiunge ben poco alla narrazione di uno degli sportivi più arroganti e bari che lo sport abbia mai conosciuto. Un «dopato precoce», che conosce il dottor Mito, Michele Ferrari, grazie a Eddy Merckx, che glielo presenta. Parla di Ullrich e di Pantani, di Filippo Simeoni - che con il Giornale nei giorni scorsi si è aperto («È venuto in Italia per chiedermi scusa, ora sarei anche d'accordo per una sua riabilitazione», ha detto) - e di Ivan Basso, con il quale non è stato certamente carino. In pratica del campione varesino il texano ha detto che a lui offrono lavoro e lo invitano in tivù, «eppure Ivan ha fatto cose simili alle mie».

Ivan, cosa ha pensato nel sentirsi chiamare in causa da Lance Armstrong?

«Francamente non ho visto il documentario e non so se si sia espresso in quel modo. Da parte mia posso solo dire che a Lance sono e sarò sempre grato, perché con me si è sempre comportato non solo bene, ma benissimo. Quando mia mamma Nives si ammalò di cancro, lui si fece in quattro per darci una mano. Stessa cosa quando il problema toccò a me nel 2015. Cosa posso dirle, con me è stato davvero generoso e disponibile».

Però l'ha chiamata in causa.

«Io nel ciclismo ho fatto tante cose belle e meno belle. Nel 2006 sono stato coinvolto nell'Operacion Puerto, e per questo sono stato messo spalle al muro: ho confessato le mie colpe (frequentazione di un medico Eufemiano Fuentes inibito per questioni di doping) e ho pagato con due anni di squalifica. Dal paradiso sono finito all'inferno, adesso da oltre quindici anni lavoro con impegno nel mondo del ciclismo. Con Alberto Contador gestiamo una squadra di ragazzi, e nel mondo del ciclismo abbiamo tanti altri interessi. Cerchiamo di dare il nostro contributo per far si che questo sport possa essere migliore».

Lance era il migliore?

«Ho letto l'intervista del Giornale a Filippo Simeoni: l'ho apprezzata molto. Ha detto cose giustissime. Quello era un ciclismo molto particolare, però Lance era una forza della natura, avrebbe vinto sempre e comunque».

Meglio lui o Pantani?

«Marco era il genio assoluto. Il talento. Nessuno come lui. Nessuno».

Sa che Marco non ha mai amato Armstrong, del quale ha sempre dubitato: pensava non solo che potesse ricorrere a cure esclusive, ma fosse anche protetto...

«Lo so».

Cosimo Cito per “la Repubblica” il 27 maggio 2020. "La cosa è stata sotto gli occhi di tutti". Il racconto di Filippo Simeoni, in diretta tv, alla fine della terz'ultima tappa del Tour 2004. Armstrong era andato a prenderlo in maglia gialla, gli aveva chiesto di rinunciare alla fuga, l'aveva minacciato. Mesi prima Simeoni aveva testimoniato contro Michele Ferrari, il dottor Mito regista occulto dei successi del texano, e Armstrong l'aveva punito e l'aveva fatto vedere a tutti, mimando il gesto di chiudersi la bocca. Nella prima puntata di LANCE, il documentario della Espn in onda in questi giorni (il secondo e ultimo episodio nella notte tra domenica e lunedì), Armstrong è tornato su quell'episodio: "Sono stato un fottuto stronzo. Quello che pensavo fosse stato brutto, era stato orribile". Nel 2013 Filippo Simeoni e Lance Armstrong si sono incontrati a Roma, ne hanno riparlato, si sono confrontati e il texano si è scusato. Lo ha raccontato, Simeoni, in un'intervista per il Giornale. Ora aggiunge dei dettagli importanti.

Perché, per anni, non ha mai raccontato quell'episodio?

"Volevo capire se il suo pentimento fosse sincero. Lo era".

Come fa a dirlo?

"Lo guardai negli occhi. Gli raccontai quello che mi aveva fatto passare, lui non mi conosceva a fondo e io non conoscevo lui. Ne presi atto ma ho impiegato anni per metabolizzarlo. Poi ho avuto occasione di parlarne con Gianni Mura".

Mura la intervistò per il Venerdì, nell'ottobre del 2015. Come andò?

"Mura venne da me qui a Sezze, nel mio bar. Parlammo del film The Program ed ebbi modo di raccontargli l'incontro con Lance. Ma gli chiesi di non scriverne, perché avevo bisogno di tempo. Gianni si rivelò un gran signore, non ne scrisse mai, ma mi disse: "Filippo, quello di Armstrong è un gesto importante, se lo raccontassi gli renderesti giustizia. Ha avuto il coraggio di chiederti scusa. Non è da tutti". Quando Gianni è scomparso, mi sono venute in mente quelle parole. Mi sono convinto solo ora perché ho capito che parlarne mi avrebbe liberato".

Armstrong avrebbe voluto rendere pubbliche quelle scuse?

"Sì. Quell'anno era venuto in Europa a incontrare anche altri ex corridori che aveva danneggiato con il suo comportamento. Quando mi chiamò accettai senza remore. E ora posso dire di averlo perdonato e che non ho più risentimento nei suoi confronti".

Cosa pensa di Armstrong e di tutto quel che gli è poi successo?

"Si è realizzata una sorta di giustizia divina, ma la sua caduta, le sue vicissitudini giudiziarie, le sue difficoltà finanziarie, beh, tutto questo mi dispiace. Ma c'è un insegnamento".

Qual è?

"Ha commesso degli errori e dei soprusi, ma ha perso tutto in un attimo. Ha pagato tutto, ogni centesimo di gloria, in sofferenza. Mi fa pena, ma è una storia terribilmente umana. E i giovani devono conoscerla, per non ripetere gli stessi errori. Bisogna essere solidi, avere principi. E non parlo solo dei giovani ciclisti".

Vi siete più cercati da allora?

"Ci siamo scritti qualche mail, gli ho augurato di uscire presto da tutte le vicende giudiziarie. Posso dire di averne subito il fascino. È un personaggio enorme. E ha tutta la vita davanti ancora".

C'è qualcosa che vorrebbe sapere o chiedergli, ancora?

"Sì, una cosa che quel giorno non siamo riusciti a mettere a fuoco, qualcosa che io ho provato a sapere e lui ha evitato di dirmi in modo chiaro. Parlo del Giro 2009".

Armstrong, al rientro dopo il primo ritiro, viene invitato con tutti gli onori al Giro e lei, campione italiano in carica, e la sua Ceramica Flaminia, no.

"Avrei voluto sapere qual era stato il suo ruolo in quella decisione, se avesse espresso lui un veto sulla mia presenza. Non riuscii più a trovare motivazioni e volontà per ripartire dopo quella che io considerai un'ingiustizia. È tutto passato, ma questo dettaglio vorrei ancora chiarirlo, se sarà mai possibile".

Lei oggi ha un bar a Sezze, in provincia di Latina, e segue una piccola squadra di ciclismo con ragazzini della sua zona.

"Abbiamo riaperto lunedì, tanta gente è venuta a prendersi il primo caffè dopo tanta paura. Dei cinque dipendenti che avevo, ora ne ho solo due. Proviamo a ripartire. E poi faccio da sponsor a questa piccola squadra di ragazzini, ne ho una sessantina, di tutto il circondario: Sezze, Veroli, Priverno, Atina. Ho poco tempo, ma metto a disposizione la mia esperienza".

Il ciclismo di oggi è un mondo migliore di quello che lei ha lasciato, oltre dieci anni fa?

"Gli anni in cui ho corso io sono stati terribili. Ho sempre pensato che ci sarebbero voluti decenni per sradicare il doping. È stato fatto tanto e sono convinto che il ciclismo sia molto più pulito. Ma puoi essere smentito da un momento all'altro. Questo vale ora, come allora".

Pier Augusto Stagi per “il Giornale” il 27 maggio 2020. Il bulletto fa l' ultimo balletto, anche se temiamo continuerà ad agitarsi ancora un po', perché fermo non è mai stato capace di stare, e di questi tempi anche di lingua va veloce. Dance Armstrong parla e danza, nel documentario Lance, in onda da lunedì negli Usa su Espn e firmato da Marina Zenovich. Due puntate sul sopravvissuto al cancro che seppe successivamente vincere 7 Tour de France. Una storia pazzesca, conclusa nel peggiore dei modi. La sua storia è magnifica, fino ad un certo punto, però. Poi c' è l' inganno. Il Grande Inganno. Il più grande di tutti, con la complicità dell' organizzazione mondiale del ciclismo (Uci, ndr) che l' ha protetto al pari della più importante corsa ciclistica del mondo: il Tour de France. Alla fine sarà sbugiardato (da livestrong, a liestrong) dalla giustizia ordinaria americana, non da quella sportiva. Quella ha sempre chiuso entrambi gli occhi, non ha mai visto nulla, fin quando è stata costretta ad aprirli, ma ormai era tardi. Maledettamente tardi. Su Lance Armstrong sono usciti libri e film (The Program), ora anche questo documentario, che aggiunge ben poco alla narrazione di uno degli sportivi più arroganti e bari che lo sport abbia mai conosciuto. Un «dopato precoce», che conosce il dottor Mito, Michele Ferrari, grazie a Eddy Merckx, che glielo presenta. Parla di Ullrich e di Pantani, di Filippo Simeoni - che con il Giornale nei giorni scorsi si è aperto («È venuto in Italia per chiedermi scusa, ora sarei anche d' accordo per una sua riabilitazione», ha detto) - e di Ivan Basso, con il quale non è stato certamente carino. In pratica del campione varesino il texano ha detto che a lui offrono lavoro e lo invitano in tivù, «eppure Ivan ha fatto cose simili alle mie».

Ivan, cosa ha pensato nel sentirsi chiamare in causa da Lance Armstrong?

«Francamente non ho visto il documentario e non so se si sia espresso in quel modo. Da parte mia posso solo dire che a Lance sono e sarò sempre grato, perché con me si è sempre comportato non solo bene, ma benissimo. Quando mia mamma Nives si ammalò di cancro, lui si fece in quattro per darci una mano. Stessa cosa quando il problema toccò a me nel 2015. Cosa posso dirle, con me è stato davvero generoso e disponibile».

Però l' ha chiamata in causa.

«Io nel ciclismo ho fatto tante cose belle e meno belle. Nel 2006 sono stato coinvolto nell' Operacion Puerto, e per questo sono stato messo spalle al muro: ho confessato le mie colpe (frequentazione di un medico Eufemiano Fuentes inibito per questioni di doping) e ho pagato con due anni di squalifica. Dal paradiso sono finito all' inferno, adesso da oltre quindici anni lavoro con impegno nel mondo del ciclismo. Con Alberto Contador gestiamo una squadra di ragazzi, e nel mondo del ciclismo abbiamo tanti altri interessi. Cerchiamo di dare il nostro contributo per far si che questo sport possa essere migliore».

Lance era il migliore?

«Ho letto l' intervista del Giornale a Filippo Simeoni: l' ho apprezzata molto. Ha detto cose giustissime. Quello era un ciclismo molto particolare, però Lance era una forza della natura, avrebbe vinto sempre e comunque».

Meglio lui o Pantani?

«Marco era il genio assoluto. Il talento. Nessuno come lui. Nessuno».

Sa che Marco non ha mai amato Armstrong, del quale ha sempre dubitato: pensava non solo che potesse ricorrere a cure esclusive, ma fosse anche protetto...

«Lo so».

La leggenda di Luigi Malabrocca e la lezione di arrivare (sempre) ultimo. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Beltramin. Se oggi il suo nome non dice molto, ai tempi era popolare (quasi) quanto Coppi e Bartali. La nipote Serena gira le scuole per insegnare a rovesciare la prospettiva. Giugno 1949, in una cascina sperduta sulla Pianura Padana. Il contadino sente un rumore sospetto provenire dal magazzino. Forse un ladro, o peggio. Senza pensarci due volte prende il forcone e va a dare un’occhiata. Rannicchiato sulla paglia, si trova davanti un giovane dall’aspetto orientale, con la maglietta e i pantaloncini stretti stretti. «Un cinese!? Cosa ci fai nel mio fienile?», domanda minaccioso. L’ospite risponde con l’accento popolano di chi è cresciuto sulle sponde del Ticino: «Non mi inforchi, per carità: sto correndo il Giro d’Italia!». In effetti accanto ha una bici da corsa. Solo che per vincere, lui, deve arrivare ultimo. Luigi Malabrocca di professione ciclista gregario - ma anche meccanico-riparatore, e dopo il ritiro pescatore per i migliori ristoranti del Pavese - fin da bambino lo chiamavano tutti «Luisìn», oppure «Mala», oppure «el Cinès» per quei bizzarri, inconfondibili occhi a mandorla. Se oggi il suo nome ai più non dice nulla, ai tempi delle sue imprese era popolare (quasi) quanto Coppi e Bartali, anche se non esattamente per gli stessi meriti sportivi. Basti pensare che uno dei suoi più grandi tifosi, Mario Monicelli, gli rende omaggio nell’Armata Brancaleone, quando l’eroe eponimo per insultare il ronzino Aquilante gli urla dietro: «Malabestia!». Il vero Mala, cioè il Luisìn, era nato a Tortona nel 1920, papà ferroviere di pericolose tendenze socialiste e mamma casalinga, ultimo di sette fratelli: due erano morti nella Grande Guerra, altri due li aveva portati via la Spagnola, uno era emigrato in America e l’ultimo in Francia. Il prossimo 22 giugno compirebbe cent’anni - è morto serenamente nel 2006, nel casolare di famiglia a Garlasco - e ultimamente sta tornando a fare notizia: Matteo Caccia, Riccardo Ballerini e Massimiliano Gracili hanno portato per primi la sua epopea sui palchi dei teatri, poi l’hanno raccontata anche Luca Argentero e Carlo Lucarelli. L’illustratore Roberto Lauciello gli ha dedicato una graphic novel, appena uscita in libreria. La nipote Serena Malabrocca sta girando le scuole per trasmettere la lezione del nonno: «Quando ricordo la sua avventura - racconta - tra i ragazzi che mi ascoltano vedo sorrisi e a volte anche occhi lucidi. Si crea qualcosa di bello. La sua vita racchiude un insegnamento semplice: cambiare prospettiva, guardare le cose dal fondo, con leggerezza, può riservare sorprese. È un modo per risolvere problemi complicati, o perfino per trovare la felicità». Serena ha dedicato a Luisìn una pagina Facebook e un hashtag: #SiamoTuttiMalabrocca. Ma cosa aveva di così speciale il primo degli ultimi? Lo spiega benissimo Marco Pastonesi, che firma l’introduzione al libro a fumetti: «Rigirò Dante: il paradiso all’inferno, l’inferno in paradiso. Appoggiò Einstein: tutto è relativo. Confermò Gesù: beati gli ultimi. Nel buio delle retrovie, dall’oscurità delle cronache, sul fondo delle classifiche, Malabrocca s’illuminò di nero: decise di pedalare piano, più piano, il più piano possibile. Voleva arrivare al traguardo, ma dopo tutti gli altri». E fu questo a portarlo così vicino al cuore di chi quei corridori li stava a guardare: «Perché l’ultimo è il più fragile, debole, povero, vulnerabile, sfortunato, dunque il più umano, e tutti, ma proprio tutti, rischiano di commuoversi, intenerirsi, impietosirsi, fino a soccorrerlo, sostenerlo, aiutarlo, perché in lui si specchiano, si riflettono, si identificano». Tutto comincia al Giro d’Italia della rinascita, quello del 1946, dopo cinque anni di sospensione a causa della guerra. L’ultima volta, nel ’40, aveva vinto un esordiente ventunenne che Malabrocca conosceva bene, perché avevano gareggiato insieme da dilettanti fino a diventare amici: lo chiamava «il dardèla», «lo strafùso», uno spilungone che sembrava non avere affatto il fisico giusto per arrampicarsi in montagna e che di nome faceva Fausto Coppi. Settantanove corridori attraversano la Penisola devastata dalle bombe. Manca tutto: fabbriche, scuole, ospedali. Le strade spesso non sono percorribili e il percorso della gara viene ridisegnato più volte. Gli italiani stanno affrontando una ricostruzione che sembra interminabile, l’inflazione galoppa, molti patiscono la fame, eppure accorrono in migliaia a veder passare i loro beniamini. Il miracolo del Giro riunifica il Paese, anche se il dualismo tra Coppi e Bartali appassiona almeno quanto la scelta tra Monarchia e Repubblica. I ciclisti corrono per rabbia e per amore, ma soprattutto per guadagnarsi il pane. Malabrocca è un ragazzo sveglio e si dà da fare: consapevole di non poter competere per i primi posti in classifica generale, si concentra sui traguardi volanti, gli inutili sprint sparsi nella prima parte del percorso per vivacizzare la gara. Ogni vittoria parziale è un piccolo premio in denaro, che Luisìn da buon padre di famiglia spedisce alla moglie Ninfa. Ma è quando un giorno per caso si ritrova ultimo a fine tappa che scopre la miniera d’oro: i tifosi e gli sponsor, per solidarietà, gli offrono mance in denaro, salumi, bottiglie d’olio e altri tesori. Il giorno dopo la scena si ripete. Un pastore marchigiano gli si avvicina e gli mette una pecora tra le braccia: «Io ero l’ultimo de sei fii e nn’ho mai preso n’acca. A te che hai avuto la sfortuna d’esse l’ultimo, come me, te tocca pijà sto regalo». È un’illuminazione, come racconterà lo stesso Malabrocca all’amico scrittore Benito Mazzi, che a fine anni Novanta scrive una sua divertentissima - e poetica - biografia. «Nasce così la leggenda della maglia nera, nasce il personaggio Malabrocca, il quale astutamente starà al gioco non venendo tuttavia mai meno ai suoi compiti di gregario e di sprinter di razza». Già, perché il Cinese non è affatto il corridore più scarso della carovana: nel 1947 trionfa alla Parigi-Nantes, e quei rosiconi dei francesi titolano in prima pagina sull’Équipe: «La lanterna del Giro illumina»; nei primi Anni Cinquanta è due volte campione italiano di Ciclocross. Del resto, gli appassionati di ciclismo sanno bene che arrivare ultimo a un grande giro non è facile, non basta andare piano, serve precisione chirurgica: chi si attarda troppo finisce squalificato perché «fuori tempo massimo». Al polso due orologi «per non sbagliare i calcoli», Malabrocca nel 1946 conquista la prima maglia nera nella storia del Giro, a 4 ore, 9 minuti e 44 secondi dal vincitore Bartali. Nel 1947 raddoppia l’impresa a 5 ore, 52 minuti e 20 secondi da Coppi. A ogni tappa la concorrenza degli altri peones su due ruote si fa più pesante: «C’è chi azzarda un rallentamento, una finta foratura, per defilarsi alle sue spalle - racconta Mazzi - ma il Luisìn, cerbero implacabile, ha sotto di sé il controllo delle retrovie come Bartali e Coppi». La gente lo incita lungo la strada, i grandi inviati come Dino Buzzati e Orio Vergani stravedono per lui. Ormai il Cinese guadagna quanto i campioni finiti appena sotto il podio. L’apoteosi è al Giro del 1949. Malabrocca è una star: «Anche quest’anno - scherza in un’intervista - punto a una maglia, rosa o nera. Ma visto che la prima la indosserà Fausto, non mi resta che inseguire la seconda». E invece, una grave minaccia incombe su di lui: si chiama Sante Carollo - iscritto all’ultimo minuto al posto del Leone delle Fiandre Fiorenzo Magni, influenzato -, manovale vicentino di 25 anni, di carattere orgoglioso ma oggettivamente lentissimo. «Un soprammobile, perennemente in difficoltà, sconvolto da cotte spaventose», Malabrocca «non può tenere testa a questo mostro all’incontrario». Ci prova comunque, nascondendosi in un fienile alla penultima tappa, piatta come un tavolo da biliardo: ma quando taglia il traguardo con 2 ore di ritardo, il cronometrista ha già abbandonato la postazione, classificandolo ultimo ma con lo stesso tempo del gruppone. Negli anni successivi l’epopea della maglia nera perse il suo fascino. L’ultima fu indossata al Giro del 1951 dal trevigiano Giovanni Pinarello, ottavo di dodici fratelli (con i soldi guadagnati si aprì un’officina: le biciclette Pinarello sono diventate un’eccellenza del Made in Italy nel mondo e hanno vinto quindici Tour de France, ma questa è un’altra storia).

Nibali: "Il governo cosa fa? Quella dei ciclisti investiti è diventata una mattanza". «Un morto ogni 40 ore ma il ddl resta fermo Sembra che nessuno voglia portarlo in aula». Pier Augusto Stagi, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Per il ciclismo italiano è da anni una sicurezza, ma a Vincenzo Nibali sta a cuore anche la sicurezza sulle strade, ormai una delle tante emergenze italiane. «Il problema del ciclismo italiano è il traffico, ma quella che può apparire una battuta alla Johnny Stecchino è purtroppo una triste verità - ci spiega lo Squalo dello Stretto -. Per le festività di Capodanno ero a Fiuggi dai parenti di Rachele, mia moglie, e prima del cenone mi sono fatto come da tradizione un buon allenamento. Sulla via del ritorno, in prossimità di casa, sono incappato nell'ennesimo incidente stradale con protagonista incolpevole un ragazzino di soli 14 anni (Paolo, in coma farmacologico, ndr). Le strade sono sempre più pericolose, ormai noi ciclisti siamo d'intralcio. Le cifre sono pazzesche: un ciclista morto ogni 40 ore. È una vera mattanza, intanto però il disegno di legge sulle modifiche al Codice della Strada è dormiente e nessuno sembra volerlo portare in Parlamento». Nibali non usa mezzi termini, non l'ha mai fatto e in materia di sicurezza non è tipo da abbassare i toni, ma chiede piuttosto di alzare la soglia di attenzione. «Nel 2016 ho perso un ragazzino che correva nella mia squadra giovanile (Rosario Costa, 14 anni, ndr), anche lui travolto sulla strada davanti agli occhi di suo padre. L'anno seguente abbiamo pianto la scomparsa di Michele Scarponi, ma non passa giorno che non ci siano incidenti su due ruote. Ha ragione il Ct Cassani: la macchina ormai sta diventando un ufficio e i cellulari protesi incontrollate». Anno nuovo, Nibali esperto. Non provate a bollarlo come vecchio perché potrebbe mandarvi a quel paese: sicuro. «Intanto a 35 anni cambio vita e maglia: dal Bahrain alla Trek Segafredo dice con gli occhi che si illuminano di una luce nuova -. Sono felice di questo passaggio. Mi sembra di essere tornato a casa». C'è il Giro d'Italia in cima ai suoi pensieri. E poi i Giochi Olimpici di Tokio e un mondiale durissimo ad Aigle-Martigny, in Svizzera. «Però andiamoci piano. Facciamo un passo per volta ci dice -. Pensiamo prima al Giro. Mi dicono che sono vecchio? È almeno da tre anni che me lo dite: di vecchio c'è solo questo ritornello. Io simbolo di un movimento in declino? Io pronto a darmi da fare, ma alle mie spalle ci sono tanti corridori di assoluto livello. Vedrete, Fabio (Aru, ndr) tornerà quello di prima; Elia (Viviani, ndr) si confermerà anche quest'anno; Giulio (Ciccone, ndr) mio compagno di squadra sarà il futuro, anche se per il momento dovrà darmi una mano: io non sono ancora da pensione né da reddito di cittadinanza: io un lavoro ce l'ho e devo finire di fare alcune cose. Se quella caduta nel finale alle Olimpiadi di Rio mi è rimasta sullo stomaco? Sicuro».

·        Quelli che…il Calcio.

Cristiano Ronaldo è il giocatore del secolo: il premio ai Globe Soccer Awards 2020. Notizie.it il 27/12/2020. Cristiano Ronaldo è stato eletto migliore giocatore del secolo. Cristiano Ronaldo è stato eletto Giocatore del Secolo ai Globe Soccer Awards 2020. Il portoghese ha battuto la concorrenza dell’eterno rivale Leo Messi e dell’egiziano Momo Salah in relazione alle prestazioni e ai trofei vinti fra gli anni 2001 e 2020. L’attaccante della Juventus ha ricevuto l’onorevole riconoscimento nella splendida cornice dell’Armani Pavillion di Dubai. “Non inseguo i record, sono loro che inseguono me. E questo è bellissimo“, ha detto CR7. Cristiano Ronaldo non è l’unico premiato dei Globe Soccer Awards 2020. Il riconoscimento al miglior club del secolo è piuttosto legato all’attaccante portoghese. A vincere, infatti, è stato il Real Madrid, società in cui ha militato dal 2009 al 2018. Il miglior allenatore del secolo, invece, è Pep Guardiola. Infine, miglior agente del secolo Jorge Mendes. Per i premi annuali, invece, a trionfare su tutti i fronti è stato il Bayern Monaco. Tra i giocatori ha vinto Robert Lewandowski, insieme al suo tecnico Hans-Dieter Flick. Infine, i riconoscimenti alla carriera sono andati a Iker Casillas e Gerard Piqué.

Ronaldo miglior giocatore del secolo: "Non inseguo i record, sono loro che inseguono me..." Il "gotha" del calcio mondiale si è riunito a Dubai, negli Emirati Arabi per assegnare i riconoscimenti ai top del 2020. Ecco come è andata. Carlo Laudisa il 27 dicembre 2020 su gazzetta.it. Cristiano Ronaldo superstar ai Globe Soccer Awards, i consueti riconoscimenti ai migliori giocatori e allenatori dell'anno. Il suo sorriso apre all’ennesimo record. Sul palco CR7 è affabile più che mai nel panel con Robert Lewandowski e Iker Casillas. La prima domanda parte da una statistica incredibile: con l’inizio del 2021 sarà l’unico calciatore che va in gol da 20 anni a questa parte. Lui, più che sorpreso, ne è orgoglioso: "Bello raggiungere tanti record. Non è facile per così tanti anni ma i numeri parlano da soli. Sono orgoglioso di questi traguardi ma senza grandi compagni, club e allenatori non sarebbe stato possibile". Su quest’anno orribile per tutti lo juventino commenta con un velo di tristezza: "Giocare in stadi vuoti è noioso. Rispettiamo tutti i protocolli ma, sinceramente, questo è un altro sport. Lo faccio perché è la mia passione e per dovere professionale, ma non mi piace giocare in queste condizioni. Il pubblico mi motiva sempre, anche quando il tifo è contrario. La passione senza tifo è nulla". Ovviamente la nomination come miglior giocatore del secolo lo lusinga: "È fantastico. Sono stato nominato anche tra i migliori 11 di sempre del Pallone d’oro. È un onore. La cosa bella è che mi diverto ancora, faccio sempre le stesse cose che facevo 20 anni fa. E ho una vita fantastica". Ronaldo ha superato Messi e Salah nella graduatoria del premio Migliore del secolo 2001-2020. "Non inseguo i record, sono loro che inseguono me - ha detto CR7 -. È bellissimo. Grazie a tutte le persone che hanno votato per me e un grazie ai miei compagni di squadra, ai club con cui ho giocato, alla nazionale, alla mia famiglia e ai miei amici. È un traguardo eccezionale, questo mi dà la motivazione per continuare il mio percorso e spero di essere ancora in grado di giocare ancora per qualche anno".

Maria Strada per corriere.it il 28 dicembre 2020. Lionel Messi è il nuovo primatista di reti segnate con la maglia di un solo club, 644 contro 643. Ha strappato il primato a sua maestà O Rei, Pelé. Ha festeggiato inviando una birra per ogni gol ai portieri avversari battuti. O forse no: perché mentre il campionissimo brasiliano si è congratulato, il Santos, la storica squadra di Pelé, ha risposto polemicamente. Le reti di O Rei non sono 643, ma 1.091, e non si tratta di un errore di calcolo: le 448 reti mancanti sono state realizzate in amichevole? Devono contare. Questo perché, riporta la lunga nota del Santos, «sono state realizzate contro le principali squadre dell'epoca: l'América de México e il Colo Colo (Cile) hanno subito nove reti di Pelé ciascuno; l'Inter, una delle principali squadre europee degli anni Sessanta, altri otto gol». L'elenco dei club battuti dal tre volge campione del mondo è «immenso, con partecipanti di peso: River Plate, Boca Juniors, Racing, Universidad de Chile, Real Madrid, Juventus, Lazio, Napoli, Benfica e Anderlecht. E proprio il Barcellona dove Messi gioca fu una vittima, quattro gol in quattro partite». Lo studio è elaborato da Fernando Ribeiro, che fa parte della Asociación de Investigadores e Historiadores del Santos FC (Assophis). E prosegue sottolineando che all'epoca di Pelé si giocavano molte meno partite ufficiali rispetto a oggi, e che proprio questo fattore obbligava all'organizzazione di amichevoli anche di prestigio «disputate con uniforme ufficiale, regole ufficiali» e «con l'approvazione di federazioni nazionali e internazionali, regola imposta dalla Fifa, organizzatrice del calcio mondiale». Il Santos, quindi, sottolinea che i numeri sono numeri: un gol contro l'Eibar vale quanto uno contro il Valencia, uno contro il Transvaal (Suriname) quanto uno contro il Real Madrid. «Un piccolo esempio di quanto la statistica possa ingannare è quando analizziamo i titoli del campionato Paulista - prosegue la nota - Se consideriamo solo l'era professionistica (dal 1933), il Santos diventa il maggiore vincitore con 22 titoli, insieme al Corinthians. In questo modo supera il Palmeiras, fermo a 19. Ma senza dubbio il revisionismo storico non può cancellare la storia: i titoli dell'era dilettanti sono validi e con la stessa importanza. Così il Santos conta 22 trionfi, contro i 30 del Corinthians e i 23 del Palmeiras».

Le pagelle del 2020 del calcio. Giovanni Capuano su Panorama il 24/12/2020. Il pallone mette in archivio il suo anno horribilis. Terribile, unico (si spera), da bocciare tutto insieme perché la pandemia ne ha messo prima in discussione la stessa sopravvivenza e poi ha lasciato in eredità una crisi economica che ha riportato indietro nel tempo le lancette dell'orologio del calcio mondiale. Tutto considerato, il 2020 del calcio merita l'insufficienza piena (voto 0), anche se a ben guardare qualche segnale contrario c'è stato perché senza una forte reazione di chi il calcio lo governa (voto 8 alla Uefa ad esempio) semplicemente non ci sarebbe stato più nulla da commentare. Invece eccoci qui, con alle spalle dodici mesi indimenticabili e davanti a noi altri dodici che saranno vissuti a velocità folle, con campionati, coppa europee, manifestazioni varie, Europeo, Nations League e Olimpiadi che si salderanno in un'unica rincorsa che finirà col diventare una gara ad eliminazione per highlander. La pagella più alta del pallone italiano (voto 10) lo prende la Figc con il suo presidente Gabriele Gravina, che viaggia spedito verso una meritata riconferma. E' stato lui a tenere la barra dritta in primavera nel mezzo del lockdown che larga parte della politica (per il ministro Spadafora voto 3) sperava di rendere definitivo almeno fino ad estate consumata. Il 2020 di via Allegri è stato tutto positivo. Anche la nazionale di Mancini (voto 8,5) ha seminato e raccolto in grande quantità e potrà guardare al 2021 con grande ottimismo. Ora Gravina annuncia che andrà dritto sulla riforma dei format dei campionati. A chi scrive, l'idea di una Serie A con playoff e playout non piace (voto 4), però il tentativo di riformare un settore sempre restio agli aggiornamenti va seguito con interesse. Venendo al campo, il promosso per eccellenza è il Milan (voto 9) di Stefano Pioli (9). Un anno fa di questi tempi, dopo la manita incassata a Bergamo, Gazidis (voto 6 per essersi ravveduto in tempo) si era messo a caccia del successore innescando la crisi che ha portato al licenziamento di Boban. Oggi guarda tutti dall'alto in basso in una classifica rafforzata dal conto complessivo dei punti messi insieme nel 2020: 79, più di tutti. Non significa ancora nulla se non la conferma che la leadership ha radici più profonde della sola dipendenza da Ibrahimovic. Anche Conte (voto 6,5) può lucidare un numero di quelli che vanno tenuti a mente: da quando è sulla panchina dell'Inter nessuna squadra ha raccolto di più: 115 punti contro i 107 della Juventus e i 100 del Milan. La sufficienza e non oltre deriva dalle delusioni europee dell'Inter (voto 7,5 in Italia e 4,5 in Champions League) e dalla guerra interna ed esterna che ha dichiarato alla sua società e a chi si permette di ricordagli che con gli investimenti fatti da Suning per consegnargli una rosa all'altezza è lecito chiedere di puntare alla vittoria e nulla più. Dietro la lavagna la Juventus (voto 5) che in un anno e mezzo ha disintegrato il suo dna vincente. La scelta di Sarri (voto 6 perché alla fine l'obiettivo scudetto lo ha portato a casa) è stata sbagliata. Quella di Pirlo (5,5 fin qui, rivedibile), pare un azzardo. Non è obbligatorio vincere in eterno, però la sensazione di una marcia sportiva che ha perso la bussola è netta e il contesto economico non ha aiutato a completare l'opera di ringiovanimento della rosa iniziata sul mercato. Merita un voto altissimo (8) l'Atalanta di Gasperini (7) che ha sognato l'inimmaginabile e cioè di approdare tra le prime quattro d'Europa. Peccato per il finale con lo strappo dal Papu Gomez (voto 7 anche a lui) che ha certificato come in ogni famiglia, anche quelle apparentemente più unite, il fuoco cova sotto la cenere. Promosso anche Fonseca (voto 7), tecnico di una Roma che si barcamena tra problemi enormi di bilancio, ristrutturazione societaria e tecnica: eppure i giallorossi non mollano e sono lì in alto, alle spalle delle sole milanesi. Dietro la lavagna, invece, l'altro allenatore 'romano' Inzaghi: voto 5,5. La sua Lazio ha volato per tre mesi poi si è sciolta come neve al sole. Eppure poteva essere l'anno giusto per tornare a festeggiare lo scudetto che manca dal 2001. Meglio di Simone, ha fatto Pippo Inzaghi (voto 7): prima il dominio della Serie B e poi il Benevento rivelazione di questo avvio di campionato. Bisogna essere sinceri: in tanti hanno pensato che si fosse bruciato sulla panchina precoce del Milan, mentre nella realtà è stato capace di ricominciare daccapo con la sua gavetta e ora si sta prendendo grandi soddisfazioni. Una specie di storia alla Gattuso (voto 8) sul cui valore ormai non ci sono più dubbi. Ha preso il Napoli (voto 5) terremotato da vicende interne e lo ha ricostruito anche se talvolta pare che l'ostacolo più altro ce l'abbia dentro casa e risponda al nome di Aurelio De Laurentiis (voto 4,5). Il presidente e proprietario ha immensi meriti nel rilancio del club partenopeo, ma ora serve il salto di qualità definitivo che significa un progetto industriale complessivo per far entrare stabilmente il Napoli nelle grandi d'Europa. Tra i bocciati il Torino di Cairo (voto 4): così non si può andare avanti e gli arbitri non c'entrano nulla nel lungo tunnel in cui è entrata la storia granata. Sufficienza per Commisso (voto 6) cui le p...e cominciano a girare vorticosamente avendo capito che non gli faranno fare lo stadio nuovo "fast fast fast" e che l'Italia è un posto strano dove investire una montagna di denaro. Per tutti c'è comunque tempo di emendare i propri errori e correggere la direzione presa. Il 2021 sarà l'anno della verità, quello che dovrà trascinare il pallone italiano fuori dalla crisi e dirci se saremo stati capaci di approfittarne per migliorare o se torneremo quelli di prima. Declinanti nel confronto con i competitor europei.

Corriere.it il 22 dicembre 2020. È durata meno di un’ora l’udienza davanti al collegio di Garanzia del Coni per discutere della partita mai giocata tra Juventus e Napoli il 4 ottobre scorso. Il tempo necessario evidentemente per accogliere il ricorso del club di Aurelio De Laurentiis e ribaltare il verdetto di primo e secondo grado: Juventus Napoli va rigiocata, resta da stabilire la data, ed è stato anche tolto il punto di penalizzazione alla squadra allenata da Gattuso che riprende il quarto posto in classifica. Il Napoli era rappresentato dallo stesso De Laurentiis e dai legali Enrico Lubrano e Mattia Grassani. «Mi aspetto che venga cancellato un giudizio iniquo che è stato forzatamente portato sul tavolo. Abbiamo sempre rispettato tutto e tutti: Lega, Figc e Coni e la giustizia in senso generale», ha detto Adl al termine dell’udienza, non nascondendo l’ottimismo. Il Napoli, con due giocatori positivi al Covid, Zielinski ed Elmas, non si presentò allo Stadium bloccato dalla Asl. La discussione è stata avviata dal presidente del Collegio di garanzia del Coni Franco Frattini che ha chiesto agli avvocati del Napoli di spiegare due aspetti fondamentali per la corte: la possibilità comunque di giocare la partita (per la corte d’appello il Napoli aveva disdetto i voli) e il movente. Per i giudici di secondo grado mancavano alcuni giocatori, ma gli avvocati del club partenopeo hanno spiegato che «il Napoli poteva andare a Torino sfruttando mezz’ora in più sull’orario di inizio e che in quel momento la Juventus era l’avversario ideale perché all’inizio con tanti novità di mercato ed il Napoli non aveva interesse a posticiparlo e con una rosa ampia per sopperire alle assenze». Il passaggio più significativo, ma bisognerà aspettare la sentenza, è quello della Procura generale dello sport che ha sottolineato la situazione inedita, particolare, per il recente cambio di protocollo, le nuove indicazioni Uefa ed un contesto non definito: non c’era nulla di male ad interloquire con le Asl per approfondire. Legittima dunque la sentenza del giudice sportivo, basandosi sul regolamento e l’assenza del Napoli a Torino, ma — sempre per la Procura generale dello sport —la Corte d’appello invece «avrebbe fatto il passo più lungo della gamba andando oltre i fatti a disposizione». Questo l’aspetto che stavolta ha giocato a favore del Napoli. Sentenza dunque che «annulla senza rinvio» le precedenti. Dovrebbe quindi essere finita qui. Resta solo da capire quando sarà possibile rigiocare la partita.

Valerio Piccioni per “la Gazzetta dello Sport” il 23 dicembre 2020. Il Napoli esulta. Stavolta non in campo, ma negli spogliatoi dello stadio Maradona quando arriva la notizia del ribaltone. Il Collegio di garanzia dello sport sfratta dalla classifica di serie A il 3-0 a tavolino per la Juve del 4 ottobre, restituisce il punto di penalizzazione accessorio decretato dalle sentenze di primo e secondo grado, e dice: questa partita va giocata. Quando è un bel punto interrogativo. Di certo non tanto presto: impossibile far saltare le sfide di Coppa Italia del 13 gennaio, stessa cosa per la Supercoppa del 20 gennaio, con una data blindata dai contratti con le emittenti televisive all' estero. Per ora prevale la formula «a data da destinarsi». Al momento attuale, caselle libere non ce ne sono, le uniche disponibili sono a maggio. Ma in ogni caso il colpo di scena basta e avanza per la giornata. Franco Frattini e i suoi colleghi decidono che le ragioni del pronunciamento delle autorità sanitarie locali valgono più del protocollo, nella parte della quarantena soft, la famosa norma-polizza che consentì la ripartenza del vecchio campionato a giugno e che ancora oggi permette al calcio professionistico di aggrapparsi alle deroghe senza fermarsi in caso di positività come succede per il resto dei cittadini. Il dibattimento vola via in un' ora. Le tesi chiave dei precedenti giudizi - l' assenza di forza maggiore per il giudice sportivo Gerardo Mastrandrea, l' esistenza di una «scelta volontaria, se non addirittura preordinata della società ricorrente» a stare alle parole della Corte sportiva d' appello presieduta da Piero Sandulli - vengono cancellate. I legali del Napoli, Mattia Grassani ed Enrico Lubrano, costruiscono il ricorso, preceduto da un' abbondante memoria, su due filoni. Punto primo: non c' è una fase uno o una fase due nella vicenda, una Asl buona che aveva dato il permesso e una cattiva che lo negò fuori tempo massimo. Punto secondo: l' assenza di movente. Il Napoli non avrebbe avuto motivi per non giocare. Una posizione sostenuta anche dalle parole di Aurelio De Laurentiis: «C' era tutto l' interesse - dice il presidente del Napoli davanti ai giudici - a incontrare Pirlo in quel momento perché era all' inizio della sua carriera da allenatore e dunque poteva anche non portare sul campo una Juventus pericolosa». Grassani dice che il non andare a Torino «non fu una scelta, ma un obbligo. Il Napoli voleva giocare e ci sono i documenti a dimostrarlo. Sabato 3 ottobre l' autobus stava per partire per raggiungere l' aeroporto, solo in quel momento il capo di gabinetto della regione Campania ha comunicato che la squadra era tenuta a non allontanarsi». Il tentativo (riuscito) è dunque quello di spostare lo spartiacque della vicenda: il no alla partenza, questo hanno detto i legali convincendo evidentemente i giudici, è da collocare temporalmente già al sabato pomeriggio. E solo da quel divieto discende la decisione di disdire il volo e i tamponi dell' indomani mattina a Torino. «E poi, se non ci fosse stata la volontà di giocare - ha spiegato Lubrano - perché contattare ripetutamente le autorità sanitarie anche nella giornata di domenica? Se avessero risposto positivamente, ci sarebbe stato il tempo per raggiungere Torino». Peraltro un assist al ricorso veniva anche dall' avvocato Alessandra Flamminii Minuto, procuratore nazionale dello sport, che parlava di «passo più lungo della gamba» da parte della Corte sportiva d' appello. Boato degli spogliatoi del Maradona a parte, la decisione del Collegio di garanzia scatena l' esultanza di presidente, sindaco e governatore. «Viviamo in un Paese dove chi rispetta le leggi non può essere condannato. E il Napoli segue sempre le regole», scrive De Laurentiis in un tweet. Per Luigi De Magistris «giustizia è fatta, ora si gioca a calcio e si va a vincere sul campo». Anche Vincenzo De Luca osserva che «si ripristinano i valori della lealtà sportiva, clamorosamente violati dalle precedenti sentenze». Sull' altro fronte, la Juventus accoglie all' inizio in silenzio la sentenza. Il club bianconero non si era costituito in giudizio sin dall' appello. Quindi niente sconfinamento al Tar. In serata, però, c' è una prima reazione: «Noi siamo sempre stati estranei e indifferenti alla vicenda - dice Fabio Paratici, responsabile dell' area sportiva della Juventus, a Sky Sport - «Quando ci diranno di giocare, andremo a giocare e porteremo il pallone. Detto questo, c' eravamo anche il 4 ottobre» .

Da gazzetta.it il 25 dicembre 2020. Non sono andate giù le dichiarazioni di Andrea Pirlo al presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis dopo la sentenza del Collegio di Garanzia del Coni su Juve-Napoli: “Pirlo dovrebbe fare l’allenatore e basta, lasciare ai suoi rappresentati della società certe risposte. Quella è una sentenza dello Stato, una legge dello Stato in questo casino del Covid, con lo Stato incapace di affrontarlo, che fai? Anteponi una legge dello sport ad una legge statale rischiando il penale? Mi sembra una follia”. Martedì scorso il Collegio di Garanzia del Coni ha stabilito che la partita andrà giocata, accogliendo il ricorso del Napoli contro la sentenza del Giudice Sportivo (3-0 a tavolino più un punto di penalizzazione, confermato anche dal Tribunale Sportivo d’Appello) dopo la mancata presenza all’Allianz Stadium, il 4 ottobre scorso, per sfidare la Juve. Pirlo aveva commentato così: “Non possiamo farci niente, non abbiamo problemi a rigiocare. Dispiace per le altre squadre che hanno viaggiato e perso punti senza dir niente, partendo e giocando senza chi aveva il Covid”. E De Laurentiis, intervenuto a radio Capital, ha puntualizzato: ”Pirlo non fa di mestiere l’avvocato, non conosce certe procedure e non conosce cosa è accaduto a livello di protocolli. Non voglio prendermela con Pirlo dandogli del Pirla, sarebbe troppo facile. Faccia l’allenatore. Ha detto quello che avrebbe detto qualsiasi allenatore per difendere la società per cui lavora”. De Laurentiis ha rivelato di aver ricevuto diverse telefonate di solidarietà. “Io sono un estimatore di Mario Draghi che mi ha chiamato per gli auguri e mi ha espresso compiacimento da uomo di Stato. Mi hanno chiamato in tanti anche perché quando si vince in Italia si sale sul carro dei vincitori, ovviamente non mi riferisco a Draghi. Ma questa non è una vittoria è solo che bisognava ribaltare in punta di diritto una decisione sbagliata della Federcalcio”.

Da gazzetta.it il 25 dicembre 2020. L'avventura con il Milan, la nostalgia della Svezia e l'esperienza coronavirus. Di questo, ma non solo, ha parlato Zlatan Ibrahimovic in una lunga intervista a 7, il settimanale del Corriere della Sera. Convinto come sempre di sé e di conseguenza della sua squadra, Ibra - al momento fermo per l'infortunio a un polpaccio - sulle chance scudetto del Milan ha detto: "Deve avere il coraggio di sognarlo. E io dico che possiamo e vogliamo fare ancora di più. Adesso dobbiamo cominciare bene il 2021 e pensare partita per partita, come se fosse l’ultima. Dobbiamo avere fame: tutti i giorni, ogni momento". Zlatan è un punto di riferimento per tutto il gruppo: "Se impazzisco quando un compagno sbaglia un passaggio? Ma sì, sempre, anche in allenamento. Il problema è chi non si arrabbia. E se faccio un errore io? Io non sbaglio mai. Il talento serve se lo coltivi. Bisogna lavorare, lavorare, lavorare. Ci vuole sacrificio. Cosa sono i 90 minuti della partita? Niente, se non ti sei allenato tutti i giorni e tantissime ore. Più mi alleno e più sto bene. Lo dico a me stesso e agli altri: non mollare mai. Lo spiego in un altro modo: se non ti arrendi, vinci". E vincere è da sempre l’obiettivo di Ibra, che per questa stagione non si pone limiti:

  Sul suo futuro dice: "Fino a quando giocherò? Me lo chiedono tutti, la risposta è sempre la stessa: andrò avanti finché riuscirò a fare quanto faccio adesso. Giocare la Champions? A chi non piacerebbe... se posso restare, lo faccio".

 La famiglia è rimasta in Svezia e lui ammette: "Mi manca. Tantissimo. Ma proprio tantissimo. Sono allo stremo, non ne posso più. Vorrei stare con mia moglie e con i miei figli Maximilian e Vincent, che hanno 14 e 13 anni e vivono in Svezia. Andare a trovarli? Ci ho provato, ma Pioli mi ha risposto che non mi posso muovere e che ho famiglia anche a Milanello: dice che lì ho 2 ragazzi ma qui ne ho 25 e hanno bisogno di me".

IL COVID —   Infine il racconto della sua esperienza con il Covid: "Ovvio che mi sia preoccupato. Quando all’inizio mi è capitato, ero abbastanza tranquillo, quasi incuriosito, vabbè, voglio vedere cos'è questo Covid. Ha colpito tutto il mondo, una grande tragedia, adesso è arrivato da me. Ero a casa ad aspettare, vediamo cosa succede. Mal di testa, non fortissimo ma fastidioso, una cosa tosta. Ho anche perso un po’ il gusto. E stavo lì tutto il tempo, a casa, incazzato, non potevo uscire, non mi potevo allenare bene. Stare fermo è terribile. A un certo punto parlavo con la casa e davo i nomi ai muri. Diventa un fatto mentale. Ti fissi e ti immagini tutti i mali addosso, anche quelli che non hai. Una sofferenza per quello che senti e per quello che pensi di sentire. Questo virus è terribile e non va sfidato. Distanze e mascherine, sempre".

La malattia che ha colpito Gattuso Dove nasce e quali sono gli effetti. L'allenatore del Napoli Gattuso combatte da ormai 10 anni con una malattia autoimmune che colpisce i muscoli volontari che si indeboliscono e si affaticano rapidamente. Marco Gentile, Giovedì 24/12/2020 su Il Giornale. Gennaro Gattuso è sempre stato un grande combattente nella sua vita privata e da calciatore. L'allenatore del Napoli ormai da anni sta combattendo contro una malattia molto fastidiosa, autommune, che colpisce gli occhi: la miastenia. "Io soffro di una malattia autoimmune, la miastenia. Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che non si vedono bene allo specchio".

Che cos'è la miastenia? La miastenia è una condizione in cui tutti i muscoli volontari si indeboliscono e si affaticano rapidamente. Per questo tipo di problema, purtroppo per chi ne è colpito, non esiste una cura definitiva ma solo un trattamento adeguato che aiuta a ridurre i sintomi. Le cause di questa malattia autoimmune possono essere molteplici ma il problema scatenante é l'interruzione della corretta comunicazione fra nervi e muscoli, causata dal fatto che l'organismo inizia a produrre anticorpi che inibiscono l'attività dei recettori per il neurotrasmettitore acetilcolina, che generalmente stimola i muscoli. La miastenia oculare, quella che ha colpito Gattuso, è una forma limitata ai muscoli degli occhi e delle palpebre che si presenta perché alcuni autoanticorpi inibiscono il meccanismo nervoso che permette la contrazione dei muscoli appartenenti al compartimento oculare. I tipici sintomi della miastenia oculare sono due: diplopia (visione doppia come ha detto anche Gattuso) e ptosi, ovvero la palpebra cadente.

Il messaggio di Ringhio. "Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che hanno paura quando hanno un qualcosa di strano e non si vedono bene allo specchio: la vita è bella e bisogna affrontarla senza paura, senza nascondersi. E comunque sono vivo, perché ho sentito voci in giro che dicevano che ho un mese di vita, ma tranquilli che non muoio. Ho questa malattia da 10 anni, questa è la terza volta che mi ha colpito e stavolta mi ha colpito forte, ma tranquilli perché l’occhio tornerà al suo posto e sarò più bello, speriamo, il più presto possibile. Adesso non sono bello da vedere, ma passerà pure questa", questo il commento come sempre mai banale di Gattuso. L'ex giocatore e allenatore del Milan ha poi concluso con un messaggio di grande maturità e dignità: "I ragazzi mi sono stati tanto vicino, anche se lo nascondevo negli ultimi giorni facevo tanta fatica: vedere doppio 24 ore al giorno non è facile, solo un pazzo come me può stare in piedi. E non mi piace vedere la gente che si emoziona a vedermi in questo modo... Ma va accettato perché nella vita c'è di peggio, e io ho la fortuna di fare quello che mi piace nella vita".

Liberoquotidiano.it il 22 dicembre 2020. A 70 anni Mauro Bellugi ha dovuto affrontare una doppia amputazione. L’ex calciatore dell’Inter è stato costretto a un intervento per l’amputazione di tutte e due le gambe dopo aver contratto il coronavirus: lo ha raccontato lui stesso in una videochiamata con il giornalista Luca Serafini sul sito altropensiero.net. Un vero e proprio dramma quello di Bellugi, che a inizio novembre era stato ricoverato in ospedale dopo la positività al tampone. Purtroppo nelle ultime settimane la sua situazione si è aggravata a tal punto da rendere necessaria l’operazione agli arti inferiori. “Il Covid mi ha tolto anche la gamba con cui feci gol al Borussia Monchengladbach”, ha raccontato l’ex difensore che tra gli anni ’60 e ’70 ha vestito le maglie di Inter, Bologna, Napoli e Pistoiese. 

Il dramma di Bellugi: ischemie dopo il Covid, amputate le gambe. «Cerco già le protesi di Pistorius». Carlo Baroni su Il Corriere della Sera il 23/12/2020. Quella volta che tirò giù San Siro. E quell’altra che imbavagliò Rombo di Tuono. Sempre lui, solo lui. Mauro Bellugi, professione stopper. Ma non come quelli di una volta. Uno con i piedi che il pallone «restava incollato». Ora le conseguenze del Covid lo hanno lasciato privo delle gambe. Sono due mesi che Bellugi è in ospedale, al Niguarda di Milano. Senza piangersi addosso. Con la forza e il sorriso di quando giocava un derby. Il compagno di squadra che tutti vorrebbero avere. Una simpatia tracimata anche negli studi televisivi, a fine carriera. L’opinionista che faceva salire lo share. Urticante con stile. Proprio come quando giocava. La moglie Lory racconta che il suo Mauro resta ottimista. «La strada è lunga ma piano piano ne verrà fuori. Il virus gli ha procurato delle ischemie. L’unica soluzione era amputare le gambe». Soffriva da qualche tempo. Ai funerali di Mario Corso si era presentato con le stampelle. Quando giocava gli infortuni lo avevano tartassato. Mai piegato, però.

Il futuro. Adesso, tanto per dire chi è, guarda già avanti. Pochi giorni dopo l’intervento cercava delle protesi su Internet. «Prenderò quelle di Pistorius» garantiva. E scherzava: «Mi hanno tolto anche la gamba con cui ho segnato al Borussia». Un gol solo in una carriera da cento battaglie, ma indimenticabile. Una rete di quelle che restano nelle teche e nei ricordi. Da fuori area come Pelè e Maradona. Un tiro nell’angolo alto dove nessun portiere può arrivare. Era il 3 novembre 1971. Una delle notti magiche di San Siro. Per cancellare l’onta di un 7-1 cassata dagli archivi ma rimasto dentro la pelle di ogni interista. Mauro veniva dal vivaio. Quello buono dell’Inter. La generazione dei Bordon e degli Oriali. Toscano di Buonconvento, classe 1950 all’anagrafe, classe ottima in campo, classe infinita negli spogliatoi. «Come si faceva a non andare d’accordo con lui?» ricorda Carletto Muraro, il Jair bianco. «L’ho conosciuto quando Mauro stava finendo con l’Inter e io cominciavo. In panchina Helenio Herrera, il ritorno del Mago. La prima volta insieme a San Siro. Contro il Cagliari. E Mauro a mettere la museruola a Gigi Riva. Come giocatore non gli mancava niente. Gran difensore. E sempre pronto alla pacca sulla spalla al compagno che sbagliava».

La carriera. Inter ma anche Bologna e Napoli. E infine Pistoiese. E la nazionale. Ai Mondiali argentini del 1978, una squadra forse più bella di quella iridata di quattro anni dopo. Metà bianconera e metà granata. Più che l’Italia era Torojuve. Con un’eccezione: Mauro Bellugi. «Dicevano, lo so, che Bellugi ha una gamba più corta, che era una pazzia farmi giocare in nazionale, che Bearzot si era... innamorato di me. Ho letto, ho ascoltato, ho taciuto. Io preferisco rispondere sul campo. Il calcio è il mio mestiere: non l’ho mai tradito, non lo tradirò mai. Bellugi è un uomo». Del resto l’aveva dimostrato a Wembley nel 1973, la prima vittoria degli azzurri nello stadio-tempio degli inglesi. L’assedio dei leoni bianchi. Incessante. Spaventoso. Bellugi con le basette lunghe che si usavano nei fantastici anni Settanta a rispondere colpo su colpo. Che gli italiani non si facevano spaventare dall’orda britannica. Un giocatore di classe quando agli stopper era richiesto solo di spazzare l’area e non azzardarsi a tenere la palla più di qualche secondo. Corretto ma se c’era da picchiare non si tirava indietro. Con il tedesco Klaus Fischer, per esempio, ancora ai Mondiali del ‘78: «Credeva di intimidirmi entrando a catapulta, scalciando, colpendomi come e non appena poteva. Lo hai visto come è finita: in una entrata volante, ho allargato il gomito, c’è finito contro con il viso, è piombato il medico a cucirgli il labbro che penzolava sul mento, lì sul campo di gioco... io non cerco la rissa, ma se mi cercano mi trovano sempre». Mauro Bellugi che le partite non finiscono mai. Neanche questa che sta giocando.

Monica Colombo per corriere.it il 23 dicembre 2020. «È stato un anno allucinante, mi auguro che finisca presto e con il 2020 termini tutto il dolore che ha portato. Parlo per la mia famiglia ma anche per le tante persone che hanno subito drammi peggiori». Lory Bellugi è una donna tosta, più incline a reagire che a piangersi addosso dopo la diagnosi impietosa che ha colpito il marito. E, come Mauro faceva in campo sugli avversari, va in tackle sul Covid.

Quando è iniziata la via crucis che ha condotto all’amputazione delle gambe di suo marito?

«Era il 4 novembre, da giorni mio marito soffriva di male alle gambe. Non ci eravamo preoccupati più di tanto perché in conseguenza della sua attività sportiva non era infrequente. Negli ultimi giorni però i dolori erano aumentati e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. La domenica precedente si era sottoposto al tampone che era negativo. A quel punto lo portai al Monzino dove un cardiologo lo fece passare senza transitare dal pronto soccorso. Gli fece il tampone, stavolta l’esito era positivo».

L’ansia aveva preso il sopravvento?

«Accadde quella sera. Un medico mi chiamò per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe. Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "non c’è molto da fare"».

E lei?

«Non capivo. Mi spiegò che l’unica soluzione era l’amputazione delle gambe. Mi crollò il mondo addosso, non volevo credere che non esistesse una soluzione alternativa. Aggiunse che diversamente le gambe sarebbero andate in cancrena. Da lì fu il delirio».

Dove è stato operato?

«Fu spostato al Niguarda dove tentarono di riaprire le vene, ma invano. Aveva entrambe le gambe nere».

Come ha reagito Mauro?

«Consideri che io non potevo andare a trovarlo. Dopo il primo intervento alla gamba destra, peraltro senza anestesia totale ed epidurale, ricevetti una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui! Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto. Le racconto questo per sottolineare il suo spirito».

E ora riesce a comunicare con suo marito?

«Ci salutiamo nelle video-chiamate. Solo di recente sono riuscita a fargli visita 3-4 volte, toccata e fuga, completamente bardata. Del resto in questa lunga degenza ha preso anche la polmonite».

Che percorso lo aspetta adesso?

«Dovrà affrontare la riabilitazione, probabilmente in una clinica a Budrio».

L’Inter vi è stata vicina?

«Si sono comportati come una famiglia. Da Massimo Moratti a Beppe Marotta. Si sono dimostrate persone speciali».

Si è già informato sul web sulle caratteristiche delle protesi.

«Ah certo, lui ha grande voglia di rimettersi in pista. È già proiettato in avanti. Pensa già alla macchina da guidare con i sensori, come se dovesse uscire dall’ospedale domani. È troppo forte, per fortuna ha questo carattere».

Cosa vi siete detti quando il medico ha comunicato che non c’era altra via che l’amputazione?

«Non ne abbiamo mai parlato. Sapevamo che sarebbe dovuto accadere: avevamo il timore che affrontando l’argomento sarebbe subentrata la depressione. Mauro un giorno mi ha chiesto se quel che restava dei suoi arti mi faceva impressione. Gli ho risposto di no. Meglio sdrammatizzare piuttosto di enfatizzare. È la nostra forza».

Salvatore Riggio per “il Messaggero” il 23 dicembre 2020. Mauro Bellugi è sempre stato un combattente. A 20 anni ha vinto lo scudetto con l' Inter (1970-71), oggi si trova a duellare contro le avversità della vita. Intorno alla seconda metà di novembre all' ex difensore nerazzurro (ha giocato anche con Bologna, Napoli e Pistoiese, ritirandosi nel 1981 con 335 presenze sulle spalle) sono state amputate le gambe, dopo che qualche settimana prima era stato ricoverato a causa del Covid-19. Durante la degenza in ospedale, le sue condizioni di salute sono peggiorate per altre patologie e questo ha spinto i medici a operarlo di urgenza. Cresciuto nelle giovanili dell' Inter, è rimasto in prima squadra dal 1969 al 1974 segnando il suo unico gol. Di destro, negli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach il 3 novembre 1971, nella partita vinta dall' Inter per 4-2, giocata due settimane dopo la famosa gara della lattina in Germania e annullata per la Coca-Cola lanciata dalle tribune sulla testa di Boninsegna. Nel 1974 si è trasferito al Bologna: in Emilia è rimasto fino al 1979 diventando un punto di riferimento per la difesa rossoblù, nonostante il grave infortunio rimediato nel 1976-77 (solo due gare quell' anno). Bellugi è passato al Napoli nel 1979-80 e nella Pistoiese nel 1980-81, chiudendo la carriera in Toscana per i troppi dolori alla gambe. Con la Nazionale tra il 1972 e il 1980 ha collezionato 32 presenze, disputando i Mondiali del 1974 in Germania Ovest (azzurri eliminati al primo turno) e quelli del 1978 in Argentina (quarto posto). Dopo il ritiro, Bellugi è stato spesso ospite dei programmi calcistici dell' emittente televisiva 7 Gold. Interventi precisi, schietti. Appena ha raccontato tutto in una videochiamata con Luca Serafini, trascritta sul sito altropeniero.net, sono stati tantissimi i messaggi sui social (l' hashtag #bellugi è finito nelle tendenze Twitter). «Non sto proprio bene, diciamo. È stata una cosa micidiale», ha spiegato. Alternando momenti di sconforto a commenti ironici, scherzosi.

Come è nel suo carattere. Cosa è successo?

«Questo Covid insieme a un' anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me. Però, ho moglie e una figlia. E allora ho eliminato loro. Sinceramente se fossi stato da solo, ci avrei pensato un po'».

Perché dice così?

«Il dolore è immenso, solo chi ha provato questa cosa può dirlo, commentarlo. È un dolore continuo, sempre. Sei sempre sotto morfina, è davvero durissima. Ci sono momenti nei quali non ce la fai».

Ma adesso come sta?

«Le ferite ora vanno bene. Sto aspettando la riabilitazione. Sto facendo un po' di ginnastica con un fisioterapista. Vado avanti. Non posso fare altro. I momenti di sconforto ci sono, anche di pianto. Mi dispiace per la gamba destra. Ci tenevo più della sinistra».

È quella del gol in Coppa Campioni.

«Sì, ho segnato la mia unica rete, nel 1971 contro il Borussia Moenchengladbach».

Adesso?

«Prenderò delle protesi, voglio battere il record di Pistorius. Certo, ci vuole coraggio ad andare avanti. Però, con le protesi con quei pochi passi potrò fare qualcosa, andare al ristorante, passeggiare. Mica devo fare altre rovesciate».

Non è stato facile in queste settimane.

«Ho dovuto smettere a calcio per problemi alle gambe, giocandomi il Mondiale di Spagna 1982. Adesso è accaduta questa cosa. Nella vita sono cose che possono capitare».

Bellugi, amputate entrambe le gambe. Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter, ha subito l'amputazione di entrambi gli arti inferiori. Il 70enne era ricoverato dal 4 novembre in ospedale dopo aver contratto il coronavirus. Marco Gentile, Martedì 22/12/2020 su Il Giornale. Il mondo del calcio è sotto choc, un'altra volta: Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter e della nazionale italiana negli anni 60-70 ha subito l'amputazione di entrambi gli arti inferiori. Il 70enne di Buonconvento era stato ricoverato lo scorso 4 novembre dopo aver contratto il coronavirus e ne è uscito, purtroppo, senza le gambe. Non è chiaro se sia stato il covid-19 a creare delle complicanze agli arti inferiori di Bellugi che erano già afflitti da problemi ed altre patologie. Le sue condizioni si sono aggravate tanto da costringere i medici ad un'operazione d'urgenza con la scelta drastica di dover amputare entrambi gli arti inferiori. La moglie ha però spiegato come il marito non si sia buttato giù trovando subito di vedere il lato positivo di questa triste vicenda.

Uomo d'acciaio. Bellugi, come detto, nonostante questo grande dramma subito ha anche trovato il modo di ironizzare nel corso di una videochiamata con l'amico e giornalista Luca Serafini (tratto da altropensiero.net): "Prenderò quelle di Pistorius, così nei corridoi degli studi televisivi ti sorpasserò" e ancora: "Mi ha tolto anche la gamba con cui feci gol al Borussia Mönchengladbach". L'ex giocatore di Bologna, Napoli e Pistoiese iniziò presto a 19 anni ma fu anche costretto ad appendere gli scarpini al chiodo per i troppi problemi alle gambe e si ritirò così a soli 31 anni.

I numeri della carriera. Bellugi ha giocato 12 anni in Serie A: cinque stagioni all'Inter con 140 presenze complessive e un gol al suo attivo, quello in Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach, cinque annate al Bologna con 108 gettoni totali senza reti, più un anno al Napoli e uno alla Pistoiese. Anche con la maglia della nazionale italiana Bellugi ha messo insieme 32 partite senza mai segnare.

A livello di titoli di squadra l'ex difensore toscano ha messo in bacheca un solo scudetto con la maglia dell'Inter: quello del 1970-71 con in panchina Giovanni Invernizzi che prese il posto dopo sole sei giornate di Heriberto Herrera. Una volta appesi gli scarpini al chiodo Bellugi ha intrapreso brevemente la carriera da allenatore alla Pistoiese, per solo un anno come vice, ed è poi diventato opinionista televisivo nelle varie televisioni private lombarde.

Quel terribile dramma di Bellugi "Così il Covid mi ha tolto le gambe". L'ex difensore nerazzurro è stato operato d'urgenza dopo il ricovero ad inizio novembre perchè positivo al Covid-19. Antonio Prisco, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. ''Questo Covid insieme a un'anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena, o eliminavo loro o eliminavo me...'' Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter e oggi noto opinionista televisivo, racconta così il suo dramma. In campo è sempre stato sempre un combattente ed oggi si trova a duellare contro le avversità della vita. Cresciuto nelle giovanili dell'Inter con cui conquistò uno scudetto nell'annata 1970-71, Mauro Bellugi è stato un vero stopper, uno dei marcatori più arcigni del panorama calcistico italiano. Resta storico il suo unico gol in carrera segnato di destro, negli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach il 3 novembre 1971, nella partita vinta dall'Inter per 4-2, giocata due settimane dopo la famosa gara della lattina in Germania e annullata per la Coca-Cola lanciata dalle tribune sulla testa di Boninsegna. Intorno alla seconda metà di novembre all'ex difensore nerazzurro, oggi presenza fissa come opinionista sul canale 7Gold, sono state amputate le gambe, dopo che qualche settimana prima era stato ricoverato a causa del Covid-19. Durante la degenza in ospedale, le sue condizioni di salute sono peggiorate per altre patologie e questo ha spinto i medici a operarlo di urgenza. Ha raccontato tutto in una videochiamata con il giornalista Luca Serafini, poi trascritta sul sito altropeniero.net, e subito dopo sono stati tantissimi i messaggi arrivati sui social (l'hashtag #bellugi è finito nelle tendenze Twitter). ''Non sto proprio bene, diciamo. È stata una cosa micidiale. Questo Covid insieme a un'anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me. Però, ho moglie e una figlia. E allora ho eliminato loro. Sinceramente se fossi stato da solo, ci avrei pensato un po'...'' ha spiegato l'ex calciatore alternando momenti ironici a quelli di sconforto. Continuando così il suo racconto: ''Il dolore è immenso, solo chi ha provato questa cosa può dirlo, commentarlo. È un dolore continuo, sempre. Sei sempre sotto morfina, è davvero durissima. Ci sono momenti nei quali non ce la fai. Le ferite ora vanno bene. Sto aspettando la riabilitazione. Sto facendo un po' di ginnastica con un fisioterapista. Vado avanti. Non posso fare altro. I momenti di sconforto ci sono, anche di pianto. Mi dispiace per la gamba destra. Ci tenevo più della sinistra''. La gamba destra quella del gol in Coppa Campioni, un ricordo ancora indelebile: ''Sì, ho segnato la mia unica rete, nel 1971 contro il Borussia Moenchengladbach''. Nonostante tutto non ha alcuna voglia di mollare: ''Prenderò delle protesi, voglio battere il record di Pistorius. Certo, ci vuole coraggio ad andare avanti. Però, con le protesi con quei pochi passi potrò fare qualcosa, andare al ristorante, passeggiare. Mica devo fare altre rovesciate. Ho dovuto smettere a calcio per problemi alle gambe, giocandomi il Mondiale di Spagna 1982. Adesso è accaduta questa cosa. Nella vita sono cose che possono capitare''. Di sicuro sarà ancora lì, pronto a difendere come sempre i colori nerazzurri.

Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 25 dicembre 2020. «Sono al Niguarda, chiuso nella mia camera, con il cielo in una stanza. La bufera è passata, i giorni allucinanti della diagnosi e delle operazioni di amputazione sono alle spalle». Mauro Bellugi, iconico difensore dell' Inter degli anni Settanta, trascorre le giornate fra le medicazioni e le rare visite consentite della moglie Lory. L' ondata di affetto e commozione che ha accompagnato la notizia del peggior effetto collaterale che il Covid potesse infliggere a un giocatore, lo ha colpito. «In questo anno maledetto se ne sono già andati Corso, Maradona, Paolo Rossi. Non volevo essere io l' ultimo famoso della serie». Non ha perso il senso della battuta, lui toscano un po' guascone, abituato a sguazzare nei salotti tv del post-partita, nonostante la sorte lo abbia preso di mira. «Vede, io soffro da sempre di una forma di anemia mediterranea, come mia mamma e pure mia figlia. Di per sé non mi aveva causato grossi disturbi in precedenza ma poi con il coronavirus son diventati compagni di merende. Si sono detti "spacchiamo il mondo" e hanno spaccato me». Il giorno da segnare sul calendario è il 4 novembre. «Soffriva di male alle gambe, dolore non infrequente a causa della sua attività sportiva» racconta la moglie Loredana. «Negli ultimi giorni però le fitte erano aumentate e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. Lo portai al Monzino». Il racconto prosegue nelle parole dell' ex interista. «Scoprii gli arti, le gambe erano nere fino all' inguine». Per giunta, il tampone fatto in ospedale era positivo. «Un medico mi chiamò quella sera per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe» aggiunge Lory Bellugi. «Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "Non c' è molto da fare"». Una frase che suona già come una sentenza. Mauro vorrebbe prendere tempo, buttare la palla in tribuna come faceva in campo. «Mi dissero "Vuoi vivere o vuoi morire?", perché se non fossero intervenuti subito la cancrena sarebbe salita ancora. Dovetti decidere subito, non le dico la mia faccia quando il chirurgo Piero Rimoldi mi disse che avrebbe dovuto amputare anche la gamba con cui avevo segnato al Borussia Mönchengladbach». Dalla diagnosi alla sala operatoria il passo è breve. «Ho assistito da sveglio a quando mi hanno tagliato a fette i polpacci» rivela con il tono di chi ha visto cose che noi umani. Poi però non ha perso il consueto spirito. «Dopo il primo intervento alla gamba destra ho ricevuto una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui. Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto» svela Lory, quasi benedicendo il modo scanzonato di affrontare la vita del marito. Eppure i momenti di scoramento non sono mancati. «Ero ricoverato nel reparto Covid perché nel frattempo ero affetto anche da una polmonite. Avevo fatto amicizia con un ragazzo di 25 anni, Edoardo. Videochiamava i genitori per tirarli su di morale. Un giorno mi ha salutato mentre lo portavano via, è mancato - confessa fra le lacrime Bellugi -. Morivano come mosche». Per fortuna attorno a lui si è stretta la grande famiglia nerazzurra. «Massimo Moratti è il numero uno, era più disperato di me. La Bedy, sempre a casa mia, la numero due. E poi Beppe Marotta: mi ha detto che un posto per me in società ci sarà sempre. "Tu sei stato la storia"». E ora Bellugi guarda al futuro. «Andrò a Budrio per sostenere la riabilitazione, mi sono già informato sulle protesi. Del resto, non pretendo molto per la vita che mi resta: poter andare al bar a giocare a scopa con gli amici e al ristorante con la Lory. Con le rovesciate ho chiuso».

Francesco Persili per Dagospia il 26 dicembre 2020. “Mi hanno riempito di morfina, avevo già chiamato San Patrignano…”. Mauro Bellugi non perde il gusto della battuta e racconta a “Campioni del mondo” su "Radio 2" i giorni terribili del covid e l’operazione di amputazione alle gambe. L’ex calciatore di Inter, Bologna, Napoli, Pistoiese e della Nazionale si è informato sulle protesi per tornare a camminare. “La forza di reagire verrebbe a chiunque, soprattutto a chi ha fatto sport. Quando sei in svantaggio, non vuoi perdere”. La sua fonte di ispirazione resta Alex Zanardi. "Lui è un extraterrestre rispetto a me, un supereroe, rispetto a me è Batman”. Il leone di Wembley si commuove parlando di Paolo Rossi (“La sua scomparsa non mi è andata giù”) e di un ragazzo di 30 anni vicino di letto all’ospedale. “L’ho sentito parlare al telefono con i genitori e poi è morto. State attenti…”. ”I negazionisti? Ma come cazzo si fa? Se vedeste la situazione negli ospedali, mettereste almeno due mascherine. Io sono stato in casa da febbraio a ottobre. Sono uscito una sera e ho beccato il virus. Basta un attimo, poi è una tragedia. Heather Parisi ha detto che non si vaccinerà? Sbaglia, ma ognuno fa ciò che vuole…”. Ciccio Graziani rammenta “le meravigliose battaglie” contro l’ex difensore dell’Inter: “Giocarci contro era tosta, sentivi caldo addosso”. E Bellugi: “Graziani era un cliente scomodo. Mi faceva correre troppo. Una volta a Roma un tifoso mi ha urlato: “Sei una roccia”. E un altro ha aggiunto: ‘infatti non te movi mai”. Domenico Marocchino, invece, ricorda le mitologiche vacanze in Sardegna, a Stintino. “Era marcato molto stretto dalla moglie di allora…”. “Impossibile smarcarsi”, aggiunge Bellugi che racconta di quella serata in cui provò a salire sul palco per cantare “Roberta”. “Mi è arrivato un zoccolo in faccia da mia moglie…”. E pensare che Romeo Benetti provò a far saltare il matrimonio. “Mi ha rotto un piede prima delle nozze – ricorda Bellugi - Mi ha mandato con le stampelle e il gesso all’altare”. Una volta naufragato il  matrimonio mi disse: “Hai visto? Ti volevo salvare…”

Mario Gerevini per corriere.it il 17 novembre 2020. Ci sono due documenti ufficiali che ribaltano le certezze sulla proprietà del Milan. Un bilancio e una comunicazione antiriciclaggio (qui si possono leggere i due documenti). A «quota 6001» azioni, cioè la soglia critica della maggioranza di cui il Corriere aveva scritto pochi giorni fa, non c’è il fondo Elliott di Paul Singer ma la lussemburghese Blue Skye di Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo come ha anticipato anche Report in vista del servizio di lunedì prossimo su Rai 3.

I capitali del fondo, il controllo di Blue Skye. Quindi a quanto pare Elliott ci mette i capitali ma non ha il controllo del capitale: un controsenso e un rebus in cui forma e sostanza sembrano non coincidere. E in cui finora è mancata un’informazione trasparente, in particolare sugli assetti di Project Redblack, la società lussemburghese dove si saldano gli interessi dei due azionisti (Blue Skye ed Elliott) e che controlla pressoché interamente il club rossonero.

Il 95% dichiarato da Elliott e i finanzieri napoletani. Gli americani hanno sempre fatto sapere, mai ufficialmente però, di avere il 95%. Ma sulla base di quali criteri ora che i documenti sembrano smentirli? È ovvio d’altra parte che i due finanzieri napoletani, per quanto benestanti, non abbiano risorse economiche tali da caricarsi sulle spalle il Milan. Dunque, ci sono patti riservati con il fondo speculativo di New York? Perché una società del Delaware ha in pegno una parte del «pacchetto» Milan di Cerchione e D’Avanzo? Ci sono soci occulti? Lo scorso 27 settembre il Corriere aveva inviato una serie di domande a Elliott proprio sul tema della proprietà del Milan e dei rapporti con Blue Skye, senza ricevere risposte. Ma vediamo le carte.

Il bilancio rivelatore, Blue Skye ha il 51%. Il primo documento è un bilancio di Blue Skye appena depositato (il file è di metà novembre). Riguarda i conti del 2017, ma in Lussemburgo prendersela comoda è permesso. Queste carte contabili, inedite, ci raccontano che già alla fine del 2017 il 51% di Project Redblack, oggi controllante del Milan, è posseduto da Blue Skye. La tabella con le partecipazioni è chiarissima ed esplicita. E tra l’altro si scopre che un’altra società dei due finanzieri, la Luxembourg Investment Company 159, è entrata nella partita Milan sia con strumenti ibridi di debito sia rilevando una piccola quota di Project. In quella fase Project ha solo prestato i soldi a Yonghong Li per comprare il Milan da Silvio Berlusconi (aprile 2017) ottenendo come garanzia lo stesso Milan. Ma poi nel 2018 mister Li finisce i soldi che non aveva e Project passa all’incasso della garanzia diventando proprietaria del club. Dunque già tre anni fa l’assetto ufficiale e formale era Blue Skye al 51% circa (cioè 6001 azioni) e l’hedge fund di Singer al 49% (5.999) della società che controllerà il Milan.

Il pegno nel Delaware. Però il 10 aprile 2017 (tre giorni prima del closing Berlusconi-Li) spunta un «security agreement» firmato dai due italiani con gli americani, in base al quale Blue Skye dava in pegno alla società King George del Delaware, controllata da Elliott, gran parte della sua quota: circa il 46%. Sarà questa operazione, presumibilmente ancora in piedi, che ha autorizzato Elliott a far credere di avere il controllo del 95% (49% effettivo più 46% in pegno) del Milan? Possibile sia una delle componenti, ma avere titoli in garanzia non significa averne la proprietà.

Il documento di Elliott: abbiamo il 49%. Il secondo documento è una comunicazione obbligatoria imposta dalle più recenti norme antiriciclaggio e antiterrorismo in base alle quali le società lussemburghesi devono individuare e rendere noti i beneficiari effettivi, cioè chi sta in cima alla catena proprietaria. Così il 16 settembre scorso Project Redblack ha comunicato che il fondatore e gran capo di Elliott, Paul Singer, 76 anni, residente negli Usa è il beneficiario effettivo e quindi titolare del 49% del capitale (49,99% per l’esattezza). Lo è in quanto proprietario del fondo Elliott che gestisce patrimoni per conto terzi. Salvatore Cerchione, 49 anni, residente ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi (e precedentemente a Ibiza) è il titolare di poco più del 25% (25,0042%), così come Gianluca D’Avanzo, 45 anni, residente oggi nel Regno Unito ma fino a non molto tempo fa a Magdalenka Mazowieckie, paesino polacco di 2 mila abitanti. Anche in questo caso Elliott risulta in minoranza.

Elliott mette i soldi ma Blue Skye ha la maggioranza. Se analoga comunicazione fosse fatta oggi dal Milan la fotografia sarebbe la stessa. E dunque Cerchione e D’Avanzo hanno la maggioranza del club. Ciò detto, è indiscutibile che una serie di prerogative di governance e gran parte dei soldi siano di Elliott, denaro proveniente dal patrimonio (41 miliardi di dollari complessivamente) gestito per conto dei suoi clienti istituzionali (fondi pensione, enti pubblici, fondazioni, grandi famiglie, stati federali Usa ecc). Quindi è tutto molto strano. Non si capisce perché Elliott abbia sborsato centinaia di milioni per sostenere e valorizzare un’azienda, dovendone rispondere ai propri investitori, senza prendersi la maggioranza assoluta, e stop. Il fondo avrà tutti i contratti, i collaterali, i pegni, le clausole, gli strumenti di debito e ogni forma di garanzia e tutela ma i motivi per cui Cerchione e D’Avanzo abbiano pur sempre due azioni, due sole azioni in più, resta un rebus rossonero.

C'erano un presidente, un cinese e due napoletani. Report Rai PUNTATA DEL 23/11/2020 di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi. Chi è il vero proprietario del Milan? Se lo sono chiesto in tanti da quando Silvio Berlusconi l'ha venduto. Dopo la parabola misteriosa del cinese Mr Lì, oggi tutti parlano del Fondo Elliott ma in realtà i titolari effettivi delle società lussemburghesi che controllano il Milan sono due consiglieri di amministrazione del club rossonero, Gianluca D'Avanzo e Salvatore Cerchione. Report lo scopre perché l'ultima direttiva antiriciclaggio, voluta dall'Europa, impone a ogni paese membro un registro dei beneficiari finali delle operazioni fatte dalle società e questo al di là di accordi privati, tra soci o azionisti per la governance di una società. Mentre l'Italia non ha ancora il suo registro, il Lussemburgo si è da poco adeguato alla normativa ed è lì che leggiamo chi sono i nuovi titolari effettivi del Milan, almeno sulla carta, con una quota di poco superiore al 50%.

“C’ERANO UN PRESIDENTE, UN CINESE, DUE NAPOLETANI” di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi immagini di Giovanni De Faveri – Alfredo Farina, Davide Fonda - Fabio Martinelli montaggio di Luca Mariani.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO É il 17 ottobre 2020. Il giorno del derby a Milano, al tempo del Covid. Contro ogni regola per il distanziamento sociale le tifoserie del Milan e dell'Inter si danno appuntamento sotto lo stadio in attesa dei loro beniamini. Gli interisti da una parte. E i milanisti dall'altra. La curva sud del Milan si dà appuntamento in via Tesio davanti al ristorante la Barchetta. É proprio dove, le due società, Inter e Milan, vorrebbero costruire il nuovo stadio mandando in pensione San Siro, la Scala del calcio, dopo il duomo uno dei simboli della città.

GABRIELLA BRUSCHI – COMITATO SAN SIRO Su questo prato, su questo prato…

LUCA CHIANCA Alle spalle del vecchio Meazza…

GABRIELLA BRUSCHI – COMITATO SAN SIRO Sì proprio a ridosso delle case, secondo il progetto che hanno mostrato a 30 metri dalle case qua, inclinato lungo questa strada, è un oggetto che è alto come un palazzo di 10 piani, queste case sono alte 6,7 piani al massimo, quindi sarebbero molto più alte di queste case, per circa 200 metri.

LUCA CHIANCA Lei abita lì se ci fosse lo stadio dietro di lei potrebbe dare una mano a prendere i palloni dare una mano se serve qualcosa negli spogliatoi, no?

GABRIELLA BRUSCHI – COMITATO SAN SIRO Ma certo, come no? Asciugare il sudore ai giocatori!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO C’era una volta un presidente, un cinese e due napoletani; sembra l’inizio di una barzelletta, non lo è. Parliamo della squadra che in Italia nell’ambito del calcio ha vinto più titoli internazionali. Il Milan. Ecco, un po’ tutti si sono chiesti da quando Berlusconi l’ha venduto, chi è il reale proprietario del Milan. La risposta arriva in un colpaccio giornalistico del nostro Luca Chianca. L’ha scoperto attraverso delle carte lussemburghesi. E sono Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo. Chi sono questi due imprenditori napoletani? Le loro figure sono un po’ avvolte dal mistero, dal riservo. Loro, possiamo dirlo tranquillamente, sono i professionisti della finanza dell’offshore. Una volta hanno una basa in Polonia, un’altra volta a Ibiza, un’altra volta in Lussemburgo, poi anche a Londra. Ma come sono diventati i proprietari del Milan e soprattutto come hanno cominciato la loro carriera di successo di imprenditori? Ecco qui dobbiamo riavvolgere la pellicola di 10 anni e arrivare in una operazione fallimentare della sanità campana. C’erano i privati che avevano maturato crediti con la sanità pubblica, i due finanzieri di presentano e dicono datemi i vostri crediti. Ve li pago io. Ovviamente a prezzi stracciati. Poi i due finanzieri apolidi dell’offshore si presentano all’incasso con la sanità pubblica. Ovviamente facendosi pagare gli interessi. Ecco in quel contesto là, la sanità pubblica campana ha dovuto immettere tantissima liquidità che di fatto ha bloccato le assunzioni di infermieri e medici. Ora dalle carte inedite lussemburghesi il nostro Luca Chianca ha scoperto chi sono gli effettivi proprietari del Milan: una società che è in trattativa per realizzare un mega progetto immobiliare che prevede anche la costruzione dello stadio. Ora trattano con il comune di Milano che però non sa che loro sono gli effettivi proprietari.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I progetti presentati dalle società sono due: la cattedrale dello studio Populous e quello degli anelli di Milano a firma del Consorzio Sportium. Entrambi prevedono di costruire qui, in questo prato, alle spalle di San Siro che dovrà in parte essere demolito. Un anno fa, l'amministratore delegato dell'Inter Alessandro Antonello e il Presidente del Milan Paolo Scaroni presentano i progetti al Politecnico di Milano.

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN Un grande evento, una sala con 200 e più persone, c'era naturalmente il rettore del politecnico padrone di casa ma anche supporter del nostro progetto e questo m'ha fatto molto piacere.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il politecnico di Milano, tempio sacro del sapere, fa da consulente alle squadre ma dopo la presentazione dei progetti all'università il Rettore Ferruccio Resta è andato anche in consiglio comunale per chiarire la posizione dell'ateneo: contrario al recupero del vecchio stadio.

FERRUCCIO RESTA - RETTORE POLITECNICO DI MILANO Mancano i volumi, mancano le dotazioni per rendere accessibile lo stadio, mancano anche tutta una serie di interventi per la sicurezza che sarebbe completamente impattante da stravolgere poi il concept del Meazza stesso, e soprattutto bisogna tener conto di tutti i costi di manutenzione pensando anche al fine vita delle strutture.

BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE GRUPPO MILANO IN COMUNE Cioè noi abbiamo avuto uno che si presentava come un'immagine terza ma in realtà era consulente di una delle due parti e infatti ha confermato che si dovesse necessariamente fare…

LUCA CHIANCA Costruire un nuovo stadio.

BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE GRUPPO MILANO IN COMUNE Costruire un nuovo stadio. É chiaro che dentro il Politecnico per fortuna è un'istituzione valida nella nostra città ci sono degli altri architetti, degli altri professori che dicono che questo stadio può essere tranquillamente recuperato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra questi, chi la pensa diversamente dal suo Rettore è l'ingegnere Aceti professore di Tecnica delle Costruzioni proprio al Politecnico di Milano. Con un collega ha realizzato un altro progetto. L’obiettivo è quello di recuperare il vecchio Meazza, trasformando il terzo anello con una galleria panoramica.

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO In questi volumi si possono collocare spazi polifunzionali quali spazi commerciali, ristoranti, musei, spazi sportivi, negozi di vario genere.

LUCA CHIANCA Costo di un progetto del genere?

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO Circa 250 milioni di euro che comprende anche una riqualificazione e un ammodernamento degli anelli sottostanti.

LUCA CHIANCA Nel progetto delle squadre solo lo stadio quanto verrebbe?

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO 600 milioni di euro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quando ha finito di scrivere il progetto, Aceti lo propone alle squadre.

RICCARDO ACETI - PROFESSORE DI TECNICA DELLE COSTRUZIONI POLITECNICO DI MILANO Le squadre dopo due giorni hanno risposto che la soluzione non era da loro sposabile e che quindi secondo i loro obiettivi era necessario procedere con una nuova costruzione.

DA SKY TG24 DEL 10/10/2019 PAOLO SCARONI Non c'è una lira di denaro pubblico, investiamo 1 miliardo e 200 milioni di euro, però naturalmente i nostri azionisti per investire 1 miliardo e 200 milioni di euro vogliono tempi certi, situazione diciamo non nebulose, e vogliono quella chiarezza che gli investitori internazionali ritengono necessarie prima di investire queste cifre.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO GRAFICA Ma per costruire quello che vogliono le società c'è bisogno di cambiare l'indice edificatorio che ad oggi, da piano regolatore, non supera lo 0,35. Basta guardare i bilanci del Milan per capire quanto sia importante poter costruire. Da quando Berlusconi lo ha venduto ci sono state perdite per 500 milioni di euro. Dunque il progetto immobiliare di cui lo stadio è solo una parte, potrebbe essere la manna dal cielo per rilanciare la società.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO É chiaro che chi propone ha i suoi obiettivi di redditività, ha i suoi obiettivi di risultato, chi dall'altra parte deve avallare deve vedere che l'interesse pubblico sia rispettato.

LUCA CHIANCA sposta qui Si accoglie perché sennò non sta in piedi l'operazione?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Si accoglie perché l'operazione deve avere una sua economicità.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così i vari uffici del comune di Milano iniziano a lavorare per capire se c'è l'interesse pubblico sul nuovo distretto dello sport di San Siro voluto dalle squadre di calcio.

BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE MILANO IN COMUNE Lì i diversi uffici del comune hanno presentato tutti delle proposte che dicevano: questo non va bene, questo non va bene, questo non va bene. Se uno lo legge avrebbe detto, a questo punto non gli diciamo che c'è l'interesse pubblico.

LUCA CHIANCA E invece? BASILIO RIZZO - GRUPPO CONSILIARE MILANO IN COMUNE E invece miracolosamente non si può escludere la possibilità di dare l'interesse pubblico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La giunta comunale riconosce il pubblico interesse. Ma pone ben 16 condizioni. Una su tutte, obbliga le società a dichiarare i titolari effettivi, e cioè i reali proprietari. Le società rispondono “va bene”, ma solo dopo che l’operazione va in porto. Anche perché questo prevede la legge italiana.

DAVID GENTILI – PRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA COMUNE DI MILANO Dicono: i contraenti della futura concessione saranno nuove entità costituite ad hoc dai club, dimmeli subito non c'è bisogno che aspetti di costituire una società, nel momento stesso in cui tratto, io devo sapere con chi sto trattando. Con il rischio più volte paventato che soprattutto il fondo Elliott una volta messa la firma abbia già qualcuno a cui rivendere quei diritti.

LUCA CHIANCA Con chi tratta però la pubblica amministrazione?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Io oggi ho un proponente che il MILAN AC che è una società di diritto italiano che è ad oggi, non è interdetta dall'esercizio dell’attività amministrativa e dell'altra parte ho la FC internazionale spa.

LUCA CHIANCA Ma lei è in grado di dirmi che il reale proprietario del Milan? Oggi?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO La procedura prevede che io lo faccia oggi? No.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Io so cosa dice la legge e cosa dice anche la Banca d'Italia, addirittura nel 2018 ha emanato le istruzioni sulla comunicazione delle operazioni sospette da parte della pubblica amministrazione. Soprattutto questa a mio parere: il soggetto a cui è riferita l'operazione è caratterizzato da strutture societarie opache... Se è chiara non segnala, se opaca segnala.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO É questa la fotografia del retrobottega della società che in questo momento sta dialogando con il comune di Milano per la realizzazione del mega progetto immobiliare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il retrobottega, lo abbiamo visto, è un po’ ingarbugliato. Ora ci sono due progetti immobiliari da realizzare; ne va scelto ovviamente uno. Ci sono due società: Inter e Milan e il presidente del Milan Scaroni dice: attenzione, ci sono degli investitori che sono pronti a mettere sul piatto un miliardo e 200 milioni. Sono tutti soldi privati. È vero. Però qua ci sono dei terreni e delle concessioni pubbliche che devono essere rilasciate in base al presupposto d’interesse pubblico. Scaroni dice gli investitori vogliono tempi certi di realizzazione e nessuna situazione nebulosa. Meraviglioso, ma il Milan quale situazione di chiarezza offre in questo momento? Nella delibera del comune che pone alla base l’interesse pubblico, che riconosce l’interesse pubblico, chiede, pone delle condizioni. Una è: mi dite società quali saranno i titolari della concessione pubblica? Loro, le società, rispondono va bene, te lo diciamo ma solo in sede di gara. Ecco questo è quello che prevede la legge: cioè la legge prevede che il comune di Milano in una fase come questa di trattativa, possa trattare con qualcuno che ha il burqa. Ecco, una situazione nebulosa che però accompagna il Milan dal 2016, da quando cioè Berlusconi decide di vendere il suo gioiello. È un momento di difficoltà per le casse del Milan, ma anche per le società della famiglia Berlusconi. Fininvest deve parare l’attacco, della scalata di Vivendi a Mediaset. La provvidenza arriva nei panni di un cinese. Un cinese, Mister Li, residente a Hong Kong che porta milioni di euro dai paradisi fiscali. Alla fine Fininvest incasserà circa 740 milioni di euro. La maggior parte dei quali a provenienza ignota.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO É il 9 maggio del 2018 allo Stadio Olimpico c'è Juventus-Milan, finale di Coppa Italia.

LUCA CHIANCA Senatore, Chianca di Report, come sta? Oggi è una grande giornata eh per lei...

ADRIANO GALLIANI – AMMINISTRATORE DELEGATO AC MILAN 1986-2017 Sì.

LUCA CHIANCA Pronostico?

ADRIANO GALLIANI – AMMINISTRATORE DELEGATO AC MILAN 1986-2017 Non faccio mai pronostici.

LUCA CHIANCA Del suo vecchio Milan.

ADRIANO GALLIANI – AMMINISTRATORE DELEGATO AC MILAN 1986-2017 Sono rimasto scaramantico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dalla Cina arriva Yonghong Li. Il nuovo presidente della società rossonera che in un solo anno ha portato in finale il Milan. Mr Li, cinese della provincia del Guangdong ma residente a Hong Kong è arrivato avvolto da una nuvola di società offshore che nel solo 2016 ha consentito a Fininvest di ridurre l'indebitamento bancario da 275 milioni di euro a 25 milioni di euro.

LI YONGHONG – PRESIDENTE AC MILAN Forza Milan.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il Milan lo presenta alla stampa come il socio di maggioranza della più imponente miniera di fosforo della Cina. Ma a rompere l’incantesimo è il New York Times.

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Siamo andati presso la sede della sua società, quello che abbiamo trovato è un ufficio abbandonato con un avviso di sfratto appiccicato all'ingresso e addirittura i vermi nei cestini dell'immondizia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Eccole le immagini in esclusiva degli uffici della società girate da Ryan McMorrow per il New York Times.

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Insomma, voglio dire, questa è la società che ha comprato il Milan! Abbiamo chiesto in giro, nessuno ha mai saputo chi fosse questo Yonghong Li.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mister Li ha cercato a più riprese di rassicurare i suoi tifosi.

LI YONGHONG – PRESIDENTE AC MILAN Dal giorno in cui ho comprato il Milan ho incontrato molte difficoltà e ho subito pressioni senza precedenti, stando a questi documenti e irresponsabili servizi giornalistici. Vorrei tranquillizzare l'ambiente intorno alla squadra. La situazione relativa le mie risorse personali è completamente sana.

MARIO GEREVINI – GIORNALISTA - CORRIERE DELLA SERA In Cina mister Li ha avuto seri problemi con una delle sue holding, una di quelle che ha presentato sul tavolo della trattativa…

LUCA CHIANCA Come curriculum, no? Per prendere il Milan…

MARIO GEREVINI – GIORNALISTA - CORRIERE DELLA SERA …come credenziale. Solo che questa holding mentre lui stava comprando il Milan, era già in gravi difficoltà, aveva i creditori alle costole perché non aveva rimborsato dei debiti e alla fine è fallita...

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Mi chiedo chi abbia fatto la due diligence sulle società di Mister Li. Ammesso che ce ne sia stata una!

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ad affiancare Fininvest nella vendita c'è la banca d'affari Lazard, mentre mister Li lo ha seguito la Rothschild Italia. Vicepresidente a Londra è Paolo Scaroni, ex Eni, da sempre vicino al cavaliere. E dopo la vendita Scaroni diventa prima consigliere d'amministrazione e poi presidente del Milan, ma nessuno sembra aver registrato la criticità sulla solidità finanziaria di mister Li che con un patrimonio stimato di 500 milioni ha fatto un'operazione da oltre 700 milioni. Quando La famiglia Berlusconi vende il Milan al cinese, lo vende a una società dal nome “Rossoneri Sport Investment” che ha la sede in Lussemburgo, in questo palazzo.

LUCA CHIANCA Cercavo la Rossoneri Sport Investment.

RECEPTIONIST Qui c'è solo il domicilio fiscale, non ci sono fisicamente gli uffici.

LUCA CHIANCA Non c'è nessuno con cui parlare?

RECEPTIONIST Non è possibile parlare con nessuno, mi dispiace.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per acquistare il il Milan entrano 740 milioni nelle casse della Fininvest. La prima caparra di 100 milioni per bloccare l’operazione risale all’agosto del 2016. A dicembre dello stesso anno arrivano altri 100 milioni dalla Willy Shine delle British Virgin Island, a febbraio 2017 altri 100 milioni, di cui 50 dalla Rossoneri Advance sempre nel paradiso fiscale delle BVI. Dopo aver dato i primi 300 milioni per l'acquisto del Milan, il cinese ha difficoltà a saldare il conto a Fininvest che in quel momento è sotto attacco per la scalata ostile di Vivendi su Mediaset. La provvidenza per le aziende di famiglia di Berlusconi, ma anche per mister Li, veste i panni del fondo Elliott che presta al cinese 303 milioni di euro.

SUI-LEE WEE – CORRISPONDENTE PECHINO – THE NEW YORK TIMES Quello che sembra molto strano dell'acquisizione è anche il prestito che il fondo Elliott ha finanziato, ufficialmente per evitare le restrizioni del governo cinese per le fughe di capitali. Ma i tassi di interesse sono molto alti, intorno all'11%.

MARIO GEREVINI – GIORNALISTA – CORRIERE DELLA SERA Nella partita Milan, Elliott dà una mano al cinese e indirettamente alla Fininvest, cioè indirettamente permette dopo due anni di tira e molla, che si chiuda l’operazione Milan.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mister Li, per ottenere il prestito però è costretto a dare in pegno tutte le azioni del Milan. In caso di mancata restituzione Elliott sarebbe diventato il proprietario del Milan, pagandolo la metà del prezzo di vendita. I registi dell'ingresso del fondo Elliott nel Milan, sono due finanzieri, Gianluca D'Avanzo e Salvatore Cerchione. Oggi siedono entrambi nel consiglio di amministrazione del Milan. Hanno base a Londra e le società da cui dipende il club rossonero le hanno piazzate in Lussemburgo. Quando al cinese subentra il fondo Elliott viene costituita la società Project Redblack, partecipata a sua volta da due anonime del Delaware e da un'altra lussemburghese, la Blue Skye di D’Avanzo e Cerchione.

UOMO Blue Skye non l'ho mai sentita qua.

LUCA CHIANCA Project Redblack? UOMO Sei sicuro che sia qua?

LUCA CHIANCA Sì. LUCA CHIANCA Gianluca D'Avanzo e Salvatore Cerchione?

UOMO Di sicuro non ci sono italiani che io sappia.

LUCA CHIANCA La Project Redblack è la società veicolo che ha acquistato il Milan, quindi tu… mai sentito nulla?

UOMO No, purtroppo no.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO – DA GIRARE NUOVAMENTE Questa project ha dato alla sport che poi ha girato ovviamente anche al Milan la bellezza di 403 milioni di euro.

LUCA CHIANCA Teoricamente però sarà il Fondo Elliott a darli.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO - Ma chi lo sa? Tutti scrivono che c'è sto fondo Elliott, io vedo che dietro una catena societaria lussemburghese ci sono delle società del Delaware però la dichiarazione della controllante del Milan è che la maggioranza non è di Elliott, la maggioranza è di Salvatore Cerchione e Gianluca d'Avanzo.

LUCA CHIANCA Che sono i consiglieri di amministrazione del Milan.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO - Sì ma sono i proprietari, sono i titolari effettivi. Il vero tema è da dove arrivano i soldi? Non si può sapere perché con queste costruzioni offshore sono fatte apposta per non mostrare soprattutto la provenienza dei fondi.

LUCA CHIANCA Però lei tratta con queste scatole lussemburghesi quando va a trattare con il Milan.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Non è vero dai…

LUCA CHIANCA Come no?

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Perché oggi ho davanti a me due spa italiane.

LUCA CHIANCA Il comune di Milano sta parlando con società di cui non sappiamo nulla. E lei si nasconde, tra virgolette, dietro al fatto che lei mi dice, è un spa italiana.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Io cosa dovrei fare come amministrazione dovrei dirle, no io con voi non parlo perché voi potreste avere alle spalle dei capitali di un certo tipo e allora io faccio la vezzosa dico non vi parlo insieme. No dice guarda se tu non ci parli insieme noi ricorriamo al tar e ci devi parlare per forza, la legge dello stato italiano è questa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È vero, finché non si chiude l'accordo di concessione tra il comune e le società per il nuovo stadio di Milano non c'è l'obbligo di dichiarare il titolare effettivo, ma la pubblica amministrazione anche durante la fase della trattativa ha un ruolo ben definito dalla normativa. GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma se nelle more il pubblico amministratore sospetta o ha ragionevoli motivi per sospettare che sia in corso un'operazione di riciclaggio tra cui anche la presenza di titolari effettivi non credibili deve segnalare l'operazione sospetta.

LUCA CHIANCA In questo caso siamo di fronte a titolari effettivi credibili o non credibili?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO - ESPERTO DI RICICLAGGIO Allora io non lo so, magari sono miliardari questi signori in euro o in dollari io non li conosco, non so chi siano. La valutazione la deve fare chi è preposto a questa valutazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Report, lunedì scorso, aveva anticipato che i proprietari effettivi del Milan, sono Cerchione e D’Avanzo, come riporta il registro dei titolari effettivi delle imprese in Lussemburgo. Qualche giorno dopo invece una non ben identificata fonte del Fondo Elliot fa trapelare attraverso un Ansa che Elliott sarebbe proprietaria del 96% del Milan.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Non è vero. Se così fosse tutti gli amministratori di tutte le società lussemburghesi di questa infinita catena hanno detto il falso nei pubblici registri lussemburghesi. LUCA CHIANCA Perché il falso?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Perché le dichiarazioni che hanno fatto al pubblico registro dei titolari effettivi sono per la proprietà di D’Avanzo e Cerchione al 51% circa e 49% ce l’ha l’americano.

 LUCA CHIANCA Titolare effettivo è l’ultimo beneficiario di qualsiasi operazione che fa quella società?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO E l’ultimo beneficiario indipendentemente dal fatto che abbia le azioni, abbia le quote, abbia i contratti.

LUCA CHIANCA Abbia i soldi…

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Gli accordi, poi i soldi è irrilevante il fatto che uno ci mette i soldi sarà creditore ma non è mica socio se ci mette i soldi.

LUCA CHIANCA Che problemi hanno a dichiarare quello che hanno dichiarato a un pubblico registro?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Diciamo che la dichiarazione al pubblico registro che mostra quello che si vede poi fa sorgere delle perplessità, ma come mai questi due giovanotti hanno la maggioranza del Milan?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come mai? Bisognerebbe capire che cosa che è successo quando, nel 2016 Berlusconi ha venduto. Intanto è stato scelto un cinese, Mr. Li, residente a Hong Kong, un patrimonio stimato di circa 500 milioni di euro, è proprietario di miniere di fosforo, ma quando lui entra nell’affare Milan, che è quotato circa 740 milioni di euro, le sue hodling sono già in crisi. Il new York Times quando va nella sua sede, ad un certo punto, trova nei cestini dell’immondizia i vermi, si chiede: ma qualcuno la due diligence sul cinese l’ha fatta? Ora a accompagnare nella vendita Fininvest è stata la banca d’affari Lazard. Mentre invece ad accompagnare Mr. Li, l’ha scelto lui stesso, è stata banca Rothschild Italia. Vice presidente Rothschild a Londra, Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan. Anche in rappresentanza del fondo Elliott. Elliott che ha avuto un ruolo importante in tutta questa vicenda perché quando il cinese non aveva più la possibilità di pagare l’ultima rata, l’ultima tranche, quella da 303 milioni di euro li presta Elliott. Elliott che chiede al cinese in cambio le sue quote del Milan. Ma i veri registri di questa operazione che di fatto porta soldi freschi nelle casse di Fininvest che è sotto attaco, che ha sotto attacco Mediaset, per via della scalata di Vivendi, sono due imprenditori napoletani: Cerchione e D’Avanzo. Dalle carte lussemburghesi emerge che sono loro i proprietari del Milan, lo dichiarano loro stessi, ecco. Detengono attraverso Blue Skye, poco più del 50 per cento delle quote della Project Red Black, la società che a sua volta controlla la Rossoneri Sport Investment, la società usata dal cinese per acquistare il Milan che a sua volta controlla il Milan. Cerchione e D’Avanzo hanno come soci nella Project anche due società anonime del Delaware. Ecco chi sono Cerchione e D’Avanzo? Intanto potremmo definirli due angeli custodi perché hanno salvato il Milan in qualche modo e anche Fininvest indirettamente che aveva Mediaset sotto attacco nella scalata di Vivendi. E poi hanno anche salvato la memoria di Hemingway a Venezia: vedremo chi è il nome tutelare du questa memoria. E poi si sono infilati in un’operazione finanziaria dove i protagonisti erano il privato e il pubblico della sanità campana.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I proprietari del Milan, Gianluca D’Avanzo e Salvatore Cerchione, sono nati a Napoli. Ed è qui che ha origine la loro ascesa nel mondo finanziario. Uno dei primi investimenti è nella società Beta Skye srl che a partire dal 2006 acquista circa 12 milioni di euro di crediti che vantano alcune strutture accreditate presso il servizio sanitario della regione Campania. Il problema dei mancati pagamenti in Campania si protrae per anni fino a scoppiare nel 2012 coinvolgendo anche le farmacie.

ENZO SANTAGADA - PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI FARMACISTI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI Sì decidemmo lo sciopero della fame. Questo era il mio letto io la sera allestivo con delle lenzuola e un cuscino.

LUCA CHIANCA Lei ha dormito qui per quanti giorni esattamente?

ENZO SANTAGADA - PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI FARMACISTI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI Per 11 giorni, 11 giorni io ricordo benissimo qui era testa, qui mettevo i piedi.

LUCA CHIANCA Senza mangiare.

ENZO SANTAGADA - PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI FARMACISTI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI Senza mangiare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Pierpaolo Polizzi rappresenta un comparto da 700 milioni che all'epoca aveva ritardi di pagamento fino a 3 anni.

PIERPAOLO POLIZZI, PRESIDENTE ASPAT Le Asl non pagavano più e quindi noi eravamo costretti a prendere le nostre fatture mensili e portarle alle finanziarie che acquistavano questi nostri crediti attraverso una cessione del credito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E qui compare la Beta Skye di Cerchione e D'Avanzo. Si presentano come salvatori della patria perché immettono liquidità, ma lo fanno pagando le fatture agli imprenditori della sanità privata circa il 30% in meno con commissioni altissime facendosi però rimborsare dalla regione l'intera cifra dovuta più gli interessi maturati.

PIERPAOLO POLIZZI, PRESIDENTE ASPAT Infatti gran parte di quelle aziende che hanno ceduto crediti alle finanziarie in particolare a Beta Skye hanno subito dei default gravissimi e ovviamente trascurando alcune partire come la questione dei contributi, siamo stati tutti quanti portati in tribunale dallo stesso stato che non ci paga. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Polizzi negli anni aveva accumulato migliaia di euro di interessi per i mancati pagamenti della Regione e quando il giudice li ha riconosciuti ormai erano già nella pancia di Beta skye ma lui prova a chiederli ugualmente.

PIERPAOLO POLIZZI, PRESIDENTE ASPAT E Beta Skye mi buttarono la porta in faccia dicendomi che quella somma era di assoluta loro pertinenza erano tutti soldi loro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A mettere fine a questa vicenda arriva solo dopo molti anni di latitanza la politica.

STEFANO CALDORO – PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA 2010-2015 I tribunali davano torto alla regione e garantivano gli interessi degli intermediari finanziari allora come bisognava bloccare questo sistema? Avere liquidità e fare le transazioni, non vi pagheremo più a due anni ma a 60,90 giorni e ci riuscimmo.

LUCA CHIANCA Ci furono tagli sulla sanità pubblica?

STEFANO CALDORO – PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA 2010-2015 I tagli sono stati sugli organici, medici e infermieri andavano in pensione e noi non potevamo riassumere questa è stata la grande colpa di circa 20 anni di politica sanitaria in Italia.

LUCA CHIANCA Oggi li stiamo pagando anche con il Covid?

STEFANO CALDORO – PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA 2010-2015 Ma non c'è dubbio.

PIERPAOLO POLIZZI - PRESIDENTE ASPAT Se faccia rabbia che con i soldi nostri e chissà di quante altre situazioni loro hanno fatto i loro bravi investimenti queste sono cose che…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I due finanzieri del Milan sembrano specializzati nei salvataggi. Sono intervenuti per tirare fuori dai guai anche il prestigioso bar di Hemingway, l'Harry’s di Venezia, della famiglia Cipriani quando nel 2012, rischiava di chiudere i battenti. Ed è per questo che nel 2018 eravamo andati a cercarli al C di Londra nel quartiere di Mayfair dove avevano la loro base.

LUCA CHIANCA Cercavo D'Avanzo o Cerchione.

DIPENDENTE C LONDON Eh guardi, vieni dentro. Facciamo uno alla volta. Gianluca e Salvatore non saprei vado a vedere. Non ci sono. Avevate un appuntamento qui? No?

LUCA CHIANCA No, li sto cercando dall'Italia però non rispondono alle email e non so come fare.

DIPENDENTE C LONDON Ah ok, ma posso aiutarvi io?

LUCA CHIANCA Mi sto occupando della vendita del Milan, volevo sentire loro.

DIPENDENTE C LONDON Sì, io posso sentirli nel pomeriggio. E vedo se vi chiamano?

LUCA CHIANCA E Giuseppe Cipriani?

DIPENDENTE C LONDON Giuseppe ha appena aperto a Riad, quindi probabilmente è là. Tra pochissimo sarà a Ibiza per l’estate.

LUCA CHIANCA Dove c'è la Minetti che è la sua compagna.

DIPENDENTE C LONDON Esattamente.

LUCA CHIANCA Mi chiama lei? DIPENDENTE C LONDON Io la chiamo comunque.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ovviamente non ci hanno richiamato. Giuseppe Cipriani, nel 2018 è il compagno di Nicole Minetti, l'ex consigliera regionale della Lombardia, condannata in cassazione per favoreggiamento della prostituzione per il suo ruolo nelle feste del bunga-bunga di Berlusconi. Dopo la parentesi nel parlamentino lombardo, come abbiamo appreso dal suo profilo Instagram, è passata alla passione per la musica, tra New York, Milano e Ibiza. Leggendo il curriculum di Cerchione e D’avanzo emergono i contatti con il mondo berlusconiano: i due sono stati legati a doppio filo con la finanziaria Sopaf, dove c’era l’uomo che per 31 anni ha guidato il Milan: Adriano Galliani. LUCA CHIANCA Dietro al fondo Elliott chi c'è? I due napoletani di Londra lei li conosce? É stato in Sopaf una società che ha fondato la Blue Skye che è la loro società. Lei li conosce D'Avanzo e Cerchione? Senatore, senatore.

LUCA CHIANCA Presidente, posso disturbarla?

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA Sono Chianca di Report.

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN Eh appunto.

LUCA CHIANCA Eh…

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA Ci facciamo una chiacchiera…

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA Mi può spiegare solo il ruolo di Cerchione e D'Avanzo. Mi dia una mano a ricostruire un po' i passaggi lei ha un ruolo nel fondo Elliott.

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN No.

LUCA CHIANCA C’è D’avanzo, Cerchione…perchè non mi rilasciate un’intervista anche sul ruolo del fondo Elliott, presidente. Non mi dice nulla eh? Presidente…

SALVATORE CERCHIONE Hello.

LUCA CHIANCA Cerchione buongiorno sono Chianca di Report disturbo?

SALVATORE CERCHIONE Hello?

LUCA CHIANCA Cerchione? Dottore, mi sente?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E niente non c’è nulla da fare, nessuno vuole parlare con noi. Comunque Cerchione e D’Avanzo che fanno parte anche del consiglio di amministrazione del Milan, lo hanno dichiarato loro stessi: detengono poco più del 50 per cento delle quote della società che controlla a cascata il Milan. Ora questo però l’hanno detto in Lussemburgo. Perché l’hanno detto in Lussemburgo? Perché lì nel gennaio del 2019 è stato… facendo propria una direttiva europea, una normativa di antiricilaggio, hanno istituito il registro dei titolari delle società, delle quote effettive delle società, sia quelle della capitale che quelle giuridiche. Di persona. E questo l’hanno dovuto fare perché superano la quota del 25 per cento a testa, e altrimenti sarebbero andati incontro ad una multa fino a un milione e 250 mila euro. Ecco, il Lussemburgo che non brilla certo per trasparenza ha istituito il registro. Ora noi che cosa abbiamo fatto? Quando abbiamo anticipato la notizia che i proprietari del Milan erano loro, l’altra settimana, è uscita fuori un’Ansa, un’agenzia che ha ripreso la nota di un fantomatico rappresentante del fondo Elliott che ha detto: no, il Milan è di Elliott del 96 per cento. Ora chi è che dice la verità? Qui in italia non possiamo saperlo perchè l’Italia non ha ancora istituito il registro dei titolari delle imprese. E dunque delle due l’ una: o Cerchione e D’Avanzo hanno mentito a uno stato o l’hanno fatto i soci di Elliott. Ecco insomma vedremo. Quello che però è certo è che la loro società, la società di Cerchione e D’Avanzo Blue Skye, nasce da Sopaf, Sopaf che era la società, la finanziaria di Giorgio Magnoni, l’imprenditore. Nel cda c’era anche Adriano Galliani. 31 anni con Berlusconi. Forse giusto Berlusconi potrà dirci come stanno effettivamente le cose. Chi è che ha giudicato più attendibile di lui al punto di cedergli il suo gioiello. Potrebbe anche chiedere informazioni al presidente del Milan Paolo Scaroni, ex Eni,suo amico, colui che ha condiviso le politiche sul gas del suo amico Putin. Ora Cerchione e D’Avanzo ed Elliott sono anche i protagonisti di un’altra vicenda, riguarda l’azienda delle matite Fila. I manager, i proprietari sono Massimo Candela e sua sorella Simona. Ad un certo punto nel 2018 i due sono un po’ in contrasto tra loro, Simona Candela decide di vendere le sua quote. E chi se le compra? Insomma… indovinate un po’? Sempre una Project. Questa volta non è la RedBlack, ma sempre una Project. Project e cosa?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Come si chiama la società che controlla la società che controlla il Milan?

LUCA CHIANCA La Project, e anche qui abbiamo una Project che non è redblack ma Pencil.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Chi sono gli ideatori?

LUCA CHIANCA Sempre loro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sempre dal Lussemburgo, questa volta con la Project Pencil, Cerchione e d’Avanzo hanno acquistato le quote di una società italiana che controlla un'importante azienda di matite, la Fila. A vendergli le quote è la signora Simona Candela, che con il fratello Massimo è la proprietaria della Fila. A gestire la compravendita è l'avvocato Alfredo Craca, anche lui consigliere d'amministrazione del Milan, contemporaneamente il legale di chi compra e di chi vende.

LUCA CHIANCA è un po' anomalo.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Lei faccia le valutazioni che crede io non posso evidentemente su questo sindacare.

LUCA CHIANCA Ma è vero o no? Sto dicendo una cosa sbagliata è vero o no che lei è l'avvocato del compratore e del venditore.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Io non posso e non intendo rendere delle dichiarazioni in rispetto a delle attività che ho svolto come professionista.

LUCA CHIANCA Questa cosa di Ginevra, conti correnti tutti dentro la stessa banca.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Senta ma ancora, le ho risposto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I 50 milioni utilizzati per entrare in Fila sono stati spostati all'interno della stessa banca. È la Rothshild di Ginevra dove hanno i conti sia le società di D'Avanzo e Cerchione, che quella della signora Candela. 10 milioni come anticipo e 40 milioni a saldo. Ma anche in questa operazione entra in gioco Elliott. Il fondo americano attraverso due società offshore presta ben 20 milioni. Ma dopo 5 giorni le stesse cifre rientrano a chi le aveva prestate, cioè al Fondo Elliott e la Blue Sky dei due finanzieri. Quello che non si capisce dai pochi bilanci a disposizione è da dove arrivano i 40 milioni del saldo che tornano indietro creando un'operazione di fatto a saldo zero.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Tirano i 40, riprendono 40 punto. Il problema è nella società italiana cosa è rimasto?

LUCA CHIANCA Che operazione è questa?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma chi lo sa, è un progetto. Guarda per esempio la Project Pencil quand'è che restituisce i 40 milioni? Nel 2018 e l'ultimo bilancio depositato qual è?

LUCA CHIANCA 17.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello dei 40 milioni che escono e rientrano è un mistero. L’ennesimo dopo quello della compravendita del Milan. L’unico che potrebbe spiegarcelo è l’uno e trino avvocato Craca. È nel cda del Milan, è il legale dei proprietari del Milan Cerchione e D’Avanzo, che comprano anche le quote della fila, ed è il legale di chi le vende, Simona Candela.

LUCA CHIANCA Però me la spiega l'operazione fatta in Svizzera?

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Scusi ma io sono un professionista rivolgetevi alle parti se avete qualcosa da chiedere ma non sono certamente io…

LUCA CHIANCA Chiedo a Lei che ha gestito tutta l'operazione per conto dei suoi clienti.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Ma io sono un professionista non posso certamente mettermi a rendere a terzi informazioni.

LUCA CHIANCA Com'è possibile chiedere un prestito di 40 milioni e avere la restituzione di quei soldi in 5 giorni.

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Forse non sono stato chiaro, lei non mi vuole ascoltare.

LUCA CHIANCA Io l'ascolto ma gradirei delle risposte, le chiedo solo i soldi la Candela li ha visti o no, ce li ha o no questi 40 milioni?

ALFREDO CRACA – AVVOCATO E CONSIGLIERE AMMINISTRAZIONE AC MILAN Senta se lei non mi vuole ascoltare nelle risposte che le sto dando e continuiamo a fare questo rimpiattino, la saluto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello che scopriamo dalle carte è che l'assessore al bilancio di Milano Tasca, che segue anche la partita dello Stadio, due mesi prima l'insediamento dell'avvocato Craca nel cda del Milan, è intervenuto con una consulenza tecnica nella controversia civile che vede scontrarsi Massimo Candela, la sorella Simona, coinvolgendo anche la società lussemburghese riconducibile a D'Avanzo e Cerchione.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Quando io prendo quella consulenza Craca non è consigliere del Milan, quindi per me è un avvocato come quanti di quelli con cui lavoravo prima.

LUCA CHIANCA Però uno dei due è già dentro.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Chi? LUCA CHIANCA Cerchione mi sembra che già fosse dentro il Milan.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Ma lei mi sta citando delle persone che non ho mai incontrato in vita mia, io ho un incarico che mi è stato dato e l’unica persona che ho incontrato di quella vicenda è la signora Candela.

LUCA CHIANCA Craca fa l'avvocato per la signora Candela, fa l'avvocato in quelle cause per i due consiglieri d'amministrazione del Milan Cerchione e D'Avanzo quindi diciamo lì è quasi un tutt'uno difficile distinguere.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Io non è che ho detto che non conosco Alfredo Craca eh, mi sembra un tema fuori discussione. Le ho detto anche io che conosco Marco Patuano che un altro consigliere, le ho dato io anche un'informazione in più.

LUCA CHIANCA Ma guardi neanche di Craca è nota questa sua amicizia che è avvocato di altri due consiglieri di amministrazione del Milan e stanno lì nel consiglio di amministrazione del Milan per volontà del fondo Elliott che è dietro anche a l'operazione immobiliare dello stadio.

ROBERTO TASCA – ASSESSORE BILANCIO COMUNE DI MILANO Scusi che cosa sta sostenendo che mi faccio influenzare dalla presenza di Patuano e Craca all’interno del Milan, allora posso dirle una cosa noi non vediamo neanche il derby insieme perché litighiamo, quindi succede spesso che dopo il derby io vada a cena con Patuano, è un mio amico da 25 anni non ho nessuna intenzione di cambiare le mie relazioni personali per qualsiasi illazione lei possa fare a proposito.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Noi crediamo all’assessore Tasca. È una persona, è un amministratore specchiato. Poi è interista, deve trattare per la sua squadra del cuore che però pure là, il 30 della proprietà è nell’offshore. È lo stato che però deve aiutare gli amministratori bravi come lui. Come? Aumentando la trasparenza. Qui l’assessore al bilancio e al demanio Tasca sta trattando con una società, il Milan, per l’autorizzazione di un progetto immobiliare importantissimo e deve rilasciare un terreno con delle concessioni pubbliche. E non sa chi ha l’effettiva proprietà. Ora perché non lo sa? Perché in Italia non è stato istituito il registro dei titolari effettivi delle imprese. Questa era una normativa che rientrava nella direttiva comunitaria contro il riciclaggio, lo spirito era quello di rendere la vita più difficile ai criminali, ai terroristi, anche semplicemente agli evasori che volevano riciclare del denaro per comprarsi pezzi di un paese che hanno contribuito a fiaccare. Ora questo registro avrebbe aiutato i professionisti, i notai, i commercialisti, le banche, le assicurazioni, i semplici imprenditori, oltre che le autorità giudiziarie e quelle che contribuiscono a recuperare l’evaso. Ma questo registro che doveva essere istituito a luglio del 2020, il ministero dell’Economia e delle Finanze e il ministero dello Sviluppo Economico si sono dimenticati di istituirlo. Ecco, ministro Patuanelli e ministro Gualtieri, vi prego istituitelo subito questo registro, prima che pezzi del nostro paese, fiaccati anche nell’economia dal Covid, finiscano nelle mani sbagliate.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 23 novembre 2020. Una vita da tifoso, anni di fatica e botte e vinci casomai cinque Champions League, otto scudetti e altrettanti Palloni d' Oro. Sempre lì, lì in tribuna, finché ce ne hai stai lì. Adriano Galliani ha 76 anni, è senatore della Repubblica e un sacco di altre cose ma non ha ancora terminato la benzina. A differenza del mediano di fatica celebrato dalla canzone di Luciano Ligabue, non è «uno che finisce presto». In compenso, quando ha la palla tra i piedi, fa le cose in fretta. Un anno per portare il Milan allo scudetto e due alla Champions. Due anni per traghettare il Monza dalla serie C alla A, traguardo mai raggiunto dalla squadra brianzola nei suoi 108 anni di vita; se tutto andrà bene e la stagione si concluderà con la promozione, è la premessa, ma non ce n' è uno tra quanti bazzicano il calcio disposto a scommettere che non finirà così. Bando alla scaramanzia, neppure l' interessato, che garantisce di «aver approntato una squadra in grado di centrare l' obiettivo», fissato ufficialmente dal presidente Berlusconi, con il quale Galliani forma la coppia più vincente e duratura del pallone italiano.

E se casomai l' anno prossimo il Monza facesse gol al Milan, i tifosi rossoneri vedranno un' esultanza sfrenata alla Galliani o i festeggiamenti sobri dell' ex?

«Non ci casco. Il Milan è nel mio cuore in una maniera pazzesca. Ma le confesso questo: quando iniziai a lavorare con Berlusconi, il primo novembre 1979, nelle tv e non nel calcio, gli diedi la mia disponibilità giorno e notte, ma gli posi una condizione: poter seguire il Monza, di cui ero vicepresidente. Lui mi guardò come se fossi pazzo e acconsentì».

Mi ha risposto.

«Esulto nello stesso modo quando segna il Milan e quando lo fa il Monza, da sempre».

Troppo diplomatico.

«Se sono arrivato al Milan lo devo al Monza. Berlusconi mi ha scelto per il calcio perché sono stato vicepresidente dei brianzoli dal 1975 all' 85, quasi sempre in B Monza».

Con il Covid è ancora calcio?

«Non è più quello di prima. Le partite hanno meno intensità e i valori sono alterati. Il calcio non è solo tecnica, ma anche emotività. Alcuni calciatori, senza i tifosi, si spengono e rendono la metà mentre altri, che si fanno intimorire dai fischi, ora giocano meglio. E poi è saltato il fattore campo, il che ha conseguenze importanti nelle coppe».

La serie A ha già perso 600 milioni, il Barcellona perde 5 milioni al giorno: il virus rischia di far fallire il calcio?

«Il calcio non fallirà, ma molte squadre potrebbero fallire perché il sistema ha avuto una contrazione dei ricavi di quasi il 25%, e non è finita. Mancano del tutto gli introiti dei biglietti, si riducono le entrate che arrivano dagli sponsor e dalla vendita di magliette e prodotti legati alla squadra e poi rischiano di venir meno molti soldi delle tv».

Come se ne esce?

«Il calcio è la quinta industria del Paese, il governo dovrebbe trattarlo come le altre aziende colpite dalla pandemia».

Soldi sui conti correnti come se le squadre fossero delle pizzerie?

«No, però almeno una dilazione delle imposte e crediti fiscali a chi sponsorizzano società sportive mi sembrano il minimo sindacale».

Improbabile. Non ci sono i soldi per i poveri e aiutiamo i milionari. Già mi vedo le proteste.

«Il calcio non è solo serie A. A primavera il 75% dei professionisti della C era in cassa integrazione. Significa che tre su quattro guadagnano meno di 50mila euro l' anno. Basta con il pauperismo d' accatto, siamo un settore dell' economia come gli altri, i calciatori sono lavoratori dipendenti con contratti a termine».

E stipendi da 60 milioni di euro l' anno.

«Quello è solo Cristiano Ronaldo, che però paga allo Stato 28 milioni di euro di tasse, spende in Italia, consuma in Italia. Chi porta i Ronaldo fa un favore al Paese, i ricchi fanno bene all' economia».

Non sarebbe il caso che i calciatori si tagliassero i lucrosi ingaggi per non affossare la barca che li rende ricchi?

«Il taglio non può essere imposto dalla Lega o dalla Federazione, perché si parla di rapporti di lavoro tra privati e nessuno ha diritto di intervenire. Sta alla società e al singolo calciatore. Certo, qualche sacrifico economico non guasterebbe».

Giacché parliamo di soldi, di chi è il Milan?

«Ho visto il servizio di Report, su Rai3, che insinuava dubbi sulla proprietà. L' ennesimo tentativo di colpire Silvio, anche a costo di infangare il Milan. Come quando insinuarono che la vendita ai cinesi fosse un' operazione per ripulire i quattrini di Berlusconi, facendoli rientrare dall' estero».

Non mi ha risposto.

«Il Milan appartiene per il 96% al fondo americano di gestione di investimenti Elliott e per il rimanente 4% a Blue Sky, la società creata dai due finanzieri napoletani che lavorano nella City londinese, Salvatore Cerchione e Luca D' Avanzo: l' hanno acquistato dal cinese Yonghong Li, un' operazione ultra trasparente, controllata e verificata più volte».

Da osservatore esterno: il Milan può vincere lo scudetto?

«Io non sono un osservatore esterno, sono pazzo del Milan. Non è che se sei amministratore delegato non sei scatenato come il più infervorato degli ultras. Ripeto: quest' anno il campionato è una lotteria, vince chi ha meno Covid. Ogni giorno è un bollettino di guerra».

La Juve sembra indebolita rispetto al passato, perde punti.

«Con Ronaldo in campo avrebbe battuto sia Crotone sia Verona. Pirlo è un predestinato. Quest' estate, dopo averlo visto in panchina con l' Under 23 bianconera, gli dissi che sarebbe diventato l' allenatore della prima squadra. Tre giorni dopo gli è arrivato l' incarico. Deve fare il suo esercizio, ma ha talento, sa tutto del calcio e si applica. Non fallirà».

È il suo rimpianto Pirlo, ceduto troppo presto e alla più forte?

«Prima di cederlo l' abbiamo preso dall' Inter e tenuto dieci anni. È vero, l' abbiamo dato troppo presto, ma i veri rimpianti sono altri».

La finale persa con il Liverpool a Istanbul nel 2005, suppongo?

«Partita incredibile, che abbiamo dominato tranne per i sei minuti in cui ci hanno fatto tre gol, i quali peraltro sarebbero stati inutili se l' arbitro non avesse annullato, per un fuorigioco inesistente, una rete di Sheva, al quale poi il portiere inglese ha parato con la testa una bomba da due metri. Però è una partita secca, può capitare. Istanbul è solo il secondo grande rimpianto, anche perché ci siamo rifatti due anni dopo, quando meritava il Liverpool ma abbiamo vinto noi con un gol di schiena di Inzaghi».

I gol di Inzaghi non sono mai casuali.

«Pippo me lo dice ogni volta che in realtà ha pilotato la palla. Io gli rispondo: sì tesoro, bravo».

Qual è il rimpianto vero?

«Il gol, regolarissimo, annullato a Muntari in Milan-Juve del febbraio 2012. Avremmo vinto il secondo scudetto consecutivo con Allegri e sarebbe cambiata la storia».

Capisco che è prima di ogni cosa un tifoso, ma non è da lei prendersela con gli arbitraggi.

«Nel calcio ci sono episodi che possono cambiare la storia di un club per due o tre anni. Se quel pomeriggio dell' ottobre '88 a Belgrado non fosse scesa la nebbia, non avremmo vinto la prima Coppa dei Campioni di Berlusconi e non sarebbe partita la nostra leggenda».

Questo non lo pensa davvero.

«Penso che avremmo vinto tanto, ma non in quel modo. Il ciclo sarebbe stato ritardato».

E cosa sarebbe cambiato se l' arbitro Tagliavento avesse convalidato il gol di Muntari?

«Avremmo vinto lo scudetto, non avremmo ceduto Ibrahimovic e Thiago Silva, due campioni che, a distanza di nove anni, ancora giocano ai massimi livelli. Saremmo potuti ripartire con il quarto grande Milan; soprattutto se mi avessero lasciato concludere l' acquisto di Tevez. Se fosse andata come dico io magari non avremmo venduto e forse oggi saremmo ancora lì. Invece Carlito l' ha preso la Juve, che con lui ha vinto tre scudetti di fila».

Ma allora anche l' Inter di Ronaldo, nel 1998, se gli arbitri Ceccarini, Rodomonti, Cesari? «Ok, lei è interista. Comunque sì: se avesse vinto quello scudetto, l' Inter avrebbe potuto aprire un ciclo».

Mi definisca i tre grandi Milan.

«Gli immortali di Sacchi, gli invincibili di Capello e i meravigliosi di Ancelotti».

Il suo 11 rossonero ideale?

«Impossibile dirlo, abbiamo avuto troppi campioni. Le posso dire però che il più grande di tutti è stato Marco Van Basten».

Per questo l' ha spuntata su Sacchi, che è dovuto emigrare?

«Ahahahahahaha. Questo non me lo può mettere in bocca».

E Ibra, non è così forte?

«È un giocatore immenso».

Non ha mai vinto il Pallone d' oro...

«È rimasto incastrato nel dualismo Ronaldo-Messi. Era difficile entrare in questa logica. E poi bisogna vincere la Champions».

L' ultima italiana a vincerla è stata l' Inter, che ora sulla carta è la più forte, ha l' allenatore più pagato ma non ingrana.

«È tutto ancora da vedere».

Che giocatore italiano le piace oggi?

«A parte Gigio Donnarumma, che è stratosferico, dico Locatelli, che era nostro e ora è a Sassuolo. Per me è uno dei più forti centrocampisti in Europa; molto completo, imposta e ruba palla».

Estratto della prefazione di Gabriele Romagnoli al libro Pasolini- il mio calcio pubblicata da La Repubblica l'11 novembre 2020. Pier Paolo Pasolini e il calcio: storia di un amore grande, insolito e chiacchierato. Come ogni cosa sua, un po' fuori dal tempo, sempre avanti e di lato. Mai sopra: dentro. L' intellettuale in campo. Con lo sguardo partecipe, il sopracciglio disteso, il taccuino aperto. Ecco, dimenticatevi il saggio di Eco su Mike Bongiorno del 1961. Pasolini non si siede per osservare, si mischia per capire. Dirà che il calcio è un linguaggio, i giocatori ne sono i cifratori e gli spettatori, i tifosi, i decifratori. E lui? In che ruolo si è espresso? Questi nove articoli, sei di suo pugno e tre interviste, usciti tra il 1956 e il 1975, sono una piccola grande antologia, un discorso aperto. Al termine del Reportage sul Dio , uscito sul Giorno nel 1963, Pasolini suggerì di lasciare il personaggio «sulla vetta nell' illusione che tutto ciò gli spetti, che sia duraturo ». E noi ci congederemo da lui così, lasciandolo interprete e profeta, calciatore e metacalciatore, fonema e traduttore di quel discorso amoroso che è il gioco. (...) Come i fuoriclasse che esprime, il calcio ha una natura difficile da cogliere, fermare, addomesticare. Scorrendo le pagine di Pasolini troviamo queste possibili definizioni: «È uno sport più un gioco», «è un sistema di segni, quindi un linguaggio», «è un concetto », «è un oppiaceo terapeutico», «è una rappresentazione sacra, l' ultimo grande rito». Tutte queste cose si possono tenere insieme per accumulazione? La risposta è sì, ma in un solo luogo: lo sguardo di Pasolini. Un diverso occhio non coglierebbe l' una o l' altra e sarebbe inutile insistere. C' è chi percepisce il gioco, chi afferra il concetto, chi partecipa al rito. Solo l' esperienza multiforme di Pasolini poteva cogliere tutti gli aspetti in un sol colpo. È come se davanti a un solido qualcuno ne vedesse alcune facce e lui l' intera complessità. La sua osservazione percorre ogni lato. A cominciare dal campo, inevitabilmente di periferia, dove scende come giocatore. Molte foto ce lo restituiscono con una maglia semplice, attillata, le maniche lunghe, i risvolti una riga controcolorata, pantaloncini corti, calzettoni abbassati alle caviglie. È un' ala destra e questo già vuol dire: mettersi di lato, lavorare di fantasia, cercare il senso per porgerlo ad altri, vanificarsi, infine farsi del male, annientarsi. Non ha fatto in tempo a riflettere sul potenziale autodistruttivo dell' ala destra, dilettante o professionista, da George Best a Gigi Meroni. E sul suo progressivo imborghesimento dopo gli anni Ottanta: con Causio, Sala, Conti sono finiti la poesia, il dribbling, la bestemmia contro la liturgia preconfezionata dall' allenatore. Con il dovuto rispetto, è bene gli sia stata risparmiata la linearità di Candreva. Ma Pasolini conosceva bene anche altri due ambienti fondamentali: il bar e lo stadio. Il primo si è dissolto, ma era il forum di quei tempi, la chat dove oggi si celebrano risse virtuali. Lì si concepivano i neologismi e i soprannomi. Scaltri giornalisti li riportavano come invenzioni proprie, ma erano gli anonimi del sublime accanto alla cassa dei gelati a partorirle. (...) Ogni frase ha la sua parola chiave che la illumina. Al punto che "parola chiave" (ormai universalmente "password") è diventata la combinazione per le vere casseforti delle nostre esistenze. In un fraseggio a cui partecipano ventidue "podemi" la parola chiave è il campione, quello che svia il flusso del discorso, lo accende di nuovo e imprevisto significato. Mai per inciso, mai avverbio, giunge per solito al fondo, come conclusione. Il portiere è uno stentato avvio o una mancanza finale provocata dall' assenza d' intervento. Gli altri son mediani costruttori, sfarfallanti terzini, aggettivanti mezze ali. Il campione è il fine/la fine del discorso. Se riuscita, in forma di gol. Pasolini ne ricostruisce il linguaggio e la natura. Bisogna ricordarsi che per lui i calciatori parlano con i piedi (come per Soriano con i piedi pensavano). Quando porterà il suo microfono davanti alle loro labbra nei famosi Comizi d' amore sarà per chiedere ai giocatori del Bologna delle loro abitudini sessuali, non certo della disposizione a giocare in attacco o di rimessa. Di fronte a Giacomo Bulgarelli sembrò avere una visione. «Come avesse incontrato Gesù Cristo», racconterà Sergio Citti, uno dei suoi attori di fiducia. Gli propose addirittura di recitare per lui nei Racconti di Canterbury . Invano. Gli occhi cerulei di Bulgarelli erano fissi sul pallone. Pasolini vedeva altro e altro sentiva. Per lui il capitano del Bologna era letteratura pura. Scriverà nel 1971 che «Bulgarelli gioca un calcio in prosa: è un "prosatore realista"». Così come Rivera è un «prosatore poetico» e Riva un «poeta realista». La poesia si connette invariabilmente al gol: è «invenzione, sovversione del codice, folgorazione ». Il campione è colui che ha questa capacità: illuminato dall' alto, crea, strappa, rimodella, riscrive la storia a modo suo. Questa sua grandezza gli è tanto familiare quanto incontrollabile. È lei a possederlo, non viceversa. Potrebbe apparire una visione idealizzata, non fosse che a Pasolini è chiaro il percorso umano, fin troppo umano, il terriccio con cui è composta e da cui prende vita questa creatura destinata al sovrumano per elezione popolare. Si forgia nelle periferie di tutto il mondo, è fatta della materia dei sogni. Quali? I sogni di riscatto di tutta quella «gioventù incastrata in una piccola sacca del destino » mossa, sentite, annotate, ricordate questa frase: «da quell' ideale, tutto sommato televisivo, della felicità sessuale». Era il 1963 e già Pasolini individuava le caratteristiche non dei re, ma dei tronisti del calcio. 

Massimo Raffaeli per “il Venerdì - la Repubblica” il 30 novembre 2020. I suoi non erano dribbling ma pases de tango, i segni fisiognomici, i capelli arruffati, gli occhi scuri e adusti o persino torvi nella incandescenza del gioco non richiamavano i tratti di un calciatore ma quelli piuttosto di un espada insolente e protervo: il gesto più caratteristico dell' oriundo argentino Enrique Omar Sivori (1935-2005) era peraltro il tunnel, cioè la palla fatta passare tra le gambe di un avversario, con cui irrideva gli arcigni difensori di un tempo, i quali ricambiavano mirando alle sue caviglie nude perché lui, quasi a volerli adescare provocandoli, giocava con il calzettoni perennemente abbassati. Aveva come si dice un piede solo, il sinistro, che tuttavia sapeva usare come un pennello prodigioso (una volta riuscì a segnare, nell' acquivento di San Siro, alzandolo dalla pozzanghera in cui era sprofondato), portava la classica maglia numero 10 dei padreterni del centrocampo ma non aveva un ruolo ben definito perché in effetti giocava da punta truccata, sbucando in area all' improvviso e colpendo con la perfida malignità di un aspide (e un' altra volta, davanti alla porta vuota, aspettò il ritorno di due difensori per dribblarli di nuovo e poi depositare il pallone con ineffabile impassibilità). Non si è mai veramente allenato in vita sua, le sue passioni erano i suoi stessi vizi, dunque whisky, poker e la musica di Carlos Gardel: ombroso, egocentrico, continuava a ribollire in lui la veemenza del peronista di sinistra, l' autentico descamisado che era stato da ragazzo, insieme con una dolcezza e una generosità del tutto introverse che però riaffioravano di colpo come quando, già gravemente malato, nel febbraio del 2004 volò da Buenos Aires a Leeds per l' estremo saluto a John Charles, ex centravanti della Juventus detto "il gigante buono", di cui aveva ammirato non solo la potenza squassante ma il profilo del gentiluomo da cui, senza battere ciglio, aveva accettato due sberle plateali mentre stava per scalciare l' arbitro durante un turbolento Juve-Sampdoria. Di tutto questo, e a specchio di un personale romanzo di formazione, tratta il volume biografico di Andrea Bosco Omar Sivori. L' angelo con la faccia sporca (prefazione di Italo Cucci, postfazione di Gino Stacchini, Minerva Edizioni, pp. 186, euro) dove la passione del tifoso, con i suoi ineluttabili moti nostalgici, è comunque mediata da una informazione di prima mano e da una scrittura nitida. Il sottotitolo viene da trio cara sucia, "angeli dalla faccia sporca", così nel 1957 chiamano gli assi giovanissimi dell' Argentina campione del Sudamerica, tre oriundi che in quella stessa estate, comperati a cifre folli, trasvolano nella terra degli avi: Humberto Maschio, di origini pavesi, che in campo è un mite Toscanini finisce al Bologna, Antonio Valentin Angelillo all' Inter, avi lucani e volitante profilo di goleador, infine Sivori, di ascendenti liguri e abruzzesi, dal River Plate passa alla Juventus. Qui, intorno a lui e a Charles, viene costruita una magnifica squadra dove Sivori sfavilla ma stenta ad accettare il carisma e il potere di Giampiero Boniperti, calciatore di classe nitidissima, che invece è l' uomo della ditta, rispettato e ascoltato dal club di cui un giorno diverrà presidente. Sivori resta otto anni alla Juve e il suo tabellino è eloquente, 215 partite e 135 gol, vince tre campionati ma colleziona per le sue intemperanze qualcosa come 9 espulsioni e 33 giornate di squalifica. Gioca in maniera ditirambica ma va a fasi alterne, tanto che la Juventus chiama ad allenarlo il suo vecchio maestro al River, Renato Cesarini, peraltro suo complice in quelle passioni che sono i suoi stessi vizi. Nel 1961, l' anno apicale, il settimanale France Football gli assegna il Pallone d' oro, massimo riconoscimento continentale, definendolo un footballeur de rêve, un calciatore da sogno. Con la maglia stavolta della nazionale italiana partecipa nel' '62, tra le polemiche, alla sventurata spedizione ai Mondiali del Cile, e anche alla Juve, come capita di dire a Gianni Agnelli, non è più concepito come un genio ma oramai come un "vizio". Per liquidarlo e metterlo alla porta, viene assunto in panchina un ex sottufficiale dell' esercito paraguayano, Heriberto Herrera, ("un ginnasiarca senza fantasia", lo battezza Italo Cucci), maniaco della preparazione atletica e del controllo del peso, nemico giurato dei fuoriclasse e di quanti pretendano sottrarsi agli schemi di gioco e ad un pressing ubiquitario che egli chiama movimiento. l' allevatore nel pallone Fatto sta che, accolto da una folla in delirio alla stazione di Mergellina, Sivori passa al Napoli di Achille Lauro e, vicino al grande intramontabile José Altafini, spende nei residui tre campionati gli spiccioli della sua classe sovrana. Ma nell' anno che più gli assomiglia e ne commemora gli estri, il 1968, questo autentico Battista di Diego Armando Maradona smette con il gioco del calcio e torna in Argentina. Vive da ricco allevatore nella nativa San Nicolàs de los Arroyos perché la carriera di Commissario tecnico della nazionale albiceleste (pare che con i giocatori fosse, per contrappasso, più inflessibile del vecchio nemico Heriberto) gli viene affossata dalla destra peronista di ritorno al potere. Negli anni della dittatura militare si rinchiude, a parte i ritorni in Italia per le comparsate alla Domenica Sportiva dove, al solito pungente, affianca l' amico Sandro Ciotti. Torna un' ultima volta nell' estate del 2004, a Senigallia, per l' inaugurazione di un monumento dedicato a Renato Cesarini. Lì, qualcuno del pubblico gli si avvicina porgendogli per un autografo copia del bellissimo romanzo di Salvatore Bruno, L' allenatore (1963, suoi sponsor, allora, Geno Pampaloni e Cesare Garboli), quasi un romanzo dell' artista da tifoso che gli è espressamente dedicato: Sivori guarda la dedica sorpreso, perplesso, poi aggiunge con un sorriso di grande tenerezza Mah io allora non leggevo uscivo, mi vedevo con Renato Cesarini, facevo altro…

Luciana Grosso per it.businessinsider.com il 28 ottobre 2020. All’età di 74 anni e 125 giorni, l’egiziano Ezzeldin Bahader, è il calciatore più anziano del mondo, superando il record dell’israeliano Isaak Hayik (portiere che ha giocato fino a 73 anni). Milita nella serie C egiziana e Bahader non ha una lunga storia di calcio alle spalle, anzi, è un neofita: ha giocato la sua seconda partita completa solo lo scorso 6 ottobre. “Non limitare le tue ambizioni”, ha detto Bahader ai giornalisti dopo la partita. “Se c’è qualcosa che non puoi ottenere da giovane, nella tua giovinezza, con una forte volontà, puoi ottenerlo in qualsiasi momento, indipendentemente dall’età e dal tempo trascorso”.

Dino Messina per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. Vittorio Feltri, giornalista a 360 gradi, in questo Ritratti di campioni. Cronache di un giornalista tifoso (Mondadori) racconta le sue passioni sportive. L' occasione gliel' ha data il direttore di «Tuttosport» Xavier Jacobelli, invitandolo a comporre una galleria di personaggi secondo il suo originale estro. Ne sono nati 29 cammei sui protagonisti degli sport più diversi in cui il filo conduttore è un trentesimo personaggio: Feltri medesimo, da Bergamo, che è tifoso dell' Atalanta, ma anche e ancor prima della Fiorentina; in gioventù ha tirato di scherma e ricordando il suo maestro Egidio Mazzucconi ancora gli vengono i lucciconi agli occhi; ama i cavalli, ha praticato l' equitazione ed è stato proprietario di purosangue. Ma si interessa anche di ciclismo, motociclismo, nuoto, sci quando i campioni si chiamano Felice Gimondi, Valentino Rossi, Federica Pellegrini, Alberto Tomba. Icone italiane più che semplici campioni sportivi. Oltre alla personalità dell' autore nelle pagine aleggia la presenza di Gianni Brera, il più grande dei cronisti sportivi, che Feltri omaggia sin dalle pagine iniziali e poi con tante citazioni, ma senza scimmiottarlo, mantenendo il suo stile di guascone del giornalismo. Come sappiamo, Vittorio Feltri è un bergamasco che si è fatto da solo, lavorando sodo e facendo scelte controcorrente. Nessuna meraviglia che il volume si apra con il ritratto di Antonio Percassi, il patron dell' Atalanta, nato a Clusone in Val Seriana, che dopo una breve carriera da calciatore, dignitosa, ma non entusiasmante, si è ritirato a 26 anni nell' azienda del padre per fare quel che gli riusciva meglio: l' imprenditore. Attivo nel settore edilizio, Percassi ha acquisito importanti marchi dell' abbigliamento, ma il suo capolavoro, scrive Feltri, è l' Atalanta, un club calcistico gestito con grande oculatezza che ha raggiunto utili di tutto rispetto, se la gioca alla pari con le grandi dei campionati in Italia e in Europa e ha un vivaio che sforna talenti. L' autore svela che Percassi è stato a un passo da entrare in società con lui nella proprietà di «Libero», ma la prudenza l' ha spinto a tirarsi indietro. Tra i proprietari di club cui viene dedicato un irriverente ritratto c' è Rocco Commisso, il proprietario della Fiorentina succeduto ai fratelli Della Valle. Con la sua stazza da Denny De Vito e la sua parlata broccolina, in realtà Commisso è uno straordinario imprenditore nato a Gioiosa Jonica in Calabria, emigrato a 12 anni negli Stati Uniti senza conoscere una parola di inglese. Laureato in ingegneria industriale, Commisso grazie soprattutto alle tv via cavo ha messo assieme un patrimonio da 4,8 miliardi di dollari. Traguardi che hanno portano nelle classifiche di «Forbes» l' uomo che gioca a interpretare la parte del provinciale che realizza un sogno giovanile. L'altro patron ritratto da Feltri è Urbano Cairo, di cui Feltri loda le doti imprenditoriali senza mancare di sottolinearne il tratto parsimonioso e vantandosi di avergli suggerito di ingaggiare il campione Andrea Belotti, simbolo del Toro. Al centro del libro naturalmente ci sono i giocatori. Uno su tutti, Gianni Rivera, con cui l' autore fece il servizio militare a Orvieto nel 1964, quando Rivera a 21 anni era già Rivera, l'«eroe gentile» che danzava con il pallone definito dal ruvido Brera «l' abatino». In realtà di campioni di quella classe si è perso lo stampo. L'unico che per classe gli poteva essere paragonato è stato Roberto Baggio, «l' ultimo calciatore italiano ad averci fatto impazzire», anche se nel ricordo viene associato, lui maestro di arti balistiche, a uno dei pochi errori, il rigore sbagliato nella finale con il Brasile ai mondiali Usa del 1994. Tra i ritratti di allenatori spicca il contrasto tra le due filosofie di Claudio Ranieri, uno che ha saputo vincere la Premier League inglese con la cenerentola Leicester, e Antonio Conte, al quale, circa le mancate vittorie in Champions League con la Juventus, si attribuisce questa frase: «Un cliente con dieci euro non può sedersi a un ristorante dove se ne pagano cento». Negli altri sport, il cuore di Feltri batte in modo particolare per il bergamasco campione di ciclismo Felice Gimondi: «I bergamaschi si commuovono per tre cose: Papa Roncalli, l' Atalanta e Gimondi». E per Lanfranco Dettori, il fantino che ha saputo tenere alta una grande tradizione italiana in Inghilterra, Paese diventato patria dell' ippica. E che ha saputo risollevarsi dopo lo scandalo della positività alla cocaina.

Silvio Baldini: un anarchico in panchina. Paolo Lazzari il 14 settembre 2020 su larno.ilgiornale.it. Essere allenatori di una squadra di calcio talvolta è una missione. Un traguardo da raggiungere per appagare la propria sete interiore. Un modo per esplicare al mondo la propria vocazione. Specie se sei un toscano sanguigno. Specie se ti chiami Silvio Baldini. Gli aggettivi per lui si sprecano: irriverente, anarchico, feroce e brusco nei modi, eppure un padre amorevole per i giocatori che ha avuto in dote. “L’allenatore senza stipendio” sembra il titolo di un cinepanettone, ma ha a che fare con la realtà. Un modo di vivere che si protrae da tre anni a questa parte, in quella Carrara che ha cucito sottopelle: un ossimoro vivente infilato dentro ad un mondo imperniato intorno a rinnovi milionari, richieste choc da parte dei procuratori di turno, mani che si sfregano a ripetizione pregustando lauti contratti pluriennali. Nulla di tutto questo per Silvio da Massa, 62 anni, una carriera come una linea parallela rispetto agli aziendalisti, agli “yes man” di turno che popolano il panorama calcistico nazionale. Percorrere la sua vicenda in lungo e in largo assomiglia tanto ad uno di quei viaggi sulle montagne russe con un doppio avvitamento mortale: scendi e non capisci mai se ti è piaciuto un sacco o se te la sei fatta addosso per la paura. L’impressione, comunque, è quella di aver camminato sempre un po’ troppo sul bordo del rischio. Baldini è un genio della tattica ed un motivatore: ovunque va, i suoi ragazzi lo idolatrano. Però ha anche dei vizi: la toscanità che ribolle nelle vene sa essere una compagna talora ilare, talvolta meschina. Il calcione nel didietro del povero Di Carlo – l’unica cosa che si ricorda davvero di uno sbiadito Parma contro Brescia di troppi anni fa – se ne sta ancora lì a testimoniare i nervi più scoperti di un uomo non asservito che, di quando in quando, trascende. Tutta quella rabbia verso il sistema, quel suo dichiararsi sfacciatamente “anarchico”, del resto, ha un contrappeso. Perché Silvio sorride, ma al contempo soffre. Perché il circuito del grande calcio prima lo mastica compiaciuto e poi lo sputa via senza deglutirlo. Arrivi in piazze importanti dopo anni di dura gavetta, ma poi tutto si sfascia. Le tue squadre propongono un calcio offensivo e disinvolto: Brescia, Parma, Catania e via dicendo. Alla gente piace, a te pure, ai giocatori anche. Certo non fate miracoli, ma un piccolo pezzo di magia vi riesce sempre ed è tutto racchiuso nei sorrisi che strappate sugli spalti. Poi si spegne la luce. Per sei lunghi anni tutti si scordano di te. Ti infilano in un cassetto. Solo che sei troppo grosso per starci dentro: scalci e spintoni, com’è tua consuetudine. Vieni fuori e ti riproponi nel modo più assurdo per gli altri: “Allenerò gratis a Carrara“. Un miraggio in mezzo ad un’oasi di rassegnazione, tra agenti tritaemozioni e imberbi che sognano la Ferrari nel vialetto di casa. “Quando smetto mi dedicherò alla natura, non voglio finire in galera”, dice in una conferenza. Perché Silvio Baldini è questo, prendere o lasciare: autentico fino al limite, fuori spartito, tutt’altro che politicamente corretto. Ma è anche così, in fondo, che si diventa un mito.

Giancarlo Dotto per Vanity Fair il 14 novembre 2020. Ventaccio che Dio lo manda. Notte fonda. La luna è una patacca gigante, biondo platino, la testa di Jayne Mansfield schizzata in cielo dopo che si è separata dal corpo. Partono da casa i tre uomini decisi a incontrarsi e, in un certo senso, sfidarsi all’alba. Il Pazzo da raccontare, lo Scriba che lo racconta, l’Ossesso, amico dei due, che li fa conoscere. Il Pazzo, Silvio Baldini, arriva da Marina di Massa. L’Ossesso, Lele Adani, da Reggio Emilia. Lo Scriba, da Roma. Appuntamento allo stadio dei Marmi di Carrara sotto le Alpi Apuane. Dove Michelangelo, altro furioso notevole, si arrampicava a scegliere e fare all’amore con il marmo giusto per le sue statue. Terra di smodati e di anarchici, Carrara. Nell’area antistante il cimitero, il monumento dedicato a Gaetano Bresci, l’anarchico che s’era messo in testa di uccidere a pistolettate re Umberto I e lo uccise davvero. Me lo sento, la prima cosa che mi chiederà Baldini sarà: cosa ti ha spinto a venire fin quassù da me? Il Pazzo Silvio abbraccia l’Ossesso Lele come un fratello. Più di un fratello. “Il giorno in cui dovessi mancare, sarà lui il riferimento dei miei tre figli”. Era un suo giocatore al Brescia, Lele, poi gli ha fatto da vice al Vicenza, prima di decidere che la sua missione era smaniare calcio a Sky. Adani parla di Baldini come il Messia, ma anche il Messi, degli allenatori. Il Marcelo Bielsa italiano. Marcelo Bielsa, detto “el loco”, per restare in tema. “Bielsa a Leeds, come Baldini a Carrara. Hanno trasformato una piazza morta in un covo di passioni. Bielsa ha mandato i suoi giocatori a pulire le gradinate dello stadio. Tre ore di ramazza. I calciatori dovevano condividere la fatica dei tifosi operai”. Silvio ascolta e ha gli occhi lucidi. Si commuove facile, Silvio, anima lirica e feroce. Un cuore enorme in petto e un punteruolo acuminato in tasca per eventuali cattivi incontri, che la vita è la stessa di quando era bambino, una foresta di emozioni forti, di fate e di lupi. Foresta è anche il nome del suo calciatore prediletto. Il Pazzo Silvio mi vede e mi fa: “Ma perché cazzo uno come te è venuto fin quassù da uno come me?”.

LA DOMANDA. È il giorno che deraglia il treno a Lodi. Silvio Baldini, 61 anni, è uno che deraglia da quando è nato. Che fosse pazzo, è cosa nota. Lui, come Pino Daniele, è il primo ad autodenunciarsi. Sente le voci di dentro, come Eduardo. Non si limita a sentirle, obbedisce ciecamente. L’immagine che lo consegna per sempre al catalogo dei fuori di testa: Parma-Catania del 2007, molla in mondovisione un calcio in culo quanto meno irrituale al suo collega, Di Carlo. “Mi aveva offeso con parole e gesti sprezzanti. A distanza di anni, quando m’incontra a Coverciano, finge di non vedermi”.

Baldini non è uno normale. Piovono conferme. Tutte le mattine alle 7 spaccate è lui che apre i cancelli dello stadio dei Marmi. Arriva in tuta col suo pick up, s’infila nella sala mensa, indossa i guanti di lattice e si mette lì a sbucciare e a centrifugare. Rape e mandarini per tutti, ospiti, giocatori e collaboratori. “La rapa aumenta l’ossigeno nel sangue del 22 per cento”. Lo aiuta Davide, un ragazzo di Carrara che arriva in sella a un Harley Davidson. Verosimilmente pazzo anche lui. “Qui a Carrara siamo da sempre abituati al niente, da quando è arrivato Baldini noi tifosi godiamo come ricci”. Lui, Silvio, non gode, ancora rimugina il rospo. Mica la sconfitta 1 a 4 con l’ultima in classifica della domenica prima. No, ce l’ha con Maccarone, suo giocatore da sempre, quarantenne ancora voglioso, un passato che conta tra calcio italiano e inglese, perché dieci giorni prima non aveva festeggiato il rigore della vittoria tirato al 96’ da Tavano, l’altro gioiello attempato di casa, e se n’era andato dritto e nero nello spogliatoio. Voleva tirarlo lui quel rigore. Baldini non lo digerisce il rospo. Lo vive come un fallimento personale. “Dentro di me penso: ma questa vittoria a che serve se te, a 41 anni, non riesci a gioire perché quell’altro ci ha fatto vincere. Sei un mio giocatore da vent’anni. Che cazzo ti ho trasmesso?”. Ma la vera domanda è: perché un grande allenatore, riconosciuto come tale dai suoi colleghi più celebri, a cominciare dall’amico amico Conte, Spalletti e Mancini, decide prima di sparire e poi, tre anni fa, di andare ad allenare gratis la Carrarese, una squadra di serie C? Lui lo chiama “il mio nuovo inizio”. E spiega perché. “Dopo che per sei anni sono andato per monti a cacciare pernici con i pastori siciliani”. Se non lo fai per i soldi, se non lo fai per ambizione, perché lo fai? Come tutti i pazzi naif, lui si lascia martellare il cuore da passioni primordiali. Sanguina a tempo pieno. È il suo genio. Il suo carisma. Comincio a capire perché Lele Adani ne parla come un messia. Baldini è nudo anche quando si veste per la montagna. Soprattutto, quando si veste per la montagna. Tutto lo confessa. Il corpo inquieto, gli occhi forastici ma capaci di lacrime e dolcezze inaudite, le mani, la voce, gli improvvisi silenzi. La mappa delle sue radici. “Non ci potevo più stare dentro il sistema. Me lo impedivano i miei valori, la mia necessità di emozioni. La società di oggi vuole solo vincenti e crea così una generazione di falliti…A un certo punto della mia vita volevo tornare a sognare. Il primo anno era la squadra più debole, ma è stato l’anno più magico, perché sognavamo. Oggi siamo più forti, ma non sogniamo più. E se qualcosa va storto, come domenica, pali, rigori sbagliati, è perché non lo meriti. Io questa cosa la so bene”.

L’ANTEFATTO. Lui questa cosa la sa bene. Sul suo whatsapp l’immagine con la scritta: la famiglia è sacra. Il padre Valentino lavorava nelle cave di marmo. “Era il mio destino. Che altro potevo fare, il bagnino?... Mia nonna aveva visto le due guerre. Alle elementari leggevamo il libro Cuore di De Amicis, la storia della piccola vedetta, la maestra piangeva e noi si piangeva con lei. Oggi le emozioni non ci sono più. Un amico, giorni addietro, mi fa: mi sono fidanzato a Belluno.  Belluno? E che ci fai tu a Belluno? L’ho conosciuta con la chat… Si sono visti, si sono piaciuti, si sono scopati. Dimmi tu, dov’è l’emozione dell’incontro, il brivido della conquista? Così è cresciuto Silvio Baldini, con le favole della nonna, le storie di De Amicis, delle osterie e delle bische, degli uomini che andavano a cavare il marmo e ogni tanto morivano, “perché se ti cade un libro addosso non ti fai niente, ma se ti cade un blocco di marmo….”. 

LA FORESTA. Maccarone e Tavano sono i suoi calciatori storici, ma il suo pupillo è Giovanni Foresta. Un piccolotto riccioluto, lo sguardo devoto. Per Baldini si farebbe squartare e, in un certo senso, si è fatto squartare. Baldini lo chiama “il mio eroe”. “Uno, dieci, dodici Foresta in una squadra e vai in cima al mondo, batti anche la Juve”.

Foresta è la sua emanazione in miniatura. “Sembra un bambino, ma è più duro del marmo. Arrivò da me con la pubalgia. Lo trovai che piangeva nel tunnel dello stadio. Volevano rimandarlo indietro. “Finché ci sono io, ci sei tu”, gli dico. Mesi fa quasi si tronca un piede in partita. Perone, legamenti, la cartilagine. Lo riporto in panchina mesi dopo, ma non sta ancora bene. Stiamo perdendo. “Ha bisogno di me, mister? Prendo un Toradol e gioco”. Questo è Foresta. Uno che guadagna trenta mila euro l’anno, non so se ci arriva. Ma perché uno così non gioca in  serie A? Foresta mi ha dato l’anima. Gli dico sempre: “Giovannino, io devo arrivare a giocare contro la Juve con te capitano”.

LE PREMONIZIONI. Ha le premonizioni da sempre, Baldini. “Mia nonna mi diceva: la vita è la legge del contrappasso”. Mi racconta la storia di Rosy, la sua fidanzata brasiliana. Quasi quarant’anni prima. “L’avevo conosciuta in un night. Rimane incinta. Dovevo sposarla. Tutto già combinato. Tre giorni prima, sento una voce dentro che mi dice: non farlo. Stavo in bisca. Alle tre di notte arriva un amico con mia mamma: la Rosi all’ospedale s’è tagliata le vene. Rosy abortisce a Napoli e torna in Brasile. Sparisce. Conosco Paola, dieci mesi dopo decido di sposarla. Alla vigilia del matrimonio, mi chiama Rosy. Non sapeva del mio matrimonio. “Spero che tu possa soffrire quello che ho sofferto io”, mi maledice. Mia moglie rimane incinta. Le ecografie sono tutte regolari, ma io le dico. “C’è qualcosa che non va per il verso giusto…me lo sento”. Valentina nasce con venti giorni di ritardo. Ha rischiato di morire nella pancia della madre. È una bimba disabile. Doveva campare 6 mesi, oggi ha 33 anni. Disabile al cento per cento. Non parla. Non può stare in piedi. Lo sapevo. L’ho sentito. E sai perché? Ho sempre saputo cos’è il male. Quel bambino avrebbe dovuto nascere, ho tolto a quella ragazza la felicità diventare mamma, ho fatto vincere il mio egoismo e sono stato punito”. Questo è Silvio Baldini. Se c’è la colpa, arriva il castigo. Inesorabile. Non si scappa. “Io so che la mia coscienza deve sempre rendere conto degli atti che compio”. Ha avuto altre due premonizioni opposte prima della nascita degli altri due figli, Mattia e Niccolò. I medici sconsigliavano: “All’ottanta per cento nasce disabile”. “Sapevo che non sarebbe stato così e così non è stato”. “La sconfitta è l’unica cosa che tiene in vita i miei sentimenti. Io la cerco. Me la chiamo…Lo dico sempre ai giocatori: io sono nato sbagliato, ma poi ci ho messo del mio. Quando ho capito che la sconfitta è il dono della mia vita, mi ci tuffo dentro, nelle difficoltà, in tutti i casini. Vuoi saperne un’altra?”.

Voglio saperlo. “A Empoli sto bene. Mi vogliono fare un contratto di cento milioni per cinque anni. All’epoca mi cercavano anche Fiorentina e Napoli. Arriva Zamparini e mi offre due miliardi l’anno per tre anni per andare al Palermo. Penso ai tre figli, mia moglie spinge, e accetto. Un madornale errore. La scelta dei soldi. Finisce il feeling con i sogni. Tradisco me stesso. Perché oggi alleno gratis secondo te? Zero assoluto, neanche un rimborso spese. Con quella scelta finisce tutto. Zamparini, ricco a palate, si sente onnipotente, metteva bocca sulla formazione. Lo insulto. Mi esonera. Mi mandano a allenare il Parma, ma la mia storia di allenatore è finita. Ho capito che dovevo mettermi da parte. Come campo? Me la cavo con i risparmi e i 2.400 euro di pensione. I soldi sono il diavolo. Avevo ceduto l’anima. Anche scopare mi piace, ma non ho mai tradito mia moglie”.

Lele Adani racconta Silvio Baldini: “Mi diede la fascia di capitano al Brescia, nonostante fossi poco più di un ragazzo. Mi ha conquistato definitivamente il giorno in cui, all’alba, mi portò nel bosco dove lui andava a trovare se stesso. Si spogliò, rimase a torso nudo in pieno inverno. Ci abbracciammo. “Non ho bisogno di coprirmi, quando trovo la mia essenza”, mi disse. “Quel giorno diventai uomo”.

LA MONTAGNA. Si alza di scatto. “Sei venuto qui per raccontarmi? Vuoi conoscermi davvero, capire dove nasce la mia ispirazione? Devi venire sulla montagna con me. Ci carica sul suo pick up, me e Lele Adani, e si va su, a picco, quasi a mille metri, tra boschi di castagni e di abeti, dirupi e strapiombi, sentieri di roccia, che nemmeno i muli. E quando penso, spaventato: qui il folle si deve fermare per forza, oltre non può andare, lui va. Si chiama “Monte Pasquilio”. Qua ci venivano a piedi Ungaretti e Montale a cercare silenzio e ispirazione. Dalla sommità, si vedono le Cinque Terre, Capraia e Gorgona, si vede l’Elba e la Corsica. “Qua ci vengo all’alba con i cani. Non si può cacciare, ma a me non me frega niente di sparare. I cani hanno le emozioni. Come te quando scrivi. Me le trasmettono quando fiutano le pernici. Quando sto qui con i miei cani, non ho bisogno di nessuno…Lo vedi quel vecchio lassù, solo soletto?”. Lo vedo. Un vecchio che s’inerpica e sparisce alla nostra vista. Probabilmente sta cercando un luogo giusto per suicidarsi o per ritrovarsi. “Di sicuro, stava parlando con la morte e noi lo abbiamo infastidito. Se porti Mihajlovic e Vialli quassù, loro vedranno le cose cento volte più grandi di come le vediamo noi. Hanno visto la morte e questo ha acuito i loro sensi…Sai qual è il mio vero rammarico?”. Non lo so. “Mia moglie Paola mi ha dato la sua vita. S’è sacrificata per me. Come hai fatto a innamorarti di uno come me che ogni tanto sparisce, le chiedo. “Mi sono innamorata dei tuoi difetti”, mi fa lei. Questo è un peso troppo grande per me…”. Ci porta alla fontana dove i cavatori di marmo mettevano la testa sotto l’acqua gelida per smaltire le sbornie. “Il giorno che porto la Carrarese in serie B, non sto allo stadio con gli altri, vengo qui da solo…Di notte, qua, è ancora più bello.”.

LO SPOGLIATOIO. “La sera vengo qui al buio da solo e dico le mie preghiere. Agli amici, alla famiglia, ai miei calciatori. Li evoco. Gli parlo della vita, del destino. Al cellulare non è la stessa cosa, non è una preghiera. Se io riesco a trasmettere questo, l’allenamento di oggi avrà un senso”. Arrivano i calciatori. Fanno cerchio. Ascoltano a testa bassa il loro strambo messia. Devoti, affascinati, perplessi. “Il destino siamo noi. Il destino vuole che noi portiamo un messaggio in questa vita. Ho portato il giornalista sulla montagna per spiegare questo. Per voi mi farei ammazzare, ma non tutti ci credete. Giocare o non giocare, conta solo questo per voi. Se non vi trasmetto questo, il senso della vita, abbiamo perso ancora prima di giocare. Azzeccare la diagonale è accessorio…”.Li inchioda ore con i suoi sermoni, i giocatori. “Sapete perché ho fatto questo? Il giornalista deve sapere fino a che punto vi posso rompere i coglioni”. Loro ascoltano in silenzio. “Sono bravi ragazzi, ma gli manca la scintilla dentro. Escono da qui e trovano a casa le mogli che parlano del rossetto di Christian Dior o gli amici al bar che parlano del nulla. È questo il mondo del calcio”. È questo Silvio Baldini, che si presenta nell’aula di Coverciano, l’università del pallone, e ai suoi titolati colleghi, invece di parlare di tattica, racconta di Mario, il pastore siciliano che domava il suo cavallo guardandolo negli occhi, di quando sui monti bevevano latte di capra e mangiavano il pane arrostito sul fuoco. “Perché se parlo di possesso palla non aiuto nessuno, ma se parlo di Mario do una speranza a tutti”.

L’ALLENAMENTO. Per spiegare l’importanza del tempo nella scelta del  pressing, Baldini fa vedere ai suoi Mandy Harvey, la ragazza americana sorda,  che canta come un usignolo, scalza, per sentire le vibrazioni della musica attraverso il pavimento. “Io non insegno calcio, insegno vita. Sono nato povero. I miei sono i valori trasmessi da chi ha vissuto le guerre. Se non avessi mia moglie e i figli, sarei già tornato nei monti in Sicilia. Mi piace la vita del pastore. Le tue idee devono essere il tuo coraggio. Troppo facile avere coraggio con le idee degli altri. Qui, in questa vita, non siamo a dipingere un quadro. Noi siamo dentro il quadro”. Maccarone, quarant’anni suonati, spinge come un ossesso, addosso a uno che potrebbe essere suo figlio. Chissà se pensa a Mandy.

Giustizia sportiva solo per fare cassa. Io, avvocato, vi racconto la malagiustizia del calcio. ​La pazienza delle società calcistiche, dei dirigenti, dei calciatori e dei tesserati ha un limite. Anche quella degli avvocati. La Voce di Manduria, sabato 27 giugno 2020. La pazienza delle società calcistiche, dei dirigenti, dei calciatori e dei tesserati ha un limite. Anche quella degli avvocati. Questo limite è stato ampiamente superato dai massimi esponenti della giustizia sportiva pugliese. Non appartengo alla categoria dei pavidi, dei vigliacchi e dei lustrascarpe ed in ogni circostanza mi assumo la responsabilità di ciò che dico mettendoci sempre la faccia. Costi quel che costi. Così, al termine di questa infausta stagione sportiva, ritengo doveroso stilare un resoconto dell’attività svolta dai giudici sportivi pugliesi. I comunicati ufficiali della stagione sportiva 2019/2020 sono stati dei bollettini di guerra. Ammende e multe salatissime per le società, continue e pesanti squalifiche per i calciatori. Un ritratto poco veritiero del movimento dilettantistico pugliese che sembrerebbe animato da indisciplinati e violenti. Queste le risultanze delle decisioni dei giudici sportivi.

Il 96% (!!!) dei reclami di appello avverso le decisioni del Giudice Sportivo sono stati dichiarati inammissibili o respinti dalla Corte Sportiva Territoriale Pugliese. Nemmeno uno accolto! Solo due irrilevanti riduzioni di sanzioni in un’annata. E' possibile che le società non abbiano mai ragione? Non credo proprio! E' un vero e proprio scandalo perché questo ha come stretta conseguenza che la FIGC incameri (oltre alle multe) anche le tasse-reclamo che le società affiliate versano (130 euro per ogni ricorso). In pratica, il Comitato Regionale quest’anno ha trovato un modo alternativo per fare cassa. Altro che aiuti economici e sostegni per le affiliate. Certo, le società potrebbero far valere i propri diritti, in ultimo grado, nelle sedi romane della giustizia sportiva ma lì il costo dei reclami è altissimo! In via Pende sicuramente questo lo sanno, così come dovrebbero sapere che le società, pur di non affrontare tali ulteriori esose spese, finiscono per subire passivamente le decisioni pugliesi, loro malgrado. Con buona pace della giustizia. Quella giustizia che non deve mostrarsi forte solo con i deboli. A ciò si aggiunga che il Tribunale Federale Territoriale si è pronunciato altre 11 volte sui deferimenti, applicando in ben 10 casi sanzioni durissime a carico delle società. I giudici di cui parlo sono gli stessi che l’estate scorsa avevano condannato pesantemente ben 4 prestigiose società pugliesi e 14 persone (dirigenti, calciatori ed allenatori) nel più grande processo per illecito sportivo che la Puglia ricordi. Una decisione che è stata totalmente annullata dalla Corte Federale di Appello con sede appunto a Roma, che ha riabilitato tutti. In tutto ciò il Presidente Tisci cosa fa? Nulla. Come al solito. Invece di mandare immediatamente a casa, Giancarlo De Peppo, Antonio Contaldi e Giuseppe Ciarli Conte (rispettivamente presidente e componenti della Corte Sportiva e del Tribunale Federale Territoriale), consente loro di continuare ad esercitare questo incarico. E questi insieme ai loro colleghi (chissà poi perché tutti di Bari) continuano a respingere tutti i ricorsi mortificando, economicamente e non solo, le società pugliesi. Possibile che nessuno paghi tra i responsabili della mancata applicazione del Codice di Giustizia Sportiva? O devono pagare solo le affiliate e i loro tesserati? Ai Presidenti delle società che giustamente si lamentano, Tisci risponde di non saperne nulla. Che non è cosa sua. Io devo ricordargli che è proprio lui che, di fatto, sceglie i membri della giustizia sportiva e sempre a lui compete la facoltà di rimuoverli. Ora basta! Si sappia che questa non è una battaglia personale. Le mie parole intendono dar voce a tantissime brave persone (dirigenti, tesserati e tifosi) che ogni domenica sono sui campi da gioco ad alimentare il fantastico mondo dilettantistico pugliese che già costa tanti sacrifici sia economici che affettivi per tutte le ore che quotidianamente gli stessi sottraggono alle proprie famiglie. È finito il tempo dei silenzi. E tra qualche mese, quando finalmente si voterà per il rinnovo delle cariche federali, finirà anche il tempo delle “elezioni per acclamazione”, che hanno visto negli ultimi 16 anni Vito Tisci quale unico candidato. Di tutto questo, con documenti alla mano, sono pronto a parlarne pubblicamente con Tisci, che da Presidente della LND Puglia deve assumersi la responsabilità di quanto è accaduto quest’anno nella “sua” giustizia sportiva. Scelga lui il luogo, la data e l'ora: io ci sarò. Giulio Destratis, avvocato

Da calciomercato.com il 3 luglio 2020. Pasquale Bruno infiamma il Derby della Mole. L'ex difensore del Torino ha dichiarato in un'intervista a La Repubblica: "La Juve vincerà lo scudetto perché ha due squadre, con Higuain e Douglas Costa in panchina. Il Toro ha speranze nel derby? Chiedetelo al padrone (Cairo, ndr), non a me. Io sono un tifoso granata di quelli scoglionati, cioè la grande maggioranza. Abbiamo un padrone che pensa solo ai soldi, invece il Toro è passione". "Nessuno era da Toro più di me, senza offesa. Da ragazzino tifavo Juve. Noi eravamo migliori senza dubbio, da ogni punto di vista: umano e tecnico. Io affrontavo Maradona o Van Basten, Careca o Giordano. Oggi esistono due fuoriclasse, Messi e Ronaldo, il resto è roba appena normale. Quando sento dire che Dybala sarebbe un grande campione, sorrido perché è solo un buon giocatore. Contro Vierchowod o Pasquale Bruno, modestamente, non avrebbe toccato palla. Il gol contro il Genoa? Molto bello, per carità, e anche quello di Ronaldo: ma i difensori dov’erano? Pure Cristiano, contro i marcatori degli anni 80, avrebbe faticato". "I calciatori di oggi sono dei fighetti che postano foto davanti a un piatto di cozze, i social hanno rovinato tutto. Ma avete visto Cristiano Ronaldo vestito in quel modo? Che pagliacciata. Oggi con qualche selfie diventi personaggio, noi ci facevamo il mazzo. I calciatori sono diventati fighetti anche in campo. Ai miei tempi per gli attaccanti era peggio, a noi difensori veniva concesso molto. Una volta Ramon Diaz andò dall'arbitro e gli gridò: 'Bruno mi ha staccato la pelle!'. Era vero, infatti fui ammonito. Per un giallo non bastava mica una spintarella, le punte non cadevano mai". "Io mi tengo i calciatori della mia epoca, persino Roberto Baggio, addirittura lui. Tra noi c’era odio vero. Una volta venimmo espulsi insieme, in Juve-Fiorentina al Comunale, lui venne a cercarmi negli spogliatoi. Con altri nemici ho poi scherzato, Van Basten, Casiraghi, con Baggio mai. Eppure, in confronto a molti giocatori di adesso era un leone. Oggi io non avrei bisogno di picchiare, sarei ammonito poco ed espulso mai. Giocherei d’anticipo. Non perderei certo il sonno contro Icardi, Belotti o Immobile. Vuoi mettere, Maradona? Non scherziamo, ragazzi". 

DAVIDE GONDOLA  per Libero Quotidiano il 2 luglio 2020. Espulso, ergo sum. Il cartellino rosso come attestazione di una presenza, di un esserci a dispetto delle statistiche da invisibile del pallone. Un arbitro che interrompe la partita per cacciarti, la telecamera che finalmente ti becca mentre te ne vai smoccolando all' indirizzo del direttore di gara. Tommaso Berni, anni 37, professione portiere "in sonno" dell' Inter, è stato buttato fuori al minuto 69 del match dei nerazzurri a Parma per le sue invettive da bordocampo ed è pure recidivo, visto che la medesima sanzione gli toccò al termine di Inter-Cagliari 1-1, finale al veleno, panca bauscia scatenata e arbitro un po' troppo permaloso. Zero minuti in campo, due espulsioni: un record, alla rovescia, ma pur sempre un record. Anche se la notizia vera, pensandoci, sarebbe stata un' altra, ovvero un Berni espulso "dal" campo, zona dello stadio che non frequenta da qualcosa come quasi otto anni. Eh sì, questo può capitare a chi sceglie - o si ritrova - di essere il "terzo", la riserva della riserva nel ruolo che specie nelle grandi squadre è ancora legato a gerarchie precise, e generalmente coinvolge in un eventuale turnover - salvo infortuni e squalifiche, chiaro - solo il cosiddetto secondo, il caro vecchio numero 12, per capirci. Tommaso è fiorentino di anagrafe, l'Inter l'ha preso a soli 15 anni e poi ripreso a 31 dopo un discreto girovagare (che l' ha portato anche alla Lazio, in Inghilterra, in Portogallo): da lì, con davanti Handanovic in primis, e poi la staffetta Carrizo-Padelli, ha lavorato tutti i giorni ad Appiano Gentile "riposandosi" durante il weekend. Partite ufficiali minga, come si dice dalle parti di San Siro. E considerando che veniva da un altro anno di naftalina al Torino, bisogna dunque tornare a un Sampdoria-Cagliari dell' ottobre 2012 per trovarlo in gara ufficiale tra due pali e una traversa: stava con i blucerchiati, e tra l' altro ha pure perso (0-1). Da allora, Tommaso è solo "a referto", almeno da quando si possono portare due portieri di riserva: 140 le panchine solo all'Inter, molte più della gran parte degli allenatori della gloriosa storia nerazzurra; e in vent' anni di carriera, tra Serie A e B, stiamo quasi a quota 330. Bisogna avere una testa davvero forte per sopprimere la voglia di giocare, e ci sta dunque che ogni tanto l' ottimo Berni scapocci un poco per sfogo, e pure - o soprattutto - per difesa dei suoi colori. Perché anche se da quota zero, il "terzo" si è costruito una reputazione da bandiera. Interista vero, low cost (200mila euro l' ingaggio annuo), rispettato e - dicono - perfino influente in uno spogliatoio storicamente dalle porte girevoli e dagli equilibri delicati, specie nell' era degli stranieri a go-go. La testa di Tommaso, oltre che completamente priva di crine, è davvero forte e saggia, e diversa, ampia, quasi controcorrente. Consigli e moniti ai compagni più giovani, ma anche "istruzioni per l' uso" e scambi di opinioni con i mister; uscito dalla Pinetina entra in altro pianeta, per un calciatore, e pianeta è la parola giusta: una delle sue passioni è il cielo, possiede - ha raccontato - frammenti di meteorite e un pezzettino di Luna, che ha sicuramente regalato alla moglie, che così si chiama. Si sono sposati in Kenya, in un rito celebrato da una tribù locale: pensano di ripetere le nozze in altre parti del globo, con altre cerimonie. Nel frattempo molti libri, molta arte (uno dei suoi idoli è Gustav Klimt) e zero videogiochi, lui di PlayStation non ne squaglia, citando la famosa uscita di Totti. A Inter Tv ha recentemente dichiarato che non tocca una consolle dal 1997 o 1998, quando era nel convitto delle giovanili nerazzurre: diavolo d' un Berni, ha cominciato lì ad allenarsi a non giocare...

Adriano Seu per gazzetta.it il 2 luglio 2020. Impegnato in una lunga lotta senza fine contro l’alcolismo, adesso Fabian O’Neill rischia di rimetterci la vita. A lanciare l’allarme è Martina, la figlia dell’ex fantasista di Cagliari, Perugia e Juventus, che ha rivelato lo stato critico in cui versa il padre ricoverato d’urgenza venerdì scorso in una clinica di Montevideo. Secondo i medici, il fisico di O’Neill avrebbe reagito bene e potrebbe essere dimesso nei prossimi giorni, “ma il quadro clinico è molto serio e il fegato è ormai compromesso dall’abuso di alcol”. A complicare il tutto, anche una seria infezione alle vie urinarie. Sulle colonne del Paìs la figlia Martina sostiene che la situazione sia “allarmante”. Tanti ex colleghi tra cui Zidane, suo grande amico sin dai tempi della Juventus, disposti ad aiutarlo sostenendo i costi della riabilitazione. “Ha bisogno di un trapianto”, ha rivelato la figlia dell’uruguaiano, “ma se non smette subito di bere non ce la farà”. L’allarme per le condizioni di salute di O’Neill è scattato venerdì scorso ed è stato lo stesso ex giocatore a lanciarlo chiamando il figlio Fabio, accorso al suo capezzale a Paso de los Toros. Bloccato a letto per giorni in preda a dolori lancinanti, l’ex trequartista è stato immediatamente trasportato in una clinica della capitale uruguaiana, dove gli è stata diagnostica una cirrosi epatica acuta. Il fisico - riferiscono i medici - è ormai irrimediabilmente debilitato da anni di abusi a causa della nota passione per l’alcol. “Solo un trapianto di fegato potrebbe salvarlo”, ha rivelato la figlia Martina. “Ma in queste condizioni non può affrontarlo. Ha bisogno di aiuto, ma prima di tutto deve decidere di cambiare”. Una decisione che però lo stesso O’Neill ha sempre detto di non voler prendere pur ammettendo di essere schiavo del proprio vizio. “Ho sperperato tutto, ma non ho mai fatto male a nessuno, solo a me stesso. Tante donne hanno cercato di cambiarmi, ma non ho mai voluto. Se avessero cercato di aiutarmi in passato mi sarei rifiutato. Sono fatto così, ribelle e orgoglioso”, dichiarò qualche anno parlando apertamente delle passioni e dei vizi che l’hanno portato a sperperare tutto quanto guadagnato in carriera (oltre 14 milioni di dollari) al punto da ridursi in povertà e dover andare a vivere nella casa della madre. Quattro anni fa fu anche costretto a sottoporsi a un intervento alla cistifellea in seguito al quale gli fu caldamente consigliato di dire addio all’alcol. Ma l’astinenza durò appena un mese e O’Neill ricadde nel tunnel dell’alcolismo. Adesso che il suo fisico è allo stremo, l’unica via di salvezza pare essere il trapianto di fegato. Prima di ogni cosa, tuttavia, è necessario affrontare un percorso di riabilitazione che lo stesso O’Neill si è sempre rifiutato d’intraprendere. Secondo quanto rivelato dalla stampa uruguaiana, dopo il ricovero ha ricevuto le telefonate di tanti ex colleghi disposti a dargli una mano, in primis quel Zinedine Zidane a cui è unito da un forte legame d’amicizia e che ha sempre affermato di ritenerlo “il giocatore più talentuoso mai visto in campo”. A offrirgli aiuto sono stati anche l’ex agente Paco Casal e la casa di produzione Tanfield, disposti a sostenere i costi della riabilitazione. Ma il primo passo, il più importante, spetta allo stesso O’Neill.

Giancarlo Dotto per il Corriere della Sport il 27 giugno 2020. A tavola con il Marziano e l’Incredibile Hulk. Due amici per la pelle. Un fumetto della Marvel? No, una giornata decisamente ben spesa. Due ex calciatori rari, che non frequentano i calciatori e non leggono le biografie dei calciatori. Lui e l’altro. L’altro, l’incredibile Hulk, è uno di poche parole ma, quando mi parla di lui, il Marziano, diventa lirico, si scioglie come un savoiardo nel caffelatte. La prima volta in una trattoria a Testaccio. “Ho avuto la fortuna di giocarci contro. Anche oggi, a distanza di anni, se fai il suo nome con molti giocatori dell’epoca si scatena l’inferno. Un talento allucinante. Non puoi non incontrarlo. La leggerei di corsa una sua intervista. Vorrei sapere tutto delle sue fughe, delle sue donne, dei suoi viaggi a Cuba. Un giorno faremo un libro a quattro mani e si chiamerà: “Cosa significa essere genoani e cosa significa essere doriani”. Lui, Alviero Chiorri, è romano, mezzo cubano, doriano nella pelle. Ci scommetto il mio gatto persiano, non lo faranno mai questo libro. Alla fine vincerà la pigrizia. Ma continueranno a dirselo fino alla fine dei loro giorni, davanti a un calice di bianco. Nessuno dei due si prende così sul serio da pensare che immaginare un libro significhi scriverlo davvero. Di Alviero mi aveva detto cose ispirate anche Franco Baldini nel suo loft a via Margutta, davanti a un cartoccio di supplì e morsi di nostalgia filanti. “Uomo raro, Alviero, calciatore unico. Lo devi incontrare. Non mi faccio vivo con lui da tempo. Chiedigli perdono da parte mia”. Chiaro il messaggio. Devo incontrare il Marziano. Appuntamento al “Don Chisciotte”. Un vecchio casolare affacciato sull’Aurelia, tra Palidoro e Passo Oscuro subito dopo lo svincolo per Fregene. Mare e mulini a vento a parte, potrebbe essere la Mancia di Cervantes, piccoli borghi, castelli, anime forti e solitarie, in qualche caso perdute. Un Far West assolato. Paolo, il proprietario del ristorante, mi prenda un colpo, è il Sancho Panza di Gustave Dorè. Lo riconosco anche senza somaro. Il “Don Chisciotte” è il ritrovo di Alviero e dei suoi amici. A portarmi da lui è l’altro. Che non sente ragioni. Me lo dice a modo suo, affettuosamente minaccioso. “Non voglio apparire, l’intervista è tutta sua, io non c’entro nulla”. Lo chiameremo dunque l’Incredibile Hulk, perché gli somiglia, specie quando gonfia il collo, e perché se ne va in giro quel giorno dentro una coraggiosa giacca verde muschio. L’elegantone di sempre. Pronto a strapparsi le vesti e a colorarsi di verde alla prima mischia. Questa volta non ne ha bisogno. “Me sembri un’oliva ascolana…”, lo accoglie il Marziano. Via le mascherine da Covid, seguono cinque ore di allegro convivio, in un viavai di cozze gratinate, gamberoni, calamari, vongole, lupini, paccheri, baccalà, vino, molto vino, scotch scozzese, amari, molti amari, e rum in omaggio al cubano. Il Marziano alias Alviero è un uomo schivo. Alviero non ha a niente a che fare con quella genia di pazzoidi, eccentrici, un po’ sbruffoni, un po’ fanfaroni che imperversano nel calcio italiano di quegli anni, settanta e ottanta, non ancora malato di tatticomania. Sublimi, sfrontati, e ingovernabili anarchici palla al piede, sulla scia del più sfrontato di tutti, George Best. Meroni, Vendrame, Dolso, Vieri padre, Zigoni, per citarne alcuni. Alviero parla sottovoce, al limite dell’udibile, nella speranza di non essere udito. Come un tra sé. Un personaggio per quanto è lontano dall’esserlo. L’essere stato tanti anni lontano da Roma ne fa un romano d’altri tempi, come solo Pasolini ha raccontato. Un Franco Citti dallo sguardo buono, un fustacchione di sessant’anni pervaso da qualcosa che sta tra la timidezza e la gentilezza. Anacronismo puro. Il codino che gli spunta dalla nuca. Due tatuaggi sulle braccia. Il terzo ce l’ha dipinto in faccia: “Perché?”. “Perché siete qui? Perché v’interessate a me?”. Ci mette quasi un’ora a liberarsi di quel “perché”. Hulk ci dà una mano con le sue muscolari invasioni di campo. “Normale” è la parola che gli viene più facile, ma non come la usano Totti e affini, vacuo intercalare tra un eventuale concetto e l’altro. Nel caso di Alviero “normale” è quello che è, un aggettivo che descrive l’uomo. Alviero è tanto normale da risultare eccezionale. La normalità è la sua pazzia. “Il mio miglior amico? Enzo il tabaccaio. Non mi ha mai chiesto una cosa di calcio”. È un arguto battutista, Alviero, fulminante come solo i romani. Le battute sono il suo modo di stare in società. Ma è lo sguardo che lo racconta. Disarmante per quanto è nudo. Ti supplica: “Lasciami stare, lasciami alle mie battute”. E ti dice, però, anche: “Insisti, abbi pazienza, ne ho di cose da raccontare, magari un giorno avrò voglia di farlo”. Devono solo crearsi le condizioni giuste. Quasi mai si creano. Il calciatore da spiaggia. “Giocavo nei campi di seria A come giocavo da ragazzo in spiaggia con gli amici”. Alviero Chiorri lascia a trentadue anni con la maglia della Cremonese. I suoi anni migliori da calciatore. Fisicamente integro. Lascia, nel senso più estremo della parola. Sparisce nel morbido nulla dei tropici. “Non ne potevo più del calcio. Quella non era la vita che volevo vivere. Quelle regole, quelle attese, quelle pressioni. A novembre parto per Cuba per una vacanza di venti giorni e sono rimasto 24 anni”. Dici Chiorri e dici talento. Ma anche indisciplina. Leggi di lui e senti dire: strano, ingestibile, una dannazione per gli allenatori, avesse avuto la testa di Del Piero e Totti... Lui ascolta, cose che è abituato ad ascoltare. “Se avessi avuto la loro testa, non sarei stato Alviero Chiorri. Per il resto sono un ragazzo normale, anche se so che me la porterò addosso tutta la vita questa nomea di tipo strano. Penso a quello che combinava Balotelli a diciotto anni. Le mie stranezze, al confronto, sono poca roba”. Romano di Valle Aurelia, tifoso romanista, “Era la Roma di Ciccio Cordova, Amarildo e Del Sol. Andavo in curva sud con mio zio. I calciatori erano minuscoli visti da lì”. Nato nel ’59, l’anno della rivoluzione di Fidel Castro. “E guarda caso finisco a Cuba. Tu dici che è un caso?”. Giovanissima preda dei tanti osservatori. “Mi prese la Sampdoria a sedici anni. Mi aveva preso anche la Roma., c’era Perinetti allora, ma scelsi la Samp. Mi avevano fatto capire che alla Roma, in quel periodo, o eri forte forte o giocavano solo i raccomandati”. Lui non si è mai reso conto di essere “forte forte”. “Così dicevano, ma io non mi rendo conto neanche adesso. Le cose che facevo in campo erano le stesse che facevo per strada. Il mio modo di giocare non è mai cambiato”. L’Incredibile Hulk ha appena spolpato un gambero e inizia a fischiettare “Tristezza, per favore vai via”. Sardo di sangue, genoano di pelle, lo fa ogni volta che il Marziano nomina la Samp. I treni perduti. “Mi dà fastidio quando mi dicono che avrei potuto fare molto di più. Sarà anche vero, ma alla fine ho fatto quello che dovevo. Avessi avuto un procuratore come quelli di oggi, uno come Mino Raiola, forse sarebbe stata una storia diversa. Non ero Maradona e nel calcio di oggi non sarei nemmeno preso in considerazione. O forse sì, sarei stato un buon esterno sinistro alla Totti nel calcio di Zeman. Un allenatore appassionante anche se un po’ estremo. Una volta gli feci gol da metà campo”. Come direbbe il suo amico Flavio Bucci, venuto a delirare e poi a morire da queste parti: “E pensare che ero partito così bene…”. Alviero, non ancora Marziano, è in serie A, con la maglia del Bologna, a diciassette anni. Mai a suo agio nella tribù dei Piedi Calcianti. “Non ero maturo, finito in una situazione più grande di me. Sì, poi qualche errore l’ho fatto”. Hulk, al suo fianco, addenta il pacchero e interviene a gamba tesa. “Non mi sembra che ‘sta maturità sia mai arrivata…”. Il Marziano annuisce, senza un filo di fastidio. “Sono rimasto lo stesso di allora, con qualche anno in più”. I treni perduti. Almeno tre. Il primo. “Le occasioni le ho avute, ma è sempre successo qualcosa. La prima volta fu colpa mia. Fui convocato per i mondiali in Tunisia con la Nazionale Juniores. Una squadra forte, avevamo appena vinto il torneo di Montecarlo. Mi rifiutai di andare perché avevo già prenotato al mare con gli amici. C’era Italo Allodi. Mi cacciò da Coverciano con i carabinieri. L’ho sicuramente pagata. Da allora m’hanno segato dal giro azzurro e quando fui in ballo per la Nazionale di Bearzot mi fermò la pubalgia. Il secondo treno. E poi il terzo, il più carico di rimpianto, se Alviero fosse capace di rimpianti. “Ero già dell’Inter. Voluto da Bersellini con cui avevo esordito in serie A con la Samp. Mantovani non mi volle vendere. Loro prendono Beccalossi al posto mio e vincono lo scudetto. Mai dato importanza io ai soldi. Con Mantovani ho sempre firmato in bianco. Anche Dino Viola mi voleva alla Roma, ma non se ne fece nulla...Rimpianti zero. Mi ritengo un uomo fortunato, che ha fatto nella vita quello che gli piaceva fare, che voleva solo essere normale in un mondo che non aveva niente di normale. Un mondo che non era il mio”. L’Incredibile Hulk torna alla carica. Il mite Marziano incassa. “Hai giocato nella Sampdoria, non è che c’è da sentirsi così fortunati…”. Chiorri sparsi.  “L’esordio in coppa Italia contro la Fiorentina. Ero un ragazzino incosciente, mi marcava Roggi ma non mi prendeva mai, quel giorno mi riusciva di tutto. Mi si avvicinò Antognoni: “Ragazzi’ ora basta, falla finita, hai rotto i cojoni”. I derby di Genova. Violenza allo stato puro. “La mia bestia nera era Fabrizio Gorin, il biondo, un mastino, non a caso non ho mai segnato nei derby. Oltre a menare come un fabbro, limava i tacchetti. Era un’usanza di quegli anni. Dentro i tacchetti di legno c’erano quattro chiodi martellati che, a furia di limarli, spuntavano fuori. Quando prendevi una scarpata, il sangue si sprecava, la carne rimaneva attaccata al tacchetto”. Il Marziano, lo trovi su youtube se non sei abbastanza vecchio, era un dribblomane, la vittima da manuale per quei sadici truccati da calciatori… quando riuscivano a prenderlo. “M’hanno gonfiato come una zampogna. Entrate da dietro, gomitate, botte, minacce. Ad Avellino, quello di Sibilia, nel sottopassaggio spegnevano la luce e ti  menavano proprio. A Carletto Mazzone gli hanno spento una sigaretta in faccia. All’epoca era permesso tutto, ogni domenica una battaglia. Le ho prese, ma non ho mai reagito. Avevo imparato che funzionava così”. “Il più cattivo? Pasquale Bruno. Io a Cremona, lui al Toro. Fischio d’inizio, palla altrove, lui mi aspetta col ginocchio alzato e mi dà una stecca micidiale. Hai presente il Tardelli su Rivera di  quel Juventus-Milan? Uscii con un ematoma gigante. Il più forte marcatore? Vierchowod di gran lunga. Soffriva solo Aguilera e Montesano. Gli unici falli li faceva solo perché arrivava troppo veloce sulla palla”. Ne ha incrociati in quindici anni di fenomeni veri e presunti. “Bruno Giordano e Roberto Baggio erano dei  mostri. Il compagno più forte? A parte Roberto Mancini, Anders Limpar. Fece un anno con noi alla Cremonese e poi vinse la Premier con l’Arsenal. Un altro era Macina. Dei tre al Bologna, lui, io e Mancini, era il più dotato. Quello sì era strano forte, non io. S’è perso per strada. In quegli anni si sprecavano i fenomeni. Tecnicamente, era un livello molto superiore. Gente come Claudio Sala e Bruno Conti si sprecava. Giampaolo Montesano, il più forte di tutti. Uno così non si è mai più visto. Non lo dico io, lo dice Vierchowod, che pure ha marcato Maradona”. Non tantissimi gol, ma ogni gol una storia da raccontare. “Il più bello? Quello a Bordon, allora al Brescia. Palla quasi ferma al limite dell’area, arrivo e gli faccio lo scavetto, non so se Totti era nato… Quello al Messina. Ero in panchina con la tuta. C’era una punizione da battere. Mi hanno spogliato di corsa in tre. Entrai a freddo e feci gol all’incrocio. Dopo, non ho più toccato palla”. Calciatori come il Marziano non calavano. Sparivano proprio dal campo, come risucchiati da un buco nero. “Il mio allenatore? Mondonico alla Cremonese in serie A. Quando dava la formazione: giocano Alviero e altri dieci. Compagni da ricordare. Liam Brady e Trevor Francis alla Samp. Grandi professionisti, molto seri. Magari avessi imparato da loro…Il più pazzo? Giuliano Fiorini era un matto vero. Un casinista simpaticissimo, da prendere a piccole dosi. Le notti erano tutte le sue… Non ho mai frequentato i calciatori, non m’interessava, erano una razza a parte e io preferivo stare con i miei amici. Un imprenditore piuttosto che uno spazzino. Non mi piaceva ostentare lo status del calciatore. Nei ristoranti e nei negozi volevo pagare. Mi dovevano trattare come un cliente qualsiasi. L’unica debolezza, una Ferrari 348. La comprai per duecento milioni dell’epoca. Feci una cazzata. Con quei soldi, nel ’90 potevo comprare due appartamenti… No, del calcio non mi manca nulla. E non mi dire di partecipare a partite da vecchie glorie, a meno che non ci sia qualche beneficienza vera”. Cuba, il ventre amico. “A Cuba vivo, qui sopravvivo”. Il Marziano ha il dono della sintesi. “Lì, fu come tornare alle origini. Non mi conosceva nessuno, le persone mi frequentavano per quello che sono, non perché ero un calciatore. La prima volta, non sapevo neanche dove fosse Cuba. M’innamorai dal primo giorno. Un mondo a parte, spiegarlo è difficile, lo devi vivere. Non c’hanno una lira e tutti che ballano, cantano. Gli italiani andavano lì per le donne, ma era l’ultima cosa che m’interessava. Ne avevo più in Italia. Per me Cuba era proprio staccare. Cominciai a fare tre mesi lì e uno in Italia. Una vita normale, il mare, gli amici, i libri. Libero, senza pressioni. Quando tornavo in Italia soffrivo il contrasto. Tutti di corsa, facce tristi. Se non sali sulla ruota, ti schiacciano. E, se sali, non sei più libero di scendere. A Cuba non esiste il tempo. Ci vediamo alle nove, ma non si sa di che giorno, di che mese, di che anno. Non devi cercare la profondità. Come stare a Cinecittà. Tornai in Italia per stare vicino a mia madre e a mio padre malato. Ora, mi accontento di andarci una volta l’anno”. Le donne. “Lì a Cuba era una caciara. Oggi per me sono un tema di fantasia. Dalla cintola in giù non ero male e dalla cintola in su che ho fatto danni”. Il Marziano è tale anche quando si tratta di amore in senso lato. Tre figli da tre donne diverse. Due cubane e un’italiana, la moglie storica che vive a Genova con il figlio titolare di un negozio di frutta e verdura. Le due ex cubane le ha portate in Italia. Vivono serenamente tutti nello stesso palazzetto, lui, le cubane, mamma Lucia, i due figli. Una al piano di sopra, una al piano di sotto, lui in mezzo. Un Harem a Passo Oscuro? Il contrario. “Vivo solo da dieci anni, loro fanno la loro vita, hanno i loro compagni. Non potevo lasciare a Cuba le madri dei miei figli”. Tre donne, tre figli. Qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra sarebbe stato raso al suolo da rancori, beghe legali, richieste sanguinose. Lui no, nel mondo di Alviero i conflitti non fanno radici. Non perché gli scivolino addosso. Al contrario. Di lui senti che puoi fidarti, anche quando sbaglia. Un libro aperto. Uno raro, da cui non ti devi difendere. “Le donne fondamentali della mia vita? Mamma, donna vecchio stampo, e mia sorella Tiziana, l’unica che non mi tradirà mai. Ha un’adorazione per me. E poi mia figlia Nicole, l’amore della mia vita”. Uomo di principi, l’ingestibile Alviero. Fa la spesa alla mamma anziana e porta i figli a scuola. “Sono stato un padre assente, soprattutto con il più grande”. Quando dice, come fosse la cosa più normale: “Sono sempre stato fedele alle mie donne….”, tutti sghignazzano al tavolo, a cominciare dall’ineffabile Hulk. Lui è serio. “Te lo giuro sui miei figli. Nessuno mi obbliga, se scelgo una donna, la rispetto. Le adoro le donne, ma avere oggi un’altra storia mi spaventa. A parte che nessuna mi vuole più”. La depressione. “A Cremona ho dato il meglio da calciatore. Avevo accettato di fare questo mestiere come va fatto, non solo in partita, nei ritiri, negli allenamenti. Luzzara, il presidente, pronto a farmi un nuovo contratto di tre anni. Era il ’90. Qualcosa scatta nella mia testa. Il buio totale. Avevo trent’anni e pensai di chiudere con il calcio ”. Una crisi depressiva da spavento. “L’apatia totale, il rigetto di tutto, a cominciare dal calcio. Non mi allenavo, non mangiavo, da 77 chili ero sceso a 66. Facevo pensieri strani, vedevo mostri. Sono stato ricoverato in clinica due mesi. M’hanno riempito di pasticche, sono arrivato a pesare 90 chili. Sono rientrato, sei mesi dopo, nello spareggio a Pescara per la promozione in A. Si va ai rigori. Sbaglio il mio. Mi cade il mondo addosso. Rampulla, il portiere, mi fa in un orecchio: “Non ti preoccupare, adesso ne paro due”. Andò così e salimmo in A”. “Le cause? Non ho mai capito. Un giorno il tappo salta e vai a fondo. Non succede a quelli che hanno solo certezze. Mi mettono paura quelli. Forse il peso dell’aver sopportato tanti anni un mondo che non era il mio. Le invidie, le pressioni, il confronto con gli altri. Non mi divertivo più. Non ritrovavo più me stesso. Anche quando mi facevano i cori e venivo osannato, mi chiedevo sempre “perché?”. Sta di fatto che quando c’era lui in campo, il Marziano, succedeva sempre qualcosa. Per tutti, ma non per lui. “Qualcuno mi disse che forse la causa scatenante veniva da lontano”. Esita. Abbassa la testa. Poi me lo pianta in faccia quel suo sguardo buono. “Questa non l’ho mai raccontata…Avevo diciotto anni e guidavo con il foglio rosa e un patentato al fianco, Lupini, un mio compagno di squadra. Andavamo a Bogliasco per l’allenamento. All’altezza di Nervi, uno gira secco per fare una conversione e mi taglia la strada. Il botto. Lo choc. Scesi dalla macchina e feci un chilometro a piedi, all’indietro. Non avevo colpe, ma fu devastante. Lui morì per le ferite. Non me la sono sentita di andare a salutare la giovane moglie…Adesso sono i miei figli a tenermi in vita. Loro sono il mio più grande rimorso. Cerco di farmi perdonare, ci provo. Sono stato egoista. Li ho trascurati. Soprattutto il primo, Simone. Un ragazzo d’oro con una mamma spettacolare”. Alla fine. Ci si alza da tavola  e si torna in maschera più allegri e più instabili di quando ci eravamo seduti. Finisce con il Marziano che canta “Una carezza della sera” dei New Trolls (“Tifosi sfegatati della Samp. Ricordo Anna Oxa, era fidanzata con uno di loro…Bellissima”, dice con un lampo fuggevole di malizia) e il sempre più Incredibile Hulk che delira di rose gialle e di tulipani neri, i suoi fiori preferiti. Il Marziano mi saluta con il suo sguardo buono: “L’articolo, se vuoi farlo, bene, se no va bene lo stesso, mi ha fatto piacere conoscerti”. Sì, una giornata spesa bene.

Perù-Argentina 328 morti per un gol annullato: 56 anni fa la tragedia più grande della storia del calcio. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Nicolao. Era bastato un gol annullato. Alla decisione dell’arbitro uruguaiano Ángel Eduardo Pazos si scatena l’inferno allo Stadio Nacional di Lima, in Perù. Quella che viene oggi raccontata, a distanza di 56 anni, come la più grande tragedia calcistica mai avvenuta nella storia. Impossibile risalire ai numeri reali del disastro, ma ufficialmente sono stati registrati 328 morti e oltre 4mila feriti. Primo pomeriggio, ore 15.30 del 24 maggio 1964. Il Perù affronta l’Argentina nella partita decisiva organizzata dalla Conmebol, la confederazione calcistica sudamericana, valida per accedere alle Olimpiadi di Tokyo, quelle che si sarebbero svolte dal 10 al 24 ottobre dello stesso anno. Selección al primo posto, Perù a pari punti con il Brasile, ma qualificandosi solo due Nazionali per i padroni di casa tutto dipendeva da quei 90 minuti. In un clima incandescente, allo stadio entrano 60mila tifosi dei due schieramenti invece della capienza massima consentita di 45-50mila. Il vantaggio degli argentini con la rete di Néstor Manfredi sembra precludere ogni speranza fino a pochi minuti dal triplice fischio, ma è appena prima del 90’ che si verifica l’episodio chiave, la miccia che provocherà la tragedia. Il difensore biancoceleste Andrés Bertolotti tenta il rinvio per mantenere la propria squadra in vantaggio. In quel momento però è Víctor Lobatóv dei peruviani che con un guizzo intercetta il pallone allungando la gamba e ribattendo la palla in rete, alle spalle dl portiere Agustín Cejas. Pazos convalida il gol poi, per le proteste degli argentini, ribalta il giudizio e lo annulla per gioco pericoloso e la gamba tesa di Lobatóv. Nell’agitazione dei tifosi, Víctor Melasio Campos, già noto alle forze dell’ordine per altri reati con il nome di El Negro Bomba, ed Edilberto Cuenca scavalcano le recinzioni per raggiungere l’arbitro. Le forze dell’ordine li fermano e da quel momento scoppia il caos. Le squadre subito mandate negli spogliatoi (vi usciranno solo in serata, verso le 20.30), i peruviani abbandonano gli spalti e invadono il campo, la polizia che reagisce con i lacrimogeni e mandando i cani nella folla. La maggior parte del pubblico prova così a lasciare lo stadio, ma il comandante Jorge Azambuja ha fatto chiudere ogni accesso, provocando di fatto una mattanza a cielo aperto, fra linciaggi dei poliziotti, repressione dei tifosi, guerriglia degli ultrà. In serata le salme vennero raccolte nel parcheggio dello stadio e molti corpi gettati insieme come in una fossa comune. Il governo decise così di proclamare una settimana di lutto nazionale e decretare per un mese la legge marziale. Azambuja per aver scelto la strada della repressione violenta sarà condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere. Per via della tragedia furono cancellate tutte le ultime partite da giocare del torneo preolimpico. Andarono così a Tokyo solo l’Argentina e il Brasile, con il Perù che non si qualificò, dopo aver perso addirittura un playoff organizzato ad hoc contro i verdeoro e perso nettamente 4-0. A distanza di anni l’arbitro Pazos ammise in un’intervista che il suo fu un errore madornale e che il gol di Lobatón era valido. A distanza di anni molti aspetti della vicenda non sono ancora stati chiariti. Sembra che molte più persone persero la vita, non tanto per le cariche della polizia quanto per l’asfissia indotta dallo schiacciamento provocato dal fuggi fuggi e dal panico generale. Lo stesso magistrato Benjamín Castañeda, che indagò sulla vicenda, ha più volte affermato che di avere forti sospetti di insabbiamento. Quella dell’Estadio Nacional è così ancora oggi la pagina più buia del calcio mondiale, per il numero delle vittime e per come si consumò la tragedia. Dopo di questa si ricordano quella del 9 maggio 2001, quando ad Accra, in Ghana, per gli scontri a seguito di una partita di campionato morirono 127 tifosi, la seconda più sanguinosa, e quella di Hillsborough, durante la semifinale di FA Cup fra Liverpoool e Nottingham Forest, il 15 aprile del 1989. Provocò la morte di 96 persone e il ferimento di oltre 200, per una suddivisione degli spalti non proprio proporzionata alla consistenza delle tifoserie.

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2020. Per capire la tragedia dell'Heysel è importante aver bene in mente la suddivisione delle tifoserie nello stadio. Quella juventina era stata concentrata nella curva sulla destra rispetto alla tribuna centrale. Era divisa in tre settori chiamati O, M e N. Stessa divisione per l' altra curva ma concentrazioni diverse. Nei settori Y ed X erano stati messi tifosi inglesi, del Liverpool, certo, ma anche alcuni Headhunter, i cacciatori di teste del Chelsea, una frangia hooligan particolarmente violenta. Nell' ultimo settore, a completamento della curva, una specie di zona neutra, il settore Z. I biglietti non facevano parte del pacchetto del tifo organizzato, erano a disposizione di chi riusciva ad acquistarli. Amici, genitori e figli, parenti emigranti da tanti Paesi, semplici turisti del grande calcio, si ritrovarono in quel settore debole per convenzione. La partita era prevista alle 20.15. Era un giorno come questi di fine maggio, quando le giornate sono le più lunghe dell' anno. C' era aria buona intorno e un celeste che non diventava mai notte. Tutto accadde in modo meno chiaro di quanto sembrò dopo, quando la tragedia divenne fredda e coprì ogni emozione. Ero in un posto della tribuna stampa collocato tra l' area di rigore e il centrocampo, nella parte sinistra dello stadio, a una trentina di metri dal settore Z che faceva angolo con la nostra tribuna. Tra noi e loro uno spicchio vuoto, uno spazio aperto come una frontiera fra i due settori. Erano circa le 19.20 quando si cominciò a vedere agitazione nei settori di curva inglesi. Si attaccavano alle reti di sbarramento e spingevano per buttarle giù. Avveniva nella distrazione generale, tra i chiacchiericci di uno stadio normali prima di una grande partita. C' è sempre una rissa. C' è sempre un pazzo. Così ognuno continuava la sua attesa. Dopo una decina di minuti le reti cominciarono a cedere, i tifosi inglesi si allargarono nel settore Z e lo invasero con forza. Questo costrinse il suo piccolo popolo a cercare una via di fuga, precipitosa, già disperata. Molti cercarono di sfondare le recinzioni che chiudevano il campo, fili spinati sopra cancelli di acciaio. Ne vidi decine spinti da dietro che andavano ad aprirsi il petto sulle spine della recinzione. Cominciammo a capire, ma la maggior parte della gente guardava come fosse cinema. Non si rendeva conto, era una battaglia confusa, estranea, la respingevamo per disabitudine a viverla. Poi vedemmo cedere il muro che chiudeva il settore Z. Centinaia di persone gli erano arrivate contro come un' onda troppo forte. Caddero con il muro, a decine, uno addosso all' altro, in un vuoto di una ventina di metri. Dallo stadio vidi quel grappolo di corpi scomparire nel niente, non capimmo le conseguenze. Fabrizio Bocca fece il primo controllo. Era e resta un vecchio ragazzo grande e grosso, un giornalista sicuro. Ma quando tornò aveva la faccia verde. Aveva contato più di trenta morti. Dalle curve O-M-N gli juventini avevano visto e capito. Stavano entrando sul terreno per vendicarsi degli inglesi. All' improvviso piombò sul campo il battaglione a cavallo della polizia belga di stanza a un chilometro dall' Heysel. Cominciava il tutti contro tutto. Ci furono scontri irreali, fuori dal tempo, fra bandiere e divise, lanceri e pedoni, avversari sconosciuti, impropri. Improvvisamente, come da una macchina aliena, l' altoparlante annunciò in tre lingue che la partita sarebbe cominciata di lì a pochi minuti e che nessuno poteva muoversi dal proprio posto nè tantomeno lasciare lo stadio. La Zdf, televisione tedesca, interruppe la trasmissione. Orf, televisione austriaca, mandò la partita con sotto questa scritta: «Questa che trasmettiamo non è una manifestazione sportiva, ma una trasmissione volta ad evitare massacri». C' era un odore di morte e di bugie, ma eravamo tutti convinti che la cosa migliore fosse allontanarci dall' Heysel prima possibile e senza discutere con nessuno. Guardiamo la partita e scappiamo da qui. Non ci fu mai niente di veramente chiaro in quell'ora. Sembrava finta anche la realtà. Bruno Pizzul avvertì i telespettatori che avrebbe fatto una telecronaca senza enfasi sportiva. Poi Boniek fu messo giù un metro fuori dall' area del Liverpool. Platini segnò il rigore. Ci furono segni soffocati di entusiasmo. Cominciò la lunga polemica sulla Coppa «che grondava sangue». Boniperti fu subito realista. «L' abbiamo pagata, l' abbiamo vinta. È nostra». Credo in sintesi avesse ragione. Ma la partita non ci fu. Alla fine i giocatori della Juve festeggiarono con il settore M, il cuore della loro curva all' Heysel. Boniek disse poi che non avrebbe voluto giocare e rinunciò al premio partita. Tardelli si scusò pubblicamente. Diciotto giorni dopo l' Uefa decise di squalificare a tempo indeterminato le squadre inglesi dalle Coppe europee. Furono riammesse nel 1990. Nel 2000, agli Europei nei Paesi Bassi, giocammo due volte all' Heysel, ormai ribattezzato Stadio Re Baldovino. Fu impedito all' Italia di giocare con il lutto al braccio. Maldini come capitano e Conte come juventino, portarono una corona sotto il vecchio settore Z. Ogni azzurro scese in campo ad ascoltare l' inno con un fiore in mano. All' Heysel morirono 39 persone: 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese. Andrea Casula di Cagliari aveva dieci anni.

Cabrini e la tragedia dell'Heysel: ''La Coppa? La vittoria fu regolare..." L'ex terzino bianconero in esclusiva a IlGiornale.it: ''La finale col Liverpool resta una macchia nera indelebile ma fu giocata come una partita vera''. Antonio Prisco, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Quindici anni su e giù per la fascia sinistra sui campi di Serie A, Antonio Cabrini non è soltanto uno dei calciatori italiani più vincenti di sempre ma rimane senza alcun dubbio un interprete unico del ruolo di terzino sinistro. Dall'eleganza innata e dallo stile inconfondibile in campo e fuori, qualità che lo hanno reso uno dei sex symbol più amati dall'universo femminile, il Bell'Antonio è riuscito come pochi altri nella storia del calcio ad anticipare i tempi, interpretando in chiave moderna rispetto ai suoi tempi quel ruolo. Pedina insostituibile nella Juventus di Giovanni Trapattoni e nella Nazionale di Enzo Bearzot, trionfatrice a Spagna '82, resta a distanza di anni un modello da seguire per gli esterni difensivi del calcio d'oggi. In occasione dei 35 anni della tragedia dell'Heysel, l'ex terzino bianconero ha parlato di quella notte e di tanto altro sulle pagine de IlGiornale.it.

Sono passati 35 anni dalla tragica notte dell'Heysel, qual è il suo ricordo dopo tanti anni?

''Sempre il solito ricordo, non importa il giorno di quella tragedia. E' un ricordo negativo del mondo che ho vissuto per tanti anni, una macchia nera indelebile che rimarrà per sempre scritta nel mondo del calcio e mi auguro venga ricordata come esempio negativo''.

All'epoca ci furono molte polemiche per la partita con il Liverpool, quale significato assume quella coppa rispetto agli altri titoli vinti in carriera?

''La partita è stata vinta correttamente. Fu una partita regolare, giocata come una partita vera. Quanto accaduto fu una cosa a se stante, l'unica rimasta in quel quadro pessimo della serata''.

Capitolo Juventus, i bianconeri sono pronti per vincere la Champions?

''E' una domanda a cui è difficile rispondere. La Juve si attrezza ogni anno per arrivare in fondo alla Champions League. Ci è arrivata ma non è ancora riuscita a portarla a casa. E' normale sia un pensiero ricorrente nella testa della società e della squadra stessa''.

Il primo anno di Sarri è stato contraddistinto da alti e bassi. La convince il tecnico toscano e proseguirebbe su questa strada?

''Alla Juve le somme si tirano sempre a fine stagione. E' prematuro dire adesso ha fatto bene o ha fatto male oppure 'cosa non ha funzionato o cosa non è andato bene'. La società tirerà le conclusioni a fine stagione''.

La sua Juve fondava tutto sull'equilibrio tra i reparti e sul gruppo degli italiani, cosa aveva quella squadra che alla Juve di oggi manca?

''Impossibile fare paragoni, il mio era un calcio totalmente diverso. Sono passati tantissimi anni e non si possono fare paragoni con la Juve attuale. Confrontare le due squadre farebbe perdere la sua logicità al calcio''.

Lei è stato un interprete moderno del suo ruolo. Esiste attualmente un altro Cabrini o un altro giocatore in cui si rivede?

''Stesso discorso di prima, impossibile poterlo dire. Il gioco del calcio è cambiato in maniera totale e quindi non si possono fare paragoni con il calcio di trent'anni fa''.

Giorni fa Giorgio Chiellini ha detto: ''Odio sportivamente l'Inter''. Il suo ex compagno di squadra Marco Tardelli ha ribattuto: ''Da capitani come Zoff e Scirea ho imparato il rispetto dell'avversario anche nella lotta più dura''. Lei da ex capitano bianconero da che parte sta?

''Sono polemiche che non fanno parte del mio modo di essere e quindi non mi interessano. Probabilmente sarebbe molto più semplice dirsi le cose in faccia, a quattrocchi e cercare di spiegarsi''.

Il calcio italiano dopo il lungo stop per il Coronavirus ripartirà a metà giugno. Quale idea si è fatto a proposito?

''Il calcio doveva ripartire assolutamente per terminare la stagione, per concludere le competizioni internazionali e per dare sostegno ad eventi sociali importanti come le partite per i tifosi. Bisognava far ripartire un'azienda che a livello economico sostiene l'80% di tutti gli altri sport''.

Il presidente Andrea Agnelli aveva già fatto sapere che non avrebbe accettato lo scudetto a tavolino. E' la decisione giusta?

''Condivido la sua scelta, perchè dovrebbe accettare uno scudetto vinto in questa maniera? Non fa parte del Dna della Juventus''.

In chiusura, un pronostico sul prosieguo della stagione. Chi vince il campionato? Chi vince la Champions League?

''La Champions è un terno a lotto, perchè una volta arrivati in finale, ti giochi tutta la stagione in novanta minuti. Il campionato invece potrebbe aprirsi a nuovi scenari dopo il Coronavirus, quindi diventa difficile fare delle previsioni''.

Dagospia il 28 Maggio 2020. Da Le Lunatiche. Stefano Tacconi ha rilasciato un’intervista alla trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti, che andrà in onda integralmente sabato notte.

Sull’Heysel: Dentro lo spogliatoio c’era un po’ di tutto: chi perdeva sangue, chi era ferito, noi abbiamo prestato i primi soccorsi, prestando anche le scarpe a chi le aveva perse, le tute. Era un’atmosfera surreale. Boniperti aveva detto che non dovevamo giocare, ma poi un generale delle Forze dell’ordine ci impose di giocarla e credo sia stato giusto perché altrimenti sarebbe successo molto di più. Entrammo in campo molto arrabbiati, perché comunque ci avevano tolto il sogno di quella finale, noi eravamo sicuri di vincere ma ci hanno tolto la gioia di esultare. Capisco le critiche, ma anche qui furono le Forze dell’ordine a chiederci di uscire con la coppa per tenere buoni i tifosi dentro lo stadio. Non dovevano uscire perché gli hooligans non erano stati ancora evacuati.

Sulla staffetta con Luciano Bodini nell’84-85: Mi fece capire tante cose, che alla Juve non bisognava adagiarsi sugli allori, dopo aver vinto la stagione precedente uno scudetto e una Coppe delle Coppe mi ero galvanizzato e avevo mollato.

Su Dino Zoff: Mi diceva sempre “io non ti devo dare consigli, ti devo allenare”, perché sapeva benissimo che un portiere è diverso dall’altro, per carattere e personalità.

Sul presidente dell’Avellino Antonio Sibilia: Incuteva timore, paura, con lui dovevi rigare dritto, se la partita andava male, tra il primo e il secondo tempo andavamo tutti in bagno sapendo che scendeva lui negli spogliatoi e insultava chi giocava male, attaccandolo al muro. Quando io e Beniamino Vignola fummo ceduti alla Juventus, andammo da lui, che ci doveva ancora un premio da 5 milioni di lire a testa. Vignola era davanti a me e quando li chiese, Sibilia rispose con una bella cinquina in faccia. Quando toccò a me gli dissi solo:”Commendatore ero venuto per salutarla”.

Su Agnelli e Boniperti: Con Boniperti amore e odio, lui non riuscì mai a gestirmi come voleva lui, secondo lo stile Juve, io ai giornalisti dicevo quello che pensavo, tante..str..e prendevo tantissime multe. Una volta, dopo la finale di Coppa Intercontinentale mi fece 10 milioni di multa per aver detto:”Con l’arrivo di Berlusconi, avrebbero fatto tutti le prove per scappar via a fine campionato con gli elicotteri”, Agnelli disse che metà multa l’avrebbe pagata lui perché avrebbe detto le stesse cose.

Su Italia’90: Prima dei rigori di Italia-Argentina, per un minuto ho creduto che la follia di Azeglio Vicini fosse tale da mettermi in campo, io qualche rigore l’avrei parato. Però è stato un gran mondiale, eravamo una grande squadra con un grande spogliatoio, la prova è che tutti e 22 ci sentiamo ancora oggi, abbiamo fatto la chat “Notti magiche”, chattiamo continuamente, ci mandiamo foto, fotine e stupidaggini varie, Berti, Serena,  sono i più attivi, Ferrara invece è lo specialista nel mandare foto.

Gerrard e i suoi primi 40 anni: l'idolo che vinse quasi tutto. Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da Enrico Sisti su La Repubblica.it E' stato il più grande calciatore inglese degli ultimi 30 anni. Con il Liverpool ha conquistato da solo la Champions del 2005 a Istanbul. Ma non è mai riuscito a prendersi la Premier. Steven Gerrard poteva vincere tutto, tanto, sempre. E’ stato uno dei più grandi e moderni interpreti del calcio totale, dove per totale si deve intendere totale: attacco e difesa, assist e reti, leadership e umiltà, origini proletarie e titolo di baronetto. “Stevie G” compie oggi 40 anni. Ma non ha vinto ciò che avrebbe meritato: solo una Champions League, e la vinse quasi da solo, due FA Cup e una di queste, la seconda, la vinse quasi da solo, tre Coppe di Lega, due Community Shield. Ciò che manca, e clamorosamente, nella sua bacheca è la Premier. Il più grande calciatore inglese degli ultimi 30 anni non ha mai vinto il suo campionato. Incredibile. Ha pagato la maledizione del suo Liverpool, che forse soltanto fra un mese o due potrà tornare a festeggiare la conquista del titolo, esattamente dopo trent’ anni. Ma Gerrard non c’è più. Trent’anni che sono durati il doppio perché pesano ancora come trenta macigni sul cuore degli appassionati che si ritrovano ad Anfield, che hanno scavato solchi nell’anima dei Reds e dei loro tifosi, che hanno inciso negativamente al punto da sbriciolare persino la Kop, la curva delle curve, che infatti è stata recentemente ristrutturata. E ampliata. Quando l’abbiamo conosciuto, a La Manga, in Andalusia, mentre preparava la sua seconda finale di Champions nel 2007, e sempre contro il Milan, “amato, rispettato, temuto”, come ci disse, Gerrard aveva ancora una vita davanti. Parlava con quel suo inglese schiacciato, dai toni sempre pacati. Raccontando di sé, si esprimeva come se non volessi disturbare, come se fosse sempre sul punto di ringraziare per l’attenzione che gli veniva ogni volta riservata. Il simbolo del Liverpool aveva i cori a lui dedicati, il più celebre di tutti sulle note di “Que sera sera”, dove si intona fra l’altro: “Steve Gerrard, Gerrard, he'll pass the ball 40 yards, he's better than Frank Lampard, Steve Gerrard, Gerrard”. Ed è un tema che si posizionava poco sotto l’eterna “You’ll never walk alone”. Oppure quello in cui si canta sulle note di “Can’t take my eyes” (la canzone nel “Cacciatore” di Cimino): “You’re just too good to be blue (allusione al colore dell’Everton, l’altra squadra di Liverpool, ndr), they can’t take the ball off of you, you’ve got a heavenly touch, you pass like Souness or Rush”. Ma di tutto questo amore, legittimo, ogni tanto Gerrard sentiva il peso: “A volte è come se troppo amore ti togliesse la concentrazione per giustificarlo…”. Quattro giorni prima della finale di Atene, alla fine un allenamento piuttosto leggero iniziato con un tuffo in mare collettivo (soltanto Dudek, eroe di Istanbul ma ormai secondo di Pepe Reina, si rifiutò: non sapeva nuotare) Gerrard ci disse: “Voglio rivincere la Champions? Certo. Ma se mi chiedete di fare a cambio con una Premier accetto”. Il Liverpool di Benitez non la vinse mai. Né lui, Stevie G. Infatti Gerrard rimane una delle poche star del calcio moderno a non aver mai vinto un campionato. “Ad un certo punto ho pensato che sarebbe stato meglio puntare altri obiettivi: per esempio la salute”. In Inghilterra dicono che la FA Cup conti più della Premier (come detto Gerrard di FA Cup ne ha vinte due): “Si equivalgono: ma non così vero che conti di più”, ammette Gerrard, “perché vincere la Premier è vincere contro tutti". Nel 2014 il traguardo sembrava vicino. Come forse mai. Gerrard poteva tornare a toccare il sogno con le mani, tante mani, migliaia di mani i cui proprietari, vivono, vanno allo stadio, dormono indossando la maglietta rossa di una squadra che non vinceva la Premier da troppo tempo: dal 1990. “Ma nessuno si deve montare la testa, nessuno deve mollare un centimetro”. Dopo la partita contro il City, ricacciate in malo modo le lacrime nei loro canali di competenza, Gerrard chiamò tutti i suoi compagni in a “huddle”, in un abbraccio collettivo. Dal capannello usciva una sola voce: la sua. “Possiamo farcela, restiamo noi stessi”. E intanto pensava a come e cosa la vita riservava: proprio nel giorno dei 25 anni dalla tragedia dello stadio di Hillsborough, il Liverpool stava rivedendo la luce, una strana luce, un cammino (fatto di quattro partite) di pura luce. Steven pensò a suo cugino, Jon-Paul, che morì anche lui in quello stadio, ora Jon-Paul Gilhooley è il più giovane nome sulla lapide che ricorda le vittime di quel drammatico pomeriggio a Sheffield. ”Aveva un anno più di me. Eravamo come fratelli”. Poi alzò lo sguardo verso il cielo che improvvisamente s’era oscurato. Un faccione sorridente gli stava facendo ombra: “Dai Steve, che adesso comincia il bello”. Era il suo allenatore Brendan Rogers, quello che avrebbe potuto trasformare il sogno di Stevie in realtà:”Con Brendan si può fare”. La stessa cosa disse Rogers: “Con Stevie si può fare!”. Specie se accanto a loro c’erano Suarez, Sturridge, Sterling, Coutinho. Rogers aveva deciso di far giocare Gerrard stabilmente davanti alla difesa, forse anche per allungargli la carriera. Steve imparò a difendere ancora meglio, ma senza dimenticare come si attaccava, come si segnava, come si calciavano le punizioni. Fra grandi, non c'è dubbio, quanto avranno impiegato per capirsi? Massimo dieci secondi. Non bastò comunque. Incredibile, ma fu proprio lo scivolone di Gerrard contro il Chelsea a bloccare di nuovo la confezione del sogno. Da “You’ll never walk alone” a “You’ll never slip alone”. Quello scivolone spinse Steven a fuggire negli Stati Uniti. Ha chiuso al Galaxy, dopo quasi 200 reti da centrocampista box to box. Ora allena i Rangers a Glasgow. Ma quando ripenserà al significato più profondo dei suoi 40 anni, e spegnerà 40 candeline, quando riavvolgerà il nastro dei desideri, tornerà quel buio oltre la siepe. E quel sogno sempre infranto. Di un campione perfetto. Se Klopp vince, vince anche per lui.

Francesco Persili per Dagospia l'1 agosto 2020. Un sentimento che si balla. Il calcio argentino come il tango nasce nelle periferie. Volver. A Buenos Aires, nel quartiere di Palermo e nel mercato dell’Abasto, il pallone rotola tra marinai, operai, umili e sfruttati e unisce italiani e spagnoli, provinciali e portegni che si riconoscono nella voce di Carlos Gardel, “el francesito dai mille mestieri” che impazzisce per i dribbling di Ochoa e gli dedica un tango. “Ochoita, el crack de la aficion”. Gesti esibiti, sguardi accesi, intenzione e desiderio, corpo e anima in comunione mistica. Invece di andare alle assemblee operaie i lavoratori si adunavano per ballare il tango il sabato sera e vedere il calcio la domenica pomeriggio.

Milonghe e futbol. A Rosario, la capitale argentina del futbol, la città di “Che” Guevara, Menotti, Messi e del “Loco” Bielsa, i calciatori sono così eleganti che sembra si muovano ballando. Parole e musica di Osvaldo Bayer, scrittore e giornalista, scomparso nel 2018, che in “Futbol” (edizioni Alegre) ci racconta attraverso il calcio le vicende politiche e sociali dell’Argentina. Una danza di scoperta, un atto ribelle. Il prologo è scritto dagli inglesi, poi arriva la mano de Dios, il sublime sberleffo post-coloniale di Maradona che chiude simbolicamente il derby con i sudditi di sua Maestà iniziato nei campetti incolti del porto di Buenos Aires nel 1867 (“Il giorno della partita alcuni non trovarono il coraggio di mettersi in pantaloncini corti perché erano presenti delle dame”).  Dimenticate le logiche del calcio-business, si tratta di tornare alle origini del Gioco, alla semplicità dell’homo ludens, alle leggende che accompagnavano la potenza di fuoco di Bernabè (che avrebbe avuto il collo del piede rivestito con una lamina d’acciaio e un osso a forma di grilletto), alle storie di riscatto come quella del “cagasotto” Monti, il capro espiatorio della sconfitta dell’Argentina contro l’Uruguay nel 1930 e poi campione del mondo con l’Italia 4 anni dopo. Si oscilla tra Soriano e Camus, si indaga la differenza tra il gioco "capitalista che richiede il rendimento" e il gioco socialista, tendenza Independiente anni '60, "perchè richiede lo sforzo di tutti", si palpita per le sfide infinite Boca-River. I balzi felini di Americo "Merico" Tesorieri, portiere degli azul-oro“, che aveva la musica di Mozart in corpo” e José Manuel Moreno, il centrocampista ribelle della squadra dalla banda rossa, grande frequentatore di milonghe, che starebbe bene in una canzone di Guccini. Prima di scendere in campo si concedeva un abbondante stufato accompagnato da una bella bottiglia di vino rosso. Lo stile Boca (“Non solo una squadra di calcio, è un’altra cosa”) esaltato da Varela, detto lo Spirito Santo, perché in campo aveva il dono dell’ubiquità e la Macchina del River, una delle squadre più spettacolari di sempre. 5 attaccanti, calcio totale e due cervelli: Carlos Peuce­lle e Renato Cesarini. E poi corruzione, pestaggi, il presidente dell’Huracan che prende a cazzotti l’arbitro nel 1941, e ancora il tango di Discepolo per raccontare il periodo di dittature militari degli anni ’30, il Decennio Infame, quello “dello scaldabagno e della Bibbia,” quando in molte case popolari il libro sacro era finito a pendere nel bagno attaccato dallo scaldabagno a una cordicella, accanto al cesso, come sostituto economico e un po’ blasfemo della carta igienica. Ci sono gli scioperi dei calciatori, la nascita nei ’60 all’interno delle curve di gruppi organizzati e violenti, le "barra bravas" e il paradosso del solito dittatore militare di turno, Onganía che ordinerà misure drastiche contro la violenza in campo quando lui stesso era il primo ad aver dato il cattivo esempio, essendosi aperto la strada verso il potere con la punta delle baionette.  Nel 1976 niente più scherzi né sorrisi. Il Paese si ricopre di sangue. Esilio, carcere, sparizioni, sequestri, torture, estorsioni, stupri. Spariscono anche i bambini. Nella notte più buia dell’Argentina, una luce. Debutta un ragazzino nell’Argentinos Juniors. Ha solo sedici anni e si chiama Maradona. Di lui venne scritto: “Diego è il rappresentante di una vecchia storia calcistica. In ogni movimento si sente la nostalgia di un calcio che se n’e andato. Il suo calcio ha la picardia, l’ironia che bisogna utilizzare per combattere con la vita”. L’Argentina, diversi anni dopo Gardel, aveva ritrovato la sua voce. Quella che unisce la città cosmopolita al barrio, il ricordo e la nostalgia, l’eleganza e la miseria, i sogni di infanzia e quel pensiero audace che ora si balla. Il tango, il futbol. La vita. Volver!

Il cartellino giallo compie 50 anni: il primo in Messico-Urss. Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it. Non ci sono personaggi e fatti banali nella storia del cartellino giallo, che compie 50 anni. Anzitutto il numero dei testimoni: oltre 100mila il 31 maggio del 1970, il giorno della prima volta. Partono i mondiali del Messico ed allo stadio dell'Azteca ad aprire le danze tocca proprio ai padroni di casa: avversaria, l'Unione Sovietica. Nessun gol, ma dopo 36' di gioco si fa la storia: l'arbitro Kurt Tschenscher, tedesco per caso (è della Slesia, se fosse nato dopo il 1945 sarebbe stato cittadino polacco) mostra il giallo al sovietico Kakhi Asatiani. Una 'vendetta' a parte invertite, visto che 4 anni prima proprio un sovietico, il guardalinee Tofik Bakhramov, è stato il giustiziere della Germania Occidentale, assegnando all'Inghilterra il gol fantasma più famoso di sempre nella finale del mondiale a Wembley . Quel 31 maggio il ruolo dell'arbitro cambia: da uomo delle ramanzine, a volte paternalistiche, altre meno, con le quali ammonisce i giocatori, diventa un pubblico ufficiale. Quel cartellino certifica a tutti le proprie decisioni. Sventola nel 1970, ma la sua origine risale a 4 anni prima. L'idea viene a Ken Aston, che dal 1966 al 1974 è responsabile degli arbitri delle fasi finali della Coppa del Mondo. Aston all'epoca è già noto in Italia: nel 1962 a Santiago i giocatori del Cile scatenano una caccia all'uomo senza precedenti contro gli azzurri nella gara decisiva per il passaggio del turno. Aston non muove un muscolo del viso per impedirlo, anzi, pensa bene di cacciare due italiani influendo in maniera determinante sul 2-0 finale. Lo spunto ad Aston glielo lo fornisce l'arbitro tedesco Kreitlein, protagonista insieme al capitano dell'Argentina Rattin di una tragicomica a Wembley. Rattin viene espulso probabilmente per avere messo un dubbio la moralità di mamma o moglie del direttore di gara. Probabilmente, perché lo stesso Kreitlein confessa ai giornalisti di aver solo intuito l'offesa. Ad ogni modo, invitato a lasciare il campo, l'argentino non raccoglie continuando a giocare per qualche minuto. Urge un provvedimento che renda ufficiale la punizione, ed ecco che il buon Aston, aspettando ad un semaforo, ha l'idea dei cartellini colorati. Non tutti si adeguano. Ad esempio in Spagna, forse per motivi legati al bianco e nero della tv, l'ammonizione viene data con il cartellino bianco. Il primo a riceverlo è Enrique Castro "Quini", altro dalla vita non banale: nel 1981, colonna del Barcellona e della Nazionale spagnola, viene rapito a scopo di estorsione. Per altro colore, il rosso, bisogna invece aspettare il Mondiale del 1974. Germania Ovest Cile: espulso Carlos Caszely, il giocatore socialista che osa sfidare il regine di Pinochet negli anni in cui farlo mette a repentaglio la vita. Fatti e personaggi, anche se i protagonisti assoluti del giallo restano tre: Tschenscher, Asatiani, Aston. Il primo, tedesco ha vissuto in tranquillità facendo l'assicuratore e il consigliere comunale. Il secondo, diventato uno degli uomini più ricchi della Georgia dopo la dissoluzione dell'Urss, fu ucciso a colpi di pistola a Tbilisi nel 2002 in circostanze mai chiarite. Quando ad Aston, che inventò anche la lavagna per indicare le sostituzioni, fu persino nominato Membro dell'Ordine dell'Impero Britannico. Di quella giornata di Santiago (esclusi gli italiani) non si ricorda quasi più nessuno.

Mezzo secolo di rigori: il primo fu di Best. Europa League e Champions senza supplementari. La lotteria varata dalla Fifa nel 1970. A inaugurarla la stella del Manchester United. Roberto Gotta, Mercoledì 05/08/2020 su Il Giornale. Tornano le Coppe, tornano le partite a eliminazione diretta: in caso di parità si andrà direttamente ai rigori, saltando i tempi supplementari. Curiosamente, proprio oggi compie 50 anni la prima gara decisa dai calci di rigore. C'erano stati casi isolati precedenti, compreso un Mestrina-Treviso di Coppa Italia nel 1958-59, ma a livello globale aveva prevalso ancora il sorteggio, e la regola era stata approvata dalla Fifa il 27 giugno 1970, subito dopo i Mondiali messicani, così il debutto toccò ad un effimero e curioso torneo precampionato inglese, la Watney Cup, che fu oltretutto il primo ad essere sponsorizzato. A partecipare, le due squadre che avevano segnato più reti nelle quattro serie professionistiche, una sorta di omaggio al gioco offensivo che però portò immediatamente ad un pareggio, 1-1, tra Hull City e Manchester United al Boothferry Park di Hull. Uno a uno anche dopo i supplementari, per cui per la prima volta nella storia si andò ai rigori. E chi fu il primo in assoluto a tirarne uno? George Best, segnando con un rasoterra alla destra del portiere Ian McKechnie, vero protagonista della serata. 28 anni, soprannominato Yuri a inizio carriera per i suoi voli che lo facevano paragonare all'astronauta Gagarin, McKechnie fu il primo estremo difensore a concedere un gol ai rigori, il primo a pararlo (al grande Denis Law) e pure il primo a sbagliarlo, scheggiando la traversa e consentendo così allo United di vincere. La nuova regola però era discrezionale: ciascuna federazione o lega poteva decidere se adottarla o meno. A livello europeo fu subito introdotta nelle coppe, e nei primi tempi ci furono gravi errori: in una partita di Coppa dei Campioni del settembre del 1972 il sovietico Valentin Lipatov dichiarò vincitore il Cska Sofia contro il Panathinaikos sul 3-2, nonostante mancassero ancora due rigori per i bulgari e uno per i greci, così la Uefa fu costretta a ripetere la partita. Caso simile in Santos-Portuguesa, finale del campionato paulista del 1973: 2-0 Santos dopo tre rigori e l'arbitro Armando Marques la chiuse lì. Con uno strascico curioso: il tecnico del Portuguesa, Otto Gloria, fece uscire i suoi in fretta, prima che i dirigenti federali presenti segnalassero l'errore, perché aveva poche speranze di vincere ai rigori e sperava nella ripetizione della partita. Che non ci fu, ma il Portuguesa fu comunque dichiarato campione congiunto con il Santos. La prima manifestazione internazionale decisa ai rigori fu l'Europeo '76, nella finale tra Germania e Cecoslovacchia: era prevista la ripetizione ma le due squadre pretesero i rigori, e fu un'occasione storica due volte, perché la vittoria dei cecoslovacchi arrivò grazie al celebre cucchiaio di Antonin Panenka al portiere tedesco Sepp Maier. Cucchiaio che, ora, viene detto proprio Panenka.

Il calcio di punizione è un'opera d'arte: ecco i 10 migliori stoccatori della storia. Juninho Pernambucano, Maradona, Pirlo, CR7 e Messi sono solo alcuni degli interpreti più forti in uno dei fondamentali più importanti, il calcio di punizione. Marco Gentile, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Il calcio di punizione: uno dei tanti fondamentali del gioco del calcio imprescindibile per una squadra. Attraverso questa sublime giocata diversi calciatori hanno spesso tolto le castagne dal fuoco ai propri allenatori permettendo di sbloccare, vincere o pareggiare determinati incontri che fino a quel momento risultavano bloccati o con un risultato negativo. Ovviamente tantissimi calciatori professionisti nel corso della loro carriera hanno realizzato diverse reti da calcio piazzato e ilgiornale.it ha cercato di mettere insieme i 10 migliori stoccatori direttamente su punizione della storia del calcio in rigoroso ordine alfabetico. In questa top 10, inoltre, mancano diversi grandi interpreti in questo fondamentale con Roberto Baggio, Alessandro Del Piero, Francesco Totti, Alvaro Recoba e tanti altri ma una scelta e una cernita andavano fatte:

David Beckham (lo specialista). David Beckham è stato un calciatore che in carriera ha sempre dimostrato di avere un piede fatato. Tanti i cross al cashmere per i compagni di squadra ma anche tanti gol con conclusioni potenti e precise e con calci di punizione chirurgici. Dopo Juninho Pernambucano, Pelé e Ronaldinho è quello ad aver segnato maggiori reti in carriera con questo fondamentale.

Mario Corso (La foglia morta). Mariolino Corso è stato un grandissimo calciatore e purtroppo si è spento solo qualche settimana a 77 anni, tre giorni prima di Pierino Prati altro grande ex giocatore ma che incantava i tifosi dell’altra sponda del Naviglio milanese. L’estroso calciatore dell’Inter di Helenio Herrera nel corso della sua favolosa carriera si è spesso messo in luce con i suoi calci di punizione con un sinistro fatato e vellutato: la cosiddetta “foglia morta”.

CR7 (la punizione alla Cristiano). Con la maglia della Juventus non è ancora riuscito a realizzare un gol su calcio di punizione ma nel corso della sua sfavillante carriera CR7 ha incantato i tifosi di Manchester United, Real Madrid e nazionale portoghese con reti direttamente su calcio da fermo. Il 35enne di Funchal nel corso degli anni ha realizzato la bellezza di 54 gemme e da diverse mattonelle tra i 20 e i 30 metri. La sua classica posa prima di battere un calcio piazzato è stata copiata per anni, e lo è ancora, da tantissimi colleghi calciatori e ragazzini in giro per il mondo. Come detto alla Juventus è ancora a bocca asciutta dopo quasi due stagioni ma non può non entrare di diritto in questa speciale classifica:

Juninho Pernambucano (la maledetta). Molti lo considerano il miglior stoccatore in assoluto della storia del calcio. Il brasiliano detiene comunque il record di maggior numero di gol segnati direttamente su calcio di punizione, 77 proprio davanti all’ex United e Milan David Beckham. Il 45enne carioca ex Lione è da tutti conosciuto per via del suo tiro al veleno, la punizione definita “Maledetta”. Il suo calcio dalla distanza, infatti, permetteva al pallone di abbassarsi molto rapidamente cogliendo di sorpresa il portiere che non riusciva quasi mai a neutralizzare la conclusione di Juninho.

Diego Armando Maradona (Il Pibe). Da anni c’è ancora gente che si chiede se come calciatore sia stato più forte Diego Armando Maradona o Pelè. Entrambi nel corso degli anni si sono scambiati diverse stoccate a livello verbale anche se hanno sempre dichiarato di stimarsi. L’argentino ritiene di essere lui il migliore di tutti i tempi, il brasiliano rivendica la paternità di questo prestigioso titolo. Chi sia stato il migliore è difficile a dirsi per stile di gioco ed epoche in cui hanno calcato i campi di calcio ma una cosa è certa: il Pibe nel fondamentale delle punizioni.

Lionel Messi (specialità della casa). La Pulce ha appena raggiunto la 700esima rete in carriera tra club e nazionale e pare che nel 2021 possa lasciare il Barcellona dopo praticamente 20 anni di militanza nella società che l’ha reso grande. 630 reti con il Barça così distribuite: 440 in Liga, 53 in Coppa del Re, 114 in Champions, 14 in Supercoppa di Spagna, tre in Supercoppa Europea e cinque nel Mondiale per club. 518 con il piede sinistro (75 su rigore e 46 su punizione), 87 di destro, 22 di testa, uno col petto, uno con la mano e uno di anca. Le reti diventano 700 in virtù dei 70 centri in nazionale. I 46 sigilli su punizione con il Barcellona, però, sono uno spettacolo puro per gli occhi:

Sinisa Mihajlovic (Il cecchino). Sinisa Mihajlovic è senza ombra di dubbio uno dei più grandi interpreti di questo fondamentale. Difensore centrale con un sinistro vellutato ma anche potente e preciso. L’ex calciatore di Inter e Lazio nel corso della sua carriera ha messo a segno diversi gol su punizione: 28 per l’esattezza e tre in un solo match. Dalla lunga distanza, da 20 metri, in posizione centrale, defilata: Sinisa sapeva sempre centrare l’angolino togliendo di fatto spesse volte la ragnatela dall’incrocio dei pali delle porte difese dai vari portieri ai quali ha segnato direttamente su punizione.

Andrea Pirlo (L’evoluzione della maledetta). In molti l’hanno considerato il “maestro” dei calci di punizione. Il 41enne di Flero ha scritto pagine importanti della storia del Milan, della Juventus e della nazionale italiana. Pirlo in carriera in Serie A ha realizzato 26 reti su punizione, due in meno rispetto a Mihajlovic, mentre in carriera ne ha segnate in totale 46 e in Champions ne ha segnate cinque facendo peggio solo di Juninho e CR7. La sua tecnica di colpire il pallone imprimendo alla sfera traiettorie impossibili e imprevedibili per i portieri sfruttando l’effetto Magnus hanno fatto la storia del calcio.

Roberto Carlos (La strana traiettoria). Roberto Carlos ha segnato oltre 100 reti in carriera su calcio di punizione e la particolarità del suo calcio era la potenza mista però alla precisione e ad una traiettoria quasi sempre impossibile da decifrare per i portieri. Le sue conclusioni da oltre 100 chilometri orari hanno fatto la storia e uno dei più celebri lo segnò alla Francia e a Barthez con un tiro che viaggiava sui 137 chilometri orari.

Ronaldinho (Il funambolo del calcio moderno). Ronaldinho è stato uno dei calciatori più talentuosi che abbiano mai calcato i terreni di gioco. L’estroso brasiliano ha sempre avuto un talento naturale per le grandi giocate di classe e per i gol impossibili. I calci di punizione sono sempre stati una sua grande peculiarità e nell’arco della sua lunga carriera tra club e nazionale in Europa e in Brasile ha realizzato la bellezza di 66 reti con questo fondamentale.

Fuori classifica.

José Luis Chilavert (il portiere goleador). Il 54enne paraguaiano, che compirà 55 anni il prossimo 27 luglio, è stato un ottimo portiere ma anche un grande marcatore. Nel corso della sua lunga carriera, infatti, ha realizzato la bellezza di 62 reti, 54 nei vari club e 8 in nazionale così distribuiti: 45 su calcio di rigore, 2 su azione e ben 15 su punizione diretta. Chilavert, dunque, non poteva mancare in questa top ten sui calci di punizione anche perché in quanto portiere non sarebbe dovuta essere una sua prerogativa.

Gian Antonio Stella per corriere.it  il 26 agosto 2020. Riproponiamo qui l’intervista di Gian Antonio Stella a Lionel Messi, pubblicata su Sette il 21 giugno del 2013. «L’ha incorniciato, quel tovagliolo di carta?». «Quale?». «Quello su cui, dice la leggenda, l’allenatore che le aveva fatto il provino per il Barcellona firmò con suo papà il primo contratto per non rischiare di farsi scappare “el niño de oro”…». Leo Messi ride. «Sono sincero: non l’ho mai visto. Non sono neanche sicuro che esista. Lo so che ogni tanto scrivono di quel tovagliolo ma io, dico davvero, non l’ho mai visto…». È una sera della tarda primavera. Il mare davanti alla trattoria sulla costa meridionale di Barcellona schiaffeggia pigramente la spiaggia, dominata da uno spuntone roccioso. Siamo dalle parti di Castelldefels, la cittadina catalana dove il fuoriclasse “blaugrana”, a dispetto della fama e della ricchezza, vive in una villa appartata e lontana mille miglia dalla movida delle Ramblas. Dal caos. Dalle discoteche. Dalle caffetterie alla moda. Dalle notti brave. “La Pulce” è allegro.  Rilassato. Apre curioso la busta che gli ho portato. Contiene la fotocopia di un vecchio “Cartellino di indice” del Comune di Recanati. È lo stato di famiglia di Angelo Messi, nato nel 1866 e domiciliato con la moglie Maria Latini in Valle Cantalupo, una povera contrada un paio di chilometri a nord della cittadina marchigiana. «I nonni di mio papà, giusto?».

Non l’aveva mai visto?

«No».

Erano di Recanati, come Giacomo Leopardi.

«Chi era?».

Un grande poeta: «sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude».

«Mai sentito. Mi dispiace».

Magari conosce la Madonna di Loreto. È lì vicino…

«No. Mi dispiace. Dov’è?».

Marche. Italia centrale. Mai avuto la curiosità di andare a vedere da dove arrivavano i nonni?

«No. Credo che mio papà conosca il posto. Che sia stato lì e abbia incontrato i nostri parenti. Magari un giorno ci andrò anch’io». ...

Lei è di Rosario, la città di Che Guevara: che rapporti ha con quella figura che campeggia sulle magliette di decine di milioni di ragazzi del pianeta?

«So chi era. È un mito. Come Evita. Ma apparteneva a un’altra epoca. Quelli della mia generazione non lo hanno vissuto come un simbolo…».

Il tango, almeno! Lo sa ballare, il tango?

«No».

Non è possibile!

«Vale quello che dicevo per Che Guevara. È di un’altra epoca, rispetto alla mia generazione. Se siamo lì e danno il tango alla radio cambiamo canale. Ma se un argentino sente il tango qui in Europa gli viene la pelle d’oca». ...

Cosa le manca di più dell’Argentina?

«Non mi manca niente… Sono venuto qui in Spagna da piccolino, la famiglia è venuta con me, loro continuano a venire e tornare, qui ho tutto quello che mi serve. Più che altro vorrei tornare nel barrio dove sono nato».

Nel barrio La Bajada?

«Sì. Il mio barrio a suo tempo era umile ma non pericoloso. Un quartiere modesto. Questo sì. Ma non pericoloso. Del resto, mio papà e mia mamma vivono ancora là…».

Era doloroso, il trattamento ormonale?

«Una puntura al giorno».

Ho letto cose diverse: il suo amico Lucas sostiene che quando era a casa sua a un certo punto si alzava, prendeva la dose nel frigo, se la iniettava e tornava a fare quel che stava facendo come fosse la cosa più normale del mondo, senza traumi.

«Era solo una puntura…».

Altri hanno scritto che quelle cure «spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l’anima. I peli in faccia che non ti crescono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare».

«Ma no… Nessun dolore particolare».

L’ha scritto Roberto Saviano…

«Chi?».

L’autore di Gomorra, il libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.

«Non lo conosco».

È vero che in tutta la sua vita ha letto solo un libro, sulla vita di Maradona?

«Sì. Vorrei leggere di più e un giorno lo farò. Ma oggi sono travolto da troppe cose».

Almeno Osvaldo Soriano lo conoscerà!

«Soriano chi?».

Vi ricordate queste "botte da fuori"? I gol e i video che hanno stravolto il calcio. Tanti giocatori nella loro carriera si sono inventati gol pazzeschi da centrocampo: da Recoba a Maradona passando per Xabi Alonso e Stankovic: ecco quelli che sono entrati nella storia. Marco Gentile, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale.  I gol da centrocampo rappresentano uno spettacolo per la vista, un emozione particolare per chi riesce a realizzare una simile gemma che rimarrà per sempre incastonata nelle menti dei tanti tifosi e appassionati di calcio. Per segnare da distanze siderali servono estro, furbizia, malizia, capacità balistiche non indifferenti e un calcio potente e preciso in grado di beffare l’estremo difensore avversario. Ilgiornale.it ha cercato di mettere insieme i dieci migliori gol da centrocampo prendendo in esame diversi campionati. Christian Vieri, Giuseppe Mascara e soprattutto Fabio Quagliarella sono i calciatori italiani riusciti a realizzare un gol da metà campo con le maglie di Atalanta, Catania (nel derby contro il Palermo) e con la Sampdoria ma non solo dato che con tutte le squadre con cui ha giocato ha sempre realizzato rete pazzesche. In questa graduatoria non poteva mancare il Pibe de Oro, ma anche Alvaro Recoba, il portiere goleador Chilavert e tanti altri ancora:

Christian Vieri (Atalanta-Siena 2006-2007) Bobo Vieri ha segnato tantissimi gol nella sua sfavillante carriera ma una sola volta è riuscito a realizzare una perla da metà campo. Stagione 2006-2007 dopo la sfortunata parentesi al Monaco in Ligue 1, dove si infortuna al ginocchio giocandosi così di fatto il mondiale del 2006 in Germania, torna in Serie A dove c’è l’Atalanta a dargli fiducia. Solo sette presenze in campionato per lui in quella stagione 2006-2007 ma una perla da centrocampo contro il Siena che è ancora negli occhi dei tifosi della Dea.

Dejan Stankovic (Inter-Schalke 04 Champions League e Genoa-Inter). Dejan Stankovic è stato un centrocampista molto prolifico in carriera con 116 reti realizzate tra Stella Rossa, Lazio e Inter e nel corso della sua carriera ha sempre realizzato reti di pregevole fattura: da fuori area, di testa, di destro e di sinistro, di potenza e di precisione. “Deki”, come veniva soprannominato all’Inter, però, è riuscito per ben due volte con la maglia nerazzurra a segnare da centrocampo: la prima volta in un Genoa-Inter finito 0-5, il serbo realizzò la rete del 3-0 con una perla da metà campo. In Champions ancora più difficile contro lo Schalke 04 sbloccò dopo pochissimi secondi la partita che si chiuse però davvero male per l’Inter di Leonardo.

Fabio Quagliarella (l’uomo dei gol impossibili). Fabio Quagliarella è senza dubbio l’uomo dei gol impossibili. Il 37enne di Castellammare di Stabia ha dimostrato di saper segnare in ogni modo: rovesciata, al volo, di tacco ma il suo marchio di fabbrica si può dire essere il tiro da fuori area. L’ex attaccante di Napoli, Torino e Juventus ha spesso provato in carriera reti impossibili dalla distanza e spesse volte ha fatto male ai portieri avversari.

Xabi Alonso (Liverpool-Newcastle). Lo spagnolo è stato sicuramente uno dei centrocampisti più completi e talentuosi degli anni 2000. L’ex di Liverpool e Bayern Monaco ha vinto tanto, segnato abbastanza e dimostrato di essere in grado di gol impossibili. Con la maglia dei Reds gli è riuscito per ben due volte ma la sua gemma da dietro il centrocampo contro il Newcastle è qualcosa che rimarrà negli annali della Premier League e del club sei volte vincitore della Champions League.

David Beckham Manchester United. L’ala inglese dello United è stato considerato per anni più un sex symbol che un bravo calciatore. In realtà David Beckham è stato uno dei calciatori inglesi, e non solo, con il piede più educato e preciso in assoluto. Le sue punizioni, i suoi cross e i suoi tiri potenti e precisi hanno sempre incantato i tifosi dei Red Devils ma anche quelli del Milan e del Los Angeles Galaxy. Con la maglia dello United riuscì a togliersi pure lo sfizio di segnare da centrocampo con in panchina Sir Alex Ferguson strabiliato.

Alvaro Recoba (Empoli-Inter). Stagione 1997-98, un giovanissimo Alvaro Recoba si affaccia al calcio italiano e permette all’Inter di pareggiare una partita complicatissima sul campo dell’Empoli che stava vincendo per 1-0. Il Chino, con una calma olimpica, prende palla a metà campo, dà uno sguardo al posizionamento del portiere avversario e lascia partire un sinistro al veleno da oltre 50 metri che permette ai nerazzurri di pareggiare la partita e al Presidente Moratti di affermare di aver acquistato un fuoriclasse.

Martin Palermo (Boca Juniores-Velez Sarsfield). Martin Palermo ha legato quasi per intero la sua carriera al Boca Juniors con cui ha segnato caterve di reti, quasi 200 in 10 anni di militanza nella squadra che fu del Pibe de Oro Diego Armando Maradona. El Loco riuscì a segnare un gol da distanza siderale di testa sul rinvio maldestro del portiere avversario: la sua incornata potente e precisa regalò al Boca la vittoria per 3-2 contro gli avversari ed è rimasta ancora negli annali del calcio argentino.

Diego Armando Maradona Argentina. Diego Armando Maradona è stato uno dei talenti più puri ammirati sul terreno di gioco. Il fuoriclasse argentino ha segnato gol assurdi con Barcellona, Boca Juniors, Napoli e con la maglia della nazionale argentina. Il gol dalla distanza, con il suo sinistro vellutato, è stato uno dei suoi marchi di fabbrica e non poteva di certo mancare in questa speciale graduatoria.

Giuseppe Mascara Catania (Palermo-Catania). Segnare da centrocampo è qualcosa di eccezionale: farlo nel derby ancora di più. Per informazione chiedere a Giuseppe Mascara capace di segnare un gol da poco dopo la metà campo in un derby tutto siciliano contro il Palermo, a La Favorita. Il piccolo e guizzante attaccante degli etnei riuscì a segnare con un gran gol di destro dalla distanza che fissò il punteggio sullo 0-3 in favore del Catania.

José Luis Chilavert (il portiere con il vizio del gol). Il portiere paraguaiano José Luis Chilavert ha sempre avuto il vizio del gol dato che ha sempre battuto calci di punizione e di rigore risultando efficace e chirurgico. In un match tra River Plate e Velez (campionato di clausura 1996), il numero uno del Velez riuscì a segnare un gol pazzesco al collega Burgos con un tiro preciso di sinistro da oltre la metà campo che non lasciò scampo al collega Burgos.

I 10 colpi di tacco indimenticabili: ecco perché hanno fatto la storia. Da Zola a Crespo passando per Roberto Mancini fino ad arrivare ad Ibrahimovic e Suarez: quando il gol di tacco diventa un vero colpo da maestro. Marco Gentile, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. Il calcio è fatto di diversi fondamentali ma uno di quelli che ha sempre fatto impazzire i tifosi e gli appassionati di questo fantastico sport è sicuramente il colpo di tacco che al pari della rovesciata è una delle acrobazie più apprezzate e difficili da mettere in atto da parte dei calciatori. Nella storia tanti giocatori si sono messi in luce con questo fondamentale e ilgiornale.it ha cercato di raggruppare i 10 più belli, o quantomeno, i più recenti che hanno fatto la storia. Quasi certamente qualcuno rimarrà fuori da questa classifica ma una scelta andava fatta. Di seguito non ci sarà una classifica ma i 10 migliori colpi di tacco in rigoroso ordine cronologico.

Hernan Crespo Juventus-Parma 2-4 (stagione 1998-99). Un giovane Hernan Crespo alla sua terza stagione con la maglia del Parma segna una fantastica tripletta in casa della Juventus. La prima di destro ad anticipare i difensori bianconeri, il secondo con un marchio di fabbrica, l’incornata di testa, il terzo con un meraviglioso colpo di tacco che lasciò a bocca aperta tutti i tifosi presenti al Delle Alpi. Quello del Valdanito resta uno dei più belli mai ammirati in Serie A.

Roberto Mancini Parma-Lazio 1-3 (stagione 1998-99). Roberto Mancini, sul finire della carriera, era ancora capace di grandi giocate e di regalare grandi emozioni ai suoi tifosi. La sfida del Tardini contro il Parma rimase negli annali grazie allo strepitoso colpo di tacco siglato dal fuoriclasse ex Sampdoria e Bologna. Angolo di Mihajlovic e tacco volante senza guardare la porta da parte dell’attuale ct della nazionale italiana.

Gianfranco Zola Chelsea Norwich 2002-2003 (FA Cup). Sei anni e mezzo per Magic Box, così fu soprannominato Gianfranco Zola dai tifosi del Chelsea, con 311 presenze e 80 reti al suo attivo. Nella sua ultima stagione l’ex attaccante di Parma, Cagliari e Napoli incantò i tifosi Blues con un gol di tacco contro il Norwich in Fa Cup che fu alla fine anche decisivo sulle sorti del risultato finale per la squadra londinese che staccò il pass per il turno successivo.

Amantino Mancini Roma-Lazio 1-0 (stagione 2007-2008). Il gol di tacco è bello, come detto, ma lo è ancora di più se si riesce a farlo in un derby come quello di Roma ha un sapore ancora più dolce. Amantino Mancini se lo ricorda bene il suo gol di tacco nella stracittadini “casalinga” vinta proprio per 1-0 dalla Roma in virtù di un suo colpo di tacco volante su un calcio di punizione battuto da Cassano.

Zlatan Ibrahimovic Inter-Bologna (stagione 2008-2009) Psg-Bastia (2013-2014) e Italia-Svezia. Il gigante svedese nonostante la grande mole fisica ha sempre deliziato i suoi tifosi con gol e giocate davvero pazzesche. Nel 2008-2009 in Inter-Bologna regalò ai tifosi uno splendido colpo di tacco che sbloccò la partita vinta poi 2-1 dai nerazzurri. Cross di Adriano da sinistra e tacco volante dello svedese che realizzò uno dei gol più belli della sua carriera. Il 38enne di Malmo si è poi ripetuto nel 2014 con la maglia del Psg con un gol strepitoso contro il Bastia. Ovviamente Ibra ha segnato di tacco anche in nazionale e proprio contro l'Italia con una rete di tacco che eliminò di fatto gli azzurri.

CR7 Real-Valencia 2-2 (stagione 2013-2014). Il Real Madrid è sotto di una rete in casa contro il Valencia e chi ci pensa a pareggiare i conti per i blancos se non lui: Cristiano Ronaldo. Cross dalla sinistra e acrobazia di tacco volante per il fuoriclasse di Funchal non nuovo a questi colpi di genio.

Jeremy Menez Parma-Milan 4-5 (stagione 2014-15). Jeremy Menez è stato spesso sregolatezza che genio ma al Tardini di Parma nel 2014-2015 segnò forse il suo gol più bello della carriera con un grande colpo di tacco a siglare il gol del provvisorio 3-5 in favore del Milan che vinse poi quella partita per 4-5. L’ex Roma superò con un dribbling sulla linea di porta il portiere dei ducali e mentre sia l’estremo difensore che altri due difendenti stavano per ritornare ecco la beffa con un colpo di tacco geniale.

Olivier Giroud (Arsenal-Crystal Palace stagione 2016-2017). L'attaccante tanto corteggiato da Inter e Lazio e oggi in forza al Chelsea, segna un gran gol quando vestiva la maglia dell'Arsenal e lo fa nel derby contro il Crystal Palace con un bel colpo dello scorpione che rimarrà negli annali della Premier League.

Fabio Quagliarella Sampdoria-Napoli 3-0 (2018-2019). Fabio Quagliarella ha spesso cercato di evitare di giocare contro il suo grande amore: il Napoli. L’attaccante della Sampdoria, però, chiuse alla grande un’ottima partita dei blucerchiati contro gli azzurri: i ragazzi di Giampaolo vinsero per 3-0 contro il partenopei di Carlo Ancelotti. Il suo colpo di tacco a battere il portiere del Napoli è una delle sue tante perle da cineteca con i suoi tantissimi gol siglati al volo da centrocampo che rimarranno per sempre nella storia.

Luis Suarez Barcellona-Maiorca 5-2 (stagione 2018-2019). Luis Suarez si è reso protagonista di un grandissimo gol di tacco nella sfida interna, vinta per 5-2 dai blaugrana, al termine di una grandissima azione corale da parte dei catalani che con pochi tocchi, tutti di prima, hanno mandato in porta il Pistolero che si è inventato letteralmente una rete da cineteca.

Calcio, la Nazionale nasce (in bianco) 110 anni fa. Con uno spareggio farsa e le squalifiche, ecco l’Italia. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. La Nazionale compie 110 anni. E quello del 15 maggio 1910 all’Arena di Milano fu un varo al risparmio, con le maglie bianche che costavano meno di quelle azzurre e abbastanza circospetto: il calcio non era popolare come il ciclismo, ma attirò comunque quattromila spettatori. La netta vittoria sulla Francia 6-2 stupì tutti, al punto che alla terza partita della sua storia — contro l’Ungheria, vittoriosa 1-0 nel gelo di gennaio sempre a Milano - il pubblico era quasi il doppio. La maglia nel frattempo era diventata azzurra, in onore dei Savoia. Ma la storia meno conosciuta è quella delle settimane che precedono il debutto dell’Italia sulla scena del calcio internazionale. Il campionato comincia in quegli anni a strutturarsi e dopo il dominio iniziale del Genoa è la Pro Vercelli la squadra più in auge. I piemontesi sono campioni in carica, ma in quel primo torneo a girone unico del 1910 con 16 partite per ogni squadra la concorrenza è forte. La Juve si stacca nelle ultime giornate, Pro Vercelli e Internazionale Milano finiscono il campionato in parità a 25 punti: si rende necessario uno spareggio scudetto. Però c’è disaccordo sulla sede (a Vercelli vogliono giocare in casa perché campioni in carica e con la miglior differenza reti) e anche sulla data, dato che i piemontesi hanno diversi giocatori impiegati in un torneo militare. La Pro chiede il rinvio dal 24 aprile all’1 maggio, ma la richiesta è respinta dalla Federazione e dagli avversari. Il 24 aprile a Vercelli la Pro schiera come clamorosa protesta «la sua quarta squadra» come la definisce il «Corriere della Sera», composta da quindicenni che perdono 10-3. Lo scudetto è dell’Inter, mentre la Federazione squalifica fino al 31 dicembre tutti i titolari della Pro Vercelli, che quindi sono esclusi anche dai primi incontri della Nazionale. Tra la squadra che gioca due volte all’Arena in 7 mesi contro Francia e Ungheria la differenza quindi è notevole: tra i titolari (finalmente azzurri) che perdono di misura coi magiari il 6 gennaio 1911 ci sono ben 6 giocatori della Pro Vercelli che hanno scontato la squalifica. La prima Nazionale era nata senza di loro. Altra curiosità: per l’ultimo nome dei primi undici giocatori da schierare contro la Francia fu necessaria una votazione, all’interno della commissione tecnica, tra i due terzini sinistri De Vecchi e Calì: quest’ultimo la spunto per 3 voti a 2. E diventò il primo capitano della Nazionale. Il primo gol lo segna invece «con un fortissimo shot da 15 metri» Pietro Lana del Milan (ma era stato tra i dissidenti fondatori dell’Inter) che realizza una tripletta: lui sarà tra i pochi a non lasciare il posto ai giocatori della Pro Vercelli quando arriverà di nuovo il loro turno.

I 92 calci alla storia di Giampiero Boniperti. Pubblicato sabato, 04 luglio 2020 da La Repubblica.it. Protetto da quella dimenticanza che scende a volte sull’età degli uomini, Giampiero Boniperti compie oggi 92 memorabili anni. La dimenticanza è purtroppo la sua, non certo quella del mondo verso di lui, perché la sua memoria si sta sfarinando pur dentro un fisico che continua a essere roccioso, granitico, come quando giocava o come quando, da dirigente, riceveva l’ospite nel suo ufficio, raccoglieva da una mensola le vecchie scarpette da calciatore, faceva tastare la punta rinforzata e diceva: «Caro, senti come sono dure, ma io lo ero di più». Quando, prima dei suoi novant’anni, gli chiedemmo cosa significasse essere arrivato tanto avanti nella strada, il presidente rispose: «Una fregatura, caro. Avrei ancora voglia di prendere tutti a calci nel sedere, te compreso, ma non riesco più». Non esiste nella storia del calcio italiano una figura così imponente, così importante, e questo va detto molto oltre il tifo e la Juventus che pure ha incarnato tutta la vita di Boniperti, da calciatore (5 scudetti, tutti i record individuali battuti) e da dirigente (9 scudetti, tutte le Coppe, purtroppo anche quella dell’Heysel nel giorno più difficile di una vita smisurata). Lui è il Santiago Bernabeu italiano, e come il leggendario presidente del Real Madrid ha segnato un’epoca. Prima quella scintillante, povera ma felice tra i Cinquanta e i Sessanta, lui a caccia insieme al suo amico Fausto Coppi, l’Italia rinata dopo la guerra, il dolore del Grande Torino, lo sport come riscatto e speranza per milioni di persone. La felicità di quel tempo pareva inattaccabile, e Boniperti diventava il nostro calciatore più moderno e completo dopo Meazza. Giocava in attacco, era un 9 e un 10 insieme ed era cattivissimo, feroce come uno stopper, dinamico come un centrocampista, agile come una mezz’ala, potente e coraggioso come un centravanti. Si ritirò a sorpresa, prima del declino, dando le scarpette al magazziniere della Juventus e dicendo: «Tieni, da oggi non mi servono più». La sua epoca, con Charles e Sivori accanto (che incredibile rivalità con il Cabezòn), resterà un simbolo non solo per gli amanti del pallone. E se Boniperti, piemontese di Barengo, Novara, e torinesissimo nei modi, nel tratto, nell’astuzia e nel caso nella cattiveria, è stato un giocatore enorme, come presidente diventò ancora di più. Gli Agnelli lo vollero al comando all’inizio degli anni Settanta, quando Boniperti fu per la Juve e per l’Avvocato quello che Vittorio Valletta era stato per la Fiat. Più di un primo ministro: un re, semmai, sottoposto al solo volere dell’imperatore nella città più monarchica d’Italia. Sembrano metafore, erano e in parte sono ancora il succo della storia. Di quest’uomo resistono immagini indelebili. Lui che telefona in redazione dicendo «buongiorno, sono il geometra Boniperti», lui che scappa dallo stadio dopo il primo tempo, lui che oggi compie gli anni nel giorno del derby, e del derby diceva «se potessi, lo abolirei», lui che faceva firmare contratti in bianco mostrando ai calciatori le fotografie delle loro (rare) sconfitte, lui che mandava sempre dal barbiere quelli con i capelli troppo lunghi, lui che da dirigente della Sisport aveva fatto vincere Mennea e la Simeoni, lui che rispondeva a ogni domanda con un’altra domanda e sempre cercava di risolverla in dribbling, scivolando altrove. Con quel sorriso a denti stretti, da belva feroce che conosce la virtù dell’autocontrollo ma quando attacca non fa prigionieri, Boniperti è anche il ricordo del suo corpo, di come stringeva la mano e con quanta forza, di come di colpiva con un cazzotto il petto di chi aveva di fronte. Ma soprattutto gli occhi, ghiaccio puro. Lo tocchi e sembra bollente, invece è il gelo.

Dagospia il 24 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Simone Perrotta è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Perrotta è tornato a parlare della spedizione dell'Italia del calcio che nel 2006 divenne campione del mondo in Germania: "Non ci si stanca mai di parlare di un mondiale vinto. E' stato incredibile e inaspettato, è sempre bello poterci ripensare. Piano piano abbiamo preso maggiore consapevolezza e abbiamo iniziato a pensare all'idea che potevamo arrivare in fondo. All'inizio eravamo convinti di essere un'ottima squadra, ma non pensavamo di poter vincere il mondiale. Il gruppo era unito, avevamo stravinto il girone di qualificazione, siamo arrivati in ottime condizioni alla vigilia del mondiale, anche se le prime due amichevoli di giugno non erano andate benissimo, avevamo fatto due pareggi con Svizzera e Ucraina. All'esordio col Ghana, però, si vedeva subito che stavamo bene in campo e fisicamente. E in un mondiale che si gioca nell'arco di un mese la condizione fisica fa la differenza".

Quella era l'estate dello scandalo "calciopoli". Perrotta la ricorda così: "Era un momento storico particolare, era appena scoppiata calciopoli, qualcuno aveva messo in discussione addirittura il mister per una serie di vicissitudini che comunque non lo colpirono in maniera personale. Altri giocatori erano stati coinvolti, qualcuno aveva caldeggiato l'idea di escluderci da quel mondiale. Tutte quelle critiche, tutte quelle parole, non hanno fatto altro che aumentare la nostra convinzione".

Sulla semifinale con la Germania: "Forse è stata quella la vera partita del secolo. Ma forse sono di parte. Mi sembra più determinante, questo mondiale poi l'abbiamo vinto, dopo il 4-3 invece abbiamo perso. E poi abbiamo vinto in uno stadio tutto loro, ricordo che nel nostro inno eravamo veramente soli. In casa, poi, la Germania non aveva mai perso, ci hanno fischiato dall'inizio alla fine, ma abbiamo dimostrato di essere una squadra di grandissima personalità. Per reggere quelle pressioni, oltre alla bravura tecnica, ci vuole carattere, personalità. E in quella occasione ne abbiamo dimostrata molta".

Sul ritiro azzurro in Germania: "Si dormiva poco, l'ansia e la tensione era altissima. In albergo da mezzanotte in poi ognuno doveva rimanere nella propria camera. Avevamo tutti una camera singola, tranne De Rossi e Pirlo. Eravamo in un albergo a conduzione familiare, gestito da una famiglia calabrese, questo è stato uno dei nostri segreti. Loro ci raccontavano cosa vivevano loro in Germania, prima della finale ci dissero che potevamo perderle tutte, tranne quella, perché per loro significava molto. Gli lanciarono anche una bomba carta nel parcheggio dell'albergo prima della partita contro la Germania. Quando siamo tornati dopo aver eliminato i tedeschi li trovammo tutti con le lacrime agli occhi. Lì ti rendi conto davvero di come vive un italiano all'estero. La gestione Lippi? Non è mai stato un sergente di ferro, non c'era bisogno. Lippi oltre a essere un allenatore straordinario è carismatico, quello è il suo miglior pregio. Qualsiasi cosa dica, tu la prendi e la fai tua".

Sulla finale con la Francia. "Ho tanti ricordi. Il primo è legato al riscaldamento. Esci dagli spogliatoi, fa una scala per entrare in campo, arrivi e vedi quella palla luminosa, che è la Coppa del Mondo. Quando l'ho vista, il cuore ha iniziato a battere molto forte. Materazzi-Zidane? Io era già stato sostituito, ma nessuno in campo si era accorto di cosa fosse successo, tranne Materazzi stesso e Buffon. A me personalmente è dispiaciuto molto, ho giocato insieme a Zidane nella Juve, lui è una persona eccezionale, terminare la carriera in quel modo nella finale di un mondiale deve essere davvero brutto. La tensione può provocare certe situazioni. Mi è dispiaciuto, Zidane non meritava di finire in quella maniera. Anche se un episodio non cancella nulla della sua carriera eccezionale".

Sul ritorno in Italia da campione del mondo: "Ho avuto la fortuna di avere lì in Germania mia moglie e mio padre. Le prime persone che ho visto uscendo dallo stadio sono state loro, è stata una soddisfazione difficile da spiegare consegnare nelle loro mani la coppa. Una volta acceso il telefono, trovai centinaia di messaggi, e non c'erano ancora i social. Feci una foto con la coppa nello spogliatoio e la mandai a mio fratello. Il ritorno in Italia è stato felice, però avevamo tutti la voglia di tornare a casa, perché tra ritiro e mondiale eravamo più di cinquanta giorni che stavamo insieme. Avevo voglia di tranquillità e serenità, volevo tornare a casa, stare in famiglia, con gli amici, un po' di spensieratezza. E credo ce l'avessero un po' tutti. Non volevamo andare da nessuna parte. Quando ci hanno detto che dovevamo andare al Quirinale o fare il pullman scoperto, eravamo contenti ma molto stanchi. Poi è stato bellissimo, comunque. Mi ricordo che mentre stavamo atterrando con l'aereo a Pratica di Mare, vedevamo dall'alto uno sciame enorme di persone e ci rendemmo conto che ci stavano aspettando. Fu molto emozionante. Lì ci siamo resi conto di cosa avevamo combinato".

ANGELO CAROTENUTO per la Repubblica il 19 giugno 2020. Tutto quello che si trovava cinquant' anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c'è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c'è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970. È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L'abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l'abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L'abbiamo vista all'epoca in bianco e nero e la rivediamo - ogni volta che le televisioni la rimandano in onda - a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo - conoscendoci - come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario - conoscendosi - come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l'hanno chiamata el partido del siglo - la partita del secolo - e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l'Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo. Questo racconta Maurizio Crosetti in " 4 a 3", il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l'impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude - non è un caso - con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv - la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte - ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall'1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera. Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene "scorre l'arte dell'agguato. Non è mai stanco". È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è "come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c'è solo bellezza". Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono , che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo, il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s' imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d'astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato - scriverà - è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico- tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.

Da gazzetta.it il 9 luglio 2020. (…) Il primo tackle, Cannavaro lo sgancia con un po' di ironia: “Ma quale rivalità con la Francia! Non c'è confronto possibile. Noi abbiamo vinto quattro mondiali e disputato sei finali. La rivalità al limite esiste magari con Germania e Brasile”. Secondo tackle: “Dite che il vostro bilancio negli ultimi 25 anni è migliore, ma voi guardate sempre le cose a vostro vantaggio, quando vi fa comodo”. Terzo tackle, o meglio, una spintarella al limite del regolamento: “La Francia però fa un lavoro eccellente sulla formazione dei giovani ed è una fonte di ispirazione per molti Paesi”.  Resta il fatto, che quella finale del 2000, per Cannavaro rimane “il ricordo più amaro e doloroso”. L'analisi è lucida: “Quella sera abbiamo dominato la partita contro una squadra molto forte, creando loro molti problemi, e abbiamo giocato meglio. Potevamo segnare meritatamente il secondo gol, ma gli errori di Del Piero e Montella ci hanno impedito di chiudere la partita. Non siamo stati troppo sicuri di noi stessi, avremmo però dovuto gestire meglio la palla negli ultimi minuti, essere un po' più lucidi, più intelligenti. (…) E poi c'è il gol di Wiltord, molto fortunato su un rinvio deviato da Iuliano e Trezeguet che io sfiorai appena, che arriva sui piedi di Wiltord. Il suo tiro passa tra le gambe di Nesta e sotto il braccio di Toldo: a volte il pallone deve entrare e non c'è nulla da fare”. Sei anni dopo però arrivò la rivincita, al Mondiale tedesco: “Prima della finale di Berlino ovviamente abbiamo ripensato all'Europeo, anche per non commettere gli stessi errori. L'esperienza ci è servita e infatti abbiamo resistito fino ai rigori. Ma era una partita molto diversa. Nel 2000 meritavamo di vincere e abbiamo perso. Nel 2006 era meno evidente”. Ma fu l'Italia a trionfare, con il rigore sbagliato proprio da Trezeguet: “Non credo nel destino. Quel rigore riassume il calcio. A volte vinci, a volte perdi. Abbiamo giocato sei finali mondiali, ne siamo abituati, e sappiamo bene che le finali si possono vincere o perdere”. Ultimo tackle: “Nel 2006 volevamo vincere a tutti i costi, e le finali di solito le perdiamo contro il Brasile. La Francia è una buona squadra, ma non è mica il Brasile”.

Riccardo Panzetta e Francesco Persili per Dagospia il 17 giugno 2020. Rivera, Tardelli o Grosso? Il 4-3 del’70, il 3-1 del 1982 o lo 0-2 del 2006? Qual è stato l’Italia-Germania più bello di sempre? Nel cinquantesimo anniversario della ‘Partita del secolo’ la retorica abbonda sulla sfida dell’Azteca. Il più grande romanzo popolare del Novecento o un mito sovradimensionato? “Errori ne sono stati commessi millanta, che tutta notte canta. I tedeschi ne hanno forse commessi meno di noi, ma uno solo, madornale, è costato loro la sconfitta”. Quando Gianni Brera sentiva usare l’espressione ‘partita del secolo’ a proposito di Italia-Germania 4-3 inorridiva. Marino Bartoletti ricorda su Facebook come “Il Grande Lombardo” sosteneva che fosse stata “una partita bruttissima, diventata leggendaria per una somma di errori tattici e individuali che generarono (quasi) altrettanto gol e una somma di emozioni indimenticabili”. Enrico Ameri la definì con sobrietà “una partita entusiasmante, drammatica e diciamo anche meravigliosa”, come rammenta Riccardo Cucchi nel libro “La partita del secolo” edito da Piemme. “Tredici eroi moderni. Gli azzurri di quella notte sono stati l’esempio di come il calcio viva di venditori di sogni e sia sostenuto, addirittura celebrato, da milioni di appassionati disposti a inseguire quei sogni, a viverli a loro volta”. Sulla sfida dell’Atzeca sono stati scritti libri, realizzati film e piece teatrali, la macchina narrativa dei baby boomer l’ha appesa nell’immaginario come la bandiera del riscatto di una nazione. Trasformandola in un santino pallonaro a cui portare lumini e devozione. A questa narrazione hanno contribuito anche i protagonisti di quella partita. Erano i figli della guerra, si chiamavano Tarcisio (Burgnich), Comunardo (Niccolai), Giacinto (Facchetti), venivano da famiglie modeste, avevano iniziato a giocare all’oratorio come Boninsegna e Albertosi oppure erano “Rombo di tuono” di una stagione in cui tutto era possibile, anche che il Cagliari si cucisse lo scudetto sulle maglie. A far saltare il banco Gigi Riva, l’uomo che mise la Sardegna al centro della cartina geografica del calcio nazionale dominato dalle grandi del Nord. Todo cambia, anche nel pallone. In quel mondiale si giocava anche mezzogiorno (ora locale) per favorire la tv, ormai globale, a costo di far boccheggiare i giocatori in campo. Tutto era pensato per la tv, anche il pallone, Telstar. Nel nome di quel pallone, il destino del gioco: Television Star. 12 pentagoni neri, 20 esagoni bianchi. Ma il sogno era a colori. Per tutti. C’è un prima e c’è un dopo, nel mezzo il gol di Rivera, estasi e tormento. Un mito per baby boomer, dicevamo. Solo che quella partita, a ben guardare, è mitologia, narrazione sovrabbondante ma da "zero tituli". Dopo quella scazzottata con i tedeschi, l’Italia arrivò spompata alla finale con il Brasile e prese quattro ceffoni. Il ct Valcareggi, che in finale rinunciò alla staffetta Mazzola-Rivera, fu scortato dalla polizia al rientro a Fiumicino quando la Nazionale venne accolta da un fitto lancio di sassi. Per l’Italia del Boom si spalancava l’inferno dei Settanta. Senza la retorica debordante di certi cantori generazionali, quella partita sarebbe considerata ancora “la partita del secolo”? Probabilmente no. E forse è ora di aggiornare gli almanacchi. Mario Sconcerti ha scritto che “la più bella partita dell'Italia nel dopoguerra” fu quella dei Prandelli boys a Euro 2012 contro i tedeschi: “Solo nell'82 ci fu altrettanto poca partita, ma erano due squadre stremate con un Paolo Rossi in più. Nel '70 rimanemmo in area tutta la partita, la leggenda nacque solo nei supplementari. Quasi nello stesso modo è andata nel 2006”. Ecco, se vogliamo incastonare un vittoria degli Azzurri nella cornice devozionale, anche se avvenuta in un altro secolo, perché non la sfida contro la Germania al mondiale 2006? “Que partidazo”, direbbe Federico Buffa. Non solo perché i tedeschi, tra i favoriti alla vigilia, erano padroni di casa ma perché ci ospitarono in un fortino, quello di Dortmund, in cui non avevano mai perso. Una partita entusiasmante, piena di occasioni da ambo le parti, una “rumble” sfacciata, palo di Gilardino, traversa di Zambrotta, i voli di Buffon, l'assist di Pirlo, magia di Grosso, anticipo di Cannavaro, il lancio di Totti, il raddoppio di Del Piero. Putiferio, orgasmo, Caressa ululante “andiamo a prenderci la coppa, Beppe”. Fu l’ardimentoso antipasto della vittoria finale. Diventammo campioni, sì.  Era l’Italia di Calciopoli, la Figc commissariata, c’era chi diceva che la nostra squadra si sarebbe dovuta autoescludere. I giornali popolari tedeschi rispolverano i luoghi comuni sugli italiani “mangiaspaghetti e mafiosi”. L’allora presidente della Fifa Blatter ci schifava al punto che si rifiutò di premiarci a Berlino. Tutto era contro di noi, anche la loro personalissima cortesia. E abbiamo vinto. Più epica di così. 

Da sportsky.it il 4 luglio 2020. "All’inizio del ritiro a Duisburg c’era un laghetto con un’acqua fangosa, davvero schifosa. Io dissi ai ragazzi che mi sarei fatto il bagno lì nel caso in cui avessimo raggiunto la finale. Mi presero in parola", ricorda divertito Lippi. Che prosegue nel suo racconto: "Quando arrivò il momento di mantenere la promessa, prima di andare a indossare la tuta – perché non volevo davvero tuffarmi nudo in quell’acqua sporca – andai in cucina e dissi al cameriere di mettermi un grosso pesce dentro un sacchetto di plastica con alcuni sassi dentro e di legarlo al lampione vicino al laghetto. Oltre a questo, anche di prepararmi una specie di fiocina. Quando mi tuffai – prosegue Lippi – presi il pesce, tolsi il sacchetto e uscì dall’acqua facendo finta di averlo pescato. Tutti si misero a ridere, mentre Iaquinta mi disse "Che fortuna mister", perché credeva che lo avessi pescato davvero".

L'aneddoto con i fotografi prima della gara col Germania. Marcello Lippi ricorda poi un altro aneddoto relativo al pre Italia-Germania: “Prima di cominciare l'allenamento mentre i ragazzi si divertivano col pallone, vidi delle luci nella pinetina intorno al campo, pensai ci fossero degli operatori con delle telecamere o comunque con delle macchine fotografiche per spiarci. Io non volevo dare vantaggi a nessuno, allora chiamai la squadra e dissi che non avremmo fatto nulla spiegando il motivo. Così andammo davanti la pinetina, ci abbassammo tutti i pantaloni e mostrammo il sedere: evidentemente non c'era nessuno nascosto, altrimenti quella foto avrebbe fatto il giro del mondo". Lippi che risponde poi così a una domanda sul futuro e su un eventuale ritorno alla guida della nostra Nazionale: "Allenare l'Italia sarebbe meraviglioso, ma ho già dato una prima volta, poi una seconda meno bella. La terza sarebbe troppo. Poi non ho più intenzione di fare l'allenatore di una squadra di club. Fra qualche mese che non avrò più voglia di far niente, se mi capitasse una nazionale più vicina ad esempio rispetto alla Cina ci penserò. È già capitata una chiamata ma è successa anche questa epidemia e ora dobbiamo solo sperare che finisca il prima possibile. Facciamo passare l'estate e poi vediamo".

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2020. Caro Dago, hai fatto benissimo a dare talmente rilievo a quella meravigliosa partita di football del campionato del mondo 2006, quella in cui l’Italia batté i favoritissimi tedeschi con un sonante 2-0 per poi andare a vincere la finale contro la Francia e laurearsi per la quarta volta campione del mondo. C’è però un piccolo particolare che stride nei resoconti per iscritto che hai offerto di quella memorabile partita. E cioè il fatto che neppure una volta viene nominata la Juventus, la squadra cui appartenevano cinque azzurri su undici di quella partita nonché il ct Marcello Lippi. Non è un particolare da due soldi perché pochi giorni dopo aver conquistato la Coppa del Mondo la Juve sarebbe stata scaraventata in serie B e derubata di due scudetti conquistati meravigliosamente sul campo. Sto parlando della Juve che aveva costruito negli anni Luciano Moggi, sto parlando di Lippi di cui voci autorevoli avrebbero voluto che venisse scartato via dalla nazionale. Non è un particolare da due soldi. Ti ricordo i nomi degli juventini: Cannavaro, Zambrotta, Buffon, Camoranesi, Del Piero. E nello scriverli e nel pronunciarli li dedico ai quaquaracquà di cui tu pubblichi ogni tanto le invettive anti-Juve. Ciao, Dago.

Italia-Germania 4-3, la follia diventata leggenda. Angelo Carotenuto su La Repubblica il 15 giugno 2020. Le storie e i protagonisti raccontati in “Quattro a tre”, il libro in edicola con Repubblica. Tutto quello che si trovava cinquant’anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c’è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c’è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970. È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L’abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l’abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L’abbiamo vista all’epoca in bianco e nero e la rivediamo — ogni volta che le televisioni la rimandano in onda — a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo — conoscendoci — come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario — conoscendosi — come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l’hanno chiamata el partido del siglo — la partita del secolo — e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l’Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo. Questo racconta Maurizio Crosetti in Quattro a tre, il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l’impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude — non è un caso — con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv — la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte — ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall’1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera. Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene “scorre l’arte dell’agguato. Non è mai stanco”. È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è “come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c’è solo bellezza”. Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono, che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo, il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s’imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d’astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato — scriverà — è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.

Approfondimento. Italia-Germania 4-3, Saragat, Rumor, Moro e quell'Italia operaia attesa da una notte indimenticabile. Concetto Vecchio su La Repubblica il 15 giugno 2020. "Achtung Azzurri!" ha titolato il Corriere dello Sport , che costa 70 lire. L'occupazione nazista è ancora un ricordo fresco. Non perdiamo contro la Germania da prima della guerra. Gli azzurri se vincono riceveranno otto milioni di lire a testa, quattro volte il salario annuo di un metalmeccanico. Pezzi di storia: a febbraio Adriano Celentano e Claudia Mori hanno vinto il ventesimo Festival di Sanremo con "Chi non lavora non fa l'amore". A Cannes il premio speciale della giuria è stato vinto da Elio Petri, per il suo "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto". Miglior interprete maschile è Marcello Mastroianni con "Dramma della gelosia". Si sono sciolti i Beatles. "Paul is quitting the Beatles" titola il Daily Mirror il 10 aprile 1970.  Il belga Eddy Merckx, 25 anni, ha vinto il Giro d'Italia: "Sono andato piano, perché voglio vincere anche il Tour", ha spiegato con baldanza. Il 21 maggio l’attore Walter Chiari e il musicista Lelio Luttazzi sono stati arrestati per droga. Il primo giugno se n'è andato Giuseppe Ungaretti. Mercoledì, 17 giugno 1970. Fa un caldo insopportabile, a Roma 34 gradi. Di buon mattino il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ha inviato un telegramma al presidente del Consiglio Mariano Rumor per i suoi 55 anni: "Nella lieta circostanza del tuo compleanno mi è gradito inviarti i più fervidi voti augurali ed un memore cordiale saluto". La scuola è finita da giorni, ma gli insegnanti hanno decretato quello che i giornali definiscono "lo sci...

Italia-Germania in tv: il silenzio di Nando Martellini prima del gol di Rivera e il grido liberatorio: "Che meravigliosa partita". Antonio Dipollina su La Repubblica il 15 giugno 2020. 17,7 milioni di italiani dalla mezzanotte incollati agli schermi. In quei Mondiali c'erano la diretta via satellite e i primi replay detti ralenti. "Che meravigliosa partita ascoltatori italiani. Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono...". Nando Martellini dixit, infine. Per 17,7 milioni di italiani alla tv, questo dice la storia. Era iniziata a mezzanotte, del resto. Ne aveva fatti due milioni in più l'Italia-Messico in prima serata, ne avrebbe fatti 28 milioni la finale col Brasile, tardo pomeriggio di domenica, da noi. Gli esegeti fanno notare da sempre una cosa, e riguarda proprio il gol di Rivera: ovvero Martellini (altri ritmi, di calcio e telecronaca) non raccontò l'azione: entrò nella medesima solo all'assist di Boninsegna, prima solo silenzio, ripresa di fiato, forse rassegnazione. Invece Rivera la mette e in quella notte cambia davvero tutto, ci si butta nelle fontane e sono le quattro del mattino, soprattutto cambia per sempre la storia della percezione del calcio, in sé e via televisione: si poteva vincere e festeggiare, in piena notte e avendo visto quello che succedeva, via tv (il Benvenuti-Griffith d'America era solo radiofonico). E il tutto per di più venendo dal Mondiale con Corea, che sembrava il destino segnato per sempre: con quell'Europeo vinto in casa due anni prima che non era, con ogni evidenza, stato abbastanza. Ma Italia-Germania 4-3 lo fu, abbastanza, eccome. Trasmissione sul Programma Nazionale: si chiamava così, il principale. In quei Mondiali c'erano la diretta via satellite, c'era il Niccolai del Cagliari scolpito per sempre dal suo tecnico Manlio Scopigno ("Tutto mi sarei aspettato nella vita tranne che vedere Niccolai via satellite"), c'erano i primi replay detti ralenti, alla francese, per cui quando l'azione tornava in diretta compariva la scritta diventata proverbiale: Vivo-Live. Per pochi fortunati sparsi per il mondo c'era anche il primo colore (oggi recuperabile su youtube e sulle mille repliche della gara del siglo viste da noi durante la pandemia). Ma la televisione, diciamo, veniva data per scontata. Per dire, nell'imminenza dei Mondiali il Radiocorriere Tv, allora la Bibbia per queste cose, uscì con un inserto dedicato a Mexico 70: ma era tutto tecnico, per accompagnare il telespettatore, le squadre, chi gioca etc. Niente sul lato televisivo, che era ovvio e dato per scontato, Niccolò Carosio, Martellini vice, Ameri e Ciotti per la radio: e le partite dell'Italia in televisione, le altre in sintesi, sull'unica televisone che c'era, mica bisognava specificare. Finché Carosio finisce nel mai chiarito, anzi sì, episodio del "negraccio" al guardalinee etiope e sparisce di scena: era per Italia-Israele di qualificazione. E quindi avanti Martellini, e Carosio a passare la vita a smentire (non risultano sue statue in giro, peraltro, quindi calmi tutti). Su quel Radiocorriere, a Mondiali in corso, scrivevano invece dal Messico cronache divertite e divertenti i medesimi inviati Rai, come Nando Martellini e Maurizio Barendson. Il primo con pezzi anche deliziosi e licenze di ogni tipo, un articolone sulla Vendetta di Montezuma senza mai entrare, per eleganza, nello specifico degli effetti. Cose oggi improponibili: in un misto di rimpianto ed esaltazione d'altura, Martellini chiude così sempre sul Radiocorriere la sua ultima corrispondenza da Mexico City: "Noi, lasciandoci, dovremo eleggere Miss Rimet fra le nostre assistenti. I pareri sono divisi: Sandro Ciotti, che se ne intende, è per la cecoslovacca Dagmar. Ameri è per Michéle, una francesina di Tolosa piena di brio. Barendson lo appoggia. Ma la saggezza e l'esperienza di Niccolò Carosio hanno già anticipato l'esito della votazione: "È inutile che vi agitiate: vincerà la messicana Flor, con maggioranza assoluta". L'intramontabile Nick - conclude Martellini - ha ragione: Flor gioca in casa...". Premesso che se oggi Caressa si inventasse una cosa simile verrebbe linciato, il consiglio ulteriore (sempre via youtube) è riascoltare anche la radiocronaca. Enrico Ameri, tambureggiante e austero, dice Burgnich con la c dura (tipo Metternich), prende e va e viene tramortito da Schnellinger, come tutti. I supplementari li vive come qualcosa di inconcepibile, urla ai gol nostri, palesa rassegnazione a quelli altrui, al 3-3 cede di schianto. E gli esce una cosa come: "E adesso speriamo che questi supplementari finiscano presto e affidiamoci al sorteggio, sia per riprendere fiato anche noi, sia per i giocatori...". Non ne poteva più. E invece. A un dipresso deve urlare ancora rete e aggiungere: non sappiamo dirvi chi ha segnato. Ma dura un secondo e poi: Riveraaaa. Bellissimo.

Italia-Germania 4-3, Giuseppe Cederna e quello storico film: "Storia di amicizia e del cambio generazionale". Luigi Bolognini su La Repubblica il 15 giugno 2020. L'attore protagonista della pellicola del 1990: "Quella partita divenne da subito il simbolo di una generazione che con entusiasmo stava provando a cambiare il mondo. Ma già alla fine del decennio successivo era divenuto chiaro che era stato il mondo a cambiare quella generazione". Tra le molte maledizioni che Karl-Heinz Schnellinger si attirò quella notte, ci furono anche quelle di un 14enne che già lo trovava poco simpatico perché era interista (il ragazzo). «Mise dentro il pallone dell'1-1 a tempo ormai scaduto, e mi disperai. Appena iniziarono i supplementari, Gerd Müller segnò l'1-2 e io me ne andai a letto in lacrime: non solo era tardi, ma ormai era chiaro che la Germania ci avrebbe battuto sull'onda dell'entusiasmo». Invece Giuseppe fece appena in tempo a tonare nella sua cameretta ed entrare nel letto sopra cui c'era il poster di Che Guevara, mentre sulla parete di fondo era appesa una foto di Boninsegna in rovesciata: il papà venne a chiamarlo per il 2-2 di Burgnich. La leggenda stava iniziando e padre e figlio la vissero assieme. Tutto questo accadeva a Roma, a casa Cederna. Antonio, il padre, era già un autorevole giornalista, ambientalista e urbanista. Giuseppe ai tempi era un liceale, poi sarebbe diventato attore, tra i più noti del cinema italiano, e tra i protagonisti (assieme a Massimo Ghini e Fabrizio Bentivoglio) di un film intitolato – guarda un po' – Italia-Germania 4-3, diretto da Andrea Barzini, tratto dall'omonima commedia di Umberto Marino. Un film uscito nel 1990, ventesimo anniversario di quel match. Un match, Cederna, che era già entrato nella storia già allora, se ne erano stati fatti una pièce teatrale e un film. «Io credo che nella storia ci sia stato dal fischio finale dell'arbitro giapponese: la prima finale mondiale dal 1938, conquistata in un modo così epico, con una partita prima noiosa ma vincente fino a quel gol allo scadere, e poi con cinque gol in mezz'ora: vantaggio loro, poi nostro, poi loro, poi nostro, col senno di poi sembrava una di quelle partite per cui la mia Inter è celebre. E credo abbia fatto la propria parte anche quel magnifico bianco e nero di allora, che ha eternato tutto come se fosse un film classico: in realtà la partita fu ripresa a colori, ma la Rai non li usava ancora nelle trasmissioni e noi italiani non avevamo i televisori adatti. Per cui quando il match viene replicato spesso spuntano fuori i colori. Ma per noi che c'eravamo ancora, resta tutto in bianco e nero, che sono i toni del ricordo, della fantasia». Proprio una replica tv della partita è lo spunto del film: tre ex sessantottini si trovano per rivederla assieme, cercando di ricreare il clima anche umano dell'epoca. «Solo che il tempo è passato per tutti: Francesco (Bentivoglio) ha un matrimonio in crisi eppure deve vivere con la ricca moglie, Federico (Ghini) è un pubblicitario rampante ben lontano dagli ideali di allora, che invece ha mantenuto Antonio (io, tra l'altro usando il nome di mio padre) il quale però non ha potuto fare il magistrato democratico, perché Federico gli aveva nascosto delle molotov in casa, e deve campare facendo l'insegnante frustrato. E l'incontro è l'occasione per sciogliere nodi, dirsi in faccia cose tenute dentro per anni, fare il bilancio della propria vita. Alla fine è un massacro. Quella partita divenne da subito il simbolo di una generazione che con entusiasmo stava provando a cambiare il mondo. Ma già alla fine del decennio successivo era divenuto chiaro che era stato il mondo a cambiare quella generazione». La cosa impressionante è che nel film i tre uomini stanno per entrare nei 40 anni, eppure stanno vivendo crisi che adesso si vivono intorno ai 60. E quella partita era già il simbolo del tempo irrimediabilmente passato, figuriamoci adesso che è trascorso mezzo secolo.

Cosa direbbero i tre personaggi, cosa sarebbero?

«Credo che con un grande sceneggiatore un nuovo incontro davanti a quella partita diventerebbe un Grande freddo. Il bilancio della vita sarebbe molto più approfondito e  definitivo, e probabilmente sconfortato, visto che la morte sarebbe più vicina. In Italia-Germania 4-3 il finale è tra il malinconico e l'allegro, coi tre amici che girano la città facendo i cretini come se fossero degli adolescenti, anzi mischiandosi proprio ai ragazzini, fino a bere il cocktail più in voga, l'Happy Sedan. Adesso è normale che dei 30-40enni si comportino così, ormai sono degli eterni adolescenti. Allora no. Certo, dovendo usare una partita come pretesto narrativo per la generazione di allora non si poteva che scegliere questa. Per i 30-40enni di adesso probabilmente bisognerebbe puntare su Italia-Francia del 2006».

Della realizzazione del film cosa ricorda?

«Il clima particolarmente allegro che c'era sul set. Ovviamente io, Francesco e Massimo la partita l'avevamo vista, a suo tempo, avevamo presente che cosa avesse rappresentato per quelli della nostra età. C'era anche Nancy Brilli, che il calcio lo segue meno, ma si fece perfettamente coinvolgere dal clima generazionale, assieme anche al regista Barzini. Eravamo dei veri amici, e lo siamo tuttora per fortuna. Perdipiù  quello era il periodo proprio dei film sull'amicizia: subito dopo questo andai a girare Mediterraneo, prima c'era stato Marrakech Express».

Guarda caso, anche quelli film con una partita di calcio dentro.

«Vero, ma il calcio affratella, unisce, perché è un veicolo straordinario di emozioni, sia che lo giochi sia che lo guardi, semplicemente. Non servono neppure le parole, spesso: il ricevere un pallone da uno sconosciuto, il mirare la porta e fare gol, o il vedere in televisione un dribbling ben riuscito o una punizione all'incrocio dei pali crea immediatamente un gruppo, un'amicizia».

Interisti a parte, di quella partita a chi è più affezionato?

«Le escludo appunto Facchetti, Burgnich, e ovviamente Bonimba. Quindi le dico Rivera: l'eleganza del gol, nella sua semplicità di un piatto all'angolino, e poi come si muoveva. Ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona anni dopo: mi impressionò come non se la menasse affatto per essere stato un campione unico, amava parlare, ascoltare, conoscere gli altri».

C'è un'altra partita che l'ha segnata così tanto?

«Un'altra sfida Italia-Germania, ma di club: Inter-Bayern Monaco del 2010. Penso a Milito, un eroe scomparso dallo sguardo triste, un' altro che meriterebbe un film».

E Italia-Germania del 1982? Per molti fu la prosecuzione di quella del 1970, con in più la vittoria finale.

«Per me il 4-3 rimane leggenda anche se poi la Coppa ci è sfuggita: in fondo affrontammo il Brasile di Pelè, perdere non fu certo un disonore. Il 3-1 del 1982 è stata una partita un po' strana per me. Gioia immensa, neanche a dirlo, ma sa dove l'ho vista? In un bar in Germania, dove stato facendo l'artista di strada, nomade, per cui dovetti starmene zitto e calmo, tenere dentro le emozioni, mentre osservavo le facce dei tedeschi progressivamente sempre più ingrugniti. E mi dispiaceva non poter prorompere in un grido, in un'esultanza, in uno sberleffo. Avrei voluto dirgli “visto? Vinciamo sempre noi”. Avrebbero capito anche se l'avessi detto in italiano. Ma ho preferito vivere».

Gerd Müller ha l’Alzheimer: a 75 anni, il più grande centravanti tedesco è perso nella nebbia. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2020. Il talento vero? Forse è «solo» ciò che fa eccellere. Qualche volta malgrado le apparenze. Così è stato per Gerhard «Gerd» Müller da Nördlingen che questo 3 novembre compie 75 anni. E che nella mente di molti ultra-cinquantenni calciofili resta sinonimo di «gol», per il Bayern Monaco e quella Germania Ovest ormai sparita. A rimanere, invece, è - appunto - il «talento per la rete» di questo attaccante sgraziato e rapidissimo. Poco armonioso nel fisico - testa grande, baricentro basso, gambe e braccia corte -; non eccelso nel palleggio, ma dalla capacità di essere ovunque fosse un pallone. In prossimità della linea di porta avversaria. Risposta teutonica, a metà dei ‘70, del calciatore-tipo olandese: bello, biondo, agile e forte tecnicamente (Cruijff. Ma non solo...). Vero terrore delle difese a qualsiasi latitudine e livello. Come raccontano soprattutto i suoi numeri.

La carriera. Fino ad ora (dati alla mano) è il più importante centravanti tedesco della storia, Müller, infatti ha vinto tutto. Col Bayern e la Nazionale. E a livello personale: un Pallone d’oro (nel 1970) e due Scarpe d’oro (1970 e 1972). Nel suo carniere: 735 gol in 793 partite (fra i giocatori con la più alta media realizzativa: 0,93 gol-gara); 68 reti con la sua Nazionale (in 62 presenze). Una storia calcisticamente semplice, quella di questo centravanti «sposato» al Bayern sin dai 19 anni, dopo un breve inizio nella squadretta locale della sua città (il TSV 1961 Nördlingen). Poco appariscente a vedersi, ma agilissimo; con un senso della posizione e una solidità fisica uniche, Müller fu notato dal mister croato Čajkovski che lo segnalò alle giovanili bavaresi; l’altro croato Zebec. invece, ebbe il compito di lanciarlo (quasi subito) in prima squadra, raffinando il suo senso per il gol. Nel 1965, in una prima squadra del Bayern che navigava nella serie B della Germania Ovest, Müller cominciò a segnare a raffica. Con Sepp Maier fra i pali e Franz Beckenbauer libero, dalla Regionalliga Süd il salto alla Bundesliga riuscì subito. E poi fu «festa grande»: nelle quindici annate al Bayern Monaco segnò 365 gol in 427 presenze; per quattro volte campione di Germania (1969, 1972, 1973 e 1974), tre volte Campione d’Europa (1974, 1975 e 1976). Ha vinto la Coppa Intercontinentale nel 1976 e la Coppa delle Coppe nel 1967. Le sue 365 reti in Bundesliga sono tutt’ora un record.

Le caratteristiche. Abile sia in acrobazia che di testa; preciso nel tiro (non potentissimo), Müller aveva tutta la solidità della sua gamba corta e la mobilità spiazzante del proprio bacino largo. Utile ai veloci cambi di traiettoria nelle finte e nei contrasti coi marcatori «a uomo» dell’epoca. Una «iradiddio» nello stretto dell’area avversaria; anche perché lui sapeva e prevedeva. Il movimento avversario; il passaggio del proprio compagno. Insomma: una macchina da gol con una «carrozzeria» particolare. Un uomo semplice, istintivo in campo, sensibile fuori. Tanto da smettere (nel momento più bello) con quella Nazionale «monca dell’Est», subito dopo il Mondiale del ‘74. Vinto (nello stadio di casa) sugli odiati olandesi (quelli «belli e aggraziati»). Sua la rete del 2-1 decisivo nella porta di Jongbloed; così come sue due reti (delle tre) con le quali gli stessi bianchi teutonici avevano battuto l’Urss nella finale dell’Europeo del 1972. Senza dimenticare i due gol nel mitico Italia-Germania 4-3 dell’Azteca (Messico ‘70, dove risultò capocannoniere con 10 reti). Il finale di carriera fu quindi speso - dai trent’anni in avanti - nella folkloristica Nasl (North American Soccer League) Usa. Ingaggiato dai Fort Lauderdale Strikers: tre stagioni e 40 gol. Prima del ritiro a 33 anni. Cosa poter vincere di più?

L’Alzeheimer. Eppure, dopo il ritiro, Müller ha dovuto affrontare, oltre a un lungo periodo di depressione, quell’alcolismo che gli ha rovinato la vita e la salute. Più volte soccorso dai suoi ex compagni del Bayern, che lo hanno spinto a terapie di disintossicazione e riabilitazione, è stato anche dirigente e allenatore delle giovanili del Bayern. Prima di rendere nota l’origine della sua ultima corsa: quella contro il morbo di Alzheimer. Oggi vive in un centro medico specializzato per malattie croniche e degenerative. «È stato sempre un combattente, sempre coraggioso, per tutta la vita. E anche ora lo è. Gerd sta riposando in attesa della sua fine. È calmo e pacifico, e non credo che soffra. Spero che non possa pensare al suo destino, in un malattia che priva una persona della sua ultima dignità», ha affermato la moglie, Uschi Müller. Gerd è comunque amato e accudito da molti; apprezzato da tutti. Per ciò che è stato e che da qualche parte (oltre che nella storia del calcio) continua a rimanere.

"O segno o non torno più a casa". Italia-Germania 4-3, intervista a Gianni Rivera: “Solo dopo capimmo di aver fatto la storia”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Giugno 1970, cinquant’anni fa. Bolle la pentola a pressione della storia. In Italia si discute molto della proposta di legge sul divorzio. Frange di estrema destra tramano per provare a mettere in atto il golpe Borghese. In Cile la sinistra si compatta dietro alla candidatura di Salvador Allende, di cui Pinochet diventa consigliere militare. Ma gli occhi del mondo sono altrove: il 17 giugno si concentrano sul Messico. Si giocano i Mondiali. Si gioca Italia-Germania, la partita del secolo. Una partita-simbolo, divisa in tempi diversi e con capovolgimenti di fronte continui. Una metafora della storia, assurta a simbolo del carattere indomito e sorprendente degli italiani, mai tanto rappresentati da un singolo evento sportivo. Protagonista indiscusso di quell’incontro è stato Gianni Rivera, inserito dalla Fifa tra i cento giocatori che hanno fatto la storia del calcio mondiale. Un calciatore tecnico raffinato e fatale in campo, capace di disegnare con i piedi le azioni più incredibili. Ma con un carattere che non le mandava a dire, e con una passione per la politica con pochi uguali nel mondo del pallone. La partita ha inizio alle ore 16:00 di mercoledì 17 giugno 1970 presso lo Stadio Azteca di Città del Messico. Successe di tutto. Gianni Brera, che seguiva dalla tribuna, la sintetizzò così: «I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti. Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato». «È una partita emozionante, ma è stata pur sempre una partita. Poi non abbiamo vinto la coppa, è servita a poco alla fine», dice Rivera al Riformista.

Ma insomma Rivera, non vi rendevate conto di fare la storia del calcio?

«Il clamore suscitato da quella vittoria ci sorprese. La telecronaca di Nando Martellini appassionò il Paese più di quanto credevamo noi uscendo dal campo, andando negli spogliatoi. Tornati in albergo io telefonai a mia madre, come facevo sempre dopo le partite. Lei mi fece sentire dal telefono la pazza gioia della gente in strada. Realizzai solo in quel momento. E capii che lo sport aveva questa potenzialità incredibile di unire le persone, di mettere insieme tutti».

Cosa ha pensato al primo goal di Boninsegna?

«Io ero in panchina e sapevo di dover entrare nel secondo tempo. Vidi il goal e dissi: questa partita si vince difendendo questo punto. E andò in tutt’altro modo! I tecnici avevano deciso per la staffetta, Mazzola doveva giocare il primo tempo e io il secondo. E così è stato. Sapevo che era un goal da difendere, perché quella Germania era una grande squadra. Riuscimmo per quasi tutto il secondo tempo a tenere fermo il risultato. Poi successe qualcosa di incredibile».

Il gol della Germania. 1-1.

«Quando Schnellinger aveva capito che l’arbitro stava per fischiare la fine della partita, umiliato per il risultato e non volendo incrociare gli sguardi dei suoi compagni del Milan, fece per avvicinarsi agli spogliatoi che erano dietro alla nostra porta. E mentre andava, ecco la palla che attraversa l’area di rigore e gli capita sotto i piedi. Ha fatto goal senza aver costruito l’azione, una rete del tutto casuale».

Quanto conta il caso nella vita?

«Il caso conta. Poi però bisogna sapere approfittare del caso per trasformarlo in opportunità. Le chances arrivano nella vita, bisogna avere la prontezza di cogliere la palla al momento giusto e saperla mettere in rete. In campo, si trasforma l’azione in pochi secondi, si decide in una frazione di secondo. Andiamo al secondo tempo. Lei fu protagonista al 110’ di una azione sfortunata, si era infilato tra i pali della nostra porta e il tiro di Muller sfiorò il suo corpo, entrando in rete».

Cosa pensò, tra sé?

«Pensai di averla fatta grossa. Ero corso tra i pali perché il portiere Albertosi era uscito troppo. Ero nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Pensai che se non fossi stato in grado di rimediare, non avrei potuto far ritorno a casa. Mi sono detto che non poteva finire così. E ho tirato fuori tutto, pur al culmine dello sforzo di un incontro così lungo. Corsi in avanti, ripresi la palla e un solo minuto dopo, segnai il quarto goal. E vincemmo».

Una metafora; l’Italia che ce la fa, contro ogni previsione, all’ultimo.

«Noi italiani abbiamo dentro una forza di volontà e di carattere non comuni. Sappiamo fare sprint, siamo un popolo che non poggia tanto sulla forza dei muscoli quanto sulla testa, la fantasia, la capacità di aggirare gli ostacoli. E quando siamo messi alle strette, diamo spesso il meglio».

La rivalità tra Mazzola e Rivera è leggenda o ha un fondo di verità?

«Ci siamo sempre rispettati, come rapporto umano. Non c’è mai stato uno scontro personale. Siamo stati sempre contrapposti: lui all’Inter, io con il Milan. E sovrapposti, perché giocavamo in campo nello stesso ruolo. Così decisero di alternarci mettendo in atto una staffetta: primo tempo lui, secondo tempo io. Lei è stato anche dirigente del Milan, quando ha smesso di giocare. Poi è arrivato Berlusconi. E mi ha fatto capire che quando c’è lui, non c’è spazio per gli altri. E lì è iniziato il mio impegno politico, cercando di capire, io che ero stato un centrocampista nel gioco del calcio, se si poteva costruire un centrocampo in politica».

Quattro volte in Parlamento, un mandato in Europa, perfino sottosegretario alla Difesa…

«Una bella contraddizione, per uno che ha fatto sempre dell’attacco in avanti una professione, finire alla Difesa. Ma è stata una bellissima esperienza, ho conosciuto persone di straordinaria professionalità e ho capito perché l’Italia è così apprezzata nel mondo, nelle missioni internazionali di pace».

Lei qualche volta nelle missioni della nazionale invece mise scompiglio, polemizzando con la federazione, gli allenatori, gli arbitri…

«Ho sempre avuto il pregio di dire le cose come stanno. Gli accordi che fanno i dirigenti del calcio e i tecnici sulle teste dei giocatori, a loro insaputa, non mi sono mai piaciuti. Ho fatto molte polemiche? Ho alzato la voce quando sentivo di doverlo fare. Il calciatore è un professionista dello sport, non è una macchina. Siamo persone con le nostre emozioni e il nostro carattere».

Com’è il campo da gioco della politica?

«È un campo molto vasto. In quello di calcio si vedono i segni perimetrali, bianchi. Nella politica no. È un campo imprevedibile, pieno di tranelli. Churchill diceva: gli italiani giocano a calcio come andassero in guerra, e vanno in guerra come se fosse una partita di calcio. Ma in entrambe le attività, la guerra come il pallone, devi mettere testa, cuore e gambe. Se lo sai fare, vinci. Altrimenti perdi. Io ho dedicato la mia vita di calciatore a mettere insieme queste tre cose».

Oggi chi vede, tra i bomber del campionato politico?

«Ho iniziato a ragionare di politica con Martinazzoli, non so se mi spiego. Oggi non mi appassiona più nessuno».

Conte in che ruolo lo metterebbe a giocare?

«È un tecnico, no? Faccia il tecnico. Il preparatore, l’allenatore. In partita si barcamena, non lo vedo in campo a lungo».

Salvini, comunque lo si guardi, è un cannoniere.

«Con me a centrocampo non sarebbe passata una sua palla. A parte tutto, no. Non mi convince».

Renzi è un altro goleador.

«Lo è stato, ha avuto un momento d’oro. Non so se quel momento possa tornare. Ha fatto autogol con il referendum su cui ha scommesso la sua uscita dalla politica. Non avrebbe dovuto rischiare così tanto».

Chi vede come avversario, tra le squadre in parlamento?

«Non mi piacciono i grillini. Il Movimento Cinque Stelle è responsabile di aver portato in politica una carica di violenza, anche solo verbale, incredibile. Un clima da curva dello stadio. Da ultras. Il populismo è la malattia di questi nostri anni».

E il no alle Olimpiadi è venuto proprio da loro.

«Non ne parliamo, che suicidio! La dirigenza sportiva internazionale era tutta orientata sulle Olimpiadi di Roma, il no della diretta interessata, la Sindaca, è stato incredibile. E ha fatto la fortuna di altre amministrazioni, perché è ovvio che c’è chi ha beneficiato economicamente da quella rinuncia italiana. Una che ha ammesso pubblicamente, con quel gesto, di non volere e di non sapere amministrare una capitale che invece deve vivere di grandi eventi internazionali».

Che cosa c’è nel futuro di Gianni Rivera?

«Sono diventato allenatore di prima categoria dopo aver seguito tutto il corso. L’esperienza non basta, serve aggiornamento, rimettersi sempre in gioco con umiltà. E adesso posso allenare club di serie A».

Il Milan, magari.

«Con Berlusconi fuori, sarebbe una rivincita. Io sono a disposizione. Certo mi piacerebbe lavorare con chi è in grado di arrivare in alto e vincere. Il Milan sarebbe un buon approdo, ma non metto gli occhi su squadre che hanno già un allenatore vincente. Il patentino ce l’ho. Se una squadra di un certo livello decide di cambiare mister, io sono qua».

Le piace ancora giocare a calcio?

«Il calcio quando ti entra nel sangue non va più via. Lei mi ricordava che sono passati cinquant’anni da quella partita, Italia-Germania. Sa come festeggio? Prendo la racchetta e vado a giocare a tennis. Al Foro Italico, ho già prenotato il campo».

Gianni Rivera: “Il mio 4-3 da leggenda. La staffetta fu una scelta politica”. Schnellinger voleva solo uscire per primo, perciò era lì: il suo gol rese memorabile una partita non certo bella. Enrico Sisti su La Repubblica il 15 giugno 2020. Di Rivera ce n’è sempre uno solo: 50 anni fa come oggi. Sempre lo stesso pacato, forse un po’ malinconico, golden boy, quello che raccontava di sé cose tipo: «Non ero un calciatore, piuttosto uno che giocava a pallone». Altri tempi, anche supplementari, altri parametri tra vita agonistica ed esistenza reale. Oggi, a 76 anni, Gianni lo puoi incontrare per il centro di Roma, dove abita («e dal quale non mi sposto più»), magari con un rig...

Enrico Sisti per la Repubblica il 16 giugno 2020. Di Rivera ce n'è sempre uno solo: 50 anni fa come oggi. Sempre lo stesso pacato, forse un po' malinconico, golden boy, quello che raccontava di sé cose tipo: «Non ero un calciatore, piuttosto uno che giocava a pallone». Altri tempi, anche supplementari, altri parametri tra vita agonistica ed esistenza reale. Oggi, a 76 anni, Gianni lo puoi incontrare per il centro di Roma, dove abita («e dal quale non mi sposto più»), magari con un rigato elegantissimo oppure con un paio di pantaloni da lavoro, con i tasconi all' altezza delle ginocchia. È diventato allenatore: «Magari la chiamata non viene, magari sì. Comunque che sappia: io sarei anche pronto».

Rivera, come sta?

«Procediamo».

Cinquant' anni fa era un Pallone d' oro in carica di cui l' Italia era orgogliosa da impazzire, al punto da tenerlo in panchina come fosse un oggetto più fragile che prezioso.

«La staffetta era una scelta politica, non calcistica. Quanto al Pallone d' oro, l' ho vinto perché avevo accanto gente come Trapattoni, Lodetti, Sormani, Prati».

Che Germania era, quella lì?

«Una delle squadre forti di quel Mondiale e ci capitò tra i piedi. Qualcuno era superiore alla media. E anche di molto. Ma siccome non erano tempi di rivoluzioni tattiche, i tedeschi giocavano sempre da tedeschi, e gli italiani da italiani».

Si sarebbe mai immaginato che cinquant' anni dopo «Italia-Germania è stato un caso, ma anche un "unicum"». Non aveste peraltro una vigilia diversa dalle altre.

«Le vigilie erano tutte uguali. Ovviamente io già sapevo, perché era una sceneggiatura scritta in anticipo, cosa mi sarebbe capitato...».

Nessun accorgimento per contrastare Müller, Seeler, Overath o Beckenbauer?

«Nessuno. Tutti noi sapevamo cosa fare, dove e quando. Albertosi compreso, che all' epoca doveva stare in porta perché così funzionava, anche se a lui piaceva giocare con i piedi, solo che era nato nel momento storico sbagliato».

Ma psicologicamente come arrivaste alla Germania?

«Direi bene. Un buon girone, un ottimo quarto».

E in quel quarto contro il Messico iniziò il Mondiale di Rivera, con la rete del 3-1.

«In qualche modo sì. Era sempre difficile attendere in panchina. Almeno per me. Soprattutto perché non avevo scelta. Ero parte di un disegno. Stavo lì seduto, non dovevo fare nulla di particolare: solo aspettare che finisse il primo tempo».

Come contro la Germania.

«Ormai Valcareggi non mi diceva più niente. Il cambio era automatico. E a quei tempi ti dovevi scaldare negli spogliatoi o nei corridoi. Sperando che corridoi e spogliatoi fossero vicini al campo».

Quel secondo tempo azzurro (e suo) per gestire il vantaggio di Boninsegna?

«Dovevamo essere bravi a non farci prendere dagli spasmi. Erano loro che dovevano sbattersi per cambiare le cose. Non noi. Sono stati aggressivi soltanto nella parte finale. Ma grandi rischi non ne abbiamo corsi, se ricordo bene. Sì, non sarebbe stata una partita bellissima se».

Se poi non fosse comparso Schnellinger.

«Ci siamo incrociati a fine partita senza dirci nulla, ma prima sì. Mi fece capire che si stava spostando in attacco solo perché la partita ormai era finita e gli spogliatoi erano dietro la nostra porta, così avrebbe evitato gli sguardi dei suoi compagni del Milan, io e Rosato. "Così", mi disse, "appena fischia l' arbitro scappo dentro!" Insomma era stufo. Invece si ritrovò la palla sul piatto destro. La sua presenza lì era talmente inaspettata e insieme sospetta che nessuno si occupò di lui. Tutti marcavano tutti, come da programma, Karl-Heinz era libero».

Lei fece la differenza anche nel primo dei supplementari: sua la punizione per il 2-2 di Burgnich e fu sempre lei ad avviare lo scambio del 3-2 di Riva.

«E nel secondo supplementare tutto il resto: ero vicino al palo sul colpo di testa di Seeler, punto nel quale forse non mi ero mai trovato in vita mia. Poi arrivò la spizzata di Müller, che si allungò, sfiorò il pallone che mi toccò il fianco: 3-3. Potevo mettere la mano, ma che sarebbe cambiato?».

E poi la storia.

«Ero partito per calciare di sinistro in diagonale, dopo il cross basso di Boninsegna. Invece in un attimo, non so quanto, ma veramente poco, ho visto Maier spostarsi rapidamente verso la sua sinistra, così ho cambiato direzione e soprattutto piede. Sapete com' è andata a finire. Pensi che solo rivedendo la partita mi sono reso conto che avevo davvero calciato di destro».

Quando è finita per lei l' eccitazione di Italia-Germania?

«Probabilmente nell' intervallo di Italia-Brasile. Eravamo negli spogliatoi. Stavo per togliermi la tuta. Mazzola cominciò a slacciarsi le scarpe ma Valcareggi lo fermò: "Tu torni in campo!". Non mi ricordo nemmeno bene cosa provai...».

Rivera: "Ma io preferivo vincere la finalissima". «I 6 minuti con il Brasile mi sono rimasti qui A Schnellinger dico: hai fatto la cosa giusta». Massimo M. Veronese, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Il primo italiano a vincere il Pallone d'oro, il primo a vincere la Coppa dei campioni, il primo della classe in tutto. Soltanto in Italia-Germania 4-3 Gianni Rivera, il più grande giocatore italiano di sempre, una vita divisa tra Milan e Nazionale, segnò per ultimo. Aveva già vinto tutto in Italia e nel mondo e con quel gol non conquistò nulla. Tranne, ovviamente, l'eternità.

Perché Italia-Germania 4-3 è ancora così popolare dopo mezzo secolo?

«Perché quei trenta minuti di supplementari sembravano non finire più. E infatti non sono finiti mai».

Si ricorda come avete festeggiato?

«Avevamo capito di aver fatto qualcosa di straordinario, ma ai Mondiali pensi subito alla partita dopo. Pensavamo di festeggiare in finale invece...».

Eppure senza quel gol di Schnellinger...

«Sarebbe stata una partita noiosa. Che nessuno oggi ricorderebbe più».

Vi sentivate durante il Mondiale?

«Con Karl? Mai. Eravamo in due città diverse, quasi in isolamento: ci era consentita qualche telefonata a casa e niente più. Eravamo milanisti quando avevamo la maglia del Milan ma quando ce la toglievamo eravamo altro».

E pensare che volevano mandarla a casa...

«Sentivo brutta aria intorno a me e allora sparai a zero sui dirigenti della Nazionale, soprattutto Mandelli che era quello che comandava. Era deciso a rispedirmi in Italia».

Cosa disse di così grave?

«Mi meravigliava il fatto che ci fossero problemi a farmi giocare. Stavo benissimo e non essendo fumatore come gli altri in altura respiravo meglio di tutti. Quindi perché?»

E invece?

«Dall'Italia arrivarono Rocco e Carraro per mediare. Fu decisivo il presidente federale Artemio Franchi: capì il motivo del mio sfogo e fece finta di niente».

Però?

«Finirono per inventare la staffetta facendo giocare Mazzola nel primo tempo e me nel secondo. Una follia».

Volevano farla tornare a casa ma c'è mancato poco che a casa non tornasse più.

«Quando abbiamo preso il gol del 3-3. Ero piazzato sul palo sinistro e quando vidi arrivare il colpo di testa di Seeler mi spostai per respingerlo».

E invece?

«La deviazione di Muller mi ingannò e la palla passò dove non doveva passare: tra me e Albertosi».

Che gliene disse di ogni...

«Non le riferisco perché siamo in fascia protetta...».

Immagino lo sconforto.

«Pensai: o vado a segnare o in Italia non torno».

Voleva scartarli tutti.

«Si, ma quel muro di maglie bianche me lo sconsigliò».

Fortuna che arrivò il gol del secolo.

«Ero convinto di aver tirato di sinistro invece avevo colpito di destro. La finta mandò Mayer a sinistra e io piazzai la palla a destra: sembrava non entrare mai come una sequenza al rallenty. Mi son tolto un peso dal cuore».

Perché questa rivalità tra Italia e Germania?

«Perché sono le due squadre europee che hanno vinto di più, perché per tradizione sono le due squadre più forti».

Adesso non è più così: l'Italia non è andata ai mondiali e la Germania ne ha fatto uno disastroso.

«Sono migliorati gli altri: i francesi, gli spagnoli. Tutto si è equilibrato, ma Italia e Germania torneranno grandi».

Ora che è allenatore farebbe giocare Rivera in finale?

«Dal primo minuto perché l'unico giocatore che doveva giocare la finale dall'inizio era lui. Almeno avremmo giocato alla pari. Mi è rimasta sul gozzo».

Poi ci fu quella frase ironica di Pelè...

«Disse, se lascia fuori Rivera allora l'Italia deve essere una squadra eccezionale. Non possiamo che perdere...».

Cosa vuol dire a Schnellinger mezzo secolo dopo?

«Mi verrebbe da dire: se stavi al tuo posto era meglio. Ma visto come è finita: Karl, hai fatto la cosa giusta...».

Valcareggi, il ct che sfiorò l'impresa (e inventò il turnover). Enrico Currò (ansa) su La Repubblica il 15 giugno 2020. Il ricordo del figlio Furio, al fianco di Ferruccio anche nella spedizione messicana del '70: "Che vergogna l'accoglienza con i pomodori dopo quel mondiale. Mio padre non si faceva condizionare e pagò la scelta della staffetta Mazzola-Rivera". E ammette: "La Germania giocò meglio". Nel giugno 1970 il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, triestino di nascita e fiorentino d’adozione, fu condannato dal tribunale del popolo per i soli sei minuti concessi nella finale del Mondiale messicano all’eroe di Italia-Germania Gianni Rivera. All’arrivo a Fiumicino misurò l’ingratitudine della volubile folla: i pomodori per un secondo posto dietro il magnifico Brasile di Pelé e Tostao, Gerson e Rivelino, Jairzinho e Carlos Alberto, due anni dopo quello che resta tuttora l’unico Europeo vinto dalla Nazionale. Di lì a poche ore sarebbe stato applaudito sotto il Quirinale, quale guida dei vicecampioni del mondo: il presidente Giuseppe Saragat li avrebbe premiati per l’eccellente torneo. Ma intanto all’aeroporto lo aspettavano per lapidarlo con gli ortaggi. Di siffatta lapidazione in salsa italiana - che oggi sarebbe virtuale, via social, e che altrove conosceva già varianti festerecce, come in Spagna la Tomatina di Buñol - Valcareggi era suo malgrado un esperto: nel 1966, quand’era il vice ct, i pomodori con l’aggiunta delle uova marce, al rientro a Genova dall’Inghilterra, erano toccati al predecessore Edmondo Fabbri e agli azzurri rei della beffa di Middlesbrough, l’eliminazione con la Corea del Nord. L’esperienza insegna: a Roma venne sottratto ai tiratori scelti (scelti da se stessi) il bersaglio principale per le munizioni alimentari: “Ci avvertirono prima dell’atterraggio che a Fiumicino ci attendeva un sacco di gente poco amichevole. Così il mio babbo e i giocatori furono caricati subito sulla prima navetta verso lo scalo, appena scesi dall’aereo, e filarono via alla svelta. Sulla seconda navetta restavamo noi altri della comitiva: ricordo Gianni Minà, il giornalista della Rai. L’autista era terrorizzato e accelerò, infilandosi in un hangar per gli apparecchi in manutenzione. La folla ci faceva dondolare, rimanemmo tre ore chiusi lì dentro. Un’accoglienza vergognosa”. La voce narrante è di Furio Valcareggi, figlio di Ferruccio, agente Fifa e memoria storica di quel Mondiale. A mezzo secolo di distanza, racconta con la partecipazione del testimone diretto lo stato d’animo della squadra: “I calciatori non vedevano l’ora di andare in vacanza, ma il protocollo imponeva la visita da Saragat per la commenda. Dormirono una notte in albergo, al Parco dei Principi, e presero ancora più consapevolezza di avere sfiorato l’impresa: quel Brasile era fortissimo, secondo solo a quello del 1958 in Svezia, e loro erano riusciti a tenerlo sull’1-1 fino al minuto 66, mancando pure il 2-1 con Domenghini. Nella storia restano il 4-1 finale e la foto del primo gol di Pelé, che sembra volare in cielo mentre Burgnich è inchiodato a terra. Mica vero: Tarcisio era in anticipo e gli sono scivolati i talloni, così non è più riuscito a saltare. Altrimenti Pelè quel colpo di testa non l’avrebbe potuto fare, il pallone non gli sarebbe arrivato mai”.

Il no a Nereo Rocco. Invece il cross di Rivelino arrivò, O’ Rey appose la firma anche su quella partita e il ct della Nazionale diventò il capro espiatorio di una sconfitta che le ricostruzioni più immediate, solo in parte corrette negli anni, attribuirono al mancato impiego del Pallone d’oro in carica Rivera e non ai due fattori tecnici e atletici prevalenti: l’oggettiva superiorità dei brasiliani e la stanchezza degli azzurri, reduci dai supplementari con la Germania Ovest. Valcareggi venne accusato di non avere schierato dall’inizio contro il Brasile il capitano del Milan - preferendogli il rivale per definizione, il capitano dell’Inter Sandro Mazzola – per ragioni politiche, come Rivera stesso ha ribadito ancora qualche giorno fa: la formazione sarebbe stata imposta da Walter Mandelli, industriale piemontese, il dirigente della Figc più vicino alla squadra. Sull’argomento Valcareggi junior ancora si accende: “Ma quale Mandelli, il babbo non si faceva mai condizionare da nessuno, il babbo aveva due coglioni così. Quando al Mondiale del 1974 Chinaglia lo mandò a quel paese per la sostituzione con Haiti, lui non lo voleva più vedere, lo voleva spedire a casa. Mandelli parlava con alcuni giornalisti influenti, tutto qui, ma a decidere era il babbo e basta. In Messico era venuto anche Nereo Rocco, che allenava il Milan e avrebbe voluto vedere in campo Rivera. Rocco era un idolo del babbo, era di Trieste come lui ed era stato suo compagno anziano alla Triestina. Nereo mi diceva: ‘Ehi Rossino, la mafia no xe in Sicilia, la xe a Firenze’: sapeva benissimo che il babbo faceva di testa sua”.

Dalla Corea al titolo europeo, così nacque la Nazionale di Valcareggi. Luigi Panella su La Repubblica il 15 giugno 2020. Così nacque la staffetta. Vallo a spiegare agli italiani, col 4-3 dell’Azteca ancora negli occhi, dopo una partita così imprevedibile che per soppesarla, come scrisse Mario Fossati su Repubblica nel 1998, “i loici hanno dovuto ammettere, a distanza di anni, di avere dovuto combattere l’emozione”. La logica in effetti non c’entra granché e forse nemmeno la tattica, che sbrigativamente – è ancora di Fossati il ricordo – alla vigilia aveva spinto un famoso giornalista belga al solito cliché sul gioco italiano: “Definì la Nazionale, che strategicamente lucrava sulle vittorie, una cassa di risparmio”. La cronaca commentata di Furio Valcareggi non ha il paraocchi: “Diciamo la verità: partita ampiamente dominata da loro, anche se noi andiamo in vantaggio quasi subito con Boninsegna. Overath sbaglia un gol di sinistro incredibile, per uno tecnico come lui. C’è un rigore e mezzo per i tedeschi, di sicuro c’è quello di Bertini su Seeler. Loro fanno gioco, ma Ricky Albertosi è impegnato solo nei supplementari. Il pareggio lo pesca al novantesimo Schnellinger, che è un difensore e si trova in area un po’ per caso. Lì noi pensiamo: è finita, perché loro adesso hanno il vantaggio psicologico. Infatti segna Müller. Ma poi c’è la svolta: Burgnich, un difensore anche lui, fa gol di sinistro. Poi il 3-2 di Gigi Riva, fantastico, poi Müller di nuovo. E alla fine Rivera: buco di Schulz, fuga di Boninsegna e cross basso, piatto destro e gol”. La staffetta, dunque, funzionò: varato a Toluca, nel felice quarto di finale contro i padroni di casa (4-1), il passaggio di testimone tra il primo e il secondo tempo - dentro il simbolo del Milan, fuori il simbolo dell’Inter - venne replicato appunto nella semifinale di Città del Messico. L’esito è diventato leggenda: “Alt. Riavvolgiamo il nastro. Io parto prima con la squadra, per 10 giorni sto sempre con loro e mi ricordo tutto. La vendetta di Montezuma, leggi dissenteria, colpisce Rivera e altri due o tre. Perciò lui inizia a stare bene, a essere pronto, soltanto a Toluca: prima no. Altra cosa: in Messico non c’era il secchio dell’acqua in campo, ma la bombola d’ossigeno. Lui pagò tantissimo l’altitudine e non fu mica l’unico: Gigi Riva all’inizio non respirava. Era tutto diverso dal normale. De Sisti mi diceva: ‘Furio, ho una castagna qui in Messico! In Italia no, ma qui sì’: alludeva al tiro, che in mancanza di resistenza forava l’aria più velocemente. Comunque il dubbio tattico era tra Rivera e Mazzola, perché nessun allenatore di buonsenso li avrebbe fatti giocare insieme, togliendo uno tra Bertini, Domenghini e De Sisti, che davano equilibrio al centrocampo. Mazzola stava dieci volte meglio e per questo partì titolare. Poi, quando la squadra ha cominciato a girare e a vincere, era impossibile togliere i titolari. E c’erano due soli cambi più il portiere, all’epoca: giocarsi una sostituzione troppo presto era rischioso”.

Il sacrificio di Lodetti.  Valcareggi resiste alle pressioni e porta avanti le proprie convinzioni. Però anche il destino gioca la sua parte: “Prima del Mondiale Rocco disse al babbo: ‘Portati Lodetti’. Era il mediano di Rivera al Milan, ma era anche un bel giocatore e infatti fu convocato. Solo che Anastasi si infortunò e Gori, che avrebbe dovuto fare il centravanti titolare accanto a Riva, non stava benissimo. Allora il mio babbo chiamò altri due attaccanti, per non rischiare di restare soltanto con Gori: Boninsegna e Prati. E sacrificò Lodetti”.ivera non la prese bene: “Ma non c’erano pregiudizi, lo posso assicurare. Ferruccio Valcareggi decideva sempre per il bene della squadra. Non cercava mai il protagonismo, non era nel suo carattere”. Figlio di un reduce dell’esercito asburgico, che aveva combattuto contro l’Italia, nasce a Trieste il 12 febbraio 1919. Condivide la passione per il calcio col fratello minore Ettore, che giocherà nella Ponziana, la seconda squadra di Trieste. Ettore, per gli almanacchi Valcareggi II, è gemello di Valdo, reduce della campagna di Russia. Ferruccio, Valcareggi I, gioca interno: arriverà alle soglie della Nazionale di Pozzo, dove la formidabile coppia Valentino Mazzola-Loik - il primo era il leggendario papà di Sandro scomparso a Superga nella tragedia del Grande Torino (“il più forte calciatore italiano di tutti i tempi, diceva il mio babbo”) – gli sbarra la strada, precludendogli la maglia azzurra. In compenso la carriera è ottima: 248 partite in A, con Triestina, Fiorentina e Bologna (più il Milan nel campionato bellico del 1943-44) come tappe più importanti. Firenze è la tappa decisiva: è lì che mette su famiglia: “Arriva in treno e incontra subito Gigi Raspini, colosso di nuoto e pallanuoto fiorentini. Gigi lo porta alla Rari Nantes: lì conoscerà Anna, che era una nuotatrice in gamba e che sarebbe diventata sua moglie e la mamma mia, di mia sorella e dei miei due fratelli. Io sono nato in piazza Santa Croce al 22, la nostra casa in affitto aveva 12 stanze e dava sulla piazza, me ne innamorai. Dopo il suo passaggio all’Atalanta, da allenatore, ci trasferimmo vicino a Coverciano”.

L’inventore del turnover. Il centro tecnico della Figc sarà la sua seconda casa dal 1966 al 1974. Il lavoro di allenatore era iniziato al Piombino, da allenatore-giocatore nel 1953. Nel 1957 vinse il Seminatore d’oro per la promozione in B col Prato. L’approdo in Nazionale è racchiuso in un aneddoto. Ugo Della Lunga, storico dirigente della Rondinella, la seconda squadra di Firenze, era un ex arbitro, nonché amico intimo del guardalinee Artemio Franchi, futuro dirigente massimo del calcio italiano e presidente Uefa. E’ Della Lunga a segnalare a Franchi Valcareggi, che entrerà nello staff di Fabbri per il Mondiale 1966. L’infortunio iniziale è noto. Incaricato di visionare la Corea del Nord, definirà “una squadra di Ridolini” la squadra che avrebbe eliminato gli azzurri e poi spaventato il Portogallo di Eusebio, costretto alla rimonta dallo 0-3 al 5-3: “Ma il babbo intendeva dire semplicemente che i giocatori nordcoreani sembravano tutti uguali”. Avrà comunque modo di farsi perdonare, succedendo a Fabbri: dopo la brevissima coabitazione con Helenio Herrera, il Mago della grande Inter cooptato per un paio di partite, Valcareggi vinse l’Europeo 1968 soprattutto grazie all’uso sapiente del turnover ante litteram, nella finale bis con la Jugoslavia: Riva, Anastasi, De Sisti, Mazzola e Salvadore entrano dopo l’1-1 della prima finale con gli jugoslavi, l’8 giugno, e l’Italia domina la ripetizione, il 10 giugno: 2-0 e coppa: “Un capolavoro tattico, dopo la famosa semifinale con la Russia (0-0) vinta alla monetina e il poco entusiasmante primo atto con gli slavi. Finita la partita, andò da Facchetti e Riva a congratularsi, poi si infilò negli spogliatoi. Quando gliene chiesi la ragione, mi rispose: "Il mio compito si era concluso: avevano vinto loro, in campo ci vanno i giocatori". Era ineccepibile”.

Una vita a Coverciano.  In campo gli azzurri andranno anche in Germania, al Mondiale 1974, quasi da favoriti: nel 1973 l’Italia aveva battuto in amichevole Brasile e Inghilterra, vincendo a Wembley con gol di Capello, un successo inedito. Ma a Stoccarda, contro la Polonia, rimedieranno la sconfitta (2-1) dell’eliminazione al primo turno. Avevano già complicato le cose il 3-1 in rimonta, all’esordio contro la fragile Haiti del velocista Sanon capace di interrompere l’imbattibilità da record di Zoff, e il successivo 1-1 con l’Argentina. La Nazionale uscì per la peggiore differenza reti rispetto all’Argentina, che con i polacchi aveva perso 3-2, ma con gli haitiani aveva vinto 4-1, il classico gol in più. In Germania niente staffetta: stavolta Rivera e Mazzola partirono titolari tutti e due, l’interista da ala destra: “Il babbo fu tradito dal cuore, non se la sentì di lasciare fuori qualche veterano”. Ci fu anche un piccolo incidente: il futuro ct Azeglio Vicini, poi demiurgo di una splendida Under 21, terzo all’Europeo 1988 e scalognato a Italia ’90 con i rigori in semifinale contro l’Argentina di Maradona, per il Mondiale tedesco doveva visionare appunto gli argentini. Corsi e ricorsi storici da incubo: “Segnalò Houseman, il talento della squadra, come un centrocampista, mentre era un attaccante molto forte. Così all’iniziò fu sbagliata la marcatura”. Quella con la Polonia fu l’ultima partita di Valcareggi ct: “Non era affatto un catenacciaro e lo dimostra il quintetto avanzato che cominciò quel Mondiale: Mazzola, Capello, Chinaglia, Rivera e Riva: schierarli contemporaneamente significava pensare all’attacco. Dopo Stoccarda Franchi lo voleva tenere, ma lui gli disse: ‘No, dottore, mi mandi via’. Allenò ancora in serie A, però la Nazionale era la sua vita. Al centro tecnico tornava spesso. Lavorò ancora al settore giovanile e fu capo delegazione di Allievi e Juniores nei tornei in Kenya e Svizzera, con Niccolai allenatore. Finché un giorno del 1988 gli arrivò una lettera di licenziamento dalla Figc, “per raggiunti limiti di età”: una lettera in ciclostile, nemmeno personalizzata”. Ferruccio ha 69 anni. Esce dal cancello, ma soltanto per attraversare la strada. Diventerà il responsabile del settore giovanile della Settignanese, squadra fiorentina i cui campi hanno la vista sul centro tecnico di Coverciano, dove nel novembre 2005, mese della sua scomparsa a 86 anni, gli verrà riservata la camera ardente. La Settignanese gli intitolerà la scuola calcio. Salendo verso Maiano, dalla collina che porta a Fiesole il panorama è bellissimo: qualche villa tra i boschi, tanti cipressi e i campi da calcio. Niente pomodori. 

La più pazza, imperfetta, divertente notte di pallone della storia. Fabrizio Bocca(ansa) su La Repubblica il 15 giugno 2020. Italia-Germania Ovest 4-3 divenne arte grazie anche tanti errori di Poletti, Rivera. Poi la notte, le televisioni in strada trasformarono quella mezz'ora dei supplementari in un'emozione perfetta e irripetibile. “Non fossi sfinito per l’emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo i ritmi e le iperboli di un autentico epinicio… Il vero calcio rientra nell’epica… "Se tutti dovessero fare quello che sanno", ha sentenziato Petrolini, "nulla o quasi verrebbe fatto su questa terra”. (Dall’attacco dell’articolo di Gianni Brera su Italia-Germania 4-3 per Il Giorno, 18 luglio 1970). Si direbbe proprio che la sintesi migliore di Italia-Germania 4-3 l’abbia fatta Brera - non potrebbe essere diversamente - citando Petrolini: “Se tutti dovessero fare quello che sanno, nulla o quasi verrebbe fatto su questa terra”. Tra tutte le forme di arte, spettacolo ed espressione umana, il calcio non è forse la più grande, ma sicuramente è unica. La sua straordinaria particolarità è l’assoluta irripetibilità del gesto artistico. Un quadro di Picasso o Pollock può regalare la stessa emozione per l’eternità, un film di Risi o Peckinpah puoi rivederlo migliaia di volte, lo stesso per la musica di Bob Dylan. Il calcio è un lampo o una raffica di lampi che ti attraversa e Italia-Germania 4-3 del 1970 questo fu. Allora nacque e allora morì nello stesso istante, diventando leggenda, potendo solo ricordarla e mai più riviverla alla stessa maniera. C’è molto di misterioso nel mito e nel fascino di Italia-Germania 4-3. Proviamo a rovesciarla 50 anni esatti dopo e vederla da altri punti di vista che non siano quelli già noti di questo piccolo immortale frammento di storia italiana. E che qui cerco di sintetizzare al massimo: l’1-0 di Bonisegna subito, la staffetta Mazzola-Rivera (un orrore democristiano), l’1-1 del milanista Schnellinger al 92’ 30’’ (che fino ad allora in rossonero non aveva fatto manco un gol), i fatidici supplementari, l’errore di Poletti e Albertosi per l’1-2 di Muller, Beckenbauer col braccio fasciato (l’eroismo), il 2-2 di Tarcisio Burgnich la roccia interista che risponde al milanista Schnellinger, il sinistro di Riva che fulmina Mayer per il 3-2, il pareggio ancora di Gerd Muller su errore di Rivera e infine l’ultimo decisivo gol del capitano del Milan per il 4-3 al 111’. L'abbraccio di Rivera con Riva per uno scatto immortale ed è fatta, la storia è già compiuta. Arriverà moltiplicata per un milione di volte fino a noi adesso e proseguirà fino a chissà dove. Italia-Germania non fu certo una “partita perfetta”, come piace dire con un certo stereotipo. Anzi, se è per questo fu un’orgia di errori. Se ad Annibale Frossi, il dottor Sottile (attaccante con gli occhiali, olimpionico a Berlino 36, laureato in legge e poi giornalista) piaceva affermare, e a Brera ripetere, che lo 0-0 fosse il risultato perfetto, Italia-Germania 4-3 fu tutto il suo contrario. L’imperfezione assoluta. Personalmente, tanto per schierarsi, ho sempre pensato che uno 0-0 sarà anche perfetto (raramente), ma molto noioso (spesso). Ecco Italia-Germania fu casomai “l’emozione perfetta”, questo sì. La più pazza, divertente, batticuore mezzora di calcio che si ricordi. Non fu nemmeno una “prima volta”, l’Italia del calcio di imprese ne aveva fatte, era già stata due volte campione del mondo, era fresca campione d’Europa (1968). Tutti quelli che il 17 giugno 1970 avevano compiuto tutto sommato 50 anni avevano sicuramente buona memoria di Italia-Ungheria 4-2 e della doppietta mondiale di Piola (1938). Quel calcio lì allora non era certo preistoria, diciamo semplicemente vintage. Come diceva e scriveva sempre Mario Fossati basta che le generazioni si prendano per mano e la storia s’accorcia parecchio. Né fu tanto meno, Italia-Germania,  una “partita epica”. Fu una “vittoria epica”. E c’è una bella differenza. Per quanto allo stadio Azteca resista ancora la famosa targa del “Partido del Siglo”, in Germania non hanno lo stesso mito e la leggenda non è così forte e presente come da noi. Insomma, non credo che in questi giorni stiano celebrando anche loro il cinquantenario. Il calcio, come la guerra figurata che rappresenta, si può sempre guardare dal lato del vincitore o dal lato dello sconfitto. E cambia completamente. 

Da Beckenbauer a Müller: l'indimenticabile Germania di Schön. Luigi Panella su La Repubblica il 15 giugno 2020. Dobbiamo ammetterlo, Italia-Germania 3-4 - risultato tutto sommato possibilissimo e cioè una sconfitta atroce - non sarebbe certo diventata lo stesso una pietra miliare del calcio italiano. Per caso avete bei ricordi delle finali perse a Usa 94 ai rigori contro il Brasile, o di Francia-Italia persa al golden gol nell’Europeo del 2000? E se proprio vogliamo essere addirittura iconoclasti, ma non troppo, Italia-Brasile 3-2 con i 3 gol di Rossi al Mundial 1982 fu addirittura un’impresa superiore: quel Brasile lì era veramente la quintessenza del football. Ci fu sicuramente, nell’esplodere della leggenda, un punta di orgoglio nazionale: la Germania Ovest (questo l’avversario preciso), l’avevamo incontrata, tra la fine della guerra e il 1970, solo 3 volte in amichevole e una ai fallimentari Mondiali in Cile (1962). Ma nemmeno quello forse fu l’elemento determinante a farne un caposaldo della nostra storia. E allora cos’è che ci tocca il cuore come nient’altro con Italia-Germania 4-3? Fu l’averla vissuta e forse anche vinta tutti insieme a farne il più bel ricordo di calcio che abbiamo. Mexico 70 fu il primo Mondiale in diretta TV intercontinentale nonostante il fuso orario sfavorevole, entrò nelle nostre case perché il progresso e la tecnologia avevano permesso negli anni precedenti di mandare in orbita due satelliti per le telecomunicazioni - il Mondiale sarebbe arrivato persino a colori, ma in Italia fu necessario aspettare ancora un po’ di tempo per vedere Riva e Rivera in azzurro - e questo permise la nuova ritualità del calcio vissuto tutti insieme, come grande liturgia collettiva di massa. Non avremmo avuto le prime tv spostate in strada e nei cortili - i maxischermi dell’epoca - i primi cortei in macchina, le prime sbandierate per le città e i tuffi nelle fontane se non ci fosse stata la Rai a farci vedere quello che accadeva in diretta, oltre Atlantico, a diecimila chilometri di distanza. Fu il nostro primo, grande colossale evento in social network dell’era moderna.

Italia-Germania 4-3, la notte che rovesciò il mondo. Francesco Merlo su La Repubblica il 15 giugno 2020. Italia-Germania 4-3 non ha precedenti nel calcio come costruzione e genesi dell’evento. E’ un grande ricordo perché ci sembrava di essere un po’ tutti fra i centomila dello stadio Azteca. Io penso che le radici di Italia-Germania 4-3 affondino casomai dentro la trilogia di Benvenuti-Griffith del 1967-68, come evento sportivo che ci porta oltre oceano. E che noi italiani vivemmo via radio, perché il governo aveva vietato la diretta tv del primo match dal Madison Square Garden ritenendo imprudente tenere sveglio il lavoratore italiano a notte fonda. Dimezzando così l’emozione al solo audio via transistor dello storico primo trionfo del campione italiano. Le radici di Italia-Germania 4-3 passano sicuramente anche dallo sbarco sulla Luna dell’anno prima (1969), avvenuto alle 4 del mattino in diretta TV. Sono gli anni in cui ormai il mondo ci entra in casa direttamente e vorticosamente, e non si può fermarlo, a qualsiasi ora sia. Italia-Germania 4-3 fu uno straordinario cancello spazio-temporale che ci scaraventò dentro tutti quanti, rotolando insieme ad Albertosi e Burgnich, Mazzola e Rivera, Riva e Boninsegna, agli anni 70. Eccoci, siamo noi, gli “italianuzzi” capaci di fare cose folli e straordinarie. Nelle Hit Parade dell’epoca campeggiavano “La Lontananza” di Modugno, “Insieme” di Mina e “La Prima Cosa Bella” di Nicola di Bari. Un chiromante ci avrebbe sicuramente letto qualcosa, un disegno superiore. A fine estate Eric Clapton lanciò “After Midnight”. Dopo mezzanotte…

Brera: "Chi si è staccato dal palo sul 3-3? La verità me la rivelò la tv". Gianni Brera su La Repubblica il 15 giugno 2020. Il racconto della grande firma di Repubblica, scomparsa nel 1992: quella sera in Messico rivede la partita in televisione. "Un azzurro, appoggiato al primo palo, si scansò letteralmente per lasciar entrare la palla del 3-3. Che fosse avvenuta una scansata tanto illogica e chi l'avesse perpetrata mai era cosa ignorata da tutti: ed ecco la Tv ritrarre impietosa il gestarello ambiguo di Rivera arretrato sul palo!" Come tutti i cronisti da corsa, sono stato dapprima intrigato e poi insospettito dall'avvento della Tv. Il nuovo mezzo di cogliere e trasmettere a distanza gli eventi sportivi mi sembrava addirittura prezioso per lo studio di alcune discipline come la scherma, il pugilato, la ginnastica, l'atletica, per tacere del motorismo in tutte le sue accezioni. Istintivamente, però, tornava giusto difendersi dalle intrusioni calcistiche. Già gli operatori e i registi lasciavano a desiderare come i telecronisti, i quali stranamente si ritenevano all'altezza solo emettendo parole, parole, parole. La gente vedeva il pallone volare correre rimbalzare e la voce del telecronista la perseguitava ribadendole visioni elementari, scontate, inutili come i commenti che le accompagnavano. C'era poi un argomento principe da tirare in ballo, caso mai servisse dare ostracismo alla Tv: che il regista, quasi sempre sprovveduto, inseguiva semplicemente la palla, non riteneva di dover dare una visione d'insieme dell'azione così come si andava delineando: per conseguenza lo spettatore, competente o no, non era in grado di valutare il gioco sotto l'aspetto tecnico, in quanto l'uomo con la palla operava magari un'apertura sulla destra ("cambia gioco", si sentiva dire al microfono) e la camera trascurava di mostrarti l'ala o il centravanti completamente libero a sinistra. Questa lacuna è tuttora alla base di qualsiasi critica fondata ai servizi Tv sulle partite di calcio. In compenso, debbo ammettere per onestà di professionista che il costante miglioramento dei registi e degli operatori consente da qualche tempo di cogliere quasi ogni aspetto del gioco. Dalla tribuna vedi bensì lo scacchiere (disemm inscì) sul quale si muovono le pedine: gli schemi geometrici si delineano, sia pur labili, in tutta la loro estensione e durata: ma la camera è per solito prodigiosa testimone di particolari momenti agonistici dei quali non è possibile cogliere nulla o quasi dalla tribuna. Il primo esempio clamoroso l'ho avuto in Messico, durante la semifinale Italia-Germania, tanto esaltata per la ridda di emozioni venute dal gioco. La sera non avevo ancora smaltito il surplus di adrenalina collezionata e sofferta dal mio sangue spesso e greve: dovevo sempre orientarmi in quel bailamme di sensazioni più cutanee che profonde: molta gente batteva addirittura in testa come se l'agonismo l'avesse drogata: nessuno sapeva riandare con un po' di freddezza alla reale successione di fatti e di errori che stavano alla base di quel risultato in sé molto strambo. Poi, non so per quale caso, qualcuno accese la Tv: i messicani stavano giusto trasmettendo la partitissima: si rividero i gol: e tutti ammirarono la prodezza balistica di Riva che, puntando alla bandierina dell'angolo sinistro, con improvvisa torsione batteva il collo interno sinistro indirizzando la palla in diagonale destra verso la base del secondo palo: il portiere tedesco rimane interdetto: la palla del 3-2 era un arcano miracolo di bravura (Gigirriva l'aveva già provato con il Messico a Toluca). Partirono allora i tedeschi e ottennero un angolo che Libuda (me par) battè da destra: Seeler ribattè in acrobazia da sinistra: Müller incornò quella molle rifinitura e un azzurro, appoggiato al primo palo, si scansò letteralmente per lasciar entrare la palla del 3-3. Che fosse avvenuta una scansata tanto illogica e chi l'avesse perpetrata mai era cosa ignorata da tutti: ed ecco la Tv ritrarre impietosa il gestarello ambiguo di Rivera arretrato sul palo!, e la palla beffarda in rete: e Albertosi scagliarsi come folle addosso a quel précieus fuori luogo e accennare a strangolarlo. Sull'incontro si sono scritte prose uterine e perfino versi cutanei fino al prurito: è stata quella in realtà un'avventurosa partita di ciucchi diretti piuttosto male, specie da parte tedesca ("Grazie Schön!" aveva titolato il "Guerino": grazie molte: ma Schön era anche il C.T. dei tedeschi). Senza la Tv avremmo capito poco, anzi nulla dei particolari così contrastanti. La Tv lavora sul calcio con autentico furore agonistico. Notizie strabilianti pervengono sul numero dei teleascoltatori: si parla di oltre milioni 3 per Padova-Juventus, che certo valeva tanto entusiasmo. La vecchia Signora dei campionati sta facendo 31 (parliamo pure di miliardi) dopo aver fatto - magari - il doppio di 30: il buon vecchio Trap ha riportato il suo prodigioso pragmatismo sulla panchina più illustre d'Italia. Che piacere constatare come il tifo prenda anche i Principi dai quali dipendono le sorti della Polis e non solo di quella. Il fedel valvassino dilata la bocca a salvadanaio e si rassegna a confortare l' insonnia del Signore piacevolmente ispirato dalle pedate. La camera curiosa fino al pettegolezzo indugia dove la buonanima di Rocco faceva il verso ai rusteghi goldoniani. Roberto Baggio ha sentito l'alma Poesis esprimersi nei fantasiosi guizzi con la palla. L'anima olimpica di Casiraghi (reviviscenza priva di turbe del desiatissimo Farfallino Borel) se ne giova come Schillaci, i cui occhi lanciano lampi mesmerici. La leggenda si conforta delle immagini fedelmente riportate dalla Tv. Poi viene il Milan e confonde maledettamente le cose opponendo ricordi e constatazioni così reali da poter sembrare bislacche. Capello sa di pedagogia e consente alla fantasia di librarsi dietro all'orgoglio. I batavi fanno faville, mulatti e no. Righetto Sacchi era un duro alemanno. Il bisiaco Fabio fa aggio sul metodo crudo. Ne vedremo di immense, ammonisce monna Tv. E capite anche l' Inter, che a Cagliari non la schioda, ma sì a Lucca. Capite la Samp, che non ha ancora saputo smaltire le tossine dello scudetto. La Tv ha privilegiato scelte per nulla casuali. In ordine di merito ha fissato immagini da accreditare anche per la stagione che viene. Il vecchio cronista ha dovuto arrendersi alla Tv con l' onore delle armi. Non stupite che adesso ci lavori a sua volta. (17 agosto 1991)

Introduzione di ''La partita del secolo'' di Nando Dalla Chiesa, pubblicato da Solferino editore, tratta da ''La Lettura - Corriere della Sera'' il 7 giugno 2020. Ogni popolo stabilisce silenziosamente e senza intenzione quali giorni resteranno nella sua memoria. Quali saranno simbolo di dolore o evocheranno la paura, quali restituiranno senso alla speranza o regaleranno sempre e comunque un sorriso. Un popolo non lo decide mai sul momento. Tutto viene scavato e rielaborato nel tempo. È lo stesso cammino con cui la storia seleziona i suoi grandi: i pensatori o gli scrittori, i leader civili o gli eroi delle rivoluzioni. Le ragioni per cui alla prova del tempo vince uno anziché un altro sono in genere imprevedibili. Perché si ricorda un romanziere o un artista o un cantautore piuttosto che un altro? A volte si dà la responsabilità al caso, alla fortuna. E invece, a pensarci, c' è sempre un impasto di ragioni. Che affondano nelle sensibilità più inavvertite, nelle pieghe riposte della cultura, in una somma di episodi e di circostanze che creano la famosa combinazione chimica che decide. Con qualche fattore ricorrente. Perché a ben guardare a essere premiati dal sentimento popolare sono di norma gli irregolari, soprattutto se sono bandiera di genio o di generosità. E in particolare se la loro generosità non è stata ricambiata dal destino. Perché Leopardi più di Manzoni? Perché Garibaldi più di Cavour? Perché il Che più di Fidel? E passando al calcio: perché Baggio più di Platini o Maradona più di Pelè? Naturalmente si può sempre argomentare: per i loro meriti. Ma in realtà i meriti vengono cesellati e attribuiti in funzione di affinità psicologiche, di auto-proiezioni, di sogni e sentimenti complessi. E anche di qualcosa che è difficile decifrare ma che possiamo chiamare «lo spirito del tempo». Ve ne sono esempi al limite della leggenda. Proviamo a pensare a Italia-Germania del 4-3. Città del Messico, 1970, mezzanotte tra il 17 e il 18 giugno, ora italiana. E a rispondere alla domanda regina: perché è diventata questa la partita del secolo? Perché, ad esempio, non l' Italia-Germania del 3-1 di dodici anni dopo, Madrid, 11 luglio 1982, ore 20? Eppure fu proprio con quest' ultima partita che l' Italia divenne per la terza volta nella sua storia campione del mondo, la prima dalla fine della guerra, dopo una interminabile attesa di 44 anni. Eppure anche nella finale del Santiago Bernabeu a Madrid si vissero momenti memorabili. Memorabile, come poche altre cose viste in vita mia, fu la corsa infinita di Tardelli, il «coyote» di Bearzot, su una sua prateria sterminata e immaginaria. Memorabile quel «gol» urlato ossessivamente dal più atleta degli Azzurri, come nessun altro somigliante a un Milone di Crotone o a un Leonida di Rodi. E c' era pure stata, prima, l' ansia collettiva da malaugurio, il rigore di Cabrini tirato disperatamente fuori a metà del primo tempo. E la nuova prodezza di Paolo Rossi ribattezzato Pablito, l' eroe di quel «mundial» assurto a gloria come in un favoloso gioco di prestigio, destinato a diventare dopo quei giorni azzurri l' idolo dei bambini di tutto il mondo. Senza dimenticare il presidente più amato, Sandro Pertini, ieratico in tribuna mentre grida «non ce n' è per nessuno», pronto a riabbottonarsi subito la giacca, e a fare ricomparire la celebre pipa nel viaggio di ritorno con gli Azzurri, accanto a Bearzot e ai «vecchi» Zoff e Causio. Quanti ingredienti...E tuttavia non diventò la partita del secolo, mentre lo divenne una semifinale seguita da una disfatta con tanto di pomodori ad attendere a Roma il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, con due tempi supplementari giocati alla viva il parroco, e nessun simbolo delle nostre istituzioni a dare un senso solenne a quanto accadeva in campo. Perché? La risposta è appunto nello spirito del tempo e in quella irregolarità, a due passi dalla pazzia, che caratterizzò la partita. Come si cercherà poi di raccontare, quella notte fu infatti la notte delle prime volte . Che nessuno aveva preordinato. Fu certo la prima volta in cui l' Italia giocò in televisione a mezzanotte, nell' ora in cui i sogni si liberano e le convenzioni sociali si allentano. Con la fine dei supplementari che scoccò alle due, orario convenzionalmente impossibile per festeggiare e che invece scatenò una delle feste più spontanee e liberatorie e di massa di cui vi sia memoria. Fu la prima volta che un popolo intero, di tutte le classi e le età e le idee politiche, si diede spontaneamente convegno nelle piazze illuminate di ogni città italiana. Prima di allora non era mai successo, tanto che per circa mezz' ora, dopo le due, i tifosi vagarono quasi alla ricerca di un' idea su come potere sfogare la loro felicità. I clacson di passaggio verso il centro diedero la linea. Fu anche la prima volta delle donne. La metà del cielo fin lì tenuta fuori dagli stadi, tanto da far nascere sul tema anni prima una canzone di successo, quella notte sentì il brivido delle atmosfere domestiche, e più volte gioì abbracciata all' altra metà, come Rivera e Riva dopo il gol del 4-3. Fu ancora, senza ombra di dubbio, la prima volta del tricolore, per lunghi anni, soprattutto in quel periodo di contestazione, monopolio dei simpatizzanti dell' estrema destra. E invece i colori della bandiera si affacciarono progressivamente nella notte. Nessuno ne aveva esemplari in casa, nessuno si era preparato a venderne, sicché tutto venne fatto artificialmente con una camicia, uno spray, da issare sulle auto che ancora potevano circolare in piazza Duomo o piazza del Plebiscito. Anche se si ha un po' di pudore a dirlo, davvero la bandiera nazionale si liberò della crosta ideologica che la soffocava grazie a una vittoria in uno stadio lontano. Lì, precisamente lì, si aprì la strada su cui sarebbe arrivato, quasi trent' anni dopo, Carlo Azeglio Ciampi. Tante prime volte tutte insieme, dunque, concentrate in un pugno di ore notturne. Un' esperienza collettiva indimenticabile. Ma era anche stata la prima volta, e fu questo a sprigionare la magia, che l' Italia aveva giocato in attacco, senza cautele tattiche e con il cuore a mille. Perché, inutile negarlo e senza nulla togliere al gol iniziale di Roberto Boninsegna detto Bonimba, la vera partita furono i tempi supplementari. Gli italiani maledissero nei modi più rabbiosi e coloriti Karl-Heinz Schnellinger, il terzino tedesco del Milan che, ingrato verso il Paese che lo aveva reso ricco, aveva con la sua zampata al secondo minuto di recupero dato il pareggio alla grande Germania di Franz Beckenbauer. E invece a Schnellinger gli italiani avrebbero dovuto erigere un monumento. Perché fu lui a regalarci quell' incredibile mezz' ora di vita davanti al video. Dove ogni tattica saltò. E una virtù fra tutte si levò: la generosità nell' assalto alla baionetta, reso intrepido dall' aria rarefatta dei duemila metri dell' Azteca. Nel decennio precedente le squadre italiane avevano vinto ovunque grazie alla tattica del cosiddetto «catenaccio» e del contropiede. Erano l' Inter di Helenio Herrera e il Milan di Nereo Rocco. Ma la nazionale con quella tattica aveva sempre perso. Nemmeno ammessa ai Mondiali in Svezia, fuori subito in Cile, fuori subito indecorosamente in Inghilterra contro la Corea del dentista Pak Doo-ik. Aveva vinto gli europei del '68 grazie a un fortunato sorteggio nelle semifinali contro l' Unione Sovietica. La meraviglia di tutti fu vederla vincere di slancio e forza, e genio insieme, proprio contro la Germania, verso cui il popolo italiano sentiva un inconfessabile complesso di inferiorità. Era la Germania distrutta dalla guerra che, risorta miracolosamente a potenza economica, dava lavoro ai nostri braccianti. Come osservò Giuseppe Fava in un bellissimo reportage del '67, le strade di Palma di Montechiaro, provincia di Agrigento, si riempivano in estate di auto dalla targa tedesca, segno di un riscatto sociale raggiunto grazie alle industrie di Düsseldorf e Colonia. Mentre per anni erano state le ragazze tedesche (le «tedeschine») a fare impazzire sulle spiagge i nostri giovani, costretti ad aspettare il '68 per sapere qualcosa in più del libero amore. E proprio contro la Germania tutta disciplina e organizzazione l' Italia dimenticò quella notte, nel momento cruciale della sfida, la tattica che l' aveva resa famosa. Sembrò un suicidio. Già dall' inizio dei supplementari si capì che non c' erano più regole. Fabrizio Poletti, roccia granata, subentrato a Rosato per infortunio, appena entrato in campo fece quasi un autogol servendo un' assurda palla al pirata Müller a un metro dalla porta. Sembrava un sortilegio. L' Italia affondava per colpa dei terzini, dell' una e dell' altra parte. Commentò il telecronista Nando Martellini: «Tutto facile per la Germania adesso (), squadra demoralizzata ormai la nostra». E invece un altro terzino pareggiò per l' Italia, Tarcisio Burgnich, incredibile. E anche quella fu una prima volta. Perché se l' altro terzino, Giacinto Facchetti, di gol in carriera ne fece più di sessanta, Burgnich li faceva ogni morte di papa e in una partita ufficiale della nazionale non ne aveva mai segnati. Perciò fu ancora più bello. Chissà come si era trovato al centro dell' area tedesca, fatto sta che ci fece amare d' impeto quel nome, Tarcisio, che sapeva di Friuli e di civiltà contadina. Burgnich a fare il centravanti...C' era qualcosa di incredibile in quanto vedevamo, perfino l' estetica andava assumendo qualcosa di surreale. Beckenbauer con il braccio al collo che piombava sul pallone come una locomotiva; De Sisti, sempre ordinato ed elegante, che girava con i calzettoni alla cacaiola, come si diceva ai tempi, per significare che erano arrotolati alle caviglie; Domenghini con la maglia fuori dai pantaloncini che gli si allungava fino alle cosce. Finché in quel paesaggio da fumetti giunse il gol di Riva con un diagonale rasoterra di potenza irresistibile. Ma poi di nuovo tutto saltò. Perché la Germania pareggiò ancora e d' incanto vedemmo Rivera sulla linea della nostra porta, a difendere dietro Albertosi. E ci domandammo «che ci fa Rivera sulla linea di porta?». Nemmeno il tempo di chiedercelo e la palla colpita da Müller gli sfiorò letteralmente il fianco finendo indisturbata in rete, come se nemmeno lui fosse riuscito prendere sul serio quella posizione astrusa. Allora mandammo improperi a Rivera. E invece partì in fuga sulla sinistra Boninsegna. Secondo gli schemi regolari, lui era il goleador e Rivera il rifinitore. Ma di schemi non ce n' erano più. E dunque Boninsegna fece il rifinitore passando la palla al centro dell' area tedesca e Rivera fece il goleador quasi con passo di danza. Di qua il portiere di là la palla. E mentre l' Italia si abbracciava davanti ai televisori, con l' urlo «gol! gol!» che prorompeva moltiplicandosi dalle finestre aperte della notte estiva, vi fu l' abbraccio vittorioso tra i due GR, Gianni Rivera e Gigi Riva, che una splendida foto immortalò avvinti tra loro, inginocchiati sul prato. Sì, nel conto mettiamo dunque anche quella prima volta. La volta, cioè, che l' Italia degli Azzurri andò all' attacco e vinse, interpretando il sentimento di un' intera generazione, non solo studentesca, che un' utopia dopo l' altra si stava trasformando in un Icaro collettivo pronto a volare verso un paradiso irraggiungibile. Andare all' attacco per cambiare il mondo, per realizzare diritti, libero amore e giustizia sociale, dentro un grande disordine creativo; come quello che era andato in scena all' Azteca, in quei Mondiali da cui, come viene ricordato nel primo capitolo, il Sessantotto messicano venne tenuto fuori con la strage terribile della Piazza delle Tre Culture. L'immaginazione fa scherzi mancini, ma è bello pensare che lo spirito del tempo sia entrato comunque dentro quei Mondiali, almeno metaforicamente, grazie alla squadra italiana più pazza della storia. Già, lo spirito del tempo. Categoria hegeliana, leopardiana, per dire che probabilmente è stato questo a contare, insieme con le tante «prime volte», perché l' Italia-Germania del 4-3 si inchiodasse nella nostra memoria ben più dell' Italia-Germania del 3-1. Una partita che non incoronò nessuno, seguita come fu dal crollo contro il Brasile di Pelé, ma che fu più specchio dell' anima del Paese. L' Italia dell' 82 brancolava. Non ebbe il tempo di leccarsi le ferite del terrorismo che si trovò colpita al cuore dalla mafia, come i giornali dei mesi prima e dopo l' urlo di Tardelli raccontano restituendo al lettore l' aria di nuovo insanguinata. Lo stesso Pertini felice della tribuna sarebbe restato d' altronde, nella nostra memoria, come il presidente dei funerali pubblici degli uomini migliori della Repubblica. L' Italia del '70, che pure aveva alle spalle il 12 dicembre di Piazza Fontana, era invece il Paese della speranza, del protagonismo fiducioso della generazione del baby boom postbellico, era il Paese in cui i genitori con i calli sulle mani sognavano il figlio dottore. Diciamolo: era il Paese fatto, con fatica e dedizione, dalla generazione degli ottantenni contro cui cinquanta anni dopo si sarebbe accanito vigliaccamente il coronavirus di questo 2020. Quegli ottantenni inizialmente visti con sconcertante sollievo come le vittime sole e predilette del virus assassino videro nel 4-3 la conferma che con la loro fatica e i loro risparmi stavano costruendo una Italia orgogliosa e nuova, capace di trionfare nello sport più amato contro la nazione più forte. Proprio con quei nomi da albero degli zoccoli: Tarcisio e Giacinto, Angelo e Giovanni. E non c' è contrasto più straziante di quello che a questo punto si affaccia, come per legge di gravità, tra la straordinaria e quasi orgiastica festa di popolo, quella comunione felice del 1970, e il silenzio livido e solitario dei camion militari che portano via le bare delle vittime da Bergamo, sottraendole a ogni affetto possibile. E tuttavia, proprio di fronte alla tragedia nazionale improvvisa, quella partita resta, cinquant' anni dopo, una bandiera piantata nella storia del nostro Novecento. Simboleggia, con altri indimenticabili momenti delle istituzioni, della politica, della cultura, le vittorie raggiunte con le unghie e con i denti dal popolo italiano. Che sembrava schiavo senza speranza della ferocia nazista e se ne è liberato grazie a minoranze coraggiose; che sembrava destinato solo a emigrare e ha costruito una delle maggiori potenze economiche mondiali; che sembrava obbligato, come pure si scrisse, a convivere per sempre con il terrorismo, e di nuovo con minoranze coraggiose lo ha battuto; che sembrò in ginocchio contro Cosa Nostra e ancora grazie a importanti e coraggiose minoranze l' ha decapitata e indebolita. Per questo anche oggi quella partita può essere un emblema. Le perdite del 2020 non sono state e non saranno né poche né indolori. Ma l' Italia del 4-3 non è stata solo una squadra di calcio. E può tornare.

Dagospia l'8 giugno 2020. Da Un Giorno da Pecora. Sandro Mazzola e i 50 anni di Italia Germania 4-3, che ricorreranno il prossimo 17 giugno. Ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, il calciatore della nazionale, bandiera dell'Inter, ha ricordato ai conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari: “tutti pensavano che avremmo perso, ma ci fu qualcosa tra noi giocatori, un qualcosa che ci dava la consapevolezza di esser forti. Volevamo far vedere che gli italiani erano qualcosa di eccezionale. E ci riuscimmo”.

Cosa ricorda di quel giorno? “La faccia ed il fisico giocatori tedeschi non riuscivano a lasciare il campo, loro erano fortissimi, più forti di noi. Noi non potevamo crederci”. Quello fu il mondiale divenuto famoso per la staffetta Mazzola-Rivera. Perché non potevate giocare insieme, visto che eravate i più forti? “Perché gli italiani sono sempre speciali...si preferiva la questione tattica, nessuno dei due andava a marcare l'avversario”.

Cosa pensò quando vide l'errore di Rivera al 5° minuto del 2° tempo supplementare? “Che era un milanista”, ha detto ironico Mazzola a Un Giorno da Pecora, “Rivera però dimostrò di avere un grande carattere segnando un minuto dopo. Quello vuol dire che hai carattere e qualità”. Avrebbe preferito che il gol del 4-3 lo avesse segnato un altro? “No, chiunque andava bene”.

Oggi siete amici col 'Golden Boy'? “Oggi si, lo siamo. Ma allora...” Mazzola ha poi raccontato un aneddoto sulla creazione dell'Assocalciatori, che lo vide tra i fondatori. “Mi telefonò Andreotti per dirmi di non farlo, perché era qualcosa contro la Repubblica. Ma iniziò la telefonata dicendo che andava sempre a vedere le partite di mio papà...” Lei cosa gli rispose? “Che saremmo andati fino in fondo. E lui, alla fine, disse: “va bene”...”

Le verità di papà Mazzola giornalista. "L'Inter vicina e mio figlio campione". Valentino, mito del Toro, non fu ceduto perché i nerazzurri non avevano i 30 milioni per il cartellino. Quelle parole profetiche sul piccolo Sandro...Riccardo Signori, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. «Domenica prossima ci sarà Torino-Inter... l'Inter è la mia squadra preferita, beninteso dopo il Torino». Scriveva Valentino Mazzola. L'attesa di una partita come fosse oggi, anche se stavolta sarà lunedì ed è Inter-Torino. Inter-Torino fu anche l'ultima partita giocata in Italia dal fantastico capitano prima di morire in aereo. Ma qui siamo nel 1947, 7 dicembre. Valentino Mazzola ha cominciato una collaborazione, a sua firma a fondo articolo, con l'Europeo: una lenzuolata di giornale, non striminziti patinati come oggi. L'Europeo, allora diretto da Arrigo Benedetti, era un periodico che si occupava di cronache, fatti e misfatti. In aggiunta il supplemento sportivo. Mazzola racconta di intravedere il suo tramonto e dunque di pensare anche ad altro. Non si nega lo spot pubblicitario. «Ho deciso, soprattutto per l'avvenire dei miei due bambini, di iniziare un commercio di scarpe da calcio e palloni di marca Mazzola. E Parola, mio maggior concorrente in questo campo, verrà a comperare le mie perché saranno più a buon mercato». Oggi ci avrebbe aggiunto un emoticon sorridente. Ma in realtà il titolo dell'articolo, e il contenuto, ci riportano al calcio senza tempo: stessi temi, stessi problemi di oggi. «Solo nel sistema l'avvenire del calcio», annuncia il capitano del Torino che, ai tempi guadagnava centomila lire, il doppio dei compagni. Però, prima di addentrarci nella lucida analisi, ecco due chicche. Mazzola parla degli avversari: «Credo di essere uno dei giocatori più francobollati d'Italia: Marchi e Campedelli sono due grandi giocatori, ho avuto modo di sperimentare il blocco difensivo del Bologna: durissimo e pericoloso. Tra i compagni Maroso se si deciderà ad allungare il pallone con intelligenza ai suoi avanti». E d'improvviso compare la citazione di Sandrino, quasi lo pensasse difensore o fosse solo una battuta. «E poi mio figlio! Mio figlio Sandrino ha 5 anni ma sa toccare il pallone come un giocatore consumato. Credo sia nato col gioco del calcio nel sangue». Valentino ci aveva visto giusto, Sandro non è stato un difensore ma uno nato con il pallone nel sangue. Destinato pure lui a diventare uno dei giocatori più francobollati d'Italia e d'Europa. E chissà mai, il caso o il sesto senso, Mazzola si è poi messo a parlare di Torino-Inter e di quell'Inter. La consequenzialità tra l'opinione sul figlio e il discorso sull'Inter mette i brividi, avendo tra le mani la storia del calcio che è stato. Era destino... «Finalmente vedrò giocare Lorenzi (per Sandro fu un tutore calcistico, ndr) del quale tutti parlano e che non ho mai giudicato con i miei occhi. All'inizio stagione ho avuto parecchi scambi di lettere con Masseroni per il mio passaggio tra i neroazzurri. Credo che il prezzo della cessione si aggirasse sui 30 milioni, ma il presidente dell'Inter non poteva disporre di tale cifra dopo i milioni pagati per gli altri acquisti. Mi piace l'Inter perché ha nelle tradizioni bel gioco senza scorrettezze. Ma per ora penso solo al Torino e a vincere il quarto scudetto consecutivo, anche se sarà forse un'impresa più difficile della scorsa stagione». Che penseranno i tifosi dell'Inter? Mettere nell'album delle figurine di sempre Valentino Mazzola insieme a Meazza e Ronaldo: un trio di immortali del pallone. Massimo Moratti ci poteva aggiungere anche Messi, se avesse avuto più sprint decisionale. L'articolo vale il ricordo anche e solo per queste confessioni. Ma Valentino, allora 28enne, ci racconta dei tempi suoi e quasi par di essere nell'oggi. «In Italia il foot-ball (così allora si scriveva e diceva, ndr) è in un periodo di crisi dovuto a due ragioni. La maggior parte dei calciatori non prendono con sufficiente serietà l'allenamento. Bisogna saper fare sacrifici. Rebuffo, ex giocatore del Torino, che fu anche il mio miglior maestro, dice che hanno troppi vizi, non sanno cosa significhi la disciplina. Io da anni ho abbandonato vizi e divertimenti, non mi troverete mai a ballare nei locali notturni. Ho fatto togliere il telefono dal mio appartamento perché mi svegliavano di notte alla vigilia di ogni partita importante con telefonate di ogni genere. Alle dieci di sera sono sempre a letto. Curo il mio fisico secondo i sistemi che seguiva Monti, il famoso centromediano juventino. Mangio presto, sempre, non solo la domenica, perché è soltanto a stomaco vuoto e a digestione ben avvenuta che i polmoni possono assolvere bene la loro funzione». Aggiunge una riflessione molto personale. «E per questa mia vita da certosino ho sacrificato anche la felicità coniugale, perché mia moglie non si è assoggettata a condividerla con me». Infatti Mazzola, raccontano le cronache, aveva un altro legame sentimentale. Infine una spiegazione del titolo. «Il sistema rappresenterà l'avvenire del calcio, ma sistema significa precedere l'avversario e non interrompere la sua azione con spinte, colpi duri o illeciti. Ecco la seconda ragione della crisi che stiamo attraversando: non si bada più a fare del bel gioco ma si bada a vincere con tutti i mezzi. Il calcio è diventato una specie di caccia all'uomo, di picchi e ripicchi con relativo spezzettamento del gioco, infortuni anche gravi che ne seguono, mancanza di sicurezza da parte di tutti». Arrigo Sacchi sarebbe corso a stringergli la mano. Leggete qualcosa di diverso rispetto al calcio di oggi? E, in quella stagione, il Torino vinse il quarto scudetto consecutivo.

Trent'anni fa le notti magiche: 10 cose che non sai su Italia 90. L'Italia di Azeglio Vicini sfiorò la grande impresa e fece sognare milioni di tifosi con Totò Schillaci grande rivelazione per gli azzurri. Il Mondiale fu però vinto dalla Germania Ovest. Marco Gentile, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Trent'anni, sono quasi passati 30 anni dallo storico mondiale italiano nel 1990, quello che incoronò la Germania Ovest che ebbe la meglio sull'Argentina di Diego Armando Maradona. L'Italia di Azeglio Vicini fece sognare e non poco i tanti tifosi azzurri presenti sugli spalti dei dodici stadi che hanno ospitato la manifestazione e incollati davanti ai televisori. Purtroppo per quella talentuosa ed esperta nazionale il cammino si interruppe in semifinale dopo aver subito un solo gol in tutta la competizione e solo dopo la lotteria dei calci di rigore contro l'Argentina del Pibe de Oro Diego Armando Maradona.

I convocati per Italia 90

Portieri: Zenga, Pagliuca e Tacconi

Difensori: Baresi, Bergomi, Ferrara, Ferri, Maldini e Vierchowood

Centrocampisti: Ancelotti, Berti, De Agostini, De Napoli, Giannini, Donadoni, Mancini, Marocchi

Attaccanti: Baggio, Schillaci, Carnevale, Serena, Vialli

La formazione tipo dell'Italia:

Zenga, Baresi, Bergomi, De Agostini, Ferri, Maldini, Donadoni, Giannini, Baggio, Vialli, Schillaci

Ct: Azeglio Vicini

Il cammino degli azzurri. L'Italia di Azeglio Vicini fece sognare i tanti milioni di tifosi azzurri che hanno a lungo accarezzato il sogno di poter conquistare il quarto mondiale della storia della nazionale dopo quelli conquistati nel 1934, 1938 e 1982. Gli azzurri superarono agevolmente il girone A battendo nell'ordine Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia, tutte e tre le sfide si giocarono allo stadio Olimpico di Roma, segnando quattro reti e senza subirne alcuna. Mattatori di questi incontro Totò Schillaci con due reti (contro l'Austria e contro la Cecoslovacchia), Giuseppe Giannini in rete contro gli Usa e Roberto Baggio che chiuse la sfida contro i cechi, nell'ultima sfida del girone.

Il grande sogno. L'Italia approda dunque alla fase successiva da imbattuta e a punteggio pieno, senza subire gol e mostrando una forma fisica strepitosa e un entusiasmo alle stelle, spinti dal pubblico di casa. Gli ottavi di finale contro l'Uruguay rappresentano un ostacolo da non sottovalutare per gli azzurri che prendono seriamente la partita con Azeglio Vicini che ha un'illuminazione durante la partita: il ct, infatti, vedendo che la sua nazionale non riesce a sfondare inserisce l'ariete Aldo Serena che serve prima l'assist a Schillaci, che con un sinistro di rara potenza e precisione batte il portiere, e chiude poi la pratica con il suo primo gol nel mondiale con il suo marchio di fabbrica, il colpo di testa. Ai quarti di finale l'Italia affronta l'Eire che si era sbarazzato della Romania ai calci di rigore. Sulla carta la partita sembra scontata ma gli irlandesi vendono come al loro solita cara la pelle con la nazioale di Vicini che tira fuori il carattere e la grinta, oltre che le qualità tecniche: e chi poteva risolvere la partita se non Totò Schillaci? L'attaccante della Juventus fu il più lesto a colpire dopo una respinta del portiere avversario sul tiro di Roberto Donadoni da fuori area.

La grande amarezza. L'Italia stacca così il pass per la semifinale dove affronta l'Argentina che tra ottavi e quarti aveva fatto fuori prima i "cugini" del Brasile e poi la Jugoslavia. La sfida si disputò, forse volutamente, allo stadio San Paolo di Napoli contro l'Albiceleste dell'idolo locale per i tifosi partenopei Diego Armando Maradona. La partita fu dura ed equilibrata con gli azzurri che la sbloccarono nel primo tempo con il solito Schillaci ma che vennero poi ripresi nel secondo tempo dall'ex Atalanta Caniggia con un gol di testa sull'uscita dell'incerto e poi criticato Zenga. La battaglia si trascina fino ai tempi supplementari e poi ai calci di rigore, amari, amarissimi per l'Italia. Nella lotteria dei penalty, infatti, furono decisivi gli errori di Roberto Donadoni e Aldo Serena che sancirono l'eliminazione della nazionale di Vicini dalla manifestazione di casa.

La finale 3-4 posto. Nell'agrodolce finale per il 3-4 posto i ragazzi di Vicini tirarono fuori l'orgoglio battendo per 2-1 l'Inghilterra, sconfitta dalla Germania Ovest in semifinale, conquistando così il gradino più basso del podio. In rete sempre Schillaci che vinse anche la classifica dei cannonieri e Roberto Baggio che resero vano il pareggio siglato dall'inglese Platt.

Gli stadi e le polemiche. La competizione iniziò l'8 di giugno e terminò l'8 di luglio con la finale di Roma. Gli stadi impegnati per il mondiale italiano furono 12, con il San Nicola di Bari costruito appositamente per la manifestazione. Gli altri 11 furono: il Delle Alpi di Torino, lo stadio Giuseppe Meazza di Milano, il Luigi Ferraris di Genova, La Favorita di Palermo, il Bentegodi di Verona, il San Paolo di Napoli, il Friuli di Udine, il Dall'Ara di Bologna, il comunale di Firenze e il Sant'Elia di Cagliari e lo stadio Olimpico di Roma che ospitò la finale del mondiale Germania Ovest-Argentina e che ha visto l'Italia di Vicini protagonista per ben cinque partite (le tre della fase a gironi, ottavi e quarti di finale). Nel Bel Paese, però, divamparono le polemiche per i costi ingenti per l’organizzazione del mondiale. Solo per i dodici stadi vennero spesi 1.248 miliardi delle vecchie lire con la competizione che inghiottì 7.230 miliardi di lire: questa questione sollevò un mare di polemiche.

Le notti magiche azzurre. Una nazionale da sogno con l'inno cantato da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato "Notti magiche" a riecheggiare per tutta la durata del Mondiale. Quell'Italia era imbottita di talenti e di giocatori d'esperienza e tutto faceva pensare che si potesse vincere la competizione con la spinta del pubblico italiano che forse "tradì", un po' gli azzurri nella semifinale disputata a Napoli contro l'Argentina con il pubblico "diviso" tra la nazionale italiana e il tifo sfrenato per il Pibe de Oro, vero idolo di tutti i supporter azzurri.

La rivelazione del mondiale. Totò Schillaci fu il grande protagonista dell'Italia ma anche l'uomo copertina di quella edizione mondiale. Il 25enne di Palermo disputò il primo anno in Serie A con la maglia della Juventus segnando 21 reti in 50 presenze tra campionato e coppe europee. Alla sua prima esperienza con l'Italia risultò decisivo con ben sei reti al suo attivo che lo consacrarono capocannoniere del mondiale con una rete di vantaggio su Tomas Skuravy e due su quattro pezzi da novanta come Gary Lineker, Michel, Lotthar Matthaus e Roger Milla.

Gli altri gironi e i suoi protagonisti

Girone B Camerun 4, Argentina 3, Romania 3, Eliminata Unione Sovietica 2

Gli africani vinsero a sorpresa il girone davanti all'Argentina del Pibe de Oro con quattro punti e con uno scatenato Roger Milla capace a 38 anni di segnare 4 reti in tutta la competizione. L'ex attaccante di Saint-Etienne e Montpellier disputò anche Usa 94 alla veneranda età di 42 anni togliendosi anche lo sfizio di segnare.

Girone C: Brasile 6 e Costa Rica 4, Eliminate: Scozia 2 e Svezia 0

Il Brasile di Careca, come l'Italia, fece percorso netto in un girone semplice con la Costa Rica che arrivò però seconda battendo le due più quotate Scozia e Svezia che furono eliminate.

Girone D: Germania Ovest 5, Jugoslavia 4 e Colombia 3 Eliminata Emirati Arabi Uniti 0

La Germania Ovest di Matthaus, Voeller e Brehme vinse le prime due sfide contro Jugoslavia e Emirati Arabi Uniti. Nell'ultimo match contro la Colombia si fece pareggiare al 93' giungendo comunque prima con i sudamericani terzi e "ripescati".

Girone E: Spagna 5, Belgio 4, Uruguay 3, Eliminata Corea del Sud 0

La Spagna pareggia all'esordio contro l'Uruguay ma poi si scatena contro Corea del Sud e Belgio battute grazie a Michel, autore di quattro reti. I sudamericani giungono terzi ma accedono agli ottavi come una delle quattro migliori terze classificate.

Girone F: Inghilterra 4, Irlanda 3, Paesi Bassi 3 Eliminata Egitto 2

Girone equilibrato quello dell'Inghilterra che si qualifica al primo posto con quattro punti con una vittoria e due pareggi. Irlanda e Paesi Bassi con Gullit, Rijkaard e van Basten, staccano il pass per gli ottavi come seconda e terza con tre pareggi. Eliminato e beffato l'Egitto con 2 punti.

Le 4 migliori terze: Argentina, Colombia, Paesi Bassi e Uruguay ebbero la meglio sulle altre due terze classificate Scozia

La finale al veleno. Come detto l'atto finale vide affrontarsi la Germania Ovest e l'Argentina di Diego Armando Maradona. La sfida fu spigolosa, ruvida, equilibrata e decisa da un calcio di rigore assegnato all'85' dall'arbitro Mendez per un fallo, ingenuo, di Sensini su Voeller. Dal dischetto Brehme fece impazzire i tedeschi presenti sugli spalti dell'Olimpico e fece infuriare gli argentini che lamentavano un mancato penalty concesso poco prima per un fallo analogo subito da Dezotti che fu così espulso per le vibranti protest e con l'Albiceleste che rimase in 9 contro 11 dato che al 65' Monzón fu espulso per un duro intervento su Klinsmann. Dopo tanti minuti di attesa l'interista Andrea Brehme fu freddo a realizzare un gol che valse il titolo mondiale. Il terzino nerazzurro calciò il rigore nonostante il rigorista designato fosse Lothar Matthaus che di recente ha spiegato il perché non calciò lui il penalty "Lo tirò Brehme, scelsi io di non tirarlo perché avevo un problema allo scarpino, era rotto".

Maradona scatenato. Il pubblico italiano presente sugli spalti dell'Olimpico che si schierò palesemente in favore della Germania Ovest dato che l’Albiceleste eliminò tra le polemiche gli azzurri. Un Maradona visibilmente contrariato per questa cosa, durante gli inni nazionali, fu pizzicato dalle telecamere ad insultare i tanti tifosi italiani con un labiale eloquente: “Figli di p…”. 

Testo di Edoardo Bennato pubblicato da “Leggo” il 9 giugno 2020. La grande attesa e poi la delusione. Ma quella dei Mondiali del ‘90 era un’Italia da paradiso se confrontata con l’inferno del 2020. Una realtà che però non può essere questa, come nella canzone ideata insieme a mio fratello Eugenio. “Notti magiche” non volevo neppure scriverla. Quando il mio amico Franco De Lucia disse “guarda che Caterina Caselli e Gianna Nannini vorrebbero da te il testo della canzone che sarà l’inno dei Mondiali di calcio”, gli risposi: «Ma sei pazzo?». Cantavo e scrivevo senza manager e produttori, ero sempre in antitesi. Facevo tutto da solo. Vivevo circondato dagli amici del cortile, nel quartiere napoletano di Bagnoli - sotto l’Italsider - c’erano persone di tutti gli accenti. Non avvertivo la contrapposizione Nord-Sud, ero libero di ridicolizzare tutti. Venni perfino “licenziato” dalla casa discografica dopo l’album “Non farti cadere le braccia” e iniziai a suonare per strada con armonica, tamburo e chitarra. Un’area politicizzata mi elesse idolo dell’insoddisfazione giovanile in Italia. Ero convinto che “Notti magiche” non me l’avrebbero perdonata, ma Caterina Caselli e Gianna Nannini mi convinsero. Al Festival blues di Pistoia, qualcuno mi propose per un duetto con un “mostro sacro” come BB King. «E chist chi è?», disse BB King. «Bennato. Ha scritto l’inno dei Mondiali di calcio». “Notti magiche” fu il passepartout, suonai con lui. Mesi dopo, BB King eseguì con me - sempre dal vivo - addirittura “Signor Censore” e alla fine della canzone mi disse: «You can play the blues», puoi suonare il blues. Ora come allora il calcio è l’autentico aggregatore dell’Italia. Certo, negli anni Novanta non avevo internet e neppure uno smartphone tra le mani, uno strumento così potente che sembra si possa fare tutto.  Sembra, perché la globalizzazione tiene tutti sotto scacco, tutti imbavagliati. Ma il futuro mi intriga, sono ottimista. La realtà non può essere questa.

Massimo Sarti per "Leggo" il 9 giugno 2020. È stato la voce delle notti magiche di Italia '90. Un intero Paese ha sperato di sentire la fatidica frase “Campioni del Mondo” da Bruno Pizzul. Che mai però ebbe il privilegio di poterla pronunciare, a differenza del predecessore Nando Martellini nel 1982 e dei successori Marco Civoli (Rai) e Fabio Caressa (Sky) nel 2006. Il tutto, 30 anni fa, per colpa di quella maledetta semifinale di Napoli contro l'Argentina di Maradona. L'ennesimo gol dello spiritato Schillaci, il pareggio di Caniggia con l'uscita avventata di Zenga, la beffa ai rigori per gli errori di Donadoni e Serena. L'82enne giornalista friulano resta oggi amatissimo dalla gente. E proprio la gente delle notti magiche fu davvero speciale. In contrasto evidentissimo con il clima nel quale obbligatoriamente dovrà riprendere il calcio dopo lo stop per il Coronavirus. Pizzul ci ha aperto prima lo scrigno della memoria, per poi analizzare un presente complesso.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 6 agosto 2020. «Davvero hanno ritrovato il tesoro di Italia '90? Che bella notizia, non ne sapevo niente», esclama al telefono Giuseppe Giannini, 55 anni, ex capitano della Roma e regista della nazionale di Azeglio Vicini, per tutti da sempre il Principe. «Quasi quasi - aggiunge subito - chiamo i miei ex compagni di squadra Schillaci, Baggio, Donadoni, Mancini, Zenga. Insieme potremmo studiare un'iniziativa, organizzare magari un'asta di beneficenza per aiutare i terremotati o le residenze per gli anziani colpiti dal Covid...». Già, il tesoro di Italia '90 è stato ritrovato: i cinquanta lingottini d'oro personalizzati, ognuno del peso di 25 grammi con un grado di purezza di 750 millesimi, con su impresso il cognome di ciascuno dei protagonisti delle «Notti Magiche», giacevano da 30 anni in una cassetta di sicurezza della Banca di credito cooperativo dei Colli Albani. Li ha scoperti Carlo Colizza, sindaco M5S di Marino, comune dei Castelli Romani fino a ieri conosciuto soprattutto per la sagra dell'uva: «Quando li ho visti - racconta - mi sono sentito come un bimbo nella grotta dei pirati». I 50 lingottini, uno per ogni calciatore ma anche uno per ogni singolo componente dello staff tecnico della Nazionale e della Federcalcio di allora, dovevano essere l'omaggio del Comune di Marino ai nostri azzurri per aver scelto proprio la cittadina dei Castelli Romani come luogo del ritiro dall'8 giugno all'8 luglio del 1990. Però, malgrado più volte in quei giorni il sindaco socialista dell'epoca, Giulio Santarelli, avesse invitato la Nazionale a Palazzo Colonna, i lingottini non vennero mai consegnati. Si sfiorò addirittura l'incidente diplomatico, Santarelli scrisse perfino al presidente della Repubblica di allora, Francesco Cossiga, per lamentarsi. Ma Azeglio Vicini, il ct, pretendeva massima concentrazione e gli azzurri restarono per tutto il tempo rintanati all'Hotel Helio Cabala, «che dista dal Comune non più di quattro minuti di macchina», fa rilevare il sindaco attuale Colizza, deluso anche lui. «Ricordo gli allenamenti allo stadio di Marino - dice Giuseppe Giannini - ogni volta venivano a vederci 3-4 mila persone, tanto calore sugli spalti, tante bandiere tricolori, c'era un grande entusiasmo intorno a noi, io abitavo a un chilometro e mezzo da lì, respiravo ogni giorno aria di casa. Peccato davvero per come andò a finire: dopo 30 anni ancora non ci dormo...». Semifinale a Napoli, il 3 luglio contro l'Argentina di Maradona: l'Italia perse ai rigori 3-4. «Eppure eravamo fortissimi, una squadra da primo posto», sospira il Principe. Nei mesi scorsi, poi, l'ex sindaco Santarelli ricordando in un'intervista la vicenda, rivelò la fine dei lingotti: riposti in due scatoloni e chiusi con lo scotch nella banca della Tesoreria del Comune. Così sono scattate le ricerche, fino al ritrovamento e all'apertura della cassetta di sicurezza. Il sindaco Colizza ora ha deciso di indire un referendum: a settembre chiamerà i suoi concittadini a pronunciarsi su cosa fare di questo tesoro: «Potremmo finalmente consegnarli ai calciatori dell'epoca per ricucire lo strappo oppure invece organizzare un'asta a livello professionale perché il valore è davvero notevole (quotazione dell'oro di ieri, 55,19 euro al grammo, ndr ) e finanziare qualche progetto utile». «Giusto così - conclude Giuseppe Giannini -. Siano i cittadini di Marino a decidere: comunque sarei felice se li dessero a noi, tutti insieme come allora potremmo fare del bene al Paese».

Il tesoro ritrovato dopo 30 anni, ecco l'oro dimenticato di Italia '90. Pubblicato giovedì, 06 agosto 2020 da La Repubblica.it. Un tesoro dimenticato per 30 anni. Adesso torna alla luce a Marino 'l'oro dei Mondiali', ovvero cinquanta lingottini del prezioso metallo realizzati dal Comune per omaggiare la mitica Nazionale azzurra di Italia '90 che durante il torneo era ospite della cittadina in provincia di Roma. I lingottini però non furono mai ritirati dai giocatori e per tre decenni, fino a oggi, rimasero dimenticati in una cassetta di sicurezza. E ora in città si discute su come utilizzare l'inaspettato tesoretto. A riportare alla luce la vicenda è stato il direttore del periodico di Frascati 'Il Tuscolo' Fabio Polli, intervistando durante il lockdown l'allora sindaco Giulio Santarelli, che a quanto pare scrisse anche al Quirinale per lamentarsi dello sgarbo del ct Azeglio Vicini. Come racconta infatti oggi su Facebook l'attuale sindaco Carlo Colizza, trent'anni fa gli Azzurri erano ospiti di Marino: dormivano all'hotel Helio Cabala e si allenavano nello stadio Comunale. Il Comune allora fece realizzare dei lingottini d'oro da donare ai giocatori e allo staff. Vicini, però, non diede la disponibilità a ritirarli, spiega Colizza, e l’oro dei Mondiali finì al sicuro in una banca cittadina. Da lì trent'anni di oblio. Durante il lockdown però il giornalista intervista l'ex sindaco, viene a conoscenza della storia e la racconta al sindaco in carica, che a quel punto si rivolge alla banca. E' vero, chiede, che il Comune ha intestata da tanti anni una cassetta di sicurezza? Sì, si sente rispondere dalla banca, la cassetta esiste. Allora vanno subito ad aprirla: dentro, mai più toccati da allora, scoprono "cinquanta lingottini da 25 grammi d'oro - racconta oggi sui social Colizza, con tanto di video - con incisioni recanti la data di conio. In totale i premi consistono in 1,250 kg di oro con un grado di purezza di 750/1000. Dopo 30 anni la città deve deciderne il destino - prosegue: se richiamare i protagonisti dei Mondiali o monetizzare il valore e utilizzarlo per l'arredo urbano, per un progetto di recupero dei nostri monumenti o per un fondo per le imprese. Saranno i cittadini a decidere cosa fare con l'oro dei mondiali - conclude il sindaco - perché le risorse pubbliche appartengono a loro". E qui scatta il dibattito, perché tanti cittadini approfittano del post del sindaco per dire la loro: potenziare i parchi gioco dei bambini, propone uno; utilizzarli per le famiglie bisognose, manutenere le scuole, dicono altri. Qualcuno propone anche di organizzare un'asta per ricavarne il più possibile. Alcuni cittadini (forse ancora un po' offesi a trent'anni di distanza) escludono di regalarli ai giocatori che a suo tempo non le ritirarono; altri invece suggeriscono di organizzare un evento con la Figc e quegli indimenticabili calciatori, sovvenzionato da sponsor: "Un evento pubblicizzato a livello nazionale - si legge in un commento - secondo me potrebbe portare più del controvalore delle medaglie".

Italia '90 non portò gli azzurri a conquistare il Mondiale, ma quelle notti furono davvero magiche per la partecipazione popolare. Quali sono i suoi ricordi?

«Non fu magica la notte disgraziata della semifinale di Napoli per il risultato, ma le altre sì. Non solo perché l'Italia dava la sensazione, vincendo, di potersi aggiudicare quel Mondiale. Si era creato un clima di festa, di entusiasmo, che coinvolse davvero tutto il Paese. I tricolori sui balconi, la canzone di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato che trascinava, ci fu un'adesione pressoché totale dell'Italia, a testimonianza ulteriore della popolarità straordinaria del calcio. Tutti ci riconoscevamo in quel Mondiale, ne eravamo orgogliosi. Anche se ci furono prese di posizione abbastanza particolari secondo le quali i Mondiali stavano attirando troppe attenzioni mediatiche. Ci fu, ricordo, chi si ritirò a Capalbio (località toscana in provincia di Grosseto, ndr) dove non si doveva parlare di calcio. Una posizione snobistica, se vogliamo, di fronte allo tsunami che furono quei Mondiali».

Un ricordo che stride con il calcio che in Italia sta per ripartire dopo la pandemia. Forzatamente senza pubblico.

«La partita a porte chiuse sembra più un simulacro di partita. E gli stessi calciatori a volte appaiono proprio spaesati. Con la ripresa del campionato tedesco si è sottolineato la straordinaria partecipazione degli spettatori davanti alle televisioni, ma spesso le gare senza pubblico sono risultate noiosette. Adesso si paventa la possibilità che gli stadi per la seconda parte di questa fine di campionato in Italia possano essere aperti parzialmente. Io resterei prudente, in particolare in alcune zone del Paese dove la situazione ancora non è del tutto sotto controllo. Prima la salute. Però è giusto ripartire con il calcio, per provare a dare altri segnali di normalità. Ed anche i numeri della pandemia, cui peraltro non tutti credono, lo permettono. Certo, gli ostacoli non mancano. Soprattutto dovesse restare la quarantena obbligatoria per l'intero gruppo di squadra e staff in caso di un nuovo contagio. Il completamento per intero del campionato sarebbe messo a serissimo pregiudizio».

L'avvicinamento a questa ripresa del calcio è stato però quanto meno tormentato...

«Di fronte a una situazione eccezionale ed inattesa come quella del virus, era forse quasi inevitabile. Però abbiamo assistito a prese di posizione e modi di comunicare contraddittori da parte delle varie autorità: calcistiche, scientifiche e politiche. Ribadisco, speriamo che la ripresa avvenga in maniera accettabile e credo che per la A e la B sarà così. È invece ancora tutto in alto mare per la C e per il calcio dilettantistico, dove c'è la preoccupazione della sparizione di tantissime società, anche per le spese da sostenere per assicurare le tutele per la salute dopo questa epidemia».

La Juventus resta favorita per lo scudetto? La Lazio può tentare il colpaccio?

«La Lazio deve provare a fare il colpaccio, anche se ritengo che la Juventus rimanga leggermente avvantaggiata, non tanto per il punticino che ha in più in classifica, quanto per la maggiore abitudine ad affrontare determinati tipi di situazione».

L'Inter è fuori causa per il vertice?

«Per lo scudetto sì. E deve stare attenta a non perdere anche le posizioni che valgono la Champions, sportivamente sarebbe una tragedia. Ha un vantaggio che le dovrebbe assicurare una certa tranquillità, ma l'Inter storicamente è capace di qualsiasi cosa, nel bene e nel male».

L'Atalanta può sognare ancora di fare strada nella Champions League di agosto, dopo che Bergamo è stata al centro del dramma Coronavirus?

«L'Atalanta, oltre a ottenere risultati straordinari, è stata sovente capace di unire l'utile al bel gioco e questo in generale non sempre succede. Si è attirata tante simpatie da parte della gente. Bergamo è stata poi al centro di una vera e propria emergenza. E tutti quei lutti non potranno essere sottaciuti. Da una parte altri successi dell'Atalanta potrebbero portare gioia ad una città e ad una provincia ferite. Ma proprio il rispetto per i tanti lutti è uno dei motivi che hanno spinto gli ultras dell'Atalanta a protestare contro la ripartenza. Oltre a questo i tifosi dell'Atalanta sottolineano che senza la loro presenza lo stesso calcio della Dea non avrebbe senso. Una posizione condivisa da molte tifoserie. Anche qui in Friuli i sostenitori dell'Udinese si sono dichiarati nettamente contrari alla ripresa a porte chiuse. La situazione è complessa e ricca di contraddizioni. Ma d'altra parte, prima che si arrivasse alla decisione di riprendere a giocare, le stesse società di calcio hanno espresso opinioni diversificate»

FRANCESCO PERUGINI per Libero Quotidiano l'8 giugno 2020. Totò Schillaci risponde al telefono dalla sua auto. È reduce dall'ennesima serata di ricordi di Italia '90, il Mondiale che prendeva il via trent' anni fa esatti. L'8 giugno 1990 cominciavano le Notti Magiche di cui l'attaccante palermitano sarebbe diventato stella indiscussa con 6 reti e il titolo di capocannoniere. «La gente si ricorda di me, ma non solo per quei gol. Ero un ragazzo semplice, venuto dal nulla che si è conquistato tutto con la fatica».

Schillaci, ricorda la vigilia di Italia-Austria?

«Non me lo sognavo nemmeno di giocare un Mondiale così strepitoso. Ci avevo sperato tanto durante l'anno con la Juve, ma Vicini mi aveva scelto solo all'ultimo. Entrai a Coverciano in punta di piedi, sono sempre stato molto timido. Cercai di mettermi in mostra e così conquistai un posto in panchina».

Quella da cui si alzò al 75'...

«La partita non si sbloccava, avevamo preso due pali e Andrea Carnevale aveva avuto tante occasioni. Speravo che i miei compagni non segnassero per poter entrare. Gufata? No, è umano aver voglia di rubare il posto ai compagni. In panchina c'erano Serena, Baggio, Mancini, ma Vicini scelse me prendendosi un rischio: "Vai e fai gol". Dopo solo quattro minuti segnai tra due difensori su un cross di Gianluca Vialli. Era destino».

Mancini non si alzò più da quella panchina e ci è tornato da ct. Le piace la sua Nazionale?

«Roberto ha dimostrato di avere grandi potenzialità alla guida dei club. È bello vedere che a Coverciano non ci sono più solo i giocatori dei soliti quattro-cinque club, ma anche di Sassuolo, Cagliari o Brescia. La qualificazione è arrivata, ma attenzione: vivere una grande manifestazione è diverso, devi gestire la paura di sbagliare».

Lei e Baggio non ne aveste contro la Cecoslovacchia...

«Eravamo affiatati, in campo ci cercavamo. Roberto ti metteva in condizione di segnare con il suo talento e io ne approfittavo».

Uruguay, Irlanda e poi l'Argentina, fischiata sin dall'inno l'8 giugno a San Siro nella gara inaugurale dell'evento. Percepivate le polemiche?

«Sentivamo solo la partita, fu una sfortuna giocare a Napoli contro Maradona. Avemmo l'occasione per andare in finale, poi a volte gli episodi ti negano la vittoria».

Quell'uscita di Zenga...

«Zenga fece un grande Mondiale, in quel momento uscì sicuro di prendere la palla e non fu così. Ma sono episodi».

Finì col terzo posto e i rimpianti sul campo, fuori il ricordo di tanti soldi pubblici buttati. Cosa resta per lei delle Notti Magiche?

«Porto con me i ricordi di quei giorni e l'affetto della gente che vivo ogni giorno. Tutti si ricordano di quei Mondiali e mi vogliono bene, nessun tifoso mi ha mai insultato».

A 26 anni quella era stata la sua prima stagione nella Juve nell'anno perfetto del nostro calcio con 3 coppe europee vinte. Siamo lontani da quei livelli...

«Eravamo abituati a vincere, c'era la mentalità giusta. Dovremmo ricominciare a investire, lo fa solo la Juve con l'obiettivo di vincere la Champions. Per me la A resta il campionato più bello al mondo».

Servirebbe un po' di coraggio? Come quello che ebbe lei chiudendo la carriera in Giappone o, negli ultimi anni, mettendosi alla prova in tv o come attore.

«Se c'è una cosa che mi piace la faccio, non dico di no perché sono Schillaci. Il calcio mi ha dato tutto e ho creato un centro sportivo a Palermo per aiutare tanti giovani».

«Aveva una voglia di fare gol che non ho mai visto», disse di lei Franco Scoglio. C'è qualcuno in cui si rivede?

«Sono cambiati i tempi, i calciatori sono più tutelati e hanno visibilità. Bastano 2-3 gol al momento giusto per andare in Nazionale, mentre ai miei tempi ne dovevi fare tanti per guadagnarti la convocazione. Non sarei arrivato ai Mondiali senza segnare 21 gol con la Juve vincendo Coppa Italia e Coppa Uefa».

In quegli anni uno come Mario Balotelli non poteva esserci.

«Lo ammiro come talento, purtroppo ognuno è responsabile dei propri comportamenti. Avrebbe potuto fare grandi cose anche in azzurro».

Il quattro a tre di Rivera. L'urlo Mundial di Tardelli. La corsa pazza di Grosso. Redazione su Il Giornale, Venerdì 15/05/2020.

1 Mai visto così tanto entusiasmo patriottico, tanti tricolori per le strade come per la finale degli azzurri al Mundial. Nella tomba di Caprera, le ossa di Garibaldi fremono di invidia. Per unificare l'Italia «in un solo grido, in una sola passione» gli erano occorsi mille uomini. A Bearzot ne sono bastati undici - Indro Montanelli.

2 Partite del genere se ne vedono al massimo due in una generazione di calciatori: per noi italiani il fatto è inconsueto al punto che nessuno può dire di averne vista una uguale, oppure di sperare di vederne un'altra identica - Gualtiero Zanetti, Italia-Germania 4-3.

3 La prima Italia di 110 anni ha la camicia bianca, il colletto inamidato, i baffi a manubrio e un nastrino tricolore sul petto. E fa subito sei gol.

4 Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo! - Nando Martellini, 1982.

5 La maglia azzurra è quasi una dimensione mistica. Qualunque bambino abbia giocato a pallone l'ha vista sempre come un simbolo di felicità - Fabio Cannavaro.

6 Po popo popo pooo po - The White Stripes.

7 Fascista e repubblichino fu catturato il giorno dopo il 25 aprile per essere fucilato. Ma un gruppo di operai comunisti lo riconobbe: «È Monzeglio, un campione dl mondo!». E si salvò.

8 Quello che è successo dopo il gol andò oltre la pazzia. Ero come dentro un film muto, non sentivo più niente e poi improvvisamente, pom!, mi uscì dalla bocca quell'urlo. E mentre urlavo e correvo rivedevo mia mamma, mio papà, me stesso ragazzino - Marco Tardelli.

9 Nun te preoccupà, mo je faccio er cucchiaio - Francesco Totti.

10 Il ricordo più vivo di Spagna '82? Zoff che mi dà un bacio sulla guancia dopo la partita con il Brasile. Senza dire una parola - Enzo Bearzot.

11 Una vita da mediano/ lavorando come Oriali/ anni di fatica e botte e/ vinci casomai i mondiali - Ligabue.

12 Tutto mi sarei aspettato nella vita tranne che di vedere Niccolai in mondovisione - Manlio Scopigno.

13 Quella che ci manda in finale agli Europei '68 è una moneta d'argento da 10 franchi, preferita a una spagnola e una americana. Uscì testa.

14 Preferisco la puttana di tua sorella - Marco Materazzi.

15 Prima di ogni match Pozzo ci parlava della battaglia del Piave, del Carso, di Trento e Trieste, della patria. Ci faceva piangere - Alfredo Foni.

16 Sabato 18 alle ore 20.25, in telecronaca diretta da Wembley, Inghilterra-Italia, valevole per la qualificazione della Coppa del Mondo. Fantozzi aveva un programma formidabile: calze, mutande, vestaglie di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero - Paolo Villaggio.

17 Negli anni '70 gl'italiani all'estero non avevano rispetto né importanza. Il gol che segnai all'Inghilterra che espugnava Wembley per la prima volta fu un regalo a tutti gli emigrati del mondo - Fabio Capello.

18 L'Italia e il suo senso dell'estetica, l'Italia e le sue idee originali, l'Italia e la sua capacità di seduzione, l'Italia e le sue meschinità calcistiche. Se è vero che in tutto il mondo si gioca come si è, come diavolo è l'Italia? - Jorge Valdano.

19 Noi che... abbiamo avuto la prima tv in casa per i Mondiali del 1970 e quella a colori per i Mondiali del 1982 - Noi che, Carlo Conti.

20 Io ero in coppia con Bearzot, il presidente Pertini con Zoff. Feci una furbata: calai il 7 pur avendone uno solo. Pertini lo lasciò passare, Bearzot prese il Settebello. Abbiamo vinto così quella partita, Pertini si arrabbiò moltissimo - Franco Causio.

21 Rosetta parlava poco, Caligaris rideva sempre, sembravano due ma erano uno, nel carattere e nel gioco. Una coppia di re.

22 Il cucchiaio di Pirlo all'Inghilterra, Europei 2012. Una carezza.

23 Renzo De Vecchi che debutta 16enne accompagnato dalla mamma. Lo chiamarono il Figlio di Dio.

24 Un mondiale e un'Olimpiade vinti, 22 partite giocate, 0 sconfitte. Locatelli (Ugo) fa le cose per bene.

25 Zola piega l'Inghilterra a Wembley 24 anni dopo Capello: stop al volo di sinistro e gol di destro. Il Baronetto fa inchinare la Regina.

26 Baggio è una gran coda di cavallo che avanza scacciando la gente in un elegante andirivieni. - Eduardo Galeano.

27 Le mani di Zoff, disegnate da Renato Guttuso, che alzano la Coppa del Mondo.

28 Notti magiche, inseguendo un gol, sotto il cielo di un'estate italiana.

29 1963, Italia-Brasile 3-0. «Lo straordinario Monsieur Trap ha annichilito Pelè». - L'Equipe.

30 Se Pozzo fu il mago della Nazionale, Niccolò Carosio fu il suo Omero: una voce amica dal timbro profondo che trasportava i tifosi in uno stadio lontano - Gianni Romeo.

31 Negli anni '30 una partita in Nazionale regalava il patentino allenatori. A Nereo Rocco ne bastò mezza con la Grecia per diventare il Paròn.

32 Renato Cesarini, detto Cè, segna a tempo scaduto il gol del 3-2 contro l'Ungheria. É nata la Zona Cesarini.

33 Non ricordo come stoppai la palla, ricordo solo il tiro al volo che si insacca. Feci tutto coll'incoscienza di un ragazzo di 20 anni - Pietro Anastasi, l'eurogol della finale 1968.

34 Riva gioca un calcio in poesia. È un poeta realista. - Pier Paolo Pasolini.

35 1947: contro l'Ungheria 10 giocatori su 11 sono del Grande Torino. L'Italia da azzurra si fa granata.

36 Silvio Piola segna di mano in rovesciata contro l'Inghilterra. È azzurra la prima Mano de Dios.

37 Il colpo di testa di Luigin Burlando, ragazzo del '99, che infila larete del Belgio da centrocampo.

38 Un ragazzo così era un angelo piovuto dal cielo. Ma lo hanno rivoluto indietro troppo presto - Enzo Bearzot su Gaetano Scirea.

39 Ho vinto un mondiale, ho segnato il gol della vittoria, ci fosse stato una della mia famiglia che mi abbia detto bravo - Angiolino Schiavio.

40 Bisogna pagarli di più. Così nel 1934 per premiare gli azzurri campioni del mondo gli italiani fecero una colletta. Raccolsero 10 mila lire, come i premi già fissati.

41 L'Italia del '68 chiude gli anni del miracolo e apre quelli della contestazione, l'Italia dell'82 chiude gli anni di piombo e apre i favolosi anni Ottanta.

42 Bettega, Rossi, Bettega, gol. L'Argentina perde ma vince il Mondiale 78. L'Italia comincia lì a vincere quello dell'82.

43 L'acqua benedetta del Trap.

44 Europei '80: la spaccata di Tardelli su cross di Graziani batte gli inglesi. Il suo urlo anticipa il futuro.

45 Mondiali 1934. A Meazza salta l'elastico dei pantaloncini mentre tira il rigore. Segna lo stesso. E il Brasile resta in mutande.

46 Nel ritiro dei mondiali francesi Pozzo ci leggeva la posta. Se c'era qualcosa che ci poteva turbare non ce la leggeva - Giuseppe Meazza.

47 Consegnando la coppa Rimet 1938 a Meazza il presidente francese Lebrun dice: Il gagnent tout, ces italiens! Vincono tutto questi italiani.

48 Cesare e Paolo, padre e figlio, allenatore e capitano, ma soprattutto Maldini e Maldini.

49 Il mucchio selvaggio che seppellisce Toldo dopo i cinque rigori falliti dagli olandesi, tre parati.

50 La dedica a Pessotto scritta sulla bandiera tricolore: «Pessottino siamo con te».

51 Gli occhi di Schillaci grandi, spalancati, fiammeggianti: l'immagine di Italia 90. Il Salvatore della Patria.

52 La corsa matta di Fabio Grosso, il contropiede di Alex Del Piero. Germania-Italia 0-2. Andiamo a Berlino, andiamo a prenderci la Coppa.

53 Il cielo è azzurro sopra Berlino - Marco Civoli.

54 Paolo Rossi, l'hombre del partido.

55 Italia-Germania 3-1, finale del 1982, è lo spettacolo tv più visto dagli italiani: 37 milioni di spettatori.

56 È il giorno più bello da quando sono presidente della Repubblica. - Sandro Pertini.

57 Le lacrime di Baresi dopo la finale persa con il Brasile.

58 Facchetti aveva qualcosa di speciale, simbolo di una generazione che a lui aveva affidato la bandiera della lealtà.

59 Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici Checco Zalone.

60 Annibale Frossi giocava con gli occhiali, fissati alla nuca da un elastico. Segna la doppietta che vale l'oro olimpico. E Pozzo gliene regala un paio. Infrangibili.

61 Gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre - Winston Churchill.

62 Noi con voi/ voi con noi/ ancora più che mai/ siamo qui/ col cuore azzurro/ come il nostro cielo - I Pooh.

63 Sono cresciuto in Galles, mio padre, polesano, lavorava in fonderia: io conosco l'orgoglio che prova un papà emigrato quando dice al suo bambino «oggi ti porto a vedere l'Italia». - Giorgio Chinaglia.

64 Uno, due, tre, quattro, cinque, tiro, gol. Mazzola infila la Svizzera con cinque palleggi e un diagonale.

65 La Coppa del Mondo l'ha disegnata un italiano Silvio Gazzaniga. Per farla ci mise una settimana, vinse la concorrenza di 53 coppe.

66 Rino Caravagna, 8 anni, sardo, disperato non mangia più perché Riva si è rotto con la Nazionale. Gigi lo chiama dall'ospedale: «Vieni a mangiare da me...»

67 Europei 2016, con una girata al volo Pellè manda a casa la Spagna campione di tutto. Peccato tutto il resto.

68 I baffi di Bergomi: sembrava suo nonno ma era lo zio.

69 Virgilio Fossati, debutta insieme all'Italia, ne diventa capitano. Medaglia d'argento al valor militare, il suo corpo fu mai trovato. È morto nella Grande Guerra. Da capitano.

70 Cevenini lo chiamavano Zizi, perché non sta mai zitto, Zi-zi-zi e la sua parlantina, ma era il Dio del calcio fatto uomo - Leone Boccali.

71 Sei meglio di Levratto ogni tiro va nel sacco, oh, oh, oh, che centrattacco - Quartetto Cetra.

72 Due minuti alla fine, 1-1 con la Spagna, uno scatto, il portiere dribblato, un angolo senza luce, la palla che s'infila. Baggio, Baggio, Baggiooooo...

73 Mumo Orsi, il Paganini della palla rotonda, l'oriundo azzurro più longevo, l'argentino più amato dagli italiani prima di Belen.

74 Giovanni Ferrari, classico per natura/ profeta del realismo/ metodista e magico/ sepolto fosti/ con la maglia azzurra/ per tua dedizione/ a una bandiera - Fernando Acitelli.

75 Per il Times la maglia azzurra è la terza più bella della storia del calcio. Ma vi pare che quella del Real e del Brasile siano meglio?

76 Burgnich che non segna mai tranne che nei 4-3.

77 Rossi! Rossi! Rossi! L'uomo che fece piangere il Brasile.

78 Per metterla dentro al Brasile ho dovuto dribblare anche Riva. Ho una foto che mi ritrae dopo aver segnato: sembra che voli - Roberto Boninsegna.

79 Qui dormono/ divinamente belli/ Socrates, Eder, Zico/ messi in sonno/ da Zoff e i suoi fratelli/ stufi di sentirsi dire/ non valete un fico/ per questo scelsero gol e silenzio/ ai critici nemici/ un brindisi con l'assenzio - Giovanni Arpino.

80 L'Italia di Conte tutta sangue, sudore e lacrime.

81 Fratelli d'Italia/ l'Italia s'è desta/ dell'elmo di Scipio/ s'è cinta la testa/ dov'è la vittoria.

82 Italia-Cecoslovacchia. «Triangolazione, Baggio, Baggio che converge, Baggio, Baggio, Baggio, finta di Baggio, tiro, grandissimo gol di Baggioooo» - Bruno Pizzul.

83 Gino Colaussi doveva scegliere se sposarsi o andare ai Mondiali del 1938. Va ai Mondiali: in finale segna due gol su quattro.

84 Lo chiamavano l'americano, era gracilino, ma aveva tutto. Non c'era regista al mondo più bravo di Adolfo Baloncieri. Era una scuola con i piedi.

85 Nel 1930 l'Ungheria è la squadra più forte del mondo. Ne prende 5 in casa dall'Italia, tre di Meazza. È il primo grande trionfo degli azzurri.

86 I maestri inglesi, l'Italia campione. È il 1934, vince l'Inghilterra 3-2 ma gli sconfitti vengono salutati come vincitori. Saranno per sempre i «Leoni di Highbury».

87 1935: l'Austria è una regina, il Prater inespugnato, debutta Silvio Piola. Vinciamo 2-0. Due gol di Piola.

88 Mondiali di Francia: l'Italia gioca in maglia nera e fa il saluto romano. 3-1 per l'Italia, i fischi diventano applausi. Il calcio è più forte.

89 La maglia di Zico strappata da Gentile.

90 Un successo dell'Italia per gli italiani è più importante di una finanziaria fatta bene - Giuliano Amato.

91 Quando si dice che la maglia azzurra è il punto di arrivo per ogni giocatore si dice la verità - Roberto Baggio.

92 La Nazionale è come la mamma. Ce n'è una sola. - Antonio Cassano.

93 Gigi Buffon è quello che ha giocato di più, Gigi Riva quello che ha segnato di più, Meazza e Ferrari quali che hanno vinto più mondiali, Foni, Rava, Bertoni e Locatelli gli unici a vincere Mondiale e Olimpiade.

94 Pagliuca che bacia il palo durante la finale del 1994.

95 Balotelli che mostra i muscoli dopo aver steso la Germania.

96 La maglietta del Mundial 82 con i bordini tricolore.

97 Ottorino Barassi che nasconde la coppa Rimet in una scatola di scarpe e la salva dai nazisti.

98 Italia-Francia finale del 2006 ha avuto l'87 per cento di share.

99 «Sono trascorsi 10 minuti che Lana da 30 metri calcia con forza in gol riuscendo a segnare il primo punto». È il primo gol azzurro.

100 Il gol del 4-3? Tirai di destro ma pensavo di aver calciato di sinistro. È stato il gol più lungo della mia vita - Gianni Rivera e il 4-3.

101 Totti che segna il rigore all'Australia al 93'.

102 Espulso Pagliuca, sostituito Baggio, ko Baresi, abbiamo perso la prima. Ma Dino Baggio di testa la mette dentro. Norvegia battuta, la Patria salva.

103 Il gol più bello: il volo d'angelo di Gigi Riva contro la Germania Est.

104 Domenghini e Mazzola/ Boninsegna e Rivera/ in panchina/ in panchina/ con Zoff - Mina.

105 Pepìn è un dono di Eupalla. Inventa un calcio fatto di guizzi improvvisi, di stacchi miracolosi, di acrobazie impensabili. I francesi lo definiscono un grand peintre du football - Gianni Brera.

106 Il doppio passo di Biavati.

107 Marcello Lippi è il più bel prodotto di Viareggio dopo Stefania Sandrelli - Gianni Agnelli.

108 Goggio, Casanova, Galletti, Fossati: gli azzurri caduti nella Grande Guerra.

109 Il vaffa di Chinaglia, l'uscita a vuoto di Zenga, Cassano che piange per un biscotto, il palo di Rizzitelli, i pomodori della Corea, il rigore sulla traversa di Di Biagio, l'arbitro Moreno. Anche questa è Nazionale.

110 Mancini, 10 partite, 10 vittorie, e l'Europeo del 2021: «Non vedo l'ora di tornare a risentire l'inno di Mameli, davanti alla panchina, con la mano sul cuore».

Maldini, Del Piero, Totti: perché gli ex campioni quasi mai diventano grandi dirigenti. Pubblicato domenica, 17 maggio 2020 su Corriere.it da Mario Sconcerti. Maldini che si allontana dal Milan aiuta forse a definire le competenze di un grande giocatore dopo la fine della carriera sul campo. La figura del calciatore è profondamente cambiata dopo tre momenti storici: la fine del vincolo all’inizio degli anni Ottanta e il conseguente arrivo di una classe di manager molto svelta, i procuratori, che tolse i giocatori dal rapporto diretto, paternalistico, con i presidenti e ne moltiplicò le strade; la legge Bosman del 1995, cioè l’apertura incondizionata ai giocatori europei; e l’arrivo della televisione, soprattutto Sky nel 2003. La fine dei vincoli di squadra e nazioni ha liberato i giocatori rendendoli padroni dei propri contratti. I soldi delle televisioni hanno permesso una valorizzazione stellare di quei contratti. All’inizio del Duemila il giocatore importante è un giovane uomo molto ricco, molto popolare grazie a tv e web nascente, e ormai anche all’altezza di gestire il nuovo ruolo sociale con buona disinvoltura. Nascono però due problemi. Il primo è che la libertà di muoversi gli toglie radici. Il calciatore fa sempre più fatica a diventare il riferimento di un solo club. Questo gli toglie mestieri, futuro. Dopo il campo dovrà trovarsi un lavoro che la sua fama e la sua ricchezza gli hanno sempre fatto ignorare. Comincia una vita con venti anni di ritardo. E non ne conosce le regole, i compromessi, le volgarità che ogni mestiere porta. Il grande calciatore è uno che ha sempre avuto, non ha mai dovuto occuparsi di niente, a volte nemmeno dei compagni. Era lui lo spogliatoio. L’incontro con il mondo è caotico e alla lunga genera una regola evidente: i grandi calciatori quasi mai diventano dirigenti importanti. Sono come poeti dentro Wall Street. Intuiscono il talento negli altri, ma lo vedono come scopo finale. Prima di Maldini ha lasciato Boban, per «ineleganza del Milan», cioè merce ordinaria, offensiva solo per chi può permettersi nella vita un unico principio. Totti è stato due anni dirigente della Roma poi è stato lasciato andare. Del Piero non ha mai cominciato, la Juve lo ha fermato un anno prima che smettesse di giocare. Antognoni ha un ruolo di pura rappresentanza nella Fiorentina. Potrei sbagliare, ma l’ultimo buon dirigente è stato Dino Zoff alla Lazio. Non ricordo un campione del mondo di Bearzot o Lippi che abbia inciso. Rossi, Tardelli, Graziani, Toni, Materazzi, Altobelli, Collovati, Grosso, Cannavaro, Gilardino, tutti gli altri. Il calciatore importante è diventato molte cose, commentatore, uomo immagine, allenatore, scout, ma non dirigente. Forse non è un caso che spesso in Italia anche gli allenatori più grandi siano stati giocatori normali o non giocatori. Sarri, Mourinho, Sacchi, lo stesso Conte, Allegri, ma anche Rocco, Herrera, Lippi, Trapattoni, Bearzot. È come se il grande talento facesse vedere benissimo solo metà del calcio, lasciando nell’ombra l’altra, quella oltre il campo. Dove comincia il mondo.

Dagospia il 16 ottobre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2.  Giancarlo Antognoni è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. L'ex campione della Fiorentina ha parlato un po’ di se: "Una notte indimenticabile? Quella del mondiale ti rimane per tutta la vita. Poi ci sono anche altre notti, non moltissime nella mia carriera, però quella indelebile rimane quella di Madrid, dopo la vittoria della Coppa del Mondo. Da bambino ero un tifoso del Milan, tutta la mia famiglia era milanista, a cominciare da mio padre, io mi sono adeguato alla situazione, la prima partita che ho visto di Serie A, a 9 anni, fu a Bologna, Bologna-Milan. Andai a vedere i rossoneri. Ho sempre sognato di fare il calciatore, come tanti bambini, è chiaro che prevale la passione. E' un sogno che non si avvera per tutti, ma già iniziare ad avere questa passione per il pallone è sicuramente importante, ti migliora sotto vari aspetti, quello fisico, quello mentale. I miei genitori mi hanno sempre accompagnato, non mi hanno mai vietato nulla, a 15 anni mi sono trasferito da Perugia ad Asti, perché mi aveva acquistato il Torino, ho dovuto fare questo sacrificio di trasferirmi lontano da dove vivevo, lì i miei genitori erano un po' contrariato, ma ho scelto di andare a Torino per provare questa esperienza e mi è servita molto. E' stata la mia prima grande occasione, lì è iniziato il mio cammino da calciatore".

Antognoni fu scoperto da Liedholm: "Giocando ad Asti, in quarta serie, venni convocato dalla Nazionale a Firenze, la Fiorentina mi notò in una di queste manifestazioni che si facevano a Coverciano. I viola mi videro nella nazionale juniores, la Fiorentina è la mia vita, ho iniziato a 18 anni, sono ancora in questa società e in questa città che mi ha dato tutto, sotto l'aspetto professionale ed umano. Sono sempre rimasto a Firenze, la gente ha apprezzato molto la mia scelta. L'ultimo a fare una cosa del genere è stato Totti. Oggi è più difficile, ci sono tante sirene allettanti. Prima c'era un legame diverso con le società, oggi il giocatore diventa quasi proprietario di se stesso. La scelta che ho fatto, pur non vincendo molto con la Fiorentina, è stata giusta. A 31 anni dal mi addio del calcio, grazie al mio rapporto con Firenze, è come se giocassi ancora".

Rapporto con Firenze: "Trovo sempre, ancora, persone che mi riconoscono, che si ricordano di quello che abbiamo passato insieme. Fa piacere essere riconosciuti, considerati, soprattutto per il motivo di essere stato fedele a una città e a una squadra. Ci è mancato lo scudetto, ci siamo andati vicinissimi nell'anno in cui ho saltato quindici partite per un infortunio. Chissà se avessi giocato come sarebbe andato a finire quel campionato. E' il mio rimpianto". Il 22 novembre del 1981, dopo un impatto con il portiere Martina, il cuore di Antognoni si è fermato: "Ricordo poco di quel momento, sono svenuto, mi sono risvegliato negli spogliatoi. Riconoscevo le persone, fu di buon auspicio. E infatti dopo quattro mesi ho ricominciato a giocare e ho fatto il mondiale".

Sul mondiale del 1982: "Fu una vittoria del gruppo, non dei singoli. Abbiamo trionfato tutti insieme, remando dalla stessa parte, con un allenatore che era una brava persona sotto tutti gli aspetti. Sembrava impossibile vincere quel mondiale".

Sui comportamenti prima delle partite: "All'epoca eravamo un po' più tranquilli. E' tranquillo anche oggi il calciatore, ma caratterialmente siamo diversi. Noi eravamo un po' più naturali, oggi hanno difficoltà forse anche ad andare in giro. Noi ci sentivamo meno divi, non c'erano i telefonini, internet, tutte queste cose che possono infastidire i giocatori di oggi. All'epoca avevamo meno visibilità, eravamo diversi caratterialmente, forse eravamo un po' più seri, anche se reputo anche i giocatori di oggi seri".

Su Bearzot: "Era un padre per noi. Gli allenatori prima erano diversi da quelli di oggi. La tattica non prevaleva sul singolo, come accade oggi. Ai tempi nostri c'era meno tattica e più fantasia, gli allenatori erano più padri che allenatori, cercavano di metterti in campo in condizioni ottimali dal punto di vista mentale. L'allenatore con cui mi sono trovato meglio? Ne ho avuti tanti, da Liedholm a Bersellini, ho avuto allenatori che mi hanno sempre dato qualcosa di positivo. Forse con Agroppi ho avuto qualche dissidio quando mi sono infortunato, nel 1893. Volevo rientrare e non mi voleva far rientrare. Qualche dissidio c'è stato".

Sul ruolo del regista: "Oggi è cambiato il calcio, è più dinamico, una volta, negli anni '80, ognuno rispettava la propria zona, ma c'erano meno schemi. Oggi prevale lo schema, la volontà dell'allenatore, sicuramente quello può dare fastidio ai giocatori. Se si lascia più libertà ai calciatori, dalla trequarti in su, è meglio. Ci sono ancora i giocatori che possono risolvere una partita da soli. Il mio ruolo di regista era diverso rispetto a quelli di oggi. Potevo agire come volevo io, non dovevo fare solo quello che diceva l'allenatore".

Sugli altri calciatori: "Il più forte con cui ho giocato? Sono troppi. Contro dico Maradona, Platini, Zico e Falcao".

C'è stato un momento in cui stava per lasciare Firenze: "Potevo andare alla Juve nel 78 e alla Roma nel 1980. I giallorossi mi volevano a tutti i costi, andai a cena con Viola, a casa sua, ma alla fine scelsi di rimanere a Firenze. E penso ancora oggi di aver fatto la scelta giusta".

Tommaso Ghirardi, gli otto anni alla presidenza del Parma e poi la fine: "Che errore vendere". Vanni Zagnoli su Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. La storia è zeppa di personaggi che hanno portato l'azienda sul lastrico per finanziare la propria società sportiva. Tommaso Ghirardi è il più impopolare, presso la propria ex tifoseria del Parma («Se temo intimidazioni per questa intervista? Ma no, un conto sono i cori da stadio, un altro sono le situazioni di persona. La tifoseria che ho conosciuto è sana, capirà»). Eppure sono passati cinque anni dal fallimento, dalla retrocessione in B e dalla ripartenza in D. «La mia Leonessa (l'azienda di famiglia, ndr) è sanissima. Ho commesso un unico, grande errore, cedere il club all'albanese Rezart Taci, peraltro gratis. C'erano 60-70 milioni di passivo, 25 dei quali a una mia controllata, dunque 35-45 reali, non 180: il margine per evitare il fallimento era amplissimo. Invece lui lasciò a quel Manenti, bresciano che non conoscevo. Ho già chiesto scusa tante volte».

Serviranno decenni, forse, per riabilitarla. Eppure dal 2006 aveva speso tanto...

«Venivo dopo Calisto Tanzi, pagai 12 milioni, in più me ne accollai 16 di debiti. Sono stati 8 anni e mezzo di soddisfazioni, anche. Avrei dovuto frequentare i salotti bene della città, pago questa ritrosia. Chi arriva da fuori non ha vita facile, lo dico anche al nuovo proprietario, Kyle Krause. È come avesse comprato Parma, perché il Parma rappresenta la città nel mondo: si prepari a qualche scherzetto dai poteri forti locali, prima o poi arriveranno, stia attento».

Già, l'Europa a lei sfumò per un debito di 265mila euro. A favore del Torino di Urbano Cairo, che poi sarebbe diventato proprietario della Rcs. Ghirardi, quante volte aveva chiesto aiuto agli imprenditori ducali?

«Tante, appunto, ma la risposta era flebile. Avevamo festeggiato il centenario con la successiva qualificazione in E-League, mi è stato impedito di disputarla, lì ero talmente disgustato che ho deciso di non investire più. Serviva freddezza, accettare la retrocessione, restare e aspettare un acquirente serio. Non ho mai portato via un euro dal Parma, è certificato da ogni tribunale».

Persino la Figc le aveva raccomandato Taci...

«Era sponsor del Milan, era la persona giusta. Io pagai 13 milioni di stipendi, a settembre, non avevo lesinato gli investimenti. Taci fece anche un buon mercato, a gennaio».

Tommaso, lei in primo grado è stato condannato a 4 anni di carcere per bancarotta fraudolenta...

«Aspettiamo gli altri due gradi di giudizio. Ho già pagato tutte le spettanze, sarà confermata la mia non responsabilità su varie accuse. I due maggiori imprenditori tra i sette di Nuovo Inizio (la società che riunisce i sette industriali parmigiani che hanno rifondato il club nel 2015, ndr) avrebbero potuto costruire un grande Parma assieme a me, anziché accompagnarlo al fallimento con Taci».

Perché lei finisca in carcere servirebbe una condanna superiore ai 4 anni. Rischia soltanto l'ad dell'epoca, Pietro Leonardi, che ha preso 6 anni.

«Per notorietà, ci si ricorda solo di noi, non degli altri 20 e passa condannati. Una pena di poco inferiore alla mia è stata comminata a un dirigente chiave dell'attuale Parma...».

Che è Marco Ferrari, giornalista, che è tra i sette di Nuovo Inizio che mantengono ancora il 9 per cento del club.

«Le condanne confermano che le decisioni non erano solo mie, il cda fu reso partecipe di ogni risoluzione».

Lei accusa i potenti di Parma (ma in realtà lei stesso era entrato a far parte dell'unione parmense degli industriali): che altro fecero?

«Chiedete a Giuseppe Corrado, imprenditore delle sale cinematografiche che poi prese il Pisa anziché il Parma perché gli stessi poteri forti glielo impedirono».

Voleva evitare il fallimento e poi aggiudicarsi il titolo sportivo, andato invece a Barilla e a buongiorno.it, a Erreà e alla Pizzarotti, a Ferrari e all'avvocato Malmesi, al costruttore Dallara.

«Furono parole di Corrado, ci eravamo confrontati a lungo nel tentativo di provare a salvare il club, ma era già stato tutto scritto».

Ovvero che ripartissero quei grandi nomi dalla serie D.

«E adesso la cessione è avvenuta anche per i 70 milioni di debiti, più 30 milioni pagati a Nuovo Inizio. Io avevo resistito più a lungo e quasi soltanto con le mie forze. E in società restano tante figure della mia gestione».

Tornasse indietro non si prenderebbe, per esempio, il Brescia?

«La mia entrata nel calcio non fu casuale, non sono pentito. Con la squadra del mio paese, Carpenedolo, passammo dalla Terza Categoria ai playoff per la promozione in C1».

Stupisce che la ricchissima Upi (Unione Parmense degli Industriali) non avesse provato a salvare la società.

«Nel 2012 andai a cena con quasi tutti i 7 di Nuovo Inizio, proponendo di lasciare loro il 51%, gratuitamente, per creare un Parma sempre più forte. Due anni più tardi, dopo la privazione dell'Europa League, volevo regalare la maggioranza a due fra questi. Non sostenevo più il peso economico per la batosta morale. Lo sanno l'Upi e il sindaco Federico Pizzarotti».

I tifosi le rimproverano di non avere vigilato sull'operato di Pietro Leonardi.

«In serie A rimangono 12 giocatori usciti dal nostro settore giovanile o dalla sua politica, a partire da Lapadula».

Ha mai pianto, per il crac del Parma?

«Tante volte, anche adesso, se penso a come sono ricordato dai tifosi. Le lacrime sono liberatorie, di rabbia, non di debolezza».

A chi resta legato?

«Giovinco, Crespo, Cassano. Ranieri, Guidolin e Donadoni. Ebbi la fortuna di cenare due volte a casa di Berlusconi, vari pranzi con De Laurentiis. Con Andrea Agnelli sono coetaneo, sms di complimenti. Con Galliani i rapporti erano buoni, quegli 8 anni di serie A mi avevano portato anche in consiglio di Lega e della fondazione Coni. Ogni reincontro è affettuoso».

Ultima domanda secca: è lei il finanziatore occulto del Brescia?

«Fantasie. Ero amico da prima di Massimo Cellino, c'era stima anche nei confronti del padre Ercole. Sono una delle più grandi famiglie del calcio italiano».

Moratti vuol dare lezioni ad Agnelli, ma lui è orgoglioso della prescrizione dell'Inter? Nicolò Vallone su ilbianconero.com il 28/07/20. "Questo Ufficio ritiene che le condotte fossero certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società Internazionale FC, mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale". L'ufficio in questione è quello del procuratore federale Stefano Palazzi, mentre la condotta citata va ricercata nelle celeberrime intercettazioni telefoniche riguardanti Giacinto Facchetti, che da presidente dell'Inter nel biennio 2004-2006 intrattenne "una rete consolidata di rapporti, di natura non regolamentare, diretti ad alterare i principi di terzietà, imparzialità e indipendenza del settore arbitrale".

NUMERI E MEMORIA - I virgolettati sono quelli della sentenza della Giustizia Sportiva emessa il 4 luglio 2011, che dimostrava come negli anni di Calciopoli poteva anche essere in atto un sistema poco limpido, ma che l'Inter ne faceva parte tanto quanto gli altri club coinvolti e condannati. La Juventus fu retrocessa in Serie B, con conseguente smantellamento di buona parte della rosa, e le vennero revocati due scudetti vinti sul campo. Gli stessi che oggi vengono conteggiati dal club bianconero e compresi in quel numero 38 che giganteggia all'ingresso dell'Allianz Stadium. Una questione sulla quale Massimo Moratti, patron nerazzurro all'epoca dei fatti, oggi ha emesso la sua, di sentenza: "Mi sa che dovevano scrivere 36, alle volte bisogna avere un po’ più di memoria. Non lo dico per polemica, anche perché sono amico di Andrea Agnelli, ma io di quel periodo storico non andrei tanto orgoglioso", ha detto a Radio Kiss Kiss.

GUARDARE IN CASA PROPRIA - Verrebbe da chiedersi se invece Moratti vada orgoglioso di quel periodo storico. Di come la sua Inter, dopo anni che non riusciva a superare la Juventus neppure quando tutto sembrava pronto (vedi 5 maggio 2002), sia riuscita a dominare per un quinquennio il calcio italiano grazie a Calciopoli. Una Calciopoli che, oltre a toglierle di mezzo la concorrenza, ha assegnato all'Inter uno scudetto a tavolino permettendole di recitare la parte degli "onesti del calcio italiano". Una Calciopoli che poi si è dovuta ricredere, dimostrando ormai troppo tardi che "Moratti, in considerazione dei temi trattati con il designatore e della frequenza dei contatti intercorsi, appare in violazione dell'art. 1 del Codice di Giustizia Sportiva" e che "le condotte in parola siano tali da integrare la violazione, oltre che dei principi di cui all'art. 1, comma 1, CGS, anche dell'oggetto protetto dalla norma di cui all'articolo 6". Articoli 1 e 6, gli stessi per cui fu condannata la Juventus nel 2006. E per i quali invece l'Inter è stata prescritta nel 2011. Ha ragione Moratti: a volte bisogna avere un po' più di memoria...

Buffon su Calciopoli: “Ho vinto 10 scudetti, 2 sono stati scippati”. Notizie.it il 28/07/2020. Il portiere della Juventus Gianluigi Buffon torna a parlare di calciopoli e dei 2 scudetti "scippati" in passato a causa del calcioscomesse. In un’intervista, il portiere della Juventus Gianluigi Buffon è tornato a parlare della vicenda Calciopoli: “Avevo un obbiettivo: arrivare ai 10 scudetti, visto che due me li hanno scippati”. Il 42enne bianconero si ritiene soddisfatto, ma punta ancora a fare la differenza in futuro con la maglia della Vecchia Signora. All’indomani della vittoria dei bianconeri, intervistato dal Corriere dello Sport, il portiere della Juventus Gianluigi Buffon ha rilasciato delle dichiarazioni da molti giudicate discutibili riguardo a Calciopoli: “Ho vinto 10 scudetti, visto che due me li hanno scippati“. “Sono contento, alla fine, per me era importante chiudere dei cassetti, altrimenti qualcosa sarebbe rimasto incompiuto. Ci sono riuscito”, prosegue l’ex PSG. Un Buffon che si ritiene soddisfatto, ma non ancora giunto a fine carriera: “Anche il record di presenze mi fa piacere. Ma non è stato un anno facile. Io mi sono sempre adattato, di natura sono altruista, però dovevo fare i conti con ciò che ho rappresentato e che penso ancora di rappresentare“.

Passato da dimenticare. In un’intervista a cuore aperto rilasciata nel febbraio 2018 al Maurizio Costanzo Show, il 42enne portiere bianconero aveva parlato del suo coinvolgimento nelle vicende legate a Calciopoli e Calcioscommesse: “Calciopoli? Mi ha fatto male. Non tanto, tantissimo. Perché sono stato gratuitamente infangato, non una volta ma ben due volte e su un aspetto che per me è fondamentale, ossia la lealtà sportiva”. “La cosa che mi ha fatto soffrire di più è il calcioscommesse, senza ombra di dubbio- conclude Buffon-Sono state due vigliaccate mirate a uno sportivo e a un uomo che non se le meritava assolutamente. Non porto rancore nei confronti di nessuno, però se dovessi rivedere certe persone un pochino mi innervosirei”.

E le sue telefonate ai designatori? Calciopoli, la stoccata a Franco Carraro. Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 15 dicembre 2020.

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

 Chiedo venia ai lettori se oggi inizio la mia rubrica con Franco Carraro, l'ex presidente della Figc, improvvisamente tornato su Calciopoli ammettendo che il campionato 2004/05 era regolare, che non erano girati soldi, che la Juventus lo aveva vinto perché era la squadra più forte. Tutto giusto se non avesse poi commesso l'errore di dire che quel titolo era solo il prodotto di un potere, che stride e contrasta con quanto da lui ammesso in precedenza sulla reale forza della squadra bianconera. In sua difesa, confessa di considerare un errore non aver cambiato i designatori Bergamo e Pairetto, cercando ovviamente di far pensare alla gente, in maniera subdola, come proprio i due fossero l'arma di quel potere. Sarebbe stato sicuramente meglio per lui se avesse taciuto questo particolare perché le intercettazioni raccontano una verità diversa dalla sua, cioè che era lui ad esercitare un potere sovrano cercando di orientare persino le retrocessioni, quando ad esempio dice a Bergamo: «Secondo me gli arbitri non ti danno più retta e comunque per domenica non si può fare niente perché la Lazio va a giocare a Milano, ma dalla prossima settimana va aiutata al pari della Fiorentina». Chissà poi perché a Milano non si poteva fare niente, forse c'era il pericolo di danneggiare qualche milanese che competeva per il traguardo finale? Perché era già nota la sua intromissione anche in merito alla conquista del titolo, quando ad esempio, nel novembre del 2004, in occasione di Inter-Juve, chiamò il designatore Bergamo e gli intimò: «Chiama l'arbitro della partita, Rodomonti, e digli di non favorire la Juve». Di contro, e purtroppo per lui, non risultano invece intercettazioni da parte di quell'ipotetico potere inteso da Carraro alla ricerca di aiuti da parte dei designatori per vincere le partite. Tacere per Carraro sarebbe stata un'occasione d'oro ma l'ex presidente federale evidentemente non l'ha saputa cogliere.

Juventus, i 38 scudetti e gli "interessi" di Franco Carraro. Luciano Moggi su Libero Quotidiano l'1 agosto 2020.

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

È passato tanto tempo dal giorno in cui Carraro fu eletto presidente della Figc. Sia io che Giraudo avevamo deciso di appoggiare la sua candidatura e di questo ne parlammo con il dr. Umberto Agnelli, il quale commentò: «Ma siete proprio sicuri di quello che fate? Quello (Carraro) porta avanti soltanto le cose che interessano a lui!». E non aveva torto il Dottore, dopo quello che è successo nel 2006 (Calciopoli), visti i suoi comportamenti aventi per obiettivo la "salute"delle sole squadre che a lui interessavano. Cercava di "guidare" le retrocessioni. In un'intercettazione si incavola infatti con il designatore dicendogli: «Ma allora a te gli arbitri non danno più retta. Questa settimana la Lazio gioca a Milano e non si può far niente, ma da domenica prossima va aiutata perchè non può retrocedere e non può retrocedere neppure la Fiorentina». Sarebbe interessante riflettere sulla frase: «Domenica la Lazio va a giocare a Milano e non si può far niente», per capire bene le sue intenzioni. Perchè a Milano non si poteva aiutare le squadre in odore di retrocessione e si poteva invece farlo subito dopo con altre vittime meno importanti? Carraro cercava di guidare le squadre in lotta per il titolo. Il 26 novembre del 2004, in occasione del sorteggio per Inter-Juventus, telefonò al designatore per sapere chi fosse l'arbitro sorteggiato (Rodomonti). Ordinò al designatore di chiamarlo per dirgli di non favorire la Juve, ma di prestare invece attenzione a chi stava dietro (Inter). Cosa che il designatore fece due ore prima della partita intimando tra l'altro, a Rodomonti, che la telefonata doveva restare tra loro due altrimenti ne avrebbe pagato le conseguenze. La classifica vedeva in lotta per il titolo Milan e Juve, con l'Inter staccata di 15 punti. Era chiara l'intenzione di Carraro di favorire nell'occasione l'Inter perchè indirettamente il favore sarebbe ricaduto sul Milan (di cui lui era stato presidente) in lizza con la Juve per il tricolore. La partita finisce 2-2 e l'arbitro non espelle il portiere Toldo, ammettendo subito dopo il suo errore, a partita però terminata. Tutto ciò penso sia sufficiente per capire come Carraro entrava a piedi giunti sulle sorti del campionato, guidando le promozioni e le retrocessioni. E ieri ha avuto pure il coraggio - parlando a una radio - di tacciare di arroganza la Juve per aver esposto il trentottesimo scudetto. Eppure adesso riveste incarichi in federazione, senza vergogna. Leggendo quanto scrivo dovrebbe sporgere querela, state però tranquilli che non lo farà perchè farebbe la fine di Gianfelice Facchetti: parlano contro di lui le intercettazioni. D'altra parte uno dei fedeli esecutori di Calciopoli era stato Luca Palamara (che se ne era anche vantato in tv) su cui Cossiga ebbe espressioni da querela che mai ci fù, e adesso si capisce il perchè. Questo magistrato, sconosciuto al tempo, aveva capito che il calcio gli avrebbe reso notorietà e, in ragione di ciò, non si trattenne tentando di massacrare persone innocenti. Tentativo per altro fallito: basta guardare l'esito del processo GEA. Altro esecutore era il maggiore dei carabinieri, Attilio Auricchio, che in passato era già stato sanzionato dalla "Commissione di secondo grado per i provvedimenti disciplinari a carico di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria", per aver modificato l'essenza di intercettazioni (sentenza in Roma 27.06.2001). In Calciopoli addirittura aveva tagliato i pezzi delle intercettazioni, basta guardare quella che riguarda la telefonata intercorsa tra il sottoscritto e Diego della Valle, allora patron della Fiorentina. Bene, con questi signori l'Italia va avanti, ma non ce n'è di che vantarsene.

Juventus, 115 anni fa il primo scudetto. La Signora non era ancora degli Agnelli. Il simbolo era solo una targhetta. Domenico Latagliata, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. Centoquindici anni fa oggi, il 9 aprile 1905, la Juventus festeggiava il suo primo scudetto. Che in realtà all'epoca non si chiamava ancora così: per i vincitori del campionato in palio c'era infatti la targhetta, simbolo del successo. Sei squadre al via, tutte del nord: erano i tempi dei giocatori con i baffoni a manubrio, delle divise simili ma non uguali una all'altra e degli stranieri che abbondavano, anche se la legge Bosman era ancora ben al di là dal venire. E la Juventus, non ancora di proprietà della famiglia Agnelli (Edoardo divenne presidente nel 1923), giocava al motovelodromo Umberto I di corso Re Umberto. Il suo presidente era Alfredo Dick, imprenditore svizzero a Torino per lavoro, essendo proprietario di un'industria tessile. Un tipo autoritario, raccontano le cronache. Che si scontrò in fretta con il resto dei soci che pochi anni prima nel 1897 - avevano fatto nascere la Juventus: Dick venne messo in minoranza e al suo posto, nel 1906, venne eletto presidente Carlo Vittorio Varetti. Dick ovviamente non la prese bene, lasciò la società giurando vendetta e diede così vita all'FC Torino. Comunque sia, il 1905 fu l'anno della prima volta. I giocatori più bravi lavoravano nell'industria tessile di Dick: in squadra c'erano inglesi, scozzesi e svizzeri. In definitiva, gli undici juventini che vinsero il campionato per la prima volta furono Domenico Durante (portiere eccentrico e pittore: espose anche alla Biennale di Venezia), Gioacchino Armano e Oreste Mazzia (studenti al Politecnico), lo svizzero Paul Arnold Walty, il capitano Giovanni Goccione e lo scozzese Jack Diment (tutti e tre impiegati), Alberto Barberis (studente in giurisprudenza), Carlo Vittorio Varetti (studente in ingegneria) e Luigi Forlano (geometra: attaccante possente), l'inglese James Squair (impiegato) e Domenico Donna, prima studente e poi laureato in giurisprudenza che dispensava assist partendo da sinistra. Altri tempi, certo che sì. Con la Prima e la Seconda categoria. E una formula di campionato tutta nuova: sei squadre partecipanti, con una prima fase eliminatoria regionale e una fase finale quella che avrebbe assegnato la coppa strutturata in un mini girone con partite di andata e ritorno. A questo girone finale approdarono Genoa, Unione Sportiva Milanese e Juventus. I grifoni avevano vinto i precedenti tre campionati, ma la Juventus aveva giocato perdendole le ultime due finali. Quella del 1905 fu finalmente la volta buona: i bianconeri vinsero le due partite contro i milanesi e pareggiarono le sfide contro il Genoa. A una gara dal termine i bianconeri avevano 6 punti, il Genoa 4: mancava l'incontro che i genoani avrebbero dovuto giocare contro l'U.S. Milanese. Sulla carta, esito scontato in favore dei campioni in carica e successivo spareggio con la Juve. Invece, il match del 9 aprile terminò 2-2. Senza giocare, i bianconeri poterono così festeggiare il primo di una lunga serie di successi. L'obiettivo, come sempre, è continuare a primeggiare: «Siamo in una posizione di forza nel panorama del calcio europeo», ha scritto ieri John Elkann agli azionisti Exor.

"Agnelli era già grande. Fui il suo primo tecnico ma non mi scelse lui". Andrea Agnelli festeggia 10 anni alla guida della Juve. L'allenatore Luigi Delneri: "I tifosi volevano un CR7 anche in panchina". Domenico Latagliata, Martedì 19/05/2020 su Il Giornale. Dieci anni fa oggi, il 19 maggio 2010, Andrea Agnelli diventava presidente della Juventus: Luigi Delneri, reduce dal quarto posto in campionato e dalla qualificazione in Champions con la Sampdoria, fu il suo primo allenatore.

Delneri, il suo matrimonio con la Signora durò una sola stagione: un settimo posto e addio.

«Ci comportammo bene fino a Natale, poi infortuni e assenze ci penalizzarono. Con un pizzico di fortuna e di salute in più, avremmo potuto lottare per il quarto-sesto posto».

Lei fu portato a Torino da Marotta, anche lui ex Samp: ebbe mai la sensazione di non essere stato scelto da Agnelli?

«Senza polemica, è la verità: fui effettivamente scelto da Marotta e Paratici. Avevamo lavorato benissimo a Genova e la Juve dell'epoca poteva permettersi il sottoscritto, comunque appena qualificatosi per la Champions. Per il palato dei tifosi e per le loro abitudini, ci sarebbe stato forse bisogno di un Ronaldo anche in panchina. Va anche detto che a Torino non hanno voluto bene nemmeno ad Ancelotti, quindi sono in buona compagnia. Non ero in ogni caso l'ultimo degli ultimi: in carriera ho fatto bene quasi dappertutto».

Come andò quindi a Torino?

«Arrivammo quarti alla pausa natalizia, a cinque punti dal Milan che avrebbe vinto il campionato e che noi avevamo già battuto a San Siro. Poi, il grave infortunio di Quagliarella complicò tutto: perdemmo punti soprattutto contro le piccole e non ci qualificammo nemmeno per l'Europa League».

Cosa le aveva chiesto la società?

«Di gettare le basi per il futuro visto che, considerata l'età dei vari Trezeguet, Camoranesi e Del Piero, eravamo in pieno ricambio generazionale. La squadra stava cambiando pelle: tanto per dire, Bonucci era arrivato in estate, Barzagli in autunno».

Dopo di lei, Conte.

«Grande scelta. La storia ha dato ragione ad Agnelli: la Juve è tornata subito a essere la regina del campionato e non si è più fermata. Le manca ancora la solita chicca della Champions, ma la raggiungerà presto: non le manca nulla».

Un giudizio su Andrea Agnelli?

«Appassionato, competente. Capace di imparare, anche: ha dato continuità, costruendo una corazzata passo dopo passo. Quando c'ero io, non si potevano mica prendere certi calibri».

Ai suoi tempi la maglia numero 7 la indossava Salihamidzic: adesso la stessa è sulle spalle di Ronaldo.

«Un segno dei tempi, appunto».

Rimpianti per non avere potuto proseguire il lavoro?

«Nessuno. È andata così e basta. Sarei rimasto volentieri, ma essere stato alla Juve resta un vanto: quando alleni, quella panchina la sogni a occhi aperti».

Cosa mancava alla sua Juve per essere alla pari con le altre big?

«Qualità in mezzo al campo: Pirlo e Vidal io non li ho mai avuti. E una rosa più profonda».

In compenso, c'era Felipe Melo: cosa pensa della sua polemica con Chiellini?

«Scaramucce da vivere come tali. Melo era un solista dal carattere particolare, rude e istintivo: Chiellini lo juventino per antonomasia. Una certa incompatibilità di carattere era più che normale».

Lei mise in discussione Buffon.

«Non scherziamo. La verità è che Gigi era reduce da un infortunio serio e Storari stava giocando benissimo: non ho mai regalato niente a nessuno, tutto qui. E mi fa molto piacere che Buffon sia ancora al top: se uno non ne conoscesse l'età e non sapesse di chi si tratta, prenderebbe nota di come ha parato quest'anno e investirebbe su di lui. Resta un esempio per i ragazzi di oggi: è la passione che muove tutto, non i soldi».

Delneri ha appeso la tuta al chiodo?

«No. Seguo tutto e spero di poter fare ancora qualcosa di buono: equilibrio e fiducia non mancano».

Da derbyderbyderby.it il 23 febbraio 2020. Il giornalista sportivo tedesco conferma: Hofler era in bagno…Dov’era Nicolas Höfler al momento del secondo gol del Fortuna Düsseldorf? Il Friburgo incassava il gol del 2-0 e lui non era assolutamente in campo e non solo metaforicamente, ma fisicamente: il 29enne non si trovava da nessuna parte sul prato dello Stadio della Foresta Nera. Per una ragione molto semplice: Höfler, evidentemente in preda ai bisogni fisiologici del caso, era andato alla toilette. Di conseguenza, il centrocampista difensivo era assente nella protezione della sua porta dopo il calcio d’angolo e Erik Thommy del Düsseldorf è stato in grado di correre verso la porta del Friburgo senza preoccupazioni. L’ala ha segnato la rete della sicurezza a favore del Fortuna e Höfler avrebbe dovuto essere in campo, invece molto probabilmente era ancora sul water…

Da repubblica.it il 27 marzo 2020. Dopo quasi tre anni si è svegliato dal coma Abdelhak "Appie" Nouri, il giocatore dell'Ajax di origini marocchine, colpito da ictus l'8 luglio del 2017. Nouri si sentì male durante una partita amichevole contro il Werder Brema. Il giovane, oggi 22enne, era uno dei più promettenti giocatori dell'Ajax, e quando ebbe il malore era stato appena eletto miglior giocatore della stagione nella seconda divisione olandese. Già a un anno dal ricovero Nouri ha dato segnali di miglioramento, anche se ha subito danni cerebrali, ma adesso a 2 anni e 8 mesi da quel tragico giorno - come ha detto il fratello, Abderrahim nel programma tv 'De Wereld Draait Door' - "Appie ha lasciato l'ospedale, non è più in coma, è a casa, dorme, mangia, aggrotta le ciglia, rutta, ma è molto dipendente e non si alza dal letto. È consapevole di dove si trova ed è importare per lui stare in famiglia. È possibile comunicare con lui, guardiamo anche le partite di calcio e reagisce".

Da emiliagol.it il 7 marzo 2020. Ne avevamo parlato neanche un mese fa di questo arbitro perchè si era reso protagonista di un gesto, quello della testata ad un giocatore, che gli era costato un daspo di un anno. Il ragazzo di 31 anni, poi aveva avuto anche altri problemi (Stalking alla fidanzata) e messo ai domiciliari, si era anche tolto il braccialetto elettronico. Tutte cose che hanno convinto il magistrato ad inasprire la pena con la reclusione in carcere. I Carabinieri quindi, son andati a prenderlo a casa il giorno del suo compleanno, e lui dopo essersi barricato in casa e mentre i Carabinieri chiamavano un fabbro, ha deciso di saltare dalla finestra (nei film, uno controlla sempre il retro), di attraversare una strada e di raggiungere la vicina ferrovia dove è finito sotto ad un treno che passava in quel momento. Leggendo le cronache, sembra proprio un suicidio (il macchinista lo ha visto e ha emesso il fischio di avviso). Le parole rivolte ai Carabinieri del padre sono struggenti: “ ve l'avevo detto che non stava bene e che ve lo avrei portato in caserma”. Da questa breve frase del padre dell'ex arbitro, si spiega forse anche il gesto della testata e comunque, personalmente sono stato molto colpito da quello che è successo. Non si può morire a trent'anni in questo modo! Riposa in pace, Arbitro Antonio.

Da gazzetta.it il 7 marzo 2020. È Antonio Martiniello, 31enne di Potenza Picena (Macerata), l’arbitro di calcio sottoposto a Daspo di un anno per l’accusa di aver colpito con una testata un calciatore dopo una partita di Seconda categoria (l’aggressione al portiere, Matteo Ciccioli, era avvenuta al termine della partita tra il Borgo Mogliano e il Montottone), l’uomo investito da un treno e deceduto nel pomeriggio vicino alla stazione del suo paese. La dinamica è al vaglio delle forze dell’ordine che stanno ricostruendo la vicenda, non si esclude che la tragedia possa essere stata causata da un gesto volontario. L’uomo era agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico per stalking ai danni una ragazza. Oggi, riferisce il suo legale, Gabriele Galeazzi, i carabinieri erano andati ad arrestarlo, probabilmente per la violazione dei domiciliari: ieri sera era uscito di casa e poi rientrato dopo alcuni minuti. All’arrivo dei militari, si è chiuso in casa: erano stati allertati vigili del fuoco e soccorsi. Dopo diverse telefonate, il 31enne ha risposto al legale, interrompendo però subito la comunicazione. Poco dopo, portando con sé cellulare, carta di credito e chiavi di casa, è uscito da un balcone, e si è diretto verso la ferrovia dove è stato travolto dal treno in transito.

 "Il pallone rovinato da troppi raccomandati. Mi hanno fatto fuori". L'eroe del Mundial '82 ed ex Ct dell'Under 21: "Ragazzi con meno talento spinti con i soldi". Nicolò Schira, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. Un Campione del Mondo dimenticato. Anzi emarginato da quello che per 40 anni è stato il suo mondo. Cacciato per non essere sceso a compromessi. È l'amara storia di Claudio Gentile, uno degli eroi del Mundial di Spagna '82. L'uomo che annullò Diego Armando Maradona e Zico. Dal 2006 è sparito dai radar calcistici, nonostante da ct dell'Under 21 avesse vinto l'Europeo e conquistato lo storico bronzo olimpico ad Atene. Chi meglio dell'ex difensore della Juve (6 scudetti vinti) per guardare con disincanto al mondo del pallone: «Sono critico con il sistema, non mi meravigliano le attuali guerre interne di potere e interessi. I problemi del calcio partono dall'aver tolto dalla scena il talento. Da anni infatti non vanno avanti i più bravi, ma i raccomandati...».

In che senso?

«Parte tutto dai settori giovanili. Oggi un ragazzo, con il papà che c'ha i soldi, fa fuori la concorrenza e ha più possibilità di fare carriera. Molti genitori pagano i club per portare avanti le carriere dei propri figli, che così passano davanti a un coetaneo con più qualità».

A discapito del talento.

«Ai miei tempi se eri bravo andavi avanti, adesso invece comandano altre dinamiche. Ho visto molti ragazzi di talento nelle giovanili, potenziali campioni, mollare perché sorpassati da raccomandati. Quei ragazzi hanno detto: Non gioco anche se sono il più forte, allora cosa sto a fare qui e hanno mandato tutti a fanc.... E così i talenti si disperdono».

C'è troppa tattica a livello giovanile?

«Proprio così. Nelle scuole calcio molti allenatori invece di far crescere i ragazzini, insegnando loro a marcare, li imbottiscono di nozioni tattiche. A 11-13 anni dovrebbero pensare a divertirsi».

Come faceva lei?

«Noi giocavamo per passione. Si imparava all'oratorio dove facevamo partite per 6-7 ore. Miglioravamo così, giocando. C'era amore verso il calcio, mentre adesso sono i genitori che spesso spingono i figli, sperando siano i nuovi Ronaldo per fare un mucchio di soldi».

Lei è stato incoraggiato a giocare?

«Mai. I miei genitori da questo punto di vista non mi hanno aiutato, dovevo arrangiarmi da solo. Abitavo a Brunate e andavo tutti i giorni fino a Como a piedi. Era la passione che mi spingeva, non come adesso che vanno al campo tutti griffati con scarpe da 250 euro».

La vostra fame l'hanno ereditata i giovani stranieri.

«I nostri giovani aspettano che l'occasione gli cada addosso, mentre chi viene dall'estero ha la voglia di emergere che avevamo noi. Vivono il calcio come un riscatto sociale e prendono spazio nelle nostre giovanili».

E le nazionali soffrono.

«La materia prima non è granché. Sono tanti anni che non vinciamo nulla. E pensare che negli anni Novanta e inizio Duemila le nostre Under 21 dominavano...».

L'ultimo trofeo porta la sua firma.

«Nel 2004 vincemmo l'Europeo e conquistammo il bronzo ad Atene, ma non voglio farne una questione personale. Dico solo che dopo di me c'è stata una svolta negativa, perché si è smesso di chiamare solo i più meritevoli e hanno iniziato a trovare spazio anche i raccomandati da quel dirigente o quel procuratore».

Quando la rivedremo in panchina?

«Io ormai sono tagliato fuori. Dicendo la verità, mi hanno messo da parte. Solo dall'estero c'è stata qualche chiamata. In Italia niente, ma va bene così. Piuttosto che fare il burattino, sto a casa. Vent'anni fa Mazzone disse che in panchina ci sono 2 tipi di tecnici: gli allenatori e gli accompagnatori. Io sono un allenatore e non mi faccio imporre le scelte da nessuno. Il calcio italiano è gattopardesco: cambiano presidenti e dirigenti, ma rimane tutto uguale. Ogni anno vedo personaggi che hanno fallito ovunque, ma puntualmente trovano sempre squadra. Io dopo un Europeo vinto e il bronzo di Atene sono stato cacciato via».

Si è pentito di aver sfidato il sistema?

«In Italia se non abbassi la testa e fai quello che ti dicono, non ti fanno lavorare. Io però, in campo e nella vita, non sono mai stato un burattino e mai lo sarò».

Dagospia il 23 marzo 2020. Da Le Lunatiche. Claudio Gentile è intervenuto nel corso della trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti

Sul Covid-19. In questi giorni c’è un po’ di tristezza, sono uno che esce spesso in bicicletta per 2/3 ore e quindi essere in casa senza poter fare niente fa venire un po’ di rabbia. Però dobbiamo salvaguardare un po’ tutti e quindi diamo restare a casa per risolvere il problema in breve tempo.

Sui mondiali 1982. Il segno che abbiamo lasciato nella gente lo vediamo quotidianamente, qualunque persona che incontri si ricorda quel mondiale. Sappiamo che abbiamo fatto una grande impresa e questo i tifosi ce lo riconoscono con grande affetto, anche perché ci dicono che hanno vissuto grandi emozioni e quindi a noi fa piacere. Purtroppo all’inizio la stampa non ci ha dato nessuna mano, eravamo molto criticati, tentavano in tutti i modi di non darci tranquillità perché si leggevano i giornali tutti i giorni e venivano fuori sempre polemiche e notizie non vere, insomma hanno cercato in tutti i modi di impedirci di avere quella tranquillità che serve ad un atleta quando deve affrontare una gara. Però noi abbiamo fatto un bel muro perché ci siamo molto uniti, abbiamo fatto il silenzio stampa che comunque non era bello ma che abbiamo dovuto affrontare per forza, per evitare ulteriori polemiche. Quindi abbiamo deciso di trincerarci nel nostro spogliatoio, parlava solo Dino Zoff che era il capitano e quindi abbiamo superato ottimamente anche quel momento.

Su Sandro Pertini. Poi arrivò il Presidente Pertini, è stato veramente un grande personaggio che quando abbiamo vinto ci ha fatto un grande piacere averlo con noi, abbiamo festeggiato con lui in albergo, poi siamo tornati con il suo aereo, siamo andati a Roma. Pertini è venuto con l’intento che dovevamo fare una grande impresa, lui ce l’aveva detto che voleva tornare con il trofeo. Quindi per noi era una grande responsabilità, non è facile vincere un mondiale. È stato un grande motivatore per noi, una persona molto importante nel gruppo perché sapeva che avremmo dato una grande gioia all’Italia. è stato molto emozionante.

Sulle marcature di Zico e Maradona. La storia ha già raccontato di Maradona e Zico, due grandi giocatori, quindi avere quel compito per me è stata una grande responsabilità. C’era l’Argentina che era campione del mondo in carica, Maradona che doveva essere il giocatore di talento, quindi avevo una responsabilità non da poco perché marcare quei giocatori lì non è molto facile. Ho giocato duro ma ci tengo a sottolineare che io non sono mai stato espulso per gioco violento, Maradona invece si. Bisognerebbe fare una classifica. In tutta la mia carriera sono stato espulso una volta per doppia ammonizione, oltretutto era una semifinale di Champions contro il Bruges e c’era un campo pesantissimo, siamo andati ai tempi supplementari, io ero stanco e ho preso la palla con la mano e l’arbitro mi ha ammonito e poi buttato fuori. Il fair play che c’era un tempo è finito nel momento in cui molti giocatori, quando si guadagna così tanto, poi non si hanno le motivazioni per segnare un’epoca e fare dei risultati sorprendenti. Quindi è un po’ venuta a mancare quella determinazione e quella voglia che si aveva quando si guadagnava ma solo se vincevi. Invece oggi già guadagnano ancora prima di vincere. Quindi è cambiato in questo senso, è un calcio diverso e bisogna accettarlo per quello che è. Maradona nell’86 ha vinto il mondiale da solo. Certi campioni, se non hai l’alternativo per contenerli e contrastarli, è logico che perdi. Hai molte chance di non riuscire a vincere la partita, infatti lui ha vinto quel mondiale perché non c’era più quella marcatura che si faceva ai giocatori di un certo livello. L’attaccante più forte che ho affrontato è stato Maradona, perché era uno dei giocatori più considerati. Lui è ancora ai vertici del calcio mondiale. Messi può essere confrontato con lui, ma Maradona per me è ancora superiore.

Su Antonio Cassano. Quando vedi che un elemento non si ingrana, non fa gruppo, è logico che è meglio uno meno bravo ma che si basa su alcune cose fondamentali come fare gruppo, aiutare i compagni. È fondamentale nel contesto di una squadra.

Su Enzo Bearzot e Giovanni Trapattoni. Trapattoni quando è arrivato alla Juventus era un allenatore con molte aspettative, perché era stato portato via dal Milan per creare una squadra competitiva, con dei valori. Lui è stato capace di realizzare questo e quindi è stato un allenatore che nella storia ha segnato un periodo bellissimo con la Juve. Era uno molto divertente, sdrammatizzava quando c’erano delle situazioni negative, però quando era in panchina si faceva sentire soprattutto quando certe cose non andavano bene. Era un allenatore che sapeva motivare i giocatori. Bearzot è stato uno di quegli allenatori vecchio stile che ha saputo creare il gruppo dell’82, soprattutto quando venivamo criticati dalla stampa pur facendo risultati. Ce l’avevano con lui perché non aveva convocato certi giocatori al posto di altri. Non veniva valutato quello che facevamo in campo, era già negativa qualsiasi cosa. Bearzot lì è stato molto attento e insieme a lui abbiamo deciso di fare il silenzio stampa ed è stato il modo per toglierci il peso delle continue critiche della stampa.

Sulla serie A 2020. Penso che alla fine si faranno dei playoff, le prime 6 o 8 squadre faranno un finale giocando dalla domenica al mercoledì e a chi vince verrà assegnato lo scudetto. Non è sicuramente un’annata che verrà ricordata. È una cosa che deve essere comunque portata a termine. Il problema grosso è quello della Champions, quello dell’Europa League. Quando si giocherà? Non è un bel compito per chi deve decidere scegliere la soluzione migliore. Verranno prese delle decisioni da una settimana all’altra per dare a tutti la possibilità di giocarsi l’annata.

Roberto De Ponti per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2020. Un' auto della Guardia di Finanza. E un taxi giallo. Quando il 23 marzo 1980, tra una punizione di Zaccarelli al Milan e un gol di Fanna all' Inter irruppe senza preavviso Giampiero Galeazzi, interrompendo Paolo Valenti durante 90° minuto, il calcio italiano perse la sua innocenza. Letteralmente. L' immagine di quelle due auto ferme, in attesa, sulla pista di atletica dello stadio Olimpico al termine di Roma-Perugia (finita 4-0, per gli almanacchi), divenne l' icona del primo grande scandalo del nostro pallone. Il cellulare della Finanza era lì per Luciano Zecchini, Mauro Della Martira e Gianfranco Casarsa, calciatori del Perugia, che vennero scortati fuori dagli spogliatoi in manette e condotti in caserma per essere interrogati. In stato d' arresto. «Avevo appena finito di arbitrare una delle partite più facili che mi fosse capitata quando entrò nella mia stanza Dino Viola, il presidente della Roma, bianco come un lenzuolo» ricorda Paolo Casarin, il decano dei fischietti all' epoca. «Che succede, gli chiesi, avete appena vinto. Mi rispose: "È la fine del calcio, è arrivata la Finanza negli spogliatoi". Prima di andare in aeroporto dovetti chiamare mia moglie e tranquillizzarla: non sono coinvolto, le spiegai. Aveva visto le immagini in tv ed era molto preoccupata». Zecchini, Della Martira e Casarsa finirono dunque in manette. E in altri stadi d' Italia la Guardia di Finanza faceva lo stesso con altri giocatori: a Pescara vennero arrestati Bruno Giordano, Lionello Manfredonia, Pino Wilson e Massimo Cacciatori, calciatori della Lazio; a Milano, al termine di Milan-Torino, stessa sorte toccò ai rossoneri Ricky Albertosi e Giorgio Morini. E ancora Guido Magherini (Palermo), Claudio Merlo (Lecce), Stefano Pellegrini (Avellino), Sergio Girardi (Genoa). Poi, a cascata, vennero coinvolti altri calciatori, tra cui Paolo Rossi, Beppe Savoldi, Dossena, Agostinelli e Damiani, e dirigenti vari, in primo luogo il presidente del Milan Felice Colombo. Uno scandalo che portò alle dimissioni da presidente della Federcalcio di Artemio Franchi, all'epoca numero 1 anche della Uefa. I tifosi si risvegliarono scoprendo l' esistenza dei termini totonero e calcioscommesse. E di un' inchiesta nata dopo le rivelazioni di un fruttivendolo, Massimo Cruciani, e di un ristoratore, Alvaro Trinca, che messi in mezzo da Magherini avevano cominciato a perdere centinaia di milioni di lire a causa di soffiate sbagliate su risultati combinati. Inseguito dagli allibratori, Cruciani decise di denunciare tutto alla Finanza, salvo poi ritrattare. Ma l'inchiesta era partita, e alle cinque della sera di domenica 23 marzo 1980 il calcio italiano conobbe le manette. Per paradosso, il procedimento giudiziario si concluse con un' assoluzione generale (a parte una pena pecuniaria per Cruciani) «perché il fatto non sussiste»: la frode sportiva ancora non costitutiva reato. La giustizia sportiva invece non andò troppo per il sottile: Milan e Lazio retrocessi in B, 5 punti di penalizzazione per Avellino, Bologna e Perugia. Più una serie di squalifiche durissime: giusto per citarne qualcuna, sei anni a Pellegrini, cinque a Cacciatori e Della Martira, quattro per Albertosi, tre e mezzo per Petrini e Manfredonia. Ne presero tre e mezzo anche Savoldi e Giordano, che oggi affrontano la sentenza in modo diverso. Savoldi: «Avrei troppe cose da dire, sono amareggiato ancora oggi. Mi è mancato il calcio, la mia carriera è stata interrotta per una cosa che non ho cercato io». Giordano: «Ancora oggi, dopo 40 anni, non ho capito perché sono stato condannato». Venne squalificato per due anni anche Paolo Rossi, quello che al rientro sarebbe diventato l' eroe del Mundial di Spagna. «Ho vissuto come se tutto accadesse a un altro. Ero convinto di essere innocente, non avrei mai immaginato di avere nemmeno un giorno di squalifica», raccontò. E invece. Solo grazie a Enzo Bearzot, che lo volle in azzurro contro tutti, Paolo Rossi divenne Paolorossi, Pablito per tutti. La redenzione, 27 mesi e 19 giorni dopo la domenica più nera del calcio italiano.

Da ilfattoquotidiano.it il 7 marzo 2020. Non finiscono i guai con la giustizia in Paraguay per Ronaldinho. Il fuoriclasse ex Barcellona e Milan è stato arrestato nuovamente ad Asuncion, ad appena 48 ore dal primo fermo, con l’accusa di essere entrato nel Paese sudamericano con un passaporto falso. Non solo. Il Pallone d’Oro è anche accusato – secondo il giornale Abc Color – di riciclaggio di denaro, insieme al fratello Roberto De Assis Moreira e all’imprenditrice Dalia Lopez. I due sono arrivati in Paraguay per una serie di eventi promozionali e benefici e stavano preparando il rientro in Brasile. Dopo il primo arresto, i due erano stati rimessi in libertà condizionale. Il procuratore paraguayano Federico Delfino aveva spiegato che i due brasiliani avevano ammesso l’errore e non sarebbero andati a processo non avendo precedenti penali in Paraguay. Il magistrato ha ritenuto che entrambi “sono stati ingannati nella loro buona fede”. Il caso, tuttavia, andrà al tribunale per le garanzie penali e, pertanto, la decisione finale spetterà comunque ad un giudice.

Ronaldinho arrestato in Paraguay: aveva un passaporto falso (il suo glielo avevano ritirato nel 2018). Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Nuovi guai per Ronaldinho, in stato di fermo in Paraguay perché trovato in possesso di un passaporto falso. Mercoledì mattina l’ex stella di Barcellona e Milan è arrivato ad Asuncion in compagnia del fratello (ed ex agente) Roberto de Assis per fare da testimonial a un programma di assistenza sanitaria gratuita per i bambini ma, stando a quanto riporta La Nacion, nella suite del Resort Yacht & Golf Club Paraguayo dove i due alloggiavano sono stati rinvenuti dei documenti d’identità contraffatti, con i nomi di Ronaldinho e di Roberto con la nazionalità paraguayana. Da qui il fermo disposto dalla polizia e l’inevitabile cancellazione di tutti gli eventi a cui il campione brasiliano doveva partecipare durante la permanenza ad Asuncion (avrebbe dovuto presentare il suo libro, «Genius of Life» e prendere parte a una serie di iniziative, perlopiù a scopo benefico). «Ronaldinho ha un passaporto falso e questo è un crimine, per questo è stato disposto il suo arresto. Rispetto la sua popolarità, ma la legge va rispettata, indipendentemente da chi sei», ha detto il ministro degli interni del Paraguay, Euclides Acevedo, alla stazione radio locale AM 1080. Ronaldinho e il fratello sono senza passaporto dal 2018, quando gli è stato ritirato dalle autorità brasiliane per non aver pagato una multa di 2 milioni di euro per reati ambientali commessi nel lago Guaiba, vicino Porto Alegre (avevano costruito un molo e una piattaforma di pesca senza avere il permesso di farlo). Per la verità a settembre dell’anno scorso il Mundo Deportivo aveva rivelato che l’attaccante verdeoro aveva accettato di pagare un’ammenda di 1,3 milioni di euro in cambio della restituzione del documento di viaggio, così da poter anche assolvere ai suoi impegni come nuovo ambasciatore per il turismo brasiliano all’estero, ma quanto successo in Paraguay lascia supporre che il conto non sia stato saldato e quindi il passaporto a Ronaldinho non sia stato mai restituito. «Si tratta certamente di un equivoco che sarà chiarito al più presto», ha precisato l’avvocato dei fratelli de Assis, Sergio Queiroz, a GloboEsporte. 

Marco Beltrami per fanpage.it il 27 febbraio 2020. Novità per tutti i giovani calciatori inglesi. La Football Association, massimo organo calcistico d'oltremanica, ha deciso di vietare i colpi di testa per gli under 12. Una situazione per evitare i potenziali rischi di malattie neurodegenerative. La decisione arriva dopo che determinati studi hanno rivelato che diversi ex calciatori hanno avuto tre volte più probabilità di problemi cerebrali rispetto ad altre persone. I piccoli calciatori non potranno più colpire il pallone di testa né in allenamento e né durante le partite. Il massimo organo calcistico inglese, la Football Association, ha infatti in una nuova direttiva annunciato il divieto di toccare la sfera con la testa per gli Under 12. Una situazione che segue quanto già accaduto in Scozia e in Irlanda, e che nasce dagli studi effettuati sui calciatori. Nei dossier è stato evidenziato che molti giocatori hanno avuto tre volte più probabilità di morire di malattie neurodegenerative in più rispetto ad altre persone. Conseguenza dei tanti colpi di testa in carriera, che hanno prodotto effetti cerebrali. 

Perché sono stati vietati i colpi di testa dei calciatori under 12. Questo divieto non influirà particolarmente sul gioco, perché i colpi di testa sono molto più rari durante le partite. A tal proposito l'Amministratore delegato della FA Mark Bullingham nella nota della FA ha dichiarato: "Questa regola è un'evoluzione delle nostre linee guida attuali, e aiuterà allenatori e insegnanti ad eliminare i colpi di testa dal calcio giovanile. Le nostre ricerche hanno dimostrato che i colpi di testa sono rari nelle partite di calcio giovanili, quindi questo non influirà sul divertimento che i bambini di tutte le età traggono dal gioco del calcio". Soddisfatta la figlia di Jeff Astle, ex nazionale inglese di encefalopatia cronica traumatica nel 2002 morto per le conseguenze anche dei colpi di testa, che ha dichiarato: "È una regola molto sensata per rendere il gioco che tutti amiamo più sicuro per quelli coinvolti". 

Da gazzetta.it il 27 febbraio 2020. Allarme calciatori. Secondo una ricerca svolta in Inghilterra su richiesta della Football Association e del sindacato dei giocatori (quindi decisamente seria), i calciatori professionisti hanno una percentuale di rischio molto superiore alla media di morire di demenza e di altre gravi malattie neurologiche. Come riporta il Daily Express in prima, hanno esattamente probabilità tre volte e mezzo superiori rispetto a persone della stessa fascia d'età. Lo studio, condotto dall'Università di Glasgow per 22 mesi sui casi di 7676 ex calciatori scozzesi, ha anche riscontrato un rischio cinque volte superiore per l'Alzheimer, di quattro volte per malattia neuromotorie come la Sla e di due volte per il Parkinson. La FA ha già fatto sapere che istituirà una task force per cercare di comprendere meglio le cause di questi numeri impressionanti. Il sospetto è che possano dipendere dalle tante volte in cui i calciatori colpiscono il pallone di testa, soprattutto quelli di una volta che erano particolarmente pesanti. Ma questo nesso non è comunque riportato nella ricerca dell'Università di Glasgow. Dell'Inghilterra campione del mondo nel '66 sono tre i giocatori affetti da Alzheimer (Martin Peters, Nobby Stiles e Ray Wilson), a cui si aggiunge il caso di Jeff Astle, scomparso nel 2002 a 60 anni per encefalopatia traumatica cronica. L'attaccante era famoso per i suoi colpi di testa.

Andrea Pettinello per foxsports.it il 27 febbraio 2020. Troppi calciatori rischiano di soffrire di demenza una volta terminata la carriera, gli allenatori lo sanno e non fanno assolutamente nulla per tutelarli. A rivelarlo è Alan Shearer, che in un documentario che andrà in onda sulla BBC non solo si è sottoposto a test medici specifici per stabilire quali e quante fossero le possibilità di soffrire di demenza in futuro, ma ha anche cercato di sensibilizzare coloro che potrebbero presto avere a che fare con problematiche simili. Tra partite e allenamenti, un giocatore può colpire il pallone con la testa tra le 800 e le 1500 volte a settimana: un dato troppo spesso sottovalutato. E fino alla morte di Jeff Astle avvenuta nel 2002 per una rara forma di demenza, gli esperti non avevano mai realmente preso in considerazione il fatto che colpire il pallone con la testa provocasse un danno gravissimo al cervello dei calciatori. Prendiamo come esempio Fabrice Muamba, vivo per miracolo dopo esser collassato in campo nel bel mezzo di una partita per un arresto cardiaco. In seguito a quell'incidente, nel giro di poco più di 6 mesi, su tutti i campi di calcio (non solo quelli di Premier League) era obbligatorio che i paramedici a bordocampo avessero accesso a un defribrillatore. In quel caso ci si è mossi prontamente, risolvendo un problema fino a quel momento ignorato, ma quanto bisognerà aspettare prima che il rischio della demenza venga preso realmente in considerazione? Dobbiamo assicurarci che il gioco del calcio non diventi uno sport in grado di uccidere. Finora non ci si è presi abbastanza cura degli ex calciatori e non lo si sta facendo nemmeno con i giocatori attuali. Servono risposte immediate, ma soprattutto serve maggior sensibilità e responsabilità da parte di chi, queste situazioni, le vive ogni singolo giorno della sua vita. Chiunque pratichi questa attività, e non deve per forza giocare in Premier League, potrebbe in futuro soffrire di questo tipo di problematica. Queste le parole con le quali Alan Shearer ha voluto introdurre il documentario che andrà in onda sulla BBC durante il prossimo weekend. L'obiettivo dell'ex attaccante inglese, nonché miglior marcatore della storia della Premier League, è quello di dar voce anche a quelle poche persone che nel corso di questi ultimi anni hanno cercato di sensibilizzare tutti coloro che ritenevano la demenza un problema marginale in uno sport come il calcio. In allenamento colpivo il pallone di testa tra le 100 e le 150 volte. Ogni giorno. Il che vuol dire una media di 1000/1500 colpi di testa a settimana. Allora non era un problema, ma oggi o un domani potrebbe esserlo. Ho già di mio una pessima memoria e non escludo che il tutto possa aggravarsi con il passare del tempo. A far da ostacolo, però, ci si è messo recentemente Les Ferdinand, anche lui ex attaccante della nazionale inglese e oggi direttore sportivo al QPR, che ha spiegato di non aver intenzione di supportare la teoria di Shearer fino a che non saranno dei medici specializzati a confermare la veridicità delle sue parole. In attesa che il documentario di domenica sveli qualche retroscena, i pareri sull'argomento continuano a essere ancora troppo discordanti.

Che cos’è la zona Cesarini? Il significato e l’origine della celebre espressione. Il significato alle spalle di questa espressione, che perfino il sito dell’Accademia della Crusca riporta tra le espressioni più usate, in realtà è sconosciuto a molti. La Voce di Manduria martedì 25 febbraio 2020. Una delle espressioni più celebri nel mondo del calcio è “zona Cesarini”. Molto utilizzata soprattutto in ambito media, e quindi da giornalisti, cronisti e quant’altro, è entrata ormai nell’immaginario collettivo e saltuariamente viene utilizzata anche dai tifosi stessi. Il significato alle spalle di questa espressione, che perfino il sito dell’Accademia della Crusca riporta tra le espressioni più usate, in realtà è sconosciuto a molti. Dopo essere stato introdotto, nel tempo è riuscito a diventare una sorta di tecnicismo, adoperato comprendendone il significato più superficiale ma senza conoscere la storia che lo circonda. Ecco quindi il significato e l’origine dell’espressione “zona Cesarini”.

Cos’è la zona Cesarini?

La zona Cesarini indica i minuti conclusivi di una partita, quei pochi istanti precedenti la fine del match, in cui può succedere di tutto e in cui si sono decise parecchie partite. Si tratta di un’espressione molto utilizzata in ambito calcistico, ma non è esclusiva di questo scenario: viene infatti adoperata anche per molti altri sport che prevedono una scadenza di tempi regolamentari. Nel basket, ad esempio, include i venti/trenta secondi antecedenti alla sirena di fine partita. Affermare che un giocatore ha segnato il gol vittoria in “zona Cesarini” significa dire che quel giocatore ha segnato poco prima del fischio finale, in un momento clou.

L’origine dell’espressione. La nascita dell’espressione “zona Cesarini” va ricondotta agli anni ‘30, e più in particolare si riferisce al giocatore Renato Cesarini, mezzala della Juventus in forza in quegli anni. Tale Cesarini era particolarmente noto per la sua abilità nel segnare reti (decisive o meno) nei momenti conclusivi di un match, e di frequente anche contro compagini particolarmente forti, come il Grande Torino. Al tempo non erano previste telecronache in tempo reale, ma soltanto resoconti e analisi delle partite precedenti a mezzo stampa, quindi cartaceo. L’origine ufficiale del termine è da collocare in un match tra nazionali: Italia-Ungheria del 13 Dicembre 1931, partita valida per la Coppa Internazionale. In quella partita Renato Cesarini segnò la rete decisiva per la vittoria azzurra, portando la propria compagine sul 3-2. Il giornalista Eugenio Danese, la domenica successiva alla vittoria italiana, tornò a parlare di Cesarini utilizzando l’espressione “caso Cesarini”, riferendosi ad un’altra partita: Ambrosiana-Inter contro Roma, finita per 2-1 grazie ad un gol all’89esimo minuto. Ufficialmente si ha ricordo di questo momento come prima volta assoluta in cui viene utilizzata la celebre espressione. Negli anni successivi, il termine caso è stato sostituito dal termine zona, preso molto probabilmente in prestito dal gioco del bridge, dove “zona” indica il frangente conclusivo di un match.

Altri utilizzi dell’espressione zona Cesarini. Se prima abbiamo accennato circa l’elevato utilizzo dell’espressione nell’ambito sportivo, in realtà va specificato che “zona Cesarini” è adoperato ormai nel linguaggio comune in molteplici altre situazioni. Si parla di zona Cesarini ogniqualvolta un determinato fatto, decisione, parola viene impiegato o adoperato con successo “all’ultimo minuto”: prendere il treno poco prima della sua partenza, completare un esame universitario poco prima dello scadere del tempo, e casi simili. Un eccellente esempio di linguistica corrente che affonda le proprie radici nel mondo dello sport, e più in generale in un momento storico molto particolare per la storia del giornalismo italiano.

Lo scandalo del calcio  a cinque: «Ti faccio quel regalo, è una carina...». Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Terremoto nel calcio a 5. Informazioni riservate scambiate con un weekend insieme a una ragazza. Il presidente della Divisione che fa capo alla Lega Dilettanti, Andrea Montemurro, giovedì 20 febbraio ha annunciato le dimissioni per poi ritirarle. Al centro del caso, una registrazione che riproduce una telefonata compromettente tra Montemurro e il presidente del Latina Calcio a 5, Gianluca La Starza. Il primo rivolge confidenze sull’imminente esclusione di una delle squadre di serie A, il Maritime, da parte della Covisod (la società che valuta le procedure di iscrizione delle squadre dilettantistiche). A tutto questo La Starza risponde: «Io devo ricambiare in quel modo, ti faccio quel regalo. Lei è carina, carina, quando la vedi mi dirai. Poi è una donna pure intelligente. Così almeno ti passi qualche weekend sereno pure da queste parti». La risposta: «Bravo, bravo». Le informazioni sono riservate, anche perché in quel modo il Latina potrebbe anche muoversi più velocemente degli altri club per tesserare i giocatori svincolati dal Maritime, come i brasiliani Thiago Bissoni e Caio Japa che poche settimane più tardi, liberi, firmeranno in effetti per il Latina. Quando la notizia è iniziata a circolare, Montemurro ha cancellato la propria pagina Facebook e ha firmato una lettera di dimissioni a Cosimo Sibilia, numero uno della LND, che ora potrebbe veder cadere l’intero direttivo: esiste concretamente la possibilità infatti che il Consiglio si dimetta in blocco. Così Sibilia avrebbe il dovere di commissariare la Divisione, azzerando tutti i vertici attuali. Il caso, come si può ben comprendere, è scottante. Inoltre, Montemurro è anche Delegato Uefa nel quadriennio 2019-2023 e Consigliere federale in quota Lega Dilettanti. Il presidente del Latina Calcio a 5, si è difeso: «La ragazza di cui parlo al telefono con Montemurro è un burlesque — ha detto all’Ansa —. Purtroppo è stata una c.....a mia per buttare una cosa lì. Andrea mi viene dietro e mi dice: ‘è carina?’, fa una mezza risata. Ma, fra uomini, quante volte si fanno queste c......e al telefono?. Gli ho detto: ‘ti faccio un regalo, mi hai dato prima una notizia: ti faccio incontrare una ragazza a Latina per un weekend. Mi sono sparato una cosa che non ero nemmeno in grado di fare. Sono stato un c.....e, Ma non c’è irregolarità, mi ha dato notizia di una cosa già decisa». La Lega Dilettanti ha «tempestivamente investito ufficialmente la Procura Federale della Figc. Si riserva di agire nelle eventuali sedi a tutela della sua immagine e di quanti, con spirito di sacrificio, contribuiscono alla diffusione del calcio dilettantistico e giovanile in Italia», come si legge sul comunicato.

Dagospia il 20 febbraio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Redazione, nell’articolo pubblicato oggi sul sito dagospia.com “Il sexgate del calcetto…”, nel titolo del post viene riportato “… lo scandalo rischia di travolgere la Lega Nazionale Dilettanti…” sono a precisare che, anche nella previsione di un eventuale nuovo assetto della Divisione Calcio a 5, ciò non influirebbe sulla governabilità della Lega Nazionale Dilettanti dal momento che la divisione, pur facendo parte della LND, gode di una sua autonomia gestionale e di un Consiglio Direttivo eletto dalle Società di futsal che partecipano ai campionati nazionali. Ringraziando per la disponibilità, e restando a mia volta a vostra disposizione, porgo cordiali saluti.

MATTEO PINCI per repubblica.it il 20 febbraio 2020. E' scoppiata Calcettopoli. Un sex-gate fatto di informazioni riservate scambiate con un weekend insieme a una ragazza, ha sollevato un terremoto all'interno della Divisione Calcio a 5: in un pomeriggio di fuoco, il presidente Andrea Montemurro ha annunciato dimissioni per poi ritirarle, mentre tutto intorno a lui franava. Al centro del caso, una registrazione che riproduce una telefonata decisamente compromettente tra Montemurro e il presidente del Latina Calcio a 5 Gianluca La Starza, in cui il primo rivolge confidenze sull'imminente esclusione di una delle squadre di Serie A, il Maritime, da parte della Covisod, la società che valuta le procedure di iscrizione delle squadre dilettantistiche. "Oh, sei l'unico che lo sa", gli confida Montemurro. La Starza risponde grato: "Io devo ricambià in quel modo, te faccio quel regalo". Quale sia il "regalo" lo spiega lui stesso: "E' carina, carina, quando la vedi mi dirai. Poi è una donna pure intelligente. Così almeno ti passi qualche weekend sereno pure da 'ste parti". Insomma, La Starza offre i servizi di una ragazza che l'altro pare apprezzare ("Bravo, bravo"), in cambio dell'informazione. Che gli è utile magari a muoversi per tempo per tesserare i giocatori svincolati dal Maritime, come i brasiliani Thiago Bissoni e Caio Japa che poche settimane più tardi, liberi, firmeranno in effetti per il Latina. Uno tsunami che ieri, appena la notizia ha iniziato a circolare all'interno della Divisione Calcio a 5, ha portato Montemurro a cancellare la propria pagina Facebook e a firmare una lettera di dimissioni diretta al presidente della Lega Nazionale Dilettanti Cosimo Sibilia (di cui la Divisione fa parte). Dopo la caccia alla talpa, è stato il momento del redde rationem. Il n.1 della Lnd però potrebbe veder cadere l'intero direttivo: esiste concretamente la possibilità infatti che il Consiglio i dimetta in blocco. Così Sibilia - che potrebbe sollecitare l'intervento della Procura federale - non si troverebbe un vicario al timone del calcio a 5, ma avrebbe il dovere di commissariare la Divisione, azzerando tutti i vertici attuali. Un terremoto che ha un peso specifico non secondario anche da un punto di vista politico: Montemurro infatti è Delegato Uefa nel quadriennio 2019/23 e Consigliere federale in quota Lega Dilettanti. La stessa Lega che ora si trova a dover gestire un caso che rischia di avvelenarla dall'interno.

Da corrieredellosport.it il 19 febbraio 2020. Dieci gol in sette presenze, Erling Haaland è il protagonista della Champions League prima con il Salisburgo, poi con il Borussia Dortmund. L'attaccante norvegese è il grande acquisto del mercato invernale del club tedesco e anche ieri ha dimostrato tutte le sue qualità con una doppietta al Paris Saint Germain. Sebino Nela ha svelato a Centro Suono Sport il retroscena sul fenomeno del momento, in passato molto vicino alla Roma: "Due anni fa un ex calciatore della Roma propose a Monchi il cartellino di Haaland: costava 4 milioni, la società scartò l’ipotesi e lo prese il Salisburgo".

Da sport.sky.it il 19 febbraio 2020. Per lui parlano i numeri, cifre spaventose per un 19enne che si è già preso il calcio europeo. Non può che essere Erling Haaland il protagonista assoluto della serata di Champions, competizione dove tra Salisburgo e Borussia Dortmund si è ritagliato 10 gol in 7 gare disputate. Nessuno ci era mai riuscito in precedenza, figuratevi il valore della doppia cifra per un debuttante che viaggia a 39 reti segnate in 29 incontri totali. Un impatto in linea in Europa con quello di Kylian Mbappé, altro baby fenomeno battuto nello scontro ravvicinato negli ottavi di finale: primo atto deciso proprio dal centravanti norvegese, un predestinato che vanta più gol che partite nella sua pazzesca stagione. E l’ultima curiosità, raccontata negli studi Champions da Paolo Condò. Il pallone nel destino di Erling. "Che vi aspettavate da uno che è stato concepito in uno spogliatoio?": la battuta se l'è lasciata scappare in diretta Jan Åge Fjørtoft, ex calciatore e oggi talent per la televisione norvegese. Grande amico di famiglia e vicinissimo al classe 2000 nei suoi primi passi, Fjørtoft ha giocato in Inghilterra come Haaland sr e ha condiviso con lui l’avventura in Nazionale (entrambi affrontarono l’Italia a USA ’94). Un rapporto stretto dove non sono mai mancate le confidenze, compresa quella sul concepimento di Erling: frutto di un momento di tenerezza dei genitori nello spogliatoio del Leeds. "Per forza è fortissimo!", scherza Condò.

Da ilfattoquotidiano.it il 19 febbraio 2020. Dieci gol in 7 partite di Champions, 39 reti in totale da inizio stagione in 29 partite tra Salisburgo e Borussia Dortmund. Le ultime due hanno regalato la vittoria ai gialloneri contro il Paris Saint Germain nell’andata degli ottavi della più importante competizione europea. Ma per non farsi mancare nulla, Erling Haaland, 19 anni e 213 giorni, ha pure percorso 60 metri in 6″64 durante un contropiede facendo segnare (sull’erba) un tempo che sarebbe valso una finale mondiale di atletica leggera. Il record mondiale è appena tre decimi più basso a 6″34, mentre il primato norvegese è inferiore di appena 9 centesimi. Gli aggettivi per il giovane attaccante norvegese ormai si sprecano, lui non smette di stupire e vola basso. “So che devo migliorare ancora tanto, si è visto anche oggi. Devo continuare a lavorare duro”, ha detto dopo la doppietta al Psg. “Non è mai sufficiente, mi sto trovando bene in questa competizione ma devo lavorare ancora – ha aggiunto il centravanti ai microfoni di Sky Sport – Il secondo gol? Non ci ho pensato troppo, mi sono semplicemente goduto il momento”. La testa, insomma, sembra quella giusta. Figlio d’arte, nato in Inghilterra perché papà Alf-Inge giocava in Premier League, prima con Nottingham Forrest e Leeds e poi al Manchester City, in stagione tra Austria e Bundesliga ha realizzato 29 reti in 22 presenze. Appena arrivato in Germania a gennaio, pagato 20 milioni di euro e convinto con un contratto da 8 milioni all’anno, ha realizzato la tripletta più veloce nella storia del massimo campionato tedesco: panchina all’inizio, 183 secondi per segnare la prima rete, quindi la difesa dell’Augsburg bucata altre due volte in 23 minuti. I gol a raffica sono una specialità della casa. Lo scorso maggio ha segnato 9 gol all’Honduras in una sola partita di Coppa del Mondo under 20, record assoluto. E martedì sera su Twitter, uno scout norvegese ha rivelato anche un retroscena particolare su Haaland: “È ‘campione mondiale’ di salto in lungo da ben 14 anni”. Tradotto: il 22 gennaio 2006, Haaland doveva ancora compiere 6 anni e, come ha spiegato papà Alfie-Inge, “aveva fatto delle prove di ginnastica nella sua scuola elementare ed era stato piuttosto bravo, così lo portammo ad alcuni incontri di atletica leggera”. Cosa accadde? “Si è messo subito alla prova con il salto in lungo e ha raggiunto una distanza di 163 centimetri”. Nessuno, prima di allora, era riuscito in qualcosa di simile. Si narra che nessuno ci sia mai riuscito neanche dopo. Una leggenda, non l’ultima che si sentirà sul suo conto.

Dagospia il 5 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Francesco Repice è intervenuto ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Lo storico radiocronista di Tutto il Calcio Minuto per Minuto ha raccontato: "Sognavo di giocare a calcio ma ero una schiappa, sono arrivato solo in categorie infime ed ero inviso a compagni e allenatori perché ero il classico numero 10 presuntuoso che non voleva correre e chiedeva ai compagni di passargli la palla convinto che avrebbe risolto tutto da solo. Quindi o facevo l'arbitro o diventavo radiocronista. La prima radiocronaca? 1978, Rende, in C1. Ero a Cosenza, dove sono nato. Lavoravo per una radio locale. La partita era Rende-Paganese. La prima a Radio Rai da primo radiocronista? Dopo uno Juventus-Roma, Roma-Bologna la domenica dopo, con i giallorossi che vinsero 2-1 con gol di Marco Delvecchio e una grande protesta dei tifosi della Roma rispetto a quanto successo la domenica prima a Torino". Sul match più importante: "Quella che più mi ha colpito fu Manchester-Barcellona, finale di Champions League. Lo United zeppo di campioni sembrava al cospetto di quel Barcellona una squadra di terza categoria. Poche settimane prima, poi, un calciatore del Barcellona, fu operato per un tumore che avrebbe dovuto lasciargli scampo. Non solo quel calciatore entrò in campo ma giocò anche al posto del capitano di quel Barcellona. Quel calciatore era Abidal, giocò con la fascia di capitano e alla fine alzò la Coppa dei Campioni. La magia del calcio che va oltre il rettangolo verde. Sono cose difficili da riportare, ci provai quella sera in diretta, ma fu molto emozionante. Fu molto commovente anche l'addio di Totti. Una roba che ti coinvolge, ti entra dentro, ti racconta gli anni che passano, che non torneranno mai più".

Sul gol più bello: "Quello di Dzeko al Chelsea in Champions League. Ma anche uno di Totti contro il City. I due gol più belli che ho avuto modo di raccontare. Ma anche uno al volo di Stankovic con l'Inter, da metà campo".

Sui calciatori: "Il più forte che ho raccontato? Francesco Totti. Indubbiamente. Il più forte che invece non ha dato quello che avrebbe potuto è stato Antonio Cassano. Sono i due talenti che hanno scandito l'inizio degli anni 2000. Ne ho raccontati molti, comunque. Anche Zidane. Ma le emozioni che ha regalato Totti a questo gioco sono inavvicinabili".

Sul rito prima della radiocronaca: "Io sono calabrese, il mio posto dell'anima è Tropea. E io guardo sempre prima delle partite una webcam sull'isola, che è un posto sensazionale, meraviglioso, che è a Tropea con il convento sopra. Guardo il mare con il computer un paio prima di iniziare la radiocronaca. Tropea è il mio luogo dell'anima".

Consiglio per i più giovani: "Quello che diede a me Sandro Ciotti. Leggere tutto, perché più leggi più cresce il tuo vocabolario. Per raccontare una partita facendo una cronaca fedele devi avere una varietà di linguaggio per non far ascoltare chi ti ascolta. Servono tanti termini a disposizione per non annoiare l'ascoltatore".

Il rapporto con la fede calcistica: "Io contrariamente a quanto mi raccomandava Riccardo Cucchi ho sempre detto la squadra per cui faccio il tifo. Sono un romanista malato. Se la Roma perde non parlo per una settimana. La mia più grande passione professionale è stata sentir raccontare dalla mia voce prima di una partita della Lazio la vittoria in Coppa Italia dei biancocelesti proprio sulla Roma con una mia radiocronaca. Non ci credete a chi vi dice che non è tifoso o che tifa per qualche squadra sconosciuta. Tutti siamo tifosi di una squadra di calcio di Serie A perché questo sport diversamente dagli altri comprende una dimensione che si chiama tifo. Tanto vale dire subito la verità e poi cercare al microfono di essere professionale".

Pasquale Guarro per calciomercato.com l'1 maggio 2020. Da anni mi interrogo sulla sua vera natura e mi struggo per non esserne ancora venuto a capo. L’anima di Carlo Pallavicino è una camera di specchi esposta ad est, rimbalza il sole in ogni direzione e ti disorienta.  Malinconico, ipocondriaco, a volte afflitto. Ma anche spassoso, brillante, di sicuro emotivo. Carlo Pallavicino è mosso esclusivamente dalla passione che lo consuma, ma che allo stesso tempo lo riattizza. 

- “Signor Pallavicino, voglio farle un’intervista“. 

- “Mi prende in un momento particolare, questa volta le dico di si. Ma solo se me la fa in diretta su Instagram”. 

- “Non sono bravo in queste cose, preferirei un’intervista tradizionale…”. 

“No, solo su Instagram. Venerdì alle 18.”. 

Ovviamente alle 18 ero solo come un cane, disperato perché gli utenti iniziavano a collegarsi e Pallavicino non riusciva ad accedere. Improvvisamente appare: “Scusa ma ho dovuto chiedere a mia figlia perché non riuscivo ad entrare nonostante le sue istruzioni.C'è stato qualche passaggio a vuoto”. 

Benvenuto Carlo, vorrei raccontare la sua storia ai più giovani. È quello che con Branchini ha portato in Italia Ronaldo, Careca, Rui Costa. Ha concluso trattative indimenticabili e prima faceva il giornalista, come ha fatto?

“Una serie di situazioni fortuite. Avevo 24 anni e attraverso un amico in comune conobbi Giovanni Branchini. Ci ritrovammo a lanciare insieme la Branchini Associati che soprattutto per merito suo, grande manager che arrivava dal pugilato, ha avuto e ha tuttora grande fortuna. Era un momento di grande cambiamento per il mondo del pallone, i calciatori ebbero improvvisamente bisogno di un agente per trattare i loro contratti che, fino a poco tempo prima, li tenevano legati a vita ai club. La famosa legge 91 che entrò in vigore negli anni 80 e cambiò tutto consentendo lo svincolo dei calciatori a fine contratto. Si aprì un mondo e io giornalista sportivo fin da ragazzino mi ci infilai come in un luna park. Eravamo in quaranta in tutta Italia, niente i cellulari figuriamoci internet, cose che oggi sembrano indispensabili, eppure il mercato si faceva lo stesso”. 

Qualche trattativa è stata sul punto di saltare proprio per l’assenza di dispositivi oggi indispensabili?

“Ricordo quella di Rui Costa al Milan, anche se in realtà,  seppur diversi da quelli di oggi, i cellulari già esistevano. Era con noi dai tempi del Benfica. Ho avuto la fortuna, io tifoso viola, di stargli accanto a Firenze durante tutta l’epopea di Batistuta, che divenne suo grande amico. Il trasferimento al Milan mi fece quindi un grande effetto. La Fiorentina quell’anno era di fronte alla possibilità di fallire e aveva l'obbligo di vendere Rui Costa e Toldo. Per il portoghese chiedevano 80 miliardi di lire. Col figlio di Tanzi e Branchini prendemmo insieme un aereo, viaggiammo con un volo privato verso Faro per convincere Rui ad accettare il Parma. Erano pronti a dargli una cifra incredibile, 10 miliardi di lire di ingaggio. Tentarono in tutte le maniere di prenderlo, sembrava fatta, ma il ragazzo aveva in testa il Milan perché l'allenatore della Fiorentina, Terim, aveva firmato per i rossoneri e con lui a Firenze si era trovato benissimo. Peccato che il Milan non fosse del tutto convinto perché ai tempi Berlusconi era presidente del consiglio e riteneva impopolare spendere 80 miliardi per un giocatore. Così per Rui Costa si aprì solo un’altra prospettiva rispetto al Parma, era quella della Lazio. Prenotai un treno alle 5.30 del mattino per arrivare a Roma in tempo dove mi aspettava Cragnotti alla Cirio per concretizzare nero su bianco il trasferimento di Rui Costa alla Lazio. Andai a letto molto presto, staccai il cellulare e il giorno dopo lo riaccesi in treno solo a pochi chilometri da Roma, ero a Orvieto. Fu così che mi ritrovai 40 messaggi in segreteria, tutti di Rui Costa e Branchini che mi chiamavano per dirmi che nella notte Galliani era riuscito a convincere in extremis Berlusconi a tirare fuori i soldi. Da un lato ero contento per Rui Costa, ma dall’altro ero abbastanza disperato per la sorte che mi attendeva perché stavo per arrivare alla Cirio da Cragnotti a dargli una pessima notizia. Invece che dirgli, «Eccoci qua, compiliamo il contratto e nel pomeriggio arriverà il calciatore dal Portogallo», dovevo dirgli «Eccomi qua, Rui Costa ha accettato di andare al Milan». Certo, una trattativa che rese tutti felici, ma in quell’istante mi trovai in una situazione che un procuratore non sogna di vivere. Non la presero benissimo alla Lazio“. 

Come un tradimento. Immagino che qualche volta anche lei si è sentito tradito…

“All’epoca il rapporto con i calciatori era vissuto non dico come un fidanzamento ma quasi. Li prendevi da ragazzini e li portavi a fine carriera. Ma volte i fidanzamenti possono anche concludersi in maniera cruenta. Adesso che sono passati 25 anni mi fa anche una certa tenerezza ricordare la sofferenza che provai quando Benito Carbone mi lasciò. Lo presi nelle giovanili del Torino, un piccolo fuoriclasse. Stavamo costruendo insieme un bel percorso, immedesimazione totale con la sua carriera, Reggina, Casertana, Under 21, Torino, infine Napoli, dove era andato via Zola e lui si apprestava a diventare il nuovo numero 10. Li accadde una cosa clamorosa: comprò una macchina e prima ancora di fare l’assicurazione gliela rubarono. Arrivò negli spogliatoi a Soccavo disperato e lì trovò Cannavaro e Taglialatela che gli dissero di calmarsi e che avrebbero provato a sentire il loro procuratore, napoletano, che avrebbe provato a dargli una mano. In effetti l’auto fu ritrovata ma il pegno fu che dovette cambiare agente. Praticamente mi svendette per una macchina. La presi malissimo, non avevo ancora 30 anni, ero un ragazzo ingenuo e non gli parlai per tanto tempo. Lui poi capì di aver fatto una cosa non troppo elegante e tornò col nostro gruppo, da quel momento in poi lo seguì Branchini e ebbe una bellissima carriera andando all’Inter e poi anche in Inghilterra”. 

Le va di fare un gioco? Le dico 6 aggettivi che lei deve associare ad altrettanti calciatori avuti in carriera.

“Va bene”

Generoso. 

“Sebastiao Lazaroni è veramente la persona in assoluto cui sono più legato nella storia del calcio. Un fratello maggiore, al pari di Giovanni, o quasi”. 

Presuntuoso. 

“Ci sono stati del presuntuosi sani nella vita. Una presunzione sana l’ha sempre avuta Paulo Sousa. Ma forse Seedorf in assoluto, anche se l’ho conosciuto meno degli altri perché lo seguiva in toto Branchini, lo respiravo. Si direi Seedorf”. 

Tirchio. 

“Ci sarebbe da scrivere un libro. Sono tutti tirchi e vanno capiti perché spesso vengono da un’infanzia sofferta. Magari sputtanano i soldi in investimenti assurdi. Poi però se c’è da andare al ristorante, Dio ci liberi. Ecco, un calciatore che non è stato mio ma che faceva storicamente un po’ fatica a pagare poteva essere Batistuta. Diciamo che al momento di pagare la pizza Rui era più lesto”. 

Permaloso. 

“Una persona cui ho voluto un gran bene, Eugenio Corini. Un altro calciatore preso da ragazzo, al Brescia, e che poi portammo alla Juventus, alla Samp, al Napoli, al Piacenza. Un carattere speciale, sensibilissimo. Però era un po’ permaloso, nel senso che si offendeva facilmente. Con noi ce l’aveva un po’ perché contavamo in procura anche Albertini. Lui sosteneva non si potessero avere due calciatori nello stesso ruolo. È sempre stata una cosa di Eugenio, cui voglio veramente un bene incredibile, molto bizzarra e mi ha sempre colpito perché noi, in fondo, abbiamo sempre dato il 100% a tutti, al di là del ruolo”.

Opportunista.

“Spiace dirlo, ma Claudio Marchisio con me si è comportato malissimo. L’ho preso quando era nelle giovanili della Juventus e l’ho accompagnato durante l’intero percorso di crescita, fino a fargli firmare due rinnovi milionari. Giunti al terzo, col contratto praticamente pronto e dopo aver litigato a più riprese con Marotta per garantirgli l’ingaggio migliore possibile, mi chiama e mi liquida con una telefonata. Senza alcun motivo. Si limitò a dirmi che da quel momento in avanti lo avrebbe seguito suo padre”.

Concludiamo con telentuoso. 

“Ovviamente il Fenomeno”. 

Quali aneddoti conservi sul brasiliano?

“La firma segreta con l’Inter mentre era al Barcellona. Venne con i blaugrana a giocare la semifinale di ritorno di Coppa delle Coppe contro la Fiorentina. Quella sera, con Branchini e i suoi agenti brasiliani organizzammo direttamente dagli spogliatoi del Franchi un trasferimento a casa mia sul Lungarno (al mattino dopo avrebbe volato da Peretola per il ritiro del Brasile) in modo che nessuno potesse riconoscerlo. Tre macchine separate (mi dette una mano anche mia moglie) Ronnie nella mia seduto dietro imbacuccato. Arrivammo a casa e iniziammo a cenare proponendo a Ronaldo le tre squadre che lo volevano: l’Inter, la Lazio e il Glasgow Rangers (solo per la Champions). Scelse i nerazzurri, Moratti era scatenato e lo aveva già conosciuto quando giocava al PSV. Facemmo la notte in bianco in casa aspettando l’ora per andare a prendere l’aereo. Tutto perfetto, fino a quel momento. All'alba usciamo di casa e ci troviamo davanti al portone alcuni viados brasiliani che frequentavano la zona. A quel punto accadde il pandemonio, iniziarono ad urlare il nome di Ronaldo e noi ci infilammo frettolosamente in auto per scappare. Menomale che i viados non avvertirono i giornalisti, ma tutta la macchinazione rischiò di saltare incredibilmente all’ultimo”. 

Come saltò anche Mazzarri alla Lazio. 

“Anche qui è trascorso del tempo e si può raccontare. Lui voleva lasciare la Samp e gli piaceva da pazzi l’idea di allenare la Lazio. Organizzai un incontro a Roma nella casa di un dirigente della Lazio, amico di Lotito. Doveva essere segretissimo. Già l’idea di trovarci a Roma preoccupava Mazzarri. Il problema fu poi che il tutto avvenne in una zona centralissima, vicino a Piazza Mazzini, dove una volta c'era la Rai. La cosa fu clamorosa perché Lotito si presentò come sempre con tre ore di ritardo, ma anche perché era previsto che un suo autista ci prelevasse a Roma Nord per fare un percorso semi nascosto e lasciarci direttamente nel portone di casa. Invece partì tutto male, l’autista ci parcheggiò a 1 km da questa casa che dovemmo raggiungere a piedi in mezzo alla gente che lo riconosceva e lo salutava. A Mazzarri si gonfiò il collo dalla tensione. Arrivati, aspettammo veramente tre ore Lotito. La situazione era diventata esplosiva, Mazzarri iniziò ad agitarsi, temeva non arrivasse e un po’ caricava di tensione anche me. Così quando arrivò Lotito io mi scagliai contro di lui e gliene dissi di tutti i colori. Lui senza fare una piega si rigirò allibito iniziando a urlarmi di tutto. Mazzarri a quel punto non sapendo che fare si rinchiuse in un minuscolo terrazzino, imbarazzatissimo anche lui. Non aveva ancora neanche stretto la mano a Lotito che già era scoppiato il finimondo. Poi ci mettemmo a tavolino e parlammo due ore. Mazzarri provò a convincere Lotito a prenderlo: vinciamo lo scudetto, mi creda. Ma quando le cose iniziano male difficilmente vanno in porto. E così fu”.

Siamo arrivati al termine, grazie per averci raccontato tutti questi aneddoti nell’esclusiva intervista su Instagram, come voleva lei. 

“Si, la ringrazio, Instagram mi piace quasi come a Wanda Nara. A proposito, ma come fanno i calciatori di oggi a lasciare che le mogli si postino mezze nude e si mettano pure a fare le agenti?”.

Marchisio: «Razzismo e discriminazioni, nel calcio i mali della società». Marco Castelnuovo su Il Corriere della Sera il 16/10/2020. L’ex capitano di Juve e Nazionale si racconta in un libro e rivela: mi piacerebbe fare politica a livello nazionale. «L’omosessualità nel calcio? Un tabù da superare». Claudio Marchisio è bello, ricco e di successo. È stato capitano della Juventus e della nazionale. È un ex, anche se ha solo 33 anni: alla sua età molti sono ancora precari. Possiede ristoranti, una società di comunicazione digitale, commenta le partite dell’Italia per la Rai. I tifosi lo chiamano Principino per quel suo modo di fare elegante e preciso che aveva nel tocco di palla e che mantiene nell’abbigliamento e nella scelta delle parole. Marchisio, infatti, scrive. Esce in questi giorni per Chiarelettere, Il mio terzo tempo, un libro che usa la scusa del calcio per parlare di vita, due cose che nel suo caso sono coincise.

Marchisio, lei ama il calcio, eppure scrive che «è il simbolo del fallimento culturale della nostra società».

«I problemi del calcio sono gli stesi del mondo. In campo si ripercuotono tutti i mali della società. Il razzismo, le differenze di genere, le discriminazioni. È diventato una grande industria: è inevitabile che si perda la passione che si avvertiva nelle discussioni al bar».

Lei aveva quattro anni durante i Mondiali di Italia ‘90, quelli di Schillaci e delle notti magiche. È così cambiato il calcio da allora?

«Quando io iniziai a giocare a pallone, i miei genitori cercavano di assecondare una passione. Ora che accompagno i miei figli mi accorgo che per molti l’approdo al professionismo vale più dell’università. La pressione che si avverte a maggio, quando non si sa se il proprio figlio verrà tagliato o confermato per la stagione successiva, è palpabile».

A volte per provare la strada del professionismo si tralascia la scuola.

«Ma è sbagliato! Lo sport e la scuola non sono più allineati ed è un errore. Gli allenatori delle squadre giovanili cambiano ogni anno quando invece dovrebbero essere considerati degli educatori, dei maestri. E come tali mantenuti per un ciclo. Se non si riparte da lì, è tutto inutile».

Per fare qualcosa di simile ci vogliono dirigenti audaci. Ha mai pensato di lavorare per questo?

«Se mi dessero carta bianca, lo farei. Se sono un puntino isolato, allora è inutile».

Lei ha smesso con il calcio ma ha mantenuto intatta la sua popolarità. Forte dei 4,5 milioni di follower su Instagram. Un buon megafono, non trova?

«Infatti li uso e credo nel valore che i social possono avere. Vengono usati come strumento di odio, ma sono utili anche per comunicare iniziative positive».

Che però non hanno lo stesso risalto...

«Dipende: mi hanno molto colpito le parole nette contro il razzismo scritte dall’americano McKennie, nuovo acquisto della Juventus. È giovanissimo, appena arrivato, ma ha subito fatto sentire la sua voce. Ben vengano questi esempi».

Il calcio mantiene intatte le proprie fortezze. Anche il tema dell’omosessualità è un tabù.

«È vero. Nessun mio compagno mi ha mai detto di essere gay, ma non è vero che negli spogliatoi non se ne parli».

E come mai nessuno ha mai fatto coming out?

«C’è omertà, senza dubbio. Sia per la reazione dell’opinione pubblica sia all’interno dello spogliatoio. Sa quelle battute stupide sulla saponetta? Ecco, meglio evitare. Uscire dagli schemi è difficile. Per fortuna c’è il calcio femminile».

Pensa che le numerose calciatrici che apertamente dichiarano il proprio orientamento omosessuale stiano aiutando anche gli uomini?

«Sicuramente sono più emancipate, possono aiutarci a spezzare un tabù. Prima o poi ci sarà qualcuno con le spalle talmente larghe da contrastare l’inevitabile onda d’urto».

Senta, ma è vero che lei è talmente juventino che rinunciò a trasferirsi all’Inter di Mourinho?

«Ci furono dei contatti: dissi di no. Persone come me, Totti, De Rossi o Maldini, hanno fatto tutta la trafila con gli stessi colori. Fin da bambini. Il nostro attaccamento alla maglia non è negoziabile. Pensi che mi cercò anche il Real Madrid».

Scusi?

«Avevo 21 anni, avevo appena cominciato a giocare nella Juve e Capello, allora a Madrid, mi voleva. Dissi di no perché volevo giocare nella mia squadra del cuore, davanti ai miei genitori, nella mia città».

Quindi lei è così tifoso juventino che sa anche quanti sono gli scudetti bianconeri?

«Lo sa benissimo anche lei quanti sono».

Ne ballano sempre due, vinti sul campo, ma tolti in seguito agli scandali di Moggi e Giraudo. Perché non metterci una pietra sopra e andare avanti?

«Non si rivendicano gli scudetti tolti per l’albo d’oro, ma per reclamare una differenza di trattamento subìto rispetto alle altre squadre».

Lei prima ha citato la sua città, Torino. Sa che c’è chi la vorrebbe sindaco?

«Ho visto, mi ha fatto piacere e magari un giorno sarò disponibile, come parte integrante di una squadra».

Quindi non esclude un ingresso in politica, magari nazionale?

«No affatto, anzi: ci penso. Sarebbe bello mettere in pratica le mie idee. Molte cose ancora non le so, dovrei studiare. Ma certo mi piacerebbe».

Chi è Roberta Sinopoli, moglie di Marchisio: star del tennis. Notizie.it l'8/08/2020. Roberta Sinopoli è la moglie dell'ex calciatore Claudio Marchisio, ma è stata anche una star del tennis. Chi è Roberta Sinopoli? La donna è la moglie dell’ex calciatore Claudio Marchisio, ma un tempo è stata una vera star del tennis. Una bellissima donna bionda che non ha aspirazioni verso il mondo dello spettacolo, ma ama tutelare la sua privacy e stare accanto all’uomo che ama. Questo nonostante nel suo passato ci sia una grande passione e un grande talento per il tennis, che ha deciso di mettere da parte. Roberta era una vera amante dello sport ed era una giovane stella del tennis.

Chi è Roberta Sinopoli. Roberta Sinopoli è nata il 15 Novembre 1985 ed è sempre stata una ragazza molto brillante e una grande appassionata di sport. Quando era più giovane era una vera e propria stella del tennis ed era stata selezionata per la Nazionale Under 16. Dopo diversi anni di agonismo, però, ha deciso di mettere via la racchetta e dedicarsi a nuove passioni. Da diverso tempo gestire un ristorante a Torino, dove vive insieme alla sua famiglia. In una discoteca, tanti anni fa, ha conosciuto Claudio Marchisio e con lui ha iniziato una meravigliosa storia d’amore. La donna ha voluto dedicare tutto il suo tempo a fare la mamma. Lei e Claudio, che sono stati rapinati, si sono conosciuti che lei aveva solo 19 anni. Lui era già conosciuto per il suo talento di calciatore, che aveva mostrato nella primavera della Juventus, ma a lei si era presentato come un normale studente universitario. Marchisio l’ha corteggiata per sei lunghi mesi, ma poi lei ha ceduto. I due hanno vissuto e continuano a vivere una storia d’amore davvero stupenda. Si sono sposati nel 2008 e hanno avuto due figli: Davide, nato nel 2009, e. Leonardo, nato nel 2012.

Dagospia il 25 aprile 2020. L.A. Confidential. James Ellroy? No, Nicola Ventola: “A Los Angeles incontri tutti. Ero fuori da Starbucks a fumarmi una sigaretta e ho visto Bradley Cooper che stava attaccando bottone con mia moglie Kartika". E tu? "Io mi sono incazzato…”. L’ex attaccante di Bari e Inter dà spettacolo in diretta Instagram con Vieri tra battute, amarcord e cronache hollywoodiane. “Incontro in palestra Will Smith, inizio a parlare e mi ritrovo invitato al suo compleanno. Io e mia moglie, alla fine, non siamo andati perché Kelian (il figlio della coppia, ndr) era ancora piccolo. Io sto ancora dando le testate al muro..." Ventola ricorda gli anni all’Inter: “Ho più karaoke con Zanetti che presenze in maglia nerazzurra”. E poi racconta della rapina subita da Pirlo a Milano: “Volevano il Rolex ma l’orologio non si staccava. Andrea è andato nel panico e gli ha dato pure il portafogli. Come si è spaventato…Poi mi ha confessato: 'Nicola, ho avuto paura. Se avessi potuto gli avrei dato anche la macchina…' Pirlo fa morire dalle risate. Nell’Under 16 era già vestito uguale: pantalone a sigaretta, doppiopetto, cravatta. Era avanti…” Amicizie vere e scazzi di spogliatoio. L’attaccante di Grumo Appula rammenta l’esperienza all’Atalanta. Una volta Zampagna rilascia un’intervista in cui dice: “Vieri? A me non interessa, io tanto gioco”. Bobone, caricato dai compagni, gli risponde a brutto muso. “Tu non devi parlare di me. Non ti conosco, non gioco da un anno ma devi lasciarmi stare, io non so chi sei. Anche Colantuono rideva”. “Quante cazzate si fanno quando si è giovani”, commenta divertito Vieri. “Il problema mio e tuo, ma soprattutto tuo, è che alle volte prima di parlare devi contare fino a dieci – ribatte Ventola - Noi non contiamo neanche fino a mezzo secondo. Abbiamo l’esempio con Maldini, Zanetti e Pirlo. Quelli contavano fino a cento..."

Dagospia il 29 aprile 2020. “Non ho nessun rimpianto. Ho subito nove interventi chirurgici e ho perso elasticità e potenza, che erano le mie caratteristiche. Per questo motivo a un certo punto la mia carriera non è stata più a livelli top”. Nicola Ventola a #CasaSkySport riavvolge il nastro della sua avventura nel calcio che conta. I calci di Marcio Santos, la maglia del Bari (“il mio sogno da bambino”), gli anni all’Inter con Roberto Baggio e Ronaldo “in una squadra che faceva sognare”. Lui, l’idolo di Thohir, stempera con un sorriso la pubblicistica che lo annovera tra le promesse mancate del calcio: “A 24 anni potevo smettere, sono stato fermo un anno, in Italia non mi voleva operare nessuno e sono andato in Colorado. Potevo fare di più ma al fato non si comanda”. Per il giornalista Marco Bucciantini, ex Unità, Nik è un attaccante completo, “uno che se fosse nato nei Novanta invece che a fine anni Settanta, una ventina di presenze in Nazionale le avrebbe fatte”. "Questo lo penso anche io…”, rimarca l’attaccante di Grumo Appula che si rivede in Belotti: “Ma lui segna più di me…”. Tra canzoni (una rivisitazione de “La prima cosa bella” per “La Bari”) e un commento sulle dirette Instagram con Vieri e Adani, si parla anche del 5-5-5 di Oronzo Canà-Lino Banfi ne ‘L’'allenatore nel pallone’, film stracult che Cuper “lasciava mettere sul pullman". Un calciatore che mi ha aiutato? “Lo sfortunato Klas Ingesson. È stato il mio capitano a Bari. Un condottiero, un combattente di poche parole ma che mi ha dato tanto. All’epoca andavo bacchettato. Avevo 18 anni…”. E sulla possibile ripresa del campionato, Ventola ha le idee chiare. “Il calcio deve provare a ricominciare. Tecnologie e centri di allenamento possono aiutare a ripartire in sicurezza…”

Da corrieredellosport.it  il 27 aprile 2020. "A Roma una volta stavano per uccidermi". Questa è la rivelazione shock di Daniel Pablo Osvaldo, attaccante del Banfield, sulla sua esperienza vissuta nella Capitale. L'argentino ha trascorso due anni in giallorosso, ai microfoni di TNT Sports ha raccontato (in parte) la disavventura avvenuta in Italia: "Una volta ero in un bar di Roma e mi stavano quasi uccidendo. Poi chiesi a Totti e De Rossi di accompagnarmi a sistemare le cose, non sono uno stupido“. Che cosa fosse accaduto resta un mistero, fatto sta che l'attaccante ha chiesto aiuto all'ex capitano giallorosso, suo grande amico anche dopo la sua partenza: "Gli dicevo che secondo me era cornuto, perché non poteva essere così perfetto. Aveva una bella faccia, non voglio dare dettagli, ma era anche ben dotato nelle parti intime. Ed era il miglior calciatore con cui abbia mai a giocato. Aveva solo pregi, non aveva nemmeno l’alito cattivo per dire. E sua moglie…Qualcosa di brutto doveva pur averlo, no? Ma in realtà no, non aveva neanche le corna". Chiusura su Cesare Prandelli che decise di non convocarlo da ct per i mondiali in Brasile: "Avevo fatto sei o sette gol nelle qualificazioni, ero il titolare e avevo la maglia numero 10, ma mi lasciò fuori perché i giornali gli dicevano che io ero argentino e andava convocato qualcun altro. Spero stia passando male la quarantena. Quando mi chiamò per andare al Galatasaray gli dissi che non avrei accettato neanche per 50 milioni. La cosa brutta è stata che ho scoperto di non essere convocato dai giornali, non mi ha neanche chiamato. Ci sono rimasto malissimo, sono finito a piangere, volevo morire perché meritavo di andare in Brasile".

Da repubblica.it il 16 dicembre 2020. «Totti mi chiamava ne... e mi diceva che io, in favela, mangiavo la m...a. Io capì qualcosa e minacciai di fargli male, di rompergli qualcosa, però Di Livio mi ha chiesto calma: lui è il capitano, disse, e gli risposi: ma che capitano? Mi sta mancando di rispetto!. Ero così nervoso che avrei voluto picchiare Totti». Lo ha raccontato l’ex centrocampista brasiliano della Fiorentina Amaral a Sport Tv parlando di razzismo. Da quanto risulta negli annuari l’episodio, se riscontrato, dovrebbe essere avvenuto nell’unica occasione in cui Amaral e Totti si ritrovarono sullo stesso terreno di gioco. Era il 3 febbraio del 2002 all’Artemio Franchi di Firenze. Per la cronaca, la sfida tra Fiorentina e Roma finì con un pareggio, 2-2. I viola andarono avanti fino al raddoppio dei giallorossi nel secondo tempo con Cassano ed Emerson.

Da corrieredellosport.it il 16 dicembre 2020. Le accuse sono troppo pesanti per lasciar correre e fare finta di niente. Così nonostante qualche amico gli abbia detto di andare avanti e lasciarsi la vicenda alle spalle, Francesco Totti è pronto a querelare Alexandre da Silva Mariano detto Amaral, ex giocatore della Fiorentina. Il brasiliano a SporTv ha lanciato un'accusa pesantissima verso l'ex capitano giallorosso: "Totti mi chiamava "negro" e mi diceva che io, nella favela, mangiavo la m…a. Io capì qualcosa e minacciai di fargli male, di rompergli qualcosa, però Di Livio mi ha chiesto calma.  "Lui è il capitano", disse. E io gli risposi "ma che capitano? Mi sta mancando col rispetto!". Ero così nervoso che avrei voluto picchiare Totti". Per la prima volta un giocatore ha accusato Totti di razzismo, anche per questo la storia detta a distanza di diciotto anni sta lasciando molti punti interrogativi. Anche perché Totti e Amaral si sono incrociati solamente una volta in campo, il 3 febbraio del 2002, all'Artemio Franchi, in una sfida finita 2-2. "È assurdo che Totti abbia detto una cosa del genere, e io smentisco di aver fermato Amaral dopo quelle presunte frasi - ha dichiarato Angelo Di Livio, che ieri sera ha parlato con Totti per esprimergli solidarietà per la vicenda -. Totti non è un razzista, la conferma arriva da trent'anni di carriera senza mai una polemica nei suoi confronti. Amaral aveva bisogno evidentemente di farsi pubblicità, ma Francesco è rimasto davvero scioccato".

Da corrieredellosport.it il 25 aprile 2020. Due campioni, due numeri dieci e grandi amici in diretta su Instagram. Francesco Totti e Alessandro Del Piero questo pomeriggio hanno infiammato il social network con tanti scambi di battute, aneddoti sul passato e racconti di questo isolamento dovuto all'emergenza Coronavirus. "Vedremo come si evolverà questa situazione, dobbiamo vedere giorno dopo giorno che informazioni arriveranno, qui in Italia ma anche negli Stati Uniti", le parole di Totti. Del Piero ha invece parlato delle sue perplessità sull'operato di Trump: "Quando vedi cosa sta succedendo negli altri Paesi, teoricamente dovresti essere anche un po' avvantaggiato e capire già come partire. L'incubo lo hanno vissuto a New York, qui a Los Angeles la situazione è migliore". Poi l'ex Juve ha ringraziato chi ha donato con la fondazione dei campioni del Mondo a favore della Croce Rossa: "Siamo riusciti ad acquistare quattro ambulanze, grazie a chi ha donato o chi ha diffuto il messaggio". "Con poco abbiamo fatto felici un po' di persone", ha proseguito Totti. Amici fuori dal campo, ma nel terreno di gioco quante sfide tra Totti e Del Piero "Mi hai fatto rosicare come un matto quando hai fatto il gesto delle 4 pappine", ha ammesso Alex ricordando la gara dell'8 febbraio 2004. "Ma non l'ho fatto a te, non mi sarei mai permesso! - la risposta dell'ex giallorosso -. L'ho fatto a Tudor perché mi ha dato una gomitata al braccio che mi veniva da piangere. Poi quando ci siamo rincrociati mi è venuto il gesto... Lippi negli spogliatoio mi aveva fermato, aveva 'rosicato' e mi diceva: "Questi gesti non si fanno". Per una volta che avevamo vinto!" I due hanno parlato del loro passato, della splendida carriera che hanno vissuto alla Roma e alla Juventus: "Le decisioni le prendi in quel momento, già un giorno dopo è tardi - ha detto Del Piero -. L'importante è prendere le decisioni prima col cuore e poi con la testa. Rifarei tutto da zero, per rivivere tutto quanto". "Pensa che bello, sapendo già che carriera andrai a fare... Rifarei tutto da zero, anche con gli stessi risultati. Mi manca però vincere una Champions...", la risposta di Totti. Ad entrambi manca anche il pallone d'Oro: "Pensa, quello lo ha vinto Cannavaro, incredibile. Da lì è cominciato l'inizio della fine", hanno scherzato.

Francesco Persili per Dagospia il 20 aprile 2020. “A me è dispiaciuto tanto lasciare ‘Tiki Taka’. Mi hanno detto di stare a casa e ancora oggi non so il perché …”. Cassano in diretta Instagram con Vieri torna sull’esclusione dal programma sportivo di Mediaset. “Non mi hanno mandato una lettera, né mi hanno avvisato ufficialmente. Solo Pierluigi Pardo me l’ha comunicato...”. “Senza il trio non è più lunedì”, il rammarico di Bobone: “Non vedevo l’ora di fare il lunedì con te, mi pisciavo sotto dalle risate, ero proprio contento…”. E Fantantonio: “Nel nostro divertimento parlavamo di calcio. Non ci nascondevamo, non facevamo le solite sceneggiate. Andavamo dritti all’obiettivo. Ma vediamo, l’anno prossimo ci possono essere novità importanti”. Cassano è inarrestabile. "Il pellicciotto sfoggiato alla presentazione con il Real? Bisogna avere i coglioni per presentarsi così. Loro volevano che mettessi giacca e cravatta, io mi sono presentato con quel peluche. A distanza di tempo mi vergogno…”.

Ronaldo? “Quello vero è uno solo. Il Fenomeno. Immagina che roba poteva essere con delle ginocchia a posto. Era una cosa fuori dal mondo. Il più grande centravanti della storia".

“Totti si allena? Ma se non fa nulla tutto il giorno. Si sta rincoglionendo. Fa le scale come con Zeman? Sì, le fa per salire in camera e dormire”.

"Pippo Inzaghi? Se non esistevano le porte poteva giocare a basket. Quante risate mi ha fatto fare quel figlio de na…Volevo andare a Bologna quando lui era in panchina. Gli scrivevo: ‘Dai Pippo, me la vengo a giocare’. E lui faceva la solita sceneggiata: ‘A livello numerico siamo in tanti lì davanti’. Aveva 5 attaccanti e quanti gol avevano fatto? Tre”. Pensavo che potesse diventare più allenatore lui del fratello Simone invece Simone sta facendo benissimo. E anche Pippo si sta riprendendo con il Benevento dopo le prime due esperienze negative”.

Tra i commentatori il Peter Pan di Bari Vecchia sceglie Adani: “E’ il Messi degli opinionisti”. Poi passa a commentare lo scherzo della moglie Carolina: “È più matta di me. E’ tosta. Nella mia vita non ho mai pensato di prendere una donna così...". Il Cassano gran varietà si conclude con l'ironica demolizione del nuovo look di Vieri: “Con quei capelli e gli occhiali mi sembri Luca Giurato...”.

Dagospia il 4 maggio 2020. “Il compagno che non sopportavo? Ce ne erano tanti che mi stavano sulle palle. Quello che non mi stava molto simpatico nella Roma era Marco Delvecchio”. Antonio Cassano senza filtri con Paolo Bonolis e Lele Adani in diretta Instagram. “In Italia non c’è più un numero 10. Un tempo c’erano Mancini, Roberto Baggio, Totti, io, Del Piero. Oggi il calcio sta andando in una direzione diversa, più di corsa che di qualità. Ma, come dice Capello, sono i grandi calciatori che fanno diventare grandi gli allenatori. Tra i tecnici il suo preferito resta Bielsa: “Ha idee, personalità. Fa migliorare i calciatori, gli altri allenatori pensano al risultato, escluso Guardiola”. Totti punta forte su Tonali e lo vorrebbe nella sua scuderia, Cassano, che studia da direttore sportivo, dissente dal Capitano: “E’ giovane, un grande incontrista di buona quantità ma deve crescere, non mi fa impazzire. A me piacciono giocatori alla Thiago Alcantara.... Un giovane della serie A che può fare grandi cose in futuro? Castrovilli. A me ha impressionato tanto, poi è di Bari e devo sponsorizzarlo…” “Cassano era il più grande mentitore della storia del calcio. La sua bugia agli occhi degli avversari era una verità che metteva in porta i compagni”. Adani distilla perle di filosofia pallonara: “I compagni con Cassano dovevano avere non fiducia, ma fede perché dovevano fare delle corse senza comprendere. E la palla arrivava con le traiettorie giuste…”. Sul calcio come esercizio di menzogna la chiosa è del Peter Pan di Bari vecchia: “In tutta la sua carriera Maggio ha fatto 5 reti. In una sola stagione con me ne ha realizzate 12”. Ergo: “Nel calcio c’era solo un 5% di bugiardi: io, Totti, Riquelme, Pirlo. Il 95% si imbrogliava da solo”. Adani, ribattezzato da Cassano il Messi degli opinionisti, torna anche sulle polemiche per la sua esultanza al gol di Vecino in Inter-Tottenham: “Ho accettato le critiche dei tifosi, quello che mi ha dato noia sono stati i commenti tristi e poveri di tanti giornalisti probabilmente perché avrebbero voluto loro vivere quel momento. Il calcio non è per deboli di spirito”. L’ex difensore dell’Inter, oggi nella squadra dei commentatori Sky, era stato contattato da Mancini per fare il suo assistente all’Inter: “Potevo allenare 5-6 anni fa ma mi piace molto fare il commentatore”. La lite con Allegri? “Quando parlo cerco di difendere sempre i miei principi e i miei ideali, ogni volta sono pronto a scendere in trincea per onorare lo sport e per rispettare i protagonisti. Questo non riguarda solo il dibattito con Allegri dal quale lui si è esentato per ben due volte togliendosi il microfono. Chi fa il nostro lavoro deve approfondire per poi arrivare a dedurre, non può ridurre. Io parlo dopo essermi preparato…” Nella diretta non manca una gag degna dei fratelli Capone tra Bonolis e Cassano. “Apparivi e scomparivi. Sembravi Copperfield l’illusionista”, sorride il conduttore. E Fantantonio: “Andremo su Striscia, ci prenderanno per il culo tutti”. E Bonolis: “Prenderanno per il culo a te, noi che c’entriamo?…”

Stefano Agresti per il “Corriere della Sera” il 26 aprile 2020. Novanta minuti di tapis-roulant e 500 addominali al giorno: chiuso in casa da un mese e mezzo, Antonio Cassano ha perso 3 chili. «Sono un privilegiato, ho una famiglia felice e anche la piscina». Trascorre il tempo studiando calcio e calciatori: guarda 3 o 4 partite al giorno, quasi una mania. Ha un entusiasmo coinvolgente, come spesso gli capita quando s' innamora di qualcosa.

Cassano, cosa farà quando tutto questo sarà finito?

«Forse mi impegnerò di più in televisione. O magari mi dedicherò a un' altra mia grande passione e mi metterò a fare il direttore sportivo. Mi piace da quando ho messo piede a Coverciano per prendere il patentino».

Cos' è che la affascina del mestiere?

«Osservare i calciatori e capirne le qualità. Mi colpiscono aspetti che magari ad altri sfuggono: un passaggio tra le linee, un' apertura di 30 metri. A volte basta questo. È facile spendere un sacco di soldi per chi segna una valanga di gol, ma spesso serve altro».

Qualcuno l' ha contattata?

«In questo mondo devi essere amico dell' amico e io non sono per queste cose. Però ho parlato sei mesi fa con Ferrero, c' era una possibilità con la Samp. Ci saremmo dovuti rivedere tra aprile e maggio».

Se un giorno diventasse davvero ds, chi vorrebbe come allenatore?

«Marcelo Bielsa. Gli metti in mano i calciatori giusti e in 5 o 6 mesi te li fa migliorare tantissimo, non è un caso che Guardiola e Pochettino lo ritengano il numero uno. E anch' io crescerei lavorandoci assieme».

Bielsa ha un carattere particolare.

«Strano lui, strano io: nascerebbe un rapporto speciale. È un rivoluzionario, ha anche umiltà. E gioca il calcio che mi piace, perché attacca con tanti uomini».

Tra gli italiani chi è il migliore?

«Allegri, perché ama la tecnica. È l' unico che parla sempre di qualità. Anche lui ha un' idea offensiva del calcio».

In realtà molti sostengono il contrario.

«Nel Milan lasciava Thiago Silva e Nesta a coprire con Van Bommel, poi avevamo due ali come terzini, Zambrotta e Jankulovski, e centrocampisti tecnici: Seedorf, Pirlo, pure Ambrosini che si buttava sempre dentro. In Italia danno del catenacciaro a uno che si difende nell' ultimo quarto d' ora, ma Allegri non lo è».

Anche il suo amico Adani gli dà del catenacciaro.

«Lele è il Messi degli opinionisti. Se gli chiedi di un calciatore dell' Ecuador o del Guatemala, lui ti dice con quale piede calcia, quali lacune ha. Non so cosa sia successo tra lui e Max, ma se si mettessero mezzora a un tavolino scoprirebbero di vedere il calcio allo stesso modo».

Se dovesse indicare un giocatore da comprare, chi segnalerebbe?

«Segnatevi questo nome: Carrascal. È un ragazzo del River Plate e mi ricorda il primo Kakà per cambio di passo e qualità di palleggio. Se trova l' allenatore giusto, diventa un top».

Chi è il ds migliore?

«Ausilio, perché sa vedere i calciatori prima degli altri. Ha pescato Kovacic a Zagabria, Lautaro in Argentina. Avrà commesso qualche errore, ma chi è che non sbaglia mai?».

In Italia cresce una generazione di giovani interessanti.

«Punto su Chiesa: si può adattare a ogni modulo, gioca esterno nel 4-4-2 e nel 4-3-3, anche seconda punta. E non è vero che segna poco, anzi: in tre anni e mezzo ha fatto 30 gol partendo dalla fascia».

Cos' è che l' ha colpita di più in questa stagione?

«L' Atalanta mi colpisce da tre anni. Mi ricorda un po' la mia Samp, anche noi arrivammo quarti e in finale di Coppa Italia, ma non eravamo così continui. E mi piace la Lazio: Inzaghi è bravo».

Sarri alla Juventus funziona?

«Un po' mi ha deluso. Un conto è allenare il Napoli, un altro tutti quei campioni. Quelli dopo un po' che fanno tattica si annoiano, non rimangono due ore sul campo ad ascoltarti. Ti dicono: dammi la palla che ci penso io. Infatti Allegri faceva 20 minuti di tattica il venerdì e provava i calci piazzati il sabato. Stop».

Pensa che il campionato ripartirà?

«Io lo fermerei. Come fanno a ricominciare atleti che sono fermi da due mesi? Dovrebbero giocare ogni tre giorni, ci sarebbero infortuni a raffica: una follia. Negli spogliatoi ci sono 50 persone: come si fa ad azzerare il rischio? Ci sono interessi importanti in ballo, ma non bisogna esagerare».

Cassano, non teme che la sua fama possa condizionare la nuova carriera che deciderà di fare?

«Sì, ma io non sono come 10 o 20 anni fa: ho un' altra testa e altre idee, sono più riflessivo. Mi si metta alla prova, firmo anche in bianco. Altrimenti andrò in tv o starò a casa con la mia famiglia: la adoro».

Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 26 aprile 2020. Un tempo si diceva, quando le mamme lavavano a mano il bucato e le nonne odoravano buone di pipì: diamo un pallone ai nostri ragazzi, togliamoli dalla strada, mandiamoli negli oratori, nella squadretta del quartiere o del paese. Oggi diciamo: restituiamo il pallone ai nostri ragazzi, togliamoli dai salotti di casa, dalle consolle, dagli smartphone e riportiamoli nel loro habitat, i campi di calcio, gli stadi, le imprese che ci fanno dire ohhhh!!! E se non sono gli stadi, almeno gli studi, quelli televisivi per la dura astinenza degli ex. Salviamoli dal rimbambinimento. Cioè dalla regressione infinita. Tra i tanti motivi che dovrebbero spingere chi di dovere, ma soprattutto chi di piacere, a riaprire un calcio protetto per le masse protette c’è anche quello di allontanare questi ragazzi dalle viziose pratiche dei social dove, condannati alla clausura, danno il peggio di sé. Vale il narcisismo sfrenato. Sfrattato dalla porta principale degli stadi, dei titoli, dei microfoni, in quanto icone mediatiche vere, presunte, supposte, rispunta dalle finestre dei social. Così fan tutti. Al di là dei tanti calciatori in attività, Cristiano Ronaldo in testa, frenetici nel mostrare squarci del loro focolare domestico riadattato alla tragedia del Pallone Vacante, a darsi un gran daffare sono soprattutto gli ex, una specie di Circolo della Pipa, i Del Piero, i Bobo Vieri, i Materazzi, i Cannavaro, i Totti, i Cassano, i Ventola, tanti altri. L’amico Lele Adani, grande pongista, che ci mette dentro almeno il suo fracassato cuore. Con la scusa d’intrattenere il prossimo, intrattengono se stessi, convinti di dispensare alle masse affamate l’equivalente dei fiori di Eliogabalo. Pochi si astengono eroici. Mi vengono in mente Daniele De Rossi, Dino Zoff e Roberto Baggio. Duri e mistici veri. Per il resto, un cazzeggio illimitato e quasi mai illuminato. Finalmente sottratti al nemico di cui diffidare per definizione, il giornalista, tu immagini che avremo finalmente accesso al loro mondo, per lo più secretato in manciate di luoghi comuni e frasi fatte. T’illudi che qualcosa accada. Squarci di verità. Sbagliato. Poco o nulla accade. Per lo più finte verità che subito sbrodolano in siparietti stucchevoli dove vale la regola dell’ammiccamento di casta. Del “come c’eravamo tanto amati e soprattutto detestati”, senza una Scola alla regia. “…Ti ricordi quella volta che mi hai quasi smontato una tibia?”, o “…quanto mi stavi sulle palle quando mi hai fatto il 4 con la manina!” e “…quanto ero scapestrato la e virtuoso qua…”, “io salumiere mancato, buttato via…” e via degenerando in questa bolla dell’egosistema. Quasi mai una battuta estrema, davvero cattiva o infinitamente buona che vada nel possibile fondo delle loro possibili vite. Certamente interessanti, se solo sapessero di averne una. Qualcosa che serva alla comunità per confrontarsi non tanto con chi siete, relativo, ma con chi vi credete di essere oggi, all’epoca in cui il pallone e dunque voi siete costretti a mostrarvi nudi o quanto meno fingervi vestiti. La parte più interessante, per quanto mi riguarda, è quando si confrontano sui valori calcistici di squadre, allenatori e giocatori. E qui sembrano quasi tutti d’accordo: il vero fenomeno non è Messi, nemmeno Cristiano Ronaldo, tantomeno Neymar, non è stato Maradona, ma Ronaldo appunto il Fenomeno. Quasi quasi concordo. Messi a parte.

Francesco Persili per Dagospia il 21 aprile 2020. In tempo di quarantena, Vieri è il nuovo re dei talk. In diretta Instagram con Pardo, Bobone rivela il suo modello: “Mi ispiro a Bruno Vespa. E’ il numero 1. Con “Porta a Porta” va in onda da quasi 25 anni…”. Storie di spogliatoio, battute e graffiti di calcio vero. Tra i commentatori sportivi, il “Cammello” sceglie Adani: “E’ il più bravo. Sa di calcio, è passionale. A lui piacciono i giri larghi…”. Con lui Vieri ha parlato del suo primo incontro con Maradona. “Ho pianto”. Ma anche di quella che Rampanti, ai tempi della Primavera del Torino, gli fece leggere per motivarlo una dichiarazione sprezzante dell'allenatore degli avversari. Risultato? Bobo fece tripletta. Insieme hanno rievocato il colpo di tacco di Redondo contro lo United a Old Trafford e esaltato lo swing di Veron partendo dalla splendida definizione del “Flaco” Menotti: “Il calcio, come la musica, è fatta di tempi e di pause”. In queste variazioni di ritmo, accelerazioni e decelerazioni, Veron era “il numero uno, devastante”. Vieri oggi ha due figlie, combatte come tutti gli over 40 con il peso (“Sono 106 chili”) e gli acciacchi: “Stamattina ho fatto due esercizi e mi si è bloccata la schiena”…

Ernesto De Franceschi per leggo.it il 21 aprile 2020. Ieri colpi di testa e sinistro d'oro in campo con le maglie di Inter, Milan, Lazio, Juve e Atletico Madrid (tra le tante), adesso colpi di genio e battute social. La nuova carriera di Bobo Vieri, oggi 46enne, è tutta su Instagram. La quarantena con l'amata Costanza Caracciolo e le due figlie (Isabel ha solo 20 giorni) nella sua casa nel cuore di Milano, a due passi dal parco Sempione, l'ha trasformato in una web star indiscussa. Al mattino la (goffa) ginnastica sul terrazzo di casa. Ogni sera l'appuntamento alle 22,30 sul suo profilo ufficiale Instagram da 2,3 milioni di follower. E lì che l'ex Bobone interista invita tutti i suoi fan, sempre di più ogni giorno che passa, fino ad arrivare a quasi 50mila. Si va avanti fino a notte fonda e da lui sfilano tutti i big del calcio e dello sport. In una settimana Vieri ha parlato in diretta con Ronaldo, Totti, Inzaghi, Veron, Cassano, Di Biagio, Kallon, Adani. A fargli da spalla, quasi un duo comico, c'è l'idolo di Thohir, Nicola Ventola («Il secondo era Fresi», spiega lui) pronto a ballare, cantare e infilarsi parrucche. In queste notti si sono visti pure Valentino Rossi e Mariano Di Vaio. E a ogni telefonata, aneddoti e curiosità a pioggia sul calcio giocato. «Ti volevo regalare i plasmon (i biscotti di cui va goloso Pippo, ndr). Te ne mando 500 confezioni, perché sei l'unico giocatore ad aver segnato al Filadelfia» scherza Bobo con l'amico Inzaghi, ricordando un vecchio Torino-Piacenza Primavera. Oppure Vieri e Ronaldo il Fenomeno. «Eri il più grande tutti, impressionante: infermabile» dice Bobo a Ronie, oggi presidente del Valladolid nella Liga. Oppure con Totti che confessa: «Sai Bobo che non sono più rientrato a Trigoria, non vado a vedere mio figlio che gioca. Non me la sento». E Vieri, incalzato da un Pupone ancora in forma campionato, che ammette ridendo: «Io sono 106 chili ora, oggi ho fatto due volte le scale per allenarmi e volevo chiamare l'ambulanza». Nel duetto con Cassano finisce a parlare del look imbarazzante con cui Fantantonio si presentò a Madrid. Vieri e Matri? L'aneddoto è sulla prima sera al Pineta a Milano Marittima. Con Di Biagio in streaming ci scappa l'ammissione della fuga dal ritiro prima di un Inter-Modena. «Faceva troppo caldo in camera e ce ne siamo andati in pigiama». E si ride, mentre lui beve l'acqua dalla bottiglia. Fan in visibilio social, migliaia di commenti e gente incollata al telefonino fino alle due di notte. La quarantena è anche questo.

Dagospia il 9 maggio 2020. Juve-Inter non finisce mai. Ronaldo in diretta Instagram con Del Piero torna a parlare dello scontro con Iuliano e del rigore non dato da Ceccarini nel ’98: “Posso capire gli errori ma in quel periodo c'era un clima da guerra fredda”. L’ex capitano bianconero ribatte: “La Juve non aveva bisogno di nessun aiuto. C'era una tensione che arrivava da altre parti, non solo dall'Inter. Sono stati anni macchiati ma è stato il periodo più bello del calcio italiano". Sul 5 maggio e lo scudetto perso Ronie non cerca alibi: “L’abbiamo perso noi, senza nessuna altra interferenza”. Lui già aveva rotto con Cuper che nella partita persa con l’Atalanta lo aveva fatto scaldare per 35 minuti: “Avevo capito che il mio futuro sarebbe stato distante da lui”. Ma la partita con la Lazio è un’altra storia. “Sono successe troppe cose strane quella settimana. Si parlava di Nesta all’Inter come affare fatto, siamo andati rilassati all’Olimpico. È una ferita che rimane, ogni anno pubblicano su Instagram le mie foto mentre piango. Ho vinto due mondiali ma non mi fa male parlare delle sconfitte. Nel calcio si vince e si perde…” “Il tuo arrivo in Italia mi ha dato uno stimolo incredibile”, pennella Pinturicchio che ha ancora negli occhi lo slalom speciale e il gol-capolavoro di Ronaldo contro il Compostela: “Ho pensato che quelli del Barcellona fossero pazzi a lasciare andare un attaccante del genere ed ero anche incazzato perché l’aveva preso l’Inter. Ho iniziato ad allenarmi per diventare più veloce, più potente”. “All’Inter è stata una storia d’amore bellissima”, sospira Ronaldo, non solo calcisticamente. 7 anni in Italia, un regalo di Dio. Quando sono arrivato, il campionato italiano era il migliore del mondo. Lì sono iniziate le nostre sfide anche con la Nazionale, come il 3-3 in Francia”. “Anni fantastici in cui è successo di tutto”, riprende Del Piero: “Abbiamo gioito e sofferto per un infortunio che ci ha cambiato la carriera”. Ribatte il Fenomeno: “Quegli incidenti mi hanno reso un uomo migliore. Dopo il primo infortunio, nelle mie chiacchierate con Dio, dicevo spesso: Perché è capitato a me?. Un calvario durato due anni. “Ma ho imparato tanto da questo, ho una nuova disciplina”. Oggi Ronaldo è il presidente del Valladolid che lotta per la salvezza nella Liga: “Mi sto divertendo ma ogni settimana è una sofferenza pazzesca. Nella mia carriera ero abituato a combattere per vincere i campionati, qui c’è da lottare per non retrocedere. La ripresa del campionato? In Spagna i numeri sono calati tantissimo ma il virus è ancora in giro. Troppo rischioso tornare a giocare ma accetteremo qualsiasi decisione. Il Brasile? Ormai ci vado pochissimo. Quest’anno non sono andato neanche per il Carnevale. Quando giocavo litigavo sempre per andarci. Ho fatto casini ma alla fine avevano ragione i dirigenti che mi multavano. Quante cazzate fai da giovane…” Il Fenomeno non dimentica gli anni al Milan ed esalta le qualità calcistiche e umane di Paolo Maldini: “Lui, Del Piero, Totti, Raul e Roberto Carlos meritavano il Pallone d’Oro”. Risponde Del Piero: “Ormai è tardi per vincere il Pallone d’Oro ma verrò a trovarti a Valladolid così mi fai vedere come si fa il presidente…” 

Da corrieredellosport.it il 20 maggio 2020. “Il più grande talento che ho allenato è stato Ronaldo, il “Gordo”. Ma allo stesso tempo è stato quello che mi ha creato più problemi all’interno dello spogliatoio”. A parlare del Fenomeno è Fabio Capello, suo allenatore anche se per pochi mesi ai tempi del Real Madrid nel 2006. “Era solito organizzare delle feste - ha detto a Sky Sport l’ex tecnico -. Una volta Van Nistelrooy mi ha detto ‘Mister, ma qui negli spogliatoi si sente puzza di alcol’. Poi, quando si è trasferito a Milano, abbiamo iniziato a vincere. Ma se parliamo di talento, è stato il più grande, senza dubbio”. Oggi tra i due non c’è nessun problema: “Abbiamo un buon rapporto, chiacchieriamo gentilmente e con piacere”.

Da ilposticipo.it il 10 settembre 2020. Ronaldo il Fenomeno smentisce le tante voci legate alle sue leggendarie feste. Il brasiliano, come riportato da Marca, ha parlato della sua carriera in una intervista con Valdano a #Vamos de Movistar + e ha ammesso di essersi divertito parecchio, ma anche di aver avuto molto a cuore il suo fisico, specialmente dopo gli infortuni.

FESTE – Si è parlato a lungo della vita fuori dal campo di Ronaldo. Feste e divertimento sregolato. Il Fenomeno smentisce. “Ammetto che ci sia una parte di verità. Dopo che si vinceva una partita amavo organizzare delle feste. Il problema è che giocavo in squadre dove si vinceva spesso. Comunque ci sono molte più leggende metropolitane rispetto a quella che è la realtà dei fatti. A volte avrei anche potuto organizzare qualche festa in più, ma non è stato così. Sono sempre stato un professionista molto responsabile, ho sempre cercato di non danneggiare il mio fisico”.

INFORTUNIO  –  Fisico peraltro già messo a dura prova dagli infortuni. Il periodo più delicato è legato ovviamente ai problemi alle ginocchia. “Quando mi sono lesionato il tendine rotuleo, anche dal punto di vista medico, era un qualcosa senza precedenti nella storia del calcio. Erano ignoti anche i tempi di recupero. Qualcuno ha ipotizzato fosse anche impossibile da recuperare”. Invece c’è riuscito ed ha anche vinto un Mondiale. Quindi l’esperienza a Madrid. “È stato un periodo spettacolare. Real Madrid e Madrid sono la migliore combinazione di città e squadra che si possa trovare nella vita”.

ROMARIO – Due mondiali, uno da protagonista, l’altro da… turista. Anche il Fenomeno ha fatto la sua gavetta. E ha svelato alcuni segreti dello spogliatoio brasiliano, compreso il “nonnismo” perpetuato da Romario: “A volte è stato esagerato, ma con me era eccezionale. Arrivava a chiedermi un caffè quasi ogni ora. E dopo l’allenamento è capitato che mi ha dato i suoi scarpini. Per pulirli. Ovviamente dovevo farlo davanti a tutti…”

Ronaldo scrive ai tifosi del Valladolid: "Mi dissero che non avrei più camminato". Il Fenomeno indirizza una lettera ai sostenitori del club di cui è presidente per incoraggiarli a superare la pandemia di coronavirus: "Ho vinto la mia sfida principale, usciremo più forti anche da questa situazione". La Repubblica il 26 aprile 2020. "Mi dissero che non avrei più camminato, ho combattuto e sono riuscito a vincere". Luis Nazario da Lima, al secolo Ronaldo, usa la sua storia personale per invitare i tifosi del Real Valladolid, squadra di cui è presidente, a non mollare. Il coronavirus sta mettendo a dura prova la Spagna e l'ex fuoriclasse dell'Inter indirizza una lettera ai sostenitori del club della comunità autonoma di Castiglia e León per incoraggiarli in questo periodo di pandemia: "Sembrava che la mia stessa vita mi fosse stata tolta, ma fu in quei momenti che i miei limiti furono messi alla prova e mi impegnai a superarli. Siamo separati dalla distanza fisica, ma sono convinto che non siamo mai stati così vicini. Siamo dentro le nostre case per noi stessi, per coloro che amiamo, per tutti quelli che non conosciamo nemmeno e per coloro che non possono più stare con noi. Ti scrivo per ringraziarti di essere lì, per la pazienza, la cautela e il tuo ottimismo, nonostante tutte le difficoltà, le sfide e le perdite che stiamo affrontando in questi tempi difficili".

"I Mondiali 2002 momento più emblematico in carriera". "Il calcio mi ha insegnato molte cose - scrive ancora il Fenomeno  - Quando ho subito il mio più grave infortunio al ginocchio, mi dicevano che non avrei mai più potuto camminare. Io combattei per cambiare quelle opinioni e mostrare a tutti che potevo fare quello che desideravo di più. Alla fine arrivò il momento, forse il più emblematico di tutta la mia carriera, nel 2002 in Giappone, nella finale dei Mondiali. Segnai due gol contro la Germania per il mio paese, fu la consacrazione del mio ritorno. Sono sicuro - conclude Ronaldo  - che anche tu, quando guarderai indietro, ricorderai quante volte ti sei rialzato e quante volte, nel corso della tua vita, sei riuscito a superare le difficoltà per rendere possibile l'impossibile e arrivare dove sei. Siamo insieme e usciremo più forti da tutto questo".

Claudio Savelli per “Libero quotidiano” il 22 aprile 2020. Ad un certo punto, i collegati sono 67mila. Lele Adani sta raccontando un aneddoto dei tempi all' Inter: «In ritiro a Brunico, Bobo Vieri arriva in anticipo di dieci minuti per il pranzo e siccome non volevano farlo entrare "sfonda la porta della sala". Aveva voglia di insalata». Vieri se la ride. Noi altri, davanti allo smartphone, pure. Mentre le televisioni cullano i loro spettatori con programmi già trasmessi in passato, Vieri, forse proprio perché anche lui annoiato dai programmi di cui sopra, ne inventa uno suo. Ogni sera chiama un amico in diretta su Instagram. Uno soltanto, all' inizio: spesso Nicola Ventola, i cui siparietti sono già un cult. Nasce un talk-show in cui due ex giocatori dialogano come se non ci fosse nessuno ad ascoltarli. Non c' è studio, non ci sono telecamere, così quasi si dimenticano di quei 67mila. Bobo, ad esempio, ricorda la visita a casa di Robbie Keane, appena arrivato all' Inter: «Mi chiede se voglio qualcosa da bere. Apre il frigo: aveva dentro 300 birre!». Poi gli amici sono diventati due, tre, cinque: chi viene cercato e chi si offre, benvenuti, a casa Vieri c' è spazio per tutti. Ma va fatta una scaletta. E Bobo appunta i turni. Diventa un programma televisivo che non ha bisogno della tv, ma ha tutti gli ingredienti del successo: la diretta, la freschezza, l' autenticità. Gigi Di Biagio va dritto al grande aneddoto: la fuga dal ritiro prima di un Inter-Modena. Lui e Bobo evadono in pigiama perché faceva caldo. Ma niente discoteche, come si era detto ai tempi: quante volte i giornalisti ci ricamano sopra? Altre volte invece rimane tutto tra le mura dello spogliatoio, come quando Pippo Inzaghi, in Nazionale, inganna il Trap: «Bobo ha un problema all' adduttore», disse al ct nell' intervallo di Italia-Azerbaigian, pre-Mondiale 2002. Trapattoni aveva azzardato il tandem pesante, con Totti alle loro spalle, ma Pippo sapeva che ad inizio ripresa avrebbe tolto uno dei due. Non lui: fuori Bobo. «Esco e tiro una bottiglietta al Trap, che si gira e mi chiede "perché lo hai fatto?". E io: "perché mi hai sostituito". E lui: "Pippo mi ha detto che stavi male"», ricorda Bobo, ridendo. Inzaghi puntualizza: «Segnai una doppietta». Mentre parla Cassano («Ad Euro 2004 potevamo andare più avanti: eri in formissima, poi ti sei fatto male»), Ronaldo commenta per scritto con un messaggio. Fantantonio esprime ammirazione: «L' unico vero Ronaldo, il Fenomeno». Quest' ultimo è acclamato, Vieri mantiene la promessa: «Ronnie!». Si parla di Taribo West, inesauribile fonte di storie: «Lo sfidai con l' Under 15 del Brasile, lui era nell' Under 20 della Nigeria. Quando arrivai all' Inter, nelle distinte aveva la mia stessa età», racconta il Fenomeno. «Non si sa quanti anni abbia», aggiunge Vieri. Bobo ne ha per tutti, e tutti ne hanno per lui. Veron lo sgrida: «Avrei voluto giocare con te quando mi prese la Lazio». Con Matri invece l' incontro è avvenuto extra-campo: «Brocchi mi disse di chiamarti per la serata al Pineta. Arrivi e chiedi: "Chi gioca nel Prato?", la tua squadra delle giovanili. Alzai la mano». Si trascende il calcio, con Valentino Rossi che invita Bobo a Tavullia, ma sempre lì si torna: Totti esonera Vieri per il calciotto, o meglio, è quest' ultimo a chiamarsi fuori («Peso 106 chili: ho fatto due volte le scale e volevo chiamare l' ambulanza»). Poi l' ex capitano giallorosso confessa: «Non sono più rientrato a Trigoria. Accompagno mio figlio ma sto fuori. Non me la sento». Hernan Crespo, in televisione, non avrebbe mai strizzato l' occhio a Bobo sulla gestione di Cuper: «Avevo comprato casa a Milano, stavo benissimo all' Inter. Dopo dieci giorni mi vendono al Chelsea. Tu, Bobo, avevi fatto casino sui giornali. Ma sono cosette che il nostro amico mister faceva». E il precedente, tra le righe, fu l' addio di Ronaldo dell' estate precedente. Poi spunta Kallon, altro attaccante di quei tempi interisti, tra i più desiderati dal pubblico: Bobo lo cercava da due giorni. Racconta che sta frequentando il corso di allenatori con Pirlo, ma vive a Houston, dove allena le giovanili. Diventa un' intervista dove Bobo fa la parte del giornalista. Allora è chiaro: stanno rivoluzionando la comunicazione nel calcio, senza nemmeno saperlo. Con due telefoni appoggiati sul tavolo, intrattengono il pubblico divertendosi e divertendo. Non perché sono bravi o famosi, ma perché possono raccontare le loro storie in libertà, inedite ma familiari al pubblico. Vieri è uno di noi, e noi siamo Vieri. Non esiste più il confine, infatti appena un grande ospite termina la diretta, rimane connesso per guardare quella successiva. E commenta, in mezzo agli altri 60mila. Così anche lui diventa uno di noi.

Da corrieredellosport.it il 23 aprile 2020. "Non è facile questo periodo. È già un mese che stiamo in casa con due bambine piccolissime e cerchiamo di far passare loro il tempo. Ormai ho raggiunto 106 kg, aumento tutti i giorni. Se riesco a tornare a 95 kg sarebbe fenomenale, ma mi dovrei mettere a dieta e fare più esercizi. In questo momento però sono pigro". Lo ha detto l'ex attaccante di Inter, Juventus, Milan, Lazio e Nazionale Bobo Vieri, intervenendo a Porta a Porta su Rai1.

Vieri e la confessione di Totti. "Nel frattempo faccio qualche intervista sui social con tanti miei ex compagni e parliamo di calcio, di vita quotidiana ed episodi del passato. Sono due orette che passiamo in bella compagnia - ha aggiunto -. Ad esempio Totti mi ha confessato che accompagna il figlio a giocare nelle giovanili della Roma, ma non entra a Trigoria. Una cosa brutta da sentire da uno come lui che alla Roma è stato 30 anni e ha dato tutto alla società".

Alessandro Bocci per il “Corriere della Sera” il 23 aprile 2020. Ha sfondato le reti, ora sfonda in rete. Christian Vieri conserva lo spirito goliardico di quando è stato il centravanti che annichiliva le difese. L' Atletico Madrid lo ha pagato 34 miliardi, la Lazio 55, l' Inter 90. E in Nazionale ha segnato 9 gol ai Mondiali come solo Rossi e Baggio. Al tempo del coronavirus è diventato un punto di riferimento sui social con lunghe e divertenti dirette Instagram in cui ha coinvolto i suoi vecchi compagni. Il successo è assicurato, come quando giocava.

Bobo, partiamo dalla maglia azzurra.

«Per me speciale. Impazzivo quando l' indossavo. Tranne che nelle amichevoli, quelle non mi sono mai piaciute. Da ragazzino, in Australia, avevo due sogni: la serie A e arrivare in Nazionale. Posso dichiararmi soddisfatto».

Nove gol in due Mondiali, Francia e Corea-Giappone, è un' impresa.

«Non sono il tipo che vive di rimpianti. Per me i se e i ma non esistono. Quando gli amici raccontano e commentano quello che ho fatto, di solito esco dalla stanza. Mi concentro sul presente. Sono in un' altra fase della vita».

Tra Milano e Miami.

«Ora a Milano, chiuso in casa da 40 giorni per il coronavirus. Ma essendo diventato padre per la seconda volta avevo scelto di rimanere in Italia. Poi si vedrà. Mai ipotecare il futuro».

La sua stagione migliore all' Inter.

«Sei anni pazzeschi, ho dato tutto e creduto nel progetto.A San Siro c' era un' atmosfera elettrica. Ogni volta che scendevamo in campo per il riscaldamento sentivo il calore e l' affetto della gente».

Ha giocato con Ronaldo.

«Il Fenomeno. Per me il miglior centravanti del mondo, anche fuori dal mondo. Insieme abbiamo passato tre anni fantastici. È stato il primo a fare il doppio passo e correva più forte lui con il pallone che il difensore senza».

Altri centravanti che le sono piaciuti?

«Prima di Ronie, Van Basten, tecnicamente formidabile. Poi Vialli e con lui Mancini, anche se Roby non è stato un nove».

E Baggio?

«Lo andavo a vedere in curva Fiesole a Firenze».

Gigi Riva?

«Per me un esempio. Quando sono arrivato in serie A dicevano che assomigliavo a lui per la fisicità e la forza del tiro».

Torniamo a Mancini, le piace la sua Italia.

«Era tanto tempo che non vedevo giocare così bene la Nazionale. Gliel' ho sia detto che scritto. C' è confidenza tra noi: all' Inter l' ho fatto venire io (ride, ndr ). Sa cosa mi piace del Mancio?».

Prego.

«Che esalta le qualità dei giocatori. Vede i giovani e non ha paura a lanciarli, ma al tempo stesso non trascura qualche vecchietto se lo merita».

Lei sarebbe stato il centravanti perfetto per questa Nazionale.

«Solo perché avrei avuto vent' anni».

Che ne dice di Immobile e Belotti?

«Ciro è maturato e sta facendo tanti gol. Ora però deve fare uno scatto in avanti con la maglia azzurra e non lo dico per criticarlo. Il Gallo è tosto, ma da uno con le sue qualità mi aspetto 18/20 gol a stagione».

E fuori dall' Italia chi le piace?

«Haaland è il più forte di tutti e ha fatto bene a scegliere il Borussia Dortmund, la società migliore per valorizzare i ragazzi. Tra un paio d' anni se ne andrà in una grandissima squadra per 200 milioni, forse 300».

Due Mondiali, il terzo svanito per poco.

«Lippi nel 2006 mi voleva portare in Germania. Ma avrei dovuto giocare e al Milan stavo in panchina. Così a gennaio ho scelto di trasferirmi al Monaco, in Francia, però mi sono rotto il ginocchio e tutto è svanito. Il calcio è così».

All' Inter è cominciata bene e finita male.

«C' è stata quella brutta storia dei pedinamenti, ma non ho mai fatto niente di sbagliato».

Oggi da chi le piacerebbe farsi allenare?

«Klopp. Mi intriga il suo calcio, veloce e aggressivo. Sta facendo giocare il Liverpool come prima il Borussia Dortmund. Stesso discorso vale per Guardiola».

Ripensa mai al famoso 5 maggio?

«Fa parte del calcio. Si vince e si perde. Quella sconfitta ci ha distrutti perché eravamo stati in testa dall' inizio. E subito dopo, l' Italia è stata eliminata al Mondiale dalla Corea. Due botte così ravvicinate hanno lasciato il segno. Però sono state anche un incentivo per ripartire meglio».

Adesso, in piena emergenza, è giusto ricominciare?

«Capisco le istanze del calcio, che stando fermo ci rimette milioni di euro. Ma in questo momento è più importante la gente. La salute viene prima. Quando il pallone potrà ripartire,lo farà».

Vincerà ancora la Juventus?

«Ne ha messi in fila otto, prima o poi uno lo perderà. È una questione di motivazioni. Sino adesso non è stata particolarmente convincente, però è in testa in campionato, negli ottavi di Champions e in semifinale di Coppa Italia. E con Cristiano Ronaldo si gioca sempre per vincere».

Che riflessioni sta facendo in questa lunga clausura?

«Provo una tristezza infinita per tutte le persone che sono mancate e che avrebbero meritato un funerale degno con amici e parenti. Purtroppo nessuno si aspettava che il virus fosse così letale, ma gli italiani si stanno comportando bene. Siamo forti e orgogliosi e pian piano ne verremo fuori. Sicuro».

Da video.lastampa.it il 22 aprile 2020. Durante una diretta Instagram con lo chef Davide Oldani, l'ex difensore dell'Inter e della Nazionale Marco Materazzi si confessa. Nella lunga chiacchierata in streaming si ritorna a parlare anche di quel 9 luglio 2006, quando nella finale dei Mondiali Zidane lo colpì con una testata al petto. Il calciatore rivela dopo 14 anni cosa gli fece più male. Non si trattò di un dolore fisico ma prettamente psicologico. Come spiega Materazzi gli fecero male le rimostranze di tanti italiani, anche illustri. "Cossiga mi massacrò, Stefano Accorsi (all'epoca sposato con l'attrice e modella francese Letizia Casta) mi massacrò, so quello che hanno detto e non lo dimentico" spiega l'ex calciatore, mentre per Zidane il trattamento in Francia fu completamente diverso secondo lui.

Da corrieredellosport.it il 19 maggio 2020. "La Roma è un sogno che mi sono tenuto stretto. Ho detto no al Real anche se Ilary mi spingeva ad andare". Dopo le anticipazioni di ieri, ecco l'intervista completa di Francesco Totti alla rivista spagnola Libero. Tanti i temi trattati, uno su tutto il suo addio alla Roma e il rapporto con l'ex direttore sportivo giallorosso Monchi. 

La Roma o la Lazio? "Perché la Roma o la Lazio? A me non dovete chiederlo. Per me Roma è la Roma. La Lazio non esiste. Non posso fare paragoni. Ciò non significa che sto parlando male di loro, tutt’altro. Per me la Roma è unica, così come i suoi tifosi. Sono passionali, sentimentali, danno tutto per la maglia".

Sui tifosi della Roma. "Sono sempre stato un tifoso della Roma. È stato un sogno vestire quella maglia, il numero dieci, la fascia da capitano. Una volta che sono riuscito a ottenere questo sogno me lo sono tenuto stretto. Sono stato più fortunato rispetto a molti altri. Roma per me è la città più bella del mondo. Mare, montagna, sole, amici, parenti. Per me è una città che non cambierei con nessun altra al mondo”.

L’offerta della Lazio nella giovanili. "Mia madre era della Lazio per mia nonna. Io giocavo nella Lodigiani, hanno chiamato i miei genitori e a me mi ha chiamato mio fratello Riccardo per parlare di queste due opzioni. Non ho avuto dubbi, mio padre e mio fratello erano della Roma. Ho scelto la Roma, però loro avrebbero preferito la Lazio perché avrebbe pagato. Per fortuna è stata la scelta migliore".

Sulle volte che è stato vicino al Real Madrid. "Almeno due. Ne ricordo una, nel 2003. Mi restava un anno di contratto. Ci sono stati alcuni problemi con il presidente per altri motivi, non miei personali. E il Real Madrid mi offriva qualsiasi cifra per andare lì. Complessivamente qualcosa come venti, venticinque milioni. E alla Roma molti soldi. Io, tra alcune cose e altre, avevo una convinzione di andare dell’80%. Inoltre, con la Roma non vivevo il mio momento migliore. Mi hanno offerto molto, qualsiasi cosa, anche la “10” di Figo, che avrebbero venduto all’Inter. C’era Raúl, capitano, simbolo di Madrid, che era quello che guadagnava di più. Ogni giocatore che arrivava doveva guadagnare meno di lui. Ci ho pensato molto. Ilary (non eravamo ancora sposati) mi disse che stava lasciando il suo lavoro e che sarebbe venuta con me. Alla fine Sensi mi ha parlato, abbiamo chiarito tutto… E sono rimasto. È stata una scelta dal cuore in cui la famiglia, gli amici, i tifosi e la Roma hanno pesato molto. Ho avuto la sensazione di fare qualcosa di diverso da quello che fanno normalmente gli altri, che non respingono club di questo tipo. Mi sentivo un grande giocatore e, allo stesso tempo, diverso. Con l’amore verso una maglia. Giocare con loro (il Real Madrid, ndr), appartenere a quel gruppo, sarebbe già stato fantastico. Non giocare dall’inizio non sarebbe stato un problema. Il Real Madrid non è un club normale. A tutti sarebbe piaciuto giocare lì".

La relazione con Cassano. "Cassano è un fratello minore. E’ venuto a Roma per me, perché diceva che fossi il suo idolo. Lo voleva la Juve ma ha scelto la Roma. Voleva giocare con me, era innamorato del mio calcio. Non ha avuto un’infanzia facile, così quando è arrivato a Roma l’ho portato a casa con i miei genitori. In allenamento massacrava tutti, a eccezione di me Batistuta e Samuel. Zebina, Delvecchio, Tommasi… quando sbagliavano un passaggio gli diceva: “Sei un pippone, vai a lavorare in farmacia”. Ti fa capire che personalità avesse. Era giovane e sfidava i trentenni. È vero che aveva torto, perché devi sempre avere rispetto .. Ma lo conoscevamo e sapevamo già com’era. L’abbiamo semplicemente accettato. A volte era persino esagerato, perché non aveva limiti, filtri, freni. Quando cominciava non la smetteva. Con Capello ha litigato milioni di volte. Si inseguivano in mezzo al campo durante l’allenamento. Ho visto scene incredibili, ma Fabio lo adorava perché sapeva di avere a che fare con un fenomeno. Capello voleva buoni giocatori, con carattere, e Cassano lo era".

Sul ritiro. "Sono coerente con me, con il mio fisico e con la mia testa. So che c’è un inizio e una fine. Però ci sono giocatori come Messi, Ronaldo, me… con il diritto di decidere. Avrei fatto bene alla Roma anche oggi, ma non perché sono Totti, bensì per l’ambiente, i giocatori, l’esperienza, il marketing, per tutto. Non avrei nemmeno dovuto giocare tutte le partite, una sì e tre no. Venti minuti in una, la Coppa…”

Su Luis Enrique a Roma. "Non ha fatto bene, ma è anche vero che non aveva una squadra per vincere. Ci eravamo sfidati in passato come giocatori e mi aveva già lasciato il segno: cinque punti di sutura sulla gamba".

Vincere a Roma. "E’ speciale perché succede una volta ogni venti anni. Purtroppo è la verità. Quando la Juve vince, festeggia solo una notte, quella della domenica. Lunedì è già finito tutto. Invece quando noi abbiamo vinto con Capello a Roma si è fatto festa per tre o quattro mesi. Una festa senza fine… perché non siamo abituati. Non siamo il Real o il Barcellona, forti anche in Europa. Se vinciamo tre campionati di fila, forse al terzo finisce l’euforia".

Il ruolo dell’allenatore. "Ognuno ha la sua opinione. Per me l’allenatore è essenziale, ma più come gestione che come capacità di allenare. Se hai una squadra da 20 stelle, è difficile dire a uno di loro come fare la diagonale. Se fossi un allenatore, direi: “Mettiti la maglietta e gioca”. Cosa può dire Zidane a Sergio Ramos? Deve gestire il gruppo. Stile Mourinho, intelligente, sveglio. Si assume la piena responsabilità e dà libertà alla squadra. Per me questo è il concetto di grande allenatore".

Sul cucchiaio. "Sergio Ramos ha la qualità per farlo. Tira i rigori molto bene, è un grandissimo giocatore. Però la verità è che oggi il cucchiaio si è convertito in un gesto banale, si fa come se fosse una cosa normale. Il mio all’Europeo contro l’Olanda fu spontaneo. E’ nato da una battuta in allenamento. E’ un gesto che mi è venuto sempre istintivo, ma non volevo mancare di rispetto a nessuno. Quando giocavo pensavo a chi pagava il biglietto e volevo farli divertire. Mi piaceva far divertire la gente e ci riuscivo quasi sempre. Anche nella Roma. Quando vedevo Zidane o Ronaldo fare certe cose mi identificavo con loro. Per questo mi piacevano tanto".

Su Zidane. "Credo che Zidane sia uno dei cinque giocatori in tutto il mondo che hanno fatto impazzire i tifosi. Era completo, elegante, faceva quello che voleva. Aveva testa, piedi e spirito diversi dagli altri. Lo guardavo e lo ammiravo e ringraziavo la vita per avere questa possibilità".

Su Monchi. "Un rapporto con alti e bassi. Non mi sono mai sentito importante nel progetto. Lui per me è una persona leale, sincera, molto professionale. Non è stato facile il suo arrivo. E’ passato da Siviglia, dove è rimasto per 30 anni, a Roma dove tutti si aspettavano il massimo. E’ arrivato in un momento singolare della gestione americana, penso sia stato mal consigliato. Non si è circondato delle persone che volevano davvero lasciargli fare il suo lavoro. Ha avuto fiducia in altri che pensavano di più a se stessi". 

Alessio Morra per fanpage.it il 28 settembre 2020. Ci sono dei momenti calcistici che vengono ricordati per sempre, ma non sempre c'è qualcosa di bello da commentare o riguardare. Tra questi eventi poco edificanti, va anche il calcione che Francesco Totti rifilò a Mario Balotelli nel corso della finale di Coppa Italia 2010. Il Capitano della Roma venne espulso e ricevette una durissima squalifica, naturalmente volarono parole grosse tra i due. Ma a distanza di dieci anni Totti ha ammesso che quello era stato il fallo più brutto che ha mai fatto nella sua carriera, e durante il lockdown ci ha scherzato su con Balotelli. La Roma pochi giorni prima di quella finale perdendo 2-1 in casa con la Sampdoria aveva vanificato una grandissima rimonta e aveva gettato al vento, per la verità con tanta sfortuna, la possibilità di vincere lo scudetto, l'Inter ne approfittò e si mise avanti in campionato. Mourinho iniziò il suo mese indimenticabile vincendo 1-0 la Coppa Italia a Roma contro la Roma. Era il 5 maggio (un giorno non casuale per i tifosi nerazzurri) del 2010 quando Milito segnava il gol della vittoria e regalava l'ennesimo trofeo dell'era Moratti all'Inter. Ma quella partita è contrassegnata anche da quel brutto fallo di Totti a Balotelli. Mancavano tre minuti alla fine di quella partita quando Totti colpì con un calcione Mario Balotelli, un fallo senza senso L'arbitro non poté far altro che espellerlo. In "Un Capitano", scritta con Paolo Condò, Totti ha parlato di quell'episodio e ha raccontato che con Balotelli c'erano già dei precedenti e in quella partita aveva sentito l'attaccante, allora nemmeno ventenne, dire qualcosa di offensivo contro i romani, e nel finale di partita dopo un altro scambio di battute non ci vide più e lo colpì: “Con Balotelli c’erano già dei precedenti. Quella sera insulta di nuovo i romani, De Rossi è lì lì per colpirlo, viene ripreso persino dai suoi compagni. Dico ai miei vicini di panchina “Se entro, lo sfondo”, e davvero mi prudono le mani. Ranieri mi butta dentro all’inizio della ripresa, siamo sotto di un gol, provo a organizzare la rimonta ma non è cosa, stavolta l’Inter è più forte. Questo ovviamente aggiunge frustrazione. Così, a tre minuti dalla fine, non ci vedo più. Mi batto lungo una linea laterale con Balotelli, che a gioco fermo mormora qualcosa tipo “Quando mi prendi?”, condito da un insulto. La misura è colma. Il gioco riprende: lui parte palla al piede verso la linea di fondo, io lo inseguo determinato non solo a colpirlo, ma a fargli proprio male. Mi apro uno spazio fra Taddei e Marco Motta, che devono controllarlo mentre io lì non c’entro niente, e gli assesto da dietro un calcio terribile. La palla non so nemmeno dove sia, miro alla caviglia, e lui si accartoccia a terra urlando di dolore. Un fallo bruttissimo. Non aspetto nemmeno il cartellino rosso di Rizzoli, è scontato, e vado via. Incrocio Maicon, col quale ci diamo il cinque. Mi rispetta come io rispetto lui, è ovvio, ma a ben guardare l’assenza di reazione interista è generale, e questa è la peggiore delle condanne per Balotelli: il mio non è stato un fallo di gioco, è stato un fallo da rissa che dovrebbe portare i suoi compagni ad assalirmi, a parole e a spintoni, e i miei a difendermi. […] Invece il mio fallaccio non provoca conseguenze. Esco con la sensazione che pure i compagni vorrebbero menarlo, mentre l’Olimpico viene giù dagli applausi”. Si dice spesso che il tempo aggiusta le cose, molte volte è davvero così. In una diretta Instagram, durante il lockdown la scorsa Primavera, Totti chiacchierò amabilmente con Fabio Cannavaro. Ai tanti commenti di quella spassosa chiacchierata ne arrivò pure uno di Balotelli che scrisse: "Mi fa ancora male la gamba", Totti lesse quel messaggio e rispose: "Ti sei salvato che non ti ho preso bene". In una diretta Instagram con Damiano "Er Faina", sempre nei mesi scorsi, SuperMario parlò di Totti e disse di non avercela mai avuta con il numero 10 giallorosso per quel fallo. E Balotelli ha detto che lui stesso pensa che in quel campionato il simbolo della Roma aveva dei problemi suoi e per questo era così nervoso: “Io se avessi avuto veramente qualcosa contro di lui glie lo avrei detto. In quel momento ho capito che non ero io il problema per lui. Ha fatto un brutto fallo, ha preso il rosso: cosa altro devo dirgli? In quella partita si è preso le sue conseguenze. Negli anni passati le scuse non me le ha dette, ma il problema non è quello: non ero io il suo obiettivo. Aveva altri problemi in quella partita. Non ce l’ho neanche mai avuta con lui. Ricordo che il campionato dopo l’ho abbracciato. Ha sbagliato e ha pagato. Non c’era bisogno che chiedesse scusa in quel momento”.

Francesco Balzani per leggo.it il 12/10/2020. Il Covid uccide. Questo si sa. E purtroppo stamattina ha fatto scendere le lacrime sul viso di Francesco Totti per la scomparsa di suo padre, Enzo. Aveva spento lo scorso maggio 76 candeline ed oggi, lunedì 12 ottobre 2020, è deceduto all'Ospedale Lazzaro Spallanzani a causa del Covid-19. Saranno state decisive, come nella maggior parte dei decessi per mano del coronavirus, le patologie croniche pregresse: qualche anno fa Enzo, detto “Lo sceriffo”, era stato infatti colpito da un infarto, che lo aveva tenuto lontano dalle trasferte per seguire il figlio Francesco in giro per l'Italia.

Aveva 76 anni. Coronavirus, morto il papà di Francesco Totti: era ricoverato allo Spallanzani. Redazione su Il Riformista il 12 Ottobre 2020. Grave lutto per Francesco Totti e la sua famiglia. Il papà Enzo, 76 anni compiuti lo scorso maggio, è morto questa mattina, lunedì 12 ottobre, all’ospedale Spallanzani di Roma dove era ricoverato da alcuni giorni per gravi patologie polmonari e dopo aver contratto il coronavirus. A riportare la notizia è il quotidiano IlTempo.it. “Tutto quello che mi hai insegnato lo sto trasmettendo ai miei figli, i tuoi nipoti. Grazie di tutto papà mio, anzi sceriffo” scriveva sui social l’ex campione della Roma in occasione dell’ultima festa del papà. Enzo Totti lascia la moglie Fiorella e un altro figlio, Riccardo. “Ciao Enzo. Il nostro abbraccio va a Fiorella, Francesco, Riccardo e a tutta la famiglia TOTTI” il cordoglio della Roma attraverso i profili social.

Francesco Totti, il papà Enzo morto con il coronavirus: "In una settimana". Inquietante: come a marzo? Libero Quotidiano il 13 ottobre 2020. La morte per coronavirus di Enzo Totti, lo "sceriffo" papà di Francesco Totti ha sconvolto l'ex capitano della Roma e sua moglie, Ilary Blasi, così come tutto il mondo giallorosso e del calcio italiano in generale. Ma c'è qualcosa che inquieta dal punto di vista clinico: aveva 76 anni, compiuti lo scorso 3 maggio, e un quadro clinico non facile aggravato (problemi di cuore, pressione e diabete) che lo hanno reso vulnerabile al Covid. Si direbbe, con formula ormai tristemente nota, morto "con il coronavirus" e non "per il coronavirus". Tuttavia, un dato non è da sottovalutare: Papà Totti ha accusato i primi sintomi del virus solo all'inizio della scorsa settimana, con un rapidissimo peggioramento a partire da martedì. Giovedì il ricovero allo Spallanzani e nel weekend l'aggravamento letale. Un copione drammatico, già visto e letto centinaia, anzi migliaia di volte nel momento più tragico dell'epidemia, tra marzo e aprile. Un triste monito, nel giorno del nuovo dpcm emergenziale in vista della seconda ondata.

Luca Valdiserri per corriere.it il 13 Ottobre 2020. «Di qualsiasi cosa uno abbia bisogno, tempo mezz’ora e lui te la procura». Questo era Enzo Totti nelle parole di suo figlio Francesco. Un papà che risolveva i problemi. Un papà che c’era sempre. Un papà che sapeva farsi volere bene non solo dai suoi figli ma da tutti. Così Francesco l’aveva descritto nella bella autobiografia scritta insieme a Paolo Condò, così l’ha vissuto ogni giorno che hanno passato insieme. Lorenzo Totti, ma tutti lo chiamavano Enzo, è morto lunedì a Roma, dopo essere stato ricoverato all’ospedale Spallanzani, per le conseguenze del Covid-19. Aveva 76 anni, in passato aveva avuto problemi cardiaci e negli ultimi tempi era alle prese con altre patologie, soprattutto il diabete, che si sono rivelate fatali. Lascia la moglie Fiorella, i figli Francesco e Riccardo, sei nipoti. «Credo che il primo ad aver percepito la dimensione del mio talento sia proprio stato papà Enzo. Diminutivo di Lorenzo, ma lo chiamano Sceriffo perché ama tenere tutto sotto controllo». Parola di Francesco. Lo Sceriffo era una presenza costante. Più silenzioso di mamma Fiorella, ma quando parlava sapeva arrivare a segno. Così provocava Francesco («Tuo fratello è più bravo di te») per tirargli fuori il meglio. O convinceva i ragazzi più grandi di piazza dell’Epiro a far giocare il figlio con loro anche se lo chiamavano Gnomo. Tempo cinque minuti e tutti capivano che era il più bravo e chiedevano di rifare le squadre per ritrovare un minimo di equilibrio tra le forze in campo. Enzo era una figura presente. Seguiva tutte le trasferte di Francesco ma anche i suoi allenamenti a Trigoria. A ogni compleanno del figlio, il 27 settembre, si presentava in spogliatoio con pizza bianca e mortadella per tutti. Non c’era allenatore, nemmeno Luciano Spalletti, che non ammettesse quello sgarro alla dieta dei calciatori. Negli ultimi tempi si era «dedicato» a Cristian, il primo nipote, ed era facile incontrarlo su molti campi della periferia romana, dove il nipote giocava con la maglia delle formazioni giovanili della Roma. Meglio in trasferta, però, perché la ferita dell’addio al campo di Francesco prima e quella dell’addio al ruolo di dirigente poi avevano lasciato il segno. L’ultima presenza di Enzo Totti allo stadio Olimpico era datata 28 maggio 2017, partita di addio di Francesco, contro il Genoa. Un rito collettivo dove la sofferenza di tutti era stata perfettamente sintetizzata dallo striscione di un tifoso: «Speravo di morì prima». Enzo Totti, prima della pensione, era un impiegato di banca. Sempre nell’autobiografia «Un Capitano» c’è il racconto dell’assegno che il giovanissimo Francesco ricevette per la partecipazione alla Coppa Uefa, anche se non aveva giocato nemmeno un minuto: 218 milioni di lire che i senatori della squadra avevano voluto anche per il «pupo», a simboleggiare che ormai era uno dei gruppo. Francesco era tornato a casa il venerdì sera, con l’assegno in tasca, terrorizzato di perderlo. La banca apriva soltanto il lunedì mattina. Papà Enzo fece la guardia. «Ma non perché avevamo bisogno di soldi. Nella mia famiglia non è mai mancato nulla». Sarà papà Enzo che mancherà. E mancherà a tutti quelli che lo hanno conosciuto, perché sdrammatizzava le situazioni e aveva sempre mantenuto quello spirito romano che ha poi passato nel Dna di Francesco. La battuta pronta, ma la sensibilità sempre. Conosceva il suo ruolo, sapeva aiutare anche soltanto con uno sguardo. Tante le manifestazioni di cordoglio. Dalla politica — la sindaca Virginia Raggi, il presidente regionale Nicola Zingaretti — allo sport. La Roma ha scelto parole semplici ma sentite: «Ciao Enzo, il nostro abbraccio va a Fiorella, Francesco, Riccardo e tutta la famiglia Totti». Il Real Madrid, che in passato aveva fatto carte false per portare Francesco a giocare al Bernabeu, ha dimostrato ancora una volta che la classe non è acqua postando un sentito ricordo «a la leyenda de la Roma». Ma ancora più importanti per Francesco, sicuramente, sono stati i tantissimi messaggi sui social media anche dei tifosi di squadre diverse che hanno voluto essergli vicini nel dolore. Lazio, Juve, Milan, Inter, Napoli... Rivalità acerrime dimenticate in nome di un calcio che non c’è più. Quello di un papà che portava «pizza e mortazza» in spogliatoio. Quello che tempo mezz’ora ti porta tutto quello di cui hai bisogno.

CIAO, SCERIFFO. Piero Torri per il Romanista – ilromanista.eu il 13 Ottobre 2020. Un'età non eccessiva, settantasei anni, una salute da tenere costantemente sotto controllo, i primi sintomi del maledetto Covid, il ricovero allo Spallanzani, pochi giorni prima di dire ciao Fiore', ciao Ricca', ciao France', ciao nipotini miei, ciao amici, ciao Roma. Se ne è andato con la discrezione di un papà che non ha mai pensato di esserlo di un campione, ma sempre e comunque di Francesco. Lui e mamma Fiorella che vogliamo abbracciare con tutto il cuore, hanno avuto un ruolo fondamentale nella straordinaria carriera del Capitano. Capaci di non farsi mai travolgere dalla crescente popolarità e ricchezza, la mamma accompagnandolo tutti i giorni a Trigoria, lo Sceriffo provocandolo con quel disincanto romano (e romanista) che poi abbiamo conosciuto ancora meglio con Francesco. Gli diceva, lo Sceriffo, «guarda che sei scarso, quello bravo è tuo fratello Riccardo». Sapeva che non era vero, ma sapeva anche che quelle parole avrebbero stimolato il figlio, «mo' papà ti faccio vedere io». Glielo ha detto fino a quando il Dieci ha appeso gli scarpini al chiodo, quasi che volesse continuare a sfidarlo felice di perderla quella sfida. Perché lo Sceriffo sapeva meglio di chiunque altro le qualità di quel ragazzino biondo che aveva visto crescere andando ogni sera a letto con il pallone tra le braccia. Ne ha seguito la carriera con una discrezione fuori dal comune, quella discrezione che dovrebbe essere un esempio per tutti quei papà convinti di avere un figlio campione. Lo Sceriffo lo era sul serio il papà di uno straordinario fuoriclasse, ma non l'ha mai detto a nessuno, a cominciare dal figlio, sempre più felice di vederlo diventare un'icona di una città, di una tifoseria, vestito con quei colori giallorossi, che erano i colori del suo cuore. Chi scrive, nel corso della sua carriera, ha avuto il piacere di incontrarlo parecchie volte lo Sceriffo. Al seguito del figlio «scarso», in camper nei ritiri, con gli amici di sempre, una partita a carte, uno sguardo attento, da lontano, agli allenamenti del Capitano, pronto a rimproverarlo se si fosse dimostrato maleducato nei confronti di un allenatore, di un compagno, o un tifoso. Lo abbiamo incrociato anche in diversi stadi italiani ed esteri, sempre in disparte, mai davanti ai riflettori, il palcoscenico era di Francesco e lui era felice di questo, di vedere che quel suo ragazzino biondo stava conquistando il mondo. Non sempre, lo Sceriffo, finiva di vedere le partite. Soprattutto in trasferta. Sopportava poco che insultassero il figlio, allora preferiva alzarsi e andare via. Con la solita discrezione che in venticinque anni di carriera del Dieci lo ha portato a non concedere mai un'intervista e l'idiosincrasia a qualsiasi fotografia. Il palcoscenico era di Francesco, quello scarso. Mi permetto la prima persona per mandare un abbraccio con tutto il cuore a Fiorella, Riccardo, Francesco e tutta la famiglia Totti. A cui noi, inguaribili romanisti, dobbiamo tutti un grazie. Ciao, Sceriffo.

Roma, Coronavirus, la lettera di Francesco Totti al papà Enzo malato di Covid: "Eri lì da solo, combattendo contro il male, avrei fatto qualsiasi cosa pur di stare là con te". Il testo pubblicato su Instagram: "Ho trascorso i dieci giorni più brutti della mia vita: "Vorrei poter ancora sentire la tua voce, mi mancano le risate che ci facevamo". La Repubblica il 14 ottobre 2020. "Caro papà, ho trascorso i 10 giorni più brutti della mia vita..." Comincia così, con queste parole, la lettera di addio che il Capitano Francesco Totti ha scritto per il papà Enzo, i cui funerali si sono celebrati questa mattina a Roma. Lo "sceriffo", 73 anni, è morto lunedì scorso allo Spallanzani. Aveva il Coronavirus. Ecco il testo: "Ciao papà, ho trascorso i 10 giorni più brutti della mia vita, sapendo che stavi là “da solo” combattendo contro il male e non potendoti vedere, parlare, abbracciarti, stringerti, avrei fatto qualsiasi cosa pur di stare là vicino a te. Ora la mia vita sarà diversa, perché sono cresciuto con dei valori importanti ed è per questo che voglio ringraziarti papà, per tutto quello che hai fatto per me, per avermi reso un uomo forte e coraggioso, ti vorrò sempre bene papà mio!! Vorrei poter ancora sentire la tua voce, mi mancano le risate che ci facevamo, mi manca il tuo sorriso, i tuoi occhi, mi manca vederti sul divano a guardare la tv. "Devo dirti scusa e grazie... Scusa per tutte le volte che non ho capito, per tutte le volte che non ti ho detto T.V.B, scusa per gli abbracci mancati, per le parole non dette, per gli sbagli che ho fatto, ma soprattutto grazie perché sei stato un padre e non smetterai mai di esserlo. Senza di te non ce l'avrei mai fatta, anche se non sei più con noi il tuo ricordo e il tuo sorriso non sarà mai dimenticato!!!! Avevi tanti amici che ti volevano bene, perché tu avevi qualcosa di diverso, eri sempre presente, sempre disponibile, eri l'amico di tutti, eri e sei il mio orgoglio “(spero di esserlo stato anch’io per te)”!!!!!! Oggi più che mai ho capito quanto sei stato importante nella mia vita, e nei prossimi anni terrò questi preziosi ricordi nel mio cuore. Ciao papà...anzi...ciao sceriffo.....fai buon viaggio ???? tuo Francesco"

Dal profilo Instagram di Francesco Totti il 14 ottobre 2020. Ciao papà, ho trascorso i 10 giorni più brutti della mia vita, sapendo che stavi là “da solo” combattendo contro il male e non potendoti vedere, parlare, abbracciarti, stringerti, avrei fatto qualsiasi cosa pur di stare là vicino a te. Ora la mia vita sarà diversa, perché sono cresciuto con dei valori importanti ed è per questo che voglio ringraziarti papà, per tutto quello che hai fatto per me, per avermi reso un uomo forte e coraggioso, ti vorrò sempre bene papà mio!! Vorrei poter ancora sentire la tua voce, mi mancano le risate che ci facevamo, mi manca il tuo sorriso, i tuoi occhi, mi manca vederti sul divano a guardare la tv. Devo dirti scusa e grazie...Scusa per tutte le volte che non ho capito, per tutte le volte che non ti ho detto T.V.B, scusa per gli abbracci mancati, per le parole non dette, per gli sbagli che ho fatto, ma soprattutto grazie perché sei stato un padre e non smetterai mai di esserlo. Senza di te non ce l'avrei mai fatta, anche se non sei più con noi il tuo ricordo e il tuo sorriso non sarà mai dimenticato!!!! Avevi tanti amici che ti volevano bene, perché tu avevi qualcosa di diverso, eri sempre presente, sempre disponibile, eri l'amico di tutti, eri e sei il mio orgoglio “(spero di esserlo stato anch’io per te)”?!!!!!! Oggi più che mai ho capito quanto sei stato importante nella mia vita, e nei prossimi anni terrò questi preziosi ricordi nel mio cuore. Ciao papà...anzi...ciao sceriffo.....fai buon viaggio ?? tuo Francesco

Da vanityfair.it il 14 ottobre 2020. «È lunedì sera, stiamo per chiudere le ultime pagine del giornale e come ogni settimana a breve si va in stampa. È tutto pronto quando una telefonata ci avvisa che Enzo Totti, il padre di Francesco Totti , “lo sceriffo” come tutti lo chiamano a Roma, è appena deceduto all’Ospedale Spallanzani dove era ricoverato per essere risultato positivo al Covid. Aveva 76 anni. Che fare, ci chiediamo. Abbiamo pensato questo intero numero di Vanity Fair per celebrare suo figlio, l’eroe, l’uomo, il calciatore che da sabato 17 ottobre sarà sul grande schermo nel documentario Mi chiamo Francesco Totti firmato da Alex Infascelli. Sul numero in edicola dal 14 ottobre, l’ex storico capitano della Roma si rivela in un’intervista a Malcom Pagani come raramente ha fatto prima, durante la sua lunga, lunghissima carriera. Siamo senza parole, anche molto emozionati perché sul set, durante il servizio fotografico, Francesco non aveva detto nulla, era stato come sempre professionale, disponibile, sorridente. Totti, appunto. “Quando entro in campo, Francesco resta fuori e io divento Totti. Perché Totti ha tutto quello che serve per stare là dentro”, racconta il capitano. Me lo immagino come gli eroi di Omero, Achille, oppure Ettore, che vanno incontro al proprio destino anche quando sanno come andrà a finire. Fieri, sicuri. Gloriosi, appunto. I primi tiri di palla in spiaggia. Le partite a calcio da bambino, quando i più grandi non lo volevano in squadra ed Enzo, suo padre, diceva “fatelo giocare”. Perché appena Francesco mette i piedi sul pallone, restano tutti a bocca aperta. Il primo ingaggio, il primo assegno. La convocazione in serie A, la Nazionale, l’infortunio, il Mondiale, lo scudetto. Gli alti e bassi, i colpi inferti e quelli subiti, le glorie e gli errori, i rigori segnati, il destro micidiale, la rabbia da rosicone, la gioia da campione. Enzo era sempre accanto al figlio mentre Francesco diventa Totti e Totti era la Roma. Difficile misurare la forza, la grandezza di questo atleta. L’unico modo che mi viene in mente è ricordare una partita, per altro nemmeno una delle più importanti. Sugli spalti, per la prima volta, Francesco ha invitato la futura moglie Ilary Blasi. Prima di entrare in campo, decide di mettere una maglietta bianca con la scritta “6 unica” sotto quella col numero 10 da capitano. Se segnerà, la toglierà e dichiarerà così il suo amore a lei. La partita sta per finire, lui ha fatto tre assist che hanno generato tre goal. Manca poco al fischio finale, le speranze stanno per svanire. Poi, all’improvviso, col suo destro micidiale mette a segno un altro goal. Corre verso gli spalti, alza la maglietta. Il resto è storia. Ecco, se penso a cosa sia il destino, il destino di questo eroe, quello di suo padre, forse quello di tutti, allora mi rendo conto che il destino è mettersi una maglia, un sogno sotto la vita di sempre e sperare che si realizzerà senza sapere se si realizzerà. In quel gesto, in quel “comunque vada”, c’è tutto. L’amore, la pazienza, l’orgoglio di un padre che non ti ha mai detto bravo ma che ti ha sempre dimostrato di essere lì, dietro, vicino, accanto. E la grandezza di un figlio che non ha mai detto molto ma ha sempre dimostrato di saper fare di più. Arrivederci Enzo. Lo vorrebbero tutti un papà così», commenta Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair. Che cosa è davvero importante per lo storico capitano? «Oltre i figli, la famiglia, le cose che contano davvero? La parola data. Non servono firme, contratti o avvocati. Basta una stretta di mano. Basta guardarsi negli occhi. Certe cose me le hanno insegnate fin da quando ero bambino e io a certe cose credo ancora». Vanity Fair ha deciso di rispettare la parola data all‘ex calciatore che in questo numero si racconta senza filtri nella bellissima e rara intervista che ha rilasciato a Malcom Pagani ricordando il suo passato, come ha affrontato il difficile ritiro dai campi da calcio e il suo rapporto con Luciano Spalletti. In trent’anni, ha rilasciato pochissime interviste. «Non sono egocentrico. Non sono uno a cui piace parlare, che sogna di apparire o che smania per stare davanti alla telecamera come tanti altri. Preferisco fare tre passi indietro, nascondermi, sparire, se è possibile. Perché con me c’era sempre un rischio. A me piace scherzare, essere ironico e sdrammatizzare, ma dietro una battuta c’è spesso la verità. E la verità certe volte era meglio non esprimerla. Dire quello che sapevo, o che pensavo, avrebbe creato problemi. Avrei fatto solo danni: a me stesso e alla società. Preferivo evitare». «Per anni ascoltare tante cose false sul mio conto mi ha fatto soffrire. C’erano momenti in cui per smentire le bugie che raccontavano sui giornali, in radio o in tv, sarei andato in guerra. Sono un permaloso. Come dicono a Roma, un rosicone». Sull’incontro – con Maurizio Costanzo e Maria De Filippi – che più lo ha aiutato, suggerendogli che l’ironia gli avrebbe reso l’esistenza più leggera: «Due persone che non mi tradirebbero mai. Furono bravi a farmi capire che da un atteggiamento diverso nei confronti della pressione avrei potuto trarre solo giovamento. Gli diedi retta e non dico che da quel giorno mi sia cambiata la vita, ma quasi». A proposito della sua gioventù, del primo assegno ricevuto, del suo idolo e del primo goal, racconta:« Soprattutto quando sei giovane, i soldi ti cambiano totalmente la vita. Cominci a pensare in grande e trovare una misura è complesso. Il primo assegno cospicuo lo ricevetti di venerdì: troppo tardi per poterlo cambiare in banca. Lo covammo in famiglia, come un uovo, fino al lunedì mattina». L’ambizione? «Essere come Peppe Giannini, il capitano della Roma della mia giovinezza. Lo identificavo come il principe di Roma, il numero 10 per eccellenza. Quando mi convocarono in prima squadra chiesi se era possibile dividere la stanza con Peppe. Me lo concessero. Era un sogno ad occhi aperti. Lì, nel letto accanto al mio dormiva la persona di cui avevo il poster in camera. Mi faceva effetto». Su cosa provò dopo aver segnato il primo goal ricorda: «Mi sentii come i bambini a cui regalano la pista elettrica delle macchinine. Avevo preparato un’esultanza sotto la sud dove ero stato tante volte a tifare, ma segnai sotto la nord e la dimenticai. Fu un momento di pazzia felice. Andavo a destra e a sinistra, avrei voluto le ali in quel momento». Sul fatto che si dicesse che lui nella Roma decidesse campagne acquisti, formazioni, allenatori, commenta: «Tutte cazzate. Non c’è un solo compagno o allenatore tra i tantissimi che ho conosciuto che possa dirmi in faccia: “Hai deciso, hai chiesto, hai preteso”. Camminerò sempre a testa alta perché mi sono allenato sul campo e non ho mai detto “fai giocare questo o fai giocare quello”. Non ho mai chiesto niente, a parte di poter vincere. È vero, volevo. Volevo giocatori forti come Buffon, Thuram e Cannavaro perché non avevo nessuna voglia di fare il bamboccio mentre gli altri festeggiavano. Qual è la colpa? Dov’è?». Sul suo ritiro: «Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma ho iniziato a considerare l’ipotesi solo nell’ultimo anno. Nella stagione precedente avevo capito che non avrebbero voluto rinnovarmi il contratto: però, poi, ogni volta che subentravo cambiavo le partite e facevo goal. Dopo quella con il Torino, dove entrando a 4 minuti dalla fine ne feci due, me lo rinnovarono a furor di popolo. Mi sarei dovuto ritirare in quella sera perfetta, dopo l’apoteosi, come mi suggerì Ilary e ci pensai anche. Poi dopo una notte insonne decisi di continuare, ma il rapporto con lui purtroppo era già compromesso». Sul rapporto con Spalletti racconta: «Voglio fare una premessa: l’allenatore sceglie chi mettere in campo in assoluta autonomia. È giustamente padrone delle decisioni e io non mi sono mai permesso di metterle in discussione né di contestarle. Poi c’è un discorso di umanità e lì le cose cambiano. Più mi impegnavo, più lui cercava la rottura, la provocazione, il litigio o il pretesto. Capii in fretta che in quelle condizioni proseguire sarebbe stato impossibile. Così, per la prima volta in 25 anni di Roma, tra gennaio e febbraio, mollai». Dopo aver rischiato lo scontro fisico a Bergamo, ad oggi sulla possibilità di stringergli la mano, risponde: «Nel calcio si sbaglia, sbagliamo tutti. Diciamo che dovrei capire in che luna sto quel giorno, come mi sveglio, se sono di buon umore». Sul rapporto con i compagni di squadra ricorda: «Alcuni temevano la reazione del mister, che potesse dire: “Voi state con lui”. È triste? È brutto? Purtroppo è umano e i rapporti fraterni nel calcio sono ben pochi. Quell’ultimo anno comunque fu un incubo. In quei giorni iniziai a ripensare a come si comportava agli inizi, quando ero il capitano, il simbolo, il giocatore indiscusso. E capire che mi stavano dicendo: “Hai quarant’anni, fatti da parte, non rompere i coglioni”, mi fece male». Alla domanda se farebbe mai l’allenatore, risponde: «Sarebbe impossibile. Impazzirei. Sono uno che vuole sempre il massimo e pensa che certi errori in serie A non si possano fare. Dovrei diventare severo, aspro, antipatico. Se non ci nasci, figlio di mignotta, non ci diventi».

Totti: "L'ultimo anno alla Roma un incubo, Spalletti provocava". L'ex capitano giallorosso a Vanity Fair: "Per me la parola data vale più di ogni firma. Mi sarei dovuto ritirare dopo la doppietta al Torino come mi suggerì Ilary, invece accettai il rinnovo e poi fu solo un litigio continuo con l'allenatore. Io tecnico? Dovrei diventare severo, aspro, antipatico". La Repubblica il 14 ottobre 2020. Un'intervista rilasciata qualche giorno prima della morte del padre Enzo. Francesco Totti si confessa sulle pagine di Vanity Fair che gli ha dedicato il nuovo numero in edicola da oggi. L'ex capitano giallorosso si racconta parlando di calcio dagli inizi con l'ingresso nella prima squadra della Roma e la stanza condivisa con Giannini, con la gioia del primo gol fino alla rottura con Spalletti e il ritiro che ancora fa male.

"La parola data vale più di ogni firma". "Oltre i figli, la famiglia, le cose che contano davvero? La parola data. Non servono firme, contratti o avvocati. Basta una stretta di mano. Basta guardarsi negli occhi. Certe cose me le hanno insegnate fin da quando ero bambino e io a certe cose credo ancora", ha detto Totti nell'intervista rilasciata a Malcom Pagani raccontando anche il suo rapporto con la stampa. "Non sono egocentrico. Non sono uno a cui piace parlare, che sogna di apparire o che smania per stare davanti alla telecamera come tanti altri. Preferisco fare tre passi indietro, nascondermi, sparire, se è possibile. Perché con me c'era sempre un rischio". "A me piace scherzare, essere ironico e sdrammatizzare, ma dietro una battuta c'è spesso la verità. E la verità certe volte era meglio non esprimerla. Dire quello che sapevo, o che pensavo, avrebbe creato problemi. Avrei fatto solo danni: a me stesso e alla società. Preferivo evitare", ha spiegato Totti che ha dovuto fare i conti anche con le cattiverie. "Per anni ascoltare tante cose false sul mio conto mi ha fatto soffrire. C'erano momenti in cui per smentire le bugie che raccontavano sui giornali, in radio o in tv, sarei andato in guerra. Sono un permaloso. Come dicono a Roma, un rosicone". Una situazione risolta anche grazie a Maurizio Costanzo e Maria De Filippi che gli suggerirono che l'ironia gli avrebbe reso l'esistenza più leggera: "Due persone che non mi tradirebbero mai. Furono bravi a farmi capire che da un atteggiamento diverso nei confronti della pressione avrei potuto trarre solo giovamento. Gli diedi retta e non dico che da quel giorno mi sia cambiata la vita, ma quasi".

"Io posso camminare a testa alta". Il sogno di Totti era "essere come Giannini, il capitano della Roma della mia giovinezza. Lo identificavo come il principe di Roma, il numero 10 per eccellenza. Quando mi convocarono in prima squadra chiesi se era possibile dividere la stanza con Peppe. Me lo concessero. Era un sogno a occhi aperti. Lì, nel letto accanto al mio, dormiva la persona di cui avevo il poster in camera. Mi faceva effetto", ha raccontato. Le emozioni dopo il primo gol : "Mi sentii come i bambini a cui regalano la pista elettrica delle macchinine. Avevo preparato un'esultanza sotto la sud dove ero stato tante volte a tifare, ma segnai sotto la nord e la dimenticai. Fu un momento di pazzia felice. Andavo a destra e a sinistra, avrei voluto le ali in quel momento". Si diceva che nella Roma decidesse campagne acquisti, formazioni, allenatori, commenta: "Tutte cazzate - ha commentato lapidario Totti -. Non c'è un solo compagno o allenatore tra i tantissimi che ho conosciuto che possa dirmi in faccia: "Hai deciso, hai chiesto, hai preteso". Camminerò sempre a testa alta perché mi sono allenato sul campo e non ho mai detto "fai giocare questo o fai giocare quello". Non ho mai chiesto niente, a parte di poter vincere. E' vero, volevo. Volevo giocatori forti come Buffon, Thuram e Cannavaro perché non avevo nessuna voglia di fare il bamboccio mentre gli altri festeggiavano. Qual è la colpa? Dov'è?".

"Spalletti cercava solo la rottura". Capitolo ritiro. "Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Nella stagione precedente avevo capito che non avrebbero voluto rinnovarmi il contratto: però, poi, ogni volta che subentravo cambiavo le partite e facevo gol. Dopo quella con il Torino, dove entrando a 4 minuti dalla fine ne feci due, me lo rinnovarono a furor di popolo. Mi sarei dovuto ritirare in quella sera perfetta, dopo l'apoteosi, come mi suggerì Ilary e ci pensai anche. Poi dopo una notte insonne decisi di continuare, ma il rapporto con lui purtroppo era già compromesso". Quel 'luì è Luciano Spalletti. "Voglio fare una premessa: l'allenatore sceglie chi mettere in campo in assoluta autonomia. E' giustamente padrone delle decisioni e io non mi sono mai permesso di metterle in discussione né di contestarle. Poi c'è un discorso di umanità e lì le cose cambiano. Più mi impegnavo, più lui cercava la rottura, la provocazione, il litigio o il pretesto. Capii in fretta che in quelle condizioni proseguire sarebbe stato impossibile. Così, per la prima volta in 25 anni di Roma, tra gennaio e febbraio, mollai". Dopo aver rischiato lo scontro fisico a Bergamo, a oggi sulla possibilità di stringergli la mano, Totti ha risposto: "Nel calcio si sbaglia, sbagliamo tutti. Diciamo che dovrei capire in che luna sto quel giorno, come mi sveglio, se sono di buon umore". Sul rapporto con i compagni di squadra ha ricordato: "Alcuni temevano la reazione del mister, che potesse dire: 'Voi state con lui'. E' triste? E' brutto? Purtroppo è umano e i rapporti fraterni nel calcio sono ben pochi. Quell'ultimo anno comunque fu un incubo. In quei giorni iniziai a ripensare a come si comportava agli inizi, quando ero il capitano, il simbolo, il giocatore indiscusso. E capire che mi stavano dicendo: 'Hai 40 anni, fatti da parte, non rompere i coglioni', mi fece male". Forse anche per questo non farebbe mai l'allenatore. "Sarebbe impossibile. Impazzirei. Sono uno che vuole sempre il massimo e pensa che certi errori in Serie A non si possano fare. Dovrei diventare severo, aspro, antipatico. Se non ci nasci, figlio di mignotta, non ci diventi".

Ricky Memphis, Testo raccolto da Fulvia Caprara, per “la Stampa” il 20 ottobre 2020. Il motivo principale per cui Francesco Totti è così forte ed è diventato quello che è, sta, secondo me, nel dono che ha ricevuto da Dio. Il talento è talmente tanto che può venire solo da lì. È anche vero che uno può avere tutto il talento che vuole, ma, se non ha la testa sulle spalle e una famiglia che lo sostiene, con dei punti fermi, di sicuro non arriva da nessuna parte. Non sono cresciuto con lui, ma, da quello che so, penso che la sua famiglia gli sia sempre stata vicina, in modo semplice, con grande amore, trasmettendogli valori, come quelli del sacrificio, del rispetto di quello che fai e del regalo che hai avuto la fortuna di ricevere. Totti è rimasto ancorato alle sue origini, sono le sue sicurezze, i pilastri dove aggrapparsi per non perdere la cognizione della realtà. E' famoso pure sulla Luna e anche su Marte, se avesse abitanti, eppure è rimasto lo stesso e questo deriva sempre dalle radici e dall' averne capito l' importanza. E' fondamentale non disperdere il proprio talento, l' appoggio dei familiari è basilare, soprattutto quando sei giovane. Nel calcio la carriera è veloce, inizia molto presto, a 16 anni Totti era un fenomeno e debuttava in serie A, a quell' età, se non hai chi ti appoggia e chi ti insegna a gestire la bravura, non puoi farcela. Di Totti ho letto anche il libro, racconta che i suoi facevano chilometri e chilometri per accompagnarlo agli allenamenti e alle partite. Tutto il suo percorso è stato costruito su basi solide e poi, su queste fondamenta, ci sono quelle capacità incredibili che hanno fatto tutto il resto. Senza dubbio la gente si è ritrovata nel personaggio, anzi, nella persona di Totti, però lui è un grande campione, ci si può identificare fino a un certo punto, perché è una favola, un fuoriclasse. E poi una persona straordinaria, di una simpatia incredibile. Ci siamo conosciuti tanto tempo fa, quando era nel pieno dell' attività, ci siamo rivisti molte volte, spesso allo stadio, oppure al mare. Quello che di lui mi ha colpito è che uguale, identico, a come è in pubblico. Francesco Totti è quello che vedi quando fa le interviste, quando appare negli spot pubblicitari, è sempre lui, autentico. E poi ci sono quei piedi, quella testa, quella velocità di pensiero in campo che lo rendono assolutamente unico. Posso dire di avere con lui una piccola confidenza, l' ho salutato, ci ho parlato, ma, quando ce l' ho davanti, per me è ancora Francesco Totti, e io mi emoziono. E' quel ragazzo semplice che tutti conosciamo, ma anche quella grande stella, quel campione che ha dato lustro alla Roma, che ci ha fatto gioire, che ci ha inorgoglito, anche quando non vincevamo.

Francesco Persili per Dagospia il 20 ottobre 2020. “Nessuno voleva battere quel rigore. Pirlo mi si avvicina e mi dice: “Tiralo tu”. Ultimo minuto di Italia-Australia, ottavi di finale del Mondiale 2006. La passeggiata verso il dischetto. Si allargano tutti, restano Totti e il portiere avversario Schwarzer. Come in un duello western. Occhi negli occhi. “Quando c’ho tutto sui piedi, difficilmente sbaglio”. E infatti non sbaglia. Vanigli gli aveva spaccato la caviglia e lui, sei mesi dopo, con una placca e 11 viti nella gamba, diventa campione del mondo: “Dio ha voluto che andasse tutto così”. Nel docufilm di Alex Infascelli ritornano continuamente queste sliding doors con il destino. Totti quando era pischello poteva andare al Milan. Mamma Fiorella disse no. “E mi insegnò che casa è la cosa più importante nella vita”. E poi nell’annus horribilis di Carlos Bianchi quando era sul punto di andare alla Sampdoria arriva il trofeo Città di Roma. Lui non avrebbe dovuto neanche esserci. Invece scende in campo e incanta. Franco Sensi non ha dubbi: “Francesco non si muove da Roma”. E tanti saluti al “Mago Galbusera” argentino e a Litmanen (che avrebbe dovuto prendere il suo posto). E poi ancora ai tempi della guerra dei mondi con Spalletti. L’esclusione con il Palermo (“mi cacciò da Trigoria, da casa mia”), Ilary che lo convince ad andare allo stadio (“Se non ci vai, ti lascio”), l’ovazione del pubblico e la rottura definitiva con il tecnico. Quello che dopo l’infortunio aveva passato la notte in clinica con lui diventa “un allenatore che per me non esisteva più”. A Bergamo con l’Atalanta, si rischia lo scontro fisico. Un gol di Totti salva la Roma e Spalletti dice ai microfoni di Sky che l’ha pareggiata “la squadra”. Ma il destino ha sempre più fantasia e contro il Torino succede il miracolo. Due gol di Totti in tre minuti e rinnovo di contratto a furor di popolo. Nella carrellata di video e di immagini, ecco la contestazione a Trigoria nel 2001 dopo l’eliminazione dalla Coppa Italia. Fabio Capello, che oggi sostiene come un capitano non sia solo quello che scambia i gagliardetti, ricorderà sicuramente che fu Totti ad andare a parlamentare con i tifosi e poi a dettare la linea davanti ai giornalisti: “Da oggi chi non ha carattere, si può anche tirare fuori”. Dalle parole del Capitano partì una cavalcata trionfale che portò la Roma al terzo scudetto della sua storia suggellato dalla sua rete in Roma-Parma sotto la Sud: “Fu un lancio d’amore nei confronti della gente, dentro quel pallone c’era il sogno mio”. Dalle partite con la Lodigiani alla suggestione Real, dalla festa dei 18 anni con il Principe Giannini “guest star” alla festa scudetto al Circo massimo con la Ferilli (“Con tutto il rispetto non è che uno stava a pensà al suo spogliarello”), dal rapporto fraterno con Cassano (“Un cacacazzi…”) al legame a prova di spinte con Vito Scala, Francesco Totti racconta più di una carriera, ma una storia lunga 25 anni che non è nemmeno più solo la sua. “Il tempo è passato pure per voi”, sorride sornione l’ex Capitano. Ciascuno guardando il film si ritrova a tu per tu con un sentimento e con un pezzo di vita. E non può che abbracciare la solitudine del campione nella pancia dello stadio prima della passerella finale sulle note della baglioniana “Solo”. “E tu piano piano andavi via”. L’attore Riccardo Rossi confessa: “Ho pianto con lui su quelle scalette dello stadio Olimpico”. Resta un dubbio. Se Ibra è ancora decisivo a 39 anni, Totti avrebbe potuto ancora dire la sua? Per Cassano, il numero 10 giallorosso avrebbe potuto continuare a giocare anche oltre i 40 in questa serie A. Ma ora Totti è uscito dal campo, è rimasto Francesco. Nel suo presente l’agenzia di scouting, nel futuro un possibile ritorno alla Roma di Friedkin. Ad aiutarlo sempre la solita, scanzonata romanità: “Più le sfide sono dure, più ci devi andare leggero…"

Malcom Pagani per “Vanity Fair” il 17 ottobre 2020. «Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Francesco De Gregori. In spiaggia, da adolescente, baciando una sconosciuta in una notte di luna piena. In motorino, con un casco integrale, per osservare di nascosto la città in cui gli era impossibile persino camminare. In una piazza dell’Appio Latino all’epoca in cui l’altezza ingannava: «Mi chiamavano gnomo» e il talento nei piedi di un biondino dall’identità ancora ignota lasciava senza parole i ragazzi più grandi. Tutte le volte in cui Francesco Totti ha incontrato la felicità lo ha fatto dimenticando di essere Francesco Totti. Per chiedersi se avrebbe voluto un’altra vita, forse, è troppo tardi. Per  mettere in sequenza ricordi, miracoli e battute dal giorno in cui Giovanni Paolo II lo baciò sulla testa in Vaticano: «Mia madre mi chiamava il prescelto», un film, meglio se bello, può bastare. Sul più laico dei santi per acclamazione e sul più santo dei laici per ascendenza (un tipo che sorride spesso, che sa come prendere in contropiede i pregiudizi che lo accompagnano: «Non mi faccia domande troppo lunghe che sono circonciso» dice, per poi aggiungere: «scherzo, lo so che si dice conciso, il problema è che quando faccio battute del genere le persone pensano che non lo sappia sul serio», uno che precede o intervalla ogni sua frase con “Con tutto il rispetto” o “ti dico la verità”), ci voleva qualcuno che una verità sull’amore tra Totti e la sua storia provasse a cercarla. Così, con sentimento mistico e mano ferma, poesia e palloni arancioni sgonfiati davanti all’Adriatico, allo scopo, è arrivato Alex Infascelli. Ha scandagliato da palombaro gli abissi della memoria, recuperato i super 8 di famiglia, spinto l’oggetto della sua indagine a superare i pudori e raccontarsi come mai aveva fatto in precedenza. Più che un documentario, una seduta di psicanalisi. L’incontro tra due universi distanti che diventa scambio profondo e relazione trasformando Totti e mutandone definitivamente l’immagine alla quale ci aveva abituati. Introspettivo e profondo. Sentimentale e duro, senza mai perdere la tenerezza. Va da sé che Mi chiamo Francesco Totti denudi segreti rimasti nell’ombra e metta in risalto l’essenziale, quel che resta quando le luci si sono spente, le magliette sono in una teca e i gol recitano da statistica: la commozione: «Dopo i titoli di coda ha pianto anche Ilary che è molto più brava di me a controllare le emozioni e rimase impassibile anche nel giorno del mio ritiro».

Agostino Di Bartolomei diceva: “Parlo poco perché penso che gli altri non siano poi così interessati a quel che dico”. In trent’anni, lei ha rilasciato pochissime interviste.

«Non sono egocentrico. Non sono uno a cui piace parlare, che sogna di apparire o che smania per stare davanti alla telecamera come tanti altri. Preferisco fare tre passi indietro, nascondermi, sparire, se è possibile. Sa come ragionavo da calciatore?».

Come?

«Al mio posto doveva parlare il campo. Andare in conferenza stampa non mi gratificava, dire “ho fatto questo e quello” ancora meno. E agli altri in fondo andava bene».

Come mai?

«Perché con me c’era sempre un rischio. A me piace scherzare, essere ironico e sdrammatizzare, ma dietro una battuta c’è spesso la verità. E la verità certe volte era meglio non esprimerla. Dire quello che sapevo o che pensavo avrebbe creato problemi. Avrei fatto solo danni: a me stesso e alla società. Preferivo evitare».

Ora invece dopo il fortunato libro con Paolo Condò, anche un film.

«Esistono i momenti. Quelli giusti e quelli sbagliati. Adesso sono libero, sono felice, ho fatto pace con me stesso e posso dire quel che voglio».

Prima non era così?

«Per anni ascoltare tante cose false sul mio conto mi ha fatto soffrire. C’erano momenti in cui per smentire le bugie che raccontavano sui giornali, in radio o in tv, sarei andato in guerra. Sono un permaloso. Come dicono a Roma, un rosicone. C’era gente che mi aveva visto dove non ero, gente che raccontava storie assurde, gente che godeva a mettere zizzania. E quando inventavano una balla su di me, impazzivo». 

Poi cosa è successo.

«È successo che mi sono abituato, che sono diventato maturo e che ho capito che il mondo è fatto così. Chiunque dice la sua, vera o non vera e ognuno si fa una propria idea. È la democrazia, ma non mi tocca più e anche se è brutto dirlo, di quello che dice la gente, se è in malafede, ormai non me ne frega più niente». 

Cosa è davvero importante per lei?

«Oltre i figli, la famiglia, le cose che contano davvero?».

Oltre.

«La parola data. Non servono firme, contratti o avvocati. Basta una stretta di mano. Basta guardarsi negli occhi. Certe cose me le hanno insegnate fin da quando ero bambino e io a certe cose credo ancora».

Quante volte l’hanno mantenuta con lei?

«Negli ultimi anni poco. Ho ascoltato tante parole, tante promesse e visto pochi fatti. È vero che cerco anche di ridere di me stesso, ma non sono stupido e a essere preso in giro non ci sto».

Ha imparato presto a ridere di se stesso?

«Ho imparato tardi. Non le ho detto che ero permaloso per caso: lo ero davvero. E non conoscevo né l’ironia né l’autoironia. Recriminavo su tutto. Poi ho avuto un incontro che mi ha cambiato la prospettiva delle cose. Qualcuno mi ha suggerito che l’ironia che mi avrebbe reso l’esistenza più leggera e poteva essere un’alleata in più».

Un incontro con chi?

«Con Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. Due persone che non mi tradirebbero mai. Furono bravi a farmi capire che da un atteggiamento diverso nei confronti della pressione avrei potuto trarre solo giovamento. Gli diedi retta e non dico che da quel giorno mi sia cambiata la vita, ma quasi. Sono completamente diverso da ieri, sto meglio, ho meno rabbia in corpo. Ero uno che tendeva a somatizzare e poi all’improvviso faceva scoppiare la bomba. Lo so, è un difetto, ma io di difetti ne ho tanti».

Dicevano che fosse presuntuoso.

«Ne ho tanti, ma non sono avaro, anzi se posso darti una mano te ne do due,  né presuntuoso. Se sbaglio sono il primo ad alzare la mano per dire “ho fatto una cazzata”. Non ho mai pensato “sono Totti e quindi ho sempre ragione”, cerco sempre di capire dove sbaglio e come posso sbagliare il meno possibile».

«Si cresce» mi ha detto prima.

«Andando avanti acquisisci esperienza e razionalmente capisci che alcune cose che hai fatto a vent’anni non le rifaresti, sotto tanti punti di vista».

E le altre? 

«Le dico la verità: le altre, anche se erano stupide, invece, le rifaresti tutte».

Quali?

«Se vuole le più sciocche, ma anche le più inoffensive e le più naturali quando hai tredici anni e la tua vita scorre in mezzo alla strada. Com’è stata bella la mia infanzia per strada. Mia madre mi urlava “hai fatto i compiti?” dalla tromba delle scale e l’eco del mio sì, si confondeva sotto i passi della mia corsa. C’era una vera urgenza di vivere e anche, come è ovvio di fare delle cazzate. Suonavamo ai campanelli e scappavamo, tiravamo gavettoni d’acqua agli autisti degli autobus che d’estate viaggiavano con il finestrino aperto, si infuriavano, ma non potevano fermarsi. La differenza tra il mio tempo e l’epoca di mio figlio, oggi, la vedo tutta». 

Ha nostalgia?

«E come fai a non provarla? Non avevamo niente e ci sembrava di avere tutto. Passavamo le ore a giocare a nascondino, a esultare per una partita a biliardino o a inanellare record al flipper del bar sotto casa. Cercavo le monete in tasca per un gelato da 500 lire e scoprivo di potermi permettere solo i più economici, il Lemonissimo, il Magic Cola o l’Arcobaleno, roba che costava la metà».

I soldi sono stati importanti?

«Soprattutto quando sei giovane, i soldi ti cambiano totalmente la vita. Cominci a pensare in grande e trovare una misura è complesso. Il primo assegno cospicuo lo ricevetti di venerdì: troppo tardi per poterlo cambiare in banca. Lo covammo in famiglia, come un uovo, fino al lunedì mattina».

Come spiega a suo figlio i rischi di essere un privilegiato?

«Provo a passargli i principi con i quali sono cresciuto e a spiegargli che diventare uno stronzo è semplicissimo. Spero che faccia le sue sciocchezze, ma le faccia con la testa perché se un ragazzo cade, dopo, puoi solo mettere una toppa. Ce ne sono di bravissimi e sono tanti, ma rispetto ai 14enni di oggi noi eravamo degli ingenui, dei veri bambacioni.

Tornavi a casa dopo aver dato un bacetto “a stampo” o sulla guancia e ti facevi i film per giorni. Oggi, se ti rendi conto del grado di consapevolezza dei 12enni, ti metti le mani nei capelli, ti spaventi ed è meglio se ti fai il segno della croce. Ragionano proprio diversamente da noi e rispetto alla mia gioventù è più facile perdersi».

Diventare un campione richiede sacrificio? 

«Mi sento fortunato. Ogni bambino ha un suo sogno: io speravo di realizzare il mio. Ho fatto sacrifici senza i quali il sogno sarebbe rimasto tale. Mia madre mi veniva a prendere a scuola, mi portava agli allenamenti e guidando mi interrogava sulle lezioni del giorno dopo mentre tra un panino e una curva cercavamo entrambi di non perdere un solo secondo. I tempi erano stretti, andavamo di fretta a la vita scorreva tra il campo e il sedile di una macchina. Cercavo di tenere tutto insieme, ma a volte crollavo addormentato. Mamma continuava a parlare, ma magari parlava da sola».

 Cos’è la libertà per lei?

«Un privilegio di cui non ho goduto. Tra ritiri, allenamenti e partite non è che negli ultimi trent’anni ne abbia avuta tanta. Qualche giorno di vacanza tra giugno e inizio luglio, molte limitazioni, zero vita privata. I sabati sera me li ricordo tutti: i miei amici uscivano per andare al cinema o in discoteca e io restavo in casa aspettando che la mattina dopo ci fosse la partita. A quell’età nessuno può dirti se ce la farai: esistono solo i dubbi, i punti interrogativi, le scommesse».

Che bambino è stato?

«Un bambino timido, introverso, a volte spaventato. Mio padre lavorava in banca e mia madre faceva la casalinga. Ogni tanto usciva per fare la spesa e restavo solo. Alzavo al massimo il mio telefilm preferito e fingevo di essere morto perché pensavo che se fosse entrato un malintenzionato nell’appartamento, vedendomi così, mi avrebbe lasciato stare. Poi mamma tornava e io mi sentivo fiero, come un eroe che ha superato la sua prova più difficile».

Un calciatore è sempre solo?

«La strada di un calciatore è piena di solitudine perché è una strada che corre esterna alla realtà e parallela alla vita quotidiana degli altri. Cominci a viaggiare presto, a dormire da solo in ritiro, a mangiare cose che gli altri non mangiano. Sembrano piccolezze, ma mentalmente ti cambiano. Gli altri pensano “che bello” e tu vorresti rispondere: “sicuri?”. Quando da ragazzo dovevo partire con la Nazionale per andare all’estero, io non ci volevo andare. Una volta, in Giappone, era il 15 di Agosto, ebbi quasi una crisi. Dovevo andare a giocare il Mondiale Under 17, ma mi pareva di andare al fronte, staccarmi dal cordone, perdermi qualcosa, vedere dal finestrino dell’aereo le facce allegre dei miei amici intorno al falò davanti al mare».

Poi a volare ha iniziato lei.

«Eh, ma c’è voluto tempo. Ha presente il libro Open scritto da Moehringer? Ecco, mio padre aveva un carattere non troppo dissimile da quello del papà di Andre Agassi. Tra piazzette e cortili non c’era una comitiva che non giocasse a calcio. Era gente molto più adulta di me, che non avevo mai visto e lì, lontani dalla saracinesca che prendevamo a pallonate tutto il giorno, le regole d’ingaggio cambiavano. Eravamo in un terra di nessuno in cui i colpi proibiti erano la regola. Papà si faceva avanti e domandava “avete posto per lui?”. Quei ragazzi all’inizio non volevano neanche farmi provare. È normale. Hai il tuo gruppo, i tuoi amici e chi viene da fuori, magari con una scusa: “È piccolino, si fa male”, è sempre escluso. Papà insisteva, quelli cedevano e poi, iniziata la partita, fermavano tutto: “rifacciamo le squadre, lo gnomo è troppo forte». Io zitto e muto, ma orgoglioso. Papà forse, ancora più di me».

A scuola era altrettanto forte?

«Mi hanno bocciato in terza media e non ero un granché, ma in quell’occasione, le dico la verità, mi hanno fregato. A maggio era prevista una gita scolastica: io e tre miei compagni venimmo convocati per uno stage calcistico in Sardegna e rinunciammo al viaggio con la classe facendo saltare il numero legale per organizzarla. I professori prima protestarono: “pensano più al calcio che alla scuola”, poi convocarono le famiglie e infine se la legarono al dito. Mi dissero: “sappiamo che il calcio ti porta via tanto tempo e così ti chiediamo di preparare qualche argomento a scelta”. Studiai tantissimo e la mattina dell’esame mi ritrovai davanti alla trappola. Cambiarono le domande chiedendomi cose sulle quali non mi ero minimamente tutelato. Avevo studiato Napoleone e mi interrogarono su Garibaldi e su Cavour. Provai a mettere insieme qualche mezza risposta, ma non feci una gran figura. Risultato: respinto. Io come i tre compagni che erano partiti con me».

Che ambizione aveva allora? Divertirsi? Emulare i campioni? Diventare il più forte? 

«Essere come Peppe Giannini, il capitano della Roma della mia giovinezza. Lo identificavo come il principe di Roma, il numero 10 per eccellenza, il fuoriclasse che aveva un padre, Gildo, che mi trattava come un figlio, mi coccolava e che aveva puntato su di me. Quando mi convocarono in prima squadra chiesi se era possibile dividere la stanza con Peppe. Me lo concessero. Era un sogno ad occhi aperti. Lì, nel letto accanto al mio dormiva la persona di cui avevo il poster in camera. Mi faceva effetto. Ero ansioso e non sapevo come comportarmi. Lo guardavo con la coda dell’occhio, e mi dicevo: “ma è vero?”. Lui si addormentava presto, al più tardi alle 22 e io per non svegliarlo praticamente smettevo di respirare. Avevo quasi paura di andare in bagno».

Come fu l’impatto con il mondo dei grandi?

«Ero tranquillo e sereno. Sapevo che dal primo all’ultimo, i compagni mi volevano un bene dell’anima. Con i ragazzi che si affacciano in prima squadra non è che accada proprio sempre: ma io mi comportavo bene. Andavo a prendere borse e palloni e nei primi tempi, mi cambiavo nello spogliatoio accanto, quasi per timore di disturbare. Nel gruppo i romani erano tantissimi,  sicuramente mi agevolò anche questo». 

Andiamo alle origini: ricorda il primo gol?

«Mi sentii come i bambini a cui regalano la pista elettrica delle macchine. Avevo preparato un’esultanza sotto la sud dove ero stato tante volte a tifare, ma segnai sotto la nord e la dimenticai. Fu un momento di pazzia felice. Andavo a destra e a sinistra, avrei voluto le ali in quel momento».

Il talento. La dedizione. Cos’è più importante?

«È importante starci con la testa. Se la perdi non puoi fare quello che vorresti perché di se e di ma  campano un po' tutti, ma arriva un istante in cui, sia nella vita privata che nel tuo lavoro, devi dimostrare quanto vali. Ho visto tanta gente dotata di un talento straordinario smarrirsi da un giorno all’altro. Pensi sempre che con il talento puoi superare ogni ostacolo, ma è un’illusione».

«Il calcio è una giungla e se non tiri fuori i denti ti divorano». Parola più, parola meno, la riflessione è sua.

«Non so da fuori cosa si percepisca, ma dopo quasi trent’anni di calcio posso dire che in quel mondo devi tirare fuori gli artigli perché altrimenti è dura. Devi avere un carattere forte, pretendere tanto da te stesso. Rispettare gli altri e quando serve, farti sentire».

Johan Cruyff alle giovani promesse del Barcellona raccomandava: “Non bussate alle porte, sfondatele».

«Dipende da come bussi. Se bussi con timidezza è un discorso, ma se bussi per farti aprire le cose cambiano. Il suono è diverso, l’ascolto è diverso. Sono i denti di cui parlavamo prima, se non sono affilati non lasciano il segno».

Di lei dicevano che della Roma decidesse campagne acquisti, formazioni, allenatori.

«Tutte cazzate. Non c’è un solo compagno o allenatore tra i tantissimi che ho conosciuto che possa dirmi in faccia “hai deciso, hai chiesto, hai preteso”. Camminerò sempre a testa alta perché mi sono allenato sul campo e non ho mai detto “fai giocare questo o fai giocare quello”. Non ho mai chiesto niente, a parte di poter vincere. È vero, volevo. Volevo giocatori forti come Buffon, Thuram e Cannavaro perché non avevo nessuna voglia di fare il bamboccio mentre gli altri festeggiavano. Qual è la colpa? Dov’è?».

I denti di ieri oggi a cosa le servono?

«Servono a mozzicare la vita e a non farsi mozzicare dalla vita stessa».

Quanto è stato doloroso il morso del ritiro?

«È stato uno choc: sono un essere umano, una persona come tutte le altre. Rendersi conto di dover lasciare tutto quello che avevo fatto e che ero stato è stato durissimo. Un calciatore quando arriva a quell’età non vorrebbe mai smettere. Ti chiedi “E adesso? Adesso che faccio?”».

Cosa si è risposto?

«Che stavo bene e che avrei voluto e potuto continuare a giocare. A volte con Ilary, su questo tema, litigavo. Mi diceva: “Devi smettere, hai quarant’anni, inizia a pensare a cosa devi fare dopo”».

E lei ci pensava?

«Io pensavo che avevo paura. Nel dare l’addio al calcio la mia paura era ignorare cosa ci fosse dall’altra parte. Era un altro tipo di lavoro: un conto è il campo dove potevo far affidamento sui miei mezzi, credevo in me stesso e per me era la cosa più semplice al mondo. Altro voltare pagina, fare il dirigente, nuotare senza braccioli. Le persone con cui parlavo per rassicurami mi ammonivano: “Guarda che la vita del calciatore e del dirigente è totalmente diversa”. E allora, invece di tranquillizzarmi, mi saliva l’ansia».

Ora le è passata.

«Mi sono fatto coraggio perché è vero che sono timido, un aspetto del carattere che non cerchi né trovi, ma con il quale nasci, che non mi piace essere il primo della classe ma piuttosto l’ultimo e che sono come una tartaruga che sa chiudersi al momento giusto e poi tirare fuori la testa, ma per farlo devo sapere esattamente quello che faccio. Così ho cominciato a studiare, a calarmi nel nuovo ruolo, a rendermi conto che la vita era cambiata. E a trovare un equilibrio».

Oggi di cosa ha paura?

«Solo di morire. È una paura che condivido con miliardi di persone. Prima o poi, purtroppo, tocca a tutti». (Sorride).

Daniele De Rossi sostiene che un calciatore inizi a pensare al ritiro già a 25 anni.

«Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma di certo non ci pensavo già a 25 anni. Ho iniziato a considerare l’ipotesi solo nell’ultimo anno. Nella stagione precedente avevo capito che non avrebbero voluto rinnovarmi il contratto: però poi ogni volta che subentravo cambiavo le partite e facevo gol. Dopo quella con il Torino, dove entrando a 4 minuti dalla fine ne feci due, me lo rinnovarono a furor di popolo. Mi sarei dovuto ritirare in quella sera perfetta, dopo l’apoteosi, come mi suggerì Ilary e ci pensai anche. Poi dopo una notte insonne decisi di continuare, ma il rapporto con lui purtroppo era già compromesso». (In tutta la conversazione Francesco Totti non citerà mai per nome Luciano Spalletti, il tecnico con il quale, nell’ultimo anno di carriera, le relazioni saranno pessime nda). 

Il rapporto con Spalletti iniziò a compromettersi l’anno prima.

«Voglio fare una premessa: l’allenatore sceglie chi mettere in campo in assoluta autonomia. È giustamente padrone delle decisioni e io non mi sono mai permesso di metterle in discussione né di contestarle. Poi c’è un discorso di umanità e lì le cose cambiano. Più mi impegnavo, più lui cercava la rottura, la provocazione, il litigio o il pretesto. Capii in fretta che in quelle condizioni proseguire sarebbe stato impossibile. Così, per la prima volta in 25 anni di Roma, tra Gennaio e Febbraio mollai».

Come ci si sente a mollare? Zico diceva che Un calciatore muore sempre due volte e che la prima è quando smette di giocare.

«Ti senti perso, ti senti scarico, senti che stai perdendo una cosa tua che hai sempre vissuto in prima persona. Ci mettevo l’anima, ci mettevo il cuore e non saltavo un allenamento, ma vedevo che dall’altra parte non c’era né reazione né risposta. Così mi lasciai andare e quando ti lasci andare è finita perché la testa sovrasta il fisico, sovrasta le motivazioni, sovrasta tutto».

Ma in quel crepuscolo i compagni non le stavano vicini?

«Alcuni sì e altri no. Temevano la  reazione del mister, che potesse dire: “Voi state con lui”. È triste? È brutto? Purtroppo è umano e i rapporti fraterni nel calcio sono ben pochi. Quell’ultimo anno comunque fu un incubo. Mi vedevo superare da giocatori che magari non si allenavano per tutta la settimana e poi la domenica erano in campo. Ed erano segnali che sapevo leggere molto bene perché da quelle cose ero passato anche io. Semplicemente, non ero preso in considerazione e la cosa faceva doppiamente male perché lo stesso allenatore quando ero più giovane mi faceva giocare anche con una gamba in meno. In quei giorni iniziai a ripensare a come si comportava agli inizi, quando ero il capitano, il simbolo, il giocatore indiscusso. E capire che mi stavano dicendo “hai quarant’anni, fatti da parte, non rompere i coglioni” mi fece male».

È vero che tra voi rischiaste lo scontro fisico?

«A Bergamo ci andammo pelo pelo e mancò davvero poco. Per fortuna non è successo».

Oggi gli stringerebbe la mano?

(Silenzio, poi un lunghissimo eehhh). «Nel calcio si sbaglia, sbagliamo tutti. Diciamo che dovrei capire in che luna sto quel giorno, come mi sveglio, se sono di buon umore».

Farebbe mai l’allenatore?

«Sarebbe impossibile. Impazzirei. Sono uno che vuole sempre il massimo e pensa che certi errori in serie A non si possano fare. Dovrei diventare severo, aspro, antipatico. Se non ci nasci, figlio di mignotta, non ci diventi. Puoi alzare il tono di voce finché vuoi, ma quello che sei alla fine sei e io so che sono troppo buono. Poi avrei un problema: vorrei sicuramente far giocare tutti. Sono stato calciatore, so cosa pensano del tecnico quelli che vanno in panchina».

Il suo domani è nella Roma?

«A oggi non ci penso. Ho una agenzia di scouting, curo i ragazzi, mi diverto. Sono contento e faccio quello che mi piace».

È stato difficile essere un mito?

«La verità? Da una parte ti lusinga, ma dall’altro ti limita e può rivelarsi veramente pesante. Dal Nella vita privata ti costringe a cose impossibili. A Via Vetulonia, dove ero cresciuto e mi volevano bene, si mettevano fuori dalla porta e ogni tanto si portavano a casa anche lo zerbino come reliquia. Era piacevole, ma anche invivibile e non avevi un solo secondo della tua vita in cui potevi essere libero o nasconderti».

Oggi?

«Pensavo sarebbe andata meglio dopo il ritiro ma mi sbagliavo. Esistono i tempi e i modi, anche per un selfie e io sono abbastanza disponibile. Ma spesso la gente non capisce: è tutto normale e tutto dovuto. Perché hai i soldi, perché sei famoso, perché sei un ex giocatore e devi metterti a disposizione per forza: se fai 99 foto e il centesimo lo molli, quell’uno ti sfonda. Per me anche andare a cena in un ristorante è un’impresa».

Racconti.

«Una sera, ero a cena con degli amici, fuori da un locale si riunirono migliaia di persone. Uscire sarebbe stato imprudente. Così cercammo una via di fuga alternativa, scavalcammo la recinzione sul retro e dopo aver superato gli spunzoni di ferro ci lanciammo nel vuoto atterrando in un prato. Avremmo potuto trovare cani da guardia o cocci di bottiglia, era buio pesto, ma ci andò bene. Il terreno era di una parrocchia. A un certo ci venne incontro un prete, se avesse avuto una pistola penso che ci avrebbe sparato. “Chi siete?” disse e poi a un certo punto gli si disegnò in volto una sorpresa: “Ma tu sei Totti!”».

Lo sarà per sempre. Nel calcio italiano di oggi uno come lei potrebbe fare ancora la sua figura?

«Se le dico di sì ci crede? Allora glielo dico. Potrei. Magari non per tutte le partite, ma potrei. Crede che Ibrahimovic corra come ieri? No, ha 39 anni eppure regge l’attacco del Milan. Non c’è pallone che non passi tra i suoi piedi».

Sogna ancora calcio di notte?

«A volte sì. A volte sogno il passato, a volte il futuro».

Alan Kay, uno degli inventori del computer portatile, sostiene che il miglior modo di predire il futuro sia inventarlo. Lei ne ha voglia?

«Se posso inventarlo come dico io, sì».

Roma, Totti: "Non entro più a Trigoria, e mi viene da piangere". L'ex capitano giallorosso attacca ancora Pallotta: "Finché c'è Pallotta non ci torno. Ora quando porto mio figlio agli allenamenti rimango in macchina". La Repubblica il Dopo quasi tre anni dalla sua ultima gara con la maglia della Roma, Francesco Totti è tornato a parlare del suo addio al calcio durante una diretta Instagram insieme a Luca Toni. E l'ex capitano giallorosso ha confermato la sua avversione per la gestione Pallotta, lamentandosi ancora una volta del trattamento ricevuto. Ha poi però esaltato l'attuale tecnico, Paulo Fonseca.

"Quando si allena mio figlio, io piango in auto". "Sarei stato contento anche non giocando, mi bastava far parte del gruppo - ha detto Totti -. Il problema è che alcune persone mi dicevano che avrei deciso io e poi invece è arrivato il momento in cui mi hanno messo da parte. Ci sono rimasto male perché io per la Roma ho dato tutto, mi sarei tagliato anche una gamba..." ha spiegato Totti, rivelando poi di non essere più tornato nel centro sportivo romanista dal giorno delle sue dimissioni da dirigente a causa del rapporto ormai inclinato con la proprietà statunitense. "Finché è così non penso che rimetterò piede a Trigoria. Ogni volta che porto Cristian, resto fuori dai cancelli - ha confessato l'ex numero 10 -. Certe volte quando porto mio figlio agli allenamenti rimango in macchina e mi viene da piangere a pensare che dopo 30 anni non posso entrarci. Amici lì dentro continuo ad averne tanti e guai a chi me li tocca. Escono fuori dal cancello e mi vengono a salutare".

"Fonseca mi piace, non ha paura". La diretta Instagram è stata anche condivisa con Bobo Vieri, e Francesco Totti ha esaltato il tecnico della Roma, Paulo Fonseca: "È bravo e mi piace, me ne parlano tutti bene sia come allenatore che come persona. Mi piace lui, è uno offensivo e non ha paura di niente. Ora però bisognerà vedere se riprenderanno", ha detto l'ex dirigente giallorosso. Poi le battute sulla forma fisica: "Mi alleno almeno due volte al giorno, non mi sono mai allenato così in vita mia. Nella prossima seduta mi attendono le scale, quelle piccole e quelle grandi". "Hai anche Zeman", la battuta di Vieri. Che aggiunge: "Peso 106.5 chili. Sui social faccio vedere il piatto di insalata, però poi mangio fino alle 5. Mi riempio di brioches, patatine, una cosa incredibile. E ho il parco davanti casa ma non posso andare a correre". A ottobre Francesco Totti è sceso in campo con la maglia della Nazionale, nella sfida Italia-Germania Legends. "Sembravamo scapoli e ammogliati, qualcuno mi ha fatto effetto quando si sono spogliati perché poi ripensi a tutto quello che avete fatto, mi viene da piangere. Molti andavano pianissimo, io sembravo Ronaldo il Fenomeno dei tempi belli, volavo in confronto a loro. Purtroppo o continui ad allenarti o è finita". E Vieri: "La testa va ancora, il corpo purtroppo no".

Da corrieredellosport.it il 23 aprile 2020. Altra diretta Instagram di Francesco Totti, questa volta con il tifoso della Lazio, Damiano "Er Faina". L'ex capitano della Roma ha raccontato diversi aneddoti del suo passato da calciatore, compreso uno che riguarda gli inizi della carriera. Totti si trovò di fronte a un bivio: scegliere la Roma o la Lazio: "Avevo otto anni e giocavo alla Lodigiani. Gli osservatori avevano chiamato mia madre dicendogli: 'Signora, ci sono due opzioni, andare alla Roma o alla Lazio'. Mio fratello le dava i calci sotto al tavolo per farle accettare la Roma. Mio nonno simpatizzava la Lazio, mio padre invece è sempre stato un grande tifoso giallorosso: alla fine hanno scelto come sappiamo".

Totti sul derby e su De Rossi. Sui derby invece: "Quando ho segnato non ho mai perso. Quello più bello è il 5 a 1 è il mio preferito, per la serata, i festeggiamenti, i tifosi... Poi quel cucchiaio a Peruzzi: per me lui è uno dei più forti portieri del mondo, un mostro. Quello più brutto è scontato: il 26 maggio. È stato uno dei più brutti derby giocati. C'era una tensione incredibile, prima e durante la partita. Abbiamo fatto una partita di merda. Mi piacerebbe vedere un nuovo derby in finale di Coppa Italia". E a proposito di derby, nell'ultimo De Rossi si è travestito per andare in Curva: "Non pensavo potesse fare una cosa del genere. Io però non mi travestirò per andare in Curva, mi farò vedere. L'ho promesso".

Totti su Nesta e sul figlio alla Lazio. Il giocatore più forte della Lazio? "Nesta, lui è il simbolo della Lazio. Era uno dei difensori più forti del mondo. Negli anni di Cragnotti la Lazio era una signora squadra, anzi, era uno squadrone".  Ma se arrivasse una proposta della Lazio per il figlio Cristian? "Se dipendesse da me ci penserei. Conoscendo Cristian, neanche mi farebbe mettere seduto. Se ci fosse solo quella o cambia lavoro o sceglie la Lazio". Sul figlio: "Cristian non è il nuovo Totti. È ancora giovane, appassionato, lo controllo quando gioca senza che se ne accorga".

Totti sul campionato della Lazio. Sulla Lazio attuale: "Da sportivo la Lazio sta disputando un campionato incredibile. Ha tre-quattro giocatori che potrebbero andare in altri club. Simone Inzaghi è bravo, c'è poco da dire. Sta facendo un campionato top, adesso vedremo dopo questo stop come finirà".

Totti su Pallotta e sull'addio al calcio. Su Pallotta e il suo addio al calcio: "Non me l'ha detto lui, me l'hanno comunicato altri. Quando servi bene, poi ti mettono da una parte. Ho sempre portato rispetto a tutti. Poi mi è arrivata questa comunicazione: "Ti mancano solo due partite per finire con la Roma". Un altro anno l'avrei fatto senza problemi".

Da calciomercato.com il 3 aprile 2020. Francesco Totti, storica bandiera della Roma, è intervenuto a Sky Sport: "La giornata è lunga, fortunatamente ho una famiglia che mi sostiene, stiamo sempre dietro ai bambini tra compiti, giochi e palestra. In questi 20 giorni ho quasi scaricato Netflix, la sera è l'unico modo per passare il tempo".

LA BENEFICIENZA "Nessuno si sarebbe aspettato questo problema. Abbiamo fatto un'iniziativa per lo Spallanzani di Roma, comprando 15 macchinari".

SUL MONDIALE DEL 2006 - "Il 19 febbraio ebbi un infortunio abbastanza serio. La sera stessa Mariani mi operò a perone e legamenti. Ero sicuro di saltare il Mondiale, Mariani mi disse che era un infortunio di almeno 7 mesi. Lippi mi venne a trovare, ricordo quel discorso, mi ha dato la forza per uscire da quel tunnel".

SULL'ADDIO ALLA NAZIONALE - "Era una decisione presa già prima di farmi male perché ogni anno facevo 50-60 partite. Avendo un problema alla schiena, dovevo mettere da parte qualcosae non potevo mettere da parte la Roma. La Roma per me è stato tutto, il mio percorso più bello".

SU DEL PIERO - "Parlare di lui è riduttivo. Ci hanno sempre messo contro, o uno o l'altro. Avendo fortunatamente due caratteri simili, siamo riusciti a unirci di più. Barzellette? Sembravamo bambini, siamo stati da dopo cena all'una di notte a ridere".

SU DE ROSSI - "Lo rispetto, ognuno è libero di fare le proprie scelte. Ho avuto opportunità a fine carriera, all'estero - America ed Emirati Arabi - e in Italia, ma ero dubbioso. Volevo continuare, mi sentivo ancora di poter dare qualcosa, ma un anno non mi cambiava niente. La mia scelta di vita era quella di indossare un'unica maglia, avrei cancellato tutto il pensiero lungo 24 anni. Una la dico: la Sampdoria mi voleva a tutti i costi, Ferrero ha un debole per me".

RETROSCENA - "Se non ci fosse stato il torneo Città di Roma, con Ajax e Moenchengladbach, sarei andato alla Sampdoria. Volevano darmi in prestito, ma quella serata cambiò tutto".

SULL'ADDIO - "Sono passati tre anni, ma è come se non fossero passate. Spesso e volentieri riguardo quella giornata, per me è indimenticabile. Quello che ho passato io non l'avrà mai passato nessun altro. Ricordo ogni secondo i quella giornata, speravo non arrivasse mai. L'amore della gente, che piangeva, è qualcosa di impensabile".

SU SPALLETTI - Il primo Spalletti era un top, come un secondo padre. Il secondo Spalletti ha avuto le sue ragioni, qualche idea da altre persone. Non dico che ha voluto mettermi il bastone fra le ruote, ma non è andata come abbiamo voluto. Sapevo che ero in difficoltà, ma ho sempre tenuto la testa alta".

SULLA LAZIO - "Sarei stato contento per Inzaghi, ma se allenasse un'altra squadra. Da tifoso romanista spero si fermino il prima possibile, ma è una di quelle annate in cui gira tutto bene. In questo momento non gli si può dire nulla. Spero possa esserci un blackout il prima possibile".

SULLA ROMA - "E' una Roma di alti e bassi, siamo abituati a questi problemi. Fonseca è un grandissimo allenatore, sta capendo tantissime cose. Me ne parlano tutti bene, i giocatori in primis".

SULL'ITALIA - "Dobbiamo puntare sul vivaio, non sugli stranieri. Solo così ritroviamo i numeri 10, i vari Del Piero, Totti, Baggio...".

SULLA VITA DA SCOUT - "La mia volontà è trovare un altro Totti, uno di questo spessore. Lo cercherò in tutto il mondo, in Europa. Non sarà facile, cercherò di farli crescere al meglio. Riuscirò a trovarlo". 

Paolo Condò per sport.sky.it il 5 aprile 2020. Nel giorno in cui Sky Sport Uno dedica la sua programmazione a Francesco Totti, Paolo Condò torna sul rapporto speciale fra l'ex capitano della Roma e Antonio Cassano Fra i molti aspetti esplorati della vita (e delle opere) di Francesco Totti, quello che non finisce di affascinarmi - pur avendone parlato un milione di volte, molte direttamente con lui per la stesura del libro - è il suo rapporto con Antonio Cassano. Francesco lo definisce senza tentennamenti “il calciatore più forte col quale abbia mai giocato”, e non è una medaglia da poco se si considera che in Nazionale ha convissuto con Del Piero, con Maldini e Buffon, con Nesta e Cannavaro, con Pirlo, e nella Roma ha giocato tanti anni con De Rossi, un paio (e uno è stato il più prezioso) con Batistuta, e poi in vari momenti con Aldair, Montella, Salah e Dzeko. Eppure, Cassano è stato il massimo: quello, per usare parole sue, che sapeva in anticipo quale giocata incredibile lui si sarebbe inventato, per farsi trovare pronto nel punto esatto in cui sarebbe arrivato il pallone. Un’affinità elettiva basata ovviamente sul talento, ma nella sua dimensione visionaria prima ancora che tecnica: la lettura di una scacchiera con un anticipo di dieci mosse. Totti dice di se stesso di essere un “rosicone”, ovvero uno che patisce sconfitte e soprattutto beffe prima di farsene una ragione. È un modo più divertente e popolano di descrivere il rimpianto, uno dei sentimenti con i quale dobbiamo tutti fare i conti, prima o poi e a vari livelli, ed è logico che un campione dello sport ci arrivi a contatto più rapidamente. Una carriera in campo finisce presto (e a dispetto del ritiro a 40 anni, Francesco sente di aver chiuso prestissimo), e la conta di ciò che non hai vinto è nelle cose. In un certo senso Totti avrebbe di che essere seccato con Cassano, perché se Antonio avesse tenuto un comportamento più paziente probabilmente sarebbe rimasto alla Roma, consentendo alla coppia tecnico-umana di svilupparsi oltre ogni limite conosciuto, perlomeno nel nostro calcio. Ma Francesco non è il tipo da serbare rancore: anzi, a Cassano vuole un bene dell’anima perché è “un puro”, e la prima volta che me l’ha detto ho pensato di non aver mai sentito un complimento così bello. Gli vuole così bene da avergli perdonato pure quel famoso Roma-Samp, dovuta ai gol di Pazzini ma anche alla rifinitura da fenomeno di Antonio. Ha soltanto rosicato. Ma, dentro di sé, ammirandolo.

Stefano Carina per “il Messaggero” il 5 aprile 2020. Non 90 ma 60 minuti. Quelli che Totti si sentirebbe, al netto dei 43 anni e con una nuova carriera alle porte («Cerco il nuovo Francesco»), di poter regalare ancora al calcio. Un' ora nella quale l' ex numero 10 - a CasaSkySport - ha parlato di tutto. Dall' addio alla Roma («Ancora mi commuovo, sono fuori ma il mio cuore è rimasto a Trigoria») al retroscena post 28 maggio («Ferrero mi voleva alla Sampdoria»), passando per la sua partita del cuore («Roma-Parma dello scudetto»), il rapporto con l' ex ct Lippi («Quella sua visita in clinica cambiò tutto»), l' amicizia con Federer («Un giorno lo sfiderò a Paddle») e l' amore-odio con Spalletti («Ne ho conosciuti due...»). Senza dimenticare l' apprezzamento per Fonseca e l' amicizia con Inzaghi, al quale riserva un congedo scherzoso.

QUESTIONE DI SCELTE. Si parte dalle giornate scandite dal Coronavirus: «Chiusi in casa è lunga ma ho una famiglia che mi sostiene e dei bambini che hanno bisogno di attenzione. La beneficienza? Abbiamo acquistato dei macchinari per lo Spallanzani e raccolto circa 350 mila euro. Più un'iniziativa a favore della Croce Rossa». Dopo il passaggio sulla nazionale, nel quale ascolta in serie i videomessaggi di Lippi, Del Piero e Bergomi, s' inizia a far sul serio. Da capitano a capitano, ecco comparire Giannini: «A 16 anni, con il papà, mi ha dato tanti consigli». Un po' come lui con De Rossi: «Rispetto la sua scelta di chiudere al Boca, anche io a fine carriera ho avuto delle opportunità tra America, Emirati Arabi e Italia. Volevo continuare, poi mi sono detto che un anno o due in più in campo non mi avrebbero cambiato niente. Ferrero avrebbe fatto qualsiasi cosa per portarmi alla Sampdoria». Proprio in quella Samp dove aveva rischiato di finire nel 1997, prima di oscurare l' oggetto del desiderio Litmanen al Torneo Città di Roma e imporre lo stop al compianto Sensi.

FAVOLA UNICA. Una fortuna. Per lui e per la Roma. Le favole infatti sono belle perché uniche. Anche se con un finale commovente. Come il suo, datato 28 maggio 2017: «Le lacrime, quelle le ho ancora. Ricordo ogni secondo di quella giornata piena d' amore. Speravo non arrivasse mai, ma c' è sempre un inizio e una fine. Quando ho fatto la passerella, ho dovuto mettere tutto da parte ma qualcuno neanche lo avrei salutato». Uno di questi era Spalletti: «Ho conosciuto due persone diverse. Il primo Luciano era il top, come un secondo padre. Non dico che ci stavo sempre insieme ma quasi. Il secondo invece avrà avuto le sue ragioni, qualcosa non è andato nel migliore dei modi». Da un tecnico all' altro, è il turno di Fonseca («È un grandissimo, me ne parlano tutti bene, in primis i calciatori») e poi di Inzaghi: «Sono molto amico di Simone, sarei contento se allenasse un' altra squadra... Alla Lazio non si può dire nulla. Cosa succede alla ripresa? Spero in un blackout...». Eccola la stilettata, come un cucchiaio in pieno recupero: «Perché io rimarrò sempre della Roma. Anche se sono fuori Trigoria, il mio cuore è sempre lì dentro». Sipario.

Guido D'Ubaldo per corrieredellosport.it il 26 febbraio 2020. Una storia di 33 anni è finita in tribunale. Tonino Tempestilli è stato allontanato dalla Roma alla fine dello scorso anno. Dopo essere stato giocatore, allenatore e dirigente, l’attuale management ha deciso che non c’era più bisogno di Tempestilli a Trigoria. Il popolare Cicoria ripercorre le tappe del suo lungo percorso in giallorosso: «Arrivai alla Roma a settembre 1987, ero al Como, mi volle Liedholm. Ho smesso nella stagione 92-93, quando mio figlio ebbe qualche problema di salute, poi risolto. Subito dopo ho intrapreso la carriera di allenatore. In panchina dal ‘93 al ‘96 e nell’ultima stagione vincemmo lo scudetto con i Giovanissimi, in quella squadra giocava D’Agostino sotto età». Poi il passaggio da dirigente: «Nel 1997 si creò la necessità di sostituire Fernando Fabbri, a me piaceva il campo, ma il presidente Sensi voleva cambiare e per riconoscenza ho accettato di fare il team manager. Sono andato in panchina per tanti anni, ho vinto lo scudetto con Capello, la Coppa Italia, poi lasciai il posto a Scaglia». Una promozione nei quadri dirigenziali: «Sono stato responsabile organizzativo, responsabile del centro sportivo e main contact dell’Uefa inizialmente affiancando il generale Di Martino». Qualche mese fa la rottura: «Mi hanno detto che non andavo più bene, non perché avessi sbagliato o rubato, ma per divergenze di vedute. Dopo 33 anni non avrei mai pensato di essere costretto a intraprendere una causa giudiziaria contro una società alla quale ho dato tutto. I miei legali Maria Lucrezia Turco e Andrea Granzotto hanno depositato il ricorso avverso il licenziamento irrogato a gennaio. E’ l’ultima cosa che avrei voluto fare, ma dopo il trattamento che mi hanno riservato non avevo altre soluzioni». Tempestilli spiega chi ha causato la rottura: «Con Fienga, Zubiria e altri dirigenti non c’è stato un accordo, ho provato a chiedere un colloquio a Fienga, non me lo ha mai concesso, ora ognuno percorrerà la sua strada. Auguro alla Roma le migliori fortune, ha un allenatore bravo e competente, mentre altre persone non sono all’altezza del ruolo che occupano».

Mimmo Ferretti per il Messaggero il 27 febbraio 2020. Dalla Serie A ai fornelli il gol di chef Scarnecchia. C’è chi diventa allenatore, chi direttore sportivo, chi procuratore e c’è pure chi, una volta smesso di giocare a pallone, stacca completamente la spina, non vuole saperne più niente del calcio e si inventa una professione che nulla ha a che vedere con il proprio passato. È il caso, questo, di Roberto Scarnecchia, classe 1958, ex pupillo di Paulo Roberto Falcao, protagonista - con alterne fortune - a cavallo degli Anni Ottanta con la maglia della Roma. Scarnecchia, alla fine della sua lunga rincorsa verso una nuova vita (allenatore, imprenditore, manager le tappe), si è ritrovato in cucina. Chef. O meglio, Misterchef, come recita l’azzeccato titolo della sua trasmissione a Roma TV, per ricordare la carriera in pantaloncini e scarpini. Non solo tv, però: Roberto è lo chef di un elegante ristorante a due passi da Fontana di Trevi e inoltre presta la sua opera professionale anche in altre strutture. Un misterchef, appunto. Andato a dama dopo una collaudata gavetta dietro ai fornelli di mezza Italia e un paio di anni negli States per studiare, affinandoli, i segreti della cucina. Il suo spaghetto al nero di seppia, fragole e gorgonzola somiglia a un gol nel derby, dicono. Dipende dai gusti, però.

Da I Lunatici Radio2 il 17 settembre 2020. Sebino Nela è intervenuto ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. L'ex calciatore di Genoa, Roma e Napoli ha parlato del suo stato di salute: "Come sto? La mia battaglia dura da otto anni, mancano dieci giorni alla mia quarta operazione chirurgica. Bisogna parlare di prevenzione. In tutti questi anni ho approfondito molto la cosa, partecipo a iniziative che riguardano questa malattia, questo cancro, che fa numeri terribili, ogni anno. Non ci sono altre strade rispetto alla prevenzione. La medicina è migliorata, ma l'unica vera arma che tutti noi abbiamo è la prevenzione. Noi maschietti abbiamo più paura rispetto alle donne di andare dal medico, tendiamo a rimandare sempre alla settimana prossima, non andiamo volentieri dai medici, mentre oggi anche con un semplice prelievo si possono capire molte cose. Non auguro a nessuno di fare tre anni di chemio, ci sono momenti in cui pensi di non poterne venire fuori. Tra dieci giorni affronterò la mia quarta operazione, dobbiamo fare un po' di pulizia, abbiamo trovato qualcosa che non va bene, c'è da ripulire un po'".

Sull'infortunio di Zaniolo in nazionale: "Bisogna distinguere tra la sua e la mia epoca. Oggi un infortunio al ginocchio è tutta un'altra cosa rispetto agli anni 80. Quasi sempre oggi dopo sei mesi torni a giocare partite ufficiali. Io sono stato fermo un anno, il ginocchio me l'hanno aperto da una parte all'altra, mi misero cinquanta punti. Alla mia epoca c'era davvero la paura di non poter tornare a giocare. Però cavolo, a quell'età, farsi due ginocchia, è pesante. Serve carattere. Sei mesi passano prima di un anno, io fui l'ultimo giocatore a portare il gesso, ma come detto una volta era diverso. I ragazzi oggi hanno tutto per stare bene e recuperare velocemente. Zaniolo non deve avere paura".

Proprio quando si infortunò, a Nela venne dedicata una canzone da Antonello Venditti: "Antonello scrisse per me “Correndo, correndo”. Io ero in ritiro in Toscana con la Roma, ero stampellato, mi vennero a chiamare in camera, mi dissero di scendere perché c'era Venditti. Nella hall dell'albergo c'era un pianoforte, Venditti si è messo a suonare e mi ha fatto sentire la canzone che mi aveva scritto. Fu una cosa bella, molto emozionante".

Nela è stato un grande calciatore di Genoa e Napoli: "Mi ritengo fortunato, ne parlo anche nella mia biografia finita in questi giorni e scritta a quattro mani insieme a Giancarlo Dotto. Edita da Mondadori, decideranno loro quando farla uscire. Io ho giocato in tre piazze pazzesche. Genova è la mia città, io sono ligure, da bambino tifavo per il Genoa. Anche Napoli è stata una esperienza meravigliosa. Ho conosciuto il napoletano, la sua passione calcistica, l'amore verso la città e la squadra. Anche la mia famiglia si è trovata benissimo a Napoli".

Tra il Genoa e il Napoli, tanti anni con la maglia della Roma: "Sono il calciatore che ha vinto di più in assoluto con la maglia della Roma. Uno scudetto, tre Coppa Italia e due finali europee, una di Coppa Campioni, una di Coppa Uefa. Eravamo una squadra fortissima, eravamo vent'anni avanti rispetto agli altri, giocavamo a zona, facevamo quello che fa oggi Guardiola e pochi altri. Forse si poteva vincere qualcosa di più. Il rimpianto è legato più a Roma-Lecce che a Roma-Liverpool. Perché c'era la consapevolezza di incontrare il Liverpool più forte della storia, non eravamo preparati a livello internazionale, alla fine ci sta perdere ai rigori. Ma quello che ha dato veramente fastidio a tutti noi è stata la sconfitta con il Lecce. Il campionato era praticamente vinto, abbiamo rovinato tutto. L'addio alla Roma di Pallotta? Non mi sono salutato male, la società ha fatto una scelta, mi dispiace perché stavo facendo una cosa che mi piaceva molto, lavoravo insieme alle ragazze, nella Serie A femminile, in un mondo che sta avanzando a piccoli passi. Ormai il calcio femminile è una realtà. Mi sarebbe piaciuto continuare, ma le società fanno le loro valutazioni. Io non ho detto nulla, le mie figlie hanno avuto uno sfogo, mi spiace, ma l'hanno fatto perché sapevano quanto ci tenevo. Vedremo ora cosa succederà con la nuova proprietà. Mi pare siano partiti bene".

Su Di Bartolomei e Falcao: "Io e Falcao siamo sempre andati molto d'accordo, a me ha dato enormemente fastidio il fatto che lui non abbia tirato quel calcio di rigore in finale. Questa cosa non mi è mai andata giù. Dal giocatore più forte ci si aspetta che prenda l'iniziativa. Non era rigorista, ma i rigori li tirava e quello doveva tirarlo. Doveva essere il nostro giocatore più importante e carismatico e poi non tira il rigore in quel momento. Di Bartolomei invece per me era il Capitano. Non ci sono altre parole. Parlava poco, era introverso, ma era anche uno che amava ridere e scherzare. Ogni capitano dovrebbe essere come lui".

Sebino Nela: «Ho visto  la morte in faccia. Il suicidio come Di Bartolomei?  Non ho avuto il coraggio». Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Luca Valdiserri. «Con quello che ho passato, diciamo che sto bene. Devo fare un’altra operazione a breve. Più breve tempo possibile. Sarà la quarta. Non ce la faccio più....Che operazione? Ho il retto addominale aperto, le viscere spingono, mi esce sempre questo bozzo non bellissimo da vedere. Devo fare pulizia di un po’ di schifezza e mettere una rete di protezione. Dopo di che, continuerò i miei controlli ogni sei mesi». Così l’ex terzino della Roma, Sebino Nela, si racconta in una lunga intervista al Corriere dello Sport, parlando della lotta contro il tumore, del passato in giallorosso e dell’esperienza in società come responsabile della Roma Femminile. «L’umore? Va e viene. Leggere o sentire ogni volta di persone che conosco che se ne vanno da un giorno all’altro mi spegne un poco. Vialli e Mihajlovic? Mi ha turbato molto saperlo. A Sinisa mando messaggi attraverso il nostro amico comune Vincenzo Cantatore. Con Gianluca eravamo in camera insieme al mondiale di Messico ‘86. L’ho incontrato poche settimane fa, a Roma-Juventus. Ci siamo abbracciati. “Guarda che non si molla un cazzo”, gli ho detto. “Nemmeno di un millimetro”», ha raccontato Nela. «Due anni e mezzo di chemio non sono uno scherzo. Ti guarisce una cosa e te ne peggiora un’altra. Ho avuto degli attacchi ischemici. Ma la pressione è a posto, prendo tre pasticche al giorno e faccio la mia vita normalissima». Il tumore ora sembra una cosa lontana. «La cosa brutta di questo male è che gioisci, dici ho vinto, e poi scopri che a distanza di sei, sette, otto anni ritorna. Il cancro quando arriva non ti lascia più. Torna come realtà o come minaccia. Sta sempre lì. «Se ho visto la morte in faccia? Ho metabolizzato questa cosa. Non so quante volte mi sono ritrovato di notte a piangere nel letto. Ci ho pensato un miliardo di volte. E sai che ti dico, se domani dovesse succedere, “sti cazzi…”. Ti parte un film di tutto quello che hai fatto, il bene e il male. Alla fine, sono soddisfatto della persona che sono. Non ho rimpianti, posso morire anche domani». Nela ha poi parlato della Roma passata e di Paulo Roberto Falcao. «Antipatia congenita? Non mi sta antipatico. Lui a Roma faceva vita a sé. Noi, io, Pruzzo, Ramon Turone, Chierico, stavamo magari da “Pierluigi”, il ristorante, a giocare a tressette fino alle quattro di mattina, lui se ne stava a casa, non usciva mai. Il rigore non tirato? A Roma c’è tutt’ora un’adorazione per Falcao. Anche per questo lui quel rigore doveva tirarlo. Tu pensi che il Totti di turno, Del Piero o Baggio si sarebbero scansati in una finale mondiale?», ha detto l’ex difensore giallorosso. Falcao dice che stava male, che l’effetto delle infiltrazioni era finito, che quella partita nemmeno doveva giocarla. «Non esiste che tu non tiri il rigore in una finale di Coppa Campioni davanti ai tuoi tifosi. Tu, Falcao, devi essere l’esempio. Potevi stare pure zoppo, ma lo tiri, non me ne frega un cazzo. E lui zoppo non era. Ha sbagliato, mi dispiace. Come se in guerra, alla battaglia finale, chi ti comanda scappa, diserta. Non te lo aspetti. Da quella sera ho dubitato di lui». Nela non si tira indietro su nulla neanche su Agostino Di Bartolomei. «Perché si è ucciso? Lo stimavo immensamente. Un capitano vero. Come devono essere i capitani. Era malato dentro, nell’anima. Ci ho pensato anch’io, spesso, negli anni duri della malattia, ma non ho mai trovato il coraggio». Poi sulla Roma attuale. «Fonseca? Ha dovuto lavorare tra mille difficoltà. Ho bisogno di un altro campionato per capire bene cosa sia. Per ora, giudizio sospeso. Mi piacerebbe vederlo incidere di più sulle scelte di mercato. Squadra di scarsa personalità o di scarso talento? La maglia della Roma pesa non so quanti chili. Roma è la squadra del popolo e il tifoso non è stupido. Non chiede lo scudetto, ma sa riconoscere chi dà tutto per la causa. Hanno amato giocatori come Piacentini e Oddi. Due piedi quadrati, ma ci mettevano il cuore. Zaniolo? Non so cosa sente nella testa. Lui piace a tutti di suo, la corsa facile, la fisicità, i capelli. Dico solo, portatelo un giorno a Trastevere, dentro una macelleria di Testaccio, fategli respirare le viscere di Roma. Il giocatore che più ha incarnato le viscere di Roma? Daniele De Rossi. Una volta lo vidi piangere in tivù, mi colpì e gli mandai un messaggio».

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 12 febbraio 2020. Diciamo che si fa notare. Un vero, vulnerabilissimo macho, che avanza deciso sula fascia, che sia una tavola amica o un nemico fetente, alla faccia dei tumori che ti attaccano e del tempo che precipita. E del freddo di febbraio che inclina al gelo (“Mi fa il solletico, noi siamo abituati alla tramontana di Genova”). Il cardigan grigio di lana sul torace nudo in bella mostra, sotto la giacca di lana. Devi fare un bell’atto di fede per credere alla sua malattia, per pensare a lui come a un uomo che viene da due anni e mezzo di chemio e chissà quante notti da incubo. I capelli, tutti. I celebri bicipiti femorali, intatti. Uomini come Sebino Nela, con la scusa di essere Sebino Nela, vogliono solo una cosa, una più di ogni altra, passare un paio d’ore a tavola con qualcuno che li aiuti ad essere Sebino e a dimenticare Nela. Il personaggio, la star del calcio, come sta documentato nelle pagine di Wikipedia, dell’album Panini, nei poster in posa da Hulk e negli occhi adoranti dei tifosi. Sebino è uno strano impasto di uomo, gentile e selvaggio allo stesso tempo e nella stessa pelle. Si presta a fare foto (gli autografi non li vuole più nessuno) con chiunque. Sorride a tutti, ma il coltello a serramanico è lì, sempre pronto a scattare. Smanioso di fidarsi e l’istinto che lo spinge a diffidare. Quasi tre ore, il ratto del Sebino. Insieme a tavola. Uno di fronte all’altro. Lui è quello che è. Veste come vive. In conflitto permanente tra il suo cardigan di lana e il torace in mostra. Tra la voglia di mostrarsi nudo e quella di proteggersi. Di abbandonarsi alla persona che lo racconterà e minacciarla per come lo racconterà, scherzosamente dice lui, ma non si sa mai (“Attento a quello che scrivi, ti vengo a cercare”). Gli anni sono quasi sessanta, Sebino ha visto e vede la morte negli occhi, se ne frega dei convenevoli. Bastano poche cose per avviare i motori. Una bottiglia di rosso molisano, due fette di pizza con la mortadella al pistacchio e piatti che vanno e vengono. Il rosso aiuta a calarsi nel pozzo. In fondo al quale sta scritto chi è Sebino, un mistero per lo stesso Sabino. Dal tavolo di un ammiratore, un trasteverino da manuale, arriva un assaggio di stracciatella con whisky e pepe. Micidiale per chiunque. Roba per uomini veri. Per uno come Sebino, che picchia più di quanto viene picchiato. È la sua natura, il suo sangue misto sardo e ligure. Dinamite pura. La “partita più tosta, più ignorante della mia vita? Contro il tumore al colon, un nemico sconosciuto”. Godereccio” come si definisce lui, spirituale come non lo definisce nessuno, perché nessuno, pochi lo conoscono. “Questi anni che vivo mi piacciono tanto. Sono padre di due ragazze meravigliose, la mia testa funziona, posso sedermi in qualunque tavolo di un’osteria o di una casa altolocata e parlare di tutto”. Sebino il duro racconta di quante lacrime ha versato e risponde a chi domanda: “Il lusso della vita? Uno solo, la salute”.

La salute innanzi tutto.

“Con quello che ho passato, diciamo che sto bene. Devo fare un’altra operazione a breve. Più breve tempo possibile. Sarà la quarta. Non ce la faccio più…”.

Che operazione?

“Ho il retto addominale aperto, le viscere spingono, mi esce sempre questo bozzo non bellissimo da vedere. Devo fare pulizia di un po’ di schifezza e mettere una rete di protezione. Dopo di che, continuerò i miei controlli ogni sei mesi”.

L’umore?

“Va e viene. Leggere o sentire ogni volta di persone che conosco che se ne vanno da un giorno all’altro mi spegne un poco”.

Vialli e Mihajlovic dopo di te, il tuo stesso male.

“Mi ha turbato molto saperlo. A Sinisa mando messaggi attraverso il nostro amico comune Vincenzo Cantatore. Con Gianluca eravamo in camera insieme al mondiale di Messico ’86. L’ho incontrato poche settimane fa, a Roma-Juventus. Ci siamo abbracciati. “Guarda che non si molla un cazzo”, gli ho detto. “Nemmeno di un millimetro”.

La tua guerra.

“Due anni e mezzo di chemio non sono uno scherzo. Ti guarisce una cosa e te ne peggiora un’altra. Ho avuto degli attacchi ischemici. Ma la pressione è a posto, prendo tre pasticche al giorno e faccio la mia vita normalissima”.

Il tumore sembra cosa lontana…

“La cosa brutta di questo male è che gioisci, dici ho vinto, e poi scopri che a distanza di sei, sette, otto anni ritorna. Il cancro quando arriva non ti lascia più. Torna come realtà o come minaccia. Sta sempre lì”.

Hai visto la morte in faccia.

“Ho metabolizzato questa cosa. Non so quante volte mi sono ritrovato di notte a piangere nel letto. Ci ho pensato un miliardo di volte. E sai che ti dico, se domani dovesse succedere, ‘sti cazzi…”.

Come ci arrivi a questa conclusione?

“Ti parte un film di tutto quello che hai fatto, il bene e il male. Alla fine, sono soddisfatto della persona che sono. Non ho rimpianti, posso morire anche domani”. 

Parliamo di vita e di appetiti primari. A tavola mi sembri okay. Calici e piatti svuotati alla grande. Fai ancora sesso?

“Quando la fatica supera il piacere è l’ora di smettere. Scherzo? Mica tanto. Se il concetto lo sposti dal sesso al calcio è perfetto. Se ci pensi, un giocatore smette quando si alza la mattina e gli fa fatica andare al campo”.

L’immagine di Sebino Nela è quella del guerriero. Ti corrisponde?

“La gente che ne sa? Conosce la superficie, il calciatore. Non conoscono il Sebino privato, il suo carattere, le sue emozioni”.

Se devo raccontare Sebino Nela per come lo conosco non inizio dal macho guerriero ma dalla sua ipersensibilità quasi femminea.

“Sono d’accordo con te. Penso alle tante volte che avrei potuto fare scelte diverse, avere una vita diversa, ma mi sono lasciato deviare dalle emozioni”.

Quanti soldi hai messo da parte con il calcio?

“Che cazzo di domanda?! Non si fa una domanda del genere a un genovese. Posso solo dirti che ho messo in sicurezza la famiglia”.

Parliamo di Roma e del tuo incarico oggi in società.

“Prima mi alzo e vado a farmi una sigaretta che sto impiccato…(al cameriere) Fausto, fammi due costolette d’abbacchio da sgranocchiare…Dopo voglio parlare di politica”. (torna dalla sigaretta)

Da che parte stai in politica?

“Sono un democratico di destra. Sono per la patria, la tradizione, l’ordine e la disciplina”.

La vita è disordine e caos.

“Proprio per questo c’è bisogno delle regole”.

Voti Salvini?

“No, a me piace molto la Meloni. La stimo come donna e come politica. La trovo una bella persona. Ha portato il suo partito dall’uno per cento a quasi il dieci”.

Diciassette anni da calciatore, tra Genoa, Roma, Napoli e Nazionale. Il compagno del cuore?

“Nessuno. Solo frequentazioni superficiali. Per molti anni ho dormito in camera da solo. La luce accesa e la finestra aperta, cose che possono dare fastidio a un compagno”.

Non posso credere che in tanti anni non hai messo da parte un rapporto che vale.

“Con Rudi Voeller sembrava una cosa importante. L’ho aiutato i primi tempi a Roma nelle sue cose private. Ci frequentavamo molto, anche con le famiglie. Per anni siamo andati a Leverkusen da lui in agosto”.

E poi?

“Mi ha deluso e ho voluto interrompere il rapporto”.

Racconta.

“Fui chiamato da un calciatore della Roma per convincerlo ad accettare la panchina giallorossa. C’era da superare la resistenza della moglie. Normale a quel punto aspettarmi d’essere coinvolto. Lui di quella Roma sapeva poco e niente”.

E invece?

“Non mi ha nemmeno cercato. Sono rimasto amareggiato”.

Non ti lasci scivolare niente addosso.

“Posso dirti che anche con mia madre e mia sorella ho chiuso da anni. Ho sangue sardo nelle vene, forse la parte di cui sono più fiero. Quando mi sento ferito, quando mi fanno del male, dico basta e non torno indietro…Dimmi una cosa, tu verrai al mio funerale?”.

Magari vieni tu al mio…

“Ci puoi contare. Io vado ai funerali. Ci credo. Mi piace dare l’ultimo saluto alle persone che ho stimato. L’ultimo? Giovannone Bertini”.

Anche lui vittima dalla Sla come tanti altri ex Fiorentina.

“Se vai a leggere su internet diventi matto…Fai fatica a pensare che siano tutte coincidenze”.

Neanche con il tuo conterraneo bomber Pruzzo hai stretto un’amicizia profonda?

“No. Siamo due caratteri completamente diversi. Lui è veramente orso. Tanti anni a Roma non lo hanno modificato. Io mi sono romanizzato, lui è rimasto quello che era. Un fortino inespugnabile. Bravo ragazzo, di una sensibilità unica. Noi l’abbiamo visto piangere, anche poco tempo fa”.

Mi ha raccontato la sua depressione.

“Non lo vedevo in quel periodo, ma mi riportavano tutto. Dopo cinquant’anni scopri cose meravigliose di una persona, le sue fragilità. Da calciatore vivi solo rapporti superficiali”.

Persone fondamentali della tua vita senza le quali non ce la faresti.

“Convivo con i miei problemi, sono autosufficiente. Non mi devo aggrappare a niente”.

Un amico?

“Se sto toccando il fondo faccio uno squillo a qualcuno, ma senza far capire che sto a pezzi”.

Hai legato poco, eufemismo, con Paulo Roberto Falcao. Antipatia congenita?

“Non mi sta antipatico. Lui a Roma faceva vita a sé. Noi, io, Pruzzo, Ramon Turone, Chierico, stavamo magari da “Pierluigi”, il ristorante, a giocare a tressette fino alle quattro di mattina, lui se ne stava a casa, non usciva mai”.

Magari non sa giocare a tressette.

“Per me far parte di un gruppo significa spirito di appartenenza. Lui aveva la sua vita, lo vedevamo solo in allenamento e alla partita”.

Era il cocco di Liedholm.

“Gli permetteva tutto. Decideva lui come e quando allenarsi. La domenica, prima della partita, noi tutti insieme per il pranzo delle 11, lui da solo a mangiare in camera”. 

C’è poi la storia del rigore non tirato.

“A Roma c’è tutt’ora un’adorazione per Falcao. Anche per questo lui quel rigore doveva tirarlo. Tu pensi che il Totti di turno, Del Piero o Baggio si sarebbero scansati in una finale mondiale?”.

Lui dice che stava male, che l’effetto delle infiltrazioni era finito. Che quella partita nemmeno doveva giocarla.

“Non esiste che tu non tiri il rigore in una finale di Coppa Campioni davanti ai tuoi tifosi. Tu, Falcao, devi essere l’esempio. Potevi stare pure zoppo, ma lo tiri, non me ne frega un cazzo. E lui zoppo non era. Ha sbagliato, mi dispiace”.

“Tornando indietro, lo tirerei, se avessi solo immaginato il casino”, mi ha detto.“Lo devi tirare non per evitare il casino, ma perchè sei il giocatore più importante di questa squadra. Lo sbagli? Fa nulla. Saresti comunque rimasto l’ottavo re di Roma”, Bruno Conti lo ha sbagliato e al suo addio c’era tutta la città giallorossa. “Ci mancherebbe altro. Come se in guerra, alla battaglia finale, chi ti comanda scappa, diserta. Non te lo aspetti. Da quella sera ho dubitato di lui”.

Sei stato l’unico a prenderla così male?

“Non sono stato l’unico, ma sono l’unico a dirlo, così, a cuore aperto. Degli altri non me ne può fregare di meno. Se un giorno viene Paulo a Roma e c’invita tutti, probabile riceva un no da me. Io sono fatto così e non dico che sono fatto bene”.

Lo spogliatoio dopo quella finale?

“Non parlava nessuno. Sono uscite mille stronzate, di litigi, parolacce. Falso. Eravamo tutti annichiliti. Io dovevo prendere mio padre e mia madre che stavano allo stadio, me ne sono dimenticato. Sono andato dritto a casa."

La delusione più grossa: Liverpool o Lecce?

“Il Lecce. In una finale con uno dei Liverpool più forti di sempre non vai in campo convinto di fare una passeggiata, anche se perderla ai rigori ti rode”.

Quanto un calciatore si porta in campo i suoi problemi privati?

“Non era il mio caso. Io sono diverso. Allenarmi era uno sfogo liberatorio. Ho visto compagni travolti dai problemi personali. È umano”.

Non sei umano?

“Probabile. I pochissimi che sapevano della mia storia mi hanno fatto i complimenti per come l’ho affrontata”. 

La storia molto difficile con la tua prima moglie.

“È stata durissima. Ti dico solo che in quel periodo giravo con una pistola in tasca e una volta ho dovuto anche usarla contro il cattivo di turno, che si è guardato bene dal denunciarmi. Per proteggere una persona cara sono disposto a tutto, non mi ferma nessuno. Vedi questo bicchiere? Se m’innamoro di lui e me lo vogliono rubare divento un animale”.

Il calcio è una bella e redditizia illusione. Poi c’è la vita reale.

“Auguro ai milionari di oggi, per il loro bene, di frequentare sempre tifosi che li faccia restare nella loro illusione anche quando smettono. Moriranno senza sapere cos’è la vita reale”.

Non è il caso tuo…

“Non sono mai stato il prototipo del calciatore. Non ho potuto studiare, ho la terza media, ma, da autodidatta, mi sono fatto la mia piccola cultura. Sono curioso, leggo e m’informo di tutto”.

Perché Agostino Di Bartolomei si è ucciso?

“Lo stimavo immensamente. Un capitano vero. Come devono essere i capitani. Era malato dentro, nell’anima. Ci ho pensato anch’io, spesso, negli anni duri della malattia, ma non ho mai trovato il coraggio”.

Tentazione di fare l’allenatore?

“Tre anni di corso a Coverciano. Ma lasciare la televisione per andare in un club minore e farmi cacciare da un presidente che non capisce un cazzo di calcio, non mi allettava. Mi sarebbe piaciuto fare il secondo a uno bravo. Non c’è stata l’opportunità”.

Fonseca ti convince?

“Ha dovuto lavorare tra mille difficoltà. Ho bisogno di un altro campionato per capire bene cosa sia. Per ora, giudizio sospeso. Mi piacerebbe vederlo incidere di più sulle scelte di mercato”.

Squadra di scarsa personalità o di scarso talento?

“La maglia della Roma pesa non so quanti chili. Roma è la squadra del popolo e il tifoso non è stupido. Non chiede lo scudetto, ma sa riconoscere chi dà tutto per la causa. Hanno amato giocatori come Piacentini e Oddi. Due piedi quadrati, ma ci mettevano il cuore”.

Zaniolo. Può essere lui la nuova identificazione del tifoso romanista?

“Non so cosa sente nella testa. Lui piace a tutti di suo, la corsa facile, la fisicità, i capelli. Dico solo, portatelo un giorno a Trastevere, dentro una macelleria di Testaccio, fategli respirare le viscere di Roma”.

Il giocatore che più ha incarnato le viscere di Roma?

“Daniele De Rossi.  Una volta lo vidi piangere in tivù, mi colpì e gli mandai un messaggio. Daniele l’ho visto crescere da bambino, allo Sporting a Ostia”.

Tu hai pianto per la Roma?

“Scherzi? Mille volte…Liverpool, Lecce, il Roma-Pisa quando morì il presidente Viola. Una settimana dopo a Bari, io che faccio il gol decisivo dell’1 a 0. Ho pianto a Roma-Bayern Monaco. Piangi pure dal nervoso a volte. Il bomber Pruzzo, prima della partita, giocava con la Juve o l’Ascoli, dava sempre di stomaco”.

Piangi in privato o anche in pubblico?

“Anche in pubblico. Non mi vergogno di piangere. Meglio che lanciare una bottiglia contro il muro. Piangere e fumare una sigaretta subito dopo. Che c’è di più bello?”.

Il disastro al ginocchio. Venditti ti dedicò “Correndo correndo”.

“Non ti nascondo che l’ascolto ancora oggi quasi tutti i giorni  e ancora mi commuovo. Mi piace girare in macchina da solo e commuovermi con la musica. Tornare indietro nel tempo. Quasi un anno fermo. Oggi, bastano sei mesi”.

Da due anni dirigente dell’As Roma femminile.

“Sono felice di questo incarico. Con le ragazze ho un bellissimo rapporto. Avere due figlie, una di 27, l’altra di 25, aiuta. Cosa mi ha sorpreso? La grandissima preparazione, l’enorme applicazione. Sono dilettanti come statuto, ma professioniste nella testa”.

Difficoltà?

“Sono umorali. Troppo. Un giorno ridono, scherzano, il giorno dopo meglio se non ti avvicini. Sono molto sensibili. Parlano spesso con le psicologhe che la società mette a disposizione. Non è una realtà semplice la loro”.

Il calcio maschile è molto omertoso sul tema dell’omosessualità.

“Se ci sono, sono bravissimi a nascondersi. Quando vivi il calcio femminile devi inevitabilmente confrontarti con questo tema”, Elena Linari, giocatrice della Nazionale, è stata molto libera nel fare coming out. “Loro non devono vergognarsi di niente, devono vivere liberamente la loro sessualità. Noto un po’ di resistenza a farlo”.

Come lo spieghi?

“C’è paura dei contraccolpi nel movimento. Dire al mondo che il calcio femminile è fortemente connotato di omosessualità non spinge i genitori a portare le loro bambine alle scuole di calcio. Se questo succede, il movimento non cresce”.

Omosessuali ed etero convivono armonosamente?

“Il nostro è un gruppo di ragazze meravigliose. Poi ci sono le dinamiche di questo che è un mondo a sé. Mi raccontano di alcune che entrano etero e diventano omo o che provano l’esperienza omosessuale”.

Perché non ti si vede più in tivù?

“Scelte aziendali. Probabilmente ho fatto il mio tempo. Avanzano le nuove leve. Siamo anziani, caro mio”.

Funzionavi come seconda voce.

“Non piacevo a molti. Mi rimproverano di essere troppo distaccato. Ma a me piace così. Non amo chi strilla. E non sopporto tutta questa tattica. Sono telecronache autoreferenziali. Mi devi spiegare il gesto tecnico. Voglio capire perché sbagli un gol fatto a un metro dalla porta o ne fai uno da venticinque”.  

Il calcio che ti piace.

“L’Atalanta, il Verona. Mi piace il Sassuolo di De Zerbi. Il Lecce di Liverani. Sta crescendo una generazione di allenatori che non hanno paura di osare. Se la giocano con tutti”.

Un allenatore sopravvalutato.

“Per l’esperienza che ho avuto io, Vujadin Boskov. Da lui non ho imparato niente. Né a livello tattico, nè gestionale. Ma, grazie a Dio, io sono stato un calciatore fortunato”.

La tua fortuna?

“Ho lavorato con allenatori come Nils Liedholm e Sven Goran Eriksson, gente di un altro pianeta”.

Li metti sullo stesso piano?

“Due modi diversi di vedere calcio, ma avanti entrambi anni luce. Tutte le mie conoscenze calcistiche collettive e individuali le devo al Barone. Senza di lui sarei rimasto una zappa di calciatore”.

Alla vigilia dei sessant’anni…

“Da tempo sto pensando alla mia dipartita e sono sereno. Dovesse capitare non è un cruccio. Non ho rimpianti, nè sensi di colpa”.

Lo dici con questa leggerezza?

“L’unica cosa che vorrei chiedere, non so a chi, se a Lucifero, è di accompagnare all’altare le mie due figlie, Ludovica e Virginia, il giorno che si sposano”.

Sono vicine a farlo?

“Macché, stanno troppo bene a casa”.

Hai confidenza con le tue figlie?

“Non tanto. Ci basta guardarci negli occhi…”.

Mario Sconcerti per il Corriere della Sera il 25 febbraio 2020. Credo che a Napoli abbiano sempre sentito un dovere che Messi passasse da casa loro. È un gradino naturale nella saga di Maradona. Non importa che Messi venga da avversario, è il ritorno del mito che avvolge la città e ne racconta la sua differenza. Gli altri vincono di più, ma Napoli ha avuto Maradona. La città è ancora un museo del suo passaggio. Qui parlava alla gente, qua gli facevano la pizza, là proteggeva i deboli, più avanti a destra c' è l' angolo dove si nascondeva nelle sere buie. La gente vorrebbe prendere per mano Messi e portarlo nei luoghi di Maradona, perché sono i suoi. Gli appartengono per eredità e leggenda. Era tempo li conoscesse. Temo sia difficile che Messi capisca e ricambi. Mi è sempre sembrato uno che ha la freddezza dei timidi. La vita gli ha dato tanto ma gli passa sempre un po' di lato. Ha un carisma triangolare, pieno di spigoli; non ha complici, sembra un poeta solitario, inverosimile. Forse è questo che lo rende inafferrabile. Come potrà marcarlo stasera il Napoli? Certamente non a uomo. Una marcatura fissa lo toglierebbe dalla partita ma non dagli episodi. Messi avrebbe tre scatti e segnerebbe due gol. Il calcio di Messi è un corridoio, devi coprirlo dall' inizio alla fine. Messi va marcato di squadra, da nessuno e da tutti, perché nessuno ha il suo tempo ma tutti devono avvicinarlo. Non una griglia, non tanta gente intorno, una serie di ostacoli progressivi, farsi trovare là da dove lui passerà dopo aver saltato il primo uomo. E incrociare le dita. Partirà lontano dalla porta, dove ha più spazio per cominciare il dribbling. Messi fa facilmente la cosa più difficile: saltare l' avversario. Per questo non bisogna stargli addosso, ma cominciare subito ad aspettarlo. Maradona era più universale, aveva un dribbling più rotondo. Era un capo. Messi è un attaccante migliore, forse solo un Maradona moderno, meno epico, senza visioni, con questa sua sfacciata facilità di segnare. Comunque andrà i napoletani lo adoreranno. Fa parte dell' eleganza dei ricordi. E del piacere di avere ancora una leggenda in casa.

Salvatore Riggio per corriere.it il 27 aprile 2020. A volte ritornano, anche nel calcio. Adesso è il caso di Edgardo Codesal, che magari alla nuova generazione non dice nulla, ma è l’arbitro della finale mondiale tra Germania Ovest e Argentina a Italia ‘90. Una gara vinta dai tedeschi, all’Olimpico di Roma (8 luglio), per 1-0 grazie al rigore nel finale realizzato da Brehme. È una gara passata alla storia per le lacrime a fine match di Diego Armando Maradona, che sognava tanto di vincere il suo secondo Mondiale e regalare all’Albiceleste il terzo titolo iridato dopo quelli conquistati nel 1978 e nel 1986. Non solo. È la gara anche del famoso «Hijos de puta», che il Pibe de Oro aveva rivolto ai tifosi italiani che avevano fischiato l’inno della sua Nazionale, «colpevole» di aver eliminato l’Italia in semifinale ai rigori, impendendo le rivincite della semifinale di Messico ‘70 e, soprattutto della finalissima Mondiale di Spagna ‘82, quello dell’urlo di Tardelli e dell’esultanza sugli spalti dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini. «Avrei potuto espellere Maradona già prima dell’inizio della partita, ma ho capito il momento e ho deciso di gestire la situazione», il racconto di Codesal alla radio Tirando Paredes. Inoltre, dopo il rosso sventolato a Monzon al 65’ per un brutto fallo su Klinsmann, Maradona gli ha detto che gli stava derubando la partita. Quella finale, infatti, è stata oggetto di contestazione da parte dell’Argentina. Secondo l’Albiceleste, era stato negato un rigore a Dezotti e ne era stato dato subito dopo uno alla Germania Ovest, poi realizzato da Brehme appunto, per un fallo analogo di Sensini su Voeller. E per le vibranti proteste, Dezotti era stato anche espulso. L’Argentina aveva chiuso in nove quella partita: «Ho visto Maradona fare cose in campo degne della mia ammirazione e del mio rispetto. Io stesso ho visto come la sua caviglia fosse una palla. Come giocatore era il migliore, ma fuori è una persona spiacevole. Una delle peggiori che abbia mai incontrato in vita mia», ha continuato Codesal. Infine: «Il fallo da rigore di Sensini su Voeller non è in discussione. Lui è andato a contrastare l’attaccante in maniera difficile, era quasi impossibile evitare il contatto con la gamba destra. Ci sono stati un paio di contrasti simili. Uno di Goycochea e uno di Calderon. Ma all’epoca si potevano fischiare i falli solo se intenzionali. In questi casi, quindi, erano falli involontari». Chissà se Maradona avrà voglia di rispondere.

"Azzurro come una pelle. Ce lo siamo dimenticati". Domani la Nazionale fa 110 anni. L'uomo dell'urlo ai Mondiali 82 lancia l'allarme: "Ripartire da zero". Tony Damascelli, Giovedì 14/05/2020 su Il Giornale. Centodieci anni di nazionale, una pezzo di grande storia non soltanto del calcio ma dell'Italia. Quattro titoli mondiali, un europeo, un oro alle Olimpiadi, la bianca maglia di inizio, in omaggio forse alla Pro Vercelli che era la squadra esempio dell'epoca, sconfitta contro l'Ungheria, il 15 di maggio del 1910, quindi il debutto dell'azzurro di sempre, contro la Francia, l'anno appresso. E, a seguire, l'avventura di gloria e di sofferenze, l'eleganza di Baloncieri, il saluto romano, gli occhiali di Annibale Frossi, la rovesciata di Nuciu Parola, l'intelligenza di Boniperti, i gol di Piola, la naturale classe di Meazza, la bellezza di Valentino Mazzola, lo stile raffinato di Rivera, la spettacolare potenza di Riva, la forza astuta di Boninsegna, l'esempio unico di Zoff, la travolgente carica di Cannavaro. E, insieme con tutti, forse qualcosa in più, grazie alle immagini della televisione, grazie alla emozione pura di quei secondi, grazie a quell'urlo che veniva dalla foresta dei sogni, ecco Marco Tardelli, numero 14, italiano puro, toscano maramaldo, interprete moderno di un gioco antico, spavaldo e coscienzioso, odioso eppoi irrinunciabile. Centodieci anni riassunti in quella corsa libera, nell'aria umida di Madrid, davanti al mondo e al mondiale.

Che cosa è la nazionale? Che cosa significa quella maglia?

«È l'appartenenza. È la seconda pelle. Ti trasferisce orgoglio, amore, fiducia, sai di rappresentare una nazione».

Un patriota.

«Sì, un patriota. Quell'azzurro è come il cielo, ci sono stelle mentre lo indossi. Nessuno può sapere, nessuno può capire che cosa si provi quando ascolti l'inno e poi fuggi verso la partita, il gol. È la cosa più bella che potrei, anzi che posso augurare a un calciatore».

Non sempre stelle e cielo. Anche tormenti. Giovanni Arpino scrisse Azzurro tenebra, il romanzo dopo il fallimento del 74.

«Avevo vent'anni e il calcio faceva parte della mia vita, della mia carriera. Me ne innamorai durante il mondiale del 1970, in Messico, il primo trasmesso a colori. Rischiai il licenziamento».

Come?

«Facevo il cameriere all'hotel Duomo di Pisa, portavo i piatti ma non mi interessava nulla di quello che c'era dentro, correvo su e giù per le scale, dalla cucina ai tavoli ma mi fermavo per guardare la partita. Mi dissero di smetterla altrimenti sarei stato licenziato. Mi restarono impressi la voglia, il prodigarsi, la sofferenza di quella squadra, non soltanto il 4 a 3 con la Germania ma la finale contro il Brasile, pari fino a venti dalla fine, il Brasile di Pelé».

Pelé.

«Conservo la sua maglia, quella della selezione americana che indossava nella partita del bicentenario».

Tardelli terzino, c'erano Chinaglia, Bobby Moore. Una favola di calcio. L'unica maglia che conserva?

«No, una, in particolare, rappresenta per me un momento indimenticabile, una emozione fortissima, non è retorica, il gol segnato all'Inghilterra, a Torino. Tra un mese, domani, fanno 40 anni esatti».

La festa, la gioia, l'orgoglio, tutto evapora al fischio finale. C'è il campionato, ci sono altre maglie.

«Tornano i campanili, quelli che erano amici, compagni tornano rivali, nemici. La maglia del club ha altro significato. Ti puoi affezionare ma è un sentimento differente, è una sensazione diversa. Quando indossi l'azzurro rappresenti il Paese, quando indossi i colori del club rappresenti i tifosi».

Qualcosa è cambiato, qualcosa cambierà.

«Non lo so, mi auguro che così non sia, mi auguro che la nazionale resti un punto di arrivo e non voglio nemmeno immaginare altro».

Il calcio è diventato ormai un fatto mercantile, anche per la nazionale.

«Sento il rischio che si stia allontanando dai calciatori. Il senso di appartenenza viene a mancare da quando gli stranieri hanno preso il sopravvento numerico. Dunque il rapporto con la maglia è meno nobile. Ma che nessuno dimentichi o trascuri un fatto: abbiamo vinto gli ultimi due mondiali, dunque essendo i migliori di tutti, con calciatori italiani. Esiste un patrimonio e questo va salvaguardato».

È convinto?

«Deve essere così altrimenti è un danno per la nostra scuola, per la nostra storia del calcio. Non è vero che non si possa ricostruire una accademia italiana. Un tempo c'erano talenti che restavano fuori dalla nazionale, Beccalossi, Pulici, Pruzzo, perché c'era concorrenza, c'era grande scelta».

E oggi?

«Oggi la maglia azzurra non ha più lo stesso potere contrattuale. Una volta ti presentavi con quel passaporto e avevi maggiore forza con la società. Ma per meriti conquistati sul campo. Non per altro».

Che si può fare?

«Ricominciare da zero. Riformare. Indietro non si può tornare. Ma i calciatori devono sedersi allo stesso tavolo di queste riforme. Invece il sindacato è delegittimato, è in difficoltà. I presidenti devono capire che gli attori sono quelli che vanno in campo, quelli che, però, vengono messi ai margini. Anche per le nuove regole. Ma che storia è quella del fallo di mano? Ma se si corre, se ci si stacca in volo dove puoi tenere le braccia? E il fuorigioco così regolamentato?»

Le partite a porte chiuse?

«Una bruttura ma non ci sono alternative».

Lei oggi avrebbe paura a tornare in campo con l'ombra del coronavirus?

«Ho giocato molte volte in condizioni fisiche precarie ma rischiavo io, non altri. Stavolta sarei preoccupato ma, come detto, sono i calciatori, compatti, a dare una risposta. La paura, la preoccupazioni sono emozioni umane. Ma trovo impossibile se non idiota il divieto ad abbracciarsi. Avete in mente l'abbraccio di Riva a Rivera dopo il gol contro la Germania, quello di Bobby Moore a Pelé, il bacio mio con Michel Platini. Questo è il calcio, liberazione, festa, gioia. Questa è la vita».

Questo è Marco Tardelli.

Andrea Elefante per la Gazzetta dello Sport il 3 giugno 2020.

Marco Tardelli, dunque il calcio ripartirà: era favorevole o contrario?

«Chi ama il calcio è contento, ma è una ripresa piena di dubbi: dall' applicazione del protocollo, al destino della Serie B e della C, di cui quasi non si parla. Riusciranno ad applicarlo? Sarà sicuro per loro come per i giocatori di A? Siamo sotto lo stellone della fortuna: speriamo ci protegga».

Non è troppo poco affidarsi alla fortuna?

«Non solo a quella, ovviamente: qualcosa si è fatto per la sicurezza e la salute dei calciatori, ma non basta per avere certezze».

Vuol dire che si poteva fare di più?

«Per fare di più servirebbe il vaccino. Diciamo che si sta facendo tutto il possibile perché i giocatori siano costantemente controllati, protetti, in sicurezza».

Si fa più per i calciatori che per la gente comune: demagogia?

«Ci sono distonie, ma questa non è colpa dei calciatori: per ricominciare a giocare bisogna fare il più possibile. Purtroppo da quarant' anni c' è un sistema che considera i calciatori come ricchi e viziati e in tutta questa emergenza mi sembra siano stati lasciati un po' soli. Sono state fatte delle lotte, ma non quelle giuste: in campo ci vanno loro, sono loro quelli che rischiano. E vogliamo parlare di chi ha il contratto in scadenza a giugno e ora deve rincorrere accordi individuali per giocare? Si è parlato molto meno di questo che degli orari delle partite».

Si è litigato troppo per riprendere il prima (e il meglio) possibile?

«Sì, molto. Ed è passato molto tempo: sembrava che il traguardo fosse sempre dietro l' angolo e invece non si arrivava mai. Ognuno ha cercato di coltivare il proprio orticello e alla gente questo ha dato molto fastidio: tanti tifosi non avrebbero voluto ricominciare».

Quindi non l' ha meravigliata sentire il presidente della Figc Gravina parlare di mecenati e cialtroni?

«Parole molto dure. A chi si riferiva esattamente bisogna chiederlo a lui, di sicuro sull' argomento ripresa il calcio non ha dato dimostrazione di compattezza».

Ma i calciatori volevano riprendere?

«Alcuni sì e altri no, anche fra loro poca armonia e un po' di confusione. Quelli di Serie A sono andati per conto loro, alcuni capitani spingevano per non giocare, altri invece non volevano farsi toccare lo stipendio. Sui tagli non c' è stato un accordo collettivo, si è lasciato che ogni club decidesse per i suoi tesserati: credo che l' Aic dovesse puntare a un' intesa che stabilisse tutele uguali per tutti».

Glielo chiediamo da prossimo candidato alla carica di presidente dell' Aic: è quello che avrebbe fatto, se avesse avuto quel ruolo?

«Non ce l' ho, quindi parliamo soltanto di ipotesi: avrei cercato di aiutare tutti, soprattutto la base, cercando risorse interne al mondo del calcio. Non ricorrendo alla cassa integrazione che forse arriverà a luglio. Forse».

Cosa intende per risorse interne al mondo del calcio?

«Ad esempio destinare parte degli stipendi "sospesi" ai giocatori della Lega Dilettanti o a chi ne aveva bisogno in Serie C. Ma questo mondo non è pronto a stare in piedi da solo, ha bisogno di diventare sostenibile: la vera eredità dell' emergenza coronavirus dovrà essere una riforma di tutto il sistema calcio, che garantisca finalmente tutele vere e importanti a tutti, dalla Serie A ai Dilettanti».

Torniamo al presente: che partite sta vedendo in Bundesliga?

«Calcio un po' playstation, sicuramente non quello di prima: attenzioni diverse, meno durezza, meno aggressività, meno tensione».

In Italia sarà lo stesso?

«All' inizio può darsi, magari piano piano certe remore spariranno. Ma non dimentichiamo - non a caso il ministro Spadafora l' ha detto più volte - che non tutti i giocatori volevano riprendere».

Gli arbitri saranno davvero più rispettati?

«Me lo auguro, e magari visti tutti i vincoli sul distanziamento si vedranno meno barriere a un metro... Scherzi a parte: può essere una buona occasione per un avvicinamento reciproco fra due categorie spesso in conflitto. Anche se spesso è più aggressivo chi parla o chi scrive fuori dal campo».

Giocare 12 o 13 partite in 40 giorni è troppo?

«Siamo in emergenza, si deve fare un sacrificio».

Si giocheranno di pomeriggio 10 partite su 124: l' Aic ha protestato, lei ha già ha detto che non sarà un dramma.

«Direi proprio di no: a che ora si va in campo negli altri campionati? E solitamente ai Mondiali o agli Europei? Usa '94 allora non si doveva proprio giocare?».

Giusta la novità delle cinque sostituzioni?

«In assoluto troppe, ma sono giuste adesso: va dato atto che i giocatori possono trovarsi in difficoltà fisica. Leggiamola così: possono sottolineare la valenza degli allenatori».

E se il campionato non dovesse finire?

«La soluzione più naturale mi sembra considerare una classifica in base alle partite giocate sul campo: è lui che decide».

Quindi niente algoritmo?

«E' l' ipotesi che mi ha divertito di più, ma mi è sembrato più che altro un annuncio ad effetto, un po' la ricerca di un colpo a sorpresa. Non mi convince, come i play off e i play out, ma alla fine se ne può anche discutere».

La facciamo immalinconire un po': un luogo sacro come lo spogliatoio sarà solo un ambito di passaggio.

«Lo richiede il momento. ma è difficile cambiare le abitudini di sempre: secondo me un po' si trasgredirà».

Si vedranno più urli come il suo a Madrid, visto che non ci si può abbracciare?

«Abbracciarsi dopo un gol è la cosa più bella, toccarsi con i gomiti sudati molto meno...Ma passerà».

Marco Tardelli: «Myrta Merlino è l’amore della mia vita. Io, insicuro e un po’ geloso sto bene solo fra i miei ulivi». L’ex calciatore: «L’urlo Mundial? Da lì rinacque il Paese». «Ero in Inghilterra, in tribuna per una partita e fumavo il sigaro. Si avvicinò un signore con il cartello “Don’t smoke”. Non mi sono mai vergognato tanto». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2020. Per milioni di italiani, Marco Tardelli «è» il famoso urlo di sette secondi del Mundial ’82 a Madrid, il mitico secondo gol azzurro di Italia-Germania 3-1, un’icona mediatica non solo sportiva. In tribuna il presidente della Repubblica Sandro Pertini che si alza in piedi entusiasta. Un pezzo di storia italiana...«Quell’urlo, quel gol, quella vittoria insomma, segnarono simbolicamente una rinascita dell’Italia. Alle spalle c’erano gli anni del terrorismo, i morti, gli scandali. Fu l’inizio di un riscatto. Lo sport, quello buono, serve anche a questo. Pensiamo a Coppi-Bartali, un’altra ri-partenza dell’Italia. Nelson Mandela lo disse benissimo nel 1995 quando la nuova squadra multirazziale di rugby del Sudafrica vinse la Coppa del Mondo: “Lo sport può risvegliare la speranza, dove prima c’era solo disperazione. Ha il potere di unire le persone come poche altre cose al mondo. Parla ai giovani in un linguaggio che capiscono”. Meglio di così, non si potrebbe dire...».

Ma quando lei segnò, e urlò, era consapevole di tutto questo?

«Certo che no. L’onda emotiva fu enorme. C’era anche un po’ di rivincita verso la stampa, con cui avevamo avuto molti attriti. Il periodo era negativo, e negativa era anche l’immagine della Nazionale. Invece cambiò tutto. Non dimenticherò mai l’amicizia tra di noi calciatori, l’affetto, le confidenze, una crescita umana collettiva. E quella specialissima persona che era Enzo Bearzot: era severo, pretendeva molto ma ti abbracciava, con la sua onestà e il suo coraggio, e non ti abbandonava mai».

Una vittoria così è anche una responsabilità. Verso chi la sentivate?

«Verso i tifosi. Verso tutti i connazionali che si ritrovavano intorno a un simbolo dopo un periodo oscuro. Verso i ragazzi delle periferie che giocavano nei campetti. Fu una vittoria unificante. Sì, una bella responsabilità».

Oggi lei ha 66 anni. Le sue radici affondano a Capanne di Careggine, in provincia di Lucca. Ripensandosi da ragazzo, che tipo era?

«Timido. Chiuso. Lo sono ancora dopo tutti questi anni, anche se non sembra».

Perché?

«Forse per l’educazione che ho ricevuto. I miei genitori erano ottime persone. Solide, umili e silenziose. Mio padre, di radici contadine, era operaio all’Anas. Mia madre faceva la casalinga e dava una mano nelle case degli altri».

Erano felici della sua vocazione da calciatore?

«Neanche un po’. Il loro sogno era il diploma, l’impiego, un po’ il Checco Zalone di “Quo vado?”. Papà non è mai venuto allo stadio, si agitava troppo a vedermi in campo, mamma venne una sola volta. Mi amavano molto ma erano così».

Che definizione darebbe del suo carattere di fondo?

«Inquieto. Penso sia la parola giusta. Mi placo solo veramente quando ho a che fare con la terra. Papà, quando tornava dal lavoro, si metteva a lavorare nell’orto. E lo stesso capita a me. Nella casa di Pantelleria ho piantato molti ulivi, per esempio, ne chiedo in regalo uno a chi viene a trovarci. E la terra mi aiutò molto a ritrovarmi quando decisi di smettere con il calcio. A un certo punto non ne potevo più di scendere in campo, di giocare. E smisi proprio volendolo, e senza rimpianti».

Da dove nasce l’inquietudine?

«Da quell’insicurezza di partenza. Certe cose, o le risolvi da giovanissimo o te le ritrovi per sempre».

Cosa le piace del calcio, in fondo?

«È l’unico lavoro in cui esiste solo il merito. Nessuna raccomandazione può inserirti in una squadra o farti giocare bene. O funzioni o non funzioni. Non c’è altro. Poi ci sono i valori».

Quali?

«I miei, anzi i nostri della mia generazione, sono sempre stati la disciplina, l’onestà, il rispetto delle regole. E imparare a saper perdere. Adesso perdere, per troppa gente, significa quasi morire, una sconfitta terribile, una caduta irreparabile. Invece perdere può essere un aiuto a capire l’errore. A migliorarsi, ed è un altro valore».

Lei ha detto che da tempo non frequenta gli stadi. Perché?

«Le ultime volte ho visto tanta violenza, tanta rabbia. Per troppa gente la vittoria di una squadra è un regolamento di conti con il collega di lavoro, con il vicino di casa, è una specie di rivincita personale a tutto campo. E non va bene. Un esercizio utile sarebbe prendere i figli di certi energumeni e far vedere cosa fanno i padri in tribuna durante le partite. I padri si vergognerebbero e i figli capirebbero cosa non si deve fare...».

Poi ci sono gli episodi di razzismo. Tanti, e intollerabili, nel calcio.

«C’è un solo modo: fermare il gioco, la squadra tutta seduta per terra, e arrivederci. Non ci sono soldi che tengano, non c’è business. O fai così o è finita. Mi ricorderò per tutta la vita un metodo inglese. Ero in tribuna per una partita, fumavo il sigaro. Si avvicinò, in silenzio e garbatamente, un tipo tutto vestito di giallo con in mano un cartello ben visibile: “Don’t smoke”. Non mi sono mai vergognato tanto. Smisi subito. Ecco, servono metodi così».

Lei è stato candidato alla presidenza dell’Aic, l’Associazione italiana calciatori. Ora non più. Come mai?

«C’è chi mi ha considerato quello che “spaccava” l’associazione. Invece io volevo mettere la mia esperienza a disposizione dei calciatori di oggi, far ritornare l’Aic un vero sindacato, capace di lottare per tanti diritti. Ma l’ultima cosa che volevo era essere divisivo, perciò niente candidatura. Ho soltanto voglia di mettere me stesso a disposizione del calcio che amo».

Se dovesse indicare in poche parole i principali problemi di quel mondo?

«Prima di tutto i costi del calcio, in generale. Il problema è che c’è chi guadagna cifre altissime e chi, soprattutto in Serie C, non riesce ad arrivare nemmeno alla fine del mese. Poi la questione dei dilettanti, che sono un serbatoio di passione ed energia per tutto il calcio. E penso ci siano troppe squadre».

La pandemia di coronavirus ha costretto anche il mondo del calcio a fermarsi e a riflettere.

«E su questo mi permetto di citare il Papa: “L’unica cosa peggiore della crisi è il rischio di sprecarla”».

Sta portando avanti dei progetti legati allo sport?

«Uno, e ci tengo moltissimo. Ho avuto da poco l’incarico di dirigere il nuovo centro tecnico della Federcalcio a Roma. Sorgerà sui terreni del Salaria Sport Village, è un progetto che mi entusiasma perché nato e pensato al servizio dei giovani. Per me sarà un modo per indossare di nuovo la Maglia Azzurra, tra l’altro proprio su quei campi mi sono allenato più volte con la Nazionale di Bearzot. Come ha detto il presidente federale Gabriele Gravina, sarà la nuova casa delle Nazionali giovanili. Una prospettiva che mi entusiasma, mi sento molto felice, lo ammetto».

Poi c’è «La Domenica Sportiva», l’impegno con RadioRai.

«Sì, il mio legame con la Rai resta molto forte e quel lavoro mi piace. La Rai è casa mia e, oltretutto, mi rimanda a tutta la mia gioventù».

Ha avuto donne sempre molto belle...

«Sì, è capitato...».

Anche il flirt con Moana Pozzi. Lei non ne parla più, però.

«Non rinnego niente. Ma non mi sembra più il caso di parlarne. È passato tantissimo tempo e poi lei non c’è più».

Adesso ha accanto una donna famosa e affermata, Myrta Merlino, un volto-simbolo di La7.

«È stata a lungo un’amica. Poi, quattro anni fa, tutto è cambiato. È l’amore della mia vita: un legame molto profondo. Mai avuto un rapporto così maturo e consapevole. Myrta è una donna solida: mi ha aiutato a crescere. Detto alla mia età può far ridere, anche perché io sono più grande di lei, ma è così. Spero di aver fatto lo stesso con Myrta».

Geloso, dicono.

«Un po’ sì. Non ho paura ad ammetterlo. La gelosia è parte dell’amore».

Lei ha due figli grandi. Sara, giornalista, con lei ha scritto il libro «O tutto o niente/ La mia storia», edito da Mondadori, e Nicola, analista finanziario. Che rapporto ha con loro?

«Di grande amore, prima di tutto. Di stima. Di rispetto, anche dei ruoli. Nicola tende a proteggermi. L’esperienza del libro con Sara è stata bellissima: abbiamo riso, litigato. Io riflettevo e lei scriveva. Bello, sì».

Poi i due figli di Sara, Tancredi e Fiamma. Felice di essere nonno?

«Certo che sì, molto. Sono magnifici. Ma per adesso non voglio fare “solo” il nonno, voglio esserlo nella maniera giusta. Poi, forse, un giorno sarò nonno e basta. Oggi no. Mi manca il tempo. Per fortuna».

Questa serie si intitola «Italiani». Cosa significa per lei essere un italiano?

«Avere cuore. Avere passione. L’italiano non è cinico ed è sempre pronto a dare una mano. Ed è mammone, ha un forte sentimento legato alle radici. Per me è molto positivo. Ma sì, viva l’italiano mammone».

Brandts: "Bettega provò a corrompermi". "In Italia-Olanda del '78 mi chiese di fargli segnare il 2-2 e sparò cifre alte". Alec Cordolcini, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. «Roberto Bettega ha cercato di corrompermi durante Italia-Olanda al Mondiale del 1978». L'ex nazionale oranje Ernie Brandts non avrebbe potuto trovare eco migliore per il lancio della propria biografia Nooit natrappen (liberamente traducibile in mai colpire un avversario a terra), in uscita martedì nei Paesi Bassi. La bomba è stata sganciata ieri in tarda mattinata dal quotidiano Algemeen Dagblad, che ha ovviamente ripreso la parte del libro maggiormente destinata a far discutere nonché, molto probabilmente, a dare adito a possibili azioni legali. La partita incriminata è l'ultima della seconda fase a gruppi del Mondiale argentino, che il 21 giugno 1978 vide Italia e Olanda affrontarsi in un vero e proprio spareggio per accedere alla finalissima del Monumental di Buenos Aires. Gli azzurri di Enzo Bearzot dovevano obbligatoriamente vincere, mentre ai tulipani guidati da Ernst Happel sarebbe bastato anche un pareggio, forti di una migliore differenza reti (le altre due squadre del girone, Austria e Germania Ovest, erano fuori dai giochi). L'Olanda vinse 2-1 in rimonta e fu proprio Brandts - all'epoca difensore del Psv Eindhoven che proprio quell'anno aveva vinto il suo primo trofeo internazionale, la Coppa Uefa - uno dei protagonisti, prima facendo autogol nel tentativo di anticipare Bettega, quindi siglando a inizio ripresa il pareggio. A 14 minuti dal termine sarebbe poi arrivata la rete decisiva firmata da Arie Haan, e proprio dopo il vantaggio olandese avvennero, secondo Brandts, i fatti incriminati. Nel libro si legge il seguente passaggio: «Bettega si avvicinò a me e mi disse: Brandts! Brandts! Lasciami segnare. Sparò cifre in lire, in dollari. Vicino a me c'era Ruud Krol, che sentì tutto e mi disse sottovoce di far finta di niente, di non rispondere. Così feci. Ma Bettega, un attaccante di fama internazionale, non si diede per vinto: Brandts, disse, fammi fare il 2-2. Con il 2-2 andate in finale lo stesso. Pronunciò cifre da capogiro, ma continuai a far finta di nulla». Quella partita è stata l'apice della carriera in nazionale di Ernie Brandts, che ha vestito la maglia arancione in 28 occasioni e per 40 anni ha detenuto il record di unico giocatore nella storia della coppa del mondo ad avere segnato un gol e un autogol nella stessa partita - nel 2018 il primato è stato eguagliato da Mario Mandzukic nella finale Mondiale tra Croazia e Francia. Oggi 64enne, è rimasto attivo nel calcio in qualità di allenatore, però con poca gloria rispetto al passato da giocatore.

Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 18 febbraio 2020. La macchina del fango rischia di macchiare in maniera indelebile il Barcellona. Domenica notte la trasmissione El Larguero della radio spagnola Cadena Ser ha denunciato il vincolo tra il Barcellona e l’impresa I3 Ventures. Secondo la radio il club ha versato un milione di euro alla società, in sei pagamenti inferiori ai 200.000 euro, cifre per le quali non c’è bisogno di autorizzazione della giunta, per creare e gestire account social per screditare e gettare fango su alcune persone, tra cui Messi e sua moglie Antonela, Piqué, Xavi, Guardiola, il presidente di Mediapro Roures, l’ex presidente catalano Puigdemont.

LA DIFESA —   Il Barcellona ieri si è difeso con un comunicato nel quale sosteneva sì di collaborare con I3 Ventures ma solo per monitorare i flussi dei messaggi in rete sul club e aggiungendo che I3 Ventures non aveva alcun vincolo con gli account social citati dalla Ser.

LA CONFERMA —   Ieri notte però la stessa radio ha pubblicato un dossier di 36 pagine dalle quali si conferma la gestione degli account di cui sopra da parte di I3 Ventures. Poco dopo due siti della società legati allo scandalo sono stati repentinamente chiusi.

MESSI IN SILENZIO —   In attesa di una nuova risposta da parte del club la polemica sta montando. Roures ha mostrato pubblicamente il suo malessere per quanto rivelato e la preoccupazione per l’utilizzo improprio del denaro del club, che resta di proprietà dei soci. Vi saranno cause legali, ma più preoccupante per la giunta di Bartomeu è la tensione nei rapporti con lo spogliatoio e soprattutto con il capitano Leo Messi, che si è già infuriato pubblicamente con Eric Abidal, d.s. del club per altre questioni. Leo non si è ancora pronunciato ma questo scandalo complica ancor di più rapporti già tesi e con il sinistro particolare che Messi in giugno potrà liberarsi gratuitamente, nonostante abbia il contratto fino al 2021.

ELEZIONI ANTICIPATE?—   Bartomeu deve cercare di ricondurre al più presto la situazione perché a Barcellona s’inizia a parlare di elezioni anticipate al Camp Nou. Il presente mandato di Bartomeu scade nel 2021 e il presidente ha esaurito le possibilità di presentarsi.

Luigi Guelpa per “il Giornale” il 19 febbraio 2020. È guerra totale tra Leo Messi e il presidente del Barcellona Josep Maria Bartomeu. Dopo le polemiche per la dura presa di posizione dell' asso argentino sull' esonero del tecnico Valverde, e il mancato accordo con l' ex compagno di squadra Xavi, la macchina del fango è tornata a imbrattare il club azulgrana. Secondo quanto rivelato dall' emittente radiofonica Cadena Ser, Bartomeu avrebbe pagato un milione di euro alla società privata "I3 Ventures" per screditare alcuni giocatori sui social. La radio ha pubblicato un dossier di 35 pagine con un nutrito elenco di account, controllati da "I3 Ventures", utilizzati per trasmettere messaggi diffamatori nei confronti di Messi, Piqué, Xavi, Puyol e addirittura Guardiola. Presi di mira anche i candidati alla presidenza Font, Laporta e Benedito, così come la primula rossa del movimento separatista catalano Puigdemont. Nel corso di una conferenza stampa, Bartomeu, che ha incontrato nel tardo pomeriggio la squadra, ha confermato l' esistenza di un contratto di collaborazione con "I3 Ventures", ma ha rimarcato che «è mirato al solo monitoraggio della reputazione della società sui social». In pochi a dire il vero gli hanno creduto, e a una settimana dalla sfida di Champions contro il Napoli, a Barcellona si respira un' aria pesante. Di fatto sta andando in scena un vero e proprio braccio di ferro tra Messi e Bartomeu, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali del club. Lo spogliatoio è spaccato, esistono persino due gruppi di whatsapp (uno capeggiato da Messi, l' altro da Griezmann), e il tecnico Quique Setien, non gradito dall' argentino, ha grosse difficoltà a far convivere in campo le due anime. Il piano di Bartomeu sarebbe quello di vendere la Pulce in estate e riprendere Neymar prima di abbandonare l' incarico (le elezioni sono previste nella primavera del 2021). Messi invece vorrebbe costringere lo stesso Bartomeu a rassegnare le dimissioni per aprire una crisi nel club, favorire il ritorno di Joan Laporta, il suo più grande estimatore, e spianare la strada per la panchina a Jurgen Klopp (con Michael Edwards nelle vesti di ds). Nelle scorse settimane l' argentino, che punta in prospettiva futura a diventare lui stesso presidente azulgrana, aveva criticato i due responsabili dell' area tecnica, Abidal e Grau, per aver fallito l' operazione Xavi e per non essere riusciti a sostituire Luis Suarez (infortunato) nel mercato di riparazione, arrivando persino a non trovare un accordo con il mediocre Angel Rodriguez del Getafe. Per tutta risposta Abidal aveva accusato Messi e alcuni suoi compagni (Rakitic, Piqué e Vidal tra gli altri) di non dare il massimo in campo. Sullo scandalo social è intervenuto Jordy Cruyff, figlio del papero d' oro: «Non credevo che qualcosa del genere potesse accadere in un club così prestigioso come il Barcellona. Sono incredulo». Mentre i tifosi, infuriati, si domandano se il Barça sia un club o una serie tv come la Casa di Carta.

Scandalo Barcellona: ecco le ragioni del conflitto tra il presidente Bartomeu, Messi e i giocatori. Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Caos al Barcellona. In Catalogna è scoppiata una bufera senza precedenti. Da Napoli gongolano, visto che i blaugrana sono i loro prossimi avversari in Champions il 25 febbraio (ritorno il 18 marzo). Le radici del conflitto erano state piantate diversi mesi fa, ma la bufera vera e propria ha avuto inizio domenica notte, il 16 febbraio, quando è stato raccontato del vincolo tra il Barcellona e l’impresa I3 Ventures. Tutto questo nel corso della trasmissione «El Larguero» dell’emittente spagnola Cadena Ser, dove si sosteneva che il presidente del club, Josep Maria Bartomeu, avesse versato un milione di euro alla società per creare e gestire account social per screditare alcuni personaggi ritenuti scomodi per la dirigenza. Nomi illustri: da Lionel Messi a sua moglie Antonela Roccuzzo, da Piqué a Xavi e Pep Guardiola. Da qui il caos attuale appunto. Adesso sono in tantissimi a invocare le dimissioni di Bartomeu e nuove elezioni per la presidenza. Ovviamente, non si è fatta attendere la replica del Barcellona: «Non abbiamo mai ingaggiato alcuna società per screditare giocatori, ex giocatori, politici, dirigenti, presidenti o ex presidenti. È assolutamente falso. Ci difenderemo in tutte le sedi da chi ci accusa di dedicarci a queste pratiche». Bartomeu ha ammesso che a fine 2017 è stato firmato un contratto con la I3 Ventures «ma per monitorare le reti social come fanno la gran parte dei club». Per riportare serenità nello spogliatoio blaugrana, come riporta il quotidiano spagnolo «Marca», il numero uno del Barcellona avrebbe incontrato Messi, Piqué e altri giocatori, senza riuscire a convincerli sull’estraneità della società rispetto ai post diffamatori pubblicati dai profili social legati al club. «Marionetta», è questa la polemica risposta su Twitter di Piqué al giornalista di Barça Tv, Marçal Lorente, che aveva scritto: «Conosco l’ambiente del Barça e il carattere dei soci, fortunatamente sempre meno manipolabili e più intelligenti, sanno identificare perfettamente chi vuole arrivare al club per utilizzarlo per i suoi interessi mediatici, politici, ed economici». Da qualche ora, la dirigenza blaugrana ha smentito ogni tipo di ricostruzione fatta da «Marca», negando quindi persino che ci sia stato un summit tra le parti. A dimostrazione che la vicenda è tutt’altro che conclusa. Non è il primo tsunami che colpisce il Barcellona. Prima l’infortunio di Suarez, poi l’esonero di Ernesto Valverde (13 gennaio, arrivo in panchina di Quique Setien) e il k.o. di Dembelé. Fino alla polemica tra Messi ed Eric Abidal, il team manager dei catalani, che riferendosi alle responsabilità relative all’esonero di Valverde aveva parlato di giocatori «non soddisfatti, che non lavorano molto e con cui c’è un problema di comunicazione interna». Dichiarazioni che avevano fatto infuriare la Pulce: «Non mi piace fare queste cose, ma penso che tutti debbano prendersi la responsabilità del proprio ruolo e farsi carico delle decisioni. I giocatori per ciò che accade in campo e infatti siamo stati i primi a riconoscere quando non stavamo bene, la società per il resto», come si leggeva su Instagram. Una diatriba che aveva spinto Bartomeu a incontrare Abidal per riportare la pace tra i due. Ma secondo i ben informati, l’argentino è infuriato per tutto quello che sta accadendo e starebbe pensando di dire addio a fine stagione, sfruttando la clausola che gli consentirebbe di liberarsi gratis a giugno. Mezza Europa sogna, così come il Napoli che il 25 febbraio al San Paolo vorrebbe approfittare del caos che ora risiede a Barcellona per passare clamorosamente il turno in Champions.

Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2020. Più che un club, un fight club. È tutti contro tutti al Barcellona, una guerra senza esclusione di colpi con un finale ancora da scrivere. Se per Vázquez Montalbàn era l' esercito disarmato della Catalogna, simbolo universale e vincente del sogno indipendentista, oggi il Barça appare come una società nel caos più completo, ostaggio di una rissa fra bande nella quale si mescola tutto: fùtbol, soldi, potere, politica. La prima esplosione è avvenuta domenica notte, quando nel corso di El Larguero , seguitissima trasmissione dell' emittente Cadena Ser, è stato svelato l' ambiguo rapporto fra il club blaugrana e la società I3 Ventures. Secondo la ricostruzione della tv spagnola, il club avrebbe versato un milione di euro alla compagnia di comunicazione per gettare fango attraverso i social su alcuni personaggi scomodi per il presidente Josep Bartomeu e per promuovere così allo stesso tempo la sua immagine. Facebook, twitter e Instagram usati come armi. Flussi di opinione per attaccare gente come Messi, sua moglie Antonela, Piqué. Con l' obiettivo di sgonfiare l' eccessivo potere dei calciatori, giudicati troppo ingombranti. Ma sotto attacco sono finiti anche l' ex bandiera Xavi e l' ex allenatore Guardiola, vicini all' ex presidente Laporta. Post critici anche contro Puigdemont, ex presidente della Generalitat, e Rures, l' uomo a capo di Mediapro, società che gestisce i diritti televisivi della Liga. Dopo una mezza smentita del club, che si difendeva spiegando che la collaborazione «era mirata al monitoraggio della reputazione della società sui social», è arrivata la controffensiva di Cadena Ser, che ha reso pubblico un dossier di 36 pagine nel quale si conferma la gestione degli account citati da parte di I3 Ventures. Profili controllati con l' intento di mettere in cattiva luce i nemici di Bartomeu. Come Victor Font, unico candidato alla successione. Le elezioni presidenziali saranno nel giugno 2021, Bartomeu non si può ricandidare, ma è chiaro che la guerra è già iniziata. Con conseguenze imprevedibili, visto che il Barçagate sembra essere soltanto all' inizio. Lo scandalo si allarga ogni giorno. Ieri è stata convocata d' urgenza una riunione della comisión delegada, il consiglio direttivo. Era prevista per domani ma è stata anticipata proprio per far fronte all' emergenza. Fatto sta che la resa dei conti è appena iniziata: a causa delle tensioni col resto del board si è dimessa la storica direttrice finanziaria, Montserrat Font. Secondo la stampa iberica, diversi membri del cda ritengono che il responsabile sia Jaume Masferrer, direttore dell' area della presidenza, che ha materialmente firmato il contratto con I3 Ventures: chiederanno la sua rimozione. Ma non è nemmeno da escludere che lo stesso Bartomeu sia costretto a dimettersi prima della fine del mandato, schiacciato dalla pressione sempre più insistente dei 150mila soci. E il terremoto potrebbe essere ancora più devastante, fino ad avere conseguenze sulla squadra, che già non attraversa un gran momento: ha perso la testa della classifica e ha già cambiato allenatore, da Valverde a Setien. Lo spogliatoio è spaccato in clan. Il momento è delicatissimo: la prossima settimana c' è il Napoli negli ottavi di Champions, col Clasico contro il Real al Bernabeu a cavallo fra andata e ritorno. I giocatori sono inferociti. Piqué ha litigato via social con un giornalista di Barça tv che difendeva Bartomeu, dandogli della marionetta. Ma il vero enigma riguarda il simbolo assoluto del Barcellona, Messi. «Sono sorpreso, è una storia strana, dicono ci siano prove» s' è sfogato ieri con Mundo Deportivo . La verità è che lo scandalo l' ha mandato su tutte le furie. A giugno può lasciare il club gratuitamente, un anno prima della scadenza del contratto. Non è nelle sue intenzioni, ma il rapporto con l' attuale dirigenza è ormai compromesso. Mezzo mondo, Italia inclusa, osserva il ring. Tutto può succedere. Il fight club è solo all' inizio.

Tutta la Premier League fa causa al City. Class action dei club: "Revocate i titoli". E col Real si gioca l'(ultima) Europa. Lorenzo Amuso, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Londra - Se il presente è grigio come il cielo sopra Manchester, il futuro si prefigura ancor più nero. Inevitabile così che la trasferta di Madrid si carichi di ansie e incertezze. Come sempre, in prossimità di un crocevia decisivo. Perché la posta in palio, per il Manchester City, vale molto più che la semplice qualificazione ai quarti di finale di Champions League. In Premier la squadra di Pep Guardiola accusa un ritardo abissale dalla vetta, e le due coppe nazionali non sono altro che un modesto premio di consolazione. Per dare un senso alla stagione, dunque, non resta che la campagna europea. A maggior ragione dopo la sentenza della Uefa che ha escluso il City dall'Europa per le prossime due stagioni. Una condanna che rischia di far deragliare l'intero progetto, nonostante le rassicurazioni (anche economiche) dello sceicco Mansour. Senza il palcoscenico internazionale, molte stelle potrebbero decidere di disertare, pretendendo magari la rescissione contrattuale. Anche la promessa di Guardiola, che ha giurato di restare, solleva qualche dubbio. Fino a dove si spingerà la fedeltà del tecnico catalano? Uscire dalla Champions contro il Real Madrid equivarrebbe ad una doppia offesa per il tecnico (orgogliosamente) catalano. Perché significherebbe - in caso di permanenza all'Etihad stadium - dover attendere, almeno altri due anni, per dare l'assalto alla terza Champions personale. Ma se lo schiaffo della Uefa è già arrivato (l'ultima speranza è l'appello al Tas di Losanna), all'orizzonte si profila anche la vendetta degli altri club inglesi. Tramite una class action, che mira a revocare i titoli vinti dal City tra il 2012 e il 2016, il quadriennio incriminato. L'accusa è di aver pompato gli incassi dagli sponsor, alterando l'esito dei tornei nazionali così come il mercato. Per il momento la Federcalcio inglese non si sbilancia, preferendo aspettare la conclusione dell'iter giudiziario. Ma è difficile immaginare come la testa dei giocatori (nella foto Aguero), stasera in campo al Bernabeu, possa restare impermeabile a questo fuoco incrociato. Come se il Real Madrid («Il re della Champions», parola di Guardiola) non destasse già abbastanza preoccupazioni.

Il Manchester City squalificato dalla Uefa:  stop Champions per due anni. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. L’Uefa ha squalificato il Manchester City per due anni per violazioni del Fair play finanziario e delle regole sulle sponsorizzazioni avvenute dal 2012 al 2016: la squadra di Pep Guardiola rimarrà due stagioni (quella 2020-2021 e la successiva 2021-2022) senza Coppe europee e dovrà pagare una multa di 30 milioni. Nel comunicato si precisa anche che il club «non ha collaborato». A far scoppiare il caso i documenti di Football Leaks, secondo cui il ManCity nel 2014 avrebbe aggirato le norme «gonfiando» le entrate dei contratti di sponsorizzazione, per scongiurare l’esclusione dalle Coppe. Tra questi, quasi 68 milioni di sterline sarebbero stati versati al club direttamente dai proprietari, ma dichiarati come sponsor: per camuffare il rosso, venne inserita a bilancio la generosa cifra erogata dalla Etihad Airlines, che però secondo i file di Football Leaks vennero pagati in maggior parte dall’Abu Dhabi United Group, società che fa capo dello sceicco Mansour, proprietario del club. Inutile ricordare che è una cosa che le regole Uefa non permettono e che proprio quell’anno i Citizens avevano accettato di pagare una multa di 49 milioni di sterline, cifra poi in seguito ridotta grazie alla «buona condotta». L’indagine era stata formalmente aperta a marzo 2019 e a maggio era arrivato il rinvio alla Camera Giudicante. Dopo il deferimento da parte dell’Uefa, i Citizens si erano rivolti al Tribunale arbitrale sportivo di Losanna (Tas), contestando il potere della Camera giudicante: il Tas però aveva giudicato «inammissibile» il ricorso poiché non c’erano ancora sentenze definitive in tal senso. Ora che è arrivata, il club ha già annunciato un altro ricorso al Tas (che — ricordiamolo — ha nel passato dato ragione al Milan in una controversia con l’Uefa).

Caso Manchester City: chi è Rui Pinto, l’Assange del calcio che con Football Leaks ha scoperchiato lo scandalo. Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 da Corriere.it. Il meccanismo era chiaro e semplice: gonfiare le sponsorizzazioni. Il Manchester City — appena escluso per due anni da tutte le competizioni europee — mascherava i finanziamenti del suo patron, lo sceicco Mansour bin Zayed al Nahyan, della famiglia reale di Abu Dhabi, siringandoli nelle casse del club dopo averli spacciati per entrate dello sponsor Etihad, legato allo stesso Mansour. Così, dei 68 milioni ufficiali di sponsorizzazione per magliette e stadio, solo 8 sarebbero di origine controllata. Ma chi è stato a scoperchiare tutto questo? Un’inchiesta del settimanale tedesco Der Spiegel «Football Leaks» nel novembre 2018. E a Der Spiegel chi li ha passati? Rui Pinto, un oscuro «nerd» portoghese, oggi 31enne, che da casa sua a Budapest nel 2015 è entrato nell’account mail del club dando il via allo scandalo inviando i materiali sotto pseudonimo. In totale, si parla di 70 milioni di documenti e di 3.4 terabytes di informazioni, non solo sul City. Per questo Pinto è considerato l’Assange del calcio e su di lui, come su Julian Assange, i pareri sono naturalmente controversi. C’è chi lo considera un paladino della libertà dell’informazione contro la censura dei potenti: così la pensa ovviamente il suo avvocato francese William Bourdon ma lo pensano anche i tifosi del Borussia Dortmund che di recente hanno esposto allo stadio uno striscione chiedendo che Pinto fosse rimesso in libertà. E su web esiste da un po’ l’hashtag #freepinto. C’è invece chi semplicemente lo considera un hacker criminale. Le autorità, naturalmente, propendono per la seconda ipotesi, e infatti Pinto si trova da marzo in carcere in Portogallo dopo essere stato estradato dall’Ungheria. Contro di lui pendono 171 accuse per «hackeraggio», «furto di documenti», «estorsione» e altro. Un suo appello è stato respinto e ora Pinto è in attesa della sentenza da parte della Corte d’Appello di Lisbona. «Sapevo benissimo i rischi che correvo – ha spiegato Pinto di recente a Der Spiegel –. So bene che le autorità portoghesi sono inflessibili contro i whistleblower (termine traducibile come «segnalatore di illeciti, reati o irregolarità»), dunque mi aspettavo queste conseguenze. Ho scritto tutto in un diario, ma le autorità portoghesi me lo hanno sequestrato». La sua prima «mission» aveva colpito il Twente, club scoperto colpevole di illeciti su un contratto di proprietà con una società di Malta e successivamente sospeso dall’Europa per tre anni dalla federcalcio olandese. Pinto aveva poi rivelato i dettagli dei trasferimenti di Radamel Falcao, Gareth Bale e James Rodriguez. Pinto spiega: «Non mi considero un hacker ma un cittadino che agisce per il bene comune. Voglio solo lottare per togliere l’illegalità dal mondo del calcio».

Dagospia il 30 giugno 2020. TWEET DI PAOLO ZILIANI: Non sono passati nemmeno sei mesi e oplà!, i 157 milioni di plusvalenze che servivano per non tracollare (trucco solo contabile, s’intende) si materializzano (anzi, arrivano a 160). Il mago Silvan al confronto era un dilettante. Il calcio finto che contrabbandano per vero.

Da calcioefinanza.it il 30 giugno 2020. Ufficiale l’affare tra Juventus e Atalanta per Simone Muratore. Lo ha ufficializzato il club bianconero con un comunicato. «Juventus Football Club S.p.A. comunica di aver raggiunto l’accordo con la società Atalanta B.C. S.p.A. per la cessione a titolo definitivo del diritto alle prestazioni sportive del calciatore Simone Muratore a fronte di un corrispettivo di € 7 milioni, pagabili in quattro esercizi. Tale operazione genera un effetto economico positivo di circa € 6,8 milioni, al netto degli oneri accessori», si legge nella nota. In seguito, l’affare è stato ufficializzato anche dall’Atalanta: «Atalanta B.C. comunica l’acquisto a titolo definitivo dalla Juventus del calciatore Simone Muratore», si legge. “L’Atalanta rappresenta per me una grande occasione – ha dichiarato Muratore al suo primo giorno a Zingonia – ed ho intenzione di dare il massimo per ripagare la fiducia che la società ha dimostrato di avere nei miei confronti. Quello che l’Atalanta sta facendo in campionato ed in Europa è sotto gli occhi di tutti, sono veramente felice di poter indossare questa maglia. Adesso non vedo l’ora di iniziare a lavorare con mister Gasperini e con i miei nuovi compagni”. Nato il 30 maggio 1998 a Cuneo, calcisticamente è cresciuto prima nel Villafalletto, la squadra del suo paese, e nel Saluzzo, quindi dal 2012 nel settore giovanile della Juventus con cui completa tutto il suo percorso di crescita fino al professionismo, vestendo anche la maglia azzurra delle varie rappresentative giovanili dall’Under 16 all’Under 19. Nelle ultime due stagioni ha giocato con la Juventus Under 23 totalizzando 49 presenze e 3 gol nel campionato di Lega Pro. Nel corso di questa stagione ha anche esordito in UEFA Champions League entrando nel finale della partita vinta 2-0 dalla Juventus sul campo del Bayer Leverkusen lo scorso dicembre, prendendo il posto di Cuadrado nei minuti finali. Ha fatto il suo esordio in Serie A nel match vinto dalla Juve per 4-0 contro il Lecce venerdì 26 giugno.

Marco Iaria per La Gazzetta dello sport il 18 febbraio 2020. La stangata al Manchester City, escluso per due anni dalle coppe per le sponsorizzazioni gonfiate, fa ancora discutere tutto il calcio europeo. Le implicazioni economiche e politiche nel sistema sono notevolissime, dagli esiti imprevedibili. Nel frattempo l' Uefa ha deciso di drizzare le antenne su un' altra distorsione del business pallonaro: le plusvalenze fittizie. Sebbene sia ancor più difficile di un contratto commerciale con parte correlata stabilire se un' operazione di mercato si è consumata a prezzi di mercato oppure no, il Club Licensing Committee presieduto da Michele Uva sta studiando il dossier e cercherà di trovare il meccanismo più efficace di controllo, da implementare nel prossimo autunno nel regolamento del fair play finanziario. In generale si punta ad arginare un fenomeno dilagante in tutta Europa: il ricorso eccessivo al trading dei calciatori, le cui entrate (al pari dei diritti tv o della biglietteria) sono rilevanti per il calcolo del "break even", cioè la regola-cardine del fair play per la quale i club partecipanti alle coppe europee e monitorati dall' Uefa devono registrare una perdita massima di 30 milioni nell' arco di un triennio. I numeri fanno impressione: i proventi netti da trading in Europa sono passati da 2 a 5 miliardi tra il 2014 e il 2018. E in Serie A, in cinque anni, sono stati contabilizzati 2,7 miliardi di plusvalenze, molti di più di Bundesliga e Liga e come la Premier che però fattura quasi il triplo. Quando verrà varata, la norma Uefa avrà ricadute inevitabili sui club italiani.

Da ilnapolista.it il 18 febbraio 2020. Il Manchester City è solo l’inizio. L’Uefa ha deciso di porre un freno alla proliferazione patologica delle cosiddette plusvalenze fittizie, il sistema che permette di rientrare nei parametri del Fair Play Finanziario e in generale di “bonificare” i bilanci gonfiando le cifre dei trasferimenti dei giocatori. In pratica chi è a rischio riesce ad aggirare il problema con cessioni “tattiche” che vanno a bilanciare gli acquisti più onerosi. Secondo la Gazzetta dello Sport l’Uefa ha cominciato a studiare una nuova regole che intervenga su un fenomeno delicato e dai contorni non sempre definibili. La discussione è ancora in corso ed è solo alla fase iniziale, ma la via sembra tracciata. Le plusvalenze al limite riguardano anche l’Italia. Nel 2018-19 per esempio la Roma registrò 130 milioni di plusvalenze, vendendo Alisson, Manolas, Pellegrini e Strootman. La Juventus 127 milioni, raggranellati vendendo pedine “minori” come Spinazzola, Caldara, Audero, Mandragora, Sturaro, Orsolini e Cerri. In Europa sotto i riflettori ci sono i club con più liquidità, il PSG di Al-Khelaifi, ma anche Real Madrid e Barcellona.

Gianfranco Teotino per la Gazzetta dello Sport il 20 febbraio 2020. Qualche riflessione controcorrente sulla vicenda Manchester City, il futuro del Financial Fair Play e le conseguenze per le squadre italiane.

1) La pesante condanna inflitta al Manchester City ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti quelli che dubitavano della volontà di far rispettare le regole anche ai potenti, in questo caso addirittura a un fondo sovrano. Bene così, dunque. Per quanto ora ci si chieda come abbia fatto a scamparla il Psg, che ha adottato lo stesso artificio per aggirare le norme : mascherare da sponsorizzazioni finanziamenti diretti della proprietà. Forse perché il suo presidente Al Khelaifi fa parte dell' esecutivo Uefa? A pensar male si fa peccato La spiegazione ufficiale, un vizio di forma, cioè la richiesta di riapertura del procedimento presentata poco oltre il termine, lascia al Manchester City la speranza di revisione della sentenza. Il Tas di Losanna ha spesso dimostrato, nelle sue delibere non soltanto calcistiche, di essere ultra garantista. C' è da capire se riterrà legittimamente acquisite le informazioni riservate utilizzate come prova e considerate dal City frutto di hackeraggio illegale (fanno parte della famosa inchiesta giornalistica denominata Football Leaks).

2) Il Financial Fair Play dell' Uefa, basato sul principio che una società non può spendere più di quanto incassa, ha ottenuto l' ottimo risultato di rimettere a posto i conti del calcio europeo: da una perdita complessiva di 1.670 milioni nel 2011 si è passati a un attivo di 140 milioni nel 2018, l' indebitamento netto è sceso dal 53% al 40% dei ricavi. Ma ha fallito l' obiettivo di ricreare un maggiore equilibrio competitivo. Nell'ultimo decennio, anzi, i legami fra capacità economica e successi sportivi sono diventati quasi indissolubili. Solo i ricchi vincono. Le uniche società riuscite a entrare nell' élite delle grandi d' Europa sono state proprio Manchester City e Psg, grazie alle iniezioni di petro e gas dollari, di cui peraltro ha beneficiato l' intero sistema. E allora siamo sicuri che il divieto di apporto di capitali propri sia la misura più efficace contro il doping finanziario? Non si potrebbe pensare a un meccanismo maggiormente redistributivo che vieti le ricapitalizzazioni ai club che hanno, diciamo, 500 o più milioni di fatturato e le consenta agli altri in misura inversamente proporzionale alle loro entrate?

3) Avrete letto che ora il City rischia di essere penalizzato anche in Premier League, perché gli inglesi hanno adottato le normative europee. L'Uefa sta ragionando sull' opportunità di estenderle con suo provvedimento a tutte le Federazioni nazionali. In Italia per ora non è così. Anzi, prima di Natale la Federcalcio ha alleggerito i requisiti necessari all' iscrizione ai campionati, cancellando fra l' altro l' obbligo del pareggio di bilancio. Fin quando non saranno introdotte le nuove regole contro le plusvalenze fittizie, allo studio come anticipato sulla Gazzetta da Marco Iaria, le società italiane possono stare tranquille. E magari battersi per la riforma delle norme sulle ricapitalizzazioni: a club come Milan, Roma o Fiorentina farebbe molto comodo.

Da ilnapolista.it il 20 febbraio 2020. La Stampa ricostruisce la difesa che il Manchester City sta allestendo per il ricorso da presentare alla Uefa contro la squalifica di due anni per aver violato il fair play finanziario. I legali lavorano alla difesa da un anno e la strategia si baserebbe sui modelli che secondo loro sono simili a quello usato dagli sceicchi di Abu Dhabi e non sono mai stati sanzionati. Nel loro mirino c’è il Psg di Nasser Al-Khelaifi e il finanziamento attraverso i fondi del Qatar, su di loro si concentrano perplessità che metterebbe in evidenza trattamenti diversi per situazioni identiche. Si concentrano in particolare sugli acquisti di Neymar e Kylian Mbappe. Ma c’è anche la Juventus nel mirino dei Manchester City. Tra i casi citati ci sarebbe anche la Juventus e la sua sponsorizzazione con Jeep, marchio Fiat della stessa proprietà della squadra. Così come si parla del Bayern e del suo contratto con Audi che possiede una percentuale (di minoranza) della società. Il City non vuole sottolineare presunte anomalie, al contrario elenca casi di sponsorizzazioni interne considerati legittimi per pretendere lo stesso trattamento e insieme però lascia sottintendere che esiste un potere da cui loro sono esclusi e che l’Uefa si lascerebbe condizionare da chi sta nell’esecutivo.

Diritti tv e corruzione: incriminato l’emiro Al Khelafi, patron del Psg. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 da Corriere.it. Il calcio degli emiri è sempre più accerchiato. Dopo il caso del Manchester City, escluso due anni dall’Europa in seguito a violazioni delle norme sul fair play economico, ora tocca a Nasser al Khelaifi, l’imprenditore qatariota proprietario del Paris Saint-Germain e del network televisivo beIN Sports, è stato incriminato per istigazione all’amministrazione infedele dalle autorità svizzere al termine delle indagini sulla vendita dei diritti televisivi dei Mondiali di calcio iniziate nel 2017. Secondo l’accusa delle autorità svizzere, Al Khelaifi avrebbe ottenuto tramite beIN Sports i diritti televisivi dei Mondiali di calcio del 2026 e del 2030 mediante la concessione di alcuni benefici — tra i quali l’uso di una villa in Sardegna — a Jerome Valcke, ex segretario generale della Fifa il quale è stato accusato a sua volta di corruzione, amministrazione infedele e falsificazione di documenti insieme a una terza persona il cui nome non è stato ancora rivelato. Per Nasser al Khelaifi non è la prima disavventura di questo tipo, essendo già stato incriminato in passato per corruzione nell’ambito di un’inchiesta sull’assegnazione dei Mondiali di atletica 2017: al Khelaifi avrebbe pagato una tangente di 3,5 milioni di dollari a Lamine Diack, l’ex presidente della Federazione internazionale di atletica leggera, per ottenere che la manifestazione venisse assegnata al Qatar. Poi andarono invece a Londra, ma il Qatar si era rifatto con quelli del 2019.

Da goal.com il 20 febbraio 2020. Scoppia ufficialmente il caso di corruzione all’interno della FIFA. Il presidente del PSG, Nasser Al-Khelaifi, è stato accusato di istigazione all’amministrazione infedele qualificata dalle autorità svizzere, per aver dato all’ex segretario generale della FIFA Jerome Valcke "indebiti vantaggi". Il presidente del PSG è accusato di "cattiva gestione aggravata" e per corruzione, mentre l’ex segretario è accusato di corruzione passiva e ripetuta amministrazione infedele qualificata. Dalle indagini condotte dalle autorità è emerso che l’ex segretario FIFA ha ricevuto indebiti vantaggi da Al-Khelaifi e da un terzo imputato, un uomo d’affari nel campo del diritto sportivo. Al centro, l'acquisto e la proprietà di una villa in Sardegna. Vantaggi non comunicati da Valcke alla FIFA, violando i doveri e guadagnando un indebito profitto. Inoltre tra il 2013 e il 2015 Valcke avrebbe esercitato la sua influenza per condizionare l’assegnazione dei diritti di trasmissione per diversi Mondiali di calcio e Confederations Cup. Da qui l’accusa relativa alla corruzione. L’accusa iniziale da parte del Pubblico Ministero della Confederazione era stata di truffa. Al-Khelaifi in una nota ufficiale ha anche comunicato di aver richiesto un'indagine sulla bontà dell'investigazione. “Dopo tre anni di investigazione alla quale ho collaborato, sono felice di dire che le accuse di corruzione per i Mondiali del 2026 e nel 2030 sono cadute. Come ho sempre detto, le accuse non hanno mai avuto alcune basi. […] Sono stato ripulito di ogni sospetto di corruzione. Mentre una seconda accusa rimane da risolvere, ho ogni aspettativa che anche queste saranno provate essere infondate. Mentre ho cooperato con le autorità durante l’investigazione, questa è stata caratterizzata da continua disinformazione e cose trapelate per sminuire la mia reputazione. Per questo ho richiesto che venga aperta un’indagine sulla condotta dell’investigazione. Mi riservo il diritto di prendere azioni nei confronti dei media che hanno danneggiato la mia immagine pubblicando informazioni senza il supporto dei fatti e articoli basati su fonti illegali riguardo la mia presunta colpevolezza”.

Da liberoquotidiano.it il 7 maggio 2020. Confessioni che imbarazzano Radja Nainggolan, il centrocampista oggi tornato al Cagliari e famoso non solo per la sua classe, ma anche per le sue esuberanze. Confessioni di Leandro Castan, che con il Ninja giocava insieme alla Roma. Oggi gioca nel Vasco da Gama, in Brasile, e rievocando la parentesi in giallorosso, sul compagno, spiega: "Arrivò dal Cagliari e all’epoca sapevo poco di lui - così in una diretta Instagram con Goal -. Proprio nella sua prima partita però, lo vidi superare un avversario con grande classe per poi dare il via ad un’azione offensiva e li capii che era un giocatore di calibro importante”. Dunque, le rivelazioni un poco scomode: "È un ottimo giocatore, ma sfortunatamente ha avuto a che fare con molte polemiche. Quando era a Roma, lasciava lo spogliatoio per fumare con un assistente, faceva quello che gli piaceva e non gli importava di cosa potesse pensare la gente, ma una poi avrebbe risposto dove conta, ovvero sul campo. È stato fantastico giocare al suo fianco", ha concluso Castan.

Da fcinter1908.it il 2 giugno 2020. “Ogni giorno continuo a pensare:” Radja, fai quello che lei voleva che facessi”. Nainggolan ha perso la madre e la nipote a causa del cancro. La moglie Claudia sta combattendo contro un tumore. HLN ricostruisce insieme a lui le tappe più dolorose della sua vita, a partire proprio dalla scomparsa della mamma (Lizy Bogaerts). “Dover perdere la cosa più preziosa della tua vita è difficile”. Si è tatuato la data della morte di sua madre, il 18 ottobre 2010, nella parte bassa della schiena. Quando le hanno diagnosticato il cancro in ospedale era terminale e le hanno dato tre mesi di vita. “Questo non può essere vero.” Tutto è crollato. La madre gli ha chiesto di occuparsi della famiglia. “Non voglio deluderla”, raccontava tempo fa Nainggolan. “La cosa peggiore è che non mi ha mai visto giocare a calcio con la nazionale belga. Sarebbe stata molto orgogliosa di me. E poi non ha conosciuto le mie due figlie. Racconto spesso ad Aysha di mia madre. Voglio che sappia chi era e che cosa rappresentava per me. Aveva solo cinquantacinque anni: così giovane. Comunque, c’est la vie, giusto? È qualcosa che devi semplicemente affrontare.” A suo modo, Nainggolan ha affrontato la perdita. Il 31 ottobre, 13 giorni dopo la sua morte, ha segnato un gol. “Era morta solo di recente”, ha raccontato. “Non ero obbligato a giocare. È stato un momento difficile. Tutto è venuto fuori. È stato il mio primo gol in Serie A. Un gol per lei e un gol che sarà sempre legato a lei.” La madre è stata per Radja e la sorella Rania più che un punto di riferimento. Da un giorno all’altro il padre se ne è andato. “È tornato in Indonesia senza lasciare un indirizzo”, ha detto Nainggolan. “Quello che ha lasciato alle sue spalle è stata una montagna di debiti, che ci ha messo nei guai. Ero troppo arrabbiato per andare a trovarlo. Non mi è mai mancato.” Il calcio gli poteva dare una prospettiva. All’età di diciassette anni scelse il percorso meno ovvio. Nel 2015 ha firmato un contratto per 1.400 euro al mese con il Piacenza, in serie B. “Quelli erano ” tonnellate di soldi “. Ora non sembra molto, ma quando ho ottenuto quel contratto, ho subito detto: “Me ne vado”. Per aiutare la mia famiglia. Quello che potevo permettermi l’ho dato a loro. All’inizio avevo molta nostalgia di casa. Dopo sei mesi, volevo tornare a casa. Ma mio fratello maggiore mi disse: “Se osi tornare, ti rompo le gambe” (Ride) Sapeva che avrei potuto farcela.” “Penso di aver completato un percorso fantastico. Sono fiero di me stesso. Perché l’ho fatto a piccoli passi e con molto lavoro. Non sono mai stato quel “bambino prodigio”: non ero una di quelle promesse da tenere d’occhio. Non ero molto apprezzato. Non ho giocato prima con Standard o Anderlecht, ho fatto io. Ho preso una strada diversa rispetto ai calciatori che erano “grandi talenti” sin dalla tenera età. Mi fa capire che non sono solo qui. Ho imparato molto dal mio percorso, anche per collocare altre cose. C’è di più nella vita oltre al calcio. Lo so meglio di chiunque altro.” Nainggolan è tornato in pista. Gioca a calcio – in prestito – a Cagliari. Una scelta consapevole. Una scelta per amore. Il suo matrimonio con Claudia Lai ha superato crisi, gossip e discussioni, ma in tempi difficili Nainggolan ha deciso risolutamente di starle accanto. “Questo è un momento specifico e difficile della nostra vita”, ha detto Nainggolan. “Claudia è forte. Coraggiosa. Fa del suo meglio per camuffare le proprie emozioni nel miglior modo possibile. Cerca di comportarsi il più normalmente possibile, soprattutto in presenza delle nostre figlie. La perdita di capelli da chemio è uno dei momenti più difficili per una donna. Sono tornato a Cagliari soprattutto per lei. Ha i suoi genitori qui, i suoi amici, i posti a lei cari. In quelle circostanze si riesce a combattere meglio. Dovremo aspettare la chemioterapia per assicurarci che non ci siano complicazioni. Cerco di esserci di più per i bambini. Non è sempre facile perché a volte siamo a casa senza di lei (…) È importante che loro non soffrano troppo “. Nel frattempo, Claudia sta migliorando. E nel frattempo il coronavirus è un pericolo, soprattutto per le persone immunodepresse come lei: “Lei evita gli ospedali. Ci sono liste di attesa che ti dicono quando puoi andare. Faccio la spesa, ad esempio, e sono a rischio. Perché sto uscendo. Quando torno a casa, temo di poterla infettare, ma sono attento e penso che tutto sia andato bene. Claudia ha già attraversato il periodo più difficile, ora si tratta principalmente di mantenersi. Il tempo ci mostrerà se avrà finalmente risolto. Ma le cose stanno andando nella giusta direzione al momento.”

Claudia Lai ha sconfitto il cancro, l’annuncio della compagna di Nainggolan.  Notizie.it 15/09/2020. Claudia Lai, compagna del calciatore Radja Nainggolan, ha annunciato la fine della sua battaglia contro il cancro in un post pubblicato su Instagram. L’annuncio è arrivato sul suo profilo Instagram nella giornata del 14 settembre, Claudia Lai ha finalmente sconfitto il cancro al seno che l’aveva colpita lo scorso anno. La moglie del calciatore dell’Inter Radja Nainggolan ha infatti comunicato ai suoi fan la fine della sua battaglia contro il tumore diagnosticatole nell’aprile del 2019: “Oggi 14 settembre 2020, scusate ma io devo assolutamente festeggiare la mia vittoria”. La notizia della fine della battaglia contro il cancro è stata data dalla stessa Lai in una storia di Instagram, dopo mesi in cui sempre sul suo profilo aggiornava i suoi follower sull’andamento delle chemioterapie a cui si stava sottoponendo in ospedale. Un percorso lungo e doloroso quello della dj, durante il quale ha avuto sempre al suo fianco l’amore e l’affetto del marito Nainggolan e delle due figlie Aysha e Mailey, nate rispettivamente nel 2012 e nel 2016. Poche settimane fa Claudia Lai aveva pubblicato un posto su Instagram in cui raccontava la sua battaglia contro il cancro e come la sua vita fosse cambiata a seguito della malattia: “Ricordo ancora come fosse oggi il modo in cui mi venne data la notizia della malattia. Ho ancora i brividi, per poco morivo al momento del ritiro dei referti. Non è stato per nulla facile accettarlo. […] Ovviamente voi avete visto solo una parte di me, ma vi assicuro che i primi quattro mesi pensavo di non farcela. Non avevo forza e voglia di reagire, mi sentivo morire. Ringrazio tutte le persone che mi sono state vicine”.

Chiara Zucchelli per gazzetta.it il 16 settembre 2020. Una nuova vita, in tutti i sensi. Radja Nainggolan, stando al settimanale Chi, e sua moglie Claudia si sarebbero separati e sarebbe già stata fissata l’udienza per la separazione. Una notizia che a Cagliari si vociferava da tempo, visto che i due non si facevano vedere insieme da mesi e anche sui social non c’era più traccia di foto o video. Un rapporto burrascoso, il loro, ma comunque intenso, da cui sono nate Aysha (8 anni) e Mailey (4), che sono andate a far compagnia alle altre due figlie che Radja aveva avuto da un precedente legame e che hanno ritrovato un rapporto col padre anche grazie a Claudia. Se Nainggolan pensa al calcio e, secondo sempre Chi, avrebbe già preso una nuova casa al Bosco Verticale a Milano con una nuova compagna, Claudia è a Cagliari con le figlie, si divide tra la musica, la sua passione, e la boxe , che tanto l’ha aiutata in questi mesi e si gode la battaglia vinta contro il cancro. Sa che il peggio è passato, sa che la sua vita non sarà più la stessa di prima, ma è finalmente serena: “Grazie - ha scritto su Instagram - a chi in questo fantastico anno di m... tra una chemio e l’altra ha creduto in me”.

Da ilnapolista.it il 3 giugno 2020. Il direttore delle squadre nazionali della Federcalcio tedesca, la DFB, è Oliver Bierhoff, ex capocannoniere della Serie A e bomber del Milan scudettato di Zaccheroni. In un momento in cui la Germania si ritrova a vestire il ruolo di pioniere del calcio post-Covid Bierhoff affronta in una lunga intervista a T-online.de il tema tanto abusato della grande industria del pallone. Che deve cambiare, modificare i parametri di spesa, programmare il futuro. E ricorda il passato, quello italiano, in cui il calcio faceva molti dei suoi affari “a nero”. “Discutiamo già dal 1990 di commissioni per i trasferimenti troppo elevate, mi ricordo il dibattito sugli stipendi che prendevano in Italia Lothar Matthäus o Andreas Brehme. Quando sono arrivato io in Italia nel 1991, giravano tantissimi soldi a nero nell’economia del calcio. Ma la politica poco dopo ha messo un freno. La maggior parte dei salari dei calciatori è diminuita del 50% in pochissimo tempo. Eppure i giocatori erano contenti lo stesso”. Anche adesso che c’è la crisi, dice Bierhoff, “tutti vogliono solo ottenere un pezzo in più della torta. Invece dovremmo discutere di come ridurre le commissioni, gli stipendi o i consulenti, ad esempio. Ma avrebbe senso solo in termini a parità di concorrenza, con scelte a livello europeo”. Anche perché per la gente comune il calciatore è sempre di più un ricco spendaccione. “Non penso che lo stipendio elevato sia il problema dei tifosi, per quanto paradossale possa sembrare. Messi, Cristiano Ronaldo o Jo Kimmich non sono il problema. Alla gente piacciono, comprano le loro maglie e vanno allo stadio grazie a questi giocatori. Il problema è la massa di mediocrità che nuota attorno a questa attrazione ed è “pagata in eccesso”. Bierhoff interverrebbe sulle “discrepanze finanziarie tra la Champions League e i campionati nazionali, a volte anche tra campionati nazionali. In Germania siamo più avanti dal punto di vista della redistribuzione sociale. Ma se i club hanno l’obiettivo di raggiungere la Champions League il rischio finanziario che si assumono è molto elevato”. Un pezzo dell’intervista riguarda i giovani e descrive molto bene l’attenzione alla programmazione che hanno in Germania. “La formazione dei giovani talenti crescerà di importanza. Le conseguenze economiche della crisi sono enormi, quindi i club dovranno salvarsi così. Come DFB sto lavorando con le squadre nazionali e come direzione dell’Accademia per fare in modo che i migliori calciatori europei giocheranno in Germania tra cinque o dieci anni. E per fare questo puntiamo sempre di più sull’individualità nell’allenamento migliorando il coaching individuale, la promozione della creatività e la trasmissione di valori chiari. Negli ultimi anni ci siamo concentrati troppo sulla tattica”. “Per quanto paradossale possa sembrare, è stato utile per i giovani giocatori scendere dalla ruota del criceto del calcio competitivo per due o tre mesi. È importante come hanno utilizzato il tempo, allenandosi individualmente, sviluppando punti di forza ed eliminando le debolezze. Nell’allenamento tattico di gruppo, questo non è sempre così facile”. E per farlo l’approccio è scientifico: “Per esempio ora stiamo studiando il Liverpool: come fanno a vincere una partita ogni tre giorni con tensioni così elevate e uno stile di gioco così intenso? Ovviamente ci aiuta il buon rapporto con Jürgen Klopp e la nutrizionista del Liverpool Mona Nemmer. Possiamo utilizzare i fatti scientificamente provati per la nostra pratica quotidiana”.

Chiara Zucchelli per la Gazzetta dello Sport il 26 febbraio 2020. Premessa: chi scrive si commuoverà spesso, durante questa intervista. Lei, la protagonista, invece non lo farà. Perché Claudia Lai è una semplice donna di 38 anni (da compiere) che sta combattendo la sua battaglia con un coraggio da leonessa. Ed è abituata ad essere forte, anche quando vorrebbe crollare. Lo fa per se stessa, per chi le è accanto da sempre e anche per chi ha iniziato a seguirla da quando ha rivelato a tutti la sua situazione. Che poi sia anche la moglie di Radja Nainggolan in questa intervista è un dettaglio. E che domenica si giochi Cagliari-Roma, la sua partita del cuore, lo è ancora di più.

Affrontiamo subito l' argomento calcio: arriva la «vostra» partita.

«Vero, confermo. Tutti sanno che di calcio non capisco un granché, ma a Roma ho conosciuto tante persone, sono rimasta legata a tutti, è stata casa mia. Cito Amra Dzeko, una donna splendida».

La Roma l' ha anche aiutata nel suo percorso di cure?

«Amo Roma, mi ha salvato la vita. In primis il dottor Del Vescovo (ex medico sociale del club giallorosso, ndr) che mi ha messo in contatto con il dottor Vincenzi del Campus Biomedico dove ora sono seguita e coccolata».

A Milano invece sono legati ricordi meno belli. Lì, nell' aprile del 2019, ha scoperto il cancro.

«Sì, sono stata operata subito senza renderla pubblica e poi ho firmato per tornare a casa dalle mie figlie».

Le mogli dei giocatori dell' Inter, o anche ex come Wanda Nara, le scrivono spesso.

«Sono rimasta in buoni rapporti con tutti, mi piace farmi voler bene».

Dopo tre mesi dall' operazione, a luglio, con un post su Instagram, ha scelto di rendere pubblica la sua malattia.

Come mai?

«Perché in un momento così delicato della mia vita mi sono resa conto di non esser stata abbastanza lucida per affrontare il problema. Avevo bisogno di confrontarmi con persone che avessero o stessero passando il mio stesso incubo per capire a cosa stessi andando incontro. Parlarne pubblicamente mi ha dato modo di conoscere virtualmente tante donne con il mio stesso problema, creare delle amicizie dove ci davamo forza l' una con l' altra. A mia volta sono diventata un aiuto per loro».

Non è la prima volta che si trova a combattere.

«Da piccola, esattamente 30 anni fa, ho subito un intervento a cuore aperto per una malformazione cardiaca. Il fattore cardiopatia ha influito parecchio perché non posso fare uso di diversi farmaci e devo sempre stare attenta alle infezioni.

Infatti, a causa di un versamento di liquido al cuore, il 13 dicembre ho dovuto interrompere per due mesi le terapie oncologiche, che ora ho ripreso alla grande».

Claudia, come sta? I capelli ricrescono, sulla mano ha tatuato il nastro della lotta contro il cancro, le sue bambine sono a Cagliari circondate da tanto amore. Sta vincendo lei.

«Tutte queste cure mi hanno provocato diversi problemi, come a tutti d' altronde. Cuore, difese immunitarie basse, osteoporosi e altre causate dalla menopausa forzata. Grazie a Dio ho già due splendide bambine, anche perché non potrò più avere figli».

In famiglia ci sono anche le due figlie che Radja ha avuto da un precedente legame in Belgio. In un' intervista, qualche tempo fa, la loro mamma ha detto che anche grazie a lei riescono a vivere in serenità il rapporto con il padre.

«Sono onesta, non l' ho letta.Prima le avevo più spesso, ma da quando mi sono ammalata ho difficoltà anche a badare alle mie bambine, perciò vengono molto meno. In questi giorni però sono qui».

Lei ha scelto, in questi mesi, di mettere all' asta delle maglie su Instagram per aiutare chi sta combattendo la sua stessa battaglia.

«Come nel 2012, ho voluto fare una raccolta fondi da donare all' oncoematologia pediatrica di Cagliari per l' acquisto di elementi sanitari ed altro. A Natale ho portato dei doni ai bambini ricoverati e non di tutti i reparti e loro in cambio mi hanno regalato tanta voglia di combattere e vivere. Il modo migliore per raccogliere fondi è stato chiedere le magliette ai calciatori, molti sono stati sensibili alla mia richiesta, a qualcuno invece non è interessata la questione...».

In questi giorni si parla molto di salute e di prevenzione. Vuole lanciare un messaggio per chi lotta contro un tumore al seno o un' altra malattia?

«Io sono stata fortunata, mi sono accorta per tempo, anche se era già al quarto stadio. Noi donne dovremmo amarci di più e farci controllare spesso. A volte basta poco per evitare una tragedia».

Dagospia il 5 febbraio 2020. Da video.repubblica.it. L'omofobia nello sport, "una partita da vincere": il Parlamento europeo a Bruxelles ha ospitato un evento organizzato da Tiziana Beghin, capodelegazione del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo, Tomasz Frankowski, europarlamentare del Ppe e Marc Tarabella, del gruppo S&D. "Auspichiamo che anche il mondo dello sport possa recitare un ruolo da protagonista nella battaglia contro l'omofobia", ha spiegato Beghin. All'incontro ha partecipato, inviando un video, il calciatore della Sampdoria e della nazionale svedese Armin Ekdal: "Tutti dovrebbero sentirsi liberi di fare coming out, nella vita e nel calcio. Sfortunatamente nel nostro sport non è così: solo otto giocatori hanno dichiarato di essere omosessuali. Molti altri vorrebbero farlo ma evitano, per paura delle reazioni negative". Una presa di posizione importante per un atleta di Serie A. Anche Chiara Marchitelli, calciatrice dell'Inter, ha dichiarato: "Nello sport non conta quali sono le preferenze sessuali degli atleti ma quello che gli atleti fanno in campo". L'attore e scrittore Fabio Canino ha presentato il suo libro "Le parole che mancano al cuore", un romanzo che è anche un "viaggio nelle ipocrisie del mondo del calcio". "Di esempi concreti di omofobia ne potrei fare centomila - ha precisato l'artista -. Purtroppo dagli spalti delle partite di calcio quando si vuole offendere qualcuno lo si offende o per il colore della pelle o per gli orientamenti sessuali, e ciò è diventato quasi un classico". Yves Lostecque, capo dell'unità sport della Commissione europea, ha chiesto di "non chiudere gli occhi di fronte agli aspetti spiacevoli dello sport come l'omofobia"-

Omofobia, Ekdal: «I calciatori hanno paura: solo 8 gay si sono dichiarati, altri non si sentono liberi». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it. Albin Ekdal, centrocampista della Sampdoria e della Nazionale svedese, ha partecipato a un incontro al Parlamento europeo sul tema «Sport vs Omofobia, una partita da vincere» con un video raccolto da Tiziana Beghin, capodelegazione del Movimento 5 Stelle, e diffuso sui social. Il 30enne svedese si è mostrato molto sensibile sul tema: «Ritengo essenziale contribuire a sensibilizzare il pubblico europeo su questo argomento. In un mondo ideale nessuno dovrebbe sentirsi a disagio nel dichiararsi omosessuale, che sia nella vita o nel calcio. Ma la realtà è molto diversa. Nel nostro sport solo otto giocatori si sono ufficialmente dichiarati omosessuali, molti altri vorrebbero farlo ma non se ne sentono liberi, per paura delle reazioni negative». Ekdal ha sottolineato: «Quello del calcio è un ambiente dove l’omofobia è ancora diffusa. Questi giocatori sono preoccupati di diventare un bersaglio per gli insulti e lo scherno, sia dentro che fuori dal campo. Come risultato si sentono obbligati a nascondersi, fuggire e vivere nella paura. Ecco perché dobbiamo reagire, utilizzando l’istruzione come una forza per un cambiamento positivo» ha detto Ekdal. «Che società siamo se un ragazzino non può seguire il suo sogno di diventare un calciatore per via del suo orientamento sessuale? Ogni volta che un ragazzino appende le scarpe al chiodo e smette di giocare perché non è accettato nello spogliatoio della sua squadra o di chi lo circonda, è una sconfitta per il mondo del calcio».

WAG Emanuela Longo per ilsussidiario.net l'1 febbraio 2020. Erjona Sulejmani è ospite a Rivelo. Nel salotto di Lorella Boccia si parla della sua vita da mamma, modella e agente immobiliare. A questo non manca il suo lavoro in tv. Lei si è unita nel 2015 con il calciatore del bologna Blerim Dzemaili. Per prima cosa si parla delle sofferenze vissute quando era molto piccola ed è stata costretta a scappare dal Kosovo. Tra le chiacchiere con Lorella Boccia, è uscito anche il tema della chirurgia estetica, una pratica che è molto popolare tra le mogli dei calciatori. “Chi dice che non ha provato dice balle. Io ho fatto qualcosa che non sto a dire”. Al che Lorella cerca di tirarle fuori qualche dettaglio in più ma Erjona si limita a dire: “L’età passa altrimenti si casca a pezzi. Ma senza esagerare. Se tu fai una cosa perché non ti vedi bene, ben venga. ma quando diventi uguale alle altre, non va bene. Non esagerare”. Poi fa un esempio riferito al mondo in cui ha vissuto fino a poco tempo fa: “Nel mondo del calcio ci sono tante bellissime donne che si mantengono, certe esagerano anche. C’era una signora, una wags, che si faceva il botox da sola mentre eravamo a cena. Era talmente abituata e brava. È un caso da ricovero”. (agg. Chiara Greco)

Questa sera, nella puntata di Rivelo ci sarà un’ospite molto speciale: Erjona Sulejmani, la modella albanese famosa per essere una delle wag più popolari. La sua popolarità è anche dovuta alla relazione con Blerim Dzemaili, centrocampista del Bologna. Oltre a parlare tanto della loro relazione, ha espresso alcune considerazioni molto forti sul mondo del calcio, rivelando che quel mondo molto maschile è pieno di omosessuali: “Non vedo perchè questo tabù dell’omosessualità oggi sia un argomento così duro. Mi riferisco al calcio e in generale. Se ne sentono di tutti i colori…”, ha continuato la Sulejmani criticando fortemente coloro che non concepiscono questa realtà in questo sport. “Io dico ‘che ti cambia se giochi a calcio con uno che esce fuori e ha la moglie, la fidanzata… o il fidanzato?!”. La sua posizione è quindi molto a favore delle relazioni omosessuali nel calcio. Lei che c’è stata però può assicurare che sotto diverse coperture, diversi calciatori nascondono la loro omosessualità: “Nel calcio ci sono tanti casi…”. (agg. Chiara Greco)

Sarà la bellissima Erjona Sulejmani, modella di origini albanesi, imprenditrice ed ex “wag”, l’ospite di Lorella Boccia nella nuova puntata di Rivelo, la trasmissione di Real Time in onda come di consueto nella prima serata del giovedì. La Sulejmani, ex di Blerim Dzemaili, si è raccontata a 360 gradi, dall’infanzia non semplice al suo arrivo in Italia, senza naturalmente trascurare l’amore e il suo attuale stato sentimentale. “All’età di nove anni una bambina che vive la guerra sicuramente si trascina dei traumi. Non è facile… bisogna viverla sulla propria pelle”, ha rivelato alla Boccia, indicando così il contesto in cui è cresciuta, ovvero durante la guerra per l’indipendenza del Kosovo, suo paese d’origine. Una situazione complessa che ha costretto la sua famiglia a scappare in Italia, come molti suoi compaesani nello stesso periodo. Un momento non facile della sua vita ma che al tempo stesso, pur segnandola, le ha anche insegnato tanto “perchè sono le esperienze forti che ti fanno crescere, ti formano, ti fanno diventare una guerriera e scoprire parti di te che non pensavi di avere”. L’accoglienza in Italia, ha raccontato, è stata molto positiva. Da 21 anni lei e la sua famiglia vive sul lago di Garda da dove non si sono mai mossi: “Mi sento a casa”, rivela. Nel corso delle sue rivelazioni c’è spazio anche per altri aspetti delicati della sua vita. Erjona Sulejmani ha per esempio ammesso di aver subito atti discriminatori, “anche se in percentuale minore rispetto ad altri, perchè i miei genitori lavoravano anche 16 ore al giorno per poterci dare, a me e mio fratello, una vita dove non ci sentivamo diversi dagli altri o emarginati…”, dice. Ora che è mamma comprende perfettamente tutti i sacrifici della sua famiglia. Spazio quindi alla sua storia con Blerim Dzemaili, conosciuto dopo aver vinto la fascia di Miss Eleganza in Albania: “Quando mi ha confessato di essere un calciatore gli ho detto ‘per carità, alla larga, non voglio avere a che fare con te’”, ha rivelato. Oggi il loro matrimonio è finito e Erjona si sente “una donna libera e felicemente single”, ma al tempo stesso ammette di rendersi conto di quanto possa essere dura la vita da “wag”: “Lasci da parte la tua vita per seguire la vita di un altro… cambi continuamente città, paese… non puoi avere un lavoro fisso in un luogo”. Oggi ammette di volere ancora bene al suo ex nonché padre di suo figlio: “lo rispetterò sempre per il ruolo che copre. Gli auguro di realizzarsi in quello che desidera. Però non lo amo più”, rivela. Infine dice la sua sull’omosessualità e su quanto ancora oggi continui ad essere un tabù nel mondo del calcio ma non solo: “Io dico ‘che ti cambia se giochi a calcio con uno che esce fuori e ha la moglie, la fidanzata… o il fidanzato?’. Nel calcio ci sono tanti casi…”, ha chiosato la modella.

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it il 7 febbraio 2020. Finalmente lui. Mario ci ha pensato fino all’ultimo - la faccio, non la faccio, lascio perdere - perché non ama raccontarsi, aprirsi: devono bastare il campo e Instagram, spesso bugiardi. Poi l’istinto, il nemico invisibile, si è arreso a un’insistenza non solo mia. Uno di fronte all’altro. Due sedie, una bottiglietta d’acqua. Un solo caffé. «Non ne ho mai bevuti», dice. Una sala sorprendentemente vuota, non un mobile, giusto una pianta della serie anch’io esisto, due ampie vetrate dalle quali entra tutta la bella giornata di Torbole Casaglia, Brescia è a pochi chilometri. Qui Massimo Cellino ha fatto costruire a sue spese il nuovo centro sportivo. «Non è ancora finito» chiarisce Edo Piovani, che da Corioni in avanti è il Brescia, irrinunciabile continuità. Incontro l’uomo Balotelli, del ragazzo è rimasta solo la risata che fa subito simpatia e gli illumina il viso. Balo è cresciuto, sa parlare molto meglio di tanti suoi colleghi e allora mi chiedo e gli chiedo come mai non l’abbia fatto in passato per frenare maldicenze, battute antipatiche e fantasie.

«Tante volte ne ho discusso con Mino (Raiola, nda), non dico che mi abbia rimproverato, ha però tentato di spingermi a chiarire pubblicamente certe situazioni, a demolire le invenzioni, a non lasciare tutto lo spazio agli altri. Ma non ne ho mai sentito l’esigenza. Rare le interviste, ne ricordo una a Time».

Giorni fa proprio il tuo agente ha detto una cosa che mi ha colpito: «Il problema di Mario è che è contento di ciò che ha fatto».

«Ha detto questo? Ma non è così, niente va bene, so di poter fare di più e non sono soddisfatto. Sono ancora in tempo per rimediare. Avrei potuto essere più in alto, forse, ma non mi pento delle mie scelte, né di qualche stupidata giovanile. Non avrebbe senso ora. Sono cresciuto, l’istinto sostituito con il lavoro. La svolta è stata a Nizza, ma anche l’ultima stagione al Milan è stata formativa. Nei primi anni pensavo che bastasse giocare bene e fare gol, che il calcio fosse tutto qui e non mi si dovesse chiedere altro. Ho incontrato allenatori con i quali c’è stata sintonia e altri che non mi hanno aiutato. Ho litigato con Mou e Mancini, e ti parlo di chi è stato importantissimo per me. A diciotto anni non capivo, ma non sono mai stato stupido. Mi hanno descritto così? La gente trova più interessanti i giudizi negativi».

Capisco, Mario, ma ne hai combinate di ogni. Una volta è lo scherzo della pistola giocattolo, l’altra l’appartamento di Manchester incendiato, gli incidenti alla guida…

«Quello della pistola giocattolo fu semplicemente uno scherzo tra amici che si risolse in un attimo. Quando prese fuoco l’appartamento di Manchester io non ero nemmeno in casa. Gli incidenti, un paio per colpa mia, tre al massimo. Tutto il resto è fantasia, pregiudizio, favola. Hanno scritto di un mio incidente l’ultimo dell’anno e non ero nemmeno presente, non c’ero su quell’auto. Dell’altro giorno un articolo su una serata a Padova dove avrei fatto le ore piccole. Sì, a Padova c’ero, sono andato a cena, poi a bere con gli amici fi no alle due, la mattina dopo non era in programma l’allenamento ma io sono andato ugualmente al campo per lavorare. Vuoi sapere come stanno le cose? E allora chiedimelo, informati invece di creare uno scandalo dove lo scandalo non c’è. Il giorno…».

Il giorno?

«La giornata è fatta di ventiquattro ore, io ne passo da quattro a sei al campo, pranzo e cena sempre da mia mamma, poi a casa, un po’ di playstation e alle dieci e mezza, massimo le undici, vado a dormire. Ho ventinove anni, due fi gli di due e sette anni e quando ci sono loro non mi dedico ad altro».

Sei reduce da una squalifica, due giornate per aver offeso l’arbitro.

«Un rosso del cazzo. Mi è scappato un vaffanculo e l’arbitro mi ha cacciato. Ma se fossero puniti tutti i vaff a che si sentono in campo le partite finirebbero con due giocatori per squadra. Da quando sono tornato in Italia non ho rotto le scatole a nessuno, mi alleno seriamente, non tralascio nulla, mi adatto alle esigenze dell’allenatore e dei compagni, anche se a volte in partita mi sembra di fare il centrocampista».

Di te si dice: «E’ un atleta, forte fisicamente e con un gran bel tiro». Giudizio riduttivo?

Sorrisone. «Chi dice questo? Il tiro ce l’ho, ma credo di avere anche una buona tecnica. Non sono il massimo tatticamente, soffro gli schemi, penso che mi limitino, succede anche ad altri attaccanti. Prova a chiedere ai centravanti se gradiscono rientrare spesso per difendere…».

Soffri gli schemi del campo come quelli della vita?

«Le regole le rispetto esattamente come gli altri. Gli schemi del campo sono più complicati. Io sono un istintivo».

Definisci l’istinto.

Mi guarda un po’ stranito. «Il tempo di reazione tra un’azione e la mia reazione. L’assenza di questo tempo è l’istinto. Le esperienze aiutano a controllarlo, ma a volte in me prevale ancora».

Come a Verona. Di solito la difesa dei coristi o di chi li protegge, è: si tratta di sfottò, non di razzismo.

«Ne sono convinto anch’io, ci credo. Se presi singolarmente quelli che fanno i buu allo stadio sono tutt’altro che razzisti. Però, vedi, quei cori fanno male. Mi facevano male a sedici anni, a venticinque, mi fanno male ancora oggi che ne ho quasi trenta e mi faranno male a sessanta. A Verona ho avuto quella reazione, ma nella partita con la Lazio al terzo episodio mi sono rivolto all’arbitro e gli ho chiesto di farli smettere. Questa forma di inciviltà, che si può spacciare anche per sfottò, non può essere tollerata, non va accettata».

Perché hai deciso di tornare a Brescia?

«Avevo altre opportunità, quando si è fatto vivo Cellino ne ho parlato con mia mamma, lei era felice al punto che ha pianto, Brescia è la mia città, e così ho deciso. Un anno, poi si vedrà».

Come un anno?

«Ho firmato per tre, ma è giusto confrontarsi a fi ne stagione. Il presidente è unico, l’avevo conosciuto in Inghilterra quando aveva il Leeds, a cena anche insieme una volta. Lui sa come convincerti. Pensa che si era mosso anche il Verona, il presidente Setti aveva telefonato a Cellino per chiedergli se fosse realmente interessato a me».

E lui? E Cellino?

«Gli ha risposto che non era interessato e tre giorni dopo ho firmato per il Brescia. Ad ogni modo non sarei potuto andare a Verona, sono bresciano».

Della Premier che ricordi hai?

«Bellissimi al City, pessimi a Liverpool dove non legai con l’allenatore. La palla non entrava proprio. Ho vissuto giorni molto difficili».

Hai mai avuto la sensazione che Raiola ti avesse un po’ mollato per sfinimento?

«Mino è un fratello maggiore, aveva alcune trattative più impegnative che gli hanno tolto tempo e energie, ma io sono sempre al centro dei suoi pensieri».

Ti saresti mai aspettato il ritorno di Ibra?

«Non me l’aspettavo. E non l’ho sentito. Ci siamo visti prima della partita col Milan quando sono andato in albergo a salutare la squadra».

Il Milan l’hai sempre nel cuore.

«Il Milan è il Milan. Ma al tempo stesso non ho alcun problema con l’Inter, non io almeno. L’Inter mi ha dato tanto, tutto è partito da lì, il settore giovanile, Mancini, la gente. Mancini è la principale figura della mia carriera, le due occasioni in cui abbiamo discusso aveva sempre ragione lui. In particolare la volta della foto che fece il giro del mondo: si incazzò per un brutto intervento in scivolata su un compagno».

E Mihajlovic, che lo spinse a farti esordire contro la Juve?

«Sinisa è forte, talmente forte che ne verrà fuori. Non l’ho mai chiamato per non disturbarlo, ma ho scritto a sua figlia. Lui è un uomo leale, di lui ti puoi fidare, le cose te le dice in faccia. E poi...».

E poi?

«Un fenomeno sui calci da fermo. Provava le punizioni con noi in allenamento, mi colpiva il fatto che riuscisse a cambiare l’angolo di battuta e la direzione del pallone con l’ultimo passo. Mai visto un altro in grado di farlo. Osservava il movimento del portiere, all’ultimo cambiava decisione e indirizzava il palloneverso il lato aperto. Io ci riesco solo su rigore. Ma tanto al Brescia i rigori non li danno (ride). Due in ventidue partite».

Mario, Tonali dove può arrivare?

«Ha margini di miglioramento abissali (testuale). L’hanno paragonato a Pirlo, gli somigliava solo nei capelli. Sandro mi ricorda Gerrard e Lampard e, se il mio allenatore non si arrabbia, dico che per me il suo ruolo ideale è dietro le punte. Sandro sa coprire tutto il campo, ma aggiungerebbe tanta qualità se spostato più avanti».

Parli di calcio. Pensa che non ti riconoscevo tutta questa passione. Ti immaginavo interessato ad altro. Non dico a cosa.

Altra risata. «Il calcio è la mia vita. Agli altri non sembra che sia così? Non ho mai cercato di convincere nessuno. Mi piace Lukaku, chi dice che non è veloce ne capisce poco. Ma è Lautaro che mi ha impressionato. Un altro fortissimo è Higuain, però se devo fare un nome dico Dybala, io sono un Dybala fan, è un giocatore pazzesco».

E Immobile?

«Ha il posto assicurato agli Europei. Lo merita. Ma quando segnerà un gol normale? Guardate il secondo alla Spal, incredibile… Ciro è diventato anche un centravanti da area di rigore».

Dopo il disastroso Mondiale in Brasile nel quale foste messi sotto accusa in particolare tu e Cassano, a precisa domanda su voi  due Prandelli mi rispose: «Sono molto diversi, Mario è un buono, profondamente buono, Antonio è più smaliziato».

«Ad Antonio voglio bene, ma io ne ho combinate meno di lui».

Balo non è ciò che sembra, è molto meglio. Ha un profondo senso della libertà, dell’amicizia e momenti di sconfinata leggerezza. Possiede la reattività del timido. Da sempre tifo per lui, rari i ripensamenti. Continuerò a farlo.

«Non lo conoscevo, ero diffidente. Abbiamo cominciato ad allenarci insieme e dopo due settimane mi sono detto “e questo sarebbe Balotelli?”. Mario è un ragazzo semplice, positivo, molto più umile di tanti suoi colleghi. La squadra è giovane e lui ha sempre una parola per tutti, una rivelazione». Così Daniele Gastaldello, 36 anni, sedici di professionismo, tanta A e una bella testa.

Marco Sacchi per calcioefinanza.it il 5 ottobre 2020. Il presidente del Brescia Massimo Cellino non le manda a dire. Intervenuto nella serata di ieri ai microfoni di Novantesimo Minuto – dopo la rovinosa sconfitta per 3-0 sul campo del Cittadella –, il patron delle Rondinelle ha rilasciato dichiarazioni importanti. «In 30 anni nel mondo del calcio non mi era mai successo di venire minacciato dai giocatori. Gente che voleva essere ceduta altrimenti sarebbe andato in depressione. Non hanno neanche un briciolo d’educazione», ha raccontato. «Ho cinque telefoni e sono tutti spenti – ha aggiunto ancora Cellino –, perché chiamano me quando ci sono apposta i direttori sportivi? Se si fa avanti qualcuno interessato gli regalo il club», ha concluso. Il Brescia è retrocesso dalla Serie A alla Serie B al termine della scorsa stagione. La formazione lombarda, guidata da Luigi Delneri – si trova attualmente all’ultimo posto in cadetteria dopo due giornate nelle quali ha conquistato un pareggio e una sconfitta.

Da liberoquotidiano.it il 12 giugno 2020. Non si placa lo scontro tra Mario Balotelli e il Brescia. Gli avvocati dell’attaccante hanno chiesto il suo reintegro all’interno della squadra per la terza volta e la messa in mora del club per lo stipendio di marzo: il presidente Massimo Cellino dovrà provvedere al pagamento entro 20 giorni, se non si raggiungerà un accordo. “Lo stanno discriminando - è l’attacco di Mino Raiola, riportato dalla Gazzetta dello Sport - il Brescia lo fa allenare da solo alle 19. Normale che scrive le mail di diffida dopo le 20 quando torna a casa. Piuttosto - affonda l’agente di SuperMario - a me risulta che il Brescia è l’unica società di serie A che non ha ancora fatto fare il tampone a un proprio calciatore. Hanno discusso per settimane dei protocolli medici e ora si consente a una società di ignorarli solo per poter lasciare a casa un calciatore”. 

Matteo Brega per gazzetta.it il 9 giugno 2020. Mario Balotelli questa mattina si è presentato venti minuti prima delle 9 al centro sportivo di Torbole Casaglia e dopo un breve conciliabolo con un dipendente della società è tornato a casa. Il Brescia, dunque, non consente all’attaccante di riprendere ad allenarsi. Mario, lasciando il centro sportivo, si sarebbe lasciato andare anche a una frase ironica con i giornalisti presenti: "Adesso dite che non voglio allenarmi...". La diatriba tra lui e Massimo Cellino, quindi, si arricchisce di un nuovo capitolo. Dopo il certificato medico per gastroenterite (che scadrebbe oggi), il ricorso del club per risolvere unilateralmente il contratto e ora la negazione della struttura per allenarsi. E adesso? La posizione del club è questa: ieri sera verso le 21.30 Balotelli ha rimandato un certificato del suo medico di base secondo il quale era guarito. Ma, per un discorso amministrativo, la mail è arrivata in un orario extra lavoro rendendo impossibile la comunicazione all'Inps. Quindi, per mancanza di tempi tecnici, non è stato possibile rendergli agibile il centro sportivo. Se per esempio si fosse fatto male correndo, non sarebbe stato coperto.

Matteo Brega per la Gazzetta dello Sport il 2 giugno 2020. Tra Massimo Cellino e Mario Balotelli è arrivato il momento di dirsi addio. E non sarà attraverso un lungo abbraccio, ma per vie legali. Oggi il Brescia invierà all' attaccante una lettera di risposta alla sua richiesta di reintegro in squadra fatta pervenire all' alba della mattina di domenica. E la risposta del Brescia, assistito dall' avvocato Mattia Grassani, sarà un rinvio in tribunale. Entro la fine della settimana infatti dovrebbe partire il ricorso per la risoluzione unilaterale del contratto. Ieri Balotelli ha seguito la tabella di lavoro degli ultimi giorni. Quindi allenamento di mattina a Torbole Casaglia dalle 9 alle 10 (circa un' ora di corsa ed esercizi) e poi verso le 19 la sessione pomeridiana. E, come accaduto altre volte, anche ieri mattina Mario si è fermato a discutere con il d.s. Stefano Cordone. Invece che farlo però a favore di visuale dei cronisti presenti al centro sportivo, i due si sono chiusi in uno spogliatoio per circa 10 minuti. Mario ha poi lasciato i campi per rientrare a casa e lavarsi dopo aver sudato. L' attaccante anche ieri ha così continuato il suo percorso di riatletizzazione in solitaria con la squadra che invece sta lavorando da una settimana con Diego Lopez in vista della ripresa del campionato. Tornando alla querelle tra Cellino e Balotelli, emergerebbero le varie fonti di dissidio. In primis la gestione poco professionale, secondo il club, del periodo di lavoro forzato casalingo. Secondo il Brescia, Mario non avrebbe sfruttato appieno ciò che il club gli aveva messo a disposizione (online) frequentando poco gli allenamenti organizzati dallo staff di Lopez. Un atteggiamento e una conduzione che lo avrebbero portato a ripresentarsi al campo in condizioni non ottimali per poter essere aggregato subito ai compagni di squadra. Tutto questo, secondo la società, sarebbe una mancanza di professionalità e di rispetto nei confronti della stessa, degli allenatori, dei compagni e dei dirigenti. Lo scollamento avrebbe poi subito un' accelerazione nel momento in cui Balotelli non avrebbe usufruito completamente del preparatore personale messo a sua disposizione dal club per velocizzare il recupero della forma fisica richiesta. E qui si arriva quindi all' ultima settimana. L'assenza di martedì 26 maggio (ingiustificata secondo la società, giustificata secondo Mario) è quella che ha fatto rumore mediatico ed è quella che ha anticipato anche un incontro fantasma tra il numero 45 e Cellino. Mario si è presentato in sede, probabilmente convocato, ma dopo circa un' ora di attesa l' incontro non si è svolto a causa dell' assemblea di Lega che si è protratta online. Ormai il confronto tra i due sembra destinato a essere virtuale tra avvocati e carte bollate. Con un finale già scritto, da separati nemmeno più in casa.

Mario Balotelli, fine ingloriosa. Licenziato per giusta causa: inizia la battaglia legale col Brescia. Libero Quotidiano il 06 giugno 2020. Una fine davvero ingloriosa, quella di Mario Balotelli. Il Brescia gli ha fatto recapitare la lettera per chiedere la rescissione unilaterale del contratto. Le ultime assenze agli allenamenti hanno definitivamente incrinato il rapporto tra l’attaccante e il club di Massimo Cellino, con quest’ultimo che ha deciso di aver sopportato abbastanza le bizze di quello che doveva essere il giocatore simbolo della squadra. È infatti partita la lettera degli avvocati per la risoluzione del contratto per giusta causa dopo le sedute saltate senza motivo, che si sommano alla negligenza mostrata durante il lockdown. L’allenatore Diego Lopez ha infatti svelato che Balo non si è quasi mai visto nel periodo trascorso in casa ed è apparso molto indietro rispetto ai compagni, oltre che scarsamente motivato. Da qui la decisione drastica del Brescia, che ha fallito nel tentativo di rianimare un talento ormai definitivamente sprecato. 

Da sport.sky.it il 7 giugno 2020. In estate Balotelli aveva scelto di tornare a casa, al Brescia. Una decisione presa con il cuore, per rilanciarsi in Italia in una squadra neopromossa che aveva bisogno dei suoi gol per arrivare alla salvezza. In rete, però, Mario ci è andato appena 5 volte e la sua squadra è ultima in classifica a 12 giornate dalla fine e, soprattutto, questa possibile favola a lieto fine si è trasformata in un braccio di ferro con Cellino tra assenze ingiustificate, battute al veleno e minacce di licenziamento. Il presidente ha ormai deciso e, dopo aver definito "un errore" la decisione di averlo preso in estate, vuole liberarsi di Balotelli prima della conclusione della stagione. A Mario è stata proposta la risoluzione consensuale del contratto, che il calciatore ha però rifiutato. Balotelli chiede l'immediato reintegro in gruppo, dopo che nei giorni scorsi gli era stato detto di allenarsi a parte perché non aveva superato i test fisici a cui era stato sottoposto. Tra allenamenti saltati in maniera ingiustificata e sedute svolte da solo al centro sportivo, la situazione è precipitata giorno dopo giorno. L'attaccante ha disertato tutte le ultime giornate di lavoro, inviando alla società un certificato medico di gastroenterite. Il Brescia, però, ha avviato la procedura di licenziamento per giusta causa e, attraverso l'avvocato Mattia Grassani, ha spedito la lettera a Balotelli. Il giocatore si giustificherà dicendo di essere stato malato e di essere vittima di mobbing e sarà necessario un lodo arbitrale per risolvere la controversia tra il club e l'attaccante classe 1990.

Balotelli non ha più freni: pesa un quintale. Il Brescia ha aggiornato la scheda tecnica del calciatore: Balotelli adesso pesa 99,8 kg, ben otto in più rispetto al suo peso ideale. Antonio Prisco, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. Tempi sempre più duri per Mario Balotelli, adesso tradito anche dalla bilancia: sulla scheda tecnica del centravanti bresciano, pubblicata sul sito ufficiale del Brescia, si legge il numero choc di 99,8 kg. Prosegue la vita da separato in casa di Balotelli. Da settimane Super Mario si allena da praticamente da solo senza compagni sui campi secondari del centro sportivo di Torbole, nella Bassa Bresciana. I rapporti con il club sono ormai ai minimi termini e non verrà più convocato da qui alla fine della stagione. Difficile in questa situazione recuperare una condizione psicofisica ideale e proprio per questo il responso della bilancia non poteva che essere impietoso. Ieri era stato il Brescia stesso ad aggiornare sul suo sito ufficiale la scheda tecnica dei suoi calciatori, e non è sfuggita la novità al rialzo riguardo il peso di Balotelli: sulla scheda si legge il numero di 99,8 chilogrammi alla voce peso. Il suo peso-forma, comunque significativo in luce della stazza dell’attaccante, è di 92 chilogrammi per cui in base ai dati forniti dalle Rondinelle, sarebbe dunque quasi 8 chili in sovrappeso. Una precisazione da parte del club che evidenzia ancora una volta come il rapporto tra le parti sia sempre più logoro.

Mai più in campo. La storia con il Brescia è ormai giunta al capolinea definitivo: le numerose polemiche delle scorse settimane, legate ai tanti infortuni più o meno ufficiali, hanno di fatto scritto la parola fine anticipatamente sulla storia di questa stagione. Balotelli da ora alla fine della stagione si allenerà soltanto col gruppo di coloro che non giocheranno o con chi dovrà recuperare dagli infortuni, senza più rivedere il campo. Il presidente delle Rondinelle Massimo Cellino, aveva incaricato gli avvocati di avviare la procedura per la rescissione unilaterale del contratto di Mario Balotelli per giusta causa, dichiarando a più riprese che l'idea di riportare Super Mario sia stata ''un grave errore''. Una guerra legale che portato alla mossa estrema della società di esercitare la clausola contrattuale con la quale l'accordo triennale sottoscritto con il calciatore si scioglie automaticamente in caso di retrocessione. Il destino pare quindi già segnato: dal momento in cui il Brescia oggi penultimo in classifica e lontano sette punti dalla quota salvezza, sarà aritmeticamente retrocesso, Balotelli sarà immediatamente libero.

L'opzione Boca Juniors. La stagione di Balotelli è stata sicuramente sottotono, soltanto 5 reti in 19 presenze, un rendimento che sembra precludergli in via definitiva le porte del nostro campionato, per il centravanti bresciano in Serie A non sembra esserci più spazio. Al momento l'unica proposta concreta è quella del Galatasaray, la squadra turca offre un contratto biennale più l'opzione per un altro anno. Sembrano invece spegnersi le voci di un interesse da parte del Boca Juniors, che dopo Daniele De Rossi, aveva pensato ad un altro calciatore italiano. Per alcuni organi di informazione argentini le parti avevano subito trovato il giusto feeling ma nelle ultime ore l'entusiasmo del ds Burdisso sembra essersi spento. A meno di un improvviso ritorno di fiamma, toccherà come sempre a Mino Raiola trovare un'altra squadra, pronta a scommettere ancora su Super Mario.

Mario Balotelli, retroscena di mercato: “Ero d'accordo con la Juventus, poi è arrivato il Milan e non ci ho più visto”. Libero Quotidiano il 29 aprile 2020. “Dopo il Manchester City stavo andando alla Juventus, ero anche abbastanza d’accordo”. Mario Balotelli ha svelato un gustoso retroscena di mercato durante una diretta su Instagram. “Poi si è messo di mezzo Adriano Galliani - ha continuato l’attuale attaccante del Brescia - e quando mi hanno detto che c’era il Milan, di cui sono simpatizzante, non ci ho più visto”. I rossoneri sono infatti sempre stati nel cuore di Balo, così come l’Inter che lo ha lanciato ai massimi livelli: “La Juve era una bella scelta, mi sarebbe andata anche bene, visto che poi ha vinto quasi tutto per anni. Non è che non ci abbia pensato, ma alla fine ho scelto col cuore”. E purtroppo la carriera di SuperMario non è andata come si pensava, pur essendo stata di ottimo livello. 

Mario Balotelli, vittima di sexy ricatto: indagata per tentata estorsione una 19enne. Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it. La Procura di Vicenza ha chiuso le indagini su una 19enne che, secondo le accuse, ha tentato di ricattare Mario Balotelli, con il quale avrebbe avuto una relazione quando era minorenne. «O mi dai 100mila euro o ti denuncio per violenza sessuale», sarebbe questo il tentativo di estorsione compiuto da A.M, una ragazza che risiede nel Bassanese. Lo riporta «Il Giornale di Vicenza». La giovane allora aveva 17 anni, ma all'attaccante avrebbe assicurato di essere maggiorenne. I due si erano incontrati a Nizza, dove all’epoca giocava Balotelli, nell’estate del 2017. Si erano scambiati i numeri di telefono e Mario le avrebbe chiesto quanti anni aveva. Secondo la ricostruzione, la ragazza avrebbe riferito di essere maggiorenne e per convincerlo gli avrebbe girato la foto della carta d’identità di una maggiorenne, appartenente però alla cugina. Balotelli aveva quindi deciso di incontrarla. A ottobre, secondo quanto ricostruito dalla Procura, la giovane avrebbe raccontato all'avvocato Roberto Imparato di Asolo — anche lui indagato per tentata estorsione —, i suoi rapporti con Balotelli e poi, su consiglio del legale, avrebbe contattato il calciatore chiedendogli 100mila euro, altrimenti lo avrebbe denunciato per violenza sessuale. Balotelli si è però rifiutato di pagare. L’avvocato della ragazza ha poi contattato il calciatore facendo riferimento a una telefonata registrata tra Mario e la ragazza e prospettando l’ipotesi che la vicenda sarebbe potuta finire sui giornali. Infine avrebbe anche contatto Alfonso Signorini, il direttore del settimanale «Chi» per tentare di vendere la notizia. Signorini ha poi raccontato ai Carabinieri di aver declinato l’offerta sospettando che ci fosse qualcosa di poco chiaro.Nel frattempo Balotelli aveva sporto denuncia alla procura di Vicenza. Dopo due anni, adesso è arrivato l’avviso di chiusura delle indagini.

Il ricatto a Balotelli e la denuncia incrociata della vittima. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Mara Rodella. L’affaire Balotelli si arricchisce di una seconda puntata. Una ulteriore denuncia oltre a quella che vede super Mario presunta parte lesa per aver subito un tentativo di estorsione — 100 mila euro — da parte di una ragazza della in provincia di Bassano del Grappa e che, insieme a quello che all’epoca era il suo legale (per entrambi la Procura di Vicenza ha chiuso le indagini) avrebbe ricattato il calciatore, da minorenne tra il 2017 e il 2018: «Paga o ti denuncio». Per violenza sessuale. Quella denuncia è stata depositata in Procura a Brescia due anni fa. Il fascicolo c’era, ma allo stato non è dato di sapere l’epilogo: sembra però che la magistratura bresciana si fosse messa in contatto con i colleghi vicentini, proprio per «valutare» il quadro nel quale le accuse sarebbero maturate. L’avvocato Elisa Romeo, che assiste la ragazza, oggi maggiorenne, sul punto precisa: «Nel gennaio 2018 la giovane, prima di essere stata a sua volta denunciata per questa vicenda — sostiene — assistita da un altro legale (che con lei è finito nei guai, ndr) ha sporto querela nei confronti di Balotelli a seguito di un rapporto iniziato in maniera consensuale ma evolutosi in atti sessuali non voluti dalla ragazza e quindi in una violenza sessuale». Questa la ricostruzione della presunta parte offesa, per la quale il procedimento risulta ancora pendente. No comment dai legali di Balo, che annunciano: «Faremo le dovute verifiche nelle sedi opportune». E se l’avvocato della giovane respinge «con forza e indignazione le accuse, essendosi la stessa limitata a dare mandato a un legale per tutelare i suoi diritti, estranea rispetto a qualsivoglia condotta estorsiva», lui, l’avvocato Roberto Imparato (difeso dal collega Ernesto De Toni), che con lei è indagato, rivendica di aver sempre «esercitato la professione con rigore e onestà» e aver difeso «una minorenne che con la madre mi ha documentato di aver subito violenza». Sporgendo querela. «Poi ho appreso che colui che era stato denunciato aveva a sua volta sporto denuncia per estorsione verso di noi e ho già fornito al pm la più ampia collaborazione».

Balotelli e l’accusa di violenza. La minorenne al telefono: «Ti ho detto 3 volte di smetterla». Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it da Antonio Prisco. Il 15 gennaio 2018, quando l’allora 17enne vicentina si presenta ai carabinieri di Asolo (Treviso) per denunciare il calciatore Mario Balotelli di violenza sessuale, fornisce anche la registrazione di una telefonata che, spiega, era stata fatta nell’autunno precedente, appena tornata da Nizza. Ora quel file audio è agli atti dell’inchiesta. Si sente la ragazza ripercorrere l’incontro di quella sera, i baci e i rapporti sessuali che i due hanno consumato nelle pertinenze dell’High Club, un locale della cittadina balneare francese. Circostanza mai negata da Balotelli che però assicura di non averla costretta a fare nulla contro la sua volontà e di aver sempre creduto che fosse maggiorenne. Il passaggio più delicato della telefonata, è quando la vicentina racconta: «Ti dicevo di smetterla, di smetterla, di smetterla». Una voce maschile, davvero molto simile a quella di Balotelli, risponde: «Tu mi hai detto “Mi fa male”. All’inizio ho detto: “Va buò, gli farà male...”. La seconda volta gli fa male e ho detto: “Può resistere”. E la terza volta ho visto che ti faceva male e ho smesso». Balotelli, da parte sua, ha sempre negato ogni costrizione fisica. Ed è quanto lo si sente ribadire in diversi momenti della lunga telefonata: “Non ho mai costretto nessuna”, “Quando ti ho vista che faceva male ho subito smesso”. Ma perché la ragazza decide di registrare quella telefonata? Secondo gli investigatori di Vicenza farebbe parte del piano architettato con la complicità dell’avvocato trevigiano Imparato, per il quale la procura chiede il processo con l’accusa di estorsione, visto che avrebbe chiesto centomila euro per convincere la ragazza a non sporgere la denuncia evitando anche di «spifferare» ai giornali scandalistici la notizia dell’inchiesta. Lo stesso Balotelli, nel suo esposto presentato a dicembre 2017, fa riferimento a «una strana telefonata: non mi aveva mai parlato in quel modo e avevo la sensazione fosse in presenza di altre persone. Mi diceva di non essere maggiorenne, come invece mi aveva sempre detto, ma di avere 16 anni. Poi diceva che aveva subito violenza... Ero esterrefatto, non capivo. Le rispondevo che non era vero ma pensavo volesse solo attrarre la mia attenzione». Una seconda conversazione è stata registrata dallo stesso Balotelli, che l’ha consegnata alla procura.

Andrea Priante per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2020. Telefonate registrate, intercettazioni, fotografie. E, soprattutto, le accuse incrociate dei protagonisti. Sono i documenti agli atti delle due inchieste che, da prospettive opposte, scavano sui rapporti tra il campione Mario Balotelli e la giovane vicentina che lo accusa di stupro. La Procura di Brescia indaga sul calciatore per violenza sessuale. I magistrati vicentini, invece, ora chiedono di processare per estorsione l' avvocato di lei, Roberto Imparato: pare abbia chiesto 100 mila euro al calciatore per non sporgere denuncia ed evitare di spifferare tutto ai giornali. Un ricatto portato avanti in combutta con la ragazza, che oggi è sotto indagine da parte della Procura per i minori di Venezia. Imparato, invece, la mette in questi termini: «Fu una normale richiesta di transazione, come spesso avviene in questi casi per evitare alle vittime di violenza di dover affrontare anche il doloroso peso di un processo. Un legale di Balotelli ci offrì 30 mila euro: rifiutammo». Il 15 gennaio del 2018 la ragazza fa mettere a verbale di aver trascorso le vacanze a Nizza, quando aveva 16 anni, ospite di un' amica. L' 11 luglio del 2017, incrocia l' auto sulla quale viaggia SuperMario, che all' epoca giocava proprio nella cittadina francese. «La sera l' ho contattato su Instagram... Ci siamo scambiati dei messaggi e poi mi ha chiesto di uscire». Il primo appuntamento «all'interno di una spiaggia privata». Poi un secondo incontro e, di lì a poco, «ci siamo scambiati il primo bacio». Balotelli il 22 dicembre 2017 presenta un esposto per tentata estorsione. Ricorda di aver chiesto l' età alla ragazza: «Mi rispose di avere 18 anni e fece vedere una carta di identità ». Racconta che «insisteva per incontrarmi» e che «il 26 luglio sono andato alla discoteca High di Nizza». È lì che sarebbe avvenuta la violenza. «Lui mi ha invitata nel locale Choko, per festeggiare il gol che aveva segnato nella partita Nizza-Ajax - è il racconto di lei -. Gli dissi che sarei andata all' High Club e mi ha raggiunta facendomi una sorpresa: non mi sembrava possibile che un personaggio così famoso mi dedicasse tante attenzioni... Mi faceva molti complimenti, mi faceva sentire importante... Dopo che ci siamo scambiati qualche battuta, mi ha invitata nel privé e ha cominciato a baciarmi».

Le avrebbe proposto di seguirlo in un luogo appartato.

«Pensavo non mi sarebbe accaduto nulla di male. Invece non è andata così». Sostiene che l' avrebbe spogliata e spinta ad avere un rapporto. «Io mi sono rifiutata». Poi racconta di una forzatura: «Gli ho chiesto di smetterla ma lui ha continuato. Solo dopo che gliel' ho ripetuto più volte, ha smesso».

Sostiene che «Balotelli era ubriaco e mi scherniva... Mi sono sentita ferita per quello che era successo, mi veniva da piangere». Sarebbe seguito un secondo rapporto, stavolta nella spiaggia, prima che rientrassero insieme in hotel.

Lui la racconta diversamente, parla di ammiccamenti e provocazioni. Nell' area riservata la ragazza si sarebbe spogliata: «Mi sembrava disinibita...». E poi, anche sul lungomare, «continuavamo a baciarci e abbiamo iniziato ad avere un altro rapporto... poi mi sono fermato». Nessuna costrizione, insomma. Lo ribadisce anche l' avvocato del centravanti del Brescia, Enrico Baccaro: «Balotelli non ha mai usato violenza nei confronti di quella ragazza».

Dopo l' estate, la «mediazione» dell' avvocato Imparato.

«Gli ho intimato di non ricattarmi con la minaccia di rendere pubblica la vicenda...- si legge nell' esposto del calciatore - mi ha fatto sapere di essere disponibile a un incontro solo se mi presentavo con i soldi. E per questo ho deciso di denunciare».

Andrea Priante per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2020. Dopo il presunto abuso, la paura di una gravidanza indesiderata. Si fa sempre più ingarbugliata la vicenda della ragazza vicentina che ha denunciato Mario Balotelli per averla violentata nell' estate del 2017, quando aveva 16 anni, e del calciatore che l' accusa di essersi inventata tutto solo per spillargli 100mila euro con la minaccia - attraverso l' avvocato trevigiano Roberto Imparato (che ora rischia il processo per estorsione) - di spifferare tutto ai giornali scandalistici. La Procura di Brescia indaga per violenza sessuale. Il racconto fornito ai carabinieri il 15 gennaio 2018 è dettagliato: la notte del 26 luglio 2017 Balotelli l' avrebbe costretta a due rapporti, nel privé del High Club di Nizza (all' epoca giocava nel team francese) e nella spiaggia privata del locale. «Gli ho chiesto di smetterla ma lui ha continuato. Solo dopo che l' ho ripetuto più volte ha smesso», assicura lei. Nella denuncia compare anche un episodio finora mai emerso: «Il giorno successivo - è il racconto della ragazza - quando ero ancora sotto choc, sono stata contattata da lui, che mi ha chiesto di andare al più presto in una farmacia per assumere una pillola contraccettiva. L' ho assecondato... ero molto scossa e spaventata». La ragazza precisa: «Sono minorenne, il medicinale è stato acquistato da una mia amica che aveva già 18 anni». Quindi, dopo aver assunto il farmaco, la giovane rivela: «Ho spedito la foto della pillola che avevo ingerito» perché così Balotelli «mi aveva chiesto di fare». Agli atti dell' altra indagine - quella per estorsione - aperta dalla Procura di Vicenza, ci sono le registrazioni di una decina di telefonate fornite in buona parte dagli indagati: l' avvocato Imparato e la giovane vicentina. Alcune di queste svelano le chiamate con un uomo la cui voce sembra effettivamente quella di Balotelli. In uno degli audio la ragazza si lamenta: «Non posso dire niente a mia mamma, niente a mia zia... io sto male». Il calciatore appare comprensivo ma fermo nella convinzione che quelli fossero rapporti consensuali. «Se con quell' atto lì ti ho fatto male, non era per farti male. Magari non me ne sono reso conto, quindi se è così ti chiedo scusa ma di sicuro non ti ho obbligata». A più riprese, si sente quella che sembra essere la voce di Balotelli ribattere: «Non è vero», «Non ti ho picchiata», «Dopo tutto questo tempo, vieni a dirmi queste cose?». Nelle registrazioni, è però la presunta vittima a incalzarlo: «Che poi ti dicevo sempre di smetterla, di smetterla, di smetterla e non ce la facevo...». E lui replica: «Allora, quando ti ho vista che ti faceva male ho smesso». Nell' inchiesta entra anche il dialogo tra Imparato e un legale di Balotelli, che sembra confermare quel che l' indagato aveva detto al Corriere : inizialmente il calciatore pareva disposto a pagare il silenzio della ragazza. Nella trascrizione si attribuisce all' avvocato del calciatore questa frase: «Lui mi dice... mi ha parlato di 30mila euro che è disposto a dare in unica tranche , però vuole che ci sia l' impegno che anche la mamma (della ragazza, ndr )... di non infastidirlo più». Insomma, l' entourage del calciatore avrebbe sondato la possibilità di un accordo purché ci fosse la garanzia - prosegue la registrazione - che, pagando, la cosa «viene chiusa... e non se ne parla più». Nessun commento, «in attesa di ascoltare i nastri», viene rilasciato da parte dei legali.

Andrea Priante per il ''Corriere della Sera'' il 21 febbraio 2020. Soltanto un trappolone per spillare soldi e - magari - comprarsi un' auto di lusso. Anzi due: «Una Ferrari gialla e una blu». C'è anche questo, agli atti della Procura di Vicenza, che chiede di processare l' avvocato Roberto Imparato per il ricatto a Mario Balotelli. Voleva che il calciatore versasse 100 mila euro per non spifferare ai giornali che una vicentina lo accusa di averla violentata quando aveva 16 anni. La prova regina è la registrazione della telefonata avvenuta il 15 settembre 2017 tra SuperMario e la presunta vittima: «Io piangevo, secondo te perché piangevo? (...) Che poi ti dicevo sempre di smetterla, di smetterla, di smetterla e non ce la facevo...». Parla dei rapporti consumati nella discoteca High Club di Nizza, iniziati in modo consensuale ma proseguiti anche se lei chiedeva di interrompere. Lui, nell' audio, sembra ammettere di aver sentito quei lamenti «e la terza volta ho visto che ti faceva male e ho smesso». Ci sono tre inchieste: quella di Vicenza (per l' estorsione di Imparato ai danni di Balotelli), della Procura per i minori di Venezia (sempre per il ricatto, ma stavolta sotto accusa c' è la ragazza) e quella di Brescia, che invece indaga il calciatore per violenza sessuale. Gli uffici hanno a disposizione gli stessi atti, raccolti dai carabinieri della Procura vicentina. Ci sono intercettazioni e le chat trovate nei cellulari. Messaggi che gettano un' ombra sull' intera vicenda. La polizia giudiziaria scova una conversazione tra Imparato e una collega. È il 15 settembre, la informa che la cliente ha concluso la telefonata. «Appena finito: Imparato 1 - Balotelli 0. Registrato per venti minuti. Voglio una Ferrari gialla... e una blu». La collega gli chiede cosa farà con la registrazione. Lui gongola: «Confessione piena... Devo pensarci, è delicatissimo». E si lascia sfuggire: «Abbiamo fatto cento prove. La ragazza è un' attrice nata». Quindi l' intera telefonata, la voce rotta dal pianto, le pause... sarebbe una recita. «Alla fine - chiosa - Balotelli fa pena». Sentito ieri dal Corriere , Imparato (difeso dall' avvocato Ernesto De Toni) si giustifica: «La Ferrari? Una battuta. Io e la cliente eravamo disposti a chiudere transando tra i 60 e i 100 mila euro. Balotelli ne offrì 30 mila. Sono accordi che si fanno per evitare alle vittime il peso di un processo. I soldi spettavano a lei e il mio onorario non bastava a comprare il cerchione di una Ferrari». Perché definirla un' attrice? «Avevamo bisogno di una confessione e solo lei poteva ottenerla. Intendevo dire che aveva gestito bene le emozioni, spingendolo a parlare di quella notte». C' è un' altra chat: la presunta vittima racconta a un' amica come si dovrà svolgere la telefonata: «L' avvocato mi ha detto che devo dirgli che ho un trauma, che non dormo e non vado a scuola. Continuo a pensarci e non ho nessuno con cui confidarmi (...). Devo dire 'ste cose a Mario. E gli devo dire che mi chieda scusa. Così lo becco in pieno». Poi spiega che una cugina dovrà tornare al High Club e trovare un buttafuori disposto a testimoniare «che urlavo e gli dicevo basta basta». È convinta di spuntarla: «Mi basta questo. Perché lui mi ha stuprata: io ci sono stata sì, ma non per la violenza». Quest' ultima frase riassume il senso di diverse chat: non è chiaro se Balotelli l' abbia davvero forzata ma pare che lì per lì lei non ebbe la consapevolezza di essere stata vittima di abusi. Mesi dopo, è scritto agli atti, «l' avvocato mi ha spiegato che se lui non si ferma subito allora è violenza».

 Ricatto a Balotelli, l'avvocato: "Coi suoi soldi compro 2 Ferrari". Agli atti delle procure che indagano sulla presunta violenza sessuale e sul ricatto, ci sarebbe anche la telefonata tra il legale della ragazza e una collega. "Mi compro due Ferrari", avrebbe detto, parlando dei soldi chiesti a Balotelli. Francesca Bernasconi, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. "Voglio una Ferrari gialla e una blu". A questo sarebbero serviti i soldi, che avrebbero dovuto arrivare dal ricatto ai danni di Mario Balotelli. A rivelarlo è il Corriere della Sera, che riporta la telefonata tra l'avvocato Roberto Imparato e una collega. La conversazione sarebbe agli atti della procura di Vicenza, che sta indagando sulla vicenda, articolata in tre inchieste. La procura di Vicenza, infatti, indaga sulla presunta estorsione dell'avvocato ai danni di Balotelli, quella di Brescia indaga il calciatore per presunta violenza sessuale ai danni di una ragazza, 16enne all'epoca dei fatti, e la procura dei minori di Vicenza indaga la 16enne sempre per presunto ricatto. I fatti sotto inchiesta risalgono all'estate del 2017 e si sarebbero svolti in un locale di Nizza. Tra il calciatore e la ragazza ci sarebbero stati dei rapporti intimi, ma la 16enne, qualche tempo dopo, aveva denunciato Balotelli, accusandolo di violenza sessuale. A sua volta, il calciatore aveva denunciato il tentativo di ricatto da parte della ragazza e del suo avvocato, che gli avrebbero chiesto 100mila euro per non far venir fuori la storia della presunta violenza. Agli atti, ci sarebbe la telefonata della ragazza con il calciatore, datata 15 settembre 2017: "Ti dicevo di smetterla, di smetterla, di smetterla", avrebbe detto l'allora 16enne a Balotelli, che secondo la versione della ragazza avrebbe proseguito nonostante le sue richieste di interrompere il rapporto. Lui, nell'audio, sembra ammettere di aver sentito quelle richieste e "la terza volta ho visto che ti faceva male e ho smesso". Ma ora, gli inquirenti sembrano aver trovato un'altra registrazione, che riporta la telefonata tra l'avvocato della ragazza e una collega. Anche questa telefonata risalirebbe al 15 settembre. "Balotelli registrato per venti minuti- avrebbe detto Imparato, secondo il racconto del Corriere- Voglio una Ferrari gialla e una blu". E avrebbe aggiunto: "Abbiamo fatto cento prove. La ragazza è un'attrice nata". Il quotidiano, ieri, ha sentito il legale della ragazza che avrebbe spiegato: "La Ferrari? Una battuta. Io e la cliente eravamo disposti a chiudere transando tra i 60 e i 100 mila euro. Balotelli ne offrì 30 mila. Sono accordi che si fanno per evitare alle vittime il peso di un processo. I soldi spettavano a lei e il mio onorario non bastava a comprare il cerchione di una Ferrari". E sulla definizione di attrice, rivolta alla ragazza, avrebbe aggiunto: "Avevamo bisogno di una confessione e solo lei poteva ottenerla. Intendevo dire che aveva gestito bene le emozioni, spingendolo a parlare di quella notte".

Balotelli, la minorenne all'amica: "Se mi chiede scusa lo becco in pieno". Accusa di stupro, quei 30mila euro. Libero Quotidiano il 21 Febbraio 2020. Un cono d'ombra si allunga sulla vicenda per cui Mario Balotelli è accusato di violenza sessuale da una ragazza minorenne di Vicenza. Secondo la versione della ragazza, Balotelli avrebbe abusato di lei, 16enne, nella discoteca High di Nizza, città dove giocava il centravanti nel 2017. Agli atti della Procura di Vicenza, che indaga sul tentativo di estorsione dell'avvocato della ragazza, sono arrivate delle intercettazioni telefoniche. Spunta l'ipotesi che il legale Roberto Imparato e la ragazzina avrebbero architettato un piano per incastrare il calciatore, con l'obiettivo di arricchirsi in cambio del silenzio sulla vicenda. L'avvocato ha ammesso di aver chiesto 100.000 euro a Balotelli per tacere sulla vicenda, ma il legale del calciatore gliene avrebbe proposti solo 30.000. Offerta rifiutata da Imparato, che in seguito ha sporto denuncia. In una telefonata con una collega intercettata, il legale avrebbe affermato: "Abbiamo fatto cento prove. La ragazza è un'attrice nata. Adesso mi compro due Ferrari: una blu e una gialla". Questi ha subito chiarito il contenuto della telefonata al Corriere della Sera: "Avevamo bisogno di una confessione e solo lei poteva ottenerla. Intendevo dire che aveva gestito bene le emozioni, spingendolo a parlare di quella notte". Ma la versione non convince, e si fa strada l'idea che tutto fosse premeditato per estorcere denaro a Balotelli. Le chat della ragazza di Vicenza sono emblematiche: "L'avvocato mi ha detto che devo dirgli che ho un trauma, che non dormo e non vado a scuola. Continuo a pensarci e non ho nessuno con cui confidarmi […]. Devo dire ‘ste cose a Mario. E gli devo dire che mi chieda scusa. Così lo becco in pieno", avrebbe confidato ad un'amica. La Procura dei minori di Vicenza sta indagando sulla ragazza per tentata estorsione, così come quella di Brescia su Balotelli per violenza sessuale. Chi avrà ragione?

Balotelli e le accuse della 19enne. I pm: «Non fu stupro, archiviare». Pubblicato mercoledì, 25 marzo 2020 su Corriere.it da Mara Rodella. Ci sono le telefonate registrate, decine di chat, foto e intercettazioni. Le denunce incrociate dei protagonisti di questa vicenda e tre inchieste aperte in altrettante Procure. È tutto agli atti, raccolti dai carabinieri vicentini e trasmessi alla magistratura competente, che cercano di cristallizzare la relazione tra Mario Balotelli e la ragazza della provincia di Vicenza che lo accusa di averla stuprata quando aveva solo 16 anni. Ma per la Procura di Brescia, che indaga per competenza territoriale, non ci sono elementi tali da procedere nei confronti del campione per un crimine così pesante. Chi lo accusa, insomma, non sarebbe credibile. Il pm Barbara Benzi, titolare del fascicolo, ha firmato una richiesta di archiviazione del procedimento per violenza sessuale. I tempi per la trasmissione al gip e la notifica alle parti - la presunta parte offesa potrà dal canto suo presentare opposizione - vista la sospensione dell’attività giudiziaria dettata dall’emergenza coronavirus, subiranno inevitabili dilatazioni. Una decisione, quella della Procura bresciana, che fa il paio con gli sviluppi dell’inchiesta aperta, invece, dai colleghi veneti, i quali hanno già chiesto il rinvio a giudizio per estorsione nei confronti dell’avvocato della ragazza, Roberto Imparato: avrebbe chiesto centomila euro al calciatore per non denunciarlo e non rivelare lo «scandalo» ai giornali. Una ritorsione perpetrata in accordo con la sua assistita, a sua volta indagata dalla Procura minorile di Vicenza. Il legale, dal canto suo, si è sempre difeso sostenendo che quella richiesta di denaro altro non fosse che la proposta di una normale transazione tra le parti, come molto spesso succede in casi simili, per evitare la sofferenza di un processo alle presunte vittime. Balotelli (difeso da Alessandro Moscatelli e Francesca Coppi) di euro ne offrì trentamila: rifiutati. E che si sarebbe trattato di una sorta di trappola lo dimostrerebbero anche alcune dichiarazioni dello stesso avvocato, intercettate e finite nel faldone dell’inchiesta: «Voglio una Ferrari gialla e una blu. Abbiamo fatto cento prove, la ragazza è un’attrice nata», si lascia sfuggire al telefono con una collega il 15 settembre 2017. Poco prima la sua assistita aveva riattaccato proprio con Balotelli: «Io piangevo, secondo te perché piangevo? Che poi ti dicevo sempre di smetterla, di smetterla, di smetterla e non ce la facevo...». Il riferimento va ai rapporti consumati nell’estate di quell’anno nella discoteca High Club di Nizza, che stando alla versione della giovane sarebbero iniziati in modo consensuale salvo poi continuare nonostante lei chiedesse a Super Mario di smettere. «La terza volta ho capito che ti faceva male e infatti ho smesso» le disse lui, al telefono. «Quella della Ferrari era solo una battuta» si è giustificato l’avvocato Imparato, precisando che i commenti sull’atteggiamento della ragazza si riferivano al fatto che avesse gestito bene le emozioni al fine di ottenere una confessione dal calciatore. Balotelli li ha denunciati nel dicembre 2017 alla Procura di Vicenza. Un esposto di 7 pagine per dichiararsi vittima di un ricatto. «Lei era consenziente, ha fatto di tutto per sedurmi, mi sembrava disinibita» la sua verità. Che non contempla alcuna violenza nei confronti di quella ragazza «che pensavo maggiorenne» e per la quale invece è stato denunciato nel gennaio 2018. Agli inquirenti Balo riferì poi di quella «strana telefonata» di lei in settembre: «Non mi aveva mai parlato così. Mi diceva di avere 16 anni e di aver subito violenza. Ero esterrefatto». Seguirono le richieste di denaro per mettere tutto a tacere: «Ho detto all’avvocato di essere disponibile a incontrarla». «Solo se ti presenti con i soldi», gli avrebbe risposto. «Quindi mi sono deciso a denunciare». Per i pm di Brescia ha ragione lui.

Da gazzetta.it il 18 aprile 2020. Il nulla di queste settimane, dal punto di vista sportivo, viene interrotto di tanto in tanto da qualche diretta social in cui i tifosi possono interagire coi loro beniamini. Non fa eccezione Mario Balotelli, che ieri, insieme a Thierry Henry ha parlato bene della sua esperienza in Premier. “Ho solo bei ricordi dei periodi trascorsi in Inghilterra, anche perché la Premier è il più bel campionato del mondo. I migliori allenatori che ho avuto? Mancini e Favre”. La “giornata social” di Balotelli non è stata tutta rose e fiori, come ricorda Marco Materazzi in una diretta con lo chef Davide Oldani. “Io voglio bene a Mario, ma una volta nella famosa partita della maglia gettata a terra contro il Barcellona, se l’era proprio meritata. Oggi siamo tornati a essere più che amici, praticamente fratelli. In quella circostanza fece una cosa che non doveva fare, giocare male; il discorso della maglietta passò in secondo piano. Prima della partita, sul pullman ci disse che sarebbe entrato e avrebbe giocato male. A quel punto gliele promisi. Quando entrò, fece un’azione tirando da fuori anziché andare in contropiede: c’era Milito in panchina che lo voleva ammazzare. Noi credevamo in lui, fece tanti gol con i quali contribuì alla vittoria finale. Poi devo dire una cosa, un giorno mi innamorai di suo padre che dopo la partita col Rubin gli disse ‘non mi sei piaciuto, devi giocare più coi compagni. E basta andare in giro con le ragazze, vai a fare un giro in bici al parco’. Lì diventò il mio idolo incontrastato. Tornando a Mario, dopo il Barça dissi a Mourinho di schierarmi nelle partitelle contro Balotelli. Così in pochi secondi se ne sarebbe andato negli spogliatoi...”.

Chiellini confessa: «Champions, il vero rimpianto è stata la sconfitta con l’Ajax». Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Ci sono sconfitte che proprio non si possono dimenticare. Una regola straziante che vale anche per Giorgio Chiellini. Il difensore della Juventus l’ha rivelata a quello che è ormai diventato un appuntamento fisso per gli appassionati delle dirette Instagram di Bobo Vieri. Si tratta dell’eliminazione dalla Champions della scorsa stagione contro l’Ajax. Forse un po’ a sorpresa per i tifosi bianconeri, è questa quella difficile da mandare giù per Chiellini, persino più brucianti delle due sconfitte in finale nel 2015 contro il Barcellona a Berlino e nel 2017 contro il Real Madrid a Cardiff. «Sì, mio rammarico è essere uscito contro l’Ajax, nonostante avesse dei grandi talenti come de Ligt, de Jong, Tadic. Ma se vuoi vincere la Champions, l’Ajax lo devi battere», ha detto Chiellini. In effetti, quella era stata una sconfitta un po’ inattesa. Anche perché poi in semifinale i Lancieri erano stati eliminati dal Tottenham, a sua volta finito ko nella finalissima tutta inglese contro il Liverpool di Jurgen Klopp. Inevitabile, poi parlare anche di Cristiano Ronaldo, sbarcato a Torino nell’estate 2018 proprio per riportare il titolo europeo nella bacheca juventina, da dove manca ormai dal lontano 1996. «Lui gioca sempre. Magari in campo sonnecchia, però c’è sempre. Alla vigilia delle partite di Champions cambia, lo vedi diverso rispetto al campionato. Sente arrivare la manifestazione diversa, è come se alzasse i giri del motore già un giorno prima». Infine, su Balotelli. Nell’autobiografia “Io, Giorgio”, il difensore lo aveva definito «una persona negativa», per poi fare pace grazie all’intervento de Le Iene: «Mario è stata una piacevole sorpresa, è stato molto carino. In passato sono entrato anch’io in altri libri, non mi sono mai offeso quando qualcuno mi ha tirato in ballo. Ci sta».

Da gazzetta.it il 16 maggio 2020. "È il miglior difensore al mondo". Giorgio Chiellini, in un nuovo estratto della sua autobiografia, incorona Sergio Ramos come il suo collega preferito. E il capitano della Juventus lo spiega con un episodio della finale di Champions League del 2018 tra Real Madrid e Liverpool: "Sa come essere decisivo nelle partite importanti, con interventi al di fuori di ogni logica e provocando infortuni con astuzia diabolica. Quello su Salah fu un colpo da maestro. Lui, il maestro Sergio, ha sempre detto che non fosse sua intenzione provocare un infortunio, ma quando cadi in quella maniera e non lasci la presa, sai che nove volte su dieci rischi di rompere il braccio al tuo avversario". Le argomentazioni di Chiellini su Sergio Ramos sono solide: "Possono dire sia impulsivo, che abbia poco senso tattico, che sia colpevole di 8-10 gol subiti ogni stagione. Ma ha due caratteristiche che nessun altro ha come lui. La prima è sapersi esaltare nelle partite importanti ed essere sempre decisivo anche negli interventi fuori da ogni logica, compresi gli infortuni che provoca, con astuzia quasi diabolica". E ancora: "La seconda è la forza che trasmette solo con la sua presenza. Senza Ramos, fuoriclasse come Varane, Carvajal o Marcelo sembrano ragazzini della Primavera, regrediscono di colpo e il Real Madrid diventa una squadra indifesa". Chiellini e Sergio Ramos, una coppia centrale da Hall of Fame.

Da sport.virgilio.it l'11 maggio 2020. Il capitano della Juventus Giorgio Chiellini è finito nella bufera dopo le anticipazioni su alcuni contenuti della sua autobiografia, in cui critica duramente Mario Balotelli e Felipe Melo e confessa di odiare l'Inter. Dopo le repliche dei diretti interessati, anche l'ex juventino Marco Tardelli ha criticato su Facebook il centrale bianconero: "Sono veramente dispiaciuto delle dichiarazioni di Giorgio Chiellini, capitano della Nazionale, della Juventus e uomo di spicco nel direttivo Aic.Parole dure nei confronti di compagni-colleghi che dovrebbero considerarlo un punto di riferimento. L’odio dichiarato verso un altro club crea odio. Da Capitani come Zoff e Scirea ho imparato il rispetto per l’avversario anche nella lotta più dura", è l'aspra critica del campione del mondo 1982-. Deluso da Chiellini anche l'ex patron dell'Inter Massimo Moratti a "La domenica sportiva": "Mi è dispiaciuto perché Chiellini mi sta simpatico, è un ragazzo intelligente, educato, non mi aspettavo questo sfogo. Mi è dispiaciuto, niente di più. E mi dispiace per Balotelli, che è un bravo ragazzo". Chiellini ha ricevuto invece sostegno da parte di Lapo Elkann: "Chiellini sei il nostro capitano. Noi ti amiamo e stimiamo, siamo orgogliosi di te. Forza Chiello". Anche Antonio Cassano si è schierato in favore dello juventino: "Non conosco Felipe Melo, conosco Mario, lui è un bambino, è un bravo ragazzo, non so a cosa si riferiva Chiellini. Ho un enorme rispetto per Giorgio, è un ragazzo intelligente, capisce di calcio, in campo era da ammazzare perché ti menava, ma fuori dal campo è una grande persona, è uno dei più intelligenti e bravi che ho conosciuto in questo mondo e se ha detto quelle cose avrà le sue ragioni. Con Mario sono stato pochi anni in Nazionale, con Chiellini una decina, è bravo, intelligente ed educato".

Chiellini punge anche Bonucci «Scelta non lucida andare al Milan». Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Prima Balotelli e Felipe Melo, poi Vidal, adesso Bonucci. Nella sua autobiografia “Io, Giorgio”, il difensore della Juventus, Chiellini, ne ha proprio per tutti. Anche per il suo compagno di reparto, «colpevole» di aver detto addio ai bianconeri nell’estate 2017 per andare al Milan (quello di Yonghong Li e del duo Fassone-Mirabelli), per poi fare ritorno a Torino dopo soltanto una stagione. «Il suo anno al Milan è stata una scelta certamente sbagliata perché fatta non in pace con se stesso, dunque non in modo lucido. Leo era scosso per mille motivi. Mi è spiaciuto perché tutto accade nelle settimane in cui non ci vedemmo: sono sicuro che se fosse successo in un altro momento, lo avrei fatto ragionare a restare. Come Conte in quel luglio 2014. Se ne vanno sempre quando io non ci sono. Con Leo parlai che era già tutto stabilito, una cosa senza logica dall’inizio alla fine. Avrei potuto comprendere se fosse andato al Real Madrid, ma in quel Milan? Per fortuna, il destino ha voluto che tutto tornasse in ordine». Una decisione arrivata in un momento particolare: «Bonucci nella vita è molto diverso dal burbero che vediamo in campo, non dico riflessivo ma certo non così focoso. Poi, come a tutti, i cinque minuti ogni tanto gli scattano. La Juventus è stata brava a incanalare l’esuberanza di Bonucci nel modo giusto: troppa energia senza controllo può essere dannosa, ma usata bene diventa devastante», ha proseguito Chiellini. Che un anno dopo ha riaccolto l’ex rossonero alla Juventus e riformato il vecchio muro difensivo bianconero.

Chiellini parla del morso di Suarez «Alla fine lo ammiro, siamo simili». Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da Corriere.it. Continuano ad emergere aspetti interessanti dalla autobiografia di Chiellini («Io Giorgio»). C’è anche un passaggio dedicato a Luis Suarez, all’episodio del morso dell’attaccante uruguaiano nella sfida contro l’Italia ai Mondiali in Brasile del 2014. Quella partita ci costò l’eliminazione già nella fase a gironi, il capitano bianconero però non ha mai serbato rancore nei confronti dell’avversario, nonostante il suo folle gesto. «Non è successo niente di strano quel giorno. Io avevo marcato Cavani per la maggior parte della partita, un altro attaccante difficile da gestire poi, improvvisamente, ho notato che Suarez mi aveva morso la spalla. È successo, e questo è il suo modo di porsi nei confronti diretti, e, se posso dirlo, è anche il mio: lui e io siamo simili e mi piace affrontare così le sfide. Ammiro la sua malizia, se la perdesse diventerebbe un attaccante normale». Chiellini ha poi parlato del chiarimento avvenuto nei giorni successivi con il centravanti del Barcellona, quando la polemica era furiosa: «Ci siamo sentiti al telefono e non c’era neanche bisogno di chiedermi scusa. Pure io in campo sono un figlio di p... e ne vado fiero. le malizie fanno parte del calcio, neanche le chiamo scorrettezze. Bisogna essere furbi e io Suarez lo ammiravo da sempre».Nella sua opera Chiellini ha raccontato senza filtri compagni di squadra e avversari, da Felipe Melo («Cercava sempre la rissa») a Mario Balotelli. A Vidal, «che spesso alzava il gomito ma restava un campione assoluto».

Giorgio Chiellini, rivelazioni scottanti su Arturo Vidal: "L'alcol era il suo punto debole, certe volte..." Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Dopo gli affondi su Mario Balotelli e Felipe Melo, arrivano altre rivelazioni dall’autobiografia di Giorgio Chiellini. Stavolta riguardano l’ex compagno Arturo Vidal, che avrebbe avuto dei problemi con l’alcool durante la sua esperienza con la Juventus. “Il calciatore non è un diavolo né un santo, la distinzione da fare piuttosto è un’altra, ovvero tra quelli veri e quelli falsi. Uno come Vidal ogni tanto usciva - racconta Chiellini - e beveva più del dovuto, lo sanno tutti, si può dire che l’alcol era un po’ il suo punto debole. Mica ci mettiamo a discutere il campione, o la persona, per questo. Le debolezze fanno parte della natura umana”. Anche perché non impedivano a Vidal di eccellere in campo: “Il grande Arturo un paio di volte all’anno non si presentava all’allenamento, oppure arrivava che era ancora piuttosto allegro, diciamo così. Ma non ha mai battuto la fiacca, anzi, penso che a volte certi modi di essere diventino una forza”. 

Vidal: "Chiellini? Non è giusto raccontare cose private, ma ci siamo chiariti". Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Domenico Marchese. Il centrocampista cileno torna su quanto raccontato dal difensore della Juve nel suo libro: "Giorgio mi ha chiamato e mi ha spiegato le sue parole. Però ha anche detto che ero un campione". La scorsa settimana sono circolate in rete alcune dichiarazioni di Arturo Vidal, rivelatesi poi totalmente false, in risposta a quelle di Giorgio Chiellini contenute nel libro "Io, Giorgio". Parole dure, troppo per un calciatore e un uomo pur vulcanico come Vidal, ma che con il capitano bianconero ha vissuto pagine indimenticabili della storia bianconera. Nel giorno del suo 33esimo compleanno il centrocampista cileno del Barcellona ha festeggiato su Instagram con i suoi tifosi, tornando sulle parole di Chiellini e sui problemi con l'alcol evidenziati dal capitano della Juventus: "Non mi sembra giusto raccontare cose private, ma ci siamo chiariti, Giorgio mi ha chiamato e mi ha spiegato le sue parole - è stata la reazione di Vidal -. Però ha anche detto che ero un campione". Tornando anche sull'episodio di Miami, durante la tournée americana della Juventus, e sulla serata che aveva preceduto l'ultimo allenamento statunitense: "Non è stata una cosa che non potevo fare, avevo il permesso di uscire. Sono un essere umano come tutti e quando ho sbagliato, ho pagato e mi sono rialzato".

Chiellini al veleno: "Balotelli da prendere a schiaffi. L'Inter? La odio". Giorgio Chiellini ha toccato diversi argomenti nella lunga intervista concessa a La Repubblica dove ha presentato la sua autobiografia: "Balotelli e Felipe Melo irrispettosi". Marco Gentile, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Giorgio Chiellini è una delle colonne della Juventus e della nazionale italiana. Il 35enne toscano a fine febbraio, era appena tornato in campo dopo un grave infortunio al ginocchio ma la pandemia da coronavirus l'ha messo nuovamente ai box, così come tutto il calcio e lo sport italiano e mondiale. Il capitano bianconero in questi mesi di stop ha trovato il tempo di scrivere la sua autobiografia, "Io, Giorgio" e l'ha presentata in una lunga intervista concessa a La Repubblica.

Veleno su Balotelli e Melo. Chiellini ha riservato delle stoccate al vetriolo su Mario Balotelli, suo compagno di nazionale, e sul suo ex compagno di squadra alla Juventus Felipe Melo: "Entrambi mi hanno deluso veramente. Confermo quanto scritto in "Io, Giorgio". Balotelli è una persona negativa, senza rispetto per il gruppo. In Confederations Cup contro il Brasile, nel 2013, non ci diede una mano in niente, roba da prenderlo a schiaffi. Per qualcuno era tra i primi cinque al mondo, io non ho mai pensato neppure che potesse essere tra i primi dieci o venti", il veleno su Supermario. Il difensore della Juventus ha poi trovato il tempo per entrare in tackle pure su Felipe Melo: "Uno anche peggiore era Felipe Melo: il peggio del peggio. Non sopporto gli irrispettosi, quelli che vogliono essere sempre il contrario degli altri. Con lui si rischiava sempre la rissa. Lo dissi anche ai dirigenti: è una mela marcia".

Da corrieredellosport.it il 14 maggio 2020. Dopo il faccia a faccia televisivo tra Chiellini e Balotelli sembra essere tornato il sereno. Non si spengono invece le polemiche tra il capitano della Juve e l'ex centrocampista bianconero Felipe Melo che Chiellini, nel suo libro, ha definito "una mela marcia". Dopo lo sfogo social nel quale Melo ricordava la sfida di Champions League tra Galatasaray e Juve, quando i bianconeri vennero eliminati dal torneo, il centrocampista è tornato sulla vicenda parlando in diretta su Instagram con Sebastian Frey.

Felipe Melo tuona contro Chiellini. "Penso che abbia un problema con me perché quando abbiamo giocato contro il Siena gli ho dato una testata. Dopo non abbiamo più parlato, ora ha scritto questo libro e penso che abbia creato questa polemica per venderlo", rivela Felipe Melo. "Ho già detto quello che devo dire, su quello che è successo alla Juve potrei scrivere mille libri. Non mi ha chiesto scusa, ma non ci sono problemi: ognuno fa quello che vuole, ma poi se ne deve prendere la responsabilità". Secondo Felipe Melo, Chiellini "avrebbe dovuto prendere esempio da Javier Zanetti, un grande, che nel suo libro non ha mai parlato della Juve".

L'odio sportivo per l'Inter. Chiellini all'interno della sua autobiografia ha parlato anche della rivalità calcistica con l'Inter: "Penso che la gente capirà cosa intendo dire con "Odio l'Inter" che non verrò interpretato male. Io odio sportivamente l’Inter come Michael Jordan odia i Pistons, non posso non odiarla, ma il 99,9% delle volte che ho incontrato fuori dal campo persone con cui mi sono scannato in partita, ci siamo fatti due risate". L'ex difensore di Fiorentina e Livorno ha poi spiegato come abbia gradito il messaggio di Javier Zanetti, vice presidente dell'Inter ed ex bandiera nerazzurra, al momento del suo grave infortunio a inizio stagione: "Il messaggio che mi ha fatto più piacere, quando mi sono rotto il ginocchio, è stato quello di Javier Zanetti. L’odio sportivo è quello che ci spinge a superare l’avversario: se gli si dà il giusto significato, è una componente essenziale dello sport”.

Sulla ripresa della Serie A. Chiellini si è detto poi dubbioso sulla ripresa del campionato: "Non ne ho idea. Questa pandemia ci sta insegnando a vivere il presente, ad adattarci a cambiamenti quotidiani, a ragionare su un futuro di due mesi al massimo. Avevamo comunque bisogno di ripartire, non è semplice e l’ho notato in compagni più giovani di me. Se penso a tre mesi senza tifosi mi passa la voglia. Ci vorrà una forza mentale sovrumana".

Emanuela Gamba per ''la Repubblica'' il 9 maggio 2020.

Giorgio Chiellini, quanta voglia ha di rimettersi in pista?

"Devo confessarlo: a casa con le mie tre donne, mia moglie e le due bambine, sono stato benissimo. E quando la Juve mi ha richiamato alla Continassa mi è piombata la tristezza addosso. Però mi è bastato uscire con la macchina allo svincolo di Venaria perché mi si riaccendesse subito qualcosa. È stato bello ricominciare".

Ricomincerà anche il campionato?

"Non ne ho idea. Questa pandemia ci sta insegnando a vivere il presente, ad adattarci a cambiamenti quotidiani, a ragionare su un futuro di due mesi al massimo. Avevamo comunque bisogno di ripartire, non è semplice e l'ho notato in compagni più giovani di me".

La stimola l'idea di affrontare una situazione inedita con gli spalti vuoti, le partite in serie, le incognite della lunga pausa?

"Se penso a tre mesi senza tifosi mi passa la voglia. Ci vorrà una forza mentale sovrumana e difatti mi chiedo: ma perché lo devo fare? Ma anche: e perché no? È il nostro lavoro e dobbiamo adattarci, come anche a tutto il resto".

Martedì esce la sua biografia. Dedicherà il ricavato agli Insuperabili, la "sua" squadra di disabili, di cui dice: è umiliante trattarli da diversi o pensarli moralmente migliori.

"Se gli si mostra pietà si irrigidiscono, invece hanno la forza di scherzare su loro stessi. E sono capaci di farti domande cattivissime, perché non hanno tabù".

È vero che non ci sono tabù neanche nei bar di Livorno?

"Allegri ne è il classico frequentatore. Lui entra e gli dicono: non capisci 'na sega, ma perché fai gioca' il Chiellini, fa proprio ca'are. A Livorno c'è un'irriverenza naturale di cui a Torino non c'è traccia".

Balotelli e Felipe Melo li direbbe irriverenti?

"Non volevo parlar male di nessuno, ma se non l'avessi fatto avrei nascosto una parte di me. Loro due sono quelli che mi hanno deluso veramente".

Citiamo da "Io, Giorgio": "Balotelli è una persona negativa, senza rispetto per il gruppo. In Confederations Cup contro il Brasile, nel 2013, non ci diede una mano in niente, roba da prenderlo a schiaffi. Per qualcuno era tra i primi cinque al mondo, io non ho mai pensato neppure che potesse essere tra i primi dieci o venti. Uno anche peggiore era Felipe Melo: il peggio del peggio. Non sopporto gli irrispettosi, quelli che vogliono essere sempre il contrario degli altri. Con lui si rischiava sempre la rissa. Lo dissi anche hai dirigenti: è una mela marcia".

"Confermo, ma non ho rancore né mi interessa averne, se mi toccherà condividere qualcosa con loro lo farò. Non sono il miglior amico di tutti, però loro sono gli unici due ad essere andati oltre un limite accettabile. Per come sono fatto, il problema non è se giochi bene, male o se qualche volta fai serata, ma se manchi di rispetto e non hai dentro niente. Una volta va bene, se è ricorrente no".

Nel libro non affronta invece due argomenti, religione e politica: perché?

"Non sono un ateo convinto ma neanche un credente convinto. Conosco preti che stimo ma le scritture non mi convincono perché di base sono un uomo di scienza. Al tempo stesso non posso dire con certezza che tutto sia al 100% scienza. La politica è un tema spinoso, ma a me piace parlare quando so e di politica non ne so abbastanza".

L'area di rigore è il suo territorio, eppure non nasce difensore: dove la portava l'istinto?

"Ero un cavallo pazzo, le mie partite erano tutto un correre e un battagliare, un duello a tutto campo basato sulla mia prepotenza fisica. Solo dopo sono diventate una sfida lucida con l'attaccante".

Lucida ma anche cattiva?

"Posso essere stronzo, sì, ma cattivo no, anche mi è capitato di fare del male. Su Bergessio, nel 2013, feci un intervento sconsiderato e mi dispiacque tanto, gli chiesi scusa mille volte anche se non potevo ridargli il pezzo che gli avevo rotto. Lui stette fuori tre mesi e al ritorno scatenò una caccia all'uomo contro di me, finché a furia di gomitate si fece espellere. In ogni caso, anche in trance adrenalinica non mi mai è passato per la testa: Adesso entro e gli faccio male".

Lei racconta di sfidare gli attaccanti sul filo della provocazione, per innervosirli. Poi ci sono quelli che tengono botta come Ibrahimovic e gli altri che finiscono in sua balia.

"Nei 90' non ci sono amici. Mi ricordo una volta contro Pazzini, uno con cui sono cresciuto assieme: portava la maschera protettiva sul viso e gli ho dato fastidio apposta per tutta la partita, toccandogliela. Lui mi mandava a quel paese ma sapeva meglio di me che sarebbe andata così, difatti poi alla fine ci siamo parlati come se nulla fosse".

Nessuno le ha fatto perdere le staffe?

"Quando ero giovane ero io che volevo innervosirmi, cercavo di continuo lo scontro. Sono una persona razionale, ma quando ho iniziato a giocare con gli adulti ha cominciato a venire fuori da dentro, come qualcuno che prima non c'era e che fuori dal campo non esiste. Nell'età giovanile non riuscivo a domare questa parte di me. Ma poi ho saputo cambiare".

In Serie A è stato espulso due volte soltanto: è stato bravo a controllarsi o a non farsi beccare?

"A controllarmi. L'unico rosso diretto l'ho preso per un fallo di reazione su Morfeo: lui mi ha dato un calcio, io ho sbroccato, fuori tutti e due. Nel sottopassaggio poi ci siamo guardati e ci siamo detti: ma siamo proprio due scemi. Non sono uno di quelli a cui si tappa la vena e ci ricascano".

Odio l'Inter, dice nel libro: ha avuto remore a usare quel verbo?

"Penso che la gente capirà cosa intendo dire, che non verrò interpretato male. Io odio sportivamente l'Inter come Michael Jordan odia i Pistons, non posso non odiarla, ma il 99,9 per cento delle volte che ho incontrato fuori dal campo persone con cui mi sono scannato in partita, ci siamo fatti due risate. Difatti il messaggio che mi ha fatto più piacere, quando mi sono rotto il ginocchio, è stato quello di Javier Zanetti. L'odio sportivo è quello che ci spinge a superare l'avversario: se gli si dà il giusto significato, è una componente essenziale dello sport".

Ha dei compagni che da avversario ha odiato?

"Higuain, ma conoscendolo mi ha sorpreso: i 9 sono egoisti, fanno un mestiere a parte, però lui ha un lato generoso, giocherellone. È un ragazzo impegnativo perché devi coccolarlo, stimolarlo. Ha bisogno di affetto per alimentare le potenzialità incredibili che ha".

Tornerà?

"Lo aspettiamo".

Chiellini che fine farà quando smetterà di giocare?

"Ho una visione di come dovrà evolversi il calcio, non so se tra cinque o dieci anni, ma non ancora le competenze per svilupparla. Mi vedo dietro una scrivania, non come ds o talent scout ma con un ruolo gestionale. Vorrei occuparmi di politica sportiva, se non fosse che è una parola che mi spaventa e che quello è un campo minato. Nel libro dico che mi piacerebbe lavorare all'Eca, ma era solo per dare un'idea: di sicuro, mi piacerebbe contribuire a riformare del calcio".

Vede qualche collega con le stesse inclinazioni?

"Khedira è intelligente e riflessivo come pochi, scommetto che diventerà una persona importante in Germania. Poi ho conosciuto Kompany, che ha personalità e cultura e intanto per cominciare sta facendo l'allenatore-giocatore all'Anderlecht. Un altro che mi sembra intelligente è Fabregas, me ne sono reso conto dopo aver letto una sua riflessione su Conte e Sarri".

Nella trattativa per il taglio degli stipendi, ha mosso i primi passi da dirigente?

"No, ho fatto solo da tramite. La volontà era di trovare una soluzione che aiutasse il club in un momento di difficoltà e desse un esempio alla nazione, perché non è vero che noi calciatori viviamo fuori dal mondo. Non è stato facile mettere d'accordo 25 persone, ma è stato un gesto di grande maturità da parte nostra".

Perché prima di entrare in campo si fa una doccia?

"Una lunga doccia, è il mio rito per gestire lo stress emotivo ma anche l'ultimo momento per stare solo con me stesso e ascoltare il mio corpo. Ne ho necessità".

Da corrieredellosport.it il 9 maggio 2020. Mario Balotelli risponde a Giorgio Chiellini, che l'ha definito "una persona negativa e senza rispetto per il gruppo" nella sua autobiografia, in uscita nei prossimi giorni: "Io almeno ho la sincerità e il coraggio di dire le cose in faccia - scrive SuperMario su Instagram - tu dal 2013 avresti avuto tante occasioni per farlo, comportandoti da vero uomo, ma non l'hai fatto. Chissà cosa dirai un giorno dei compagni di oggi, strano capitano. Se questo vuol dire essere un campione, allora preferisco non esserlo. E alla maglia azzurra non ho mai mancato di rispetto".

Da gazzetta.it il 12 maggio 2020. Giorgio Chiellini e Mario Balotelli questa sera in prima serata saranno tra i protagonisti della puntata de “Le Iene Show”, su Italia 1: una pace a distanza dopo le polemiche per il libro “Io, Giorgio”, autobiografia scritta con Maurizio Crosetti (la Repubblica), in vendita da oggi. Nel libro infatti Chiellini parla di Balo come “persona negativa”. Le Iene sono state a casa di Balotelli, poi a casa di Chiellini e li hanno messi in comunicazione con una telefonata. Balotelli ha regalato a Chiellini una maglia con la dedica: “Anche se inaspettatamente mi hai pugnalato alle spalle, ti voglio comunque bene, abbraccio, grande!”. Chiellini invece ha detto di essere stato sorpreso piacevolmente dal messaggio di Balo e al telefono ha spiegato: “Ero indeciso se metterlo (in riferimento alla critica), però non raccontare nulla è brutto, mi sembrava da falso e ipocrita. Mi prendo annessi e connessi”. E ancora: “Sbagliando ho imparato tanto e continuo a farlo giorno dopo giorno”. Il dialogo al telefono ha avuto momenti divertenti. Ad esempio, questo. Balotelli a Chiellini: “È la prima volta in vita mia che il casino l’hai fatto tu e non l’ho fatto io!”. E Chiellini: “Ero invidioso! Perché nella vita per migliorare bisogna sbagliare!”. Balotelli ha poi detto che la pace tra loro non serve (“Non c’è mai stata la guerra”), mentre Chiellini ha spiegato: “Ci sono stati degli screzi, a me dispiace ma qualcosa dovevo dire. Mario, poi ti avrei scritto fra un po’, te lo dirò di persona, più avanti”. Meno chiari i riferimenti al loro litigio durante la Confederations 2013, anche se Balotelli ha detto di aver replicato “perché da Giorgio non me l’aspettavo, io non sono una persona negativa, sono uno che scherza sempre”. E Chiellini, a margine, ha detto di sentirsi pronto a giocare l’Europeo 2021 (“Speriamo!”), anche con Balotelli in squadra: “Mamma ragazzi, sarebbe un piacere! Io non ho mica problemi!”. Riassunto delle puntate precedenti. Sabato mattina una intervista di Chiellini a “la Repubblica” ha aperto la polemica perché il capitano della Juve e della Nazionale confermava gli attacchi a Mario Balotelli e Felipe Melo contenuti nell’autobiografia. Le parole del libro: ”Balotelli è una persona negativa, senza rispetto per il gruppo. In Confederations Cup contro il Brasile non ci diede una mano in niente, roba da prenderlo a schiaffi. Uno anche peggiore di lui era Felipe Melo: il peggio del peggio. Lo dissi anche ai dirigenti: è una mela marcia”. Melo sabato ha replicato su Gazzetta.it: “Quando ero a Torino, non ho mai mancato di rispetto a nessuno. A questo punto, però, per lui non ne ho per nulla. Dice che si rischiava sempre la rissa per colpa mia? Beh, lui se la faceva sempre addosso... Io sono interista e lui è così: fa sempre il fenomeno...”. Balotelli invece ha risposto via Instagram: “Io almeno ho la sincerità e il coraggio di dire le cose in faccia. Tu dal 2013 avresti avuto tante occasioni per farlo, comportandoti da vero uomo, ma non l’hai fatto. Chissà cosa dirai un giorno dei compagni di oggi, strano capitano. Se questo vuol dire essere un campione, allora preferisco non esserlo. E alla maglia azzurra non ho mai mancato di rispetto”.

Francesco Fontana per gazzetta.it il 9 maggio 2020. Il più classico dei botta-risposta. E nemmeno banale, considerando i toni. Certamente civili, ma comunque duri. Attraverso il nuovo libro “Io, Giorgio”, Chiellini non ha risparmiato delle vere e proprie bordate nei confronti di Mario Balotelli e Felipe Melo. E sul centrocampista verdeoro, ex compagno alla Juventus e oggi al Palmeiras, ha spiegato: “È anche peggio, con lui si rischiava sempre la rissa. Lo dissi anche ai dirigenti: è una mela marcia”. La risposta del brasiliano - via Gazzetta.it - non si è fatta attendere: “Prima di tutto, sarebbe interessante conoscere gli episodi ai quali si riferisce. In ogni caso, per me non c’è nessun problema nel rispondere a ‘questo difensore’...”. Il centrocampista brasiliano del Palmeiras non si ferma mai, come scrive nella didascalia di questo video pubblicato su Instagram: "Nonostante tutto quello che sta accadendo, non dobbiamo perdere la concentrazione e mantenere la condizione fisica. Anche da casa, ci si allena forte". Giorgio Chiellini, nel suo libro, lo ha definito una "mela marcia": che sia il modo per non pensare alle due parole del suo ex compagno alla Juve? Melo prosegue: “Quando ero a Torino, non ho mai mancato di rispetto a nessuno: ai compagni, ai dirigenti, alla Juventus in generale. A questo punto, però, per lui non ne ho per nulla. E mai ne avrò. Dice che Balotelli sia da prendere a schiaffi e che io sia il peggio del peggio e che si rischiava sempre la rissa per colpa mia? Beh, lui se la faceva sempre addosso... E poi, scusate: troppo facile parlare male degli altri con un libro. Forse ‘questo difensore’ è ancora arrabbiato con me perché, quando sono andato al Galatasaray, abbiamo dato loro degli ‘schiaffi’ eliminandoli dalla Champions League”. “Oppure perché poi l’Inter ha vinto tutto. E io sono interista. Lui è così: fa sempre il fenomeno... E mi viene in mente un’altra cosa: battemmo l’Italia 3-0 nella Confederations Cup 2009, vinta poi dal Brasile. Ecco, forse rosica pure per questo. Inoltre, a livello internazionale, non ha vinto proprio niente. Chiudo così: dicendo certe cose ha dimostrato di essere poco professionale. Questa è mancanza di rispetto. Mi fermo qui e non aggiungo altro, certe cose devono restare negli spogliatoi”.

Ravanelli svela i grandi rimpianti "Perché ho lasciato la Juventus". Fabrizio Ravanelli, in esclusiva per ilgiornale.it, ha toccato diversi temi tra cui la lotta scudetto a tre, la Champions League, i suoi anni passati alla Juventus e molto altro ancora. Marco Gentile, Giovedì 25/06/2020 su Il Giornale. Fabrizio Ravanelli è stato uno degli attaccanti italiani più forti e prolifici tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta. L’attaccante classe ‘68 dopo essere cresciuto nelle giovanili del Perugia fa il suo esordio con il club umbro in prima squadra, in C2, nel 1986-87 mettendosi subito in mostra con tre stagioni di livello in cui segna oltre 40 reti in 90 partite, tra C2 e C1. Dopo le esperienze tra Avellino, poco fortunata, in Serie B e Casertana in C1 tra il 1990 e il 1992 si mette in mostra nella serie cadetta con la Reggiana e questo gli serve come trampolino di calcio per affacciarsi non solo alla Serie A ma ad uno dei club più importanti in Italia e nel mondo: la Juventus. Con i bianconeri, in quattro stagioni, gioca 160 partite e realizza 68 reti, 30 nel 1994-95- Ravanelli con la maglia bianconera mette in bacheca una Coppe Uefa, uno scudetto, una Coppa Italia, una supercoppa Italiana e una Coppa dei Campioni nel 1995-96. Nell’estate del ’96 Ravanelli lascia la Juventus per tentare l’esperienza in Premier League tra le fila del Middlesbrough dove realizza 31 reti in 48 partite stagionali. Il bomber umbro riesce anche ad imporsi in Francia nell’Olympique Marsiglia dove segna 31 gol in 84 partite e nel gennaio del 2000 torna in Italia tra le fila della Lazio dove vincerà il suo secondo scudetto proprio beffando la sua ex squadra, la Juventus. Nel finale di carriera Ravanelli torna in Inghilterra al Derby County e infine gioca per il Dundee in Scozia e chiude la sua carriera al Perugia nel 2004-2005. Ravanelli, in esclusiva per ilgiornale.it, ha toccato diverse tematiche tra cui la ripresa del calcio, la lotta scudetto tra Juventus-Lazio e Inter, la Champions League, Sarri e molto altro ancora:

Cosa ne pensa di questi primi giorni di ripresa del calcio, si è ripreso troppo tardi oppure è giusto così?

"Credo si sia tornati in campo nel momento giusto, sono state usate tutte le precauzioni del caso per poter salvaguardare tutto e tutti. Il calcio è la terza azienda in Italia ed è stato giusto e bello ripartire proprio inq questo momento per ridare morale al paese. Noi italiani siamo forti e tenaci, anche nei momenti difficili riusciamo a ottenere il massimo e a uscirne alla grande. Il calcio in questo può dare e darà un grande segnale".

Trova eccessive le critiche alla Juventus?

"La Juventus è una squadra forte, ha una società incredibile e credo che la storia parli per lei. La Juventus è una società da prendere ad esempio e questo vale per tutti. Uno può anche essere antijuventino ma ripeto la società ha una sua storia ben definita da sempre. Non ha mai cambiato proprietà, il club è da sempre solido e sa gestire i momenti difficili senza mai andare nel panico. Qualora non dovesse vincere quest’anno non si deve cadere nel dramma anche se penso che lotterà per lo scudetto fino alla fine".

Sarri è finito nel tritacarne mediatico: secondo lei sta sentendo la pressione?

"Non è facile per Sarri dato che viene da otto anni in cui ci sono stati allenatori come Antonio Conte e Massimiliano Allegri che hanno vinto tre e cinque scudetti. Non ha ereditato una situazione facile ma lui ci sta mettendo competenza e cuore. Ora toccherà alla Juventus e non solo a lui metterci orgoglio e determinazione lottando fino alla fine, come dice il suo motto. Le critiche ci sono, ci stanno e ci saranno sempre, lui lo capisce e sa che è normale. I bianconeri devono ancora entrare in forma e penso che vedremo una squadra in crescendo".

Vede una lotta scudetto a due o a tre nonostante le due battute d'arresto di ieri sera di Inter e Lazio?

"La Lazio la vedo bella agguerrita, mancano ancora 11 partite con 33 punti in palio che sono un’enormità. Poi quando ricapita alla Lazio una situazione del genere? Anche l’Inter però è dentro a questa contesa nonostante gli 8 punti: si lotterà punto a punto e partita per partita, credo proprio che il campionato si deciderà all’ultima giornata".

Se devo sbilanciarsi su chi scommetterebbe?

"La Lazio si sta dimostrando una grandissima squadra e ripeto penso che lotterà come non mai perché non gli capita spesso di poter lottare per il vertice. L’Inter lotterà fino alla fine per la sua storia e per la sua attitudine ma soprattutto per il carattere del suo allenatore. Poi c’è la Juventus ovviamente che è favorita. Difficile però dire chi la spunterà, mancano ancora troppe partite".

Capitolo Champions League: ce la farà a vincerla la Juventus dopo 24 anni?

"Io ho avuto la fortuna di vincerla nel 1995-96, sono stato l’ultimo sfortunatamente per i colori bianconeri. Dico solo che non sarà facile ribaltare il Lione, tutti danno per scontato che la Juventus ce la farà ma io conosco il calcio francese…quella di Garcia è una squadra spigolosa e scomoda. Bisognerà essere cinici in fase conclusiva e attenti in fase difensiva. Non mi voglio sbilanciare ma mi auguro che ce la faccia".

Se non dovesse farcela sarebbe da considerarsi un fallimento visti gli ingenti investimenti degli ultimi anni come il pesante ingaggio di CR7?

"Io ho paura perché il Lione ha già mandato a casa CR7 quando giocava nel Real Madrid (ride; ndr). A parte gli scherzi, non sarà davvero una gara facile e se la Juventus dovesse uscire agli ottavi sarebbe sicuramente un risultato non da Juve e altamente deludente".

Ci racconta qualche aneddoto particolare nei suoi quattro anni passati alla Juventus?

“Ci sono tanti aneddoti bellissimi, ma quello più significativo che mi viene in mente è quando Ferrara, erano i primi giorni dell’era Lippi, Moggi, Giraudo e Bettega salì sulla sedia e si mise a raccontare le sue barzellette. Ciro per il gruppo è stato davvero fondamentale, un vero uomo spogliatoio. Quella squadra poi vinse al primo colpo lo scudetto e l’anno seguente la Champions League”.

Quale allenatore le ha dato di più nella sua formazione?

“Fortunatamente ho avuto la fortuna di conoscere tanti allenatori bravi. Da Trapattoni alla Juventus nel ‘92 quando vincemmo la Coppa Uefa, fino ad arrivare a Lippi e Sacchi in nazionale: loro tre sono stati quelli che mi hanno lasciato molto”.

Ha legato con qualche compagno in particolare alla Juventus?

“Sono sempre andato d’accordo con tutti e farei un torto a fare un solo nome. Di Livio, Torricelli, Conte, Del Piero, Ferrara e tanti altri: quello è stato un grande gruppo ad esempio, tutti andavamo d’accordo”.

Ha qualche rimpianto in carriera?

“Aver lasciato la Juventus nel 1996, io potevo anche rimanere… è stato un mio errore che non dico di aver pagato caro dato che poi ho vinto uno scudetto alla Lazio, ho fatto due grandi esperienze, anche di vita per la mia famiglia, all’estero al Middlesbrough e al Marsiglia. Mi spiace perché avrei potuto essere una bandiera della Juventus se fossi rimasto, ero vice capitano dietro a Gianluca Vialli e sarei stato anche capitano. Ma ormai è acqua passata".

"Lo scudetto del destino. Perugia, l'acqua e la Juve. Lazio, me lo sentivo..." Fabrizio Ravanelli e il titolo del 2000: "Storico. Bianconeri a casa mia... Convinto che sarebbe andata bene". Giacomo Puglisi, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Era tutto scritto nel destino. Ma lui ha avuto la forza di realizzarlo. Il 14 maggio di 20 anni fa la Lazio vinceva il secondo (e a oggi ultimo) della sua storia. Un titolo inatteso, improvviso, seppur meritato. Eppure Fabrizio Ravanelli era convinto che la Lazio ce la avrebbe fatta. Lo vedeva scritto nelle stelle. Arrivato in biancoceleste nel mercato invernale, ha vissuto solo la parte finale di quella stagione, ma ci si è immerso completamente. «La Lazio mi prese dal Marsiglia - ricorda oggi Ravanelli -. Io in Francia stavo benissimo, avrei terminato lì la carriera. Ma dovetti tornare in Italia perché mio padre stava molto male. Lui viveva a Perugia, per questo per me trasferirmi a Roma fu un'occasione irrinunciabile, principalmente dal punto di vista privato, anche se sportivamente parlando la Lazio in quel momento era una delle squadre più forti d'Europa». E il destino quel 14 maggio del 2000 mischiò l'aspetto sportivo a quello umano. Perché la Lazio quello scudetto lo vinse proprio perché il Perugia riuscì sorprendentemente a battere la Juventus capolista. Ravanelli aveva già visto un finale di stagione simile: nel 1976 era sugli spalti quando i bianconeri persero la corsa per il titolo all'ultima giornata proprio in Umbria. «Ero sicuro che il Perugia avrebbe dato il massimo benché non avesse nulla da chiedere al campionato. Conoscevo il presidente Gaucci e sapevo che non ci stava a perdere».

Chi fu a volerla alla Lazio?

«L'idea fu di Nello Governato, all'epoca direttore sportivo dei biancocelesti. Lui mi aveva portato già alla Juventus e aveva provato a prendermi anche quando lavorava alla Fiorentina. Successivamente parlai con mister Eriksson e con il presidente Cragnotti. Appena arrivato trovai una squadra formata da grandi campioni, che avevano il vantaggio di essere estremamente umili. Venni accolto benissimo da tutti».

C'è un gol che ricorda con particolare piacere?

«Quello al Bologna il 9 gennaio del 2000. Era il giorno del centenario, la Juventus aveva perso nell'anticipo con il Parma e vincendo salimmo al primo posto in classifica. Quello, anche per il momento, è quello che mi ha trasmesso le emozioni più forti. Quell'anno segnai una rete pesante anche contro la Juventus in Coppa Italia, competizione che vincemmo. Il gol più bello è invece uno che feci di testa al Torino di Mondonico che aveva provato a portarmi in granata».

Quando si convinse che la Lazio avrebbe potuto vincere lo scudetto?

«Il primo aprile del 2000 andammo a vincere in casa della Juventus e ci portammo a 3 punti dalla vetta. Quella fu una vittoria fondamentale».

Lei all'Olimpico aveva anche già vinto la Champions segnando contro l'Ajax...

«Avevo la sensazione che avrei vinto anche con la Lazio. Quello stadio per me è importante. Quando ho visto che all'ultima giornata la Juventus avrebbe giocato proprio col Perugia, la squadra della mia città, ero convinto che sarebbe finita bene. E con il nubifragio sul Curi, mentre in tutto il resto di Perugia splendeva il sole, è difficile non credere nel destino».

Dovesse riprendere il campionato chi sarebbe il favorito?

«Se la giocano le prime tre, Inter compresa. Per i nerazzurri senza il Coronavirus sarebbe stato difficile ripartire subito dopo le sconfitte ravvicinate con Lazio e Juve, ma ora, passati due mesi, la mente è sgombra. Io comunque spero che il campionato riparta per il bene del calcio italiano».

Di Inzaghi cosa pensa?

«Lo stimo molto, ma anche qua entra in gioco il destino. La Lazio aveva scelto Bielsa, poi ripiegó su di lui. Simone però è stato bravo a farsi trovare pronto, anche se Lotito e Tare gli hanno messo a disposizione una squadra fortissima».

Vincere a Roma ha un sapore diverso che farlo con la Juventus?

«Assolutamente sì, anche se nasco juventino. Lo scudetto con la Lazio è un traguardo storico, perché per la gente si diventa subito leggenda. Auguro a quella piazza di vincere ancora qualcosa di grande».

Luciano Moggi per “Libero quotidiano” il 17 aprile 2020. Ci voleva il Coronavirus ad impaurirci: forse si sta materializzando il terzo segreto di Fatima che, a mezzo di questo virus, vuole ammonire il mondo affinché la fratellanza e l' amicizia - parole da troppo tempo in disuso - tornino a trionfare e la salute debba essere considerata veramente il bene maggiore, anche al di là dell' economia per la quale si sono fatte le guerre. E a proposito del Coronavirus, in questo momento l' Italia è invasa da menti eccelse che ogni sera ci accompagnano nelle televisioni propinandoci pareri quasi sempre discordi tra loro, essendo il virus sconosciuto. L' unica cosa che si è potuta capire è quanto sia stato sbagliato inizialmente, quando cominciavano a giungere da lontano notizie sul Covid19: si sarebbero dovuti fare subito i tamponi. Evidentemente, però, il detto «prevenire meglio che curare» non fa parte delle nozioni dei nostri governanti e per questo motivo il contagio si è allargato a macchia d' olio: e pensare che, per evitarlo, sarebbe bastato smascherare gli asintomatici. Si tenta adesso di recuperare facendo i tamponi a raffica con il solo risultato di ingenerare confusione totale nella conta dei contagiati che aumentano ovviamente in relazione al maggior numero di tamponi effettuati. Sarebbe bastato seguire l' esempio della Grecia che a gennaio, quando arrivavano i primi rumors dalla Cina, ha chiuso i propri confini ordinando ai cittadini il coprifuoco. Risultato: 102 decessi. In Italia stiamo facendo la stessa cosa, ma con 50 giorni di ritardo rispetto ai greci. Intanto il calcio non sa ancora se riprendere o meno il campionato e prima ancora gli allenamenti e in Italia si buttano lì date senza tener conto dell' evoluzione futura del virus. Errori che invece non hanno fatto in Cina - loro amano il nostro calcio e vorrebbero emularci, ma noi dovremmo emulare loro per la fermezza nei comportamenti -, dove Fabio Cannavaro, tecnico del Guangzhou (ieri il club ha licenziato Yu Hanchao, 33 anni, per aver falsificato la targa dell' auto), è tornato in campo per la ripresa del campionato.

Fabio, è stata stabilita la data di inizio del vostro campionato?

«Non ancora, ma già si ipotizza di riprendere tra giugno e luglio».

Ma voi avete ripreso l' attività?

«Sì, regolarmente: quattro allenamenti alla settimana e due giorni di riposo».

Con quali accorgimenti?

«Quando entriamo al centro sportivo con il pullman ci viene misurata la temperatura, controllano e trascrivono i documenti dell' autista e disinfettano le gomme con lo spray. A fine allenamento viene misurata la temperatura di tutti negli spogliatoi e la stessa operazione viene fatta quando usciamo dal centro».

Però sembra che in Cina ci siano stati ulteriori contagi.

«Sì, probabilmente per il ritorno a casa di alcuni cinesi. Adesso le frontiere sono state chiuse per cui non si può né rientrare né uscire».

Come siete sistemati voi italiani?

«Ognuno ha il suo appartamento, sanificato giornalmente».

E se andate in città?

«Si esce sempre con la mascherina e quando, per esempio, andiamo al ristorante dobbiamo lasciare passaporto e numero di telefono perché, nel caso ci sia qualcuno contagiato, convocano tutti i presenti per le visite di rito ed eventualmente la quarantena».

Qui in Italia invece siamo ancora blindati.

«Sì, e la gente deve stare a casa perché manca poco. Lo so che è dura, che in molti soffrono, ma è l' unico modo per non diffondere il virus».

Fabio, ma tu ci pensi a un ritorno qui da noi? Nel nostro calcio intendo.

«Ho iniziato ad allenare da 5 anni e sogno di guidare un giorno una grande squadra. Ho avuto la fortuna di avere i migliori tecnici degli ultimi 50 anni e da ognuno di loro spero di aver preso qualcosa e spero che il giorno che deciderò di tornare in Europa sarò pronto».

Ti piacerebbe la panchina del Napoli?

«Beh, è uno dei grandi club. Napoli mi è sempre mancata: sono andato via a 21 anni ma sono rimasto sempre molto legato. Ho vissuto in tante città del mondo, ma resterò a vivere a Napoli: da piccolo sognavo di diventare un simbolo della squadra».

La nostra serie A la segui? Quale è il tuo giocatore preferito?

«Mi piace molto Bernardeschi, mi piacciono Insigne e Immobile, fare un solo nome è difficile».

E tra gli allenatori?

«Penso che Sarri sia un tecnico di grandissimo livello: sicuramente sta faticando più del previsto a trasmettere le sue idee alla Juve e questo magari sta condizionando un po' il gioco, però le qualità non si discutono».

E Gattuso? Anche lui, come te, ha iniziato da poco.

«Il Milan ha sbagliato a mandarlo via, purtroppo non l' hanno capito. Rino è preparato, ti dà fiducia, fa giocare bene e quindi merita la fiducia del Napoli».

Liberoquotidiano.it il 10 maggio 2020. Tino Asprilla ha sempre fatto parlare di sé: per ciò che faceva sul campo ma anche fuori. Il colombiano, arrivato al Parma nel 1992, incarna perfettamente il concetto di genio e sregolatezza. E l'attaccante, ora, rivela alcuni curiosi aneddoti legati alla sua permanenza al Parma: "Una volta in Italia sono stato con 5-6 ragazze insieme...", confessa Asprilla in una diretta Instagram con Fabio Cannavaro, che era suo compagno in gialloblù. "Eravamo in ritiro - ricorda -. Un compagno mi disse: Vieni qui che ci sono 5-6 ragazze. Ci divertimmo, almeno fino alle 5 del mattino". Aspirlla infatti era uno che le feste le amava. E parecchio. "È colpa di Massimo Crippa, mi portava sempre alle sue feste, a Milano, a Modena..." ha concluso scherzando con Cannavaro.

Dagospia l'11 maggio 2020. Le notti pazze di Tino Asprilla. L’ex attaccante del Parma in diretta Instagram racconta di quella volta che ha inseguito un trans per tutta Milano. “Ero in macchina con Massimo Crippa. Stavamo andando all’Hollywood. Avevamo bevuto champagne, tequila, di tutto. Eravamo un po’ ubriachi. A un semaforo incrociamo un trans. Io mi avvicino: “Vieni, quanto costa passare la notte con te?”. Quello risponde: “Non costa niente perché non mi piacciono i neri, odio i neri”. Esco dalla macchina: “Cosa hai detto pezzo di m…?”. lui scappa e io dietro a inseguirlo. Crippa aveva paura che ci beccasse la polizia. “Io volevo picchiarlo. Mi ero tolto anche la cintura. Ma quello correva più di me…”

Da calciomercato.com il 13 giugno 2020. Ospite dell'influencer Marcela Reyes nel corso di una diretta Instagram, l'ex attaccante del Parma, Faustino Asprilla, ha incantato come al solito: "Prima di un match nazionale con la Colombia ricordo che portai con me una ragazza nel ritiro e come sempre questo mi fece molto male...Il giorno dopo infatti segnai solo tre gol. Nella mia stanza c'è un'immagine con i dodici apostoli e quando faccio l'amore applaudono anche loro. Tu pensi che io sia uno di quelli che si misura il pene? Uno di quelli che controlla ogni giorno se sia più lungo o più corto? Queste cose le fa chi non è sicuro di sé. E io, ti assicuro, non ho mai avuto bisogno di andare in giro con il metro in mano...".

Da fcinter1908.it il 25 maggio 2020. In una intervista con Carlos Valderrama, Faustino Asprilla ha raccontato un incredibile aneddoto con protagonista Hernán Crespo. L’episodio risale a quando i due ex giocatori erano compagni di squadra nel Parma. Nei suoi primi mesi nel club emiliano, l’ex nerazzurro ha avuto alcuni problemi a trovare la via del gol, Asprilla racconta come riuscì ad aiutare l’argentino. “I primi mesi la gente lo ha massacrato, non riusciva a zittirli. Era disperato, così (Gustavo) Mascardi – il suo agente – mi ha chiamato e mi ha detto: “Il ragazzo è impaurito, puoi andare a parlare con lui?”. Cosi quando lo vidi gli feci una domanda: “Da quanto tempo non fai l’amore?”. Lui mi rispose: “Sei mesi”. Avevo un’amica colombiana, così gliela presentai e iniziarono a uscire insieme, a fare l’amore e da lì in poi non smise più di segnare. Il problema era che non faceva l’amore”, ha concluso ridendo Asprilla.

Dagospia il 2 maggio 2020. "Il Milan di Berlusconi? Ci andrebbe fatta una serie Netflix”. Nesta in diretta Instagram con Cannavaro torna sull’addio alla Lazio: “Al Milan mi hanno insegnato a interpretare la professione e a vincere. Se non ci fosse stato quel casino sarei rimasto alla Lazio tutta la vita. Quella era una squadra fenomenale che poteva giocarsi alla grandissima la Champions ma mancava di mentalità vincente. Sono andato al Milan e mi si è aperto un mondo che non conoscevo. Un’altra roba. C’era l’architetto che ti faceva scegliere addirittura i mobili. Tutto era organizzato, tu dovevi solo allenarti e vincere. In una società del genere non puoi mollare niente. Basti pensare che vincemmo la Champions e il club comprò Stam. Per restare lì dieci anni ti dovevi fare un culo…” “C’è differenza tra giocare a calcio e vincere”, rimarca Cannavaro che cita le grandi “pressioni” alla Juve e al Real: “La Lazio di Nesta e il mio Parma erano due squadre che messe in altre strutture societarie avrebbero stravinto tutto. Abbiamo vinto ma poco”. Anche in Nazionale. “Abbiamo perso una grande occasione al Mondiale di Corea-Giappone e poi a Euro 2000”. Nesta, che oggi allena il Frosinone, ricorda la semifinale con l’Olanda: “Che barricate, non siamo usciti dalla metà campo. Sentivo ogni tanto che tiravano e prendevano il palo. Quella era una squadra tosta magari non bellissima…” Football and fashion. Cannavaro ricorda i calzini bianchi alla Michael Jackson con cui Thuram si presentò a Parma, Nesta invece ironizza sulla camicia a fiori griffata Versace che sfoggiavano gli stranieri dell’Est. E il capitano della Nazionale al Mondiale 2006: “Ma io l’ho vista anche a Maradona, a Fonseca e a Ferrara…”. I due difensori, tra i più forti della storia azzurra, parlano del look di quando giocavano: “Portavamo i capelli lunghi con le fascette, eravamo dei tamarri…”. Ma tutto cambia. Cannavaro, accostato alla panchina del Napoli per la prossima stagione, rivela di essere andato a cena con Gattuso: “Mi guarda e la prima cosa che mi dice è questa. ‘Ti sei fatto il trapianto di capelli?”. E io: “Ma sei scemo, se me lo sono fatto, è venuto male. Non vedi che i capelli non ce li ho più…”

Dagospia il 16 aprile 2020. “KING” CLAUDIO RANIERI SI RACCONTA A #CASASKYSPORT. “Il Leicester? Il mio vero capolavoro è stato il Cagliari, che presi in C e portai in A, ma anche la salvezza con il Parma è stata un’impresa forse ancora più difficile che vincere la Premier”. Claudio Ranieri, allenatore della Sampdoria, apre l’album dei ricordi a #CasaSkySport: “Devo sempre ringraziare Gianni Di Marzio. Iniziai ad allenare a Lamezia grazie a lui”. Dalla Calabria al mondo. E’ stato a Valencia (“C’era Amedeo Carboni, pensavo parlasse spagnolo, metteva solo la esse finale”), Madrid sponda Atletico, Londra.  Al Chelsea c’erano Leboeuf e Desailly ma lui puntò forte su Terry e Lampard, che ora sta guidando i Blues “in modo perfetto. Ha una intelligenza straordinaria e gli auguro tutto il bene possibile”. Per Massimo Marianella la vittoria della Premier rappresenta per 'King Claudio' "il punto esclamativo su una meravigliosa carriera”. Colonna sonora: il ‘Nessun Dorma’ che Bocelli intonò sul prato del King Power Stadium per celebrare il titolo. “Non ho duettato con lui perché sono stonato - spiega Ranieri - Fu una festa non programmata ma è venuta alla grande. Aver vinto la Premier con una squadra che si era salvata all’ultima giornata la stagione precedente è stato qualcosa di straordinario". Anche se dentro di lui c’è sempre "quel bambino che tifava Roma" e andava al Tre Fontane con Agostino Di Bartolomei: “Lo passavo a prendere, io avevo la macchina e lui no. Quello che poi è successo mi ha spezzato il cuore”. Una ferita sempre aperta, Roma-Samp del 2010 che costò ai giallorossi lo scudetto: “Nel primo tempo vincevamo 1-0 e abbiamo sbagliato diversi gol. Poi ci furono le due invenzioni di Cassano per la testa di Pazzini. Doveva andare così”. Il suo saluto alla Roma è avvenuto nella stessa serata di De Rossi: “Era già un allenatore in campo. Conosce il calcio. Ha tutte le carte in regola per poter diventare un grande tecnico. Fonseca? Ha rivisto le sue idee e sta facendo un grandissimo lavoro”. Genova per lui è per ora il campo di allenamento di Bogliasco e la sua nuova casa. “Il mare finora l’ho visto poco. Ma alla Sampdoria mi vedo bene. Il primo allenamento dopo lo stop? Mi dispiacerà non poter abbracciare i miei calciatori. Ne ho avuto diversi toccati dal Coronavirus. Spero che non ne risentano”. Il “dilly ding dilly dong”? “Dopo Leicester non lo dico più ai miei ragazzi. Qui alla Samp serve la campana di San Pietro…”

Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2020.

«Kalle» Rummenigge, Ceo del Bayern Monaco, si ricorda ancora il suo primo impatto con Milano, quando arrivò all' Inter nel 1984?

«Era una giornata un po' piovosa. Oltre all' accoglienza speciale dei tifosi, la grande sorpresa è nata dai giornalisti che mi hanno applaudito al mio ingresso al ristorante con il presidente Pellegrini».

Due Coppe Campioni col Bayern, due Palloni d' oro, un Europeo. Il suo non era un arrivo qualsiasi.

«È stata una decisione presa col cervello, avevo altre offerte da Italia e Spagna, ma ho scelto Milano soprattutto per il presidente dell' Inter: ne è nata un' amicizia molto profonda».

Viveva in città?

«Ho vissuto a Blevio, un piccolo paese sul Lago di Como: mia moglie si è innamorata di una bellissima casa. Ma a Milano venivo tutte le settimane, camminavo molto, facevo shopping: non era bella come adesso, ma era molto interessante grazie alle persone che ci vivevano».

Ha visto il concerto di Andrea Bocelli al Duomo il giorno di Pasqua?

«Sì, emozionante. Mi sono ricordato di quando sono salito sul tetto della cattedrale per un servizio fotografico e mi ha fatto effetto».

Il fatto che Atalanta-Valencia a San Siro sia stata una possibile «bomba» per il coronavirus l' ha colpita?

«Non ci sono delle prove, ci sono delle voci, ma le voci ogni tanto non sono vere».

Il calcio tedesco come sta affrontando l' emergenza?

«Soffre e aspetta, come tutto il mondo calcistico. Da una settimana abbiamo almeno il permesso di fare allenamento in piccoli gruppi di 4-5 giocatori, dopo le sessioni in teleconferenza che sono state utili per rimettere in forma i ragazzi: quando sono arrivati al centro sportivo e hanno interagito di persona, il loro umore è migliorato molto».

I mini gruppi funzionano?

«Molto bene, perché come Lega abbiamo istituto una task force medica, che è in contatto quotidiano con la politica e controlla che tutto si svolga in modo regolare. Due volte a settimana vengono a fare il tampone ai calciatori».

Le proposte di finire tutta la Premier a Wembley, la serie A a Roma o la Liga alle Canarie, sono credibili?

«Altrove la situazione è molto più pesante che in Germania. Qui la situazione del virus non è controllata al 100% ovviamente, ma ho la sensazione che lo sia un po' di più rispetto ad altri Paesi. Ognuno deve valutare la propria situazione e trovare soluzioni con la politica, che alla fine è quella che decide se e quando ricominciare».

Fra i club tedeschi c' è unità in questo momento?

«Molta. La Lega comprende anche la serie B e c' è grande solidarietà: credo che siamo un esempio per la politica e per il popolo tedesco».

I giocatori hanno capito la gravità della situazione?

«A nessuno piace perdere una parte del proprio stipendio, ma l' importante è capire che una situazione così, nel mondo, non è stata mai vissuta. La solidarietà in questo momento è la cosa più importante, a tutti i livelli: tra i Paesi e tra le persone».

Il calcio ripartirà con spese meno folli?

«Ciò che conta adesso è finire la stagione. Una volta terminata abbiamo tutti la speranza che esca il sole, dopo una pioggia così grande. Credo che il mercato soffrirà, perché tutti quanti abbiamo speso sempre di più negli ultimi vent' anni, per i cartellini e i salari e questo sarà condizionato in modo abbastanza pesante. È il momento della liquidità. E chi ha liquidi sarà molto prudente».

Anche per la Uefa è importante terminare la stagione?

«La Uefa ha dimostrato sensibilità, stabilendo che prima vanno finiti i tornei nazionali. E poi speriamo tutti che si possano terminare Champions e Europa League in modo accettabile, perché ci sono danni sportivi ed economici. Dobbiamo trovare una soluzione per chiudere questa stagione sportiva».

Con Andrea Agnelli vi siete sentiti?

«L' ho chiamato quando era in quarantena. Credo non sia un momento facile nemmeno per lui: deve trovare delle soluzioni con la Uefa che vadano bene sia per i campionati che per le coppe europee. Non solo dal punto di vista del calendario, ma anche da quello economico».

Una soluzione può essere terminare questa stagione a ottobre-novembre?

«Bisogna aspettare, per avere un quadro più chiaro di quello attuale. Nessuno oggi può dire quando sarà conclusa la stagione, come viene condizionato il calcio, e tutta la nostra vita. Aspettiamo che tutto sia finito e poi discutiamo in modo più chiaro. Questo è il mio consiglio».

Le capita di dover spiegare agli amici tedeschi i comportamenti degli italiani?

«Ho vissuto tre anni in Italia, forse sono stati i più belli della mia vita. È una terra speciale, è molto diversa come Paese, per politica e cultura. Da tedesco, dico che è eccezionale, e lo pensano anche milioni di miei connazionali che vengono da voi in vacanza ogni anno».

Il presidente della Repubblica tedesca, Frank-Walter Steinmeier, ha detto parole molto belle sulla necessità della solidarietà tra i Paesi europei. Ha ragione?

«Penso proprio di sì. In questo momento dobbiamo darci una mano l' uno con l' altro. Ci sono spalle più forti che devono aiutare quelle meno forti. Io credo che in queste settimane sia nata una nuova solidarietà e adesso bisogna renderla produttiva, perché l' Europa vive di questo e deve continuare a farlo nel futuro. Non è facile per la politica tedesca, ma non lo è per nessuno. Ho letto che il vostro ministro dell' Economia dopo l' accordo dell' altro giorno ha detto che "il primo tempo è andato bene". Adesso speriamo che vada bene anche il secondo».

Le Nazionali giocheranno direttamente nel 2021?

«Ci sono già delle ipotesi per giocare tre partite e non due in ogni finestra. È un' idea che mi piace per recuperare le partite saltate per dare spazio ai campionati».

La Germania ha vinto quattro Mondiali e due Europei, senza mai affrontare l' Italia in partita secca. È solo un caso o il complesso azzurro esiste davvero?

«Siete la nostra bestia nera! Mi ricordo la semifinale del 2006, quando la Germania era già pronta alla finale. Il vostro calcio è sempre stato complicato per noi, anche coi club».

Nella finale del Mundial quando vide Bergomi con quei baffoni cosa pensò?

«Che aveva molto più di diciotto anni Io non ero al top, lui poi mi ha confessato che era nervoso, ma in campo non me ne sono accorto».

Il suo momento magico da calciatore qual è stato?

«A vent' anni, quando con il Bayern ho vinto con grande fortuna la Coppa dei Campioni contro il Saint-Etienne. Ero così orgoglioso quando ho alzato quel trofeo».

Per un grande campione, con tutto quello che ha vissuto in campo, è più facile o più difficile fare il dirigente?

«Ho avuto la fortuna di avere due carriere, sul campo e dietro alla scrivania. E forse per me questa è stata la vittoria più importante. Ma giocare a pallone resta la cosa più bella: ancora oggi quando sono seduto allo stadio vorrei scambiarmi con i giocatori ed essere in campo: le partite si decidono lì, non in tribuna».

Come mai non ha ancora scritto un libro?

«Mi piace raccontare le storie del passato quando ci ritroviamo con gli altri vecchietti. Ma è sempre meglio guardare avanti».

Franco Vanni per repubblica.it il 15 aprile 2020. Oggi Nicola Berti compie 53 anni. Festeggerà in casa, come tutti quelli a cui è capitato in sorte il compleanno in periodo d'isolamento. Con lui, la moglie e i due figli adolescenti, nella loro grande casa di Piacenza. Un appartamento che i fan hanno conosciuto nel video divertente in cui l'ex centrocampista, guascone come ai tempi in cui indossava la maglia numero 8 dell'Inter, pedala sulla cyclette con indosso un casco, per invitare tutti a stare a casa. Il casco è nerazzurro, ovviamente, come lo sono le sciarpe appese ai muri, i gagliardetti e il resto della collezione di cimeli. "Sono un ambasciatore dell'Inter. Per me questi colori hanno un'importanza che va molto oltre il pallone. Era così già quando giocavo".

Nell'Inter di oggi, si rivede in un giocatore in particolare?

"Mi riconosco in Nicolò Barella. Rispetto a me è più basso e più tecnico. Io fisicamente ero dirompente, ma lo spirito è quello. Della rosa attuale è il mio preferito. Abbiamo anche le stesse cifre sulla camicia, NB. Ci siamo conosciuti, è un tipo sveglio".

Con Antonio Conte ha giocato in Nazionale. Siete ancora amici?

"Certo, ci vediamo. Un anno e mezzo fa, quando Spalletti già traballava sulla panchina dell'Inter, ci incontrammo in un resort in Puglia. Gli dissi: dai che ti porto alla Pinetina! Lui si mise a ridere. Anche se non sembra un farfallone, Antonio si sa godere la vita".

Lei è un farfallone?

"Forse lo ero. O forse neanche quello. Spesso le persone non sono come appaiono. Al contrario di Conte, io sono molto più serio di come sembro".

Quali sono i punti di forza di questa Inter e quali i difetti?

"Antonio sta costruendo una squadra solida e vincente, a sua immagine e somiglianza. Da tifoso, ne sono davvero contento".

Questa Inter cos'ha in più, e cosa in meno, rispetto a quella dello scudetto dei record?

"Paragonare le squadre di oggi a quelle di vent'anni fa non ha senso. È cambiato tutto, tranne lo spirito. Il merito è dei due allenatori".

Il Trap e Conte. Due "gobbi" che sono riusciti a farsi amare dalla Milano nerazzurra.

"Se è per questo, il Trap aveva anche un passato milanista. Per lui conquistare il tifo nerazzurro dev'essere stato più complicato. Negli anni Ottanta il calcio si seguiva in modo viscerale. Erano i tempi del giocatore tifoso, delle bandiere in campo. Oggi l'idea che l'allenatore e il giocatore siano professionisti è più diffusa".

Gli interisti si dividono fra antimilanisti e antijuventini. Lei da che parte sta?

"La Juve in Italia non è mai stata simpatica a nessuno, tranne che agli juventini. Ma il Milan contro cui giocavo io era così forte che non potevi non sentire la contrapposizione".

Lei i giocatori del Milan li prendeva a pallonate in allenamento.

"Mica sempre! Però è vero, è successo. Il Milan di Sacchi era una squadra di giganti. Anche solo a  vederli apparivano arroganti, facevano paura. Prima dei derby facevamo riscaldamento in una piccola palestra all'interno dello stadio, tutti insieme. Appena uno di loro si girava non resistevo, partiva la pallonata".

Meglio sconfitti che milanisti. È un suo slogan.

"L'ho detto in un'intervista dopo un derby di Coppa Italia. Lo direi altre cento volte. Lo sfottò ci sta sempre, è sano, è il calcio. Un gusto che oggi si è un po' perso".

I tifosi interisti le cantavano "Nicola Berti facci un gol" a ogni tocco di palla.

"A pensarci mi vengono i brividi. Se chiudo gli occhi quel coro lo sento ancora, come l'odore del prato di San Siro. Quando quel coro, il mio coro, è stato rivolto a Diego Milito nell'anno del Triplete ho capito davvero quanto mi avevano amato i tifosi. Mi incitavano come fossi un centravanti, anche se ero un centrocampista. Al Milan, per dire, facci un gol lo cantavano a Van Basten".

Non è un po' fissato col Milan?

"Ma no! Solo che sono un interista della vecchia scuola. Sono cresciuto con i tifosi. Li vedevo a bordo campo alla Pinetina, durante gli allenamenti. Li incontravo al ristorante ad Appiano Gentile. Facevo il giro degli Inter club e lo faccio ancora. La mia Inter era quella di Peppino Prisco, e sapete tutti cosa pensava del Milan".

Oggi i campi di allenamento sono chiusi come basi spaziali, Pinetina compresa.

"È un peccato. Intorno al calcio c'è molta pressione, più polemica, un vortice di voci alimentate dai social network. Forse aprire gli allenamenti sarebbe dannoso, non so. Ma resto convinto che un giorno a settimana in cui i bambini possono godersi i loro campioni dal vivo nella quiete del campo d'allenamento sarebbe bellissimo farlo".

Voi campioni dell'88-89 avete una vostra chat?

"No, mai avuta. L'abbiamo invece con i compagni di Nazionale a Italia '90. Io leggo tutto ma scrivo pochissimo. I più chiacchieroni su WhatsApp sono Ferri e De Napoli, il nord e il sud. Comunque non serve WhatsApp per tenere i rapporti. Noi dell'Inter del Trap ci chiamiamo, alla vecchia maniera".

Lei chi è che chiama?

"Aldo Serena è un fratello. Poi Zenga, Ferri, Bergomi. Con i tedeschi ci si prova. Klinsmann è poliglotta, parla un italiano perfetto, ma è l'unico. Con Matthaeus e Brehme ci si intende in qualche modo, come facevamo quando si giocava insieme".

Il Trap lo sente?

"Il Trap è difficile sentirlo. L'ho visto al teatro alla Scala per la festa dei 50 anni dell'azienda del presidente Pellegrini. Scherzando, ho detto alla moglie: dai che è vecchio, tienilo a casa, fallo riposare! Ma è impossibile, il Trap non si riposa mai. Lo so io, figuriamoci se non lo sa la moglie".

Vinceste contro il Milan di Sacchi e il Napoli di Maradona. La Serie A può tornare a essere il campionato più bello del mondo?

"A quei livelli è impossibile. La Serie A era una sorta di Mondiale per club. Molto più della Premier League oggi, che pure ci sembra irraggiungibile. Quando passai dall'Inter al Tottenham, gli avversari mi sembravano tutti un po' scarsini. Per contro, chi arrivava dall'Inghilterra in Italia faticava. Qualche segnale di ripresa comunque lo vedo, oggi la Serie A tecnicamente è più interessante della Liga".

In proporzione guadagnavate meno di oggi?

"Non mi interessa molto, non faccio calcoli. Guadagnavamo abbastanza per vivere bene".

Senza cellulari e senza social network, eravate più o meno controllati nella vita privata?

"In generale, direi meno. Ma per me valeva un discorso a parte. Avevo la fama di essere bizzarrino e vivace, e per questo l'Inter mi faceva pedinare! Pagavano qualcuno per starmi sempre dietro, poi in allenamento mi chiedevano: cosa ci facevi in quel locale l'altra sera? La mia risposta era sempre la stessa: se in campo corro, quel che faccio la sera sono fatti miei".

La Milano degli anni Ottanta era davvero scintillante come viene raccontata?

"Ci divertivamo molto. Io davo feste memorabili. Abitavo in piazza Liberty, a due passi da Duomo. Erano anni pazzeschi".

Fidanzate celebri?

"Non si fanno nomi! Mi hanno associato anche a Uma Thurman. La verità è che veniva con me allo stadio a vedere l'Inter".

Carla Bruni?

"Ma no! Che c'entra? Ci hanno fotografato insieme a una sfilata, tutto lì".

Ha lasciato Milano per Piacenza.

"Sono originario di Salsomaggiore, ma è troppo piccola, un borgo in decadenza. La mia città è stata Milano, ma la vita è fatta di fasi, oggi per me sarebbe troppo caotica. A Piacenza ho trovato il mio equilibrio, con mia moglie e i miei due figli. Hanno 14 e 12 anni".

Giocano a calcio?

"Il grande sì, è attaccante alla scuola calcio San Giuseppe, qui in città. Il piccolo ama la boxe, e gli riesce anche bene".

Come va la quarantena?

"I ragazzi seguono le lezioni via Skype. E con la Playstation se la passano bene. Io in casa soffro, non ci ero mai stato così a lungo. Esco per fare la spesa, con guanti e mascherina, e niente più. Per il resto, lo ammetto, mi annoio".

Potrebbe giocare alla Playstation anche lei.

"Con i videogiochi ho iniziato e finito negli anni Ottanta. Mi sognavo le musichette di notte, un incubo".

Come festeggerà oggi il suo compleanno?

"Un mio amico che cucina benissimo mi manderà a casa un bel pranzo. Non vedo l'ora, la vita da recluso mi sta insegnando ad accontentarmi".

La spaventa l'idea di invecchiare?

"Ma va, dai. Si sa che funziona così, ogni anno ne hai uno in più, non si scappa. Soprattutto in un momento duro come questo, per tutti, festeggiare con la propria famiglia è un lusso".

A proposito di lusso, pensa sia giusto che in un momento come questo i giocatori si taglino gli stipendi?

"Ne prendono così tanti che è giusto, sì. Ma sarebbe bello che i soldi risparmiati andassero almeno in parte in solidarietà e ospedali".

Nel 1986, dopo l'esplosione di Cernobyl, negli allenamenti prendeste qualche cautela?

"Ma no, non mi ricordo di nulla. Avevo 19 anni, giocavo a Firenze, l'incidente ci sembrava lontanissimo, come fosse avvenuto su Marte".

Per colpa sua, e dei 7 miliardi di lire pagati da Pellegrini per il suo cartellino, fu rotto il gemellaggio fra tifoserie di Fiorentina e Inter.

"Lo so bene. La prima volta che andai a giocare a a Firenze con la nuova maglia il pubblico mi distrusse. Mi fischiarono tutta la partita, gli anziani mi tiravano monetine. Quanto mi avevano amato in viola, tanto mi hanno odiato dopo che me ne sono andato".

Come reagì agli insulti?

"Per la prima e unica volta in carriera, li soffrii. Di solito venire insultato mi dava la carica, specie se a farlo erano i milanisti. Ma quella volta no. Erano i miei ex tifosi e i miei ex compagni, tutti contro di me! In campo rispondevo agli insulti, ero una bestia, ma la verità è che mi si sgonfiarono le gambe. Dopo 25 minuti il Trap mi tolse dal campo.  Stavamo vincendo, finimmo per perdere".

I suoi compagni raccontano che lei prima delle partite era sempre il più tranquillo.

"Certo, stavo da dio, non vedevo l'ora di giocare. Se entrando in campo sorridi, l'avversario ha già perso. Dopo avere giocato invece era complicato, ero pieno di adrenalina. Soprattutto per le partite serali. Mi dicevano: vai a casa e riposati. Riposati? Ma se nemmeno riuscivo a stare seduto. Ero elettrico".

È giusto provare a ripartire con campionato e coppe?

"La salute è una cosa seria, e secondo me sarebbe più saggio aspettare settembre. In ogni caso, penso che ci proveranno. Cercheranno di giocare tante partite in pochissimo tempo, a porte chiuse, limitando i contatti delle squadre e degli staff col mondo esterno. Da un certo punto di vista, lo capisco. Il calcio, l'urlo liberatorio, il gol, mancano a tutti".

Il suo gol più bello?

"Derby 1992-1993. Prendo la palla a Maldini, faccio un tunnel a Costacurta che mi stende. Baresi mi tira la palla addosso, io mi incazzo, prendo ammonizione. Ruben Sosa si prepara a calciare la punizione. In area mi marcano in due, io lo dico ad alta voce: "Ora vi faccio gol". Palla alta, insacco di testa. Pazzesco, godo ancora oggi, anche se Gullit pareggiò dopo quattro minuti".

Poi c'è il famigerato autogol di Rossi.

"Esatto. Tiro una botta incredibile, la palla tocca la traversa, prende la nuca del portiere ed entra in porta. Autogol, secondo le stupide regole di allora. Se le deviazioni fossero state considerate come oggi, chissà quanti gol avrebbero fatto i centravanti del passato. Penso a uno come Boninsegna! Ma non ha senso guardare al passato, si guarda sempre avanti".

Nel 2014 lei ha tentato con Collovati e Galante l'avventura di Agon Channel in Albania, ma è finita presto. Che progetti ha per il futuro?

"È stata un'esperienza interessante, gli albanesi sono un bel popolo e lo hanno dimostrato aiutandoci con l'invio di medici nei giorni più duri dell'emergenza coronavirus. Quanto a me, sto bene così. Faccio l'ambasciatore dell'Inter, la squadra che amo, e mi dedico ai miei figli. Quando penso al mio futuro, penso a loro".

Da corrieredellosport.it il 12 maggio 2020. Anche Beppe Bergomi ha avuto il coronavirus. Il 56enne ex Inter lo ha raccontato nel corso di una diretta su Instagram con il conduttore e tifoso nerazzurro "Ciccio" Valenti: "Ho fatto un test sierologico, sono risultato positivo all’ICG e negativo all’IGM. A inizio marzo sono stato male, ho avuto problemi all’olfatto e alla schiena, ma non ai polmoni. Adesso la fortuna vuole che io abbia gli anticorpi, ma mi hanno spiegato che non proteggono al 100% perché il virus muta. Ma se dovessi prenderlo di nuovo, lo prenderei in forma leggera". L'opinionista televisivo ha raccontato come abbia vissuto quei momenti, seppure inconsapevolmente e senza sospettare che fosse Covid-19: "Non ho avuto paura. Però sentivo sempre freddo, mi sono fatto portare due stufette. Credevo fosse un’influenza, invece sono risultato positivo. I miei amici mi prendevano in giro e mi dicevano che ci stavo pensando troppo, ma io non stavo bene, avevo sempre dolori, ero fiacco. Non riuscivo a sedermi per il dolore alla schiena, stavo sempre in piedi. Poi dicevano che era meglio non prendere anti-infiammatori. Dopo un po’ il dolore è andato via, ma il tutto è durato 20-25 giorni. Ora sto alla grande, ho ripreso a correre. Ho fatto solamente il test sierologico, ho cercato di fare il tampone, ma mi hanno detto che dopo 30 giorni dovrei essere a posto". Bergomi confessa anche di non essersi comportato in modo corretto, sia nel suo ruolo di allenatore nell'Accademia Inter, sia in quello di commentatore televisivo: "Sono stato uno stupido, l’ho sottovalutato. Il 21 febbraio ho fatto l’ultimo allenamento e uno dei ragazzi aveva la polmonite, da lì poi non abbiamo fatto più giocato. Il 26 sono stato a Napoli a commentare la sfida con il Barcellona, poi sono stato a Perugia a vedere la sfida col Benevento. Secondo me l’ho sottovalutata prima, sono stato troppo a contatto con la gente". Tornando al calcio giocato, Bergomi commenta anche le voci di un possibile trasferimento di Lautaro Martinez al Barcellona: "Io lo terrei, ma con 110 milioni è dura tenerlo". L'ex capitano dei nerazzurri, però, sembra avere chiaro il nome del possibile sostituto del Toro: "Timo Werner. È anche compatibile con Lukaku: il belga gioca sul centrodestra, mentre l'attaccante del Lipsia parte dall'altra parte". 

Inter-Milan, da Vieri-Ronaldo a Virdis-Gullit: i migliori dieci derby della nostra vita. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it.

(Alessandro Pasini) Siamo in coda sul ponte della Ghisolfa. È un pomeriggio di marzo e c’è il sole. Strano, perché negli anni 70 Milano era sempre molto grigio topo. Comunque, all’improvviso, in zona viale Certosa, domando a mio padre: «Ma sarà forte ’sto Pizzaballa?», «Sei preoccupato?» «Sì, per lui. E poi che cognome è Pizzaballa?» Piazzale Lotto, svoltiamo a destra, vialone. Parcheggiamo davanti a San Siro. Scendiamo, entriamo, posti distinti non ancora arancio. Il tempo di sedersi sul cuscinetto nerazzurro e BANG! Dopo appena 9 minuti l’Inter è sul 3-0 grazie a: 1. clamoroso scaldabagno di Oriali lanciato da piazzale Lotto all’incrocio dei pali; 2. autogol di un certo Sabadini; 3. colpo di testa di Boninsegna. Intorno, una bolgia, anche perché i seggiolini non ci sono ancora, uno sta in braccio all’altro e sembra che sia pure entrata gente senza biglietto che ha sfondato un cancello. Morale: i milanisti stanno a pezzi; gli interisti sfoderano gesti dell’ombrello e scenografici insulti in milanese che non udirò mai più; mio padre applaude. Io, in catalessi. Immobile in piedi con la bandiera nerazzurra in mano e la mascella scesa. Nove minuti, tre a zero. Tre a zero, nove minuti. Mi state prendendo in giro? Se lo starà chiedendo anche Pizzaballa, il loro portiere di riserva oggi in campo non so perché. Negli archivi 46 anni dopo leggerò che lui, obiettivamente, c’entra poco, perché questo Milan è una squadra in crisi e l’Inter in grande forma. Meglio così. Dopo il 3-1 casuale di Chiarugi — che Giovanni Arpino sulla Stampa definirà nientemeno che «il trillo di un passero moribondo» – Mazzola fa il 4-1 prima dell’intervallo più sereno che avrei mai vissuto, Mariani nel secondo tempo timbrerà il 5-1 finale e al ritorno il ponte della Ghisolfa farà sempre schifo, ma un po’ meno. È il 24 marzo 1974. È il primo derby della mia vita. Quattro giorni dopo compirò 10 anni. Sento che non mi sono ancora ripreso.

Niente come la Champions... (2003) (Stefano Landi) Venticinque anni è l’età migliore per vedere un Milan-Inter. Un quarto di secolo alle spalle, significa avere già la pancia piena di derby. Tredici maggio 2003, semifinale di ritorno di Champions League: al fischio d’inizio c’è ancora la luce. Come solo ai grandi concerti rock. Dopo lo 0-0 dell’andata a campi (si fa per dire) invertiti, Milano non dorme da una settimana. Perché quando ti ricapita di giocarti un posto in finale con l’Inter e avere la Juventus in finale all’orizzonte. Essendo che anche i giocatori (Paolo Maldini lo confesserà anni dopo) avevano gambe molli e un’ansia da esame di maturità, la partita è di rara bruttezza. Poi come dopo un temporale, Andrij Shevchenko la sblocca al tramonto del primo tempo. Gli ultimi 45 sono in apnea, per i 77 mila appollaiati al Meazza e le altre milionate di tifosi sciolti davanti allo schermo. Ma se un gol di Sheva in tanti l’avevano messo in preventivo (con 14 gol nei derby era un incubo noto), nessuno poteva pensare che il momento che ha cambiato il curriculum di ogni milanista e interista si sarebbe consumato al minuto 87, quando, dopo il pareggio di Obafemi Martins, un portiere nato a Abbiategrasso e soprannominato «Briciolina di pane», mette il suo corpo come un passaggio a livello davanti al gol che avrebbe cambiato la storia. I capitoli che seguiranno non avranno mai quel genere di sapore.

Quei 26 tocchi del trionfo di Mou (2009) (Tommaso Pellizzari) Sì, il derby di Milano, d’accordo. Ma a quel punto, il 29 agosto 2009, eravamo già nella seconda stagione di Mourinho all’Inter. E quindi il derby vero era ormai diventato un altro, che si giocava a ogni partita: ammiratori di José contro tutti. Ecco perché quel 29’ del primo tempo resterà indimenticabile: per quei 26 passaggi senza opposizione, per quei tagli vorticosi che porteranno Eto’o a mettere il pallone sui piedi di Thiago Motta in corsa nello spazio vuoto creato alla perfezione. Semplicemente, ancora oggi il più bello degli oltre 7.000 gol segnati finora dall’Inter nella sua storia. Per quelli che avevano amato il calcio di Mourinho del Porto, del Chelsea, e che l’avrebbero amato (eccome) anche al Real Madrid, non c’era risposta migliore a tutti quelli che a José davano del catenacciaro, o al massimo del «motivatore». Spettacolo puro, invece. Il resto (a partire dallo 0-4 finale) erano dettagli da provinciali.

Gullit-Virdis: esplode la bellezza (1988) (Luca Gelmini) Il momento derby che non scordo? Le imprecazioni, anzi qualcosa di più, di Walter Zenga. Che al primo gol di Gullit (sinistro-siluro con tanto di saltello) corre come un matto verso il guardalinee mulinando le braccia. E che poi alla seconda coltellata di Virdis (palla rubata a Passarella, dribbling sul portiere e palla appoggiata teneramente in rete) resta sdraiato per terra. Walterone sconfitto, marmoreo, ha perso anche la forza di protestare. È il 24 aprile 1988, una vita fa. Ciriaco De Mita guida un governo sostenuto dal pentapartito. Non c’è il Var ma il Telebeam Rai (fatevi una ricerca su Google e scoprirete di cosa parlo). Ciocci, Altobelli e Minaudo sono i temibili attaccanti avversari. Noi siamo belli come non mai e finalmente sappiamo di esserlo. È il derby di aprile, quello della liberazione. Sette giorni dopo andiamo a vincere a casa di Maradona portandoci a casa lo scudetto, il primo dell’epopea sacchian-berlusconiana. Seduto al primo anello blu, o come diavolo si chiamava, seguo con lo sguardo solo Walterone: quanto si agita, quanto è incazzato. E pensare che per tanti come lui da lì in poi sarà peggio.

Il giorno di Beccalossi (1979) (Carlo Baroni) Ci sono giorni che i numeri dieci ti prendono in ostaggio e non c’è riscatto che tenga. Giorni di fango, sudore e gol. Giorni di derby. Il 28 ottobre 1979 era un di quei giorni. Pioveva e faceva freddo come una volta a Milano. E a San Siro le zolle verdi avevano dato appuntamento in primavera. Era un’Inter di ragazzi. L’Inter di Eugenio Bersellini. Un derby per urlare al cielo che lo scudetto in nerazzurro non voleva dire solo Mazzola e Facchetti. Era il giorno di un mancino che segnò due gol col destro. I giorni di Evaristo Beccalossi. Due a zero e il Milan a capire che per quel giorno non ce n’era.

Rivera che decide i derby cattivi (1970-1977) (Paolo Baldini) Troppo facile citare il derby del 6-0, 11 maggio 2001. Inter in casa, apre Comandini (2) poi Giunti, Shevchenko (2) , Serginho? Troppo facile citare una Partitissima, una qualsiasi, degli Invincibili? Sì, troppo facile. I derby più belli, sono quelli cattivi, difficili. Quelli che restano dentro, sognati nelle vigilie più agitate, quelli sudati, dei gol all’ultimo respiro. Quelli che assicurano una settimana da pascià in ufficio ed entrano nella storia del club anche se apparentemente significano meno. E allora diciamo che i derby più belli per me restano quelli legati alla stella di Gianni Rivera, il golden boy, l’abatino, il primo Pallone d’oro italiano (1969). Quello della stagione 1970-71 con reti di Biasiolo, Villa e del Capitano. O quello che decise la Coppa Italia 1976-77: reti di Maldera III e Braglia. La leggenda di un campione non si lega solo ai gol segnati e agli assist distribuiti. Ma riguarda il complesso della sua attività: Rivera è stato il calciatore più forte del Dopoguerra (con Baggio e Totti). Il primo a mettersi contro gli arbitri e a pagarne le conseguenze. Il primo ad entrare nel costume italiano e a finire nelle pagine dei rotocalchi. Leggenda.

Bobo e il Fenomeno: cosa sarebbe potuto essere (1999) (Domenico Calcagno) Più che per quello che è stato, il derby giocato il 23 ottobre 1999 si ricorda per quello che avrebbe potuto essere. Per la prima volta l’Inter schierava il Fenomeno Ronaldo e Bobo Vieri. Forse i migliori attaccanti del mondo in quel momento. Pronti via e i due cominciarono a mettere a ferro e fuoco la metà campo del Milan. Dopo 20 minuti i nerazzurri erano in vantaggio per un rigore di Ronaldo. Dopo altri 12, però, Ronaldo, più che altro per difendersi da Ayala, alzava il gomito e Borriello lo mandava a fare la doccia. Fu l’unica espulsione del Fenomeno e fu per certi versi la fine della partita dell’Inter. Il Milan pareggiò nel secondo tempo con Shevchenko e al 90’ segnò il 2-1 con Weah. Bene per i rossoneri male per i nerazzurri e per chi avrebbe voluto vedere la coppia di super attaccanti messa insieme da Massimo Moratti. Non sarebbe stato più bello vincere con Ronaldo in campo? Chiese il mattino dopo un giornalista a Boban. Il croato lo squadrò e rispose: con quei due in campo non avremmo mai vinto. Furono, quei 20 minuti di derby, gli unici giocati insieme da Ronaldo e Vieri.

Kaká wagneriano e Seedorf per lo scudetto (2004) (Antonio Carioti) Certe partite girano male: un paio di episodi vanno storti e tanti saluti. Sembrava il caso del derby giocato nella serata del 21 febbraio 2004. In apertura un tacco delizioso di Clarence Seedorf libera Kaká, che tira sul portiere nerazzurro Francesco Toldo. Dieci minuti dopo un corner di Dejan Stankovic rimbalza in modo strano sul terreno e finisce in rete. Poi Cristiano Zanetti raddoppia con un tiro da fuori deviato da un difensore, 0-2 per l’Inter all’intervallo. Certe partite girano male, però ci sono squadre capaci di raddrizzarle. Così all’inizio della ripresa Adriano sbaglia una facile occasione, mentre Tomasson insacca la maldestra respinta di Toldo su tiro di Seedorf. L’Inter barcolla e un attimo dopo Kaká parte di rimessa senza che nessuno riesca a frenarlo. La sua cavalcata, degna della musica wagneriana, si conclude con la botta vincente da fuori area, 2-2. Il pareggio potrebbe bastare al Milan, Roma e Juve sono staccate in classifica. Ma Seedorf, migliore in campo, al 40’ estrae dal cilindro un capolavoro balistico che gonfia la rete dalla lunga distanza. Derby al Milan, Curva Sud in delirio: il diciassettesimo scudetto si avvicina.

Quel tacco di Palacio (2013) (Roberto Rizzo) Fu un lampo di luce in uno dei derby più bui della storia. Due squadre oscure quelle in campo la sera del 22 dicembre 2013, ultimo turno di campionato prima della sosta natalizia. Era l’Inter di Campagnaro, Rolando, il «divino» Jonathan e Taider; era il Milan di Constant, Poli, De Jong e Saponara. Spente anche le Curve: la Digos aveva vietato agli ultrà rossoneri di introdurre nello stadio il materiale per allestire le coreografie. In segno di solidarietà, la Nord nerazzurra aveva sospeso il suo spettacolo. Una partita bloccata, squadre impaurite che a metà stagione erano già senza obiettivi. Poi, all’improvviso, quando mancavano 5 minuti al novantesimo, Jonathan, sulla destra, scarica su Guarin, palla in mezzo all’area rossonera e «el Trenza» Palacio che beffa Zapata (e Abbiati) con un delicato colpo di tacco. Palla in rete, 1-0 per l’Inter. Finì così il derby, non si ricorda altro. Tranne quel lampo di luce.

Il primo cinese: simbolo di una nuova era (2017) (Arianna Ravelli) Non è stato certo il derby più spettacolare, né quello che ha messo in mostra la tecnica più raffinata, e né certamente quello più importante, visto che in palio c’era un sesto tristissimo posto, anche se è vero che i tifosi milanisti si sono divertiti, con quei due gol che hanno significato 2-2 in rimonta (dal 2-0 di Candreva e Icardi), segnati dall’83’ al 97’, e per giunta da due difensori, Romagnoli e Zapata, sì Zapata, proprio lui, che infiniti lutti addusse agli achei (milanisti). Ma quello del 15 aprile 2017 è stato un derby ad altissimo tasso simbolico. Quello che ha segnato un cambio di epoca: il primo alle 12.30, il primo con due proprietà entrambe straniere, allora cinesi. E fa niente se il colosso Suning è ancora qui per crescere e costruire, mentre il cinese del Milan si è eclissato tra mille dubbi lasciando spazio al fondo Usa Elliott, il dado era tratto e il futuro era arrivato tutto d’un colpo a Milano in quel pomeriggio tiepido. Lo stesso futuro che vede le due squadre avventurarsi assieme nella costruzione di un nuovo San Siro da condividere. Un futuro che dovrà davvero impegnarsi per essere all’altezza del passato. Auguri a tutti.

Da corrieredellosport.it il 14 maggio 2020. C'è Materazzi sull'ultimo pallone di Perugia-Juventus del 14 maggio 2000, il giorno dello scudetto perso dai bianconeri e conquistato dalla Lazio. Lo tiene con il sinistro, lo protegge con il corpo, e aspetta il triplice fischio di Collina che alle 18:04 dichiara i biancocelesti campioni d'Italia. Da interista, l'ex centrale della Nazionale dà un dispiacere enorme alla Juve. Oggi, a distanza esatta di venti anni da quel pomeriggio zuppo d'acqua, Materazzi lancia l'ennesimo attacco ai tifosi bianconeri.

Materazzi, sfottò social alla Juve. E i tifosi..."Come pioveva, così piangeva… (cit. Achille Togliani). C’è chi ha il 5 maggio e chi il 14 maggio, chi quel giorno era bagnato di pioggia e chi di lacrime…" scrive Materazzi su Instagram postando una foto della partita, precisamente del duello contro Zidane, che all'epoca giocava nella Juve. Ogni riferimento a persone è puramente casuale, verrebbe da dire. Ma lo sfottò innesca le reazioni degli juventini che ricordano a Materazzi la differenza tra il 5 maggio 2002 e il 14 maggio 2000. "Non mi risulta che tu giocassi nell’Inter e che l’Inter vinse lo scudetto. Lo scudetto andò alla Lazio, proprio la stessa squadra che il 5 maggio ti fece piangere! Ti consiglio di rivederti un po’ le date ed i momenti" scrive qualcuno. Oppure: "Il problema è che tu non hai vinto né il 5 maggio e né il 14 maggio... che bello che sei quando rosichi". E ancora: "È inutile mettere i cuori nerazzurri perché la differenza è sottile ma sostanziale. Il 5 maggio lo scudetto lo ha vinto la Juve proprio contro l’Inter. Il 14 maggio lo scudetto è vero che la Juve lo ha perso contro di te a Perugia, ma a vincerlo è stata la Lazio e non la tua cara Inter. Come diceva il tuo amico, “0 tituli” anche per voi. Ripeto, differenza sottile ma sostanziale". La bufera social è di nuovo esplosa.

Da gianlucadimarzio.com il 29 ottobre 2020. “Niente più capriole, ho chiuso con il calcio giocato. Adesso cerco talenti in Africa”. Victor Obinna, una carriera in campo tra Serie A ed Europa, e tornato in Nigeria per ricominciare. Penna e block-notes, ora la sua vita è cambiata: “Qui e dove sono nato e cresciuto – racconta a Gianlucadimarzio.com -. Il mio secondo tempo doveva partire dall’Africa. Voglio impegnarmi al massimo per aiutare i ragazzi africani”. Obinna ha scelto di non allenare. La sua mente viaggia veloce, tra idee e progetti: “Giro l’Africa per guardare allenamenti, seguire partite amichevoli. Qui mi conoscono tutti. Ma quando lavoro sono discreto. Osservo senza farmi notare. È importante capire il calcio che esprime un ragazzo quando non e sotto pressione”. Dalle città industrializzate ai villaggi più poveri, l’ex attaccante di Chievo e Inter e sempre in giro: “Il mio obiettivo e togliere i giovani dalla strada per portarli nelle Academy dei club. Tante famiglie sono povere e non possono garantire un futuro ai propri figli. Se un ragazzo mi piace come gioca vado a parlargli e poi mi confronto con i genitori”. Quante lacrime. I bambini sorridono, piangono di gioia e si lasciano andare a lunghi abbracci: “Portami con te, mi dicono. Per loro sono una specie di idolo. Spesso giocano senza scarpe, anch’io ero cosi. Da piccolo aspettavo che tornassero i miei idoli Nwankwo Kanu e Taribo West per avere maglie, scarpette e palloni. Era bellissimo”. Non solo Italia, l’ex attaccante nigeriano ha giocato anche in Liga, Premier e Bundes: “Sono riuscito a realizzarmi, mi sento fortunato.” Malaga, West Ham e Darmstadt. In mezzo tre stagioni al Lokomotiv Mosca. A 18 anni fu notato in un torneo giovanile con la Nigeria U20: “Giocavamo contro Ajax, Feyenoord e altri club. Pierluigi Casiraghi, all’epoca osservatore dell’Inter, mi vide e decise di portarmi in Italia. L’Europa era come l’avevo sempre immaginata”. Nessun problema di ambientamento, subito in campo: “Ho iniziato con il Chievo, dopo tre anni sono arrivato all’Inter. Mourinho mi chiamo in estate dicendomi che aveva bisogno di me. Non dimenticherò mai quelle parole”. Julio Cesar, Zanetti, Stankovic, Crespo. Una squadra di campioni: “È stato l’anno più bello della mia vita. Vincemmo lo scudetto e io realizzai un gran gol contro la Roma. Quante capriole per esultare”. Lo Special One seguiva Obinna da vicino: “Era molto attento ai giovani. Io, Santon, Balotelli. Ci diceva di giocare il nostro calcio. Avevamo grandi maestri in campo, come Ibrahimovic. Voleva sempre vincere. Se in allenamento perdeva una partitella si arrabbiava con i compagni. Il suo bersaglio preferito era Viera”. Obinna ha lasciato il calcio giocato, ma alcuni ex compagni fanno ancora la differenza in A: “Ho conosciuto Caicedo a Malaga. Aveva tutte le carte in regola per fare bene. A Mosca ho incontrato Aleksej Miranchuk, era giovanissimo. Un talento unico. Mi ricorda Ozil in alcune sue giocate. Ha margini di crescita incredibili e Gasperini saprà aiutarlo”. Dalla Nigeria per stupire. L’Italia sta scoprendo i talenti africani: “Osimhen può diventare uno dei migliori attaccanti del campionato. Ci sentiamo spesso, mi chiama anche dopo le partite. Provo a dargli qualche consiglio, ma non vi dirò cosa ci diciamo. Si arrabbierebbe. Simy sta facendo bene già da alcuni anni. Con il Crotone può togliersi grandi soddisfazioni”. Obinna ha raggiunto il campo dove lavorerà oggi. “Devo andare, lo smartphone mi servirà per i video”. Penna e block-notes pronti. Il prossimo talento nigeriano potrebbe già essere davanti a lui.

Materazzi: “Mourinho nella finale di Madrid disse di giocare peggio”. Riccardo Castrichini il 19/05/2020 su Notizie.it. Il racconto di Materazzi della finale di Madrid e del suo ottimo rapporto con Mourinho. Il 22 maggio 2010 l’Inter veniva incoronata regina d’Europa vincendo la Champions League in finale, a Madrid, contro il Bayern Monaco. Da allora sono passati 10 anni, ma il ricordo di quelle ore, Marco Materazzi sembra non averlo perso. Come potrebbe d’altronde dimenticare quella magica annata, in mezzo a tantissimi campioni e con un cavallo di razza a guidarli, José Mourinho. Materazzi ha raccontato di quella stagione alla Gazzetta dello Sport, e la sue parole partono proprio dal tecnico portoghese: “Durante il primo allenamento abbiamo giocato subito una partitella. Il mister ci disse che le voleva a cento all’ora. Pensai che ero a fine carriera, ma almeno mi sarei divertito gli ultimi anni”.

Materazzi e il rapporto con Eto’o. Il Campione del Mondo del 2006 vira su Samuel Eto’o, uno dei principali artefici dei tre successi nerazzurri: “Samuel lo avevo affrontato nel ’99, io ero nel Perugia e lui nel Real Madrid. Già a 18 anni era fortissimo. Gli ho scritto: Vieni all’Inter che vinciamo tutto. Quando è arrivato alla Pinetina, lo guardo negli occhi e vedo la sua faccia da buono. Mi venne incontro sorridendo e ci abbracciammo come se ci conoscessimo da sempre”.

Materazzi: Mourinho e la finale di Madrid. E infine quella partita del 22 maggio 2010, la finale di Champions a Madrid, ultimo atto di José Mourinho alla guida dell’Inter. Un addio molto sofferto da tutta la squadra e da Materazzi in particolar modo: “Ricordo ancora le parole di Mou nell’intervallo, ci disse di giocare peggio perché nel modo in cui stavamo giocando avremmo fatto il gioco del Bayern che voleva infilarsi in contropiede. Erano venti giorni che imploravo di non andarsene, gli ho sussurrato: "Ti tendi conto in che mani ci lasci?". Si parlava già di Benitez, ma glielo avrei detto anche se fosse arrivato un altro allenatore”.

Gli 80 anni di Ernesto Pellegrini. «Milano ce la farà anche stavolta. L’Inter? Bastò una stretta di mano». Giangiacomo Schiavi su Il Corriere della Sera l'11/12/2020.

Il personaggio. L’imprenditore ed ex presidente nerazzurro: «Troppa gente senza un lavoro, ma Milano ce la farà. Ho sempre pregato, a mezzo-giorno e la sera: trovo nella fede la spinta a guardare avanti». Sono ottant’anni fiduciosi, seri, impegnati, sorridenti, generosi, ottimisti mai spensierati quelli che Ernesto Pellegrini conteggia al settimo piano della torre al Lorenteggio, mischiando un po’ le carte della vita, rievocando emozioni e ricordi, lasciandosi dietro una scia pulita di sentimenti che sembrano all’antica ma sono invece di straordinaria attualità. C’è la campagna dei nonni, la povertà dell’infanzia, la madre che offre un piatto caldo allo spazzacamino che non mangia da due giorni, il sogno del ragioniere diventato imprenditore, il traguardo dell’Inter, la stretta di mano che vale come un assegno circolare e c’è il coraggio di guardare avanti con due insostituibili parole: tenacia e onestà. È così che è diventato presidente di un gruppo internazionale con 9.400 dipendenti e 700 milioni di fatturato, ed è così che si prepara a nuove sfide, aziendali e magari calcistiche, perché non bisogna mai fermarsi, bisogna sempre lottare, soprattutto oggi, contro la pandemia che spaventa e contro la tentazione di tirare i remi in barca, visto che dei suo ottant’anni almeno sessanta li ha passati al timone. «Cerco di trasmettere agli altri quel che ho imparato dalla vita», dice davanti alla figlia Valentina, di cui è orgoglioso perché sa che prenderà il suo posto mantenendo l’italianità di un’azienda che guarda oltreconfine e investe in ricerca e innovazione. «Ne apprezzo le capacità e gli ideali, sarà lei il futuro della Pellegrini», annuncia.

La città. Si vede Milano dal suo ufficio, un po’ grigia, quasi cupa nei giorni d’inverno, stordita da mesi di lockdown. Ce la farà a riemergere dal buio di questa pandemia? «Milano ce la farà, ce l’ha sempre fatta. Ricordo gli anni del Dopoguerra, le fatiche, la fame, la città era come desertificata. Ma c’era anche la voglia di fare, di migliorarsi, e c’era la solidarietà, a casa si divideva quel poco che c’era..». Anche oggi è un po’ così per il presidente che rifornisce le mense aziendali di mezzo mondo e nell’89 ha cucito sulla maglia dell’Inter lo scudetto dei record. «Ogni mattina, quando arrivo in azienda, passo davanti a Ruben e penso alle persone che la crisi lascia in strada: il nostro ristorante solidale non ha mai smesso aiutare i poveri». Ruben è la restituzione di qualcosa del tanto che Pellegrini ha avuto, un risarcimento destinato a chi è rotolato in basso nella classifica della vita. Menu completo e prezzo simbolico di un euro, per salvare la dignità e allontanare l’idea dell’elemosina. Dedicato a un bracciante della sua infanzia, morto assiderato nella baracca: Ruben, dimenticato da tutti. «Avevo il rimorso di non aver potuto fare nulla per lui e l’ho ricordato così, facendo qualcosa di utile agli altri».

Il nuovo welfare. Dal 10 novembre 2014 le cene sono state 329 mila e i posti a tavola da 300 sono diventati 500. Ruben è una case history tra il cuore di Pellegrini e la responsabilità d’impresa: indica la via di un nuovo welfare. Con la pandemia la solidarietà si è allargata a intere comunità: il gruppo ha offerto gratis 55 mila pasti alle persone in difficoltà di 20 Comuni lombardi. «È lo spirito di famiglia: ci si stringe per superare le difficoltà», dice il presidente. Spirito che guarda alle cose che contano e riporta a dove tutto è cominciato: periferia milanese, Morsenchio, campi e cascine intorno a Linate. Pellegrini è nato lì. Oratorio, colonia estiva, tiri al pallone e bagni nelle cave: il mondo di ieri. «Si viveva di poco e si sognava in grande», ricorda. Genitori ortolani, le prime lire con i mazzetti di rosmarino venduti al Verziere, il mercato degli ambulanti. «Ero bravino nelle trattative arabe sui prezzi». Milano poi. Milano che vuol dire amore, come la moglie Ivana. «È stata la mia fortuna averla incontrata». Primo appuntamento nel 1968. Dove? Un ristorante, segno del destino. Ma niente è casuale nell’ascesa del futuro cavalier Pellegrini: contabile alla Bianchi, la prima mensa da gestire, il salto nell’impresa, le nuove acquisizioni. I segreti del successo? Laurà, laurà, laurà, come scrive Camilla Cederna per spiegare gli anni del boom. Ma dietro al lavoro c’è la solida base degli affetti e la capacità di fare squadra. Crede nell’amicizia, Pellegrini. Ne farà un club, per condividere ricordi e sentimenti. Il club degli amici. La domenica mattina, per anni, raduna i vecchi compagni con una partitella nel campo dove è nato: maglie, palloni e pranzo in osteria a carico suo.

Il calcio. E l’Inter? Si avvicina. Gli piace Nacka Skoglund, il mancino svedese che dribbla anche la bandierina del corner. «Lo vedevo in piazza Mercanti dove andava a farsi lucidare le scarpe e mi luccicavano gli occhi per l’emozione». È un sentimentale, ma sogna un posto in consiglio e in tribuna d’onore. Prima però compra Villar Perosa, il centro dove la Juventus di Agnelli va in ritiro e si presenta a Fraizzoli, presidente nerazzurro, con questa lettera: «Sono un giovane imprenditore che gestisce Villar Perosa, ma il mio cuore è nerazzurro…». Il presidente lo chiama e lo porta nel sancta santorum della Beneamata. Che cosa ha significato nel 1984 prendere il suo posto? «È stato come toccare il cielo. Ci siamo accordati con una stretta di mano. Basta questo, mi disse. Sapevamo entrambi che la parola data è un valore». Lo scudetto, le coppe, Rummenigge, Matthaus, Brehme, Klingsmann, la squadra dei panzer.

Con Maradona nel sottopassaggio. Indimenticabile. Nostalgia? «Un rimpianto: potevamo vincere di più, dopo quello dell’89, considero moralmente dell’Inter lo scudetto del 91-92. Dopo la partita persa con la Fiorentina mi telefonò a casa Franco Zeffirelli: presidente, le stanno rubando uno scudetto…». Emozioni e delusioni. «A San Siro ogni volta che ci torno il cuore batte forte. È la mia seconda casa. Mi ha commosso l’applauso dei mille tifosi alla ripresa del campionato, mentre passavo sotto le tribune. È stato un regalo». Rewind: anno dello scudetto. Inter-Napoli, 2-1. Dall’altra parte c’è Maradona. «Ci siamo incontrati nel sottopassaggio. “Presidente, scudetto meritato”, mi disse. La lealtà nel calcio e nella vita è sempre un bel gesto». Abbatteranno San Siro? «Mi auguro di no. Io sono per tenerlo. San Siro è un monumento che parla, come la Scala. È un pezzo della nostra storia». Cosa diremo del 2020 ai nipoti? Quanto valgono i ricordi, presidente Pellegrini? «A ottant’anni contano molto, sono valori ed esperienze: non vanno in pensione. Ci sono quelli belli, e sono tanti. Ma ci sono anche quelli tristi. Io prego, l’ho sempre fatto, a mezzogiorno e la sera. Trovo nella fede una spinta a guardare avanti». La pandemia ha reso più difficile il futuro aziendale? «In momenti come questi bisogna darsi da fare, cercare dei salvagenti. Questo è il tempo di agire, di non mollare. Quando i miei nipotini sfoglieranno le cronache di questo matto 2020 immagino che mi chiederanno: nonno, come avete fatto ad uscirne?». E lei cosa risponderà: «Il nonno con Valentina e Ivana, la tua famiglia, hanno fatto tutto quello che hanno potuto». Riassunto: nel 2020 la Pellegrini nonostante il calo di fatturato ha fatto nuove acquisizioni, ha accelerato la digitalizzazione, ha allargato i suoi confini e incrementato il business nel settore pulizie e servizi, ha messo in sicurezza e garantito stipendi a lavoratori e famiglie, ha acquistato a fianco della sede una cascina del ‘400 dove realizzare un’Accademia per cuochi con una Galleria d’arte. Infine: due istituti di ricerca l’hanno definita la migliore azienda in cui lavorare.

La speranza. Pillole di speranza. «Io credo che insieme ce la faremo a uscire da questa tempesta. Vedo molta povertà, troppa gente senza lavoro, tanti che chiedono aiuto. Come nel Dopoguerra: in cascina rubavano la legna per scaldarsi e la verdura per mangiare. Mi sento predisposto ad aiutare, ma faccio fatica a star dietro a tutti. Ci salverà l’umanità, come dice Papa Francesco, dobbiamo seminare anche la speranza». (L’ottimismo deve aver contagiato il nipotino. Si chiama Guglielmo Ernesto e alla domanda: che cosa farai da grande, risponde: «Voglio diventare come il mio amato nonno, il presidente dell’Inter». Pellegrini non smentisce. Perché l’ha venduta nel 1994? Risposta: «Sarà uno scoop, ma glielo dirò un altro 14 dicembre, quando compirò novant’anni»).

Dieci anni fa il Triplete dell’Inter che mise fine a un’epoca e alla nostra età dell’oro. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Mario Sconcerti. Il Triplete interista del 2010 è una di quelle rare date che cambiano le epoche. Se torniamo indietro di dieci anni ci accorgiamo che è cambiato tutto. Se ne sono andati dal calcio Massimo Moratti e Silvio Berlusconi, gli ultimi presidenti che gestivano le squadre di tasca propria. Questo ha fermato il calcio di Milano lasciandolo in balia di una sola squadra, la Juve. Sono arrivati presidenti stranieri portando grande freddezza nel rapporto con la gente. Sono cambiati i costi del calcio, aumentati di tre-quattro volte. È infine cambiato il calcio sul campo. Guardiola ha continuato a essere un riferimento, ma la sconfitta con l’Inter in semifinale lo portò ad abbandonare lentamente il tiki-taka e a inventare un gioco di possesso rapido e molto più verticale. E a capire che per evolversi doveva lasciare la Spagna. Quella Champions interista confermò invece che il calcio non potrà mai appartenere a una tattica unica, universale. Mourinho vinse quel triplete giocando come giocava Rocco cinquant’anni prima, gestendo i giocatori secondo l’avversario, avendo cura prima di tutto di difendersi e usando la propria modernità in un’esasperata attenzione dei dettagli, nella costruzione eterna del nemico. Credo che il triplete sia stato soprattutto merito suo. Anche l’Inter di Herrera, a cui indubbiamente Mourinho assomiglia, aveva molti più punti fermi, la sua formazione era una poesia, la scandivi a memoria come il verso di un sonetto. Quella di Mourinho è sempre stata piena di sorprese. Più che all’Inter del vecchio Moratti, questa del figlio mi ha ricordato alcuni esempi del Manchester di Ferguson, per l’ ampiezza del gioco, la semplicità e l’aggressività. Mourinho non aveva quell’anno una squadra formidabile, era un’Inter di tutti campioni ma forse di nessun fuoriclasse. La parte migliore era la difesa, quella linea con Maicon-Lucio-Samuel-Zanetti. La squadra subì mezzo gol a partita e ne segnò in media appena 1,30. Gli unici a giocare per intera la Champions furono appunto i difensori , più Julio Cesar ed Eto’o. Gli altri furono mescolati con grande abilità da Mourinho. Era più forte forse la sua Inter dell’anno prima che infatti vinse il campionato con dieci punti di distacco. L’anno del Triplete a quattro giornate dalla fine era ancora in testa la Roma di un punto, perse in casa con la Samp dopo essere andata in vantaggio. L’anno prima giocavano Ibrahimovic, Adriano, Balotelli ragazzo, Cruz, ancora Figo, Cordoba, Materazzi, Viera, Burdisso e c’erano già Cambiasso, Stankovic, Quaresma, Mancini. Non riuscirono a segnare un gol allo United ed uscirono agli ottavi. Forse anche Mourinho ha chiuso un’epoca con il Triplete. È con quella Inter che ha dato il meglio di sé. Dieci anni dopo resta un grande allenatore a cui tutti hanno fatto un po’ l’abitudine. E viene spesso esonerato come gli altri. La sua Champions fu invece uno straordinario crescendo. Cominciò con tre pareggi, due in casa, ritmo da eliminazione. Poi scoprì , convinse Eto’o a fargli strada, dette sostanza a Sneijder, trovò i gol di Pandev e Milito (nelle prime sei giornate ne aveva segnato solo uno). L’anno dell’Inter chiuse anche quelli che erano stati i grandi anni del calcio italiano tra le Champions del Milan e il Mondiale di Lippi. Siamo stati tutti costretti a voltare pagina, come se un paese intero avesse dato il suo ultimo fiato per spingere Milito nella notte di Madrid. Non abbiamo più vinto niente, siamo usciti subito da due Mondiali e a uno non abbiamo nemmeno partecipato. Forse adesso si stava ricominciando a vedere qualcosa di diverso, nel calcio e nell’Inter. Poi il futuro ci ha preso a tradimento.

Luca Pallanch per “la Verità” il 16 dicembre 2020. Il nome di Bedy Moratti è tornato sui giornali nelle ultime settimane per due notizie che l' hanno scossa profondamente: la morte della celebre modella Isa Stoppi, un' icona degli anni Sessanta, e la chiusura, a Roma, del Teatro dell' Angelo (per far posto a un supermercato!), intitolato al padre, l' industriale Angelo Moratti, fondatore della società petrolifera Saras e presidente della grande Inter di Mazzola. Gli affetti personali e la passione per il palcoscenico si intrecciano, offrendo lo spunto per ripercorrere alcuni momenti della sua vita, mai banale.

Mentre tutti hanno rimarcato la bellezza di Isa Stoppi, lei ha voluto ricordare la sua bontà.

«Riconosco le persone buone perché, purtroppo, non sono estranea al dolore. Mi rendo conto immediatamente se la persona che ho di fronte è buona. Isa lo era: non l' ho mai sentita dire una parola meno che gentile nei confronti degli altri. Era sempre disponibile. Aveva sposato il mio primo marito, Gian Germano Giuliani, e ci siamo conosciuti nel suo periodo magico.

Era una donna di una bellezza straordinaria, strana, originale, autentica, ma faceva una vita tranquillissima, senza eccessi. L' ho chiamata un po' di tempo fa, non stava bene e le ho detto che doveva riprendersi perché, essendo la donna più bella del mondo, era necessaria al mondo. La sua bellezza era luminosa: faceva piacere vederla».

Altra brutta notizia: ha chiuso il Teatro dell' Angelo.

«Il mio teatro! L' ho fatto materialmente io. Cercavo una sala per le prove, ho pensato: "Poi l' affitto e faccio un po' di soldi", pur essendo incapace per queste cose, e ho trovato questo spazio incredibile. Era una sala da ballo degli anni Trenta, un po' sottoterra, con due scalinate bellissime, abbandonata da cinquant' anni, però meravigliosa. L' ho presa in affitto, l' ho rifatta completamente ed è diventata il più bel teatro di Roma. Modernissimo, con una cupola di vetro che si chiudeva, aveva solo 100 posti perché non si poteva fare di più. Poi mi sono lasciata con il marito di Roma (Enrico Piacentini, ndr), sono tornata a Milano e l' ho dovuto lasciare».

È vero che l' ha inaugurato Vittorio Gassman?

«L' ha inaugurato in questo senso: il teatro non era ancora pronto e abbiamo organizzato una conferenza stampa per presentarlo e per promuovere lo spettacolo Moby Dick, che Gassman avrebbe poi portato a Genova, nel quale c' ero anche io. Eravamo sette-otto attori su un palco improvvisato. Mi ricordo che Gassman, un amico, è salito in alto su una scaletta per attaccare i fili!».

A Milano come aveva cominciato a fare teatro?

«Ho fatto la scuola del Piccolo. Quando mi sono separata dal mio primo marito, mi sono iscritta perché un professore del Piccolo mi ha detto: "Tu hai una bellissima voce. Dovresti recitare". Ho avuto come compagne Ivana Monti e Andreé Ruth Shammah. Il primo spettacolo che ho fatto è stato al Teatro San Babila con Ernesto Calindri. Ne ho fatti due-tre con lui e poi sono andata a Roma».

Come hanno preso in famiglia questa sua scelta?

«In casa mia c' era l' assoluta libertà, bastava comportarsi bene. I miei genitori erano persone straordinarie. Poi ero già separata, avevo una figlia piccolina».

A Roma è venuta per fare teatro o per tentare la carriera cinematografica?

«Per fare teatro. A me il cinema non interessava molto. Ho fatto una quindicina di film, qualcuno anche bello, però la mia passione era il teatro. Un film bello era Pianeta venere di Elda Tattoli, presentato alla Mostra di Venezia. Posso fare solo un appunto: la mancanza di senso dell' umorismo. In un film sulle donne, il primo sul femminismo, un po' di ironia ci sarebbe stata bene».

Il suo primo film è stato Revenge di Pino Tosini.

«Non ci credo che ci sia ancora qualcuno che si ricordi di questo film. Non ne ho mai saputo più nulla. Mi ricordo solo che dovevo fare una scena vestita dentro l' acqua e io, che obbedivo ciecamente agli ordini, mi sono buttata in piscina: avevo un vestito bellissimo che poi ho dovuto buttare via... non credo che avessero i soldi loro per darmi un vestito. Eravamo sul lago di Garda. È stato il mio primo contatto con il cinema».

Quali altri film ricorda negli anni Settanta?

«La città del sole di Gianni Amelio, con il quale ho fatto una particina anche ne L' intrepido. Era bellissimo: l' abbiamo girato a Matera, quando ancora c' erano le grotte abbandonate e io interpretavo una maga che viveva in una di esse. Il protagonista era il bravissimo Giulio Brogi. Poi Identikit di Giuseppe Patroni Griffi, nel quale ho girato una scena con Elizabeth Taylor: dovevamo stare una di fronte all' altra e ha preteso che mi levassi i tacchi perché sennò sarei stata più alta di lei! Poi ricordo Una storia d' amore di Michele Lupo per una scena pericolosissima in cui scendevo di corsa dalle scale con i tacchi, ma soprattutto perché durante le pause Anna Moffo, la soprana protagonista del film, faceva gli acuti e tremavano le finestre!».

Un altro bel film è ...a tutte le auto della polizia... di Mario Caiano.

«Interpretavo la mamma di una ragazzina che era stata uccisa, dovevo piangere... cosa che detesto fare in un film. Mio marito era Gabriele Ferzetti, grande attore di teatro».

Dopo questo film del 1975, per una quindicina d' anni non ha più lavorato nel cinema.

«Ho fatto teatro e anche televisione, per esempio qualche puntata di Un posto al sole, proprio agli inizi della soap opera. Poi ho smesso per un po' e ho ripreso con il teatro».

Senza rimpianti per il cinema?

«Avrei potuto fare molto di più, se avessi avuto qualcuno che mi sapesse dirigere bene, che mi spiegasse bene cos' è il cinema, ben diverso da quello che pensavo io. In teatro ho imparato perché Giancarlo Cobelli era eccezionale nell' insegnare quelle piccole cose dalle quali capivi di poter intraprendere la carriera di attrice. Ti spiegava una cosa e tu dicevi: "Accidenti! Ha perfettamente ragione. Da questo momento ho capito tutto". È il più grande regista con il quale ho lavorato. Ho avuto altri compagni di lavoro bravissimi, come Giampiero Cicciò e Paila Pavese. Avevo una vera passione per il teatro: ho studiato in continuazione. Quando sono andata a Roma, di giorno lavoravo, la notte studiavo. Mi piaceva veramente».

Il teatro dà più soddisfazione a un attore rispetto al cinema...

«È un' altra cosa. Percepisci le reazioni del pubblico, senti tutto dalla sala, capisci se vai bene o se vai male. Ho visto attori molto bravi intimoriti dal pubblico, una paura giustificata e giusta. Non so perché, ma io non ho mai avuto paura».

Nemmeno i grandi attori con cui ha calcato il palcoscenico le incutevano timore?

«No, la gente con me era carina».

I suoi fratelli venivano a vederla a teatro?

«Spesso. In uno dei primi spettacoli, mio fratello Gian Marco, con sua moglie Letizia, era venuto a vedere le prove. Evidentemente il regista era un attimo alterato e ha cominciato a picchiarmi per farmi capire quello che avrei dovuto subire in quella scena, ma andava giù pesante, per cui vedevo in platea mio fratello con gli occhi di fuori! Io facevo finta di niente: "È una scena, dopo si cambia!"».

La passione per l' Inter ha accompagnato la sua vita...

«Avevo una decina di anni quando mio padre prese l' Inter. Io stavo in collegio, a Montreux. Quando sono tornata a casa, avevo 14 anni e ho cominciato a seguire la squadra. Sono andata ovunque e sono stata presente a tutte le vittorie dell' Inter. Poi, nel periodo in cui ho vissuto a Roma, l' Inter non era più di mio padre».

Era il periodo di Ivanoe Fraizzoli e poi di Ernesto Pellegrini.

«Finché, mentre ero a Trieste per uno spettacolo, ho visto in televisione che mio fratello Massimo aveva acquistato l' Inter. Sapevo delle sue intenzioni, ma il caso ha voluto che lo sapessi in un teatro. Ero tutta contenta!».

Il giocatore che ha amato di più?

«Del periodo di papà Luis Suárez e Mario Corso erano i miei preferiti, due campioni veri. Della squadra di Massimo tutti avevano qualcosa di speciale. Poi, nonostante oggi sia al Milan, adoro Zlatan Ibrahimovic: è un fenomeno, una forza della natura. Anche se non dovrei dirlo».

Che ricordi ha di José Mourinho?

«Sono sempre andata con la squadra nei vari ritiri, nelle amichevoli, quindi Mourinho l' ho conosciuto bene, lo vedevo spesso. È una persona molto intelligente, un gran lavoratore e un fine psicologo, per cui era amatissimo. Qualche volte abbiamo sentito delle urla dallo spogliatoio: sapevamo che era Mourinho che li stava strigliando e che avremmo vinto di sicuro. Un grande personaggio. Un altro allenatore che ho amato molto era anche Roberto Mancini: anche lui ha vinto tanto con noi».

Quando suo fratello ha venduto la società, è stato un dispiacere per tutta la famiglia?

«Era il momento giusto. Lo capisco perfettamente: avevamo vinto tutto ed era molto impegnativo per lui».

Tra tantissime vittorie, la più grande delusione? «Ai tempi di papà quando abbiamo perso a Lisbona contro il Celtic la finale di Coppa dei campioni, nel 1967. Con Massimo abbiamo vinto tutto. Le delusioni potevano essere perdere con la Juve o con il Milan».

C'è stata la beffa del 5 maggio 2002, con la sconfitta all' ultima giornata di campionato contro la Lazio.

«È stato drammatico perché vedevo i nostri giocatori veramente nella disperazione, per non parlare dei tifosi: sembrava un suicidio di massa! È stato veramente pesante. Non abbiamo mai capito il perché di quella sconfitta: i nostri erano carichissimi, ma il calcio, si sa, è imprevedibile».

Inter, il Triplete ieri e oggi: cosa fanno gli eroi Zanetti, Milito, Eto'o e tutti gli altri 10 anni dopo? I protagonisti della cavalcata del 2010 a confronto con i loro sé più giovani. Maria Strada il 22 maggio 2020 su Il Corriere della Sera.

José Mourinho. José Mourinho è l’artefice principale del (finora) unico Triplete italiano. La sua Inter 2009-10 è un prodigio di concretezza e intelligenza tecnico-tattica. Il vero colpo del «miracolo» la squadra lo mette a segno in estate: la cessione di Ibrahimovic al Barcellona in cambio di 46 milioni di euro più Samuel Eto’o. Quest’ultimo, sbolognato dai catalani come fosse un «quarto di bollito», si rivelerà decisivo per vincere tutto. Quell’Inter vincerà lo scudetto sulla Roma (82 punti per i milanesi, 80 per i capitolini, in un emozionante finale), la Coppa Italia (1-0 all’Olimpico, esorcizzando anche la data del 5 maggio) sempre sui giallorossi, e arriverà alla finale di Champions League dopo aver resistito nel ritorno di semifinale agli assalti del Barça al Nou Camp (3-1 a San Siro e 0-1 in Catalogna). Nella finalissima di Madrid il 22 maggio due gol di Milito liquideranno il Bayern Monaco di Van Gaal. Sono passati dieci anni: come sono diventati quei campioni?

Javier Zanetti. Javier Zanetti è all'Inter (e per certi versi è l'Inter) dal 1995, dal 2014 non più in campo ma come vicepresidente. Per lui 858 presenze in nerazzurro.

Samuel Eto’o. Samuel Eto’o si è ritirato dal calcio giocato lo scorso settembre annunciandolo con un post su Instagram: «The end...vers un nouveau défi», in un mix di inglese e francese («la fine...verso una nuova sfida», il significato in italiano). All’età di 38 anni, uno dei centravanti più forti degli ultimi decenni, ha detto addio dopo oltre 20 anni di carriera, dall’esordio del 1998 con la maglia del Real Madrid, in Liga, fino alle ultime prestazioni con il Qatar Sports club. Il suo nome resta legato indissolubilmente all’Inter 2010.

Diego Milito. Diego Milito il 5 maggio segna il gol decisivo in finale di Coppa Italia contro la Roma, il 16 contro il Siena il gol che regala lo scudetto all'Inter, il 22 la doppietta decisiva nella finale di Champions League contro il Bayern Monaco. Basta? Conclude la stagione con 30 gol in 52 partite. Rimarrà in nerazzurro fino al 2014, poi altre due stagioni in patria, al Racing Club, dove adesso è segretario tecnico. Il «Principe», 40 anni, è stato anche lo «sponsor» di Lautaro Martinez.

Julio Cesar. Monumentale per tutta la stagione, stellare nella notte del Camp Nou quando, con un super intervento su Leo Messi, salva la porta, il risultato e la conseguente finale vinta. Adesso, 40enne, studia per diventare un procuratore/agente sportivo.

Ivan Cordoba. Il colombiano, 43 anni, ha lasciato il calcio giocato nel 2012 e ha fatto parte della dirigenza dell’Inter fino al 2014, per poi dedicarsi a una carriera da procuratore.

Cristian Chivu. Come Zanetti, anche Cristian Chivu è rimasto in casa. Ritiratosi nel 2014, è diventato allenatore delle giovanili, parendo dall'Under 14. Adesso guida l'Under 17.

Marco Materazzi. Marco Materazzi invece si è trasferito in India, al Chennai, diventando anche allenatore prima di ritirarsi e conquistando il titolo nazionale nel 2015. Adesso è tifoso e uomo sempre amato dai nerazzurri.

Lucio. Lucio nel 2012 ha lasciato l'Inter per passare alla Juventus dove però non ha avuto successo. A gennaio torna in Brasile (San Paolo, Palmeiras, Goa, Vasco Da Gama e Brasiliense). Il difensore, 41 anni, si è ritirato a gennaio.

Maicon. Maicon attualmente è svincolato. Il difensore 38enne fa parte di quella rosa di giocatori che ha lasciato Appiano Gentile nel 2012. Dopo, esperienze in Inghilterra con il Manchester City, in Italia con la Roma, e poi in Patria con Avaì e Criciùma.

Walter Samuel.

Esteban Cambiasso. Esteban Cambiasso ha lasciato Milano nel 2014 e si è trasferito in Premier League, al Leicester, mancando però per una stagione il miracolo della vittoria del titolo. Infatti quando è arrivato Ranieri, lui era in Grecia, all'Olympiacos. Ha il patentino di allenatore, agli ultimi Mondiali era nello staff della Colombia. Adesso è commentatore a Sky.

Thiago Motta. Due anni dopo il Triplete Thiago Motta è passato al Paris Saint-Germain dove ha giocato fino al 2018. Subito si è messo a guidarne le giovanili mettendosi in luce: nel 2019 ha debuttato nella nostra serie A, chiamato dal Genoa, ma finendo esonerato prima della fine dell'anno solare.

Goran Pandev. Goran Pandev è ancora in piena attività. L'attaccante macedone, 36 anni, è in forza al Genoa. Nei programmi questa avrebbe dovuto essere la sua ultima stagione, ma sembra ci abbia ripensato.

Sulley Muntari. Sulley Muntari al momento è svincolato. Il centrocampista ghanese, 36 anni, ha lasciato l'Inter nel 2012 per passaer al Milan, poi ha giocato in Arabia (Al-Ittihad), nel Pescara e in Spagna con Deportivo La Coruña e Albacete.

Dejan Stankovic. Dopo 9 anni all'Inter, Dejan Stankovic si è ritirato nel 2013. Il centrocampista serbo, oggi 41enne, ha lavorato all'Udinese come vice di Andrea Stramaccioni, per poi tornare all'Inter come club manager e come tecnico delle giovanili. Adesso guida la Stella Rossa in Patria dove è in testa al campionato con 11 punti sui rivali del PArtizan Belgrado (la Super Liga, sospesa a marzo per l'emergenza coronavirus, dovrebbe ricominciare il 29 maggio).

Davide Santon. Il 19enne Santon partecipa a tutte le competizioni, in quella stagione. Rimane ad Appiano Gentile un altro anno, poi finisce in prestito al Cesena, va al Newcastle, torna all'Inter per tre anni e ora è una delle colonne della Roma.

Mario Balotelli. Mario Balotelli, come Davide Santon, aveva solo 19 anni nel magico anno 2009/10. Ma era all'Inter già da tre stagioni. Quella fu l'ultima in nerazzurro: il suo caratteraccio e i suoi comportamenti lo hanno portato a girare il mondo calcistico, o almeno, l'Europa, ,a senza più ottenere gli stessi successi. È passato da Manchester City, Milan, Liverpool, Nizza, Olympique Marsiglia e ora ci sta riprovando al Brescia.

Wesley Sneijder. Inter fino al 2013, poi l'esperienza turca al Galatasaray, il Nizza e una stagione al Al-Gharafa, in Qatar. Si è ritirato in agosto: Wesley Sneijder, 35 anni, adesso lavora con la dirigenza dell'Utrecht.

Francesco Toldo. Per il portiere italiano, oggi 48enne, solo tre presenze in stagione, tutte in Coppa Italia, e la fine della carriera con un Triplete coi fiocchi. Francesco Toldo poi è rimasto legato alla società curando i progetti Inter Forever e Inter Campus. Intanto, con la Nazionale vanta esperienze nello staff dell'Under 20 e dell'Under 21.

Ricardo Quaresma. Ricardo Quaresma, oggi 37enne, fioca ancora in Turchia. Il Triplete, per quanto riguarda l'Italia, non gli ha portato bene. Lasciata l'Inter subito dopo, ha militato poi nel Besiktas, nell'Al-Ahli (Emirati arabi), nel Porto e ora è in forza al Kasimpasa.

Sneijder shock: ''La bottiglia di vodka era la mia migliore amica''. L'ex Inter ha svelato dettagli inediti della sua carriera e del periodo vissuto a Madrid nell'autobiografia a breve in uscita .Antonio Prisco, Sabato 27/06/2020 su Il Giornale. "Non mi rendevo conto che la bottiglia di vodka era diventata la mia migliore amica", è la rivelazione choc di Wesley Sneijder, contenuta nella sua autobiografia, a breve in uscita in Olanda. Un talento puro con un'anima ribelle era così Wesley Sneijder, la stella ammirata nell'Inter di Mourinho. Una carriera fulminea, iniziata con la maglia dell'Ajax poi proseguita al Real Madrid prima di approdare in nerazzurro e vincere il Triplete e la Coppa del mondo del club. La vittoria sfiorata con la maglia olandese ai Mondiali in Sudafrica poi la rapida discesa verso il basso in campo e nella vita personale, in cui matrimoni burrascosi ed eccessi legati all'abuso di alcol diventano una triste costante. A raccontarlo è lo stesso ex trequartista olandese attraverso le pagine di 'Sneijder': l'autobiografia scritta a quattro mani con il giornalista Kees Jansma, e in uscita in Olanda nei prossimi giorni.

Gli anni al Real Madrid. Quando Sneijder arrivò in Spagna nel 2007, proveniente dall’Ajax, aveva solo 23 anni, ma era già considerato uno dei giovani talenti emergenti del calcio europeo. Quello che per tutti era da sempre un sogno, per lui si rivelò ben presto si un incubo. ''Non ero consapevole del fatto che trasferirmi al Real significava anche trasferirmi nella vita notturna di Madrid e ne sono stato risucchiato. Ero giovane, mi stavo godendo il successo e adoravo tutta quell’attenzione. È lì che le cose hanno cominciato ad andare storto nella mia vita''. Poi le sirene della movida cominciarono a sedurlo e fu l’inizio della fine. ''Non facevo uso di droghe – ci tiene a puntualizzare l'ex calciatore – ma bevevo parecchio ed essendo una delle stelle del Real Madrid, conducevo una vita spericolata, ma tutto quello che facevo veniva coperto, anche quando ero completamente ubriaco e mi trascinavo per le strade, spendendo migliaia di euro per pagare da bere a tutti in ogni locale. Ero un debole e non facevo resistenza, lasciando che le persone mi trattassero come una star''.

I due matrimoni falliti. Stanca dello stile di vita dissoluto del marito la prima moglie di Sneijder, Ramona Streekstra, chiese il divorzio e se ne andò via con il figlio Jessy e pure il secondo matrimonio con la modella Yolanthe Cabau ha avuto qualche anno dopo lo stesso epilogo. ''Non mi rendevo conto che la mia migliore amica era la bottiglia di vodka – confessa ancora Sneijder nel suo libro – e me lo hanno fatto capire gli altri. Ruud van Nistelrooy e così pure Arjen Robben mi martellavano, dicendomi di darmi una regolata o non avrei resistito a lungo continuando di questo passo. Non ero concentrato e il mio atteggiamento professionale non era degno del Real Madrid, mentivo a me stesso dicendomi che stavo facendo bene, ma in realtà sono riuscito a rimanere in squadra solo grazie alla mia intelligenza calcistica, perché fisicamente stavo precipitando''.

Il declino e i rimpianti. ''Ho avuto un sacco di amici sbagliati, donne e alcool – ammette l'ex interista – e la mia vita mi è sfuggita di mano in un modo terribile. Non so cosa mi abbia spinto a fare tutto questo... L’ego? I soldi? Il potere? La lussuria? Quando mi sono ripulito, ho confessato tutto a Yolanthe, la mia seconda moglie, e adesso soffro perché lei vive negli Stati Uniti. Era la donna dei miei sogni, ma l’ho persa perché ho rovinato tutto''. Il declino è rapido anche in campo: gli anni in Turchia con il Galatasaray, l'esperienza lampo con il Nizza prima di chiudere la carriera in Qatar. Un epilogo davvero triste per un calciatore del suo talento ma dopo tutto lo stesso Wesley ha sempre ricordato: "Se mi fossi impegnato al massimo sarei stato ricordato come un giocatore forte tanto quanto Ronaldo e Messi...''.

Simona Marchetti per gazzetta.it il 27 giugno 2020. La bottiglia di vodka come migliore amica è costata a Wesley Sneijder il Real Madrid e gli ha pure fatto saltare due matrimoni. “Non ero consapevole del fatto che trasferirmi al Real significava anche trasferirmi nella vita notturna di Madrid – ha raccontato infatti l’ex Inter nella sua biografia, ripresa dal Mirror – e ne sono stato risucchiato. Ero giovane, mi stavo godendo il successo e adoravo tutta quell’attenzione. È lì che le cose hanno cominciato ad andare storto nella mia vita”. Quando Sneijder è arrivato al Bernabeu nel 2007, proveniente dall’Ajax, aveva solo 23 anni, ma era già considerato uno dei giovani talenti emergenti del calcio europeo. Poi le sirene della movida lo hanno sedotto ed è stato l’inizio della fine. “Non facevo uso di droghe – ha puntualizzato l’ex Nazionale olandese – ma bevevo parecchio ed essendo una delle stelle del Real Madrid, conducevo una vita spericolata, ma tutto quello che facevo veniva coperto, anche quando ero completamente ubriaco e mi trascinavo per le strade, spendendo migliaia di euro per pagare da bere a tutti in ogni locale. Ero un debole e non facevo resistenza, lasciando che le persone mi trattassero come una star”.

MIGLIORE AMICA—   Stanca dello stile di vita dissoluto del marito che, insieme alla vodka, si stava bevendo anche la sua carriera calcistica, la prima moglie di Sneijder, Ramona Streekstra, chiese il divorzio e se ne andò via con il figlio Jessy e pure il secondo matrimonio con la modella Yolanthe Cabau è finito (da poco) allo stesso modo. “Non mi rendevo conto che la mia migliore amica era la bottiglia di vodka – ha confessato ancora Sneijder nel suo libro – e me lo hanno fatto capire gli altri. Ruud van Nistelrooy e così pure Arjen Robben mi martellavano, dicendomi di darmi una regolata o non avrei resistito a lungo continuando di questo passo. Non ero concentrato e il mio atteggiamento professionale non era degno del Real Madrid, mentivo a me stesso dicendomi che stavo facendo bene, ma in realtà sono riuscito a rimanere in squadra solo grazie alla mia intelligenza calcistica, perché fisicamente stavo precipitando”.

AUTOCRITICA—   E così, pur vincendo la Liga nella sua prima stagione a Madrid, dopo un anno il Real mise l’olandese alla porta, svendendolo all’Inter, dove rimase quattro anni, conquistando lo storico Triplete (campionato, Champions League e Coppa Italia) nel 2010 con José Mourinho, per poi trasferirsi al Galatasaray, dove ha giocato altre quattro stagioni, e passare quindi al Nizza e infine all’Al-Gharafa in Qatar, prima di chiudere definitivamente con il calcio l’estate scorsa. “Ho avuto un sacco di amici sbagliati, donne e alcool – ha detto ancora Sneijder – e la mia vita mi è sfuggita di mano in un modo terribile. Non so cosa mi abbia spinto a fare tutto questo... L’ego? I soldi? Il potere? La lussuria? Quando mi sono ripulito, ho confessato tutto a Yolanthe, la mia seconda moglie, e adesso soffro perché lei vive negli Stati Uniti. Era la donna dei miei sogni, ma l’ho persa perché ho rovinato tutto”.

L’Inter e il Triplete, «quella sera sono tornato adolescente». Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Beppe Severgnini. Mettere ordine nei ricordi. Anche a questo serve lo strano periodo che stiamo vivendo, questa reclusione sanitaria e sentimentale. Dieci anni fa - il 22 maggio 2010 - l’Inter batteva il Bayern Monaco allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, vinceva la Champions e - avendo già vinto scudetto e coppa Italia - conquistava il Triplete. Nessuna squadra italiana ci è mai riuscita, anche se un’altra ci ha provato in tutti i modi; ma a Torino il Triplete non è arrivato. A Milano, sì. E sulla sponda giusta. Sono partito per Madrid senza mio figlio Antonio, allora diciassettenne, in altre faccende affaccendato. Questo è l’unico rimpianto. Per il resto, tutto perfetto. Il viaggio, gli amici, l’attesa, la città. Ricordo i tifosi tedeschi che, alla Puerta del Sol, sfilavano con una riproduzione cartonata della Coppa dalle grandi orecchie. A quel punto ho capito: avremmo vinto noi. L’ansia se n’è andata di colpo. C’era solo l’attesa della gioia. Ho visto la partita con Mr Longfield, Alfredo Pratolongo di Heineken, e Matteo Dore, allora direttore di Sportweek, dove negli anni Duemila avevo tenuto una rubrica. Il primo era silenzioso e concentrato, il secondo trasfigurato. Io, tranquillo. Non mi era mai successo in un incontro così importante, e non sarebbe successo più. Altre due partite meravigliose che ho visto allo stadio sono state la semifinale dei Mondiali contro la Germania a Dortmund e la finale di Berlino contro la Francia, nel 2006: lì, non ero così sicuro. A Madrid, il 22 maggio 2010, tranquilissimo. L’Inter è una forma di allenamento alla vita. E la vita di un tifoso ogni tanto regala momenti meravigliosi. Ricordo i colori, il pomeriggio castigliano, lo stadio storico dove non avevo mai messo piede. Mi ero portato la sciarpa nerazzurra più amata, di lana. Ho una foto, dopo il primo gol di Milito - dai-e-vai con Sneijder, colpo sotto morbido - in cui la tendo in alto, come uno stendardo, a braccia larghe. Il sudore segna la camicia, sembro un teenager eccitato in un concerto pop. C’è qualcosa di adolescenziale nel calcio: una regressione consentita e consolante, se non supera certi limiti. L’Inter di Mourinho correva, scattava, giocava, passava la palla, inventava, ripartiva, non aveva paura: perché mai avremmo dovuto averne noi sugli spalti? Il Bayern ha avuto diverse occasioni - nel secondo tempo ne ricordo due clamorose, di Müller e Robben, parate di Julio Cesar - ma non riuscivo a preoccuparmi. Era la nostra notte - quella che un tifoso aspetta da sempre, e riconosce quando arriva. Poi è arrivato il secondo gol di Diego Milito - il trentesimo della stagione, se non ricordo male - che è partito a sinistra, si è fumato il difensore con due finte e ha messo di destro nell’angolo distante. Non un tiro forte: una carezza bianca, una constatazione. Il principe Milito era un centravanti argentino, letterario, elegante, coi piedi guantati: che soddisfazione per lui, che gioia per noi. A quel punto hanno capito tutti, italiani e tedeschi: avevamo vinto noi. Da quel momento, i miei ricordi sono una nebbia gioiosa. Le urla, i salti, i cori, la premiazione, la ressa continua - un ricordo onirico, in questi giorni di “distanza sociale”. Infine l’uscita dal Bernabeu, dove avevano preparato una parete con lo stemma dell’Inter e la scritta CONGRATULATIONS: sfondo ideale per le fotografie. C’è un’immagine in cui alzo tre dita della mano destra: Triplete! Ho preteso che la mia ombra contro il muro finisse sulla copertina di Eurointerismi (Rizzoli, 2010), il libro con cui chiudevo il mio racconto dell’odissea nerazzura, iniziato in un giorno triste d’inizio maggio, otto anni prima. Missione compiuta!, ho pensato. Poi ho capito che il Triplete lo avevano vinto i giocatori dell’Inter, Mourinho, Moratti. Io non avevo fatto proprio niente. Ma che importa? Gli adolescenti non hanno bisogno di scuse, quando vogliono essere felici.

Da sport.sky.it il 22 maggio 2020.(...) Ma tornando a Kiev...Sì, ero molto arrabbiato in quell'intervallo e feci i cambi tattici giusti, un cambio totale perché neanche il pareggio bastava. E la squadra nel secondo tempo fu fantastica. Fu il momento chiave, non eravamo mai stati così vicini a essere eliminati. Milito grande protagonista di quella Champions a partire dal gol fondamentale a Kiev... Ci racconti quell'intervallo, quando eravate quasi fuori dalla Champions? Avevo visto gente triste e io odio gente triste quando c'è ancora tanto da giocare. Io ho pianto tante volte dopo le grandi vittorie, ma solo una volta dopo una sconfitta, perché questo non mi piace.

Un altro videomessaggio da Walter Samuel: "L'impresa storica che abbiamo fatto ci legherà per sempre e non ce l'avremmo fatta senza la sua guida. Mi auguro in futuro di poter bere insieme un bicchiere di vino..."

Sempre bello rivedere i miei ragazzi. Oggi mi sento con voi ma mi sento come il rappresentante dei giocatori. Non mi vedo come "Speciale", sono solo un rappresentante dei giocatori.

Spazio ora ai messaggi della "famiglia": il primo è un videomessaggio di Zanetti. "Ti mando un forte abbraccio come quello che ci siamo dati dopo la finale. Ti voglio bene, Mister". Sapete perché rido? Perché anche a 40 anni e senza parrucchiere questo ragazzo ha sempre i capelli perfetti...Massimo Marianella, invece, ha una curiosità: c'è stato qualche brivido in quel percorso, eppure a Madrid la sensazione era che l'Inter non potesse perdere la finale. Anche tu la avevi? Sono d'accordo. Certo, a Kiev all'85° eravamo fuori dalla Champions, con il Chelsea fu difficilissima e a Barcellona con il rosso a Thiago tutti pensarono che eravamo fuori. Però a Madrid avevamo la sensazione che la coppa era nostra. Dio aveva deciso che era nostra... E quel senso di "famiglia interista", lo ripeto, è stato fondamentale. La gente si sentiva a casa, in quella Inter di Moratti. Io non sono nato interista, ma quando arrivi in quella Inter, con quei princìpi, ciò fa sentire il gruppo speciale, un gruppo cresciuto nelle difficoltà della stagione che non fu solo Champions League ma anche difficoltà: il pareggio a Firenze con cui la Roma ci sorpassò, gli infortuni, le squalifiche, ma abbiamo avuto sempre questa forza che è quella di un gruppo di amici.

Inter, 10 anni fa la Champions League. Branca "Ecco com'è nato il Triplete". L'ex dirigente dell'Inter, in esclusiva per ilgiornale.it, ha ripercorso la conquista della Champions League e del Triplete incensando Moratti, Mourinho: "Una gioia indescrivibile". Marco Gentile, Venerdì 22/05/2020 su Il Giornale. Oggi, 22 maggio, è una data importante per l’Inter e i suoi tifosi: 10 anni fa allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid la squadra di José Mourinho sconfisse per 2-0 il Bayern Monaco di Louis van Gaal vincendo la terza Champions League della sua storia. Non solo, perché in virtù della conquista del campionato e della Coppa Italia ai danni della Roma allenata da Claudio Ranieri l’Inter riuscì nell’impresa storica di completare il Triplete, cosa successa a pochi club in Europa. Quella squadra fece sognare milioni di tifosi ed era composta da grandi personaggi in campo e fuori: a partire dal presidente Massimo Moratti, fino ad arrivare al direttore d’orchestra José Mourinho, al collante tra società e calciatori Lele Oriali, a capitan Zanetti e tutti i calciatori della rosa nerazzurra e a colui che costruì, insieme alla società, una squadra che potesse competere ai massimi livelli come poi è stato: Marco Branca che ha vinto quindici titoli nella sua esperienza da direttore dell’area tecnica del club meneghino. L’ex dirigente dell’Inter, dal 2002 al 2014, in esclusiva per ilgiornale.it ha ricordato quei grandi momenti passati in nerazzurro con la conquista del Triplete, ha parlato del presidente Massimo Moratti, di José Mourinho e di tanto altro ancora:

Branca, sono già passati dieci anni dalla conquista di quella Champions e di quel Triplete: che effetto le fa ripensare a quei momenti?

"Devo dire la verità, non mi fa molto effetto. Forse perché ho vissuto emozioni talmente forti e raggiunto traguardi bellissimi che questi ricordi restano sempre vivi in me in maniera indelebile”.

Lei insieme alla società ha allestito una grande squadra in grado di competere su più fronti, qual è l’acquisto che secondo lei ha impreziosito rosa di quell’anno?

“Indicarne uno sarebbe riduttivo, mi sembrerebbe di sminuire tutti gli altri. Il colpo più bello è stato acquistare quei grandi campioni tutti insieme. Poi, dopo il mercato c’è stato un grande lavoro di tutti, del mister José, del suo staff, della dirigenza e dei calciatori. Quella è poi diventata una squadra spettacolare e ben amalgamata che aveva una gran voglia di vincere e un gran carattere. Ottenere una squadra spettacolare dal punto di vista delle qualità singole, della voglia di vincere, caratteriale. Ripeto, il vero colpo fu mettere insieme quelle grandi pedine che si andarono ad unire alle altre già presenti in rosa per formare un’armata vincente”.

Mourinho è stato il comandante di quell’Inter da record: ci è un po’ rimasto male per il fatto che non sia tornato a Milano per festeggiare con i tifosi?

"Personalmente non l'avrei fatto e si mi viene chiesta la mia opinione posso non condividere: quello che ha fatto lui però l'ho sempre rispettato. Non ci si può calare dentro la mente di una persona, se ha preferito non presenziare a Milano avrà avuto i suoi buoni motivi a livello emotivo. L’annata è stata talmente bella che forse emotivamente non poteva reggere quella bellissima atmosfera del Meazza che noi tutti ci siamo goduti in maniera incredibile”.

La felicità di Moratti è stata una delle immagini più belle della notte di Madrid. Il Presidente si meritava quella gioia 45 anni dopo suo padre: cosa ci può dire dell’ex patron nerazzurro?

"Moratti è una grande persona, è stato un grande presidente e io sono orgoglioso di essergli stato utile in quegli anni in nerazzurro. Per la portata della persona se lo si conosce a fondo arrivi a fine giornata che ti sembra sempre di aver lavorato troppo poco (ride; ndr). Moratti è stato un presidente che ci ha messo l'anima, la competenza e la sua sensibilità. Tutta l'atmosfera di quei 15 titoli vinti quando c’ero anceh io sono la degna conclusione dei suoi tanti sforzi. Quell’atmosfera è stata creata e voluta da lui, tutti ci sentivamo in dovere di dare il massimo solo per la sua grande voglia di vincere”.

Ci racconta qualche aneddoto particolare del personaggio Mourinho legato alla finale di Madrid o a qualche altra circostanza in quei suoi due anni?

“José era un istrionico, di un'intelligenza sportiva, calcistica e anche extracampo fuori dalla norma. Si è integrato perfettamente nell'atmosfera Inter e lui veniva da una squadra come il Chelsea e da un altro campionato. In nerazzurro ha trovato l'ambiente giusto per lui, perché era carico e noi lo eravamo quanto lui. Ci ha messo la sua grande dedizione e qualità per il lavoro: sono stati due anni fantastici e ogni giorno c'era sempre qualcosa di nuovo per lui e per la società. Non ci siamo mai annoiati (ride; ndr)”.

Riuscì nell’impresa di scambiare Ibrahimovic per Eto’o più 50 milioni di euro: lo può considerare il colpo migliore della sua storia all’Inter?

“No, non è il colpo migliore ma perché ce ne sono stati tantissimi fatti con pochi soldi, a parametro zero. Ognuno ha la sua storia e ogni operazione di mercato conclusa ha avuto il suo perché. Ibra ed Eto'o sono stati due grandissimi giocatori, Samuel ha vinto di più e con noi vinse il suo secondo Triplete consecutivo ma la valutazione al ribasso di Eto’è era dettata dal fatto che avesse un solo anno di contratto”.

Fu una trattativa rapida?

“Sì lo fu se pensiamo alla portata di questi due campioni. Due grandi società come Inter e Barcellona che si siedono al tavolo per trattare due calciatori di quel calibro e che trovano subito l’accordo non si vede tutti i giorni. Noi eravamo affezionati a Ibra che ci aveva fatto presente dell'offerta del Barça, lui voleva nuovi stimoli e noi volevamo accontentarlo. Io ero già in contatto con entourage di Samuel da tempo e in poco tempo l’affare è andato in porto. Poi a fine anno siamo stati più felici noi per come è andata a fine la stagione, Ibra sarà stato meno contento ma noi siamo stati contentissimi sia di Eto’o che della nostra stagione”.

Le piace l’Inter attuale e la proprietà Suning?

“Dell'Inter attuale non ho tantissime informazioni, la seguo e vedo che si sta sforzando di essere molto competitiva. Non posso che augurare al club di tornare al top al più presto possibile e non è detto che forse qualcosa non possa essere vinto già quest'anno”.

La coppia d’attacco Lautaro-Lukaku le piace? Venderebbe l’argentino attirato dalle sirene bluagrana?

“Lautaro Martinez e Lukaku, sono molto bravi, mi piacciono molto. Non so se lo venderei l’argentino, queste sono osservazioni che giustamente devono fare i dirigenti dell'Inter che conoscono la situazione”.

Conte è la persona giusta nonostante il suo passato bianconero che non piace a qualche tifoso?

“In questa epoca calcistica dove non ci sono presidenti storici e figure riconosciute penso che questo non sia più un problema. Il fattore professionale conta molto di più dato che oggi ci sono pochissime bandiere. Conte è un ottimo allenatore ed è fuori di dubbio che stia facendo un ottimo lavoro all’Inter e gli auguro il meglio”.

Nella fase finale della sua esperienza all’Inter molti tifosi l’hanno criticata, non le ha dato un po’ fastidio questa cosa dopo tutti i traguardi raggiunti gli anni passati?

"Se si fa una considerazione oggettiva credo che quando finiscano i grandissimi cicli, ed è successo a tutti come anche al Milan di Berlusconi e Galliani, c’è sempre malcontento e necessità di cambiare qualcosa. Poi c'è una parte della tifoseria che manifesta diversamente queste considerazioni che non sono solo di gratitudine. Dispiace certo, però me ne sono fatto una ragione. Noi abbiamo fatto un grandissimo ciclo. E poi si è concluso. Massimo Moratti ha vinto 16 titoli, il doppio del già vincente padre anche se erano altri tempi, e tutto questo rimarrà nella storia dell’Inter”.

Ha qualche rimpianto passato, come non aver venduto qualche eroe “scontento” del Triplete, o di non aver preso un giocatore come Cavani che passò per soli 18 milioni di euro dal Palermo al Napoli?

“Se uno pensa a posteriori quello che si poteva fare troverà sempre qualcosa che poteva fare in maniera diversa. Iin quel preciso momento storico e con quell'atmosfera non era affatto facile, ve lo assicuro. Doveva andare così perché poi l'anno dopo arrivammo secondi e qualche tempo dopo fu venduta la società. Credo sia stato giusto tutto così. I cicli sono fatto così: hanno un inizio e una fine”.

Mourinho, l’Inter, il Triplete e quell’addio: «Me ne andai solo per ambizione. Mai stato felice come a Milano». Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 da Corriere.it. Nell’anniversario dei dieci anni del Triplete dell’Inter, José Mourinho racconta: «Perché me ne andai dopo il Triplete? Cento per cento ambizione». Non per altro, perché «a Milano ero felice». E continua: «Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importate di te, e passi al secondo posto». Il portoghese, in una intervista alla Gazzetta dello sport, ritrova sensazioni e aneddoti di quell’impresa che nessuna squadra italiana ha mai fatto nella storia: «Perché non tornai a Milano con la squadra? Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato ”Jose´ resta con noi”, forse non sarei più andato via — svela José —. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle». Mourinho continua: «Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò. Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo, e sono ancora l’unico, fra gli allenatori, ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna». Lo Special One aveva deciso di andare via da Milano «dopo la seconda semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions. Moratti l’avevo preparato: senza bisogno di parole, la temperatura del nostro abbraccio in campo gli fece capire cosa volevo. Mi disse: “Dopo questo, hai il diritto di andare”. Era il diritto di fare quello che volevo, non di essere felice: e infatti sono stato più felice a Milano che a Madrid». Una partenza dettata dunque dalla voglia di vincere, non per il famoso “rumore dei nemici”: «Il motivo? Cento per cento ambizione. Il rumore dei nemici, che poi piangevano, era bellissimo: era più forte il tremore del rumore, e se ci pensa bene è la stessa cosa: quando c’è rumore è perché c’è paura». 

Dagospia il 5 maggio 2020.  Marco Materazzi: E a chi ha già attaccato il disco del 5 maggio 2002 ricordo solo il 5 maggio 2010: l’alba del nostro Triplete, la notte che non è ancora finita del vostro peggiore incubo... 5/5/2010 1:14 PM - May 5, 2020.

"Ma come famo a perde?” Ventola in diretta Instagram con Vieri racconta cosa disse Di Biagio il 5 maggio 2002 quando vide l’Olimpico pieno di tifosi nerazzurri. “L'unica cosa che mi fa sorridere di quella giornata lì è la frase di Gigi". Sono passati 18 anni dalla sconfitta con la Lazio che consegnò lo scudetto alla Juve all’ultima giornata di campionato. È il giorno che ogni tifoso interista vorrebbe cancellare dal calendario. Chi era in campo non vuole dire nulla.

Vieri tranchant: “Non voglio sapere nulla. Se mi chiamano c’è la mano che esce dal cellulare e tira un cazzotto”. Ventola sarà l’unico portavoce, o meglio portacroce. "Avete rifiutato tutti di parlare del 5 maggio, l'unico scemo che lo farà in radio sono io".

Materazzi, invece, ruggisce su Twitter pubblicando le foto della finale vinta contro la Roma in Coppa Italia: “A chi ha già attaccato il disco del 5 maggio 2002 ricordo solo il 5 maggio 2010: l’alba del nostro Triplete, la notte che non è ancora finita del vostro peggiore incubo...”.

Capitolo L.A. Confidential, Ventola racconta a Vieri l’incontro con Russell Crowe all’Olimpico, in occasione della finale di Coppa Italia Juve-Milan. “Ero con Del Piero, che è suo amico, prima o poi vado da lui a Los Angeles. Lo faccio per mio figlio…”. L’ex attaccante del Bari torna poi su Bradley Cooper che voleva attaccare bottone con la moglie Kartika. Vieri sempre più tranchant: “Io gli avrei staccato il bottone e glielo avrei ficcato in quel posto lì…”

Gresko: "Lo scudetto perso il 5 maggio con l'Inter? Ecco com'è nata quella sconfitta..." Parla Gresko: "Che cos'è successo davvero all'Olimpico". L'ex difensore dell'Inter ha ripercorso quella partita e non solo in esclusiva per ilgiornale.it. Marco Gentile, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. Il 5 maggio è una data agro-dolce per l'Inter che perse uno scudetto clamoroso nel 2002 cadendo per 4-2 all'ultima giornata sul campo della Lazio consegnando di fatto il tricolore alla Juventus. Nello stesso giorno, otto anni dopo, i nerazzurri vinsero il primo titolo, la Coppa Italia contro la Roma, ponendo così il primo mattone sulla conquista dello storico Triplete. L'Inter del 2001-2002 aveva in panchina Hector Cuper e in squadra calciatori del calibro di Toldo, Zanetti, Cordoba, Conceincao, Di Biagio, Vieri, Adriano. Recoba e soprattutto Ronaldo il Fenomeno, solo per citarne alcuni. In quella squadra, però, c'era anche un giovane terzino sinistro slovacco, Vratislav Gresko, arrivato in Italia nel novembre del 2000 dal Bayer Leverkusen. In quel maledetto match dell'Olimpico l'ex calciatore dell'Inter Bratislava commise un grave errore regalando a Poborsky la rete del 2-2, sul finire del primo tempo. In questi 18 lunghi anni in molti gli hanno addossato colpe anche eccessive per quella topica e lui in esclusiva per ilgiornale.it ha ripercorso quella triste giornata per lui e per tutti i colori nerazzurri:

Vratislav, che ricordi hai di quel 5 maggio del 2002?

"Ricordo che fu una partita difficile, c'era un clima strano. Stavamo comunque giocando contro una grande squadra come la Lazio che si stava giocando l'accesso alla Coppa Uefa. Quella è stata una brutta giornata per tutti, forse doveva andare così. Tra l'altro in quell'annata abbiamo perso punti importanti contro il Chievo all'ultimo minuto, dove gli avversari riusciranno a pareggiare, e addirittura perdemmo in casa contro l'Atalanta. Ripeto, forse doveva andare così".

Tanti tifosi ti hanno ritenuto responsabile di quella sconfitta, come rispondi a queste accusa a distanza di 18 anni?

"Devo dire la verità: i giornali, i media hanno massacrato un po' tutti indistintamente. Per quanto riguarda i tifosi invece sono stato preso maggiormente di mira per il mio errore, ma penso che quella partita l'abbia persa tutta l'Inter e non solo un singolo calciatore. Tra l'altro per me quella era la terza volta che perdevo un tricolore all'ultima giornata; mi successe in Slovacchia, poi in Germania, forse quella più bruciante con la maglia del Bayer Leverkusen e poi appunto con l'Inter".

Ti senti di dire qualcosa ai tifosi dopo tanti anni per quell'episodio?

"No, non mi sento di dire niente in particolare. Sono felice perché dopo quegli anni difficili e bui l'Inter ha iniziato a vincere e a mettere trofei in bacheca: dai campionati, alla Champions League del 2010, sono molto felice per la società e per tutti loro".

Qualche compagno di squadra ti diede la colpa per quella bruciante sconfitta?

"No, devo dire la verità. Molte volte il silenzio vale di più in quei momenti".

Come state vivendo in Slovacchia la pandemia da coronavirus?

"Qui è sotto controllo. Siamo cinque milioni di abitanti e diciamo che abbiamo pochissimi casi al giorno: circa 5. Fortunatamente la situazione qui è contenuta".

Il calcio riprenderà nel vostro paese?

"Non si sa ancora, qui ripeto la situazione è contenuta e volendo si potrebbe scendere in campo magari tra un mese, a inizio giugno, Non si sa ancora niente però in merito, vediamo cosa deciderà la Federazione".

Sei rimasto nel mondo del calcio?

"Sì, sono stato per anni vicepresidente di una squadra in Slovacchia mentre da qualche tempo sono allenatore dell'under 15 di una squadra di Serie A slovacca".

Che ricordi hai dei tuoi due anni in Italia e all'Inter?

"Belli, davvero. Grande paese, mi sono trovato molto bene anche all'Inter dove mi hanno trattato tutti bene. Sto anche notando come stia crescendo la società e questo mi fa piacere. L'anno scorso sono andato a far visita alla squadra a Vienna, durante la partita contro il Rapid in Europa League. Non posso che parlare bene dell'Italia e dell'Inter: ho ancora tanti amici nel vostro paese".

Inter, i 75 anni di Massimo Moratti (nel decennale del Triplete): perché la sua è stata e resterà una figura unica. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. Compiere 75 anni nel giorno esatto del decimo anniversario della conquista di uno scudetto, anzi: dello scudetto che, solo 6 giorni dopo, si sarebbe trasformato nell’unico triplete della storia del calcio italiano, dice già molto di Massimo Moratti. Di un uomo, cioè, nei confronti del quale il caso è stato particolarmente benevolo. Ma al quale va riconosciuto il merito di averlo sempre saputo e di essersi comportato di conseguenza, con il risultato finale di avere assunto i tratti, ormai definitivi, di una figura unica nella storia del calcio. La ragione per cui, nel futuro, un personaggio come Massimo Moratti non sarà replicabile è la stessa per la quale il figlio di Angelo non è più presidente né proprietario dell’Inter: il suo tempo, quello cioè delle famiglie proprietarie di una squadra di calcio è finito e non tornerà più (a meno che per famiglia non si intenda quella reale del Qatar o dell’Arabia Saudita). Ma anche guardando al passato, e cioè a che cosa Moratti è stato, il tempo che via via passa dal suo addio all’Inter (e a novembre saranno 7 anni) scolpisce sempre di più la sua differenza. In un mondo calcistico che ormai ha irreversibilmente cambiato il suo Dna, i termini di paragone possibili non possono essere che due. Il primo è la famiglia Agnelli, rispetto alla quale Moratti è paradossalmente un anello di congiunzione: più giovane di 24 anni rispetto a Gianni, più vecchio di 30 rispetto ad Andrea, l’ex presidente dell’Inter è però più assimilabile alla generazione dell’Avvocato. In primo luogo per collocazione storica familiare: anche Massimo nasce in una famiglia in cui qualcun altro in precedenza ha già risolto - per parecchie generazioni a venire - ogni problema di sopravvivenza. E poi - senza dire che l’era di Andrea Agnelli inizia quasi in contemporanea con il secondo addio di un Moratti al club nerazzurro - Massimo e l’Avvocato sono cresciuti e hanno vissuto con (e nel)lo stesso calcio. Ma, di Gianni Agnelli, Moratti non aveva il cinismo della mondanità (o viceversa): per scelta e per carattere - ammesso che tra le due cose ci sia una distinzione. E, se parliamo di scelta e carattere, è inutile anche dilungarsi troppo sulla lontananza di Moratti da Silvio Berlusconi. Che è l’unico dei tre a non avere avuto una famiglia alle spalle e la cui leggenda racconta invece proprio dell’Avvocato come modello di riferimento negli anni di gioventù. Anche sugli scostamenti dal modello è inutile dilungarsi, mentre è interessante notare come i presidenti e proprietari che hanno portato Inter e Milan dal ’900 in un nuovo Millennio avessero comunque una loro strana complementarietà. Moratti e Berlusconi riassumono come meglio non si potrebbe un certo modo di essere Milano: silenziosa e borghese l’una, l’altra visionaria e vistosa al punto da operare la più curiosa delle mutazioni. Con Berlusconi è il Milan a diventare «bauscia» (sbruffone, per chi legge da fuori Lombardia). L’Inter però non diventa «casciavitt» (operaia), ma il suo rapporto col «popolo» (qualsiasi cosa vogliamo intendere con questa parola) cambia. Perché, è vero, da un lato c’è lo spostamento a sinistra (del club, in singolare schizofrenia con l’ultradestra della curva): ma nel frattempo anche la sinistra si è spostata, diventando il riferimento più del famoso ceto medio riflessivo che delle classi più umili. Ma è anche vero che Massimo Moratti ha ereditato dal padre Angelo un’idea più delle altre: «Dovere di un presidente è spargere felicità tra la gente che ama una squadra. E nel calcio la felicità viene prima delle vittorie». Questo spiega la celebre frase con cui Moratti junior replicò alla moglie Milly, perplessa per i 25 milioni spesi per acquistare Ronaldo, tutti soldi che avrebbero potuto aiutare tanta gente che soffre. «Dimmi tu: chi soffre più degli interisti?». Pur con tutte le differenze del caso, Massimo Moratti si è sempre considerato uno di loro. Ma non per retorica pre-populista, magari sempre accompagnata dal sospetto di secondi fini politici. Perché è un fatto che il numero di casa Moratti stava sull’elenco telefonico. E che i tifosi chiamassero a ogni ora del giorno e della notte per discutere della formazione o di un acquisto di calciomercato, trovando spesso il presidente dell’Inter non solo pronto a rispondere, ma ben lieto di farlo e di dilungarsi in spiegazioni. O di fornire ogni sera il menu della propria cena, per aiutare la madre di quel ragazzo che si rifiutava di mangiare altro che non fosse ciò che mangiava il presidente. Se invece non era a casa, magari lo si poteva trovare al bar della Comuna Baires, bizzarro circolo culturale sulla terza circonvallazione milanese, fondato da un attore italo-argentino diventato interista dopo aver visto in tv (nella Praga comunista) l’Inter vincere la sua prima Coppa dei Campioni e fuggito dalla dittatura dei militari di Videla. Erano gli anni in cui l’Inter perdeva sempre e in cui Moratti passava (è giusto dirlo senza giri di parole) per il ricco scemo. Poi si è capito che gli errori fatti restavano parecchi (e il Dio del calcio sa quanti), ma quel qualcosa di strano che ogni tanto capitava era molto più di una casualità o la cara vecchia sudditanza. La pacata tenacia con cui, ancora oggi, Massimo Moratti non smette di ricordare cosa è stato Calciopoli, dice tantissimo di quanto ci abbia sofferto ma anche di quanto profonda sia la convinzione che avere avuto ragione non dia il diritto di abdicare a un modo di essere. E, anche questo, è qualcosa che sarà difficile rivedere in futuro. Nel calcio, ma anche altrove.

L'Inter, la Champions, Mourinho: adesso Moratti racconta tutto...L'ex presidente dell'Inter Massimo Moratti si è raccontato in esclusiva per ilgiornale.it nel giorno del suo 75esimo compleanno: "La Champions la gioia più grande". Marco Gentile, Sabato 16/05/2020 su Il Giornale. Oggi è una giornata importante per l’Inter e per i suoi tifosi dato che il 16 maggio di 10 anni fa, sbancando per 1-0 il campo del Siena con il solito gol di Diego Milito, i nerazzurri vinsero il loro diciottesimo scudetto, sorpassando così i cugini del Milan. Undici giorni prima la squadra guidata da José Mourinho conquistò la Coppa Italia battendo la Roma in finale, mentre il 22 maggio l'Inter completò lo storico triplete battendo in finale di Champions League il Bayern Monaco e riportando a Milano, sponda nerazzurra, una coppa che mancava da ben 45 anni. In questa giornata, inoltre, un’interista doc come l’ex Presidente Massimo Moratti compie 75 anni e il giornale.it ha intervistato in esclusiva l’ex patron nerazzurro che nel corso della sua presidenza ha messo 16 trofei in 18 anni portando avanti degnamente il nome di famiglia che resterà legato in maniera indissolubili con il club di viale della Liberazione.

Moratti, oggi è il suo compleanno, tanti auguri innanzitutto...

“Grazie, la ringrazio molto”.

Oggi, dieci anni fa, l'Inter conquistava lo scudetto vincendo a Siena. Che ricordi ha di quella partita?

“Una partita importantissima, forse la più sofferta sotto il profilo del risultato. Degno finale di un campionato difficile contro un avversario come la Roma che non ha mai mollato un centimetro. Non pensavamo che il Siena potesse giocare con quella tenacia e quella forza che ha poi dimostrato e messo in campo. La partita fu ostica ma fortunatamente Zanetti con un guizzo dei suoi riuscì a servire Milito che poi ha fatto un gol fondamentale. Ricordo che il pubblico era felicissimo anche perché quello conquistato era il quinto scudetto di seguito, un risultato notevole per la nostra società”.

C'è stato un momento che ha avuto paura di perdere lo scudetto. E se sì quando?

“C’è stato un momento che la Roma ci superò di un punto in campionato ma poi perse in casa contro la Sampdoria. Lì c’era un momento in cui più che paura di averlo perso c’era la consapevolezza di doverci mettere qualcosa in più per potercela fare. La squadra ci ha sempre creduto e non hai mai dato segnali di cedimento sia fisicamente che mentalmente e alla fine ce l'abbiamo fatta a conquistare uno scudetto sudato e meritato".

Quella di Siena fu una partita durissima e vinta con un guizzo del solito Milito. Emozione forti immagino, il Principe le ha fatto un grande regalo di compleanno: “Il solito Miito che poi continuava ad essere lui l’uomo decisivo. Il 5 maggio segnando in finale di Coppa Italia, poi appunto il gol di Siena del 16 maggio e sei giorni dopo siglò quella fantastica doppietta che ci permise di tornare sul tetto d'Europa".

Nel giro di 17 giorni l’Inter ha vinto e il 22 maggio ha messo in bacheca il titolo più importante: la Champions League. Qual è la prima cosa che ha pensato al triplice fischio finale?

“Credo sia stato qualcosa di incredibile. Quando ci tieni molto a qualcosa non ti sembra quasi vero che poi si avveri ed esprimi tutto quello che hai dentro, ero felicissimo. Poi devo dire la verità ho subito ripensato a mio padre che era stato l’unico a vincere la Coppa dei campioni, due volte, con l’Inter. Penso sia statu un bel regalo alla società e ai tifosi”.

La festa è stata grande al Bernabeu e poi anche San Siro dove però non c'era José Mourinho. Ci racconta come ha preso la sua scelta di lasciare l'Inter?

“Diciamo che io e lui non ne abbiamo mai parlato anche perché era una forma di incantesimo da non rompere. Io non l’ho mai disturbato a questo proposito anche se era nell’aria da tempo che qualcosa potesse succedere a fine stagione. Ricordo che due giorni dopo la finale ci siamo trovati a casa mia e ci siamo detti tutto in maniera più rilassata. Forse Mourinho dopo due-tre anni si stanca di una situazione e ci può stare che abbia deciso di cambiare aria ed ha lasciato nel momento giusto”.

Ci è un po' rimasto male per la sua scelta di non tornare a Milano per festeggiare con i tifosi dato che molti di loro hanno criticato la sua scelta: “Sì, devo dire la verità che effettivamente il gesto di salire sulla macchina del Real Madrid in quella maniera ha fatto discutere…avrebbe sicuramente potuto festeggiare a Milano ma forse non aveva voglia di esporsi in quella maniera davanti a tifosi che ha amato. Era come un addio e penso non se la sia sentita”.

Cosa ne pensa della nuova Inter costruita da Marotta e Ausilio con Conte in panchina?

“Conte mi piace molto e la società sta facendo benissimo e sta facendo di tutto per rendere la squadra ancora più forte e competitiva. I dirigenti stanno lavorando bene e poi c’è il mister che ha un grande carattere e l’ha conferito alla squadra”.

Dove può arrivare questa Inter e quanto manca per colmare il gap con la Juventus?

“Può arrivare molto in alto, deve solo continuare a lavorare con perseveranza. Il gap con la Juventus lo si colma magari iniziando a vincere qualcosa ma penso che l’Inter sia sulla strada giusta per potercela fare”.

Lei mesi fa si era schierato dalla parte di Icardi e Wanda Nara nella diatriba con l’Inter, la pensa ancora nella stessa maniera o ha cambiato idea?

“Sì l’ho fatto perché sentivo di farlo, Mauro è un bravo ragazzo. Io penso sia stata una questione di principio, anche giusta da parte della società. In estate c’è poi stata la possibilità di venderlo ad un prezzo elevato e penso che abbiano concluso un’operazione che poteva essere conveniente per tutte le parti in causa”.

Lukaku e Lautaro sono il presente e il futuro dell'Inter. Cederebbe l'argentino per un'offerta monstre da oltre 100 mln o giusto tenerlo a tutti i costi?

“Devo dire che Lukaku è molto di più di quello che pensavo. Oltre a essere bravo ragazzo, per bene è proprio grande attaccante davvero. Lautaro invece è fortissimo, un attaccante dei sogni con un tasso tecnico elevato e sopra la media che ti fa pensare in grande. Non lo venderei mai ma poi nel calcio d’oggi queste cose contano poco perché ci sono tante variabili che entrano in gioco”.

Qual è l'operazione che da presidente le è riuscita di più e quella che le ha lasciato l’amaro in bocca per non averla conclusa?

“Ibrahimovic-Eto’o è stata sicuramente l’operazione meglio riuscita e che nessuno poteva aspettarsi. Il mio più grande rimpianto è sicuramente il mio Cantona, mi avrebbe fatto vincere tanto ne sono certo…Ma poi devo dire la verità ci sono stati tanti rimpianti e giocatori ai quali non sono riuscito ad arrivare (sorride; ndr)”.

Però è riuscito a prendere Ronaldo…

“Assolutamente Ronnie è stato un colpo da novanta in tutti i sensi. Sono anche felice che un po’ si sia riappacificato con la tifoseria dopo anni difficili. Andò via nel 2002 ma io ebbi l’impressione che lui aveva sofferto molto nei suoi anni a Milano quando dovette recuperare da quei due infortuni spaventosi. L’ambiente per lui era pesante e ha sofferto. Ma posso dire con certezza che è stato un Fenomeno vero”.

Ci stila il suo 11 ideale compreso di panchina e allenatore?

"Difficile farlo proprio perché tanti calciatori sono passati sotto la mia gestione e non voglio fare torto a nessuno (ride; ndr). Diciamo che quella del 2010 non era affatto male”.

La pandemia da coronavirus ha messo in ginocchio l’Italia e anche lo sport si è fermato. Giusto riprendere con la Serie A oppure no?

“Sostengo che sia una situazione grave dal punto di vista sanitario ed è difficile dare un opinione in merito anche per tutto quello che c’è intorno. Difficile parlare di calcio in questo momento storico. Il calcio è uno sport bellissimo ma penso che si possa aspettare. Non metterei a rischio il prossimo campionato per fare tutto di corsa in un mese. Io avrei chiuso l’anno qui ma pare si torni in campo, ora cerchiamo di organizzarci e di chiudere in totale sicurezza”.

Cosa ne pensa delle parole di Chiellini su Balotelli e sull’Inter?

“Penso non siano state uscite simpatiche ma Giorgio è una bella persona. In questo caso gli è scappato qualcosa di negativo e dispiace che un lottatore e un bravo difensore come lui abbia fatto certe dichiarazioni, poteva evitare”.

Toldo: "Adesso vi spiego perché l'Inter avrebbe meritato più scudetti..." Toldo ha ricordato diversi aneddoti in esclusiva al giornale.it: "L'Inter del Triplete, la partita contro l'Olanda ad Euro 2000, il coronavirus. Vi racconto tutto". Marco Gentile, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. Francesco Toldo è stato uno dei portieri più forti della storia del calcio italiano. Il 48enne di Padova dopo essere cresciuto nelle giovanili del Milan inizia a fare gavetta in Serie B al Verona, pur senza mai scendere in campo, e in C2 e C1 con le maglie di Trento e Ravenna. Nel 1993 la Fiorentina si rende conto delle sue grandi doti e lo porta in viola con Toldo che gioca da titolare quella stagione in serie B. Dopo quell'annata nel campionato cadetto, l'ex numero uno di Padova gioca altre sette stagioni in Serie A con la Fiorentina collezionando la bellezza di 336 presenze. Nell'estate del 2001 passa all'Inter e scrive pagine importanti della storia del club nerazzurro soprattutto nelle prime quattro stagione dove gioca da titolare indiscusso. Con l'avvento del collega brasiliano Julios Cesar, Toldo diventa un prezioso numero 12, un lusso e una guida per i più giovani e per lo stesso portiere brasiliano. Il palmares dell'ex estremo difensore della nazionale italiana è ricco con cinque scudetti, cinque Coppe Italia, quattro supercoppe Italiane e soprattutto la Champions League conquistata nel 2010, anno che ha poi sancito il suo ritiro dal calcio. In esclusiva per ilgiornale.it Toldo ha ricordato l'Inter del Triplete e i suoi eroi, ha parlato della sua esperienza con la maglia della nazionale, ha trattato anche il momento particolare che stanno vivendo il mondo del calcio e dello sport per via della pandemia da coronavirus che ha travolto il mondo intero e tanti altri argomenti:

Toldo, 10 anni fa l’Inter usciva sconfitta dal Camp Nou ma con la finale di Champions League ottenuta. Ci racconti come hai vissuto quella serata e qualche aneddoto particolare legato a quella partita?

"Siamo stati monumentali, forti del 3-1 dell’andata, tutto il mondo calcistico conosce la forza del Barcellona al Camp Nou. Hanno caratteristiche fuori dall’ordinario, mettono in difficoltà qualsiasi squadra; però contro di noi non l'hanno fatto vedere! L’Inter del Triplete era costruita da uomini prima che da calciatori, mi ricordo la grande parata di Julio Cesar su Messi e nonostante il rosso a Thiago Motta abbiamo retto fino alla fine della partita. Un aneddoto? Il giorno prima ci fu una grande litigata a pranzo tra di noi per motivi che non posso dirti, fanno parte dei segreti di quell’anno….ma tutto si risolse nel migliore dei modi ed entrammo in campo più uniti che mai".

In tanti hanno esaltato quella squadra che conquistò il triplete. Qual era la vera forza del gruppo?

"La vera forza del gruppo era il confronto diretto e il dirsi le cose in faccia senza che nessuno si offendesse. C’erano inoltre grandi campioni che si misero a disposizione del gruppo anteponendo l’interesse della squadra a quello personale. L’aspetto principale è rappresentato da Mourinho che, insieme alla società di Massimo Moratti, lavorava con gli stessi obiettivi. Lungo il cammino si sono aggiunti i tifosi che hanno sempre di più compreso la grandezza della stagione e la sinergia è stata fondamentale per arrivare a quei grandi traguardi".

Ci racconti qualche aneddoto su José Mourinho? Che tipo di allenatore e di motivatore era?

"Mou prima di tutto è uno psicologo, la gestione del gruppo per lui è fondamentale, la chiarezza e la comunicazione sono punti saldi. Ottiene rispetto dal gruppo quando egli per primo s’arrabbia coi giocatori più importanti nelle riunioni in spogliatoio. Più volte ha attaccato per motivazioni varie i grandi campioni senza che nessuno si offendesse per i concetti sensati che riusciva ad esprimere. Era il primo agli allenamenti e l'ultimo a chiudere la porta. Con lui potevi tranquillamente disquisire di qualsiasi argomento, era sempre preparato. Spiccava la sua dote nel parlare più lingue straniere e lo dimostrò alla sua presentazione alla Pinetina. Tutt’ora ci sentiamo...".

Capitolo Inter attuale. Cosa ne pensi di Antonio Conte e della squadra allestita da Marotta e Ausilio? Quanto manca per colmare il gap con la Juventus?

"Penso che ci siamo alzati di livello rispetto alle annate precedenti anche se non basta, non per confrontarsi con la Juventus, questo no! Perché l’Inter deve tracciare sempre e comunque la sua rotta e rispettarla. L’Inter ha una sua notevole storia calcistica ed avrebbe meritato molti scudetti in più sul petto".

Il calcio e lo sport si sono dovuti fermare per la pandemia da coronavirus. Pensi sia giusto riprendere o archiviare la stagione 2019-2020?

"Voglio pensare ad un calcio più vicino alla normalità della gente per cui il buon senso imporrebbe di fermarsi e rivedersi a campionato nuovo. Purtroppo però l’introito maggiore del calcio è rappresentato dai diritti tv che se venissero a mancare improvvisamente causerebbero un danno enorme all’indotto e a cascata fino all’economia di tutti i giorni. Quindi mi aspetto una ripartenza in sicurezza proprio per vincere contro questo Covid-19 e ritornare lentamente alla normalità".

Cosa ne pensi delle polemiche di questi giorni su questo tema che sta infiammando il mondo del calcio?

"Si tratta di riflessioni che poi col tempo passano, trovo ingiusto scaricare al solito mondo dorato del pallone colpe che giocatori non hanno. Il governo guidato da un pool di scienziati si sta esprimendo e trovo che in un momento di difficolta si debba cercare di criticare di meno e agire di più. Alla fine giusto ripartire".

Sei stato grande protagonista con l’Italia nel 2000. Le tue innumerevoli parate in semifinale sono valse la finale poi purtroppo persa contro la Francia. Ci racconti le tue emozioni di quella partita e della finale?

"La partita con l’Olanda rientra nelle immortali del calcio, ricorre il ventennio fra pochi giorni e gli sportivi continuano a riviverla. Se ti dicessi che la sera prima ho immaginato esattamente nella mia testa tutto ciò che l’indomani sarebbe accaduto? Ci crederesti? Ebbene è andata proprio così, ero convinto di alzare un muro per contenere gli olandesi, solo Kluivert ha retto psicologicamente".

Tema dolente, il 5 maggio: cos'è successo in quella partita? Ti aspettavi l'addio di Ronaldo a fine stagione?

"Epilogo amarissimo di un campionato falsato da altre forze a discapito della meritocrazia sportiva. Senza voler polemizzare a distanza di tempo, vicenda chiusa. Ronaldo? Il brasiliano più forte e simpatico che abbia conosciuto, malgrado le sue avversità fisiche sfoggiava sempre un sorriso contagioso".

Una volta in Inter-Juventus sei stato protagonista con Christian Vieri di una carambola che è valsa il pareggio nerazzurro. Senti tuo quel gol?

"Il gol era mio, Bobone l’ha preso solo per la classifica cannonieri che meritava di vincere. Tutt’ora con Bobo scherziamo sulla paternità del gol, tanto io so che e mia (ride; ndr). Personalmente sono fiero e ancora divertito del gol a San siro con la Juventus. lo racconto spesso ai miei figli e prendo l’esempio quando parlo ai giovani dicendo loro che con la convinzione unita al talento, ovviamente insieme alla buona sorte, raggiungi i sogni che ti prefiggi… Fatelo ragazzi, sognate e realizzate i vostri obiettivi".

Cosa ne pensi delle dicharazioni di Romelu Lukaku durante una diretta Instagram con la moglie di Mertens:

"Tra dicembre e gennaio 23 su 25 calciatori hanno avuto la febbre. Non sapremo mai se era coronavirus o meno” "Ho imparato a non giudicare quando non conosco bene la situazione, penso che all’inter ci sia uno staff sanitario con medici preparatissimi che tutelano i propri giocatori e credo che ognuno debba rispondere per il suo mestiere".

Vuoi mandare un messaggio su come dovrebbe e potrebbe migliorare il mondo del calcio?

"Il calcio è lo sport principale in Italia e per questo bisognerebbe conservarlo e migliorarlo per appassionare sempre più sportivi. Per questa ragione mi piacerebbe che ogni campione cerchi di essere esemplare sia quando gioca ma soprattutto nella vita privata. Così facendo alzi si innalza il livello d’umanità intorno a questo sport. I giovani ragazzi di oggi che giocano nei dilettanti e nel calcio minore osservano ogni comportamento dei nostri idoli, diamo il buon esempio allora!".

Marco Zorzo per leggo.it il 21 ottobre 2020. Ci sono partite che restano nella memoria collettiva. E non si dimenticano. Soprattutto quando di mezzo c’è una lattina killer, finita sulla crapa di Roberto Boninsegna. Già, Borussia Moenchengladbach-Inter, secondo turno (ottavi di finale) Coppa Campioni 1971-72. Andata in Germania, mercoledì 20 ottobre di 49 anni fa. Non c’è la diretta televisiva (all’epoca nei primi turni non si usava). Tutti incollati alla radio, inevitabilmente, con Enrico Ameri a raccontare le gesta dei nerazzurri targati Giovanni Invernizzi. Quel Borussia era sicuramente più forte del ‘Gladbach attuale, guidato in panchina da Hans Weisweiler e in campo da gente come Netzer o Vogts e Heynckes: sembra una sfida normale, passerà alla storia come la partita della lattina. Quell’oggetto, lanciato in campo poco prima della mezz’ora di gioco, con il risultato sul 2-1 per i tedeschi, infatti, colpisce alla testa Bonimba, autore del gol dei nerazzurri - che stramazza al suolo tramortito, privo di sensi e con un bernoccolo. Sandro Mazzola si china, raccoglie qualcosa, la consegna all’arbitro, l’impacciato olandese Porpman. È una lattina di Coca Cola, probabilmente la stessa che ha colpito il bomber interista, anche se in molti sostengono (e continuano a farlo) che il Baffo (Mazzola) ne avesse raccolta una a caso fra quelle lanciate in campo. L’andata del secondo turno (ottavi di finale) della Coppa dei Campioni, antesignana dell’attuale Champions, è ormai macchiata da un episodio che, in seguito, si rivelerà determinante per il passaggio del turno. Per i tedeschi «si tratta di una messinscena», non per gli interisti, usciti sconfitti dal campo 7-1, ma scioccati da quell’episodio. «È stato tutto vero, nonostante qualcuno, come il centravanti Jupp Heynckes, abbia messo in dubbio la mia moralità - sbotta Boninsegna, -: io non ho mai fatto scena, questa è la verità. Forse Heynckes non ha ancora digerito i 4 gol presi a San Siro nel ritorno. E poi, il referto lo stilò un commissario francese dell’Uefa, mica io. Mi era arrivato di tutto addosso: lattine, bottiglie, sputi. Sicuramente una lattina mi è arrivata in testa. Mi portarono negli spogliatoi e, fra il primo e il secondo tempo, ricevetti la visita del commissario francese dell’Uefa, che consultò anche il dottor Angelo Quarenghi, nostro medico sociale. Noi pensavamo di vincere a tavolino, a dire il vero, perché l’arbitro ci disse che, dopo quel fattaccio, considerava la partita ormai finita». L’arringa dell’avvocato Peppino Prisco, vice-presidente interista e inviato nella sede dell’Uefa a Ginevra, fece il resto, indirizzando la decisione della Disciplinare. I tedeschi si appellarono al fatto che a lanciare la lattina era stato un italiano al seguito dell’Inter. Ma non valse a nulla. L’Uefa decretò la ripetizione del match: non si sarebbe, però, giocato a Moenchengladbach, ma a Berlino. «Vincemmo la sfida di ritorno per 4-2, a San Siro, segnai anch’io: nella ripetizione, in Germania, li bloccammo sullo 0-0, grazie anche alle parate di Bordon, sostituto di Lido Vieri, che era il titolare».

Daniele Abbiati per ''il Giornale'' l'8 marzo 2020. Il senso di questo libro è condensabile in una frase. Che però non è stata scritta per questo libro, appena uscito. Infatti risale al più tardi al 1985, quando l' autore, a 21 anni, lasciò la casa dei genitori e andò a vivere con la bella e santa donna che ancora gli sta accanto. Sulla scrivania della sua cameretta, lui, Marcel van Basten detto Marco, con un coltellino vergò in maiuscolo queste parole: «IO SONO IL MIGLIORE (DOPO DI ME)». Le riporta qui, a pagina 299, quasi nei minuti di recupero di Fragile, che è un' autobiografia, ma soprattutto la partita giocata da Marco contro se stesso, come fanno i pugili quando si allenano davanti allo specchio, cioè tirando pugni virtuali, compresi i colpi bassi, alla propria figura. In quella frase, certo, leggiamo l' arroganza del genio, ma è un' arroganza interiore, che parla, appunto, allo specchio, e pretende la perfezione: o la perfezione, oppure il nulla. E poi c' è la parentesi, «(DOPO DI ME)», come a dire: no, non ci riesco, non posso riuscirci, a essere il migliore, perché l' altro me, quello che mi comanda e mi sta guardando dallo specchio, non sarà mai soddisfatto. Con quella frase Marco, inconsapevolmente, è stato buon profeta. È stato realmente quanto di più vicino alla perfezione, sui campi di tutto il mondo, oppure il nulla, fuori. Colpa della caviglia destra, maltrattata dai chirurghi prima, durante e dopo le pedate degli avversari. D' altra parte, se Omero era cieco e Beethoven era sordo, a posteriori possiamo persino accettare che Marco fosse tecnicamente zoppo. Ebbene sì, amici e colleghi, anche prima di arrivare al Milan. Noi, lassù, sui gradoni di San Siro, non lo sapevamo, e se qualcuno ce lo avesse detto avremmo chiamato la Neurodeliri. Guardavamo Marco scrivere e suonare con il pallone fra i piedi, ascoltavamo rapiti le storie che ci raccontava, per 90 minuti lo stadio non era uno stadio, ma davvero, come da luogo comune, la Scala del calcio, o la Pinacoteca di Brera, o la stanzetta di Tolstoj a Jàsnaja Poljàna. Il bello di questo libro, Fragile come da titolo (Mondadori, pagg. 345, euro 20) eppure durissimo, indistruttibile come l' acciaio e come la voglia che aveva Marco di andare sempre avanti, di fargliela vedere, a quell' altro suo «io» che lo sorvegliava dallo specchio, è che il gioco del pallone, sotto i polpastrelli di Marco, torna a essere, a dispetto dei soloni (e dei loro reggicoda) passati, presenti e futuri, un gioco. Come la letteratura, la musica, la pittura. Un bene voluttuario, da gustare con voluttà. Marco non si autocelebra, accenna appena ai suoi successi, di squadra e personali, agli Scudetti, alle Coppe, ai Palloni d' Oro che lo collocano nell' Olimpo. Al contrario, indulge nel sottolineare i suoi dubbi, le sue ansie, le sue (veniali) meschinità. Come quando, il 24 maggio dell' 89 a Barcellona, nella finale di Coppa dei Campioni contro la Steaua, in un attimo decise che sì, era proprio il caso, dopo il gol del 4 a 0, di correre vicino a quel cartellone pubblicitario, visto che l' inserzionista gli aveva promesso un compenso di 500 fiorini...Descrive per filo e per segno tutte le cose brutte che ha fatto (niente paura, nulla di propriamente criminale) e che gli sono capitate. Il suo coetaneo Jopie che lui vede affogare, a sette anni, sotto il ghiaccio di un fossato, il giorno in cui volevano andare a piedi ad Amsterdam; la mamma ricoverata in ospedale e i tifosi della FC Utrecht che si mettono a cantare «Marco, Marco... Tua madre è matta»; il padre che gli parla soltanto di calcio, come un allenatore, senza comunicargli mai nulla, come dovrebbero fare i papà; il dolore all' anca, alla caviglia sinistra, a quella destra; l' impossibilità di convivere con l' apparato di Ilizarov (se non lo conoscete - e vi auguro di non conoscerlo mai - andate a vedere su internet le foto dell' infernale aggeggio, ma prima fate un respiro profondo); i guai prima con il fisco olandese, poi con quello italiano, con milioni di fiorini prima e di euro poi che volano via con il vento della sua inettitudine nel gestirli e nel farli gestire. La pagina 326 si chiude così: «Se non sai cosa vuol dire essere infelice, non sai nemmeno cosa vuol dire essere felice». Non sono qui a raccontarvi che Marco van Basten oggi è una specie di Giacomo Leopardi o di Søren Kierkegaard, e che, a 55 anni suonati, nel suo 25 d.C. (dopo Calcio), si sia messo a fare il filosofo nel ruolo di esistenzialista. No, ma vi invito a leggere, prima di tutto il resto, le ultime tre righe del suo libro: «Ma so anche che rifarei tutto allo stesso modo. Con il mio carattere, per la persona che sono, ci sono buone probabilità che commetterei di nuovo gli stessi errori». Ma sappiate che non le ha scritte un uomo innamorato delle proprie sconfitte, che si crogiola nel maledettismo, sempre di moda, e che gode nel piangersi addosso. Perché Marco è esattamente l' opposto. Per esempio la sua Liesbeth, moglie e madre dei suoi tre figli, con la quale ha avuto soltanto una crisi passeggera, tanto tempo fa (ovviamente per colpa sua, di Marco), non la cambierebbe con nessuna al mondo, perché lei in casa porta i pantaloni, non i pantaloncini (ed ecco un filo rosso che unisce Marco al suo unico vero erede, Zlatan Ibrahimovic, anch' egli felice consorte di una donna con quattro palle, Helena, e anch' egli autore di un' autobiografia scritta a gamba tesa, Io, Ibra, nel 2011). Per esempio di amici ne ha pochissimi, e con quello che ha perso quattro anni fa, Johan Cruijff, non sono mancate polemiche e baruffe. Per esempio non sopporta quelli che ti fanno una faccia davanti e una dietro, la famosa faccia come il culo. Per esempio, passato dall' altra parte dello spogliatoio e intrapresa la carriera da allenatore, confessa che la responsabilità di gestire il gruppo è una prova insuperabile da chi ha sempre camminato avendo sotto i piedi fatati il cuscinetto d' aria del talento assoluto, immateriale e dunque non trasferibile ad altri. Per esempio esulta 24 ore su 24 pensando al cadavere della maledetta caviglia destra, finalmente tumulata, bloccata, mummificata e non più dolorante, e che non gli impedisce di passeggiare, giocare a golf, pedalare sulla cyclette. Grazie per tutto, Marco, anche per la tua ferrea fragilità.

Salvatore Riggio per corriere.it il 6 novembre 2020. Ci sono campioni che hanno sofferto per il calcio. Tra questi, c’è Marco Van Basten che ha raccontato tutto in una lunga intervista alla Bbc. Simbolo del Milan degli olandesi allenato da Arrigo Sacchi e capace di vincere tutto tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, l’attaccante – soprannominato il cigno di Utrecht per le sue movenze eleganti – ha sofferto molto per una caviglia martoriata che lo ha spinto ad annunciare un precoce ritiro il 17 agosto 1995, a soli 30 anni.

Non ne è valsa la pena. Nessun tifoso rossonero si dimenticherà mai le lacrime di van Basten mentre a San Siro saluta chi lo ha sempre amato. «Se avessi di nuovo la possibilità di scegliere il percorso da intraprendere, con tutta l’esperienza accumulata negli anni e considerando il dolore sopportato, penso che non ne sia valsa la pena. La mia caviglia mi ha creato tanti problemi, ha influenzato la mia vita quotidiana. Ma a quel tempo — ha raccontato Van Basten — il calcio era tutta la mia vita. Ora sono più grande, ho vissuto anche una vita senza calcio. E penso che si possa avere una esistenza appagante. Non esiste solo il calcio. Oggi prenderei una decisione diversa».

Come una morte. L’addio fu molto doloroso: «Come calciatore sono morto. Ancora oggi non riesco neanche a giocare a calcio. Mi viene difficile, perché ho la caviglia fissata. Non posso calciare né fare alcun movimento con il piede. Per me è difficile da accettare perché prima di smettere non ho passato un giorno della mia vita senza aver toccato un pallone. Poi, improvvisamente, tutto è finito ed è stato molto doloroso da accettare».

Marco van Basten: «Ho vissuto venti anni di rimpianti. Ora sono sereno». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. «Non ce lo meritiamo, lo capite? Abbiamo visto van Basten, non possiamo sopportare questo». Era l’ultima partita in casa della stagione 2001/2002. Uno di quegli anni sbagliati, a cavallo di due cicli. Javi Moreno, detto El ratón, il topastro, una meteora, giocava da titolare. Gli arrivò un comodo lancio spiovente lungo la linea destra. Mentre correva, il centravanti spagnolo protese in modo goffo il piede destro in avanti, una volta, un’altra ancora, completamente fuori sincronia, per controllare la palla che stava per toccare terra. Poi inciampò, e cadde. Uno spettatore si aggrappò alla balaustra e cominciò a urlare quanto fosse penoso assistere a questi spettacoli, per chi aveva vissuto la breve stagione del cigno olandese. All’improvviso, il pubblico della tribuna si risvegliò dal torpore alzandosi in piedi e battendo le mani. Una ovazione. Lo sfogo individuale di un tifoso si era trasformato nella rivelazione di un sentimento collettivo. Quello dei senza-Marco, di chi è stato testimone della bellezza, di una eleganza così assoluta da rendere impossibile ancora oggi la ricerca di un erede. La copertina della autobiografia di van Basten Alla fine di un lento pomeriggio trascorso a raccontarsi nella sala privata di un ristorante della sua Utrecht, Marco van Basten stringe con entrambe le mani la tazza di tè e per la prima volta abbassa la testa, a nascondere gli occhi. Il titolo italiano della sua autobiografia, in uscita per Mondadori, è Fragile. Non si riferisce solo alla caviglia che lo tradì. Ma al percorso esistenziale di un ex campione baciato dagli dèi del calcio e dalla sfortuna, che ha attraversato momenti difficili e ha dovuto aspettare «l’autunno della sua vita» per mettersi a nudo e riconoscere la propria vulnerabilità di uomo, lui che sembrava un essere superiore, per grazia e talento. «A Milano mi sentivo come se fossi parte di una famiglia. Insieme abbiamo vissuto una vita intera. Mi avete visto nascere, come giocatore e come uomo. Mi avete visto crescere. E purtroppo avete visto la fine».

Van Basten, cosa ricorda della cerimonia di addio al calcio sul prato di San Siro?

«Era tutto triste. Erano tristi gli sguardi dei miei ex compagni, che cercai di incrociare il meno possibile, perché mi ero promesso di non piangere. Non fu una festa. C’era tristezza ovunque. Quella del pubblico, e la mia. Correvo, perché non volevo far vedere che zoppicavo, battevo le mani alla gente. E intanto pensavo che non c’ero già più, mi sembrava di essere ospite del mio funerale».

Aveva paura del futuro?

«Quella sera pensavo soltanto che la mia vita era stata il calcio. Adesso era diventata una fogna. Avevo solo 31 anni, non giocavo più da due. Avevo il fegato a pezzi per gli antidolorifici. Avevo un dolore pazzesco a quella caviglia maledetta. Ero disperato».

Era anche depresso?

«Dopo, quando ne sono uscito, ho capito di aver vissuto qualcosa di simile alla depressione. All’epoca non capivo. Ero troppo concentrato sul mio stare male. Mi chiedevo perché questa sofferenza dovesse toccare proprio a me. Non ho mai trovato una risposta».

Si sente ancora vittima di una ingiustizia?

«Ho smesso quando ho passato i quarant’anni, ovvero l’età in cui tutti smettono di giocare. Fino a quel momento non c’è stata una mattina in cui non abbia pensato a quel che avrebbe potuto essere».

Cosa sarebbe diventato Marco van Basten con una caviglia normale?

«In pratica ho smesso di giocare a 28 anni. Avevo vinto tre Palloni d’Oro. Guardi oggi gli ultratrentenni Ronaldo e Messi, a che punto sono».

A proposito...

«Ronaldo è un grande giocatore. Ma chi sostiene che sia più forte di Messi non capisce di calcio oppure è in malafede. Messi è unico. Inimitabile e irripetibile. Come lui, uno ogni cinquant’anni. Da bambino è caduto nella pentola del genio calcistico».

Come ha fatto a uscire da quel periodo nero?

«Vorrei dirle che mi ha aiutato mia moglie, la famiglia. Invece sono stato un peso per loro. Sono stati anni molto brutti. Forse, dovevo toccare il fondo per poi cominciare la mia nuova vita».

Quando ha capito di averlo raggiunto?

«Un giorno che stavo tornando a casa da non so quale evento promozionale. Scendo dalla macchina. Angela, una delle mie figlie, mi corre incontro per abbracciarmi».

Cosa c’era che non andava?

«Aveva le mie stampelle in mano. Me le stava portando, come fosse un gesto naturale. Ormai era abituata a vedermi così. Non potevo più sopportare l’idea che le mie ragazze pensassero a papà come a uno zoppo. Alzai il telefono e chiamai il dottore».

Per dirgli?

«Che accettavo la sua proposta di bloccarmi per sempre la caviglia. Me l’ha fusa con il resto della gamba. Non posso più piegarla o girarla. Non posso più correre. Ma non sento più dolore. Da quel momento ricominciai a pensarmi come una persona con una vita davanti, e non come un menomato ricco e viziato che si piange addosso».

Il suo primo ricordo da calciatore?

«Ho nove anni, sono in ritardo all’allenamento. Mio papà Joop esce dalle macchine in coda per prendere la corsia d’emergenza con la nostra utilitaria, e io mi spavento moltissimo. Non aveva mai fatto una cosa del genere».

Era un padre-tiranno?

«No. Era un ex calciatore, ed era molto orgoglioso di me. Al tempo stesso era un padre, come dire, olandese. Mi spiegava il calcio, mi sosteneva, ma era anche distaccato, freddo. Non ho mai giocato per lui, se è questo che intende».

Da chi è arrivata la spinta decisiva?

«Dall’ambiente. Dai miei allenatori delle giovanili all’Ajax. Da Johan Cruijff, che è stata la figura calcistica più importante per me. A forza di sentirmi dire che ero speciale, ho finito per crederci anch’io».

Per lei cos’è il calcio?

«Un gioco da bambini, nel senso più puro e vero del termine. I rapporti tra giocatori, e con gli allenatori, sono regolati da un modo di interagire infantile e irrazionale. Io ti do una cosa, tu cosa mi dai in cambio? Funziona così. Difficile da spiegare a chi non fa parte di quel mondo».

Per questo i suoi rapporti con i giornalisti sono sempre stati freddi?

«Quando parlavo con la stampa italiana mi sentivo davvero straniero. Non era una bella sensazione. All’esordio in casa della mia prima stagione perdiamo con la Fiorentina. Mi chiedono della partita. Rispondo che secondo me l’abbiamo interpretata in modo sbagliato. Ne nasce uno scandalo. Un solo imputato. Anzi un colpevole: io».

Lei era un po’ presuntuoso, lo ammetta.

«Stavo sulle mie. Qui si scrive così tanto, si prende una sciocchezza e la si monta all’inverosimile, per giorni. Ma se un giocatore osa mettere in discussione la tattica dell’allenatore, non si entra nel merito. Non si apre una discussione che magari potrebbe anche essere interessante. Lo si condanna e basta, subito. Ho capito subito che da voi avrei dovuto parlare dicendo il meno possibile».

Quel giorno, l’allenatore era Arrigo Sacchi.

«Non c’è mai stato feeling personale tra me e lui. Non mi ha mai dato l’impressione di essere onesto nei rapporti umani. Non era mai diretto. Andava a zig zag. Quando non era contento di come ci allenavamo, se la prendeva con i giovani, con i più deboli, che magari invece erano in testa a tirare il gruppo».

Ha fatto la storia del calcio.

«L’hanno fatta i suoi giocatori. Quel Milan era una delle squadre più forti di sempre. Lui ha avuto una parte importante. Era bravo a farsi amici i giornalisti, ha saputo costruire una immagine da grande innovatore».

Non lo è stato?

«Non ha inventato nulla. Il modulo che usava il Milan non era né rivoluzionario né offensivo. Schieravamo difensori eccezionali. A farci vincere così tanto è stata sempre la difesa, alla quale lui si applicava molto, dedicando invece poco tempo alla fase offensiva».

C’è qualcosa che non rifarebbe?

«Una volta negli spogliatoi gli dissi che vincevamo non grazie a lui, ma nonostante lui. Ci rimase così male, che uscì senza dire nulla. Sentii di averlo ferito. E non lo meritava. Uno sfregio gratuito, del quale mi dispiaccio ancora, anche se è passato tanto tempo. A livello personale, non ho problemi con lui, lo ricordo con affetto».

Lei sta con “risultatisti” alla Max Allegri, convinti che l’allenatore debba fare meno danni possibile, o con i “giochisti” sostenitori dell’importanza del modulo?

«I giocatori sono più importanti. Contano solo loro, nel calcio. L’allenatore bravo è quello che li fa rendere al meglio, senza imporre per forza le sue idee».

Ma lei non viene dalla scuola olandese, non è discepolo di Cruijff?

«Appunto. Noi abbiamo il nostro modo di giocare, che non rinneghiamo mai. Proprio Johan voleva ridare il calcio ai calciatori. La cosa più importante è la tecnica individuale, non la tattica collettiva».

Prima stagione al Milan, prima operazione alla caviglia. Ha mai avuto il presagio che da allora il suo tempo potesse scadere?

«Al mio risveglio il chirurgo disse che sarei tornato ad alti livelli, ma nessuno avrebbe saputo dire per quanto. Me lo dimenticai subito. Ero convinto che sarei durato per sempre. Dicevo sempre ai miei compagni che avrei smesso a 38 anni. Come poi hanno fatto Franco Baresi e Paolo Maldini. Ci credevo davvero. Quando sei giovane, ti senti immortale».

Chi comandava, nello spogliatoio del Milan?

«Nel calcio le gerarchie vengono sempre stabilite dalla bravura. Non conta l’età, il successo, lo stipendio. Solo la bravura».

Allora perché lei non è mai stato considerato un leader?

«A me bastava “comandare” in campo. Avevo l’ossessione di vincere, in questo ero simile a Sacchi. Tra noi, mi sentivo rappresentato da Baresi, da Maldini che era più giovane ma si faceva sentire».

Amici?

«Ci aiutavamo tra noi. Era una squadra di calciatori intelligenti, dicevamo che eravamo tutti mezzi allenatori. Ancora oggi sono molto legato a Mauro Tassotti. Ma per tutti provo quell’affetto che deriva dall’aver condiviso emozioni così forti. Sono cose che restano».

Ha mai provato invidia nei confronti di Ruud Gullit?

«Gli ero grato, piuttosto. Quando il nostro pullman arrivava allo stadio, io e Frankie Rijkaard aspettavamo che scendesse dalla porta anteriore e venisse assediato dai giornalisti per andarcene dal retro, in santa pace. Era bravo a comunicare e gli piaceva. Toglieva pressione agli altri».

Quanto le mancano quegli anni?

«Sono stati i più belli della mia vita. Nel 2018, io e mia moglie Liesbeth siamo tornati. Di sera, abbiamo camminato dalla Stazione centrale fino in centro, in via Puccini, dove c’era la nostra casa. Come è cambiata, Milano».

Lei sarebbe rimasto per sempre?

«Sì. Ambiente fantastico, giocatori simpatici. San Siro, lo stadio che ho amato di più, era casa mia. Eravamo felici».

E adesso?

«Anche. Per questo ho deciso che era il momento di mettermi e nudo e di raccontarmi. Ci ho messo tanto per arrivare a essere una persona serena».

Lo sa che tra poco San Siro non ci sarà più?

«Mi dispiace, e molto. Ma un grande club deve avere lo stadio di proprietà. Oggi funziona così».

Perché nel libro racconta nel dettaglio due gol contro il Pescara e contro il Lecce, invece di tanti altri più famosi?

«Un gol vale l’altro. I gesti tecnici vengono esaminati, studiati, passati al microscopio. Ma invece succedono, e basta. Sono figli del momento. Non c’è mai una vera spiegazione. Il calcio è istinto, al novanta per cento».

Vale anche per il suo gol nella finale all’Europeo, quel tiro al volo impossibile?

«Certo. Segnai perché avevo la caviglia fasciata in modo rigido, e mi tenne il piede fermo mentre colpivo. Un piccolo risarcimento. Due mesi dopo giocammo una amichevole nello stesso stadio. I miei compagni mi fecero scommettere che ci avrei riprovato. Tirai la palla fuori dallo stadio».

La gioia più grande?

«Quando ancora non avevamo vinto niente. Un attimo prima. Il nostro pullman che risale le ramblas di Barcellona invase dai tifosi del Milan per la finale di Coppa dei Campioni. Quella sera mi sembrò di correre sospinto da una mano invisibile».

Sempre convinto che le sia stato rubato uno scudetto?

«Lo sanno tutti che fu così. Ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo. Prima la sceneggiata di Bergamo, con la moneta in testa ad Alemao e il massaggiatore del Napoli che gli dice di simulare un trauma. Poi la nostra sconfitta a Verona. Una imboscata, con un arbitro come Lo Bello che fece di tutto per farci perdere e fischiò in maniera scandalosa. Un lavoro fatto bene».

Da chi?

«Dal sistema del calcio italiano. Da chi aveva interesse a mandare due squadre in Coppa dei Campioni. Tutti sapevamo che eravamo favoriti per rivincere, aggiungere un’altra squadra conveniva a tutti. Fu una vera porcheria. Ancora oggi mi brucia».

Jürgen Kohler, Pasquale Bruno... Chi le ha portato via più mesi di carriera?

«Nessuno. Mi facevo rispettare anch’io. Loro volevano fermarmi, io dovevo fare gol. Tutto normale. Non sono stato rovinato dai difensori cattivi, ma dai cattivi chirurghi».

Cosa rappresenta la data del 21 dicembre 1992?

«La fine dei miei sogni. Stavo giocando da Dio, avevo un allenatore che mi piaceva, Fabio Capello. Mi fa male la caviglia, decido di operarmi. L’errore che segna la mia vita».

Perché non ascoltò il parere dei dottori del Milan, Monti e Tavana, che le consigliarono di non farlo?

«Lei non può immaginare quanto l’ho rimpianto. Ogni mattina, per almeno i vent’anni seguenti. Il primo pensiero al risveglio è sempre stato quello. Non mi fidai di loro. Pensavo che stessero parlando nell’interesse della società».

Nel suo libro, in ogni sua parola, emerge una costante sensazione di rimpianto.

«Sono un calciatore interrotto. Forse il più famoso di questa categoria. Non me ne sono andato in pace. Non nascondo che reinventarmi come persona, è stata dura».

Quanto le è mancato non avere sua madre accanto a lei?

«Nel 1985, all’inizio della sua malattia, l’avevano messa in un manicomio. Aveva subito un ictus cerebrale. Era una donna sensibile e infelice, così come il matrimonio con mio padre aveva prodotto altra infelicità. Ha trascorso 22 anni senza riconoscere nessuno. Non si è potuta godere i figli, i nipoti. Solo quando se n’è andata, nel 2007, ho capito la natura del dolore sordo e senza nome che mi ha scavato dentro per tutto questo tempo».

Perché da allenatore non ha funzionato?

«Quando tornai all’Ajax un ragazzo mi provocò. Sei van Basten, mi disse passandomi la palla, fammi vedere cosa sai fare. Ma io ormai non potevo più muovere la caviglia. In quel momento capii che non avrei mai potuto essere un allenatore come Cruijff, che viveva anche di quel che era stato».

Chi era quel ragazzo così impertinente?

«Oh, sono sicuro che lo conosce. Si chiamava Zlatan, di cognome faceva Ibrahimovic».

Le piaceva?

«Mi ci rivedo. A inizio carriera era simile a me. Molto tecnico, a tutto campo. Poi anche lui ha capito il segreto per essere grande».

Ne esiste uno?

«Fare gol. Io, Cristiano Ronaldo, Ibra. Ci siamo passati tutti. Se vuoi essere il numero uno, devi concentrarti sul gol, solo sul gol. Devi diventare una macchina».

Anche al termine del suo ultimo incarico da allenatore si parlò di depressione.

«In quel caso fu diverso. Avevo continui attacchi di panico e di ansia, tanto per non farmi mancare nulla. Prima degli incontri con la stampa mi sdraiavo per terra in una stanza vuota, cercando le forze per andare fuori e rispondere alle critiche».

Da dove veniva questa insicurezza?

«Dalla mia mania del controllo. Volevo fare le cose troppo per bene, non riuscivo ad accontentarmi. Non accettavo di essere discusso. Ero un fanatico del calcio».

Come Sacchi?

«Forse sì. Persone con idee diverse, ma divorate dalla stessa ossessione».

Quando ha capito che allenare non faceva per lei?

«Una delle ultime trasferte con la nazionale olandese. Arrivai in aeroporto, eravamo a Minsk, in Bielorussia. Tutti mi evitavano come se fossi infetto da una misteriosa malattia. Questa sensazione permanente di solitudine mi pesava molto».

Come ne è uscito?

«Ero già passato attraverso queste situazioni di disagio. Ho avuto l’umiltà di riconoscerle. Nel tempo, ho imparato che non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto a chi ti sta vicino, ammettendo prima di tutto a sé stessi che si sta male. E così sono stato io a dire basta».

A parte la carriera interrotta troppo presto, ha altri rimpianti?

«Non ho potuto fare pace con Johan Cruijff. Il mio idolo, il mio maestro, il mio amico. Morì prima che gli potessi dire quanto è stato importante per me».

La causa del litigio?

«Aveva un progetto. Un’utopia. Voleva ridare l’Ajax agli ex calciatori. Avrei dovuto fare il team manager. Poi mi lasciò fuori. Non ho mai capito perché. Forse era un modo per proteggermi. Andai da lui, e sua moglie mi cacciò di casa. Non sono mai più riuscito a parlargli, anche se con la sua famiglia poi ho fatto pace. Johan mi manca».

Cosa le è venuto in mente di pronunciare un sieg heil alla televisione olandese?

«Una tempesta in un bicchiere d’acqua, scatenata da una mia battuta da cretino. Certe volte uno vuole fare lo spiritoso, e invece farebbe bene a tacere».

Qual è il suo rapporto attuale con il calcio?

«Vivo una condizione permanente di ambiguità. Da un lato ripeto sempre di non essere stato così importante, di essere uno dei tanti che hanno fatto buone cose».

E dall’altro?

«Ho sempre paura che la gente si dimentichi di me. Aveva ragione Sacchi, sono un po’ lunatico».

Mi racconta del quadro all’ingresso di casa sua?

«L’ho comprato in una galleria di Milano, quando giocavo. Rappresenta un ballerino, impegnato in un passo di danza classica. Ci sono solo due colori. Il rosso e il nero».

Chi è oggi Marco van Basten?

«Un futuro nonno. Un padre e un marito decente. Una persona imperfetta, che ha saputo venire a patti con la sua fragilità».

Da gazzetta.it il 18 maggio 2020. Endless love. L' amore senza fine di Paolo Maldini per il Milan è stato proclamato di nuovo ieri sera nella trasmissione di Fabio Fazio, "Che tempo che fa", trasmissione alla quale l' ex capitano e ora d.t. del Milan era intervenuto sostanzialmente per riparlare del coronavirus e della ripartenza del campionato. Paolo è stato male, come tutta la sua famiglia, si è ripreso, ma il suo futuro da d.t è ancora da definire. Nonostante quelle parole, quella risposta a una domanda del conduttore. «La storia della mia famiglia con il Milan è talmente lunga che difficilmente avrà una fine». Una dichiarazione d' amore inconfutabile. Maldini è rimasto anche dopo l' addio di Leonardo, soprattutto dopo l' addio dell' amico Boban che aveva chiamato a far parte con lui della dirigenza dell' area tecnica. L' orgoglioso Boban ha detto sostanzialmente ciao dopo aver scoperto di essere stato in qualche modo scavalcato da chi ha incontrato il manager Rangnick nonostante il profilo fosse stato giudicato inadatto al Milan dai responsabili dell' area tecnica. Che non sono onnipotenti e non possono pensare di gestire in autonomia tutto, ma insomma la frattura si è allargata dopo l' intervista del dirigente croato alla Gazzetta e il resto si vedrà. Maldini è rimasto, ma era stato il primo a esporsi pubblicamente definendo il tedesco un profilo non adatto al club. Poi altre dichiarazioni forti negli ultimi giorni per chiarire che c' è chi sta lavorando «mettendo il bene del club al di sopra del proprio orgoglio». Ecco, in questo quadro si incastrano un altro atto d' amore verso il club rossonero, l' unico nel quale abbia giocato, e la preoccupazione per il futuro. «Che cosa succede nel calcio? Bisogna provare a riprendere il campionato e a finirlo. Ma bisogna ripartire in sicurezza, con la salvaguardia di tutti. Il calcio è un' azienda, ha un indotto di quasi cinque miliardi. Ha un' importanza economica e sociale, perché gli altri sport spesso sono sostenuti dal pallone. Noi stiamo provando ad adattarci mettendo in sicurezza i giocatori e quelli che stanno intorno a loro. Dobbiamo provarci, però sapendo che bisogna evitare rischi. E' complicatissimo e difficile mettere insieme le parti. Ho partecipato alle ultime due riunioni della Lega, l' idea è quella di provare a ripartire. La coesione c' è, c' è un' idea da trasferire alla Federcalcio e da lì al governo. Se ci fosse un tavolo con tre componenti sarebbe meglio». Riguardo ai protocolli, Maldini ha una visione precisa. «Bisognerebbe considerare la salute mentale dei calciatori. Un ritiro prolungato dopo 60 giorni di lockdown provocherebbe ulteriori problemi». Per chiudere, ricordi su come ha passato il periodo di isolamento e su come ha superato la malattia. «Il Covid ha colpito me, tutta la mia famiglia ed è stata dura. Io e mia moglie abbiamo sofferto più dei ragazzi. Consigli su come affrontare il virus? Quando lo ho avuto io si sapeva meno. Ci dicevano chiamate se ci sono problemi respiratori, fortunatamente non ne avevo, il resto non erano cose simpatiche ma ascoltando gli esperti sono riuscito a capire che strada stesse prendendo il virus nel mio corpo». Quella è una battaglia vinta. Sul futuro al Milan le strade sono aperte, è una questione di storia e di famiglia.

Chi è Daniel Maldini, figlio di Paolo che ha esordito in serie A.  Debora Faravelli su Notizie.it il 03/02/2020. Chi è Daniel Maldini, terza generzione della famiglia che ha debuttato a San Siro negli ultimi minuti di Milan-Verona. Figlio di Paolo e nipote di Cesare, Daniel Maldini ha esordito in Serie A entrando in campo durante i supplementari del match Milan-Verona che si è concluso con 1-1: chi è il calciatore entrato al posto di Castillejo che ha debuttato all’età di 18 anni.

Chi è Daniel Maldini. Nato a Milano l’11 ottobre 2001, Daniel Maldini, figlio di Paolo e Adriana, è nato e cresciuto con la passione per il calcio e quella per il Milan. Un binomio quasi fatale, tenendo conto del ruolo avuto dal padre e dal nonno in questo mondo. Allo stesso modo del fratello maggiore Christian, Daniel ha mosso i primi passi nel mondo del calcio nel Settore Giovanile del Milan, dove ha iniziato a prendere le distanze dalle due generazioni precedenti. Se queste ultime si erano infatti affermate come difensori, lui ha da subito brillato come centrocampista offensivo. Alto 181 centimetri, ha già segnato otto goal in dodici presenze complessive tra campionato e coppa Italia Primavera. Da poco ha firmato il rinnovo di contratto con il Milan in cui presenzierà fino al 2024. Queste le sue parole al termine di Mila-Verona che h segnato il suo debutto: “Il mio esordio è stato un sogno, peccato per il risultato . Il Verona è una squadra tosta, magari meritavamo i tre punti ma abbiamo portato a casa un pareggio“. Si è poi augurato una vittoria nella partita successiva, aggiungendo che quell’esordio era un obiettivo che si era prefissato da tempo e che ora spera di continuare in questo modo. “Ho provato un’emozione forte, ci ha pensato papà Paolo a tranquillizzarmi“, ha concluso.

Il calcio di serie C produce 580 milioni di euro. Presentato a Roma il primo studio di impatto economico e sociale della Lega Pro. Alla presenza del ministro Spadafora e del sottosegretario Manzella. Telesio Malaspina su La Repubblica il 28 gennaio 2020. Esiste il calcio di serie A, quello dei Ronaldo e degli Ibrahimovic, che produce favolosi guadagni, business milionari, addirittura miliardari per i diritti tv (e anche tanti debiti...). Ma esiste anche un calcio minore, quello di serie C, il cui valore economico non era mai stato misurato. Fino a oggi. E che, fatte le debite proporzioni, contribuisce comunque in modo significativo, alla crescita del sistema Italia. Stamattina all'hotel Boscolo Circo Massimo di Roma, alla presenza del ministro per la Gioventù e lo Sport Vincenzo Spadafora e del sottosegretario allo Sviluppo Economico Gian Paolo Manzella, è stato presentato il “Primo studio di impatto di Lega Pro” realizzato in collaborazione con ItaliaCamp. I dati più significativi: la terza serie del calcio italiano genera un valore economico e sociale per il Paese di 580 milioni di euro l'anno. Ogni euro distribuito o investito dalla Lega Pro e dalle sessanta squadre divise in tre gironi che formano i campionati produce 2,9 euro per l'intero sistema economico. E va ad aiutare, soprattutto, quell'Italia di provincia dove i team sono radicati. Non per caso la serie C ama definirsi la “Lega dei Comuni d'Italia” per la capillare distribuzione sul territorio da Nord a Sud: 17 regioni rappresentate, 1230 calciatori professionisti tesserati, 12770 ragazzi nei settori giovanili, 318 attivi nella quarta categoria, il campionato dedicato ai portatori di disabilità intellettive e relazionali; 17 milioni di appassionati coinvolti, 1,5 milioni di spettatori alle partite del girone di andata di questa stagione. Alla presentazione del rapporto erano presenti anche il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina, naturalmente il presidente della Lega Pro Francesco Ghirelli con la sua vice, l'attrice Cristiana Capotondi. Ghirelli, oltre a sottolineare l'importanza dello studio che definisce il perimetro economico entro il quale si muove la sua organizzazione, non ha voluto nascondere i problemi. Ha detto: “C'è un problema di sostenibilità. Non possiamo rischiare di ridimensionare il numero dei club perché verrebbe meno una parte fondamentale di quel reticolo economico e sociale che contribuisce a tenere il piedi l'Italia”. Chiaro il riferimento alla richiesta di defiscalizzazione per le società di serie C, misura sulla quale è aperto il confronto con il governo e che nel dicembre scorso ha portato anche al bocco di una giornata del campionato.

Giulio Di Feo per la Gazzetta dello Sport il 31 gennaio 2020. Un po' come fare il Duomo con i Lego, guardarlo qualche anno dopo e scoprire che è diventato grande come l' originale. In architettura non è possibile, nel calcio sì. Chiedere lumi a Bruno Fernandes, che ha visto il proprio valore di mercato moltiplicarsi del 2000% in 8 stagioni: il Manchester United l' ha preso dallo Sporting per 80 milioni (bonus compresi), ma nel 2012 venne via al suo primo trasferimento da pro a circa 40mila euro. Lo prese il Novara in B, affare pluri-redditizio: arrivò per la Primavera ma appena si affacciò in prima squadra le mise il Tigre nel motore portandola dai bassifondi ai playoff, poi fruttò al club 5 milioni nell' ambito della sua cessione all' Udinese (comproprietà più riscatto). Uno si chiede: l' ha pagato troppo lo United o l' ha pagato poco il Novara? Entrambe e nessuna. Il primo quesito non si pone: in Premier, e lo United ancor di più, problemi di cassa ce ne sono pochi, se uno serve prima si compra e poi si chiede quant' è. Il secondo va spiegato: Fernandes nel 2012 spiccava nelle giovanili del Boavista, che all' epoca vivacchiava in C, e se brilli nel sommerso è difficile che ti peschino subito al top. Nello specifico, di lui si era innamorato Ribalta, all' epoca capo degli osservatori della Juve, così la soffiata al Novara arrivò veloce e il ds Giaretta fu bravo a capitalizzarla. Nel mezzo, Fernandes ci ha messo tanto del suo: in 4 anni di Serie A (3 a Udine e 1 alla Samp) ha perfezionato il ruolo di mezzala con licenza di uccidere, poi allo Sporting si è sublimato. In biancoverde ha corso da mediano e segnato come una punta di quelle buone, 64 reti in 2, 5 anni. E con certi numeri poi la chiamata da un top club è strano se non ti arriva. Lo United gli sbavava dietro dai tempi di Mourinho, anche Spurs e Real di recente hanno sondato il terreno. Di lui piace l' adattabilità a vari contesti tattici, naturale per uno che da ragazzo era centrale difensivo per poi passare all' ala fino al ruolo attuale, il carattere temprato, la capacità di disimpegnarsi nel breve per poi giocare facile e preciso, l' ambidestrismo montato su due piedi dolci e un tiro secco, preciso, mai improvvisato anche da lontano. Lo spirito di sacrificio l'ha imparato a casa: papà era bravo ma mollò il calcio per un lavoro così da poter provvedere alla famiglia. L'idolo? Non a caso Moutinho, un leader che raffinava la palla per gli altri ma che amava anche andarsela a procacciare. Bruno è di cuore, nell' ultima intervista allo Sporting s' è messo pure a piangere per la commozione. E mentre i velenosi columnist inglesi si chiedono se potrà farcela con la pressione di una maglia che ha fatto crollare gente tipo Veron o Sanchez, di sicuro sorridono a Genova: negli accordi sulle percentuali di futura vendita, nelle casse Samp entreranno 7 milioni.

Adani attacca ancora Allegri: «Dovrebbe parlare di meno e allenare di più». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. Un altro scontro Adani-Allegri? Non proprio, visto che giovedì notte a Sky Sport mancava l’ex allenatore della Juve. E Adani ha parlato di lui con toni polemici: «Allegri dovrebbe parlare meno e allenare di più, quando parla dà il peggio di se, invece quando allena è uno molto vincente. Perché il Barcellona gli ha preferito uno come Setien che ha allenato il Las Palmas ed il Betis? Perché l’Arsenal ha preferito Arteta che non ha mai vinto nulla da allenatore e faceva solo l’assistente?». I due nuovi tecnici stanno incontrando difficoltà nelle loro nuove esperienze, mentre Allegri è ancora sotto contratto con la Juve fino a giugno e ha sempre detto di non voler prendere una squadra a metà stagione. Evidentemente ad Adani non sono andate giù alcune dichiarazioni di Allegri in questi mesi, tra cui quelle in una intervista al Corriere della sera in cui l’ex tecnico bianconero, vincitore di 5 scudetti di fila, 4 doppiette di fila con la Coppa Italia e per due volte finalista di Champions, attaccava i «filosofi che rovinano il calcio»: «Io non ho mai detto che preferisco il gioco alla tecnica dei singoli giocatori, sono stato frainteso - dice Adani -. Ma non conta solo vincere nel calcio. Io ad esempio segue il calcio sudamericano perché non ho mai visto la Juventus di Allegri giocare bene come il River Plate di Gallardo...».

Adani stuzzica e provoca, Allegri è assente e si tiene in allenamento, ma la baruffa continua. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Tommaselli. E all’improvviso riecco il «pesce ratto», al secolo Massimiliano Allegri: quello che «piace o non piace» secondo, la nota definizione del Ragionier Filini di fantozziana memoria. A ripescarlo, per poi buttarlo subito in acqua, è Lele Adani: a lui notoriamente il «pesce ratto» non piace, per usare un eufemismo. «Il problema di Allegri è quando parla, non quando allena — ha detto l’ex giocatore giovedì sera a SkySport — . Dovrebbe parlar poco e allenare tanto perché dimostra di saper vincere. Io gli direi: ma come mai a un allenatore che ha vinto cinque scudetti (sono 6 ndr) il Barcellona ha preferito Quique Setién che ha allenato Las Palmas e Betis? E come mai l’Arsenal gli ha preferito Arteta, che non ha mai allenato e che era il vice di Guardiola al City?». La provocazione unilaterale, in assenza cioé della controparte, non è il massimo. Anche perché Allegri — a libro paga della Juve fino a giugno — ha ripetuto che tornerà ad allenare dalla prossima stagione. Ma va detto che è stata utilizzata anche dall’ex tecnico bianconero, nella ormai lunga querelle tra i due: «Vedo in giro troppi filosofi del calcio. Tanti professori e pochi maestri — ha detto Allegri in un’intervista al Corriere della Sera — . Il Milan di Sacchi? Era verticale, esattamente di contropiede, che non è facile da farsi ma quando riesce è un grande spettacolo...». Tutto parte da lì, dal sacchismo e dal suo profeta, il primo a fare dei litigi con Max quasi un genere televisivo a parte. Suo malgrado. Non a caso anche il tema della zuffa in diretta tv con Adani dell’aprile scorso, era quello del «bel gioco», inteso non solo come stile, ma come atteggiamento offensivo: la Juve aveva già vinto lo scudetto ma qualche settimana prima era uscita dalla Champions contro l’Ajax. E per tutta la prima stagione dell’era Ronaldo è stata etichettata, non a torto, come una squadra che «giocava male». Apriti cielo: «Tu sei il primo che legge i libri e di calcio non sai niente — l’attacco di Allegri — . Non ha mai fatto l’allenatore. Ora parlo io, ho vinto sei scudetti, e te stai zitto». «No, fermo, fermo: sta zitto lo dici a tuo fratello!» la replica dell’ex difensore. Fine delle trasmissioni? Niente affatto e non solo per la sarcastica replica allegriana a «Che tempo che fa» («Quando uno non è ferrato...»). Ma soprattutto perché lo stesso concetto che anima la critica di Adani (e non solo la sua) è arrivato fino ai vertici della Juve: tenere Allegri fermo ai box ma sotto contratto e puntare su Sarri, sembra la vittoria di una certa idea di gioco, sacchiana, guardiolista o che dir si voglia, sul grande artigianato all’italiana, di cui Max è un grande esponente. Adesso siamo a metà del guado per tutti, persino per Setien che ha iniziato male al Barcellona o per Arteta alle prese con il complicato rilancio dell’Arsenal. Ma ovviamente anche per Allegri, che deve ripartire dal posto giusto e nel modo giusto. Per Adani, le cui argomentazioni hanno riacceso l’orgoglio di una parte di tifosi bianconeri. E per la Juve stessa, che deve dimostrare di aver fatto un salto di qualità per andare «oltre» le vittorie, conquistandole attraverso il gioco. Una missione non facile, che influenzerà anche la «battaglia» tra Adanisti e Allegriani: il «pesce ratto» non sarà freschissimo. Ma è sempre vivo.

Adani e l'irresistibile voglia di frecciate contro Allegri. Il commentatore di Sky attacca ancora l'ex tecnico della Juventus: «Parli meno e alleni di più». Tony Damascelli, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. A dani Gabriele, per gli amici Lele ma da non confondersi con l'omonima popolazione del Congo, è l'opinionista di punta di Sky calcio. Ogni sua parola, ogni suo commento è documentato da fonti, sorretto da perizia, illustrato da un lessico covercianesco, complesso, a volte vicino a quello del conte Mascetti di Amici Miei e della sua supercazzola. Adani va matto per la garra sudamericana, se uruguagia meglio, se argentina, alla voce River Plate, allora si sfiorano i massimi dell'eccitazione orgasmica. Va da sé che non gli garbi affatto certo football nostrano, quello che è chiamato a giudicare, previo compenso significativo, tra antiquati critici e superficiali commentatori. Soprattutto non gli piace il calcio di Allegri Massimiliano, l'esatto contrario delle note caratteristiche sudamericane di cui sopra o del cholismo, del sarrismo, del sacchismo, di tutta quella roba lì che fa tendenza tra coloro che si considerano depositari del Verbo. Nelle ultime ore ha invitato lo stesso Allegri a parlare di meno e ad allenare di più, perché quando apre bocca dà il peggio di sé. Ora, pare che Allegri abbia allenato di più e parlato di meno nella sua carriera, avendo vinto, da allenatore, scudetti sei, coppe Italia quattro e supercoppe tre, mentre l'opinionista si è fermato a un titolo di campione della serie B con il Brescia e una coppa Italia con la Fiorentina ma da calciatore, perché, cimentatosi nel ruolo di vice Baldini a Vicenza, concluse la missione lasciando l'incarico ma senza lasciare traccia alcuna nella città del Palladio. Forse è questa cornucopia dell'Allegri a provocare una reazione così stizzita dell'opinionista, il cui look, barba e capelli, lo fa assomigliare all'artista Conchita Wurst (che, però, venuta/o a conoscenza del paragone, ha cambiato acconciature varie). Ma ci sta, Adani Gabriele, detto Lele, non la popolazione del Congo, va preso a piccole dosi, con i suoi pensieri, a volte negativi nei confronti di chi pensa un calcio diverso dal suo (?), che spesso è un kamasutra che si dimentica della prima posizione, cioè sapere giocare a football, e con le sue parole, anche quelle buone, che, una volta uscite dalla sua bocca, si trasformano in un doppio scappellamento a destra e a sinistra come fosse Antani. Anzi, Adani.

Stefano Agresti per il “Corriere della Sera” il 18 febbraio 2020. Guadagna un terzo di Sarri e un quinto, quasi un sesto di Conte, però è lassù con loro: a ridosso della Juve e davanti all' Inter, che ha appena annichilito e scavalcato. Del resto Inzaghi è abituato a moltiplicare il valore non solo di se stesso, ma anche dei calciatori che gli mettono in mano. Ha trascinato la Lazio a un punto dal primo posto con un gruppo costruito in economia, tra scarti di club grandi e meno grandi e potenziali talenti pescati in giro per il mondo. Ci ha lavorato e li ha cresciuti, benché il primo che avesse necessità di maturare fosse proprio lui, l' allenatore, il quale ha mollato la squadra Primavera ed è sbarcato nel calcio dei grandi nemmeno quattro anni fa, nell' aprile 2016, quando Lotito ha deciso di far fuori Pioli. Oggi raccoglie i frutti quasi proibiti di questo percorso, puntando addirittura lo scudetto, dopo essersi già preso tre coppe lungo la strada. Ha ricostruito Immobile, pagato 9,5 milioni scarsi, una miseria per un centravanti che era già stato capocannoniere della serie A; ha rilanciato Leiva e Luis Alberto, il vecchio e il giovane messi da parte dal Liverpool, costati 10 milioni (in due); ha accompagnato la trasformazione da promessa a fenomeno di Milinkovic-Savic, la cui oscillante valutazione ha raggiunto vette di oltre 100 milioni; ha fatto diventare giocatori da scudetto Strakosha e Luiz Felipe, ex riserve della Salernitana in B, così come Acerbi e Lazzari, da anni sotto gli occhi di tutti i club italiani, per non direi dei vecchi Radu, Lulic, Caicedo. Ha trasformato in oro quasi tutto ciò che ha toccato, Inzaghi, compreso il titolo del club che ieri in Borsa ha guadagnato oltre il 12% raggiungendo una quotazione mai toccata dal 2004. E pensare che l' ingaggio dell' allenatore non supera i due milioni più bonus. Il fatto che tra questi bonus ci sia lo scudetto la dice lunga sui sogni laziali di inizio stagione, diventati adesso speranze. In Spagna c' è chi scrive che il Barcellona sta seguendo Inzaghi. Di sicuro a lui hanno pensato la Juve e il Milan nella scorsa primavera, prima di orientarsi su Sarri e Giampaolo. Chissà se qualcuno si è pentito. E chissà se ci potrà essere un ritorno di fiamma. Il contratto di Inzaghi scadrà nel giugno 2021, convincere la Lazio a lasciarlo partire in anticipo sarà praticamente impossibile, né lui sembra pensare ad altro se non allo scudetto che vorrebbe riportare in biancoceleste vent' anni dopo quello vinto da centravanti. Dicono che al Barcellona piacciano i suoi metodi e i suoi risultati, alla Juve anche i suoi modi. Che sono quelli di un uomo equilibrato, quasi mai sopra le righe (anche se la partita con l' Inter gli è costata la cravatta, che ha perso durante la gara: se ne è dovuto far prestare un' altra per andare in tv). Il massimo della trasgressione? Qualche coro nello spogliatoio dopo questa vittoria. Ma ha subito recuperato il suo aplomb: la Lazio ha solo 14 partite da giocare, al contrario delle due concorrenti che hanno anche le Coppe, e lui non vuole sottovalutarne nemmeno una. Potrebbe valere lo scudetto.

Gigi Garanzini per “la Stampa” il 5 agosto 2020. Il diversamente giovane maestro Galeone, oltre a spaziare sul calcio a trecentosessanta gradi, continua ad avere un debole per i suoi allievi prediletti, in ordine alfabetico Allegri, Gasperini e Giampaolo.

Invece che par amigos, ne parliamo per una volta official? Dandoci correttamente del lei?

«Ci mancava anche il lei, dopo 'sto lockdown che mi ha steso. Ma lo sai, anzi lo sa che non sono ancora uscito in barca? Che è pronta da un mese ma non sono ancora uscito dal porto? Non mi riconosco più».

Non sarà stato anche il mese e mezzo intensivo di pallone, con partite a tutte le ore?

«Più i commenti che ne seguivano. Con tutti 'sti numeri, e tutta 'sta gente che arriva davanti al microfono e dice il mio calcio. Io mi diverto come un matto a vedere le smorfie di Fabio, intendo Capello, che quando le sente troppo grosse fa una strana smorfia col naso, forse per impedirsi di aprire la bocca. Ma quale mio calcio? Si è mai sentito un maestro vero come Liedholm dire il mio calcio? E poi i numeri, le percentuali di possesso palla. Ho sentito una sera Sarri rivendicare il 72 per cento. Ma il problema mi sembra il restante 28 in cui la palla l'hanno gli altri: che è poco, ma è bastato alla Juve per subire 43 gol come non succedeva dalle guerre puniche».

Ricominciamo dai suoi cavallini, come un tempo li chiamava. Torna in pista Giampaolo, come se lo immagina al Torino?

«Me lo immagino preoccupato, perché il Toro si è salvato per miracolo giocando un calcio peggiore del Lecce e del Brescia finchè c'è stato Corini. Dunque del lavoro da fare ce n'è, e tanto. E lui lo può fare perché è un ottimo allenatore, che tecnicamente e tatticamente non si discute. Caratterialmente forse sì, perché quella sua freddezza naturale non si sposa con l'ambiente. Lo chiamerò presto, per un consiglio affettuoso che viene di lontano».

Di lontano?

«Da Giorgio Ferrini, nientemeno. Sono cresciuto con lui al Ponziana ed eravamo grandi amici. Lui è stato uno dei simboli del Torino, il prototipo di un vero capitano. Era granata dentro, e sapeva trasmetterlo ai compagni e ai ragazzi più giovani: per un temperamento freddo, certamente non sanguigno come Giampaolo credo sia importante un ripasso di quel tempo e di quella storia, che pose le basi anche per gli anni d'oro di Pulici e lo scudetto di Radice».

Sarà un problema in più lo smaltimento della delusione al Milan?

«Questo credo di no. È vero che si è un po' chiuso in se stesso, ma ripartire dal Toro è uno stimolo che saprà cogliere».

Chi non ha bisogno di altri stimoli è certamente Gasperini. A proposito di mio calcio, mi corregga se sbaglio. Gasperini non ha inventato un calcio nuovo: ha riciclato, rispolverato, rimodernato quello antico.

«La risposta, anzi in questo caso la domanda, è esatta. Potrei citare Klopp, che ha compiuto la stessa operazione in Germania e poi meglio in Inghilterra. Ma Gasperini l'ha fatta rivisitando il calcio all'italiana, riveduto e corretto in senso offensivo. Sempre in avanti, sempre in velocità, astenersi titic-titoc: o usarlo al momento di rifiatare, con la palla nei piedi del Papu o di Ilicic. L'Atalanta ha segnato 98 gol: e solo in due partite su 38 è andata in bianco. Questi sono i numeri che contano, che pesano nel calcio. Non le pugnette del possesso-palla».

Com' era il Gasperini calciatore?

«Tatticamente il più bravo che ho avuto, alla pari con Allegri. E poi ha un carattere, qualcuno dice caratteraccio, che se s' incazza lo fa per davvero. E questo i giocatori lo percepiscono, capiscono se uno recita o se è vero: e gli danno di più. Anche con me qualche scontro c'è stato, ma sempre costruttivo. La partita la sapeva leggere già in campo, come adesso in panchina».

Come Allegri.

«Certo. Difatti tutti e due avevano facoltà di cambiare in campo. E io ero quasi sempre d'accordo, perché avevo e ho un debole per i giocatori di personalità e con la vista lunga».

Certo che un Allegri sabbatico non è male come spreco.

(Sghignazza. A lungo.) «Guardi che io lo sento spesso. E lui con me ha confidenza. Proprio per questo non le sto a fare l'elenco delle squadre che ha rifiutato: per correttezza innanzitutto, ma anche per risparmiarmi un'emicrania. Adesso mi par di capire che…"(altra sghignazzata)

Che quando Conte sbrocca del tutto, arriva l'Allegri 2, la vendetta.

«Questo l'ha detto lei, anche se io ne sento parlare da un po'. Diciamo che se Allegri riuscisse a vincere con l'Inter sarebbe il primo a completare il trittico con Juventus e Milan. E diciamo anche che io una sparata come quella di Conte contro la società non l'ho mai sentita nella vita. Dopo 200 milioni di roba, o giù di lì».

Duecento milioni tra cui per esempio Sensi e Barella.

«Che con Mancini mi risultano essere due perni della Nazionale. Ecco, mi faccia ancora dire che Roberto Mancini è l'unico che può dare all'Italia un'identità duratura. Quando ha cominciato ad allenare era ancora un po' ex-grande giocatore. Adesso, e da tempo, è un grande selezionatore e allenatore a tutto tondo».

Torino: ecco chi è Giampaolo, il "maestro" di Giulianova. Pubblicato mercoledì, 05 agosto 2020 da Antonio Farinola su La Repubblica.it. L'ufficialità è attesa a breve, intanto però arrivano le parole di Urbano Cairo a certificare l'arrivo di Marco Giampaolo sulla panchina del Torino. Il presidente granata ha incontrato oggi a Milano il tecnico abruzzese: "Abbiamo preso un allenatore di qualità, Giampaolo insegna calcio. Siamo molto soddisfatti. Ora dobbiamo fare le cose con umiltà, in punta di piedi cercando di fare bene" ha detto Cairo a Sportitalia. Giampaolo ha trovato l'accordo con il club granata, si parla di un biennale con opzione per il terzo anno. L'allenatore deve ora risolvere il contratto che ancora lo lega al Milan: una formalità, poi sarà ufficialmente il nuovo tecnico del Toro.

Chi è Giampaolo. Arrivato al Milan per ridare gioco e lustro a una squadra giovane e dal morale sotto i tacchi dopo stagioni fallimentari, la sua avventura in rossonero è durata poco più di 3 mesi e si è chiusa nel peggiore dei modi entrando suo malgrado nella storia del club come il primo allenatore ad aver perso quattro partite nelle prime sei giornate di campionato negli ultimi 81 anni. Ora Marco Giampaolo è in cerca di riscatto e proverà ad ottenerlo a Torino, squadra che negli ultimi anni ha navigato spesso a ridosso della zona europea, ma che nell'ultima stagione ha decisamente deluso le attese chiudendo con appena 5 punti di vantaggio sulla zona retrocessione. 

Giampaolo il "maestro" che ricorda Tabarez. Mai una parola fuori posto, sempre educato e corretto, stimato dai suoi giocatori, considerato uno degli allenatori più "moderni" del calcio italiano, Giampaolo era stato chiamato dal Milan per portare quell'idea di calcio che negli ultimi anni era venuta meno e che a Empoli e alla Sampdoria ne aveva fatto un cavallo di battaglia. Maldini lo aveva definito un "maestro" e, onestamente, a giugno tutti pensavano di aver preso uno dei migliori allenatori sulla piazza, ma si sa al Milan i "maestri" non sempre hanno fortuna, basti pensare a Oscar Washington Tabarez, il "maestro" del calcio sudamericano che, arrivato a Milanello nell'estate del 1996, fu costretto a dimettersi dopo appena 5 mesi con la squadra lontanissima dalle prime posizioni. Al suo posto arrivò Arrigo Sacchi, ma non andò certo meglio.

Ma come si è guadagnato questa etichetta il tecnico di Giulianova? Centrocampista mediocre, da giocatore non è mai riuscito a sfondare. L'apice della sua carriera in campo arrivò nella stagione 1995-96, unica apparizione in serie B. Mentre il Milan vinceva lo scudetto con le magie di Roberto Baggio e i gol di George Weah, Marco Giampaolo retrocedeva in serie C con i pugliesi della Fidelis Andria nell'unico campionato cadetto della sua carriera da giocatore. Quando un infortunio alla caviglia mise definitivamente fine ad ogni ambizione, il suo ex allenatore, Ivo Iaconi, lo indirizzò verso la panchina. Dopo anni di gavetta, approda a Cagliari, ma i rapporti col focoso presidente Cellino non sono dei migliori e i due si lasciano malissimo dopo l'ennesimo esonero e conseguente richiamata, rifiutata con tanto di comunicato stampa da parte del tecnico: "L'orgoglio e la dignità non hanno prezzo". 

Allenatore della Juventus per una notte. Nel 2008 la svolta. Giampolo arriva a Siena, in quella Toscana che anni dopo a Empoli lo consacrerà come uno dei migliori allenatori moderni in circolazione. Nella prima stagione in bianconero riscrive la storia del club conquistando 44 punti, eguagliando il primato stabilito alla guida dei toscani da Beretta la stagione precedente, e portando a casa 12 vittorie nel massimo campionato, mai accaduto prima. Un risultato ottenuto attraverso un gioco interessante che gli valse anche la chiamata della Juventus e per una notte, dopo una cena con l'allora presidente Jean Claude Blanc avvenuta a Torino, ne fu anche l'allenatore. Fu lo stesso tecnico anni dopo a svelare questo piccolo retroscena per poi ammettere di aver cullato quel sogno solo per qualche ora, prima del dietrofront della vecchia signora la mattina dopo. Rimase a Siena, ma non riuscì a ripetere le prodezze dell'anno prima e venne esonerato dopo 10 giornate. Gli anni successivi il suo gioco venne definito "noioso" e per 6 anni naviga ai margini del calcio che conta tra C e B, tra esoneri e dimissioni. 

Empoli e Sampdoria, nasce il nuovo Giampaolo. Nel 2015 la rinascita, in versione completamente inedita. Arriva a Empoli, in quella Toscana che lo aveva fatto conoscere al calcio che conta qualche anno prima, e in quella stagione ha l'arduo compito di non far rimpiangere Maurizio Sarri di cui, però, ne sfrutterà il lavoro. La sua mentalità si evolve e anche il suo modo di vedere il calcio cambia. A Empoli, per la prima volta, sperimenta il 4-3-1-2 che di fatto diventerà da lì in avanti il suo marchio di fabbrica. Lo aveva già provato a Siena nel suo primo anno, per poi metterlo in cantina con i risultati che tutti conosciamo. A Empoli chiude al 10° posto, ma lancia diversi giocatori come Zielinski, Paredes, Tonelli e Krunic. L'anno dopo firma con la Sampdoria e anche qui esalta le caratteristiche dei più giovani come Schick, Linetty, Torreira e Skriniar. La sua Samp giova bene e ha buon ritmo ed è in quella estate che c'è un primo contatto col Milan. Galliani lo vuole in rossonero, poi l'arrivo della proprietà cinese porta alla chiamata di Montella. 

Il tecnico "secchione" che spera di imitare Gasperini. Poco male, perché in blucerchiato Giampaolo incanta, i suoi calciatori giocano a memoria e questa è una delle sue caratteristiche: far ripetere un esercizio in allenamento tante di quelle volte fin quando non entra definitivamente nella testa dei giocatori. Dagli addetti ai lavori è considerato un "secchione", uno di quelli che pensa al calcio e alla sua evoluzione anche mentre dorme o mentre è a cena tanto da prendere appunti su tovaglioli di carta e provare schemi con bicchieri e bottiglie. Oggi Giampaolo arriva al Torino e a molti la sua carriera ricorda in parte quella di Gian Piero Gasperini, capace di esaltarsi con le "piccole" e di fallire alla prima vera grande chiamata. Il "Gasp" si bruciò nel 2011 con l'arrivo all'Inter, la sua avventura in nerazzurro si tradusse in un esonero dopo poche uscite, quello che è accaduto dopo è storia attuale e ora è considerato il miglior allenatore italiano in circolazione. Chissà che un giorno non accada la stessa cosa anche a Marco Giampaolo, il "maestro" di Giulianova.

Milan, la versione di Suso: il giorno in cui Giampaolo è crollato. Libero Quotidiano il 30 aprile 2020. Un Suso a tutto campo, quello che si racconta e torna a parlare del Milan. Ora lo spagnolo è in forza al Siviglia: se la Liga si chiudesse qui, con la squadra in terza posizione e dunque in Champions League, il Milan incasserebbe automaticamente 25 milioni di riscatto. Staremo a vedere. Parlando del Milan, il mancino di Cadice afferma: "Mi sono trovato subito molto bene con Vincenzo Montella che mi ha fatto crescere al Milan, ma non dimentico Gasperini al Genoa, ricordo anche Gennaro Gattuso e Sinisa Mihajlovic, con Sinisa non giocavo, ma è stato sempre onesto, diceva le cose in faccia e non posso dirgli nulla. Gattuso e Montella sono completamente diversi, con Rino ho parlato 2-3 settimane fa, abbiamo un rapporto bellissimo, riusciva ad avere ottimi rapporti anche chi non giocava, una delle persone migliori che ho incontrato nel calcio. Se dovesse chiamarmi al Napoli? Non saprei, ma posso dire che non c'è stato nessun contatto". Dunque Suso parla di tempi più recenti: "Tornando agli allenatori, negli ultimi mesi le cose con Stefano Pioli non andavano bene, c'era la possibilità di andare al Siviglia e sono andato via. Prima c'era stato Marco Giampaolo, tatticamente era da 10, sapeva tutto, conosceva ogni movimento, per tutta l'estate abbiamo giocato benissimo, poi con il Cesena, in amichevole, non è andata bene e lì si sono cominciati a vedere fantasmi, anche la prima con l'Udinese non è andata bene e nella testa dei giocatori si è cominciato a dubitare: quando si inizia così le cose non vanno bene". Insomma, col "Maestro" Giampaolo tutto sarebbe crollato dopo la partita col Cesena. Infine, una bella parola per Gonzalo Higuain: "E' una persona molto simpatica e sensibile, al Milan ha risentito della pressione nel momento in cui abbiamo smesso di giocare bene", ha concluso Suso.

Simone e Filippo Inzaghi: due fratelli soli al comando con Lazio e Benevento (sognando il derby di famiglia). Pubblicato domenica, 01 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Agresti. C’è solo un allenatore che corre più di Inzaghi: Inzaghi. Simone sta facendo un miracolo: la sua Lazio ha conquistato 62 punti in 26 partite, ha strappato il primo posto alla Juve (che però ha una partita in meno), è la straordinaria sorpresa della serie A. Ma Filippo ha fatto perfino meglio: le gare sono le stesse (26), ma i punti che ha conquistato il Benevento sono 63 e per la serie B si tratta di un percorso incredibile, addirittura superiore rispetto a quello della Juve post-Calciopoli di cui facevano parte Buffon e Del Piero, Trezeguet e Camoranesi. Un tempo erano centravanti: Simone forse più tecnico, Filippo sicuramente più goleador. Adesso sono allenatori e quanto sta accadendo è realmente incredibile: comandano le classifiche dei nostri principali campionati, volando entrambi oltre ogni aspettativa. Mai successo. La Lazio segna di più (60 gol a 48), il Benevento subisce di meno (14 gol a 23). Ma, soprattutto, non perdono mai. In 52 partite complessive, sono caduti appena tre volte: due il tecnico biancoceleste, contro Spal e Inter; uno quello giallorosso, un pesantissimo 4-0 con il Pescara (del resto meglio perdere una volta 4-0 che quattro volte 1-0, no?). Proprio quella contro gli abruzzesi è stata l’ultima sconfitta incassata dalla famiglia Inzaghi nella stagione: era il 26 ottobre. Da allora i campani hanno vinto 14 volte e pareggiato in 3 circostanze, mentre i romani nelle ultime 21 gare hanno ottenuto 17 successi e 4 pareggi. Filippo e Simone si vogliono un bene dell’anima e non è affatto scontato (altrimenti perché diremmo «fratelli coltelli»?). L’allenatore della Lazio ripete appena può: «Pippo è uno dei più grandi attaccanti nella storia del calcio». Il tecnico del Benevento dice in continuazione: «Mone è un esempio per tutti coloro che fanno questo mestiere a livello internazionale». Si chiamano ancora così, Pippo e Mone, come quando erano bambini, anche se uno ha ormai lasciato da un po’ i quaranta e l’altro corre verso i cinquanta. Eppure ieri sera si sono sentiti al telefono, e uno si è confidato con l’altro e viceversa, e tutti e due non stavano nella pelle dalla felicità: Inzaghi junior perché la Lazio era volata in testa alla classifica battendo il Bologna e scavalcando la Juve; Inzaghi senior perché aveva rimontato e ribaltato lo Spezia il quale aveva avuto l’ardire di andare in vantaggio a Benevento. I fratelli Inzaghi si sono dati un nuovo appuntamento in serie A. Tra qualche mese. Filippo avrà raggiunto sicuramente Simone, che potrebbe avere lo scudetto cucito sulla giacca. Sarà una festa, e saranno entrambi felici. L’uno per l’altro.

Da “la Stampa” il 2 marzo 2020. All' oratorio di San Nicolò, nel piacentino, tutti i bambini volevano giocare con Pippo: era il più bravo con il pallone e segnava tantissimi gol. Lui, in cambio, pretendeva soltanto che in squadra ci fosse Mone, il fratellino più piccolo. Schegge di un' infanzia lontana, di maglie troppo grandi e di partitelle lunghe pomeriggi, di campetti raggiunti con l' auto di papà Giancarlo e di cucchiai affondati nei tiramisù di mamma Marina: a più di quarant' anni di distanza, dopo aver realizzato il sogno di diventare campioni, Filippo e Simone Inzaghi sono allenatori di successo, ai vertici dei campionati di Serie A e Serie B, mai successo nella storia. Vent' anni dopo La favola più bella è di Mone, balzato al primo posto in Serie A con la Lazio e custode di un sogno realizzato vent' anni fa da calciatore: «Mai avrei pensato di trovarmi quassù, ora cercheremo di difendere il primato. Nello spogliatoio, come ai tempi di Eriksson, è pieno di ragazzi di valore e che si vogliono bene. Sarebbe bello rivivere la festa del 2000». Non era stata più così in alto, solitaria, la Lazio, e il merito è del giovane tecnico promosso per caso in prima squadra tre anni fa, in seguito alla rinuncia di Marcelo Bielsa, dopo aver guidato Allievi e Primavera: le due Supercoppe e la Coppa Italia vinte dimostrano come la vetta non sia un caso, sintetizzano capacità tattiche e di gestione. Dopo la partita con il Bologna, quella del sorpasso sulla Juve, complice il rinvio del Derby d' Italia, ha telefonato al papà e al fratello: riti che porta avanti da sempre, complicità senza tempo, confronti in una famiglia che di calcio ha sempre vissuto. Pippo, che ha debuttato in A prima di Mone, che ha guidato Milan e Bologna tra i grandi, ha avuto l' umiltà, in estate, di scendere tra i cadetti con il Benevento e ha prenotato una nuova promozione: primato senza storia, 17 punti sulla seconda e 20 sulla terza, i record strappati alla Juventus post Calciopoli, quella che schierava Nedved e Del Piero, Buffon e Trezeguet. Al tramonto dell' ultima partita, vinta 3-1 con lo Spezia, il tecnico giallorosso ha chiesto alla panchina il risultato della Lazio: «Sapevo che per Simone era una gara fondamentale, sta facendo qualcosa di straordinario. Godiamoci questo doppio primato: ho sentito i nostri genitori, sono euforici e io sono contento per loro. Poi magari verremo crocifissi per qualche sconfitta, ma è il nostro mestiere». Schemi con le arance Pippo ha già rinnovato il contratto, guiderà il Benevento anche in Serie A: lo ha annunciato il presidente Oreste Vigorito, che il tecnico conquistò durante il primo colloquio con...le arance: le afferrò dal cestino e dispose sulla tovaglia, disegnando gli schemi della squadra che immaginava. Un vezzo: papà Giancarlo racconta che anche a casa, se si parla di calcio, usa la tavola come lavagna. «Il rinnovo - racconta Pippo - è stato deciso a ottobre, quando non eravamo così in alto. Qui sto benissimo, sento fiducia, e resterò, spero in una categoria che tutti sogniamo e che cercheremo di ottenere prima possibile». Potrà sfidare così la Lazio di Mone, tifando intanto perché diventi campione d' Italia.

Dagospia il 27 aprile 2020. “Il dito nel sedere di Neqrouz? Quella fu un’esperienza devastante”. Pippo Inzaghi in diretta Instagram con Vieri torna sulla marcatura a uomo molto intima del difensore marocchino in un celebre Bari-Juventus. “Era una delle prime partite e mi dissero che lui lo aveva già fatto con altri ma io non me lo aspettavo. Inizia la partita, mi viene vicino, tocco il primo pallone e lui mi dà una botta sui coglioni da sotto. Mi giro e gli dico: “Ma stai a scherzà? Ma che stai facendo? A fine primo tempo chiesi a Lippi di sostituirmi altrimenti gli avrei dato una gomitata”.  “Ma dai, era solo mezza falangetta”, ironizza Borriello nei commenti alla diretta”. “Neqrouz è stato tutta la partita a toccarmi le palle – riprende Superpippo - Mi aveva reso così nervoso che non avevo toccato un pallone. Continuavo a pensare a lui, mi continuava a schiacciare e a tirare…Poi al ritorno caricai Montero…” L’ex attaccante del Milan, oggi allenatore del Benevento, ricorda con Vieri i duelli rusticani in serie B con l’ex coppia di centrali del Vicenza Praticò e Lopez (“Non potevi andare lì in mezzo perché se ne sentivano di tutti i colori. Si insultavano anche tra loro: “Stringi, stronzo…”) e con Ugo Napolitano del Cosenza: “Mi dava delle legnate incredibili, una volta gli diedi una mezza gomitata, il sopracciglio si aprì, lui prese il sangue e cominciò a sputarmelo addosso”. Vieri ripensa alle gomitate di Biffi del Palermo, a Lampugnani del Pisa (“Dovevo andare dall’altra parte del campo perché ti spaccava di botte”) e a Brunetti del Brescia che una volta dopo un mio tiro finito fuori, mi urlò dietro per 20 secondi: “Ti ammazzo”. E io: “Ma che cazzo stai facendo?”… “Che campi…", ride Inzaghi, che porta ancora i segni dello scontro con Diawara in una semifinale di Champions con il Monaco: “Ma la serie B ci ha fatto fare delle belle ossa”…

La doppia vita di Pippo Inzaghi. Da re del gol a re della difesa. Riccardo Signori, Mercoledì 29/01/2020, su Il Giornale. Una signora trova un portafoglio per terra, nel parcheggio di un supermercato di Benevento, e lo riconsegna, completo di documenti e danari, al legittimo possessore: tal Filippo Inzaghi. Il Benevento squadra di calcio demolisce avversarie in serie B, domina sul filo dei record e si trincera dietro una difesa di ferro. La migliore dei primi cinque campionati (si tratti di serie A o B) in Europa dicono numeri e statistiche: 11 gol subiti (4 in una partita) a fronte di 37 realizzati. Il suo allenatore è Pippo Inzaghi, ex divoratore di difese e difensori. Detto così che altro pensare? Splende lo stellone di super Pippo, non c'è colpo di sfortuna che regga al suo alone di energia vitale e al tappeto volante di un difensivista ben dotato che trova una signora, come difensore aggiunto, quando perde il portafoglio. Ma forse oggi il suo portafoglio val meno della panchina che gli sta indorando la carriera. Pensate che perfino Jurgen Klopp, l'allenatore del Liverpool, potrebbe impallidire: la miglior squadra d'Europa ha subito più gol e la media partita non migliora quella del Benevento. Ed anche il Real sta appena sotto: 39 segnati e 13 subiti. Poi c'è il Valenciennes, Ligue 2 francese, che sventola 12 gol presi, ma appena 16 realizzati. D'accordo, non allarghiamoci: si fa gara di testa mantenendo equilibrio fra reti fatti e subite ma altro è giocare in Premier o nella Liga. Però il cesellatore dei gol sul filo del fuorigioco in qualche modo sta dimostrando che bisogna conoscer l'arte e metterla da parte per rigiocarsi la sorte stando sull'altra sponda. Qualcuno dirà: sicuri che questo Pippo sia lo stesso che al Milan viveva per segnar gol e poco gli importava di subirli? Non c'è da stranire: la vita degli allenatori è così variamente architettata da aver convinto Inzaghi, dopo qualche alto e basso professionale, che segnare era bello ma sopravvivere in panchina è molto meglio. Segnale di intelligenza, alla faccia dei khomeinismi della panca. E come raccontarla a quel Milan che fu di un padrone che chiedeva il giuoco d'attacco? Oggi ci sono Gattuso e Inzaghi che se la giuocano dicendo che il miglior attacco è la difesa. E qui il pallone batte le giravolte della politica.

Massimo Ferrero, la Sampdoria in vendita e l’assedio dei creditori al presidente. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. Due segnali inequivocabili che il nodo dei debiti e del deficit patrimoniale è ormai al pettine. Le società sono insolventi e le gravi difficoltà in cui versa il gruppo potrebbero ripercuotersi anche a Genova, sponda blucerchiata del calcio cittadino. Quanto meno sul potere negoziale: dopo il naufragio (definitivo?) delle trattative con la cordata Vialli, la vendita del club è tornata d’attualità, anzi potrebbe diventare rapidamente necessaria. Tanto più che agli atti c’è già la notizia (anticipata da Mf a fine novembre) che la compagnia aerea Lufthansa ha presentato un’istanza di fallimento da 1,66 milioni di euro nei confronti della Farvem Real Estate, un’altra società dell’arcipelago personale del vulcanico imprenditore. Anche la Farvem ha dovuto rivolgersi al tribunale per tentare un concordato preventivo. Il rischio di un cross default, cioè una sorta di contagio di gruppo, è improbabile per ora. Ma il rischio si farebbe sempre più concreto se i concordati non dovessero procedere o venissero respinti (come a Padova), le istanze di fallimento aumentassero e, soprattutto, se Ferrero non trovasse rapidamente i soldi per tamponare i buchi patrimoniali e rimborsare una folla di fornitori, banche e professionisti. Il club calcistico, tuttavia, ha bilanci in utile (grazie alle plusvalenze nella compravendita di giocatori) e si colloca nel ramo più sano del gruppo. Ma è impensabile che il ramo possa reggere a lungo se il resto della pianta si incendia. Oggi, paradossalmente, da una parte c’è il Ferrero che da tempo non paga artigiani, professionisti, dipendenti (alcuni per questo anche in seria difficoltà); dall’altra c’è il Ferrero estroverso protagonista che calca le scene e gli stadi del calcio multimilionario di serie A. Ma che cosa è successo a Padova? I giudici non hanno dato credito al piano di salvataggio che la figlia di Ferrero, Michela, e i professionisti incaricati avevano presentato per la Abaco 101-Cineplex. E così l’azienda ha fatto crac. L’asset principale di Abaco è la proprietà di cinema multisala a Padova. È un dissesto da pochi milioni di euro, e per questo assai eloquente, con le banche che avevano già portato a sofferenza e rivenduto i loro crediti. Il piano concordatario prevedeva un rimborso intorno all’8% per la maggior parte dei crediti, erariali e previdenziali compresi, «degradati a chirografo», cioè il livello più basso della tutela. Intanto i bilanci indicavano in 102.691 euro lo stipendio annuo del liquidatore: la figlia di Ferrero. La Holding Max della famiglia (l’80% è in mano a Vanessa, l’altra figlia) avrebbe dovuto fornire «nuova finanza esterna», apportando un terreno che avrebbe funzionato da parcheggio per il multisala. In realtà ci voleva ciò che è sempre scarseggiato in casa Ferrero: i capitali. E il tribunale, respingendo la proposta di concordato, ha sottolineato una carenza di fondo: nessuna «analisi critica e motivata dei profili di responsabilità dell’organo gestorio» (da ultimo il liquidatore), cioè la possibilità di avviare azioni risarcitorie, anche perché la società, incredibilmente, «versa in una condizione di scioglimento fin dal marzo 2012». Inutile dire che l’organo gestorio era targato Ferrero. Fallita la Abaco a Padova, gestita da Michela Ferrero, è arrivato l’sos a Roma per la ben più strategica Eleven Finance guidata da Vanessa Ferrero e in liquidazione da maggio 2019. La Eleven è proprietaria di una serie di immobili-cinema a Roma tra cui l’Adriano, Atlantic, Reale, Ambassade, Excelsior e altri. Il bilancio 2018 si era chiuso con 55 milioni di perdita e 120 milioni di debiti ma tutti scaduti il 31 dicembre scorso. Nel documento depositato martedì Ferrero ammette lo “«stato di crisi» e la «tensione finanziaria» che però «ritiene di poter superare in un congruo lasso di tempo» con un concordato che «preservi il valore del patrimonio e assicuri il migliore soddisfacimento dei creditori». Tra cui, in maniera rilevante, l’Agenzia delle Entrate. E proprio dalle Entrate, a quanto risulta, è stata spedita ai Ferrero l’ennesima istanza di fallimento. Ma il vulcanico Viperetta, com’ è soprannominato, è uomo dalle mille risorse. Come quando nel 1995 - si legge nella biografia sul suo sito web - «su incarico del Governo Cubano, progetta e crea il Cinema di Stato a Cuba che si concretizzerà poi con la costituzione del ICAIC (Instituto Cubano del Arte e Industria Cinematográficos)». E pazienza se l’Icaic venne in realtà creato - secondo la Treccani - nel marzo del 1959, quando Ferrero aveva 8 anni.

Da “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. Massimo Ferrero, ancora lui, alias "Viperetta", il presidente della Sampdoria con un passato nel mondo delle sale cinematografiche e un presente nel calcio è finito nei guai nel senso che è stato truffato e difficilmente vedrà indietro i suoi quattrini. Si tratta di un affare sfumato, un immobile di pregio a Portofino, perla del Tigullio, e 200mila euro non restituiti. L' inchiesta, nata a Genova dopo la denuncia dell' imprenditore, è stata trasferita ad Alessandria per competenza territoriale. La vicenda parte a fine estate dello scorso anno ed è stata resa nota ieri dall' agenzia Ansa: Ferrero è in trattativa con il gruppo rappresentato da Gianluca Vialli per la cessione del club blucerchiato (poi sfumata), mentre prova a differenziare i suoi affari in Liguria e punta un lussuoso immobile da ristrutturare a Portofino per farne una struttura alberghiera. L'edificio viene bloccato dal patron della Samp con due assegni per 200mila euro. Dopo alcune settimane, però, Viperetta scopre che l' immobile di pregio è vincolato e i lavori non si possono fare. A quel punto decide di chiedere indietro i soldi all' agenzia immobiliare a cui si era rivolto per gestire la compravendita. Gli assegni però risultano essere stati già incassati ad Alessandria e, secondo il racconto di Ferrero, nessuno vuole restituire i soldi. Da qui la denuncia e il fascicolo aperto nel tribunale della città piemontese dove si attendono sviluppi. L'affare di Portofino, però, non è l' unico che riguarda il presidente della squadra genovese in questo periodo. È di ieri la notizia che lo storico cinema Adriano di piazza Cavour, a Roma, di proprietà della famiglia Ferrero, comprendente dieci sale cinematografiche per un totale di 2.200 posti e molto frequentato nella Capitale, è andato all' asta per la seconda volta. L' annuncio è stato pubblicato il 2 febbraio sul sito astegiudizarie.it. Il prezzo base è di 27 milioni. La vicenda giudiziaria va avanti dal 2016, allorché la IV sezione civile del Tribunale di Roma ne dispose la vendita dopo un pignoramento immobiliare.

Enrico Sisti per “la Repubblica” il 4 maggio 2020. «Non dico che ce la dovevamo aspettare, questa roba orrenda, ma forse potevamo presentarci al virus un po' più preparati, come individui, come società. Adesso temo la bancarotta o l' oblio». Massimo Ferrero, 68 anni, non è soltanto il presidente della Sampdoria e un impresario cinematografico. È tante cose. È un lockdown vissuto in campagna ma con l' eterna nostalgia di Roma. E la sua Roma è un meccanismo a orologeria che pare fatto apposta per rinforzare legami ancestrali. È pallone, certo, ma anche amori, strada, anni vissuti in bianco e nero senza una lira in tasca. Per parlare con lui è necessario mettere insieme i pezzi di un mosaico. Ed è veramente come fare un film: tanti brandelli di Massimo sparsi qua e là, miriadi di interessi e di iniziative, rischi, accuse, personali e pubbliche, sempre al limite, distribuite negli anni della giovinezza e della maturità. Riuniti e incollati su un solo volto, questi brandelli diventano un prodotto finito: bello, verace, traboccante di verità così come di amarezze, travestite magari con un sorriso o mescolate, se viene, a una battuta. Massimo Ferrero è anche il padre di cinque figli (la più grande ha quasi 50 anni). Massimo Ferrero è quello che non ti aspetti, è il Viperetta dotato del suo antidoto: «E sono romanista da prima che nascessi». Per ottenere il mosaico di cui sopra bisogna andare a cercare Massimo a casa, una casa nascosta all' interno di un grande cortile «che non mi sono mai sognato di acquistare, perché in fondo mi è rimasta l' anima del nomade, anche se poi vivo qui da trent' anni». Le case le ha comprate a tutta la sua numerosa famiglia, assicurando certezze da «nonno rock». Le finestre danno su un ampio spazio alle spalle di Trinità dei Monti, circondato dai profili degli altri interni, lontano dalla strada. La porta si apre dopo almeno cinque rampe di scalini con cui si va su e giù per il condominio, disegnato proprio come i condomini di una volta, appartamenti che spuntano qua e là, apparentemente senza un criterio. Invece in quella geometria si percepiscono forti i profumi dell' urbanistica del Tridente. Roma che sembrava anche calcisticamente nel suo destino «Ma poi non è successo. Ho sognato di rilevare la società, è vero, ma in un giorno lontano».

E la città della sua infanzia?

«Testaccio. Da dove del resto proviene anche Claudio Ranieri, il mio attuale tecnico alla Sampdoria. Erano tempi liberi e insieme complicati. Chi aveva problemi andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa' er quajo, come si diceva. Eravamo poverissimi. Si faticava a finire la giornata. I maglioncini duravano per generazioni. Le toppe invecchiavano sui gomiti. I valori erano traguardi veri. Aridatece i valori! Levateje i telefonini! Mio padre diceva: discoremo. Parlatevi ragazzi! Noi mangiavamo la frutta che scartavano ai mercati generali di Via Ostiense, c' è una bella differenza».

Come si faceva all' amore?

«Allora funzionava così: che non sapevi quando avresti dato o rimediato un bacetto. Non era come sarebbe stato poi, che la ragazze, scusate la franchezza, se la svitavano e te la tiravano addosso. Per incontrare le donne dovevi vivere in un' altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno».

E poi finì pure dentro, per amore.

«Più che altro ho rischiato la vita mettendomi a cavalcioni sulla balaustra del terrazzo condominiale, lì m' incontravo con Rita, ci nascondevamo tra le lenzuola stese. Un giorno scappai in vespa perché ci avevano trovato e volevo evitare una guardia. Quando tornai indietro la guardia era ancora lì e così gli detti un buffetto sul cappello che volò via. Cominciò a rincorrermi in macchina. Il guaio è che la guardia era il padre di Rita. Finii la benzina e mi arrestarono per oltraggio. Ho passato sei mesi nel carcere minorile di Porta Portese, al San Michele».

E com' era la vita da rinchiusi, rispetto a quella fuori?

«Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio. E se non avessi già preso così tanti schiaffi da mio padre e da mia madre, sarei entrato tondo e uscito quadrato. Però lì dentro, a modo mio, mi sono fatto una cultura. Non sapevo niente del mondo, per carità, però aveva imparato a memoria la civiltà dei ragazzi di strada che ero costretto a frequentare, al punto da desiderare quasi di sentirmi uno di loro. Era gente che sparava certe assurdità. Però forse qualcuna era pure vera. Di sicuro entravano, uscivano, entravano di nuovo. Non avevano altra scelta, non avevano altra vita».

Ma lei invece come si definirebbe?

«Un artista di strada, uno che va in giro con lo strumento, pane amore fantasia, che recita, balla. Ero nato per quello, ho sempre avuto i tempi della commedia».

Cinema, cioè paradiso...

«Sono entrato a Cinecittà nascosto nella casse dei panni della lavanderia, dopo essermi attaccato al tram a San Giovanni. I film li andavano spesso a girare a Frascati. Giuliano Gemma faceva l' acrobata. Io gli andavo dietro, mi intrufolavo. Facevo sega a scuola, allora andavo alla Quattro Novembre. Era l' unico modo per passare i controlli. Non sa che fila che c' era fuori sulla Tuscolana. Almeno però mangiavo, a noi comparse ci davano il cestino, dieci lire, du mostaccioli, du fragole e 'n cappellino».

Rimpiange qualcosa?

«In Italia si facevano 600 film all' anno, anche se con le cambiali. Questo rimpiango. Rimpiango l' Italia che il mondo ammirava e che al mondo insegnava. E al cinema ci andavamo tutti. Con gioia. Stupore. Adesso ho paura che al cinema vadano soltanto gli scoppiati, i soli. Il cinema invece va condiviso».

Il suo primo ciak?

« Io io io e gli altri di Blasetti. Dovevo interpretare un fornaretto. Avevo 15 anni. Lo seppi mesi dopo che mi avevano preso. Ero convinto che mi avessero scartato. Invece una mattina mi vennero a prendere col 1400. Tutti a guardare. Poi mi aiutò Gianni Morandi, che conobbi mentre girava Faccia da schiaffi dentro il Farnese a Campo de' Fiori. Avevo già una figlia. Mi imposi come suo factotum».

Insomma è entrato nel cinema di prepotenza...

«E forse ho anche vissuto di prepotenza. Del resto mi sono sposato a 18 anni».

E della leggenda del Viperetta?

«All'inizio ero Er Gatto de Testaccio, un gattaccio di strada, ovviamente, non un aristogatto, uno di quelli con gli occhi pieni di cispe e le orecchie smozzicate. Divenni adulto presto. Mamma Anita mi portava le sigarette in carcere. Mi diceva " a Massimì devi comincià, sei grande!" E io: " A ma' ma io non fumo!". E lei: " Zitto e fuma!". Il soprannome di Viperetta arrivò più tardi. Un giorno sul set mi chiesero se volevo fare un film su Pasolini. Dissi di sì. Aggiunsero che c'erano pure scene di letto e uno mi toccò il fondo schiena. Al Gatto di Testaccio non si poteva fare. Gli detti una capocciata. E lui a terra gridava: " Sei una vipera, sei una vipera!". Ma fu Monica Vitti la prima a chiamarmi Viperetta. Ancora ci penso. Aveva ragione, so' na vipera».

Ritiro di Stefano Sorrentino, l’omaggio del Palermo all’ex portiere. Asia Angaroni il 22/01/2020 su Notizie.it. È ufficiale il ritiro di Stefano Sorrentino. L'ex portiere del Palermo in diretta tv ha annunciato: "Mi fermo qui. Preferisco chiudere in bellezza". A un anno di distanza dal rigore parato a Cristiano Ronaldo, per l’ex portiere di Chievo, Palermo e Torino si apre un nuovo inizio. A un anno di distanza dalla straordinaria parata, è arrivato il momento del ritiro di Stefano Sorrentino. Il giocatore lo ha comunicato in diretta tv. Staff, compagni e tifosi del Palermo lo hanno omaggiato con grande affetto e profonda stima. Lui però non ha dubbi: “Mi fermo qui”. Vanta 363 partite in Serie A, che salgono a 632 se si includono i match affrontati in B e in C1, nel campionato greco con l’Aek Atene e nella Liga spagnola tra le fila del Recreativo Huelva. A lui l’onore di aver parato un rigore al temutissimo attaccante portoghese in maglia bianconera. Era il 21 gennaio 2019 e il suo Chievo perse 3 a 0 contro la Juventus. In totale sono 7 i rigori che ha parato nella sua carriera. Con l’Aek Atene, inoltre, conta 7 presenze in Champions League. Una carriera ad alti livelli quella di Stefano Sorrentino, il quale ha deciso di salutare definitivamente il campo e “chiudere in bellezza”. In diretta su Sky Sport, ospite a “Calciomercato l’originale”, ha dichiarato: “Ho ricevuto diverse offerte in questi mesi, ma nulla che mi ha emozionato. Per questo do l’addio al calcio. Sono stato una persona fortunata, ho avuto l’onore di giocare in Serie A da titolare per anni. Ora è giusto fare così”. La priorità resta la famiglia. Infatti, ha aggiunto: “Sono tornato a vivere a Torino e ho visto le mie figlie più serene, ho deciso di restare con loro e di fare un passo indietro. Preferisco lasciare in bellezza e iniziare a pensare cosa fare da grande”. Era la stagione 2013/2014 quando, dopo la vittoria del campionato di Serie B, è stato promosso in Serie A con la maglia del Palermo, dove ha giocato per 3 anni. Sui social il team della squadra siciliana ha ricordato con orgoglio quel triennio trascorso al suo fianco: “Stefano Sorrentino lascia il calcio giocato. Quante ne abbiamo passate insieme, tra gioie e dolori! In bocca al lupo per il tuo futuro occhi della tigre”. È questa la didascalia che accompagna un video nel quale vengono mostrati alcuni dei più bei momenti in cui Sorrentino si è reso protagonista vestendo la maglia rosanero.

Marco Bonarrigo per il Corriere della Sera il 22 gennaio 2020. Con buona pace di Antonio Conte e di tanti suoi illustri predecessori, nessuno ha ancora dimostrato che fare sesso prima di una partita peggiori la prestazione. Ma da lunedì scorso (fonte l' autorevole Journal of Sport Science) è scientificamente provato come mezz' ora trascorsa su Facebook/Instagram o a smanettare sulla Playstation prima di una partita renda un giocatore sensibilmente meno reattivo e meno preciso in campo. A gettare nel (relativo) panico migliaia di calciatori (i quali, meschini, pensano di rilassarsi con lo smartphone mentre vanno allo stadio o negli spogliatoi) sono un fisiologo brasiliano (Leonardo De Sousa Fortes) e la sua équipe di ricercatori delle università di Peralba, Rio Grande e Maringà. Da sempre impegnati a studiare il rapporto tra fatica mentale e prestazione, i nostri hanno disegnato un esperimento per quantificare (o eventualmente smentire) l' idea che social network e telefonini rincitrulliscano anche i professionisti del pallone, quelli che spesso vediamo sbarcare nell' antistadio con lo sguardo fisso all' iPhone.  Selezionati 25 professionisti del campionato brasiliano (età media 23 anni, impegnati nell' equivalente delle nostre serie B e C), De Sousa e colleghi li hanno prima valutati fisiologicamente per poi far loro disputare tre serie di tre match regolamentari variando ogni volta il protocollo del pre-partita e sviscerando i 90' con un sofisticato sistema video di match-analysis. Nel primo test i giocatori, due ore prima del fischio d' inizio, si rilassavano per mezz' ora davanti a un film, nel secondo smanettavano per 30 minuti su Facebook e Instagram, nel terzo erano liberi di sfidarsi a Fifa 2018 sulla Playstation. I risultati lasciano pochi dubbi. Rispetto a chi ha guardato il vecchio e caro film, i «social addicted» hanno sbagliato il 7.3% di passaggi in più, i giocatori di Fifa 2018 addirittura l' 8,3%. Peggio ancora è andata sul fronte dei tempi di reazione agli stimoli, critici in uno sport basato sul «decision making» immediato. Valutati col classico test di Stroop (vedi delle parole su un schermo, devi dire di che colore sono) i reduci dal film hanno risposto in media in 3 decimi, quelli che avevano usato i social o i giochini ci hanno messo il triplo: la differenza tra la reattività di Ronaldo e quello di un attaccante di serie C. La cosa interessante è che i parametri tradizionali della fatica (acido lattico in circolo, battito cardiaco) restano immutati nei tre gruppi di controllo: varia solo la fatica mentale. «È probabile - scrivono i ricercatori - che l' uso dei videogiochi e/o dei social riduca l' attività elettrica nelle aree della corteccia cervicale frontale responsabili della flessibilità cognitiva, rallentando il processo decisionale e indebolendo la capacità di interpretare e anticipare i movimenti degli avversari». Usando i paroloni dei neuroscienziati, smanettare sullo smartphone aumenterebbe la quantità di adenosina (responsabile dello stress) e ridurrebbe quella di dopamina (che regola il movimento) nella corteccia cingolata mandando in confusione l' incolpevole cervello. De Sousa e soci andranno avanti nei loro studi valutando i calciatori con degli elettroencefalogrammi. Aspettando sviluppi scientifici, allenatori e presidenti sono avvertiti: i social fanno più male del sesso, anche di quello «acrobatico» sconsigliato da Conte.

Dagospia il 23 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Egregio Direttore, ho ricevuto mandato dal Sig. Matteo Politano, nato a Roma il 13/08/1993, di rappresentarLe quanto segue. Sulla rivista on-line "Dagospia", in data 22/1/20, è stato pubblicato un articolo dal titolo ll caos amoroso di Politano, nel quale si afferma, in riferimento al mancato trasferimento del giocatore dall'Inter alla Roma, che lo stile di vita di Politano fuori dal campo sarebbe il motivo del mancato passaggio. La notizia è falsa e se ne chiede la rettifica ai sensi dell'art.8 della Legge sulla stampa n. 47/1948. Invero, come noto a tutti i soggetti coinvolti nell'operazione (procuratori e direttori sportivi), la trattativa tra la Roma e l'Inter non si è, allo stato, conclusa per motivi che attengono a valutazioni strettamente tecniche ed economiche delle due società, che nulla hanno a che vedere con la vita privata del Sig. Politano e men che mai con i rapporti tra quest'ultimo e la moglie. Su tale falsa notizia è stato quindi costruito un articolo ampiamente offensivo e lesivo dell'immagine del calciatore, vieppiù in un periodo particolarmente delicato quale è quello del "mercato invernale". Distinti saluti

Politano-Ginevra Sozzi: la love story è servita. Galeotta la foto (uguale) postata da entrambi su Instagram. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Colombo. Quando una riserva, pur di lusso, finisce sulle copertine dei giornali. Matteo Politano, già al centro delle cronache calcistiche per il tormentato scambio sfumato con Spinazzola e ora conteso da Napoli e Roma, vive anche nel privato una situazione di pericoloso triangolo. Se a livello professionale deve ancora decidere se accettare la corte di Gattuso o ascoltare le ragioni del cuore e spingere per un ritorno nella Capitale dove calcisticamente è nato, a livello sentimentale la sua scelta sembra essere stata fatta. Sposato con Silvia Di Vincenzo, da cui ha avuto due bambine, avrebbe un flirt con la pr e influencer Ginevra Sozzi. Dopo la foto sospetta postata la scorsa settimana da entrambi, in tempi diversi, su Instagram e raffigurante il cucciolo Baloo, il settimanale Oggi in edicola giovedì ritrae l’attaccante in compagnia della 22enne compagna (per non farsi mancare niente, la punta ha anche una sigaretta in mano). Alla Sozzi erano già stati accostati in passato campioni del pallone, da Dybala a Nainggolan. Politano sarebbe stato lasciato due mesi fa dalla moglie che, attraverso un investigatore privato, aveva scoperto della relazione clandestina. Poi l’attaccante è finito sul mercato. E adesso è al centro di un nuovo triangolo.

Paolo Camedda per goal.com il 24 settembre 2020. Ha avuto l'onore di finire sulla copertina dell'Album Panini, ma quando ha giocato in una big ha fallito: Lorieri, il portiere acrobatico. Sul piano tecnico non aveva nulla da invidiare ai suoi colleghi più illustri. Negli interventi acrobatici, poi, eccelleva grazie a un'esplosività sulle gambe fuori dal comune. Fabrizio Lorieri, proprio in virtù della spettacolarità delle sue parate, è stato finora l'unico portiere a finire da solo sulla copertina di un album calciatori Panini (Dino Zoff nell'album 1975/76 era infatti ritratto in presa alta 'in compagnia' di altri due calciatori), esattamente quello della stagione 1992/93, anno in cui giocava in Serie B ad Ascoli, in un'immagine del fotografo Pino Bellini che lo vede intento in una delle sue uscite spericolate. Tuttavia, nonostante le sue indubbie qualità e le ottime premesse a livello giovanile, fatta eccezione per una stagione ad alto livello con il Torino (la seconda), quando sarà chiamato a giocare con una big subirà aspre critiche e non riuscirà ad imporsi. Nell'Inter non trovò spazio, chiuso dall'emergente Walter Zenga, con il Torino finirà male (retrocessione e critiche al veleno) e con la Roma non andò meglio. Dove sarà sempre ricordato per le sue notevoli prestazioni è invece nelle piccole squadre, delle quali ha costituito spesso l'ultimo baluardo: innanzi tutto l'Ascoli, successivamente con il Lecce. Nato a Massa l'11 febbraio 1964, Lorieri cresce calcisticamente nelle giovanili dell'Inter. È considerato una promessa e nel 1981/82 è mandato a farsi le ossa, come si diceva allora, alla Sangiovannese. Con i lombardi gioca titolare e disputa una buona stagione. L'anno seguente passa al Prato, con cui vince il campionato e ottiene la promozione in Serie C1 a 19 anni. Nel 1983/84 torna così all'Inter, ma in nerazzurro è chiuso da un altro giovane estremo difensore e vive una stagione da riserva senza mai scendere in campo. Nel 194/85 passa così in comproprietà al Piacenza, in Serie C1 e sfiora la promozione in Serie B, perdendo lo spareggio contro il L.R. Vicenza. Intanto è fra i protagonisti dell'Italia Under 21 guidata da Azeglio Vicini: nel biennio 1985-87 gioca 4 partite con gli Azzurrini, venendo anche qui scalzato da Zenga, e vincendo la medaglia d'argento agli Europei di categoria del 1986, dopo aver avuto la peggio nella doppia finale contro la Spagna. Nel 1985/86, fa la sua ultima stagione con i nerazzurri, ancora una volta come riserva di Zenga, prima di essere ceduto a titolo definitivo nell'estate seguente al Torino. La prima stagione è di assestamento, e vede Lorieri alternarsi in porta con Renato Copparoni. L'estremo difensore toscano totalizza 24 presenze e mette in mostra il suo potenziale, che può far valere in tutte le sue varianti nella stagione 1987/88. Capelli lunghi e ricci, con il capellino in testa, e in inverno con pantalone lungo e il calzettone bianco, nel suo secondo anno con il Torino diventa infatti un titolare inamovibile, disputa tutte e 30 le partite e con i granata arriva a giocarsi la qualificazione in Coppa UEFA in un drammatico spareggio-derby con la Juventus. Dopo lo 0-0 dei tempi regolamentari e dei supplementari, tutto si decide ai rigori, dove gli errori di Benedetti e Comi consegnano la qualificazione alla Vecchia Signora. Per Lorieri, nonostante l'amarezza del traguardo sfumato, resta la soddisfazione di un campionato da protagonista che gli fa guadagnare la riconferma nella stagione successiva. La stagione 1988/89 è tuttavia molto travagliata per i colori granata. La squadra naviga nei bassifondi della classifica, cambia tre volte allenatore, a fine anno si materializza l'incubo della retrocessione. Anche Lorieri commette degli errori e dopo il 4-0 in Coppa Italia contro il Verona i tifosi chiedono la testa dell'estremo difensore, ma il club lo difende: "Lorieri non si vende". La situazione precipita però al Comunale il 18 dicembre 1988. I granata affrontano in casa il Milan e si portano sul 2-1 con una doppietta del brasiliano Müller. La vittoria è a un passo, ma proprio allo scadere del tempo regolamentare, su un calcio d'angolo per i rossoneri, Lorieri ha un'incomprensione con i suoi difensori e resta a metà strada, Van Basten lo trafigge di testa e il portiere diventa una furia, e a nulla servono i tentativi fatti per calmarlo. Così perde il posto da titolare in favore del giovane ed emergente Marchegiani, e nell'estate del 1989 viene ceduto all'Ascoli. Ascoli, dove resta per ben 4 stagioni, diventa una seconda casa per Lorieri. L'estremo difensore, chiamato a non far rimpiangere Pazzagli, ceduto al Milan, si cala subito nella nuova realtà, diventando presto un beniamino dei tifosi. Il campionato 1989/90 è duro per i marchigiani, che chiudono all'ultimo posto in classifica e retrocedono in Serie B. Ma le prestazioni di Lorieri, sempre fra i migliori in campo con parate a volte al limite dell'incredibile, non passano inosservate e il toscano riscatta la precedente deludente stagione con i granata. In Serie B, nel 1990/91, è con il bomber Casagrande fra i protagonisti della rapida risalita in Serie A dei bianconeri. L'anno seguente è ancora titolare con l'Ascoli in Serie A, dove la squadra vive una stagione disastrosa. Lui però fa il suo, salva goal già fatti ma la situazione è quella che è e per Lorieri scatta l'etichetta di grande portiere con le piccole squadre. Succede però che il 10 maggio 1992, con l'Ascoli già matematicamente retrocesso, Lorieri pari anche gli spilli contro la Roma di Ottavio Bianchi. L'ex granata neutralizza persino un calcio di rigore di Rizzitelli. Soltanto nel finale i giallorossi passano con un tiro da fuori area corretto in porta da Andrea Carnevale. Ma la prestazione del portiere avversario resterà impressa nella mente dei dirigenti giallorossi. Nelle Marche Lorieri resta ancora una stagione in Serie B, e l'avventura in bianconero si conclude per lui nel modo più doloroso: nonostante le sue parate, infatti, l'Ascoli perde lo spareggio con il Piacenza per tornare in Serie A, con il risultato che dal 2-1 in favore dei bianconeri, si tramuta nei minuti finali in 3-2 per gli emiliani. Nell'estate 1993 il presidente Rozzi, che l'anno precedente aveva resistito agli assalti di diverse squadre per il suo portiere, non può resistere alla richiesta della Roma, che la spunta sulla concorrenza pagando il cartellino di Lorieri 4 miliardi. Nella capitale al portiere si presenta l'occasione che tanto aspettava. Ma fin dall'esordio si capisce che per lui non sarà un'avventura salutare, tutt'altro. Il Genoa supera la Lupa 2-0, e già si scatenano le prime critiche per l'estremo difensore toscano. "Roma non è Ascoli", scrivono nei giornali, e anche: "Parare non basta, bisogna parare quando serve". Contro il Milan, sul risultato di 0-0 al Meazza, la Roma va sotto con un tiro di Albertini deviato in rete da Papin con una deviazione fortunosa sotto misura, con Lorieri letteralmente beffato. I tifosi invocano che a giocare titolare sia l'altro portiere Cervone, e i due iniziano ad alternarsi fra i pali. Succede però che il 19 dicembre, contro l'Inter all'Olimpico, Lorieri incappi in una mezza papera. Un tiro apparentemente innocuo di Ruben Sosa, ex Lazio, si infila alle sue spalle e si scatena la bufera. Il portiere toscano finisce per diventare il dodicesimo e la squadra di Mazzone chiude al 7° posto. Resta a Roma anche nel 1994/95, ma dopo aver trovato il campo in sole 4 occasioni, 2 volte in Coppa Italia e 2 volte in Serie A, nell'estate del 1995, scaricato ormai dalla società e dagli stessi tifosi, riparte dal Lecce, addirittura in Serie C1. In Salento Lorieri, fallita la grande occasione con la Roma, rinasce nuovamente. Con il portierone toscano come guardiano della propria porta, i giallorossi pugliesi, guidati dal futuro Ct. azzurro Giampiero Ventura, dominano il Girone B  e ottengono una pronta promozione. Il successivo torneo cadetto è duro, ma anche grazie al ritorno di Lorieri su livelli di eccellenza, il Lecce è competitivo per le prime posizioni. L'ex Roma è decisivo con le sue parate nella rimonta al Barbera contro il Palermo (3-2) e nell'1-0 sofferto con il Genoa. I salentini chiudono al 3° posto e conquistano la promozione in Serie A. Per Lorieri torna l'etichetta di 'portiere buono solo per le piccole'. Il 1997/98 è una stagione sofferta per la squadra. Il portiere sa comunque essere protagonista a suo modo quando, a San Siro contro il Milan, alla 6a giornata, con le sue parate mette la museruola a Kluivert, Donadoni e Ba. Il Lecce vince 2-1 e compie l'impresa, sebbe a fine anno retroceda, come prevedibile. Lorieri, come ad Ascoli, resta ancora un'altra stagione in Serie B ed è il leader della squadra di Sonetti. Contro la Ternana, il 29 novembre 1998, para due rigori a Fabris e Tovalieri, risultando il protagonista assoluto di un successo che dà il là alla galoppata promozione. Quest'ultima si materializza con il successo interno contro il Chievo per 2-1, che dà il là alla festa promozione. In quel momento termina però anche la favola di Lorieri al Lecce, visto che la società decide di puntare su Antonio Chimenti, portiere che come accaduto alla Roma qualche anno prima ne eredita il posto. Lorieri va per una stagione alla Salernitana, in Serie B, senza infamia e senza lode, prima di approdare al Genoa e tentare una nuova scalata verso la Serie A a quasi 40 anni. Lui gioca di nuovo su buoni livelli, ma nei suoi due anni genovesi la squadra non si dimostra all'altezza e fallisce l'obiettivo promozione. Le ultime due stagioni vedono l'esperto portiere tornare in Serie C, prima a La Spezia, non lontano da casa, infine al Cuoiopelli. Appesi i guantoni al chiodo, diventa preparatore dei portieri, lavorando dal 2013 al 2018 con Di Francesco al Sassuolo. Passato con il tecnico pescarese alla Sampdoria, è rimasto a Genova anche dopo l'addio del tecnico. La sua carriera lo ha visto protagonista con tante maglie, ma eccellere soprattutto in Provincia, deludendo invece, non senza rimpianti, con la Roma. Con la soddisfazione di vedersi ritratto sull'album Panini grazie alle sue doti acrobatiche.

"Trionfi, lacrime, campioni e quella gaffe con Messi..." L'ex centrocampista apre lo scrigno dei ricordi in un libro: "Ho sfogliato la mia carriera per celebrare gli altri, non me". Franco Ordine, Domenica, 15/11/2020 su Il Giornale. Demetrio Albertini non è il tipo da aprire i cassetti della sua vita e raccontare storie e aneddoti che farebbero la felicità dei bambini sognatori e degli stagionati amanti del pallone. Dieci, cento, mille volte gli hanno chiesto di squadernare il suo voluminoso album di fotografie e si è sempre ritratto opponendo quel sorriso impacciato di chi si sentirebbe improvvisamente nudo davanti al pubblico anonimo. Questa volta, come succede a ciascuno di noi nella vita, per la prima volta, Demetrio Albertini ha ceduto alla tentazione e riaperto quei cassetti della memoria per tirar fuori una rassegna eccitante intitolata «Ti racconto i campioni del Milan», splendida cavalcata tra trionfi e sconfitte dolorose, delusioni e lacrime spese, ma anche insegnamenti. Che è poi il fine ultimo di questa narrazione. «L'ho fatto non per celebrare la mia carriera ma per valorizzare il contributo degli altri» la spiegazione che ha quasi il sapore di una giustificazione, è come se volesse chiedere scusa per aver calpestato un terreno che non gli è congeniale. «Il mio intento figurato è il seguente: è come se avessi preso un album, sedendomi sul divano, con i miei figli, per sfogliarlo insieme a loro e raccontare le emozioni vissute. Oggi ci sono video, testimonianze digitali, ai miei tempi non ancora e ho voluto rimediare, colmare questa lacuna» la spinta esistenziale.

Caro Demetrio, cominciamo da uno degli episodi più curiosi. Così per rompere il ghiaccio...

«Devo rimettere indietro le lancette dell'orologio e portarvi al maggio del '94, vigilia della finale di Atene con il Barcellona, poi vinta 4 a 0. Io e Maldini facciamo una promessa solenne alla vigilia: se vinciamo ci facciamo i buchi all'orecchio e mettiamo gli orecchini, era la moda di quella stagione. Bene: succede. Vinciamo e le scommesse vanno onorate. Dopo qualche giorno però dobbiamo raggiungere Milanello dove ci aspetta la Nazionale per preparare il Mondiale. Allora chiamo Paolo e gli dico: scusa ma mica ci presentiamo da Sacchi con l'orecchino, sai dove ci manda... E l'orecchino finì nell'astuccio».

Ne serve subito un altro, coraggio Demetrio...

«Io a 18 anni, alle prime da titolare nel Milan. C'è il Presidente col quale faccio la passeggiata che va dallo spogliatoio alla club house, è una giornata molto afosa. Lui mi guarda, mi ispeziona e mi fa: Ma sei senza calze? Quelli sono i ferri del tuo mestiere, devi proteggerli. Io abbozzo un sorriso impacciato, annuisco, senza riuscire a dire una parola. E allora lui capisce al volo e mi scongela così: Vedi che bello avere un Presidente rompi.... Con una battuta mi aveva rimesso a mio agio».

Passiamo agli insegnamenti del calcio: al primo posto come metterebbe Albertini?

«Una grande lezione: il giorno prima non conta più, preparati al giorno dopo, vai avanti senza guardarti mai indietro, nel bene nel male. Così ho fatto sia nelle vittorie che nelle sconfitte. Che sono state tante: Mondiale, europee, scudetti, Champions, coppa Italia».

Scelga le più dolorose.

«Due su tutte. Marsiglia, finale di Champions a Monaco di Baviera. Avevo partecipato da uditore a quelle con Sacchi, '89 e '90, senza godermele. Quando andavo a Castellanza, a casa di Carlo Ancelotti, e vedevo la foto gigantesca di lui con la coppa tra le mani, pensavo: chissà se potrò farmela io un giorno questa foto. Mi capita la finale e la perdiamo. Negli spogliatoi piango come un vitello. Mi viene vicino Franco Baresi e mi fa: sei giovane, sai quante volte ti ricapiterà di vincerla».

L'altra?

«L'europeo 2000 a Rotterdam con la Francia. Stavo per concludere la mia carriera in azzurro, era la mia ultima chance».

Passiamo ai fuoriclasse incrociati a Milanello: formazione ideale...

«So che lascerò qualcuno da parte e che riceverò qualche insulto ma per il Giornale faccio l'eccezione. Allora eccola: in porta Seba Rossi, altrimenti mi viene a prendere per il collo, poi difesa con Tassotti, Franco (Baresi, ndr), Billy (Costacurta, ndr) e Paolo (Maldini, ndr); Rijakaard e Pirlo a centrocampo con Donadoni e Savicevic ai lati, davanti Van Basten e Sheva».

Veniamo agli allenatori.

«L'elenco sarebbe lunghissimo perché non ho mai dimenticato il contributo di Zaccheroni, Cesare Maldini, ad esempio. Due in particolare han segnato la mia carriera. Arrigo Sacchi mi ha trasformato da calciatore in giocatore di calcio, cioè capace di giocare con e per la squadra, Fabio Capello, splendido gestore, ha avuto intuito e coraggio nel prendermi ragazzino e schierarmi al fianco dei campionissimi».

Poi c'è stata la preziosa esperienza all'estero.

«Che mi ha arricchito perché ho conosciuto un'altra lingua, un'altra cultura, un'altra storia. A Madrid, con l'Atletico, io uscivo dall'allenamento e trovavo i tifosi con le famiglie che mi aspettavano, mi parlavano coltivando così il senso di appartenenza. Da noi, oggi, è tutto cambiato. A Barcellona ho addirittura scoperto una nazione, la Catalogna, in una nazione. E ho vissuto l'esperienza delle elezioni presidenziali del Barça».

Dove ha conosciuto Leo Messi.

«Debuttando con una gaffe mondiale».

In che senso?

«Arrivo a Barcellona, mi presentano, vado allo stadio e il presidente mi viene a salutare. Incrociamo un ragazzino, Leo appunto, reduce dal Mondiale under 19 mi pare. Il presidente gli fa: Leo conosci questo nuovo calciatore? Lui risponde: sì. Poi rivolge a me la stessa domanda: conosci questo ragazzo della cantera? E io rispondo: no. Il giorno dopo però, al primo allenamento, vedo questo ragazzo che partecipa al torello iniziale non nel gruppo degli scarsi, dove c'ero io, con Xavi, Iniesta, Puyol, ma in quello dei fenomeni, con Ronaldinho, Eto'o, Deco. Lo vedo palleggiare e gli dico: stai là che è meglio...».

Caro Demetrio, arriviamo alla morale di questo libro, dedicato a suo papà.

«La dedica è a un papà che non mi ha mai creato illusioni. La morale è una sola: riguarda il primo comandamento di chi pratica sport di squadra. Rispetto dei propri compagni. Poi viene quello per gli avversari».

Walter Zenga al Cagliari: dall’Inter al Postino per la De Filippi (fra liti epiche e tre matrimoni), 11 curiosità sull’Uomo Ragno. Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it. Walter Zenga, nuovo allenatore del Cagliari dopo l’esonero di Rolando Maran, è uno di quei pochi calciatori nati a Milano (il 28 aprile 1960), che ce l’ha fatta partendo da una squadra di periferia, la Macallesi. Cresciuto in viale Ungheria («Un quartiere incantato, vivibile dal mio punto di vista, ci torno spesso perché ci abita ancora mio fratello», aveva detto), da sempre tifoso dell’Inter, è approdato in nerazzurro nel 1971, all’età di 11 anni. Raggiunta la maggiore età, Zenga viene ceduto in prestito alla Salernitana in Serie C1. Durante una partita, dopo aver subito due gol discutibili (e in precedenza era stato massacrato per una papera contro il Campobasso), abbandona il campo in lacrime e, nonostante l’incitamento dei tifosi, decide di lasciare la squadra.

Matteo Spaziante per “Libero Quotidiano” il 4 marzo 2020. L' Uomo Ragno, più che da palazzo a palazzo come nei fumetti, ora vola da nazione a nazione, di panchina in panchina. Walter Zenga sbarca a Cagliari e pianta un' altra bandierina, la numero 19, della sua carriera da allenatore che lo ha visto protagonista in otto nazioni diverse in giro per tutto il globo, spesso però guardando il mare. Strano, per uno nato e cresciuto a Milano. Ora, dagli scogli del Poetto, ha un nuovo obiettivo: raddrizzare la stagione di Nainggolan e compagni, magari tornando a rintuzzare quei sogni di Europa che non sono ancora del tutto scomparsi. Lui era in campo l' ultima volta in cui i rossoblu furono protagonisti in campo continentale, il 12 aprile 1994 nella semifinale di ritorno di Coppa Uefa, seppur difendendo la porta dell' Inter che vinse la partita a San Siro e poi il trofeo. Ma l' obiettivo, adesso, è intanto tornare a correre, perché nelle ultime 10 partite i sardi hanno raccolto soltanto tre punti. La scelta non poteva che ricadere su un ex portiere, in fondo, per provare a bloccare la crisi dei rossoblu. Il patron Tommaso Giulini, tifoso interista, aveva già provato a portarlo in Sardegna nel 2014 per sostituire Zeman: Zenga declinò, «la mia vita è negli Emirati Arabi». Non è mai stato un uomo da soluzioni semplici, in campo e anche in panchina. Basta scorrere le tappe della sua carriera, iniziata con l' esperienza da allenatore-giocatore ai New England Revolution tra il 1998 e il 1999. Poi il breve passaggio al Brera, in Serie D, prima di tornare all' estero. Il giro del mondo riparte dalla Romania con National e poi Steaua Bucarest, passa per la Serbia con la Stella Rossa, la Turchia con il Gaziantepspor e nel 2007 arriva negli Emirati per la sua prima tappa araba con l' Al-Ain, anche se ad agosto sente nostalgia della Romania e torna a Bucarest, sponda Dinamo. Nel 2008 il Catania di Pulvirenti vuole puntare su di lui per il miracolo salvezza: obiettivo centrato all' ultima giornata, fermando la Roma nella corsa scudetto con l' Inter. L' anno dopo fa meglio, centrando il record di punti in campionato con gli etnei. Prova a spostarsi a Palermo, ma il rapporto con Zamparini naufraga dopo cinque mesi e la scelta è di tornare in Medio Oriente: nel 2010 in Arabia Saudita con l' Al-Nassr, poi negli Emirati con l' Al-Nasr e l' Al-Jazira. Con la Sampdoria, nel 2015, viene esonerato dopo 12 partite, mentre dura 11 gare sulla panchina dell' Al Shabab (Emirati) e 14 su quella del Wolverhampton (Championship inglese). Infine, nel 2017/18 sfiora la salvezza in Serie A con il Crotone all' ultima giornata (mentre alla penultima aveva fermato la Lazio, in corsa con l' Inter per la Champions League) e nel 2018/19 non riesce a risollevare le sorti del Venezia di Tacopina in Serie B. Tutte città di mare L' ultima tappa fino a oggi, con il filo conduttore delle città di mare in Italia: esclusa la prima esperienza con il Brera, il rumore delle onde sugli scogli ha fatto sempre da sottofondo alle sue avventure italiane in panchina. Ora lo aspetta un' altra sfida, magari per festeggiare al meglio i 60 anni che compirà il prossimo 28 aprile. Giulini e il Cagliari credono in lui, tanto da avergli fatto firmare un contratto fino al 2021 e non solo fino a giugno, come inizialmente era filtrato. «A marzo, quando il Venezia mi ha mandato via, non ho dormito. Vivo il mio lavoro al cento per cento, quando alleno mi sveglio anche la notte e mi metto a studiare determinate situazione di gioco», ha detto negli scorsi mesi. La stessa passione che mostrava da giocatore: quello di cui il Cagliari, in fondo, ha bisogno per tornare a sognare.

Bari-Lecce, scontri ultras: autobus incendiati e bambini aggrediti. Marco Alborghetti 23/02/2020 su Notizie.it. Questa mattina diversi ultras di Bari-Lecce si sono scontrati violentemente nel tratto di autostrada di Ofanto. Si contano diversi autobus incendiati e numerosi feriti, tra cui alcuni bambini. In un giorno così complicato per lo sport, piove sul bagnato. Non bastava la sospensione di tutte le manifestazioni sportive in Lombardia e Veneto a causa del coronavirus per rendere questa giornata ancora più difficile da gestire. Questa mattina, infatti, alcuni gruppi ultras di Bari–Lecce si sono scontrati casualmente all’altezza del tratto di Ofanto. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, sembra che l’agguato fatto dai tifosi baresi sia stato premeditato, come confermato dai chiodi ritrovati sul tratto autostradale teatro dello scontro. I pullmini leccesi, infatti, dopo aver bucato, si sarebbero fermati in una zona specifica, dove 200 tifosi baresi avrebbero dato il via all’agguato. Si contano alcuni pullmini incendiati, feriti non gravi, ma tra questi si registrano alcuni bambini.

Scontro casuale. L’agguato è stato premeditato dagli ultras baresi, ma in realtà questo incontro è solo frutto di un calendario che spesso non tiene conto delle diverse rivalità calcistiche: i tifosi del Lecce, infatti, erano in viaggio verso Roma, dove alle 18 si disputerà il match di campionato tra Roma e i giallorossi pugliesi. Dall’altra parte però i tifosi baresi erano in viaggio verso Cava dei Tirreni, dove ad attendere il Bari c’era la Cavese, per disputare la partita di Serie C.

Guerriglia sull'A16 tra supporter violenti del Bari e del Lecce. Due pulmini incendiati, altri mezzi danneggiati, un tratto di autostrada chiuso. Il salentini erano diretti a Roma, i baresi a Cava De' Tirreni per le rispettive trasferte. La Gazzetta del Mezzogiorno. il 23 Febbraio 2020. Violenti scontri tra tifosi baresi e leccesi: due pulmini incendiati, altri mezzi danneggiati, un tratto dell’A16 (all'altezza di Cerignola) rimasto chiuso per un’ora mezza, alcuni feriti. È il bollettino di guerra di una domenica calcistica di follia in mattinata nel tratto compreso tra Cerignola e Candela all’altezza di un autogrill nei pressi dell’uscita Ofanto Nord. Secondo una prima ricostruzione da parte della Polizia Stradale di Trani per prima intervenuta sul posto e degli agenti della Digos della Questura di Bari, ieri mattina un pullman di tifosi biancorossi diretto a Cava dei Tirreni per Cavese-Bari ha accostato in autostrada, pare per una improvvisa foratura. I conducenti di almeno altri sei pullman del corteo barese hanno accostato anche loro. Poco dopo in autostrada è sopraggiunto il serpentone di circa una decina di minivan di tifosi del Lecce diretti allo stadio Olimpico per assistere alla partita contro la Roma. Ovviamente le due tifoserie si sono «riconosciute». Non è chiaro chi ha ingaggiato la lite per primo, se i tifosi biancorossi o quelli giallorossi. Sta di fatto che sono arrivati subito alle mani. Quando sono arrivati i poliziotti, sull'asfalto c'erano fumogeni, mazze, vetri rotti e fazzoletti sporchi di sangue.  Non si hanno notizie di feriti e nessuno, pare, avrebbe chiesto l'intervento del 118. Il tratto autostradale è rimasto chiuso per circa un'ora e mezza ma poi è stato riaperto.

IL PRESIDENTE GHIRELLI: «SONO INORRIDITO» . «Sono inorridito nel sapere cosa sia successo e nel vedere le immagini di cosa abbiano fatto i delinquenti. Tali atti offendono a morte il calcio e chi lo ama. Si accertino i responsabili : coloro che occupavano i pullman erano noti ? I club si facciano dare i nomi dalle forze dell'ordine e dai proprietari della compagnia dei trasporti che ha affittato i veicoli. Parlino e denuncino chi era sui pullman per prendere le distanze dai delinquenti. I club applichino l'istituto del gradimento e non consentano più di macchiare maglia e simboli, non saranno tollerate scuse». E’ il commento del presidente della Lega Pro, Francesco Ghirelli, a quando avvenuto oggi in Puglia, dove lungo il tratto autostradale A16 tra Cerignola e Candela, nel Foggiano, si sono verificati violenti scontri tra le tifoserie del Bari e del Lecce, che si sono incrociate durante il cammino verso le rispettive mete (Roma per quella salentina). Il Bari, con una nota, aveva poi espresso «la più ferma condanna per quanto accaduto sul tratto autostradale che collega la Puglia alla Campania. Ogni forma di violenza è da condannare nel modo più assoluto. Sono episodi che non hanno nulla a che vedere con i valori che la Società biancorossa e la città di Bari hanno da sempre promosso e sostenuto. Questi episodi sono da condannare». Sempre il Bari aveva poi espresso «la propria solidarietà all’US Lecce e ai suoi tifosi, unitamente agli auguri di una pronta e completa guarigione agli eventuali feriti». Sulla vicenda era intervenuto anche il sindaco di Bari, Antonio Decaro: «non credo ci siano parole per commentare l'accaduto - aveva fatto sapere con una nota -, se non quelle di condanna assoluta, senza se e senza ma, verso azioni così vili e violente che nulla c'entrano con lo sport e i suoi valori. Da sindaco, da barese e da tifoso mi vergogno per loro e chiedo scusa a nome della città».

SOLIDARIETA' DEL CLUB BARI AL LECCE E AI SUOI SOSTENITORI. Il Bari condanna con una dura nota le violenze avvenute oggi lungo il tratto autostradale A16 tra Cerignola e Candela, nel Foggiano, con scontri tra le tifoserie di calcio baresi e leccesi, oltre ad esprimere vicinanza al club salentino e ai suoi sostenitori. «SSC Bari - è scritto nel documento del club - intende esprimere la più ferma condanna per quanto accaduto quest’oggi sul tratto autostradale che collega la Puglia alla Campania. Ogni forma di violenza è da condannare nel modo più assoluto. Sono episodi che non hanno nulla a che vedere con i valori che la Società biancorossa e la città di Bari hanno da sempre promosso e sostenuto». «Questi episodi - prosegue la nota del Bari - sono da condannare in maniera netta e categorica. Coloro i quali si sono resi protagonisti di azioni così vili e violente, niente hanno a che fare con la civiltà e la sportività della maggior parte della tifoseria barese. In attesa che le autorità competenti facciano piena luce su quanto effettivamente accaduto, la Società esprime tutta la propria solidarietà all’US Lecce e ai suoi tifosi, unitamente agli auguri di una pronta e completa guarigione agli eventuali feriti».

«VITTIME DI UN VILE AGGUATO». «L'U.S. Lecce esprime la propria vicinanza ai tifosi giallorossi,vittime di un vile agguato, avvenuto in tarda mattinata, nel tragitto per raggiungere la Capitale per assistere alla gara di campionato Roma-Lecce. La carovana dei mezzi dei sostenitori giallorossi, partita da Lecce, è stata bloccata sull'autostrada all’altezza di Cerignola, dove alcuni veicoli sono stati danneggiati e uno di questi dato alle fiamme». Il sodalizio del presidente Saverio Sticchi Damiani, attraverso una nota pubblicata sul sito ufficiale della società, esprime così la propria solidarietà, ai tifosi vittima dell’agguato. «In un momento in cui il Paese sta attraversando una emergenza sanitaria di portata storica - si legge ancora nella nota - si prende atto con sgomento, che ci sono individui che preferiscono concentrarsi su azioni delittuose, a danno di altre persone, prendendo di mira tutti indiscriminatamente». "L'U.S. Lecce, nel condannare fermamente ogni forma di violenza - conclude la nota - ripone la massima fiducia nel lavoro delle Autorità competenti, in attesa che sia fatta piena chiarezza sull'accaduto».

«AZIONI VILI» : LA CONDANNA DI DECARO. Il sindaco di Bari Antonio Decaro ha diffuso una nota per condannare con forza gli scontri tra tifosi del Bari e del Lecce sull'autostrada A16. «In una giornata in cui a Bari si è vissuto un momento di preghiera e di pace in un clima di serenità e accoglienza, le notizie che ci giungono di scontri avvenuti in autostrada, che ha visto coinvolti alcuni tifosi baresi, fanno ancora più male», scrive il primo cittadino. «Non credo ci siano parole per commentare l'accaduto, se non quelle di condanna assoluta, senza se e senza ma, verso azioni così vili e violente che nulla c'entrano con lo sport e i suoi valori. Da sindaco, da barese e da tifoso mi vergogno per loro e chiedo scusa a nome della città di Bari. La storia della nostra città e della squadra di calcio non ha niente a che fare con queste persone, che speriamo ricevano una punizione esemplare», conclude Decaro.

Da ilfattoquotidiano.it il 21 gennaio 2020. Un “agguato premeditato” dopo un primo scontro in un’area di servizio poco distante. È questa la principale ipotesi investigativa, confermata dal prefetto di Potenza, nell’inchiesta sugli incidenti nei quali è rimasto coinvolto il tifoso della Vultur Rionero, Fabio Tucciariello, 39 anni, morto dopo essere stato investito da un’automobile a bordo della quale viaggiavano 3 ultras del Melfi, tifoseria rivale, a Vaglio di Basilicata, pochi chilometri dal capoluogo lucano. Nel corso della notte il conducente della Fiat Punto, rintracciata dagli agenti della Squadra Mobile, e 24 tifosi della Vultur sono stati arrestati.

Tirapugni e bastoni – Le accuse – a parte quella di omicidio per il presunto responsabile della morte di Tucciariello – sono di violenza privata e possesso di oggetti atti a offendere, visto che la Polizia scientifica ha ritrovato nei pressi del luogo del presunto agguato un tirapugni e due bastoni. Negli scontri sono rimasti feriti altri tre tifosi: il più grave è stato ricoverato all’ospedale San Carlo e operato a causa della gravità delle fratture riportate a un braccio, a un avambraccio e a una gamba. La sua prognosi è ancora riservata. Altri due, trasportati dal 118 in codice giallo, sono stati dimessi e ascoltati a lungo dagli investigatori.

L’agguato – Si è trattato “di un agguato premeditato: un episodio gravissimo e inaudito”, ha detto il prefetto di Potenza, Annunziato Vardè, al termine della riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Stando alla ricostruzione, i tifosi del Rionero erano in una strada che non è sul tragitto per Brienza, dove erano diretti per la trasferta, bensì su quella da cui i tifosi del Melfi avrebbero dovuto passare per recarsi a Tolve. Qui, sempre secondo quanto emerso dalle indagini, i sostenitori del Melfi, suddivisi in cinque veicoli, hanno trovato la strada sbarrata dall’altra tifoseria.

La ricostruzione – In questi momenti concitati, alcuni tifosi del Melfi sono riusciti a passare mentre altri sono riusciti a fare retromarcia. Invece la Fiat Punto è rimasta bloccata, sono avvenute le violenze e poi l’investimento di Tucciariello. “Stamattina – ha aggiunto il prefetto – è stato valutato di dare una risposta per isolare i tifosi violenti, perché evidentemente non bastano i servizi di ordine pubblico. Il fatto non si è verificato in prossimità di uno stadio né tra le tifoserie di due squadre che si sarebbero dovute affrontare ieri”.

Tensione nei due paesi – Vardè ha chiesto a Vultur Rionero e Melfi, che militano nel campionato di Eccellenza lucana, di valutare “l’ipotesi del ritiro dal campionato” e ha aggiunto che le società “devono isolare i violenti”. Un’ipotesi “esclusa” dal presidente della Vultur, Mario Grande, perché i club “sono parte lesa” e questi episodi “danneggiano il nostro lavoro”. La morte di Tucciariello, tra l’altro, potrebbe provocare tensioni nei due paesi. Il prefetto ha parlato di una “situazione di tensione” e per questo sono stati “intensificati al massimo i servizi di vigilanza e di controllo del territorio”. Vardè ha aggiunto che “sarà valutata caso per caso, partita per partita, la possibilità” di “vietare le prossime trasferte delle due tifoserie”.

Lite tra tifoserie lucane, muore 33enne: 26 persone in carcere. Autista arrestato: «Ero circondato, avevo paura». Dietro le sbarre, quindi, oltre l’autista dell’auto che ha investito Fabio Tucciariello, sono finiti anche gli altri 25 sostenitori della Vultur. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Gennaio 2020. Sono stati in totale 26 arresti gli arresti - ai danni di persone tra i 20 e i 30 anni - eseguiti dalla Polizia nell’ambito delle indagini - coordinate dalla Procura della Repubblica di Potenza - sugli incidenti tra i tifosi della Vultur Rionero e del Melfi (Eccellenza lucana). In una conferenza stampa, il Procuratore, Francesco Curcio, ha reso noto che «su una delle cinque auto occupate dai tifosi del Melfi vi era anche un bambino». Lo stesso bambino non è rimasto coinvolto negli scontri che hanno portato alla morte del tifoso della Vultur, Fabio Tucciariello, di 39 anni, e al conseguente arresto per omicidio volontario del sostenitore del Melfi, Salvatore Laspagnoletta, di 30. La circostanza della presenza del bambino avvalorerebbe l’ipotesi che si sia trattato di un agguato premeditato da parte dei tifosi della Vultur e non di «un appuntamento» concordato tra le due tifoserie. Secondo quanto si è appreso, tra le persone indagate e non arrestate vi sono anche alcuni minorenni. Ulteriori indagini sono in corso da parte degli investigatori. Laspagnoletta, in carcere con l’accusa di aver ucciso ieri un tifoso della Vultur Rionero, è «distrutto». «Doveva essere una giornata di festa, un pomeriggio divertente tra amici - ha raccontato l’uomo dopo l’arresto - ma tutto è cambiato quando la mia auto è stata circondata e assalita con mazze da una cinquantina di facinorosi mascherati. Ero terrorizzato e ho cercato di scappare».

GLI ARRESTATI - Oltre a Salvatore Laspagnoletta (di 30 anni), di Melfi (Potenza), accusato dell’omicidio volontario del tifoso della Vultur Rionero, Fabio Tucciariello, di 39, la Polizia ha arrestato altri 25 uomini, tutti sostenitori della squadra vulturina e accusati di violenza privata, tentate lesioni aggravate, danneggiamento e detenzione aggravata di oggetti atti ad offendere. Sono Vincenzo Di Lorenzo (di 28 anni), di Barile (Potenza), attualmente ricoverato nell’ospedale di Potenza; Giuseppe Mecca (29), di Rionero in Vulture (Potenza), che ha riportato contusioni ed escoriazioni; Davide Di Pierro (22), di Rionero in Vulture; Andrea Mecca (28), di Rionero in Vulture; Savino Gerardo Labella (28), di Rionero in Vulture; Gianni Pietragalla (21), di Rionero in Vulture; Donato Tirriciello (35), di Rionero in Vulture; Antonio Ramunno (26), di Rionero in Vulture; Raffaele Falaguerra (32), di Atella (Potenza); Attilio Capobianco (39), di Rionero in Vulture; Antonio Barozzino (19), di Rionero in Vulture; Michele Tirriciello (29), di Rionero in Vulture; Arcangelo Rondinella (29), di Rionero in Vulture; Alessandro Tirriciello (22), di Rionero in Vulture; Mariano Raffaele Curto (20), di Rionero in Vulture; Francesco Traficante (20), di Rionero in Vulture; Pasquale Pietragalla (25), di Rionero in Vulture; Pasquale Archetti (30), di Rionero in Vulture; Michele Pio Corella (19), di Rionero in Vulture; Donato Sabino (18), di Barile; Michele Maulà (33), di Rionero in Vulture; Fabio Minore (27), di Rionero in Vulture; Gianluca Stolfi (33), di Rionero in Vulture; Raffaele Storelli (31), di Rionero in Vulture; e Vittorio Pitoia (di 20 anni), di Rionero in Vulture.

UN FERITO IN OSSERVAZIONE - Il ferito ricoverato nell’ospedale San Carlo di Potenza è anche piantonato perché in stato di arresto. Infatti, secondo l’accusa, si tratta di uno dei 24 responsabili dell’agguato fra tifosi che poi ha portato alla morte di Tucciariello. Intanto, sempre a Potenza, è cominciata pochi minuti fa la riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. La riunione è presieduta dal prefetto, Annunziato Vardè: sono presenti anche il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, quello della Provincia di Potenza, Rocco Guarino, i rappresentanti delle forze dell’ordine, i sindaci di Potenza, Rionero in Vulture e Melfi e i dirigenti delle due società - Vultur Rionero e Melfi - che partecipano al campionato di Eccellenza lucana.

IL CALCIO LUCANO NON SI FERMA - Il calcio lucano «non si ferma: non gliela diamo vinta a quelli che non hanno nulla a che fare con lo sport». Lo ha detto il presidente del Comitato regionale della Basilicata della Lega nazionale dilettanti, Piero Rinaldi. «Non ci fermeremo - ha aggiunto - davanti a chi vuole inquinare, con fatti che non c'entrano nulla con il calcio, il nostro che è un mondo pulito».

DAI DOMICILIARI AL CARCERE - Saranno tutti trasferiti nel carcere di Potenza anche i 24 uomini arrestati dalla Polizia (e finiti inizialmente ai doomiciliari) dopo la morte di un tifoso della Vultur Rionero (Campionato di Eccellenza lucana) avvenuta ieri pomeriggio a Vaglio di Basilicata (Potenza). Il provvedimento restrittivo dietro le sbarre ha riguardato sia l’autista dell’auto che ha investito Fabio Tucciariello, di 39 anni, sia gli altri 24 sostenitori della Vultur, tutti maggiorenni. Le accuse - a parte quella di omicidio per il presunto responsabile della morte di Tucciariello - sono di violenza privata e possesso di oggetti atti a offendere. Le indagini della Polizia, cominciate subito dopo la morte di Tucciriello, hanno portato gli agenti a Brienza, dove la Vultur Rionero era impegnata ieri pomeriggio. Numerose persone sono state portate in questura e interrogate (le indagini sono state coordinate dall’inizio dal Procuratore della Repubblica vario di Potenza e dal pubblico ministero) e nella notte si è giunti agli arresti.

IL PRESIDENTE DELLA REGIONE - «È un brutto momento: è un episodio che non rispecchia l’indole dei lucani": lo ha detto il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, uscendo dalla riunione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, che è in corso nella prefettura di Potenza, dopo l'uccisione - avvenuta ieri - di un tifoso della Vultur Rionero (Campionato di Eccellenza lucana). Secondo Bardi, «l'agguato dimostra che alla base c'è una mancanza culturale. C'è bisogno di educare i giovani da parte di tutti, da parte delle istituzioni e delle società di calcio che devono portare avanti una campagna per stemperare gli animi».

IL PREFETTO - Il prefetto di Potenza, Annunziato Vardè, ha chiesto a Vultur Rionero e Melfi di valutare «l'ipotesi del ritiro dal campionato. Le società - ha aggiunto il prefetto - devono isolare i violenti». Al termine della riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, a Potenza, Vardè e il questore di Potenza, Isabella Fusiello, hanno confermato la circostanza che si sia trattato di un agguato e che l’auto che ha investito i tifosi della Vultur si è fermata subito dopo l’incidente.  Si è trattato «di un agguato premeditato: un episodio gravissimo e inaudito», ha aggiunto il Prefetto. «Stamattina - ha aggiunto - è stato valutato di dare una risposta per isolare i tifosi violenti, perché evidentemente non bastano i servizi di ordine pubblico. Il fatto non si è verificato in prossimità di uno stadio né tra le tifoserie di due squadre che si sarebbero dovute affrontare ieri». Allo «scopo di prevenire reazioni» e «attesa la situazione di tensione che potrebbe aver determinato questo gravissimo fatto nelle due tifoserie», sono stati «intensificati al massimo i servizi di vigilanza e di controllo del territorio, soprattutto a Melfi e Rionero in Vulture (Potenza)». Lo ha confermato il rappresentante del Governo al termine della riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. 

«NON RITIREREMO LE SQUADRE» - «Le società sono parte lesa, in questi casi: sono azioni che danneggiano il nostro lavoro. Escludo il ritiro della squadra dal campionato, perché ci sono tanti sacrifici da parte delle società, che non possono essere vanificati in questo modo. Andremo avanti, cercando di fare ancora di più per sensibilizzare tutti a uno sport sano». Lo ha detto stamani a Potenza, al termine della riunione del Comitato provinciale per l’ordine pubblico, il presidente della Vultur Rionero, Mario Grande, replicando indirettamente all’ipotesi fatta dal prefetto, Annunziato Vardè, di ritirare dal campionati Vultur Rionero e Melfi, dopo la morte di un tifoso. «Siamo attoniti - ha aggiunto Grande - è un momento molto difficile. Faremo tutto il possibile affinché una partita di calcio possa essere ricondotta al suo momento naturale di gioia e di sport. Abbiamo sempre i nostri tifosi alle partite, sono il nostro dodicesimo uomo in campo e siamo una delle poche società di Eccellenza ad avere supporter al seguito: non è mai successo nulla».

I SINDACI -  «E' un atto di bestialità, che irrompe in una comunità, quella del Vulture, oggi attonita e preoccupata. Non si deve alterare questo rapporto di comunità e ci sentiamo tutti colpiti, senza nessuna differenza, e faremo con i nostri concittadini tutto ciò che è utile per ristabilire la serenità». Lo hanno detto i sindaci di Melfi e Rionero in Vulture (Potenza), Livio Valvano e Luigi Di Toro, al termine del Comitato provinciale per l’ordine pubblico che si è svolto nel capoluogo lucano. Valvano si è detto «colpito» da un atto «di questa enormità": il presunto investitore, ha aggiunto il sindaco di Melfi, «è un ragazzo per bene, da una famiglia per bene, che lavora e si è sposato da poco». Serve ora «un atto forte, significativo - hanno aggiunto i due sindaci - condiviso dalle due squadre e dalle due comunità». Di Toro ha poi evidenziato che «se si tratta di un agguato, come sta emergendo dalle indagini, è un atto che non ha nulla a che vedere con il calcio, ma è un vero e proprio atto delinquenziale che deve essere punito. Siamo seriamente preoccupati per quello che può accadere, e per eventuali ritorsioni: ci sono ragazzi di Rionero che vanno a scuola a Melfi, e viceversa. Siamo preoccupati perché un’antica rivalità, che credevamo superata in tutti i settori, potrebbe tornare».

IL PRESIDENTE DEL CONI - «Ho visto i tg e sono rimasto senza parole, allibito. Come per altri episodi che hanno caratterizzato le tifoserie in passato, ma fa ancora più stupore vedere che può accadere in categorie neanche professionistiche, si resta senza parole, è follia pura». Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta così la morte del tifoso investito in Basilicata da un’automobile a seguito di scontri tra tifoserie di squadre dilettanti. «C'è da estirpare a monte qualche atteggiamento mentale di soggetti scellerati», ha aggiunto Malagò parlando a margine della presentazione del Sei Nazioni di rugby al salone d’onore del Coni.

GLI ARRESTATI - Al termine delle procedure che sono andate avanti per tutta la mattinata, poco fa hanno lasciato la Questura di Potenza per essere trasferite in carcere 24 delle 25 persone arrestate in seguito agli incidenti tra i tifosi della Vultur Rionero e del Melfi che, ieri hanno portato alla morte di un tifoso vulturino, Fabio Tucciariello, di 39 anni, investito da un’auto con a bordo tre tifosi melfitani, a Vaglio di Basilicata. Un giovane rionerese di 28 anni, il 25esimo arrestato, è invece piantonato all’ospedale San Carlo di Potenza dove è ricoverato nel reparto di Traumatologia. Tra le 25 persone arrestate nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Potenza, c'è anche Salvatore Laspagnoletta, di 30 anni, di Melfi (Potenza) che - secondo la ricostruzione degli investigatori - era alla guida della Fiat Punto che ha investito i tifosi vulturini. Quest'ultimo è accusato di omicidio volontario e lesioni aggravate.  Lo hanno reso noto il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, e il vicario, Maurizio Cardea, e il Questore, Isabella Fusiello. Sono stati mostrati ai giornalisti tirapugni e mazze sequestrati ieri durante le indagini sull'investimento.

«SERVONO PENE ADEGUATE» - «Gli scontri avvenuti ieri a Potenza dove un uomo è morto e altri soni rimasti feriti, porta alla luce il fenomeno della violenza ultras che in Italia si consuma ogni settimana in decine e decine di campi di categorie minori che, lontani dalla luce dei riflettori della serie A, impegnano migliaia di uomini in divisa in guerriglie urbane spesso lontano dagli stadi. A Potenza la risposta della Polizia di Stato è stata immediata e straordinariamente efficiente con l’arresto di 25 persone coinvolte negli scontri e dei presunti autori l'investimento mortale». Così il portavoce dell’Associazione nazionale funzionari di polizia, Girolamo Lacquaniti, commenta quanto accaduto ieri nel Potentino. «Ciò che avviene nei tantissimi campi di calcio del nostro Paese - prosegue Lacquaniti - dimostra la necessità di non arretrare di un millimetro nel mantenere un impianto normativo che punisca in modo adeguato soggetti che, dietro una pseudo passione sportiva, coltivano unicamente disegni criminali. Ora - aggiunge - è importante che l’intero mondo del calcio avvii serie e continue campagne contro il tifo violento e la Lega Calcio contribuisca a sostenere i costi della sicurezza legate agli avvenimenti calcistici».

LE PAROLE DEL PROCURATORE - "E' stata violenza tribale, anche in considerazione delle armi sequestrate": lo ha detto il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, in una conferenza stampa in corso nella questura di Potenza sull'investimento mortale di un tifoso della Vultur Rionero (Eccellenza lucana), avvenuto ieri a Vaglio di Basilicata (Potenza)."Una tribù - ha spiegato Curcio - voleva sfidarne un’altra. Tutto era stato preparato, c'è stata sicuramente pianificazione».

IL COMMENTO DEL VESCOVO - «Quanto avvenuto ieri non ha nulla a che spartire non solo con lo sport e con il tifo, ma nemmeno con l’umanità: una violenza insensata, probabilmente solo mascherata dalla rivalità sportiva, ha lasciato a terra una giovane vita e ha ferito altre vite». Lo ha detto il vescovo di Melfi (Potenza), Ciro Fanelli: «Non posso non affermare con forza che è inconcepibile che una dimensione così importante e diffusa per una comunità, come lo sport, debba ancora una volta fare i conti con comportamenti di natura violenta»

Tommaso Lorenzini per ''Libero Quotidiano'' il 22 dicembre 2020. Sei mesi che la serie A gioca a stadi chiusi, e microfoni apertissimi, e ancora i calciatori non hanno capito che chi sta a casa davanti alla tv sente tutto, quasi ogni loro sospiro, anche altro. Figuriamoci se si mettono a urlare improperi o bestemmioni. Intendiamoci, da queste colonne nessuno può scagliare la prima pietra. Bisogna però che coloro che percepiscono profumati ingaggi si ricordino che dal marzo 2010 è prevista l' espulsione per espressione blasfema (regola 12, punto 43). Ne ha fatte le spese solo una settimana fa il romanista Cristante, che si era "sfogato" così dopo l' autogol in Bologna-Roma: l' ha sfangata però Gigi Buffon. Nel finale della partita di sabato contro il Parma, si è sentito chiaro come il portiere della Juve si sia rivolto a Portanova, appena entrato: «Porta, mi interessa che ti vedo correre e stare lì Dio c**e a soffrire eh, il resto non me ne frega un c***o». Se Cristante, ma si potrebbe citare anche il caso precedente (marzo 2020) di Donati durante Lecce-Atalanta, è stato fermato dal giudice sportivo (quindi dalla prova tv) per «piena garanzia tecnica e documentale» delle immagini a disposizione, Buffon pare si sia "salvato" perché che non ci sarebbero primi piani dell' episodio a renderne immediato il riconoscimento, oltre al fatto che al giudice non è arrivato materiale dalla Procura federale. Eppure, il video virale sui social spazza ogni dubbio, inequivocabile. Due pesi e due misure? O a pensar male si fa peccato?

I PRECEDENTI. Tra l' altro, la letteratura buffoniana sul tema è variegata. «In famiglia ho uno zio che fa un po' il porcellino», aveva detto Gigi per spiegare che nel suo labiale dopo la papera durante Juve-Genoa (21 febbraio 2010) c' era una "z" (zio) e non una "d". Nell' ottobre 2016 fu colto dalle telecamere Rai a bestemmiare in diretta dopo un errore nella gara dell' Italia con la Spagna ed era successo anche agli Europei precedenti, proprio contro gli spagnoli. Per questo si era beccato pure un Tapiro d' oro da Striscia la Notizia: «Chiedo scusa, se un giorno avrò la fortuna di incontrare Dio sarà lui a decidere se perdonarmi». Qualche anno prima Gigi era stato strigliato pure da Trapattoni: «Lascia stare la Madonna. Sei tu che non hai parato, mica Lei». Ironia, pochi anni dopo lo stesso Trap venne cacciato dal ruolo di commentatore Rai per aver bestemmiato in diretta. «Ma era solo un orcozio, un modo di dire popolare dalle mie parti», la sua difesa. Poveri zii...Certo è che se fra i pali Buffon resta un riferimento pure a 42 anni, a parole ha sempre combinato di tutto. La sinistra gli è saltata al collo varie volte per l' uso disinvolto di espressioni e simbologie riconducibili all' estrema destra (come il "Boia chi molla" e il numero 88 sulla maglia ai tempi del Parma, o la croce celtica sullo striscione "Fieri di essere italiani" esibito nella parata per la vittoria dei Mondiali 2006) e in campo si è beccato strali trasversali. Alle volte bigotti, come quando ribadì una regola non scritta del calcio, il famoso «meglio due feriti che un morto», riferito alle presunte combine dell' ultimo calcioscommesse: e peccato che per il biscotto Danimarca-Svezia di Euro 2004 la pensasse così: «Una vergogna». Altro caso, quello del gol fantasma di Muntari di Milan-Juve 2012, dopo il quale era stato anche fin troppo sincero (per alcuni anti-sportivo): «Se mi fossi accorto che il pallone aveva superato la linea bianca non lo avrei detto all' arbitro». Il clou a Madrid, dopo l' eliminazione della Juve causata dal discusso rigore dell' 1-3 segnato da Ronaldo a tempo scaduto nel 2018. «L' arbitro ha un bidone dell' immondizia al posto del cuore, mi ha espulso alla mia ultima partita in Champions». In realtà non è stata l' ultima, ma chissà se Gigi imparerà a far evitare alla sua lingua altre uscite a vuoto...

Juventus, l'uomo che ha attraversato mille epoche: Buffon fa il record. Pubblicato venerdì, 03 luglio 2020 da La Repubblica.it. Venticinque anni di carriera, un quarto di secolo passato con due pali e una traversa a delimitare il proprio mondo. Gianluigi Buffon si appresta a scrivere un'altra pagina della storia del calcio italiano: contro il Torino il numero 77 della Juventus supererà Paolo Maldini diventando il calciatore con più presenze in Serie A, a quota 648. Un cammino iniziato nel 1991, quando a soli 13 anni venne pagato 15 milioni di lire dal Parma, mentre il mondo assisteva impotente allo scoppio della prima guerra del Golfo e proseguiva, pezzo per pezzo, lo smantellamento dell'Unione Sovietica.  

Gli esordi in gialloblù. Con la maglia del Parma il giovane portiere esordì il 19 novembre 1995, quando Nevio Scala lo mandò in campo a soli 17 anni, 9 mesi e 22 giorni: quattro giorni dopo a Dayton, negli Stati Uniti, sarebbe arrivata la pace tra serbi, croati e bosniaci mentre nel nostro Paese l'ex capitano delle SS, Erich Priebke, veniva estradato in Italia dall'Argentina. La domenica dopo, contro la Juventus a firma Ciro Ferrara, sarebbe arrivato anche il primo gol subito in Serie A subito da Buffon: sei anni dopo sarebbe diventato una bandiera della società bianconera. La centesima presenza arrivò quattro anni dopo, nella vittoria per 3-1 che il suo Parma strappò a San Siro l'8 maggio: Carlo Azeglio Ciampi sarebbe diventato presidente della Repubblica cinque giorni dopo nell'anno della nascita dell'Euro e del ritiro dall'attività di Michael Jordan, dell'ascesa di Chavez in Venezuela e dell'Oscar per "La vita è bella" vinto da Roberto Benigni. Oltre alle 100 presenze, Buffon alzò anche i primi trofei: la Coppa Uefa, arrivando imbattuto alla finale vinta con il Marsiglia, la Coppa Italia e la Supercoppa Italiana.  

La nuova vita in bianconero. Nell'estate del 2001, anno tristemente famoso per l'attentato alle Torri Gemelle di New York, la Juventus si assicurò Buffon sborsando 75 miliardi oltre al cartellino di Bachini, valutato 30 miliardi di vecchie lire, che sarebbero andate in disuso l'anno dopo. Qualche mese dopo, il 21 aprile 2002, Buffon ha tagliato il traguardo delle 200 partite in Serie A nella vittoria per 1-0 al Granillo di Piacenza: tre giorni prima l'allora presidente del Consiglio, Berlusconi, lanciò quello che sarebbe stato ribattezzato "l'editto bulgaro" contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Nonostante qualche problema fisico che ha contraddistinto la sua carriera, Buffon è diventato uno dei calciatori più rappresentativi della storia bianconera, sfondando quota 300 presenze il 1 maggio 2005 al Comunale di Torino, nella vittoria per 2-1 contro il Bologna di Carletto Mazzone. L'anno della nascita di YouTube e dell'acquisizione di Android da parte di Google, dell'uragano Katrina che sconvolse New Orleans ma anche della morte di Giovanni Paolo II e di Omar Sivori. 

La caduta e la risalita. É del 9 settembre 2006 la prima delle 34 presenze in Serie B di Buffon, una manciata di giorni dopo il ritiro dall'attività del tennista André Agassi. Il ritorno in Serie A, dopo il campionato vinto dalla Juventus, è avvenuto il 25 agosto dell'anno dopo nel 5-1 rifilato dai bianconeri al Livorno al Comunale di Torino. Stadio che fu anche il palcoscenico della presenza numero 400 in Serie A: contro il Cagliari di Allegri, Buffon raggiunse il prestigioso traguardo nonostante le undici assenze per infortunio collezionate in stagione. In panchina per i bianconeri c'era Alberto Zaccheroni, nel mondo scoppiava la "primavera araba" e in Italia l'Inter si aggiudicava il quinto scudetto consecutivo, l'ultimo vinto dalla società nerazzurra.  

La striscia vincente. Dopo lo scudetto del Milan l'anno successivo, nel 2012 arrivò il primo dei sette campionati vinti da Buffon: un anno diventato tristemente famoso per il naufragio della nave da crociera Concordia, ma anche del terzo Pallone d'oro per Messi e delle Olimpiadi di Londra, in cui Phelps conquistò il record assoluto di medaglie olimpiche. Quella che doveva essere la fine del calendario maya, e del mondo, si trasformò nell'inizio della cavalcata vincente della Juventus, ancora adesso in striscia aperta.  

Gli ultimi record. La presenza numero 500 è andata in scena il 24 novembre 2013, ancora contro il Livorno e ancora con una vittoria, questa volta nella nuova casa dello Juventus Stadium. L'anno in cui lasciarono questo mondo Pietro Mennea, Margareth Tatcher, Margherita Hack, Lou Reed e Nelson Mandela. Ma anche del quarto Pallone d'oro di Messi e dell'elezione di Papa Bergoglio, che assunse il nome di Francesco. Nel 2016 arrivò il record di imbattibilità in Serie A, ottenuto il 20 marzo contro il Torino, avversaria che accompagnerà Buffon anche verso il record di presenze: superò il precedente primato stabilito da Sebastiano Rossi con 974 minuti e 10 partite di fila senza subire gol. Se in campionato le presenze crescevano rapidamente, per arrivare in tripla cifra in Champions League dovette attendere il 2017, il 2 novembre nel pareggio casalingo contro il Lione per 1-1: il primo anno della presidenza Trump, della crisi politica in Catalogna, del movimento #metoo e dell'intensificarsi del flusso di migranti. Fino ad arrivare ai giorni nostri e al record di presenze in Serie A: il 2020, l'anno della pandemia di Covid 19, delle rivolte negli Stati Uniti. Sfogliare l'album dei ricordi della carriera di Buffon è un po' rivivere la storia degli ultimi 25 anni. 

Buffon e D’Amico, l’amore segreto e la resa (silenziosa) di Alena Seredova. Candida Morvillo il 2 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Sono passati sei anni dall’estate del triangolo Seredova-Buffon-D’Amico e se tanta impressione fece e ancora viene ricordato, i motivi sono essenzialmente due. Anzitutto, la suspence che accompagnò la caccia ai fedifraghi. Mesi di voci. Mesi di pettegolezzi. In tv, sui giornali, alla radio, sul web. Prima, il sito Dagospia scrive che il portiere della Nazionale e della Juventus Gigi Buffon ha perso la testa per una giornalista televisiva e che è in crisi con la moglie Alena Seredova. Poi, Alfonso Signorini spara nel suo show su Rmc che Buffon ha preso una sbandata per Ilaria D’Amico, e spiega che si sono conosciuti a un convegno di beneficenza in autunno. È il 14 gennaio 2014. Nessuna prova, al momento. Le foto che immortalano il calciatore e la giornalista volto di Sky Sport arriveranno solo il 14 maggio: su Chi, si vedono i due amanti che entrano di notte nello stesso portone e ne escono la mattina successiva. È la fine di una caccia alla foto-scoop durata cinque mesi e, a tratti, vissuta come una caccia alla strega. Buffon e Seredova hanno due figli, sono sposati in chiesa, stanno insieme da nove anni. Lei, attrice, modella, star di calendari (memorabile quello di Max 2005) si è dedicata soprattutto a fare la mamma. D’Amico si è lasciata ad ottobre con l’immobiliarista Rocco Attisani, dal quale ha avuto il figlio Pietro. È tornata single, è l’incarnazione mediatica della donna in carriera, celebre per un’intervista a Muammar Gheddafi, per un talk di politica, per essersi fatta largo nel calcio sempre dominato dagli uomini. Da più parti, si sottolinea che ha quattro anni più di Buffon. È la solita, vecchia, storia: nel triangolo, deve esserci una rovinafamiglie e non sono contemplate amori già consunti né torti e ragioni che non stanno mai da una parte sola. È tifo aperto, insomma, per la moglie tradita e abbandonata. Pure chi ha simpatia per l’«altra» finisce, paradossalmente, per tifare per la legittima consorte. Su Libero, la scrittrice Bruna Magi, per dire, scrive a D’Amico una lettera aperta, le sconsiglia la liaison, paventa che ne vada della sua carriera, le ricorda che la crisi dei 40 anni è passeggera e conclude: «Cara Ilaria, a stare con Buffon ci perdi tu». E qui veniamo al secondo motivo che rende dirompente questa storia: Seredova, che avrebbe il campo pronto per recitare la parte della moglie affranta vittima di un immeritato affronto, tace. Fa trapelare un’unica frase, attribuita, per altro. Questa: «Si è innamorato, che ci posso fare?». È la frase che spazza via ogni vetero-retorica e riporta la narrazione sulla scena della contemporaneità: davanti all’amore, nulla tiene. Evidentemente, nel pieno dell’anno 2014, c’era ancora bisogno di ricordarlo. Cori di stupore e plausi di ammirazione per la signorilità della signora. «È una frase che non penso di aver detto, ma lo penso», chiarisce lei poi al Corriere, ora che è dentro un’altra vita e dentro una nuova famiglia. E aggiunge: «La mia esperienza di oggi insegna che, dopo un percorso, è possibile innamorarsi di un’altra persona». Da fine 2014, Alena sta con Alessandro Nasi, vicepresidente del consiglio di Amministrazione di Exor NV e amministratore della cassaforte di famiglia che porta il nome del bisnonno, la Giovanni Agnelli BV. Torino bene, quella delle grandi famiglie. Il 19 maggio scorso, hanno avuto la piccola Vivienne Charlotte, che vive con loro e i due figli Buffon, David Lee e Louis Thomas, oggi 11 e 13 anni. Solo in tempi recentissimi, Alena racconterà del dolore dei giorni dell’abbandono. Alla fine del 2019, confessa al Corriere Torino: «Sprint, il mio ridgeback rhodesiano, mi faceva compagnia quando mettevo i ragazzi a letto fingendo che andasse tutto bene e iniziava la lunga notte insonne. Mi lamentavo, mi sfogavo, piangevo: al cane potevo dire tutto, lui ascoltava e non giudicava». Nel mezzo dei giorni di tempesta, invece, pur sollecitata da tv e giornali disposti a pagarla oro, lei non solo non dice una parola, ma accompagna i figli e lo stesso Buffon alla finale allo Juventus Stadium di Torino per la finale di Europa League tra Siviglia e Benfica. È la sera del 14 maggio, lo stesso giorno in cui sono uscite le foto di Buffon e Seredova. D’Amico sta raccontando la partita in tv e, per un attimo, la si vede davanti al maxischermo che rimanda le immagini della famigliola sugli spalti. È un cortocircuito da picco d’ascolto. E a giugno, Alena porta i bambini in Brasile per i mondiali, assecondando il desiderio del papà. A separazione ormai siglata, Gigi Buffon riconoscerà ad Alena «una dignità incredibile per aver messo la famiglia davanti al suo ego». Ilaria dirà al Corriere che, fra lei che aveva sempre detto «mai con un calciatore», il fatto che entrambi avessero famiglia e il «conflitto d’interessi» perché lei era una conduttrice di sport, «sulla carta, era sbagliato tutto». E che tutto il bello che ne è venuto «è stato un processo legato anche all’intelligenza di tutte le parti in causa».

Ilaria D'Amico dice addio al calcio e Buffon la sostiene: "Dopo 23 anni volto pagina". Alla fine della Champions League, Ilaria D'Amico lascerà il mondo del calcio per iniziare una nuova sfida, con sempre al suo fianco Gigi Buffon. Francesca Galici, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale. Ilaria D'Amico ha deciso: stop al calcio. Le parole rilasciate al Corriere della Sera per annunciare il ritiro sembrano quelle di un calciatore quando appende gli scarpini al chiodo. La giornalista sportiva più bella della televisione ha scelto di non occuparsi più di sport e di calcio per affrontare nuove sfide professionali. Una decisione non semplice ma ponderata, frutto di lunghi mesi di riflessione fatti insieme a Gigi Buffon. "Con la fine della Champions volterò pagina: con lo sport avrei potuto continuare per sempre, è una macchina che conosco alla perfezione. E il punto è proprio questo: sento il desiderio di rodarne una nuova, farle fare dei giri e lanciarla", annuncia Ilaria D'Amico, da 23 anni cronista sportiva di successo. Sente il bisogno di cambiare, forse di crescere. Di sicuro vuole esplorare nuovi ambiti e rimettersi in gioco. Potrebbe muoversi su due strade parallele ma ha scelto di fermarsi con lo sport, come fa un treno quando arriva al capolinea. Il suo percorso in quel settore sente di averlo concluso, di aver dato quanto poteva e di aver ricevuto in cambio tutto quello che doveva. Ha avuto il coraggio di lasciare la strada conosciuta per iniziarne una tutta nuova, senza tenere un piede in due scarpe.

Ilaria D'Amico: "Contagi alla Juve. Con Gigi in letti separati..." ]L'ha fatto anche per la sua famiglia allargata, per gli impegni come madre, compagna e protagonista di una famiglia allargata: "Voglio puntare su un solo obiettivo e andare fino in fondo. Sento che oggi, dopo aver vinto molte sfide, le mie nuove sono anche l’essere mamma, compagna e un riferimento per altri piccoli. Così ho deciso di dedicare la mia energia a un solo progetto, a un nuovo figlio professionale". L'idea della sua rete è quella di affidarle un programma in prima serata che col tempo diventi un appuntamento fisso dedicato all'attualità. In questi anni di sport, Ilaria D'Amico ha abbattuto i cliché ed è diventata parte integrante di un universo prettamente maschile, dove viene riconosciuta come esperta del settore e non solo per le sue qualità estetiche, anche se non sempre è stato facile. "Non ho mai voluto rinunciare alla mia femminilità. Ma volevo sentire anche la giusta considerazione e credo che grazie al lavoro fatto a Sky questo sia stato presto possibile: lì è irrilevante che tu sia uomo o donna, devi fare bene il tuo lavoro", ha affermato la D'Amico.

Ilaria D'Amico su Gigi Buffon: "Pensavo fosse un fascista". Di momenti belli e da ricordare ce ne sono tantissimi nella sua lunga carriera ma quello che lei ha nel cuore è soprattutto uno: "La prima diretta di Sky, con Sky Calcio Show: era il giorno del mio compleanno, il 30 agosto del 2003. Mi ero preparata una valanga di appunti, ero entrata in studio con una specie di tesi di laurea, tanto che in seguito mi vietarono di consultare l’archivio". Grazie al suo lavoro ha conosciuto Gigi Buffon, l'uomo della sua vita. Per tanti anni i due si sono incontrati senza mai andare oltre i convenevoli ma poi è scoppiato qualcosa tra loro: "Non pensavo che potessero unirci così tante cose. Gigi si informa moltissimo, ha una grande passione per l’informazione, specie per il giornalismo del passato... in questi giorni si addormenta con le cuffie: sta riascoltando tutti i processi di Mani Pulite". Pare che proprio Gigi Buffon sia il suo primo supporter in questo processo di cambiamento: "Sa ascoltare i miei bisogni e sostiene le nuove scelte". Per lui, già anni fa, Ilaria D'Amico era pronta a lasciare il suo lavoro: "Quando ho capito che con Gigi era una cosa seria, ad esempio, sono andata a parlare al mio editore, dicendomi disponibile a lasciare tutto se per lui ci fosse stato un conflitto d’interessi, perché mi ero davvero innamorata. Lui mi ha risposto: noi ti abbiamo sposata prima. Sono cose che non si dimenticano".

Gigi Buffon, Ilaria D'Amico: "Si addormenta ascoltando i processi di Mani pulite". Dagospia: "Poi Calcipoli?" Libero Quotidiano il 12 agosto 2020. La testa nel pallone? Gigi Buffon, nonostante l'ossessione per i record ( e la Champions League, mai vinta) è molto di più e a confermalo è la sua compagna Ilaria D'Amico. Nell'intervista al Corriere della Sera in cui annuncia l'addio ai programmi sportivi per un talk dedicato all'attualità, la giornalista di Sky ricorda l'incontro con il portierone della Juventus eroe del Mondiale 2006: "Quello fatale è arrivato dopo, a un evento benefico. L'idea che mi ero fatta negli anni, durante le dirette era diversa: lo reputavo un campione gigantesco, ma non lo avevo capito umanamente...". E invece continua a stupirla: "Non pensavo potessero unirci così tante cose. Gigi si informa moltissimo, ha una grande passione per l'informazione... da giorni si addormenta con le cuffie: riascolta i processi di Mani Pulite". E Dagospia, riprendendo l'intervista, infierisce: "Poi passerà a quelli di Calciopoli?".

Alena Seredova, sei anni dopo tutta la verità sull'addio a Buffon: "Non ricordo di averlo detto, ma..." Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Si torna a parlare di una delle vicende di gossip che più ha appassionato l'Italia, la rottura tra Alena Seredova e Gigi Buffon, che perse la testa per Ilaria D'Amico. Se ne torna a parlare sul Corriere della Sera, che sei anni dopo ripercorre qui giorni, le voci e poi le foto del portiere e della conduttrice di Sky Sport che le confermarono, quelle voci. Nel suo pezzo, Candida Morvillo ricorda la compostezza e la discrezione con cui la Seredova affrontò l'intera vicenda: nessun commento, nessuno sfogo. Fece trapelare soltanto un'unica frase, che le era stata attribuita, dunque non pronunciata in prima persona: "Si è innamorato, che ci posso fare". Parole che spazzarono via tutta la retorica che poteva circondare quella vicenda, tanto che in molti si spesero nell'elogio della Seredova, che tempo dopo fu ringraziata anche dallo stesso Buffon per un comportamento così forte, maturo, impeccabile. E oggi, il Corsera ha chiesto conto alla Seredova di quella frase. "È una frase che non penso di aver detto, ma lo penso". Punto e basta. Inoltre, la Seredova aggiunge: "La mia esperienza di oggi insegna che, dopo un percorso, è possibile innamorarsi di un'altra persona".

Buffon si racconta: ''Ero innamorato del Trap e simpatizzavo Inter". Il portiere della Juve confessa le sue simpatie sportive giovanili. E sull'emergenza coronavirus: "Bisogna rimanere a casa, rispettare gli altri e seguire le direttive". La Repubblica il 18 marzo 2020. La vita sportiva di Gianluigi Buffon, come di tutti i portieri, è caratterizzata dalla solitudine, rotta momentaneamente dalle sortite offensive degli avversari. Difficile però accostare la quotidianità sul campo da calcio con l'esperienza che sta vivendo la Juventus, con 131 in isolamento e due casi di positività, quello di Rugani e quello di ieri di Blaise Matuidi. Nonostante ciò il portiere bianconero, intervistato dal canale ufficiale Juventus TV insieme al cantante Bugo, tifoso della Vecchia Signora, sta vivendo con serenità la nuova condizione: "Nelle giornate di difficoltà io prospero. In questo momento non sto male, l'essere umano si abitua facilmente alle situazioni nuove. Dopo i primi giorni con figli e moglie ho trovato i miei spazi e ci sto bene". Senza gli allenamenti è necessario  trovare impegni alternativi, per poter trascorrere il tempo in attesa che l'emergenza finisca: "In cucina me la cavo, quando c'è necessità mi metto a spadellare e faccio la mia figura. Il mio piatto forte sono le penne al sugo e tonno, da quando ero al Parma".

Il ritorno in bianconero. Tornato nello scorso mercato dopo la parentesi al Paris Saint Germain, Buffon ha avuto riscontri positivi sul suo stato di forma, al punto da pensare ad un possibile rinnovo con la Juventus. La squadra in cui è tornato di corsa: "È stato naturale dopo un anno bellissimo a Parigi. I contatti con il mondo Juve quindi il presidente, Paratici e i compagni di squadra ci sono sempre, ho fatto una stagione all'estero senza però tagliare mai il cordone ombelicale". Prima di svelare una "scappatella" amorosa prettamente sportiva: "Da 4-5-6 anni ero super juventino e mi ero innamorato di Trapattoni perché fischiava, era il mio idolo. Quando è andato all'Inter ho tentennato simpatizzando anche un po' per l'Inter. Poi ho cominciato a tifare le squadre di provincia, Pescara, Como, Avellino, fino ad arrivare a 12 anni a tifare il Genoa".

L'amore per il calcio continua. Appassionato di tanti sport, innamorato solo del calcio. Buffon ha iniziato fin da bambino a sognare il pallone, scoprendosi con il passare del tempo un ottimo portiere, diventato poi uno dei migliori della storia del calcio: "Il calcio ha soffocato ogni altra passione. L'altro giorno facevo una riflessione con una persona, e ho detto che non smetto perché prima di tutto mi sento bene, ma anche per aver rispetto dei sogni di Gigi bimbo. Io quando avevo 6-7 anni e qualcuno mi avesse detto che sarei diventato il portiere di una squadra anche solo di Serie C avrei pianto".

Restare a casa. In un momento difficile per l'Italia, il messaggio ribadito da Buffon resta il medesimo: "Bisogna rimanere a casa. Io sono facilitato dalla  condizione economica, ho una casa con un giardino e tutto questo fa sì che non la si viva male. È chiaro che per chi vive in città in un appartamento sia più complicato, ma bisogna rispettare gli altri e seguire le direttive. Dalle situazioni più complicate si trovano anche chiavi di letture belle. Ci stiamo unendo e l'altro giorno aprendo la finestra respiravo un'aria più bella anche a Torino finalmente. Non sento più un rumore, è bello vivere anche in una dimensione diversa. Noi siamo abituati a bruciare tempo, questa cosa qua ci permette di tirare fuori qualcosa a cui non eravamo abituati".

Gianni Mura per “la Repubblica” il 18 marzo 2020. Su Domenico Marocchino si scrive volentieri, non solo perché da opinionista su Rai 2 ( A tutta rete) non è mai banale. A 63 anni, sempre la faccia di uno appena buttato giù dal letto, di un ex figlio dei fiori persosi tra Malibu e Valenza Po. “De profession bel zòven”, avrebbe detto Rocco di lui. Lo sapevano anche all’estero. C’ero all’aeroporto di Varsavia, Juve di passaggio per andare a giocare a Lodz. Agli sbarchi, gruppo di belle ragazze con un cartello in perfetto italiano: “Marocchino, vieni in discoteca a ballare con noi?”. Era l’83. Marocchino nella Juve giocava come se non fosse la Juve. Ignorando tutte o quasi le sacre regole. Il calcio era un gioco, la vita era bella perché c’erano (nell’ordine) le ragazze, le sigarette, il cinema, le mostre d’arte, i vini rossi. Boniperti, che conosceva i suoi polli, voleva inserire nel contratto una clausola: non più di 20 sigarette al giorno. No, disse Marocchino, sarebbe scorretto da parte mia, lei non ha tutti i mezzi per controllarmi. Non tutti, ma ex militari in pensione sì. Marocchino sembra appena caduto dal letto, ma era ed è sveglio. Li conosceva tutti, d’inverno li invitava a bere qualcosa al caldo. Una notte lo beccarono che rincasava alle 3. «Tutta colpa del presidente, insiste perché io respiri aria buona e io esco quando c’è meno smog». Su SW della scorsa settimana c’è molto amarcord suo. Domande giuste, risposte buone, Marocchino è un intellettuale mascherato e mi (gli) chiedo perché non abbia ancora scritto un libro sul suo calcio, dove si sbagliava da professionisti, come nella canzone di Paolo Conte. Ricordo lo stupore con cui raccontò i sistemi di controllo. «Telefonata a casa alle 22.30, massimo 22.45, e devo essere lì a rispondere. Li ringrazio. La mia ragazza arriva alle 20, e dopo chi ha più voglia di uscire?».

Da ilnapolista.it il 18 marzo 2020. SportWeek intervista Domenico Marocchino oggi volto televisivo ieri calciatore – ala – di Juventus, Sampdoria e Bologna. Racconta del suo vizio del fumo. «Nello spogliatoio e pure in pullman: mi mettevo nel sedile lungo in fondo – tanto per gerarchia i senatori stavano davanti, a giocare a carte –mi stendevo e soffiavo il fumo in una bottiglietta di plastica. Boniperti mi voleva mettere nel contratto la clausola “venti sigarette al giorno” e io: “Presidente, e come mi controlla? Io esco di notte quando c’è meno traffico, a Torino di giorno c’è tropposmog…”.

Per vedere quali squadre oggi accenderebbe la tv?

«In Italia l’Atalanta, in Europa il Liverpool, con i suoi tre giocatori davanti inallenabili dal punto di vista tattico. Vanno sempre dove sentono che gli altri possono patire e questo conferma la mia teoria: per valutare le caratteristiche di un giocatore bisognerebbe buttarlo in campo al buio, solo con i sensi andrà dove si trova meglio. Guardate Ronaldo, dove va sempre d’istinto?A sinistra, perché da lì sa che può andare sul suo piede preferito».

Il gavettone alla moglie di Trapattoni.

«Eravamo a Villar Perosa, erano tutti acchittati, credo ci fosse una cena dall’Avvocato. Come nel calcio non devi guardare solo la palla, se fai un gavettone devi guardare gli spigoli della finestra: calcolai male l’angolo del braccio e le feci la doccia. Quell’acqua poteva arrivare solo dalla mia stanza, per fortuna per salire fin su c’erano molte scale e feci in tempo ad asciugarmi le mani, la prima cosa che mi toccò il Trap quando entrò in camera, trovandomi a letto: facevo finta di dormire…»

Da corrieredellosport.it il 6 novembre 2020. Un aneddoto simpatico, particolare, che torna indietro di 32 anni, alla finale di Coppa Italia giocata nel 1988 e vinta dalla Sampdoria, contro il Torino, grazie a un gol ai supplementari di Fausto Salsano. Lo racconta Gianluca Vialli durante la diretta Facebook di AISL ONLUS ed è un momento di grande intrattenimento. Vialli era allora il centravanti dei blucerchiati. Nello stadio granata si gioca la gara di ritorno, all'andata la squadra Boskov s'era imposta 2-0, ma è sotto con lo stesso risultato; Vialli non incide, anche a causa di un forte mal di pancia che lo frena e non gli permette di esprimersi al meglio.

Vialli e una finale "dolorosa". Il racconto, esilarante, nel corso della diretta social, con Massimo Mauro, Pep Guardiola, Ilaria D'Amico, Michele Mainardi e Andrea Marchesi in collegamento che ascoltano divertiti: "Faceva freddo, pioveva, si vede io avevo anche mangiato qualcosa che non andava - spiega Vialli - ma una volta rientrati in campo dopo l'intervallo mi prende un mal di pancia fortissimo, non so come ma riesco a continuare fino al 90', solo che eravamo 2-0, come all'andata, ma stavolta per il Toro e quindi c'erano da giocare i supplementari". Un incubo per chi ha evidente necessità di ritirarsi un po' per conto proprio: "Vado dall'arbitro Agnolin e gli chiedo se era possibile avere cinque minuti per andare in bagno. Al che lui mi risponde: 'Dai vai, cinque minuti te li do'. Vado, scappo con il magazziniere che mi accompagna". Ma c'è un problema, gli spogliatoi sono lontanissimi dal campo e il tempo è poco: "Allo stadio di Torino c'era un passaggio che portava sotto e poi un tunnel di cento metri prima di arrivare agli spogliatoi, finalmente arrivo in bagno, ma non mi sentivo bene, c'erano due compagni infortunati che erano Luca Pellegrini e Hans Briegel, mi incitano, dicono che hanno bisogno di me, allora do un'ultima botta (ride ndr) e scappo fuori". Si ripresenta la questione dell'immensa distanza tra il terreno di gioco e gli spogliatoi. Ma il magazziniere, spiega Vialli, ha un'idea: "Il magazziniere mi fa passare dal parcheggio e poi dalla tribuna per scendere in campo, scivolo su uno scalino, vicino a un anziano tifoso del Toro che mi guarda e in dialetto mi dice che cosa diavolo ci facessi lì. Alla fine riesco a tornare in campo e Agnolin mi si avvicina: 'L'hai fatta tutta? Possiamo ricominciare?. Gli dico di sì e ripartiamo con la partita". La storia, sostiene Vialli, ha una sua morale: "Quindi questo conferma che uomo che caga, non muore mai. Nel senso che c'è speranza, fino alla fine".

Gianluca Vialli, il tumore e il virus: «Ora mostro le mie paure e penso a Cremona la mia città colpita». Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 da Corriere.it. «Ti senti come se stessi deludendo qualcuno, come i tuoi genitori. Perché non vuoi che i tuoi genitori ti vedano mentre soffri». Comincia così il commovente racconto di Gianluca Vialli e della sua battaglia contro il cancro in una lunga intervista al Guardian. «Sono stato sempre visto come un duro, un duro con tanta determinazione — prosegue l’ex attaccante —. E non esserlo mi ha messo a disagio. Non volevo sembrare un povero ragazzo malato. È anche un peso. La gente ti chiamerà per dimostrarti che ti pensa ma anziché passare del tempo al telefono avevo bisogno di tempo per me stesso. E il giorno in cui cominci a vedere le cose diversamente, la tua vita cambia. Adesso mostro le mie paure con orgoglio, sono il simbolo di quello che ho passato. Adesso capisco che quando voglio piangere, piango, senza vergogna. Cerco di non piangere davanti alle persone molto emotive, di farlo quando sono da solo. Ma se mi trovo in un posto dove sono a mio agio, non trattengo niente dentro. Mi lascio andare e poi mi sento meglio». «Nel mio caso — confessa ancora Vialli — piangevo perché avevo paura dell’ignoto, non sapevo se sarei stato bene o no. Non ho mai pensato di dover combattere il cancro, perché sarebbe stato un nemico troppo grande e potente. L’ho presa come un viaggio con un compagno indesiderato nella speranza che si annoiasse e morisse prima di me». Lo scorso dicembre i medici, dopo la ricaduta avuta qualche mese prima, gli hanno comunicato che il tumore non c’è più ma Vialli sa che potrebbe non essere finita qui. «Sfortunatamente queste cose hanno la tendenza a tornare. Ma al momento sto bene e spero continui a essere così finché morirò di vecchiaia». L’ex attaccante parla anche di coronavirus e della possibilità che si torni a giocare. «In tempo di lutto, e quando passi situazioni difficili come queste, alcuni psicologi dicono che dovremmo provare a fare le cose che ci danno piacere senza sentirci in colpa. Per cui il calcio può essere uno strumento per dare alle persone un po’ di sollievo. Detto questo, posso solo immaginare come si sentono i calciatori e non saprei cosa dire loro. Se fossi ancora un calciatore, probabilmente troverei difficile concentrarmi sul calcio perché c’è ancora gente che muore». Infine una battuta sul suo nuovo ruolo in Figc. «Ho iniziato questo nuovo capitolo come capo delegazione della Nazionale. Sono felice di essere finito a lavorare col mio migliore amico. È grandioso poter aiutare Roberto (Mancini, ndr) e adoro provare a ispirare i giocatori». Infine un pensiero alla sua città natale, Cremona. «Per me è stato difficile perché vengo da Cremona, la città probabilmente con il più alto tasso di mortalità nella regione. In un certo senso sento che dovrei essere lì con la mia gente. Mi sono sentito così male a leggere che le persone morivano in ospedale senza i loro cari. È una tragedia». È il pensiero alla sua città natale di Gianluca Vialli, l’ex attaccante di Sampdoria, Juventus e Chelsea al Guardian. «Stare a casa a Chelsea non è un problema. Posso lavorare da remoto. Posso andare a piedi al parco. Mia moglie e le mie figlie sono qui ed è bello stare con loro. A Londra conosco solo due persone che sono positive. Grazie a Dio non ho perso nessuno che conosco in questo paese. Ma a Cremona è diverso dove ci sono solo 80.000 persone. Londra ha sei milioni di persone. Lo senti di più in un posto più piccolo», conclude.

Gattuso ha saputo della morte della sorella mentre allenava il Napoli. Debora Faravelli il 03/06/2020 su Notizie.it. Gennaro Gattuso era in campo per allenare il Napoli quando ha saputo della morte della sorella Francesca. Quando Gattuso ha saputo della morte della sorella Francesca, stroncata a 37 anni da una forma di diabete aggressiva, si trovava sul campo di allenamento del Napoli. Dopo la triste notizia comunicatagli dalla madre, “ringhio” si è rivolto al suo più stretto collaboratore intimandolo di far continuare a correre i ragazzi esortandoli a non fermarsi. Come quando a febbraio 2020 Francesca aveva subito un delicato intervento chirurgico e lui, che si trovava a Genova per Napoli-Sampdoria, aveva lasciato in fretta il campo per raggiungerla, anche martedì 2 giugno ha mollato tutto per recarsi in macchina fino a Gallarate al capezzale della sorella. Non prima di essersi raccomandato con Gigi Riccio che quanto accaduto non andasse a inficiare gli allenamenti della squadra. “Correte. Forza, non fermiamoci, il mister vuole così” sono state le parole che hanno scandito gli attimi seguiti alla sua partenza. Momenti tragici quelli vissuti da Gattuso e da tutti i familiari che lascia Francesca, a partire dal figlio Alessandro di 5 anni e il marito sposato sette anni prima. Ma anche la madre e la sorella Ida, tutti uniti nel dolore della perdita di una donna che, nonostante la grave malattia che l’aveva costretta sedata nel reparto di terapia intensiva, non si era mai arresa. Nemmeno dopo l’operazione delicata subita a febbraio 2020, tanto che il fratello, a chi gli chiedeva notizie sulle sue condizioni di salute, rispondeva sempre che “è una guerriera, una combattente“. Ora la sua salma verrà trasferita in Calabria dove nella giornata di venerdì 5 giugno 2020 a Corigliano avrà luogo il suo funerale.

Andrea D'Amico per la Stampa il 15 giugno 2020. Quante facce… perché c'è quella arrabbiata, quella felice, quella resa chiassosa da un ghigno o un'espressione, quella «futurista», quella «evoluta». E in questi profili, nascosti dalla barba, poi ce n'è un'altra, ed è quella contemporanea, di un uomo che è uscito dal proprio corpo da calciatore, ha buttato via pantaloncini e scarpette, e si è messo non solo fisicamente la tuta, diventando allenatore, saltellando - forse stavolta più che altrove - l'invisibile linea d'ombra. C'è voluto un po' per diventar semplicemente Gattuso, dopo essere stato «ringhio» e Rino ed aver vissuto quella vita da mediano nella cui interpretazione gli è venuto persino da prendere per il collo Joe Jordan: ma a 42 anni, in questa dimensione stellare che si è ritrovata il Napoli, e dopo essere uscito dal suo mondo - il Milan - in cui gli veniva naturale rimanere fedele alle abitudini della giovinezza, l'esuberanza è stata sistemata sul bordo della panchina da cui è comparso un allenatore che sa essere antico e moderno, gestore e psicologo, futurista o anche «catenacciaro». Napoli-Juventus è la sua finale, l'ha conquistata tutto da solo battendo Perugia ma poi anche Lazio e Inter - le antagoniste per lo scudetto di Madame - ed è l'unico percorso che gli appartenga e che non debba condividere con Ancelotti, il suo «papà» ma anche il suo predecessore, dal quale ha ereditato l'11 dicembre una «squadra di talento incredibile» in ritardo in campionato ma qualificata agli ottavi di Champions. Il «primo» Gattuso, forse c'era ancora un incontrista in lui, è entrato in tackle, qualcosa ha perduto e qualcosa ha sbagliato, poi ha intuito che bisognava imprimere la svolta, ragionare diversamente, misurando l'istinto e dosando anche un pizzico di ragione e nel 4-3-3, che sarebbe un mantra, ha spostato dettagli utili a non dar l'impressione di un eterno Peter Pan. Il Napoli che con l'1-1 sull'Inter regala a Gattuso la sua terza finale in carriera ancora con la Juve (dopo quella persa in Coppa Italia per 4-0 a Roma e l'altra finita male, però per 1-0, a Jeddah) non si vergogna del suo calcio all'italiana, che gli consente di speculare («complice» un prodigioso Ospina) e di raschiare il fondo del proprio talento: ha una testa che ha smesso di smarrirsi negli «svolazzi» dell'autunno scorso, quelli dell'ammutinamento del 5 novembre poi fatali per l'esonero di Ancelotti. Dal Maestro all'Allievo è stato un attimo, e Gattuso, a un certo punto, per uscire dagli equivoci, s' è appropriato di qualcosa del suo secondo «papà», entrando nella testa di una squadra alla quale concede spensieratezza ma anche rigore, «leggerezza» e però inflessibilità con se stessa. E la diplomazia è stata decisiva a fianco di De Laurentiis nell'opera di persuasione su Mertens, sedotto da varie corteggiatrici poi divenuto re del gol, con 122 reti, d'un Napoli che sa di Gattuso, d'una Napoli che sta con Gattuso, come in quel dolore per l'addio alla sorella Francesca: uno striscione in centro, un altro a Castel Volturno, un abbraccio (virtuale) conquistato mettendoci una faccia ma soprattutto il cuore.

Estratto dell’intervista di Ivan Zazzaroni a Aurelio De Laurentiis per il Corriere dello Sport il 15 giugno 2020. Ancora oggi, a settantun anni, Aurelio De Laurentiis abbandona virtualmente ogni giorno gli uffici della Lega salendo sullo scooter del primo che passa e, senza casco, si fa accompagnare in stazione mandando platealmente tutti a quel paese.

«Sono molto incazzoso, ma dopo cinque minuti via, tutto finito, come se nulla fosse accaduto, e torno a essere dolce e affettuoso. Chi non mi conosce si stranisce. L’incazzatura-lampo mi ha salvato la vita, se così non fosse invece di un solo infarto ne avrei avuti dieci, forse sarei già morto».

L’impudenza sottilmente narcisistica di confessare la sua “piromania” prima di esaltare il lato brillante e visionario. De Laurentiis ha uno sguardo “dilatato”, tiene sempre a fuoco quanto accade nel mondo e ciò che provoca ritardi, spiazzamenti dentro la gente di calcio. Lui li chiama «i prenditori». Sabato sono rientrato tardi in hotel - gli dico - e ho acceso su Raiuno proprio mentre stavano trasmettendo lo sketch del balletto imposto da suo zio Dino ad Alberto Sordi, straordinaria la somiglianza fisica tra voi, e lo stesso timbro di voce, poi. «Forte, lo stavo vedendo anch’io. Negli ultimi anni in America avevamo entrambi la barba e la gente ci scambiava per fratelli».

Subito Sarri, la finale-nemesi.

«Nemesi storica» sorride. «Mi fece incazzare con la scusa volgare dei soldi, mi costrinse a cambiare, e aveva ancora due anni di contratto. Ricordo che a febbraio mi invitò a pranzo in Toscana, a due passi da casa sua, organizzò la moglie, parlammo di tante cose ma non accennò a chiusure, a separazioni, mi portò fino al giorno che precedette l’ultima partita creando disturbo e incertezza alla società».

Ma vi ha fatto vivere tre stagioni indimenticabili. «È diventato il deus ex machina, ma anche nel calcio vale la regola del cinema dove per fare un buon film sono necessari un ottimo regista e un ottimo produttore, sono i genitori dell’opera dell’ingegno. Naturale che l’imprenditore dia delle indicazioni e che gli sia riconosciuta una parte del merito nel successo, non solo la colpa nella sconfitta. Chi ha preso Cavani? Il sottoscritto. E Mazzarri? Il sottoscritto. E Benitez? Sempre il sottoscritto. E Higuaìn? E Sarri? Quando lo scelsi tappezzarono la città di striscioni contro di me».

Ha dimenticato Ancelotti.

«Carlo mi ricordava mio padre».

Lui nel calcio ha vinto come nessun altro. Stiamo parlando di un valore tecnico elevatissimo.

«Scelsi la sua serenità, la tranquillità, la sua piacevole vicinanza. Mio padre era un filosofo, un uomo dolcissimo. Come Carlo. Ma prendendo lui, non so se feci la cosa più giusta per il Napoli. Dopo la prima stagione, potendo ricorrere alla clausola rescissoria contenuta nel contratto, avrei dovuto dirgli “Carlo, per me non sei fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli, conserviamo la grande amicizia, il calcio a Napoli è un’altra cosa. Ti ho fatto conoscere una città che adesso ami spassionatamente e che ti ha sorpreso, meglio finirla qui”».

E invece…

«Sbagliai una seconda volta».

Da ilnapolista.it il 15 giugno 2020.

Nell’intervista al Corriere dello sport, De Laurentiis parla anche di Ancelotti.

«Mi ricordava mio padre. Scelsi la sua serenità, la tranquillità, la sua piacevole vicinanza. Mio padre era un filosofo, un uomo dolcissimo. Come Carlo. Ma prendendo lui, non so se feci la cosa più giusta per il Napoli. Dopo la prima stagione, potendo ricorrere alla clausola rescissoria, avrei dovuto dirgli: “Carlo, per me non sei fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli, conserviamo la grande amicizia, il calcio a Napoli è un’altra cosa. Ti ho fatto conoscere una città che adesso ami spassionatamente e che ti ha sorpreso, meglio finirla qui. E invece sbagliai una seconda volta.

Da ilnapolista.it il 15 giugno 2020. Nell’intervista concessa al direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni, Aurelio De Laurentiis parla ovviamente di Rino Gattuso. Ricorda che tempo fa avrebbe voluto fare un film con lui e Totti. Ricorda l’incontro al compleanno di Ancelotti lo scorso anno a Capri e rivela: Dopo il disguido del ritiro-non-ritiro gli ho telefonato e gli ho detto: “Rino, stai calmo, non prendere nessuna decisione, se ti chiama qualcuno, stai fermo”. La squadra aveva dimenticato il 4-3-3 sarriano, a Rino ho chiesto la riverginazione di quel modulo, anticipandogli che lo scotto da pagare sarebbero state tre, quattro sconfitte di fila.

Nazionale, Mancini: "Quando sono arrivato non la voleva allenare nessuno". Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da La Repubblica.it. Calendario alla mano, sarebbe dovuto essere al lavoro in vista degli Europei, però lo tsunami coronavirus ha travolto il pianeta e quindi anche il mondo dello sport. Un'emergenza planetaria per la pandemia che ha stoppato l'operazione rilancio portata avanti da Roberto Mancini, da quasi due anni sulla panchina azzurra. "Cosa ho pensato quando mi hanno chiamato per guidare l'Italia? Che nessuno voleva allenare la Nazionale, l'hanno chiesto a me e ho detto di sì - sottolinea il ct ai microfoni di 'Roma Tv' -. Credo che molti avessero timore di buttarsi in una situazione difficile, venivamo da una mancata qualificazione al Mondiale. Ma il calcio è fatto anche di questi momenti: si tratta di avere fiducia nelle proprie qualità e credere in quelle dei giocatori, si deve dare più fiducia ai giovani". "Chiesto di riavvicinare la gente alla Nazionale". Fin qui il percorso della selezione azzurra sotto la sua guida è stato eccellente. "Sono stati bravi subito i ragazzi. Quando ci siamo trovati ho detto loro quello che pensavo, che l'Italia non poteva non avere giocatori bravi, non è mai accaduto - spiega il tecnico di Jesi -. Ho chiesto loro se era possibile fare qualcosa di speciale per riavvicinare la gente alla Nazionale e loro sono stati bravissimi a creare un'ottima atmosfera, trovando un buon feeling tra di loro. Abbiamo usato le prime partite di Nations League anche per capire chi poteva stare nel giro della Nazionale e poi abbiamo affrontato le qualificazioni agli Europei con 30 giocatori molto bravi. Vincere non è mai facile, anche contro avversari più deboli e noi abbiamo voluto fare qualcosa di diverso rispetto a prima, cercando di giocare bene e fare il massimo a cominciare da queste partite. Finora ci siamo riusciti, speriamo di riuscirci anche più avanti". "Agli Europei arriveremo con maggiore esperienza". Mancini non nasconde un pizzico di nostalgia per quella normalità cancellata dal Covid-19 e per l'appuntamento continentale slittato di un anno. "Il lavoro mi è mancato, avremmo dovuto giocare due partite molto importanti, a Wembley con l'Inghilterra e a Norimberga con la Germania, dopo mesi che non ci vedevamo. E in questi giorni avremmo iniziato il ritiro per gli Europei. Avevamo preso una bella scia, ora ci ritroveremo a settembre e per un anno non ci saremo visti - il rammarico del ct azzurro - Sarà un terno al lotto, non sarà semplice all'inizio ma sarà così per tutti. Stavamo costruendo ed eravamo a buon punto. Dall'altro lato è meglio per i ragazzi, che avranno più esperienza. Quest'anno, comunque, penso che ce la saremmo giocata con tutte le altre squadre, anche se più avanti di noi. La Francia è giovanissima e campione del mondo. Sarebbe stato difficile per tutti batterci, avremmo avuto delle buone chance. Speriamo che un anno ci aiuti a migliorare i ragazzi più giovani. E' solo questione di dare più fiducia, se un ragazzo giovane è bravo, deve giocare". "Zaniolo e Pellegrini molto importanti per l'Italia". Tra i talenti della Nazionale italiana ci sono anche i giallorossi Zaniolo e Pellegrini. "Penso che Zaniolo possa diventare un giocatore straordinario se continuerà ad essere serio, ad allenarsi seriamente, a fare una vita da atleta. Credo che possa togliersi delle grandi soddisfazioni - il pensiero del timoniere azzurro - Nicolò è un ragazzo giovane e non bisogna far ricadere su di lui tutte le responsabilità. È poco tempo che gioca in Serie A, deve accumulare esperienza, deve trovare il suo ruolo, che ancora credo non abbia trovato. È un giocatore che può giocare in due-tre ruoli. Questo non è uno svantaggio, anzi, può essere un vantaggio. Lui fa parte di quei giocatori giovani che con un altro anno potrà migliorare, recupererà dall'infortunio. È un giocatore fisicamente e tecnicamente molto forte, ha un gran sinistro. Per quanto riguarda Pellegrini, è un giocatore per noi molto importante, che può migliorare ancora perché ha margini enormi e ha diverse collocazioni in campo, quindi sarà importante anche lui. E' un giocatore polivalente a centrocampo, è un giocatore offensivo che a volte nella Roma ha giocato anche da centrocampista basso, però io credo che sia migliore quando offende perché ha il gol dentro. Credo che interno nei tre a centrocampo sia il suo ruolo migliore, però è un giocatore che può giocare esterno di attacco, come ha fatto con noi in Finlandia dove ha giocato benissimo. Ma anche Cristante, Mancini e Spinazzola sono tutti giocatori importanti per la Nazionale". "Senza pubblico è calcio diverso, temo gli infortuni". Uno dei temi di maggiore attualità per il calcio è la possibile ripresa del campionato, in questo caso il 'Mancio' cerca di guardare il bicchiere mezzo pieno. "Si sta meglio oggi di 20 giorni fa. Stare senza la propria libertà per così tanto non è semplice, ci ha fatto soffrire ma all'inizio il rischio era abbastanza grande. Ma piano piano sta finendo. La situazione si sta un po' schiarendo. Se dovessi parlare da allenatore della Nazionale, egoisticamente spererei che la cosa finisse qua e si iniziasse con calma perché il prossimo anno c'è una serie infinita di partite e non so in che condizioni arriveranno i giocatori. Ma da tanti mesi facciamo una vita diversa dal passato e la speranza è che si possa tornare a giocare, a fare il nostro lavoro, a far divertire la gente - l'auspicio del ct azzurro - Non sarà facile giocare a porte chiuse, giocare col pubblico è un'altra cosa e sarà un calcio particolare ma spero che le mascherine scompaiano al più presto. Mi aspetto qualche infortunio di troppo e probabilmente all'inizio il ritmo sarà basso, come in Bundesliga. Ma col passare delle partite i giocatori ritroveranno la condizione". 

Roberto Mancini: «La vita è troppo breve per essere cattivi». Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Manuela Croci. «Il dolore di Luca e Sinisa mi ha insegnato che bisogna godersi la vita. Il nostro tempo è troppo breve per arrabbiarsi o essere cattivi con sé stessi e con gli altri». Roberto Mancini, 55 anni, commissario tecnico della Nazionale italiana, racconta così sulle pagine di 7 in edicola venerdì 13 marzo, gli insegnamenti ricevuti dagli ex compagni Vialli e Mihajlovich. Con loro ha condiviso vittorie, sconfitte, gioie, delusioni. Spogliatoi e panchine. «Crescere insieme, anche se non ti vedi spesso, è una cosa che ti lega per sempre». In questi giorni in cui anche il calcio giocato in Italia si è fermato a causa del coronavirus, con Roberto Mancini siamo andati oltre il rettangolo verde parlando soprattutto del suo rapporto con la fede («Sono credente, cattolico. Vado a messa e sono stato più volte a Medjugorje»), di quella volta che si è perso allo stadio Dall’Ara, dei suoi esordi in oratorio e dei tre figli Filippo, Andrea, Camilla. «Adesso hanno 30, 28 e 23 anni, ma li vorrei ancora piccoli come nella foto del mio profilo whatsapp. Se Filippo e Andrea fossero diventati calciatori professionisti sarei stato contento per loro perché giocare a calcio è divertimento e fare come professione ciò che ti diverte è la cosa più bella». Inevitabile un salto indietro nel tempo per ricordare la vittoria dello scudetto della Samp: «L’artefice di tutto è stato il presidente Mantovani. Ha costruito una squadra comprando giovani talenti italiani e dandogli tempo e fiducia per crescere. L’unico rimpianto di quegli anni è stato non vincere la Coppa dei Campioni». Così da una delusione che ancora brucia, Mancini passa a una gioia ancora pulsante: «Vincere la Premier è stato bellissimo. È uno dei campionati più importanti del mondo». Da allenatore ha conquistato anche quattro volte la Coppa Italia con Fiorentina, Lazio e Inter. Biancocelesti o nerazzurri: chi è vera anti-Juve? «Vedremo quando si saranno recuperati tutti gli incontri. Per il momento è una lotta a tre». E il migliore tra Messi e Ronaldo? «Sono fuoriclasse assoluti. Leo è un giocatore nato, Cristiano ha dovuto lavorare per diventare uno dei migliori; gli va dato merito». Quindi eccoci a parlare di Azzurro: «Oggi in Serie A i giocatori italiani sono decisamente pochi e questo incide anche sul mio lavoro di commissario tecnico». Poi il ricordo di quando Enzo Bearzot, ct vittorioso di Spagna ’82, lo rimandò a casa («Mi ero allontanato dal ritiro. Non mi ha chiamato per un po’») e un ultimo pensiero va a Balotelli: «La convocazione all’Europeo dipende da lui. Una cosa è certa, deve fare più di quello che ha fatto fino a oggi». Su questo numero del magazine in edicola venerdì (e in Pdf sulla Digital Edition fino al 19 marzo) c’è anche il lungo e affascinante «viaggio sentimentale» di Beppe Severgnini nella Gran Bretagna (in trasformazione) del post Brexit. Eccone l’incipit: «Quando sono arrivato davanti all’hotel Adelphi di Liverpool con le valigie, mi sono bloccato. Mai vista una porta girevole. Ho lasciato passare un altro, per vedere come riusciva a entrare». Nel 1962 Sergio Poletti aveva ventidue anni, veniva dalla Lunigiana, non parlava inglese e faceva il cameriere. Due sterline la settimana. L’Adelphi era il grande albergo delle partenze per l’America, delle vigilie elettorali del laburista Harold Wilson, delle star dello spettacolo di passaggio: un mastodonte bianco vicino alla stazione di Lime Street, con sale immense e moquette lussureggianti. «Millecinquecento breakfast al giorno», ricorda Poletti, e «per noi italiani il permesso di soggiorno era legato al contratto di lavoro: se perdevi il posto, dovevi lasciare l’Inghilterra». All’Adelphi, tre anni dopo, prese alloggio l’Inter di Helenio Herrera, che doveva giocare contro il Liverpool, ad Anfield, semifinale d’andata della Coppa dei Campioni. Martedì 4 maggio 1965, di fronte a 50 mila tifosi scatenati, 3 a 1 per i Reds. «Mi sfottevano», ricorda Poletti. «Inter, under the arm!, gridavano infilandosi la mano sotto l’ascella (...)».

Roberto Mancini: «Vialli, Mihajlovic e la malattia. Ci insegnano il coraggio». Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Manuela Croci. «Posso dirlo? Al telefono cazzeggiavamo. La parola giusta è questa». La voce è quella di Roberto Mancini, 55 anni, bandiera (quando ancora esistevano le bandiere) della Sampdoria, allenatore vincente di Lazio, Inter, Fiorentina, Manchester City e attuale commissario tecnico della Nazionale italiana di calcio. Con chi “cazzeggiava” il Mancio? La voce che arrivava dal cellulare era quella del suo gemello calcistico Gianluca Vialli che nel 2017 ha scoperto di avere un tumore. «Siamo sempre stati legati da una forte amicizia. Abbiamo parlato della malattia diverse volte, subito all’inizio. Poi è arrivato un momento in cui, quando ci sentivamo al telefono, anche nei momenti più complicati, cercavamo quasi di sdrammatizzare, di... “cazzeggiare”, appunto. La nostra amicizia mi imponeva questo, sentivo di avere il compito non solo di stargli vicino e ma di dargli un po’ di sollievo. Ora per fortuna sta meglio, sia fisicamente sia come umore. L’impegno con la Nazionale gli farà bene».

Avete ricostituito la coppia d’oro di fine Anni 80.

«L’idea di scegliere Luca come capo delegazione degli Azzurri è stata del presidente Gravina. Quando me ne ha parlato, non potevo che esserne felice. Il rapporto che c’è tra noi, ma in realtà tra tutti quelli che hanno vinto con la Samp del 1990-1991, è molto solido. Crescere insieme, anche se non ti vedi spesso, è una cosa che ti lega per sempre».

Sono passati quasi trent’anni da quando i blucerchiati, spinti dai gemelli del gol Vialli&Mancini, hanno conquistato il loro primo (e unico) scudetto di Serie A. Cosa aveva quella squadra di speciale?

«Il presidente Mantovani. È stato lui l’artefice di tutto. Ha costruito una squadra comprando giovani talenti italiani che sono diventati grandi migliorando insieme, giorno dopo giorno. Ha creato un gruppo straordinario sapendo aspettare, lasciandoci il tempo di maturare, dandoci sempre fiducia. L’unico rammarico che ancora oggi mi porto dentro è il fatto di non aver stretto tra le mani la Coppa dei Campioni».

Gianluca Vialli non è l’unica persona con cui ha condiviso campi e spogliatoi che sta affrontando un grave problema di salute. Lo scorso settembre Mihajlovic ha annunciato di avere la leucemia.

«Io e Sinisa abbiamo giocato insieme alla Samp, alla Lazio. Sono stato il suo mister alla Lazio e all’Inter, poi lui è stato il mio secondo quando allenavo i nerazzurri. L’ho visto di recente, sta meglio. Certo il percorso è lungo e faticoso».

Cosa le è rimasto della forza che Vialli e Mihajlovic hanno dimostrato nell’affrontare la malattia?

«Che Luca e Sinisa fossero forti l’ho sempre saputo, li conosco troppo bene. Mi hanno insegnato che bisogna godersi la vita, essere persone positive perché tutto può cambiare dalla sera alla mattina, com’è successo a loro. Sono insegnamenti che dobbiamo cogliere e mettere in pratica in ogni momento: la vita è troppo breve per arrabbiarsi o essere cattivi con sé stessi e gli altri».

A proposito di Sinisa e del Bologna: è vero che una volta si è perso allo stadio Dall’Ara?

«Sì. Ero un bambino. Tifavo per la Juventus e mio padre mi portava spesso a vedere le partite. Una volta alla fine di Bologna-Juve, era il ‘72’73, al momento di uscire mi sono perso... dopo un primo momento di smarrimento, mi sono fatto coraggio e ho cercato mio padre. Sono ancora orgoglioso di non essermi fatto prendere dal panico».

Continuiamo a parlare di bambini. Sul suo profilo Whatsapp ci sono tre faccine piccole.

«Sono i miei figli. Vorrei averli ancora così, congelare il tempo».

Quanti anni hanno adesso?

«Filippo 30, Andrea 28, Camilla 23».

I due ragazzi hanno giocato a calcio, senza seguire fino in fondo le orme del papà. Le spiace?

«Più che altro mi avrebbe fatto piacere per loro perché giocare a calcio ti dà l’opportunità di divertirti e fare come professione ciò che ti diverte credo sia la cosa più bella».

Mi correggo, la mia domanda non era completa: il successo delle Azzurre guidate da Milena Bartolini mi suggerisce di chiederle se anche sua figlia ha tentato la carriera da calciatrice.

«No, Camilla non ha mai giocato. Segue solo il papà».

Come giudica l’esplosione del nostro calcio femminile?

«Mi fa piacere che le Azzurre siano migliorate così tanto. Hanno fatto un grande Mondiale andando oltre le aspettative. Credo che cresceranno ancora, il campionato è molto competitivo, sarà uno stimolo».

Tornando a Camilla, la vediamo in queste pagine piccola sulle sue spalle e la ricordiamo all’Ethiad Stadium quando ha vinto la Premier da allenatore del Manchester City insieme a papà Aldo, mamma Marianna e sua sorella Stefania.

«La famiglia è fondamentale».

Cosa le viene in mente ripensando agli ultimi minuti di City-QPR? Una vittoria soffertissima.

«Ho un bellissimo ricordo, vincere la Premier significa conquistare uno dei campionati più importanti del mondo. Quel City l’avevamo costruito con attenzione, ha vinto prima del previsto».

L’attuale allenatore Pep Guardiola ancora la ringrazia. È vero che la mattina era stato a messa?

«La domenica vado sempre. In città c’era un prete che arrivava dal Vaticano. Lì non sono tanti, una fortuna».

Che rapporto ha con la fede?

«Sono credente, cattolico. Frequento la messa con costanza come tutte le persone che hanno fede».

È andato a Medjugorje: che esperienza è stata?

«Molto intensa. Ci sono stato più volte. Ho conosciuto i volontari, ho parlato con loro. Sono stati giorni emotivamente molto intensi e sereni».

Dove ha cominciato a giocare?

«In oratorio. Era attaccato a casa: mangiavo e correvo lì».

Quanti anni aveva?

«Cinque, sei. Praticamente rincorro un pallone da sempre».

Per anni gli oratori sono stati il primo contatto con il mondo del calcio, palestre per aspiranti campioni. È ancora così o adesso bisogna per forza transitare in una scuola calcio per sognare di diventare professionisti?

«Le scuole calcio oggi sono un’opportunità in più perché hanno persone con tanta passione e competenza che seguono e fanno crescere i ragazzi. Ai miei tempi questa possibilità non c’era. Giocavo all’oratorio perché lì c’era una squadra con un settore giovanile che arrivava fino alla seconda categoria. Sono rimasto a Jesi fino a 13 anni e mezzo, poi sono andato al Bologna. Quello che è cambiato veramente però è che una volta le squadre professionistiche usavano girare l’Italia per fare provini, scegliendo i giocatori migliori di ogni provincia».

Oggi la selezione viene demandata principalmente alle scuole calcio e i ragazzi arrivano in squadre di primo piano con qualche anno in più sulle spalle. La sua generazione ha iniziato prima.

«Io ero giovanissimo, ho esordito in Serie A a 16 anni».

È un problema per la Nazionale?

«In un certo senso, sì. Il problema maggiore è che oggi nella nostra Serie A i giocatori italiani non sono molti, decisamente troppo pochi rispetto a una volta e questo incide anche sul mio lavoro di ct».

Eccoci al calcio di oggi. Lazio-Inter, lei le conosce bene entrambe: chi è la vera anti-Juve?

«Adesso si è creato un po’ di caos, con tutte queste partite rinviate. Bisogna vedere quando si recupereranno tutti gli incontri. Per il momento credo sia una lotta a tre. Mancano 12-13 giornate alla fine, è presto per dire chi vincerà».

Da allenatore con Lazio, Inter e Fiorentina ha conquistato la Coppa Italia. Lo scorso 28 gennaio era a San Siro per i quarti tra Milan e Torino e in quell’occasione c’è stato l’omaggio a Kobe Bryant, grande tifoso rossonero morto tragicamente due giorni prima. Esiste nel calcio italiano un Kobe Bryant? Un giocatore trasversale in grado di appassionare tutti?

«Bryant è stato uno dei giocatori più forti, ha fatto la storia del basket. Aveva tifosi non solo tra i Lakers, ma in tutto il mondo. Con l’Italia poi c’era un rapporto speciale, il fatto che parlasse la nostra lingua e ricordava con affetto il tempo trascorso nel nostro Paese ha reso ancora più forte il legame e, di conseguenza, l’eco della sua morte. In Italia non so, oggi è difficile trovare un calciatore così carismatico e trasversale. I giocatori italiani sono pochi al momento, speriamo di trovarne uno».

Magari per l’Europeo. Un Paolo Rossi, un Totò Schillaci... uno che ci faccia urlare a squarciagola diventando una bandiera. A proposito di campioni, c’è qualcuno che le sarebbe piaciuto allenare ma non c’è stata l’occasione?

«Ho allenato così tanti calciatori bravi che non ho rimpianti».

Due settimane fa, Marco van Basten proprio sulle pagine di 7 diceva che tra Cristiano Ronaldo e Messi non ha dubbi, il migliore è l’argentino: cosa ne pensa?

«Sono i due fuoriclasse assoluti di questi anni. Chi è più bravo è soggettivo. Certo, Messi è un giocatore nato, come Maradona o Pelé, non aveva bisogno di molto per migliorarsi. Cristiano Ronaldo invece ha dovuto lavorare per diventare quello che è, per essere uno dei più forti e di questo gli va dato merito».

Chiudiamo con la Nazionale che nel 2018 era sprofondata al 21° posto nel ranking Fifa. Un anno dopo, grazie alla cura Mancini, l’Italia è risalita al 13° posto portando a casa un bottino di dieci vittorie su dieci partite. Com’è avvenuta questa svolta?

«Il segreto è aver trovato ragazzi giovani che volevano costruire qualcosa di speciale riportando la Nazionale al posto che le spetta».

Il prossimo impegno sul campo dovrebbe essere l’amichevole del 27 marzo a Wembley.

«Niente condizionale: si gioca, si gioca. Voglio essere ottimista».

Affronterete l’Inghilterra che ha chiuso l’ultimo Mondiale al quarto posto: che partita sarà?

«Una partita dura. Così come difficile sarà anche la successiva contro la Germania, entrambe le volte fuori casa. È stata una scelta, volevamo incontri pieni di insidie perché le risposte che hai dopo 90 minuti complicati sono molto utili in preparazione di un appuntamento importante come l’Europeo».

Qual è il ct che più l’ha ispirata?

«L’Italia ha sempre avuto grandi ct, anche quando non sono riusciti a vincere. Allenare la Nazionale non è semplice, basta sbagliare una partita e devi aspettare due anni per tornare sul palco internazionale. La squadra del 1982 di Bearzot è quella per cui ho fatto un tifo sfrenato, ero giovane. Ma non posso dimenticare Sacchi, che ha portato qualcosa di nuovo, e Lippi che è riuscito a rimettere insieme tantissimi giocatori bravi e a farne una squadra».

A proposito di Bearzot: una volta l’ha rimandata a casa?

«E senza convocarmi per un po’. Mi ero allontanato dal ritiro, eravamo ragazzi e lui sentiva di essere responsabile nei nostri confronti».

Allora possiamo dire che anche lei è stato un po’ “tremendo” da giovane, quindi anche Balotelli può sperare in un ritorno... Sorride.

«Dipende solo da Mario e questo vale per lui come per tutti gli altri giocatori. Mancano quattro mesi all’Europeo. Diciamo che deve fare un po’ di più di quello che ha fatto fino ad oggi, questo è certo». Roberto Mancini solleva Gianluca Vialli durante la finale di Coppa dei Campioni del 1992 tra Balcellona e Sampdoria, partita vinta 2-0 dai catalani

La vita — Roberto Mancini è nato a Jesi il 27 novembre 1964. Ha tre figli, Filippo (30), Andrea (28) e Camilla (23) avuti dalla prima moglie Federica Morelli. Nel 2018 ha sposato Silvia Fortini.

Giocatore — Ha esordito in Serie A a 16 anni con il Bologna. Dal 1982 al 1997 ha giocato nella Sampdoria, poi è passato alla Lazio (1997-2000) per chiudere con gli inglesi del Leicester City. Ha conquistato 6 Coppe Italia, 2 Coppe delle Coppe, 2 scudetti (Samp e Lazio), 2 Supercoppe italiane e una Supercoppa UEFA. Con la Nazionale è arrivato terzo a Italia 1990.

Allenatore — Ha allenato Lazio, Fiorentina, Inter, Manchester City, Galatasaray, Zenit San Pietroburgo conquistando 4 Coppe Italia, 2 Supercoppe italiane, 3 scudetti, un campionato inglese. Dal 14 maggio 2018 è commissario tecnico della Nazionale italiana

Maurizio Crosetti per la Repubblica il 13 aprile 2020. È bella la voce di Gianluca Vialli mentre ride e racconta cose vive. Proprio adesso, in questo tempo di buio e paura. Entrano nel telefono anche le voci delle sue bambine. Luca è a Londra ma vorrebbe essere qui, con noi. Ed è anche nel televisore, con la maglia della Juve e della Nazionale: sono le immagini delle vecchie partite trasmesse a rullo dai vari canali per tenerci contenti, per non farci dimenticare la meraviglia dello sport. Cose che aiutano a resistere.

Luca, "come stai" è diventata d' improvviso una domanda diversa.

«È vero, non è più soltanto un convenevole. Abbiamo bisogno di sapere se le persone stanno ancora bene».

E lei come sta?

«Bene, grazie. A dicembre ho concluso diciassette mesi di chemioterapia, un ciclo di otto mesi e un altro di nove. È stata dura, anche per uno tosto come me. Dura, dal punto di vista fisico e mentale. Gli esami non hanno evidenziato segni di malattia. Sono felice, anche se lo dico sottovoce».

Cosa significa ritrovare la salute?

«Significa vedersi di nuovo bene allo specchio, guardare i peli che ricrescono, non doversi più disegnare le sopracciglia con la matita. In questo momento, può sembrare strano ma mi sento quasi fortunato rispetto a tanta gente».

La sua Lombardia è ferita.

«Provo un senso di colpa per non essere lì, anche se le mie condizioni non lo avrebbero permesso. Penso alle persone portate in ospedale e morte sole, ai loro parenti costretti a casa, ai funerali non celebrati: è terribile. Una prova estrema, uno strazio. E resteranno enormi cicatrici affettive, morali ed economiche. La vita di ognuno cambierà e per tantissima gente è già cambiata, purtroppo».

Come si combatte la paura di morire?

«Pensando ai desideri, concentrandosi su quanto ci piace davvero, e su quanto vogliamo che ogni cosa ritorni. Non bisogna sentirsi egoisti e non si deve permettere al cervello di andare da un' altra parte».

Molti parlano di battaglia, di guerra.

«Nel mio caso è un viaggio. Un percorso di introspezione, un'opportunità. La malattia è un'esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno, però è successo e allora cerco di metterla a frutto».

Si diventa migliori?

«Si diventa quello che si è».

Questa malattia mondiale ci obbliga a cercare spazi dentro di noi.

«È una prova tremenda ma non certo inutile. In questo enorme silenzio che ci circonda, quasi un' atmosfera zen, c' è qualcosa di orientale. E si tornano a sentire gli uccellini persino in una megalopoli come Londra. Si passa più tempo con le persone che amiamo. Io leggo molto, parlo con gli amici e sto anche imparando a scrivere al computer con dieci dita».

Cosa significa veramente, per milioni di persone, dover rinunciare allo sport?

«Lo capiremo quando tutto tornerà.

E quando la bellezza dello sport e del calcio, le emozioni e i ricordi ci aiuteranno a tornare a vivere, vivere pienamente. Sarà un esercizio di piacere e bellezza: sarà stupendo. E dovremo dare più spazio alla solidarietà: non recinti più alti, ma tavoli più lunghi. Le società di calcio dovranno essere anche piattaforme di sviluppo sociale, un luogo condiviso dal quale ripartire».

Non pensa che abbiamo trascurato per troppo tempo il senso e il significato dei nostri corpi, estetica a parte?

«Sì, è così. Vorrei che la famosa frase "quello che conta è la salute" diventasse davvero centrale. Vorrei che non accettassimo più nessun taglio alla sanità pubblica. Vorrei che non crollassero più i ponti, e che la sicurezza delle persone diventasse prioritaria. Vorrei che ci ribellassimo a queste città piene di smog che uccide: e qualcuno aveva addirittura preso in giro quella magnifica ragazzina, Greta».

Abbiamo imparato ad apprezzare i medici e gli infermieri. Credo che lei lo avesse già fatto.

«Sono i mestieri della vera empatia. Persone che entrano nella testa di chi soffre, persone generose, disponibili, dotate di incredibile forza fisica e psichica. Non dimentichiamolo, quando tutto sarà finito».

Lo sa che in tivù passano anche le sue vecchie partite?

«Ne sono felice, spero di poter dare un piccolo aiuto emotivo a qualcuno. La bellezza del calcio è anche questo, in fondo è senza tempo. Succede anche a me quando rivedo le partite in bianco e nero dei miei idoli».

L' altra sera, per esempio c' era lei che alzava la Coppa dei Campioni.

«Era la mia ultima gara con la Juve, volevo togliermi l' ossessione: nell' ultima con la Sampdoria, il trofeo l' avevo perso. Io so cosa proverebbero Chiellini, Buffon e Bonucci se ci riuscissero».

È pesante, la coppa? Non metaforicamente.

«Abbastanza, ma in quel momento la devi trattenere perché alzandola non voli via. Diventa una piuma, un palloncino».

Tra la Juve e la Champions ci si è messo pure il virus. Le sue mani resteranno le ultime ad averla sollevata?

«Da anni mi auguro che non sia così. Ai miei tempi, però, era più difficile portarla a casa: il primo anno dovevi vincere lo scudetto, e quello dopo la Coppa».

Ne parla come se fossero passati dieci minuti, non ventiquattro anni.

«Eravamo più giovani, e questo rende tutto più bello. Ma quel brivido è lo stesso, è intatto: la vertigine di una cosa fantastica che non finisce mai».

Se fosse ancora bianconero, lo vorrebbe uno scudetto a tavolino?

«No, non questo. Non dopo quanto sta succedendo. Se si potrà chiudere la stagione in qualche modo, in totale sicurezza, bene. Altrimenti, meglio non assegnare il titolo».

Non sembra ci sia grande unità di intenti nel calcio italiano.

«Si dovrebbero dimenticare gli interessi di parte e gli egoismi, anche se capisco i presidenti alle prese con una crisi mai vista. Qualcuno per forza di cose ci rimetterà. Un errore da non commettere è la fretta. Si abbia fiducia nelle competenze di quelli che se ne intendono e ci dicono cosa fare: preghiamo che lo sappiano davvero. E si torni in campo solo quando i medici e gli esperti diranno che è possibile, anche se sono io il primo a desiderarlo. Ma nel frattempo occorre un atto di responsabilità generale, al di là dell' emergenza dell' intero sistema».

Che vacillava parecchio già prima della pandemia.

«Purtroppo il calcio italiano dimostra poca capacità di assorbire i colpi, servirebbe maggiore solidità. Anche se, ne sono consapevole, stavolta sarà molto difficile sostenere i conti».

Fa effetto leggere di stipendi tagliati ai calciatori.

«Il sacrificio dovrà essere sostenuto da tutti, non solo dagli atleti. Mi sembra interessante quello che accade qui in Inghilterra, dov' è stato creato un fondo di solidarietà alimentato da una quota dei guadagni dei giocatori: i fondi li distribuiscono loro, direttamente alla sanità pubblica».

Da noi si litiga sui soldi, invece.

«I calciatori inglesi hanno scelto la via della solidarietà perché sanno che il taglio delle loro paghe significa meno tasse: e le tasse si versano per il bene comune, per finanziare i servizi di cui una collettività ha bisogno».

Ha sentito che forza, la regina Elisabetta?

«Lei è incredibile: poche e misurate parole, ma quando accade la nazione si alza in piedi e ascolta senza fiatare. Il discorso della Regina è stato per gli inglesi un' iniezione di pura energia, adesso hanno tutti più fiducia».

Il 2020 senza sport significa anche il rinvio degli Europei: meglio o peggio, per gli azzurri?

«Avranno un anno in più per calarsi davvero nel Club Italia, per sentirsi più forti e non voltarsi verso la panchina, cioè verso Roberto, quando le cose si mettono male. Un anno di crescita servirà».

Lei è tornato da poco in azzurro, nel ruolo di team manager che un tempo ricoprì Gigi Riva: che significa per Vialli?

«Moltissimo. Roberto Mancini ha svolto con autorevolezza un lavoro spettacolare, ha preso in mano la squadra in un momento molto delicato, ha portato idee di gioco senza fare cose troppo complicate, ha scelto un gruppo giovane con qualche prezioso veterano e ora si ritrova giocatori che hanno, tutti, quattro caratteristiche essenziali: sono altruisti, coraggiosi, continui e affamati. Il presidente Gravina ha creato l' atmosfera di un vero club. A volte, quando un giocatore ha qualche problema fisico preferisce rimanere con noi in gruppo, e questo conta».

Peccato, però, non poter sfruttare Immobile in stato di grazia.

«Questo sì. Lui metteva dentro tutti i palloni che toccava, mentre Belotti aveva proprio bisogno dell' Europeo per ritrovarsi. Pazienza, aspetteremo un anno. E nell' attesa, ogni azzurro potrà impossessarsi di più del progetto».

La Federcalcio ha deciso di giocare una partita a Bergamo: azzurri contro medici e infermieri.

«Quel giorno sarà un grande giorno».

Anticipazione da Oggi il 18 novembre 2020. «Il primo mese che sono stato insieme a mia moglie non l’ho neanche sfiorata con un dito. M’ero innamorato, non volevo che pensasse che stessi con lei solo per il sesso. Dopo quasi 25 anni di matrimonio e cinque figli so che le devo tutto: se non ci fosse stata lei accanto a me durante la mia battaglia contro la leucemia, non ce l’avrei fatta». In occasione dell’uscita della sua autobiografia La partita della vita (Solferino) Sinisa Mihajlovic, ex calciatore e allenatore del Bologna, ha concesso una lunga intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani, in cui racconta del suo amore per la moglie Arianna Rapaccioni, di sé e di come l’ha cambiato la malattia. E svela quali sono i suoi rapporti col primogenito Marko, avuto da una relazione giovanile: «Con lui sono stato un padre diverso, e mi dispiace. Non lo sento da un anno. Gli avevo chiesto di prendersi più responsabilità, non ne è stato capace. Mi ha chiamato, ma non ho risposto. Lo chiamerò io quando sarò pronto. Quando qualcuno mi delude, mi serve tempo».  «Il cancro mi ha reso un uomo migliore di prima, o almeno lo spero, anche perché peggio non si poteva essere. In ospedale ho pianto spesso, ormai sono un piagnone… », confida Mihajlovic a Oggi. Quanto alle accuse di maschilismo, Miahjlovic lancia nella sua intervista a Oggi una dichiarazione sorprendente: «Il calcio femminile mi piace, lo seguo. Ci sono calciatrici più brave e intelligenti di certi maschi in serie A».

Francesco Persili per Dagospia il 15 novembre 2020. “Ma chi cazzo sei? Io ti spacco la faccia”. Sinisa Mihajlovic fulmina quell'uomo che lo rincorre gridando: “Ehi pezzo di merda, io ti faccio finire la carriera”. Solo che quell’uomo è Zeljko Raznatovic, meglio noto come la Tigre Arkan, capo degli ultrà della Stella Rossa e criminale di guerra serbo. Tutto era nato per un’entrata killer di "Miha" su Stojkovic. La storia della loro controversa amicizia viene ricostruita nell’autobiografia che Sinisa ha scritto con Andrea Di Caro (Solferino). Dopo quel primo faccia a faccia ne seguiranno altri: “Nel periodo in cui sono stato a Belgrado, alla Stella Rossa, lo avrò visto almeno 200 giorni all’anno. Solo calcio, con lui non parlavo mai di politica”. C’è un filo rosso che lega il Sinisa di ieri al Mihajlovic di oggi. È il coraggio di schierarsi e di vivere con coerenza prendendo posizioni scomode, azzardate, divisive come quando decise di fare un necrologio per Arkan. “Me lo rinfacciano da 20 anni ma non ho mai rinnegato quella scelta. Non lo feci per il militare Arkan. Lo feci per Zeljko. Possono i due piani rimanere separati? Non lo so. Allo stesso modo ripeto che lo striscione in suo onore comparso nella curva della Lazio non porta la mia firma”. Oltre cento esponenti del mondo della politica e dell'associazionismo dell'Emilia-Romagna gli hanno inviato una lettera per chiedergli di dissociarsi dai criminali di guerra come la Tigre Arkan. Mihajlovic non ha risposto ufficialmente ma il suo pensiero emerge con chiarezza nelle pagine del libro: “Non ho mai difeso la vita violenta di Arkan e le nefandezze di cui si è macchiato guidando le sue Tigri. I suoi crimini efferati restano. Sono orribili. E li condanno. Ma Zeljko era un un mio amico e mi voleva bene. Grazie a lui ho salvato la vita di mio zio e sono potuto rientrare a Borovo per vedere la mia casa distrutta. La guerra nella ex Jugoslavia ha tanti colpevoli. In una guerra civile non esistono buoni e cattivi. Non c’è il bianco e il nero. Il colore predominante è il rosso. Del sangue degli innocenti”. Cosa sia stato quel conflitto fratricida viene narrato con dolore e sofferenza. Lo zio che vuole “scannare” il padre, l’amico che si presenta a casa dei genitori di Miha e intima loro di abbandonare tutto. Il giorno dopo torna e si mette a sparare sui muri, addosso alle foto di Sinisa, prima di distruggere tutto. Qualche anno dopo, a guerra finita l’amico incontra Mihajlovic e gli spiega che quello era l’unico modo per evitare che i suoi genitori fossero uccisi. Tra le vittime della guerra c’è anche una delle nazionali più forti della storia. Erano i brasiliani d’Europa. Geniali ma incostanti. Tra tutti i talenti, da Savicevic a Boban, da Stojkovic a Boksic, Miha sceglie Prosinecki, il compagno più forte insieme a Totti con cui ha giocato. Una volta con una finta mandò a vuoto l’avversario che si ruppe il crociato. Un uomo in battaglia, Sinisa. Gli hanno contestato il carattere. Ma chi ha carattere, ha un brutto carattere, Pertini dixit. “Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali”. Lo hanno definito “rambesco” (un complimento) e gli hanno dato del fascista: “L’accusa più stupida. Io che sono nato sotto Tito! Nazionalista semmai, ma non fascista. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa e non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia”. Mihajlovic ha deciso di raccontare direttamente dal letto d'ospedale la partita più importante della sua vita contro la leucemia. La diagnosi, la telefonata alla moglie, le parole di Walter Sabatini (“Resta il nostro allenatore. Preferisco lui al 20-30% che qualsiasi altro tecnico”). E poi il ricovero con la falsa identità di Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora (“Trovavo ironico che il senza fissa dimora lo avessero affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di merda”). Il ritorno in panchina e alla vita. In ospedale ha avuto il modo di finire di leggere “Open”. Agassi odiava il tennis con tutte le sue forze? Sinisa invece ama il calcio da morire. E’ un uomo d’amore, per usare una categoria cara a Luciano De Crescenzo, e d’onore. E’ uno di quelli che rispetta la parola data, le promesse, i valori con cui è cresciuto. Una rarità in un mondo di quaquaraquà. Non fa sconti ai ragazzotti che con mezza partita si sentono già arrivati.  "Tanta forma, poca sostanza. Più che calciatori li definisco "calciattori". Sono quelli che dopo uno scatto, se perdono il pallone, invece di rientrare, si aggiustano i capelli". Lui fa parte di un’altra generazione. Quella di chi sa che fatica e divertimento possono andare insieme. “Mi hanno fatto godere ogni tiro, ogni partita, ogni campionato e ognuna delle milioni di volte in cui ho preparato un calcio da fermo. Oggi un difensore centrale come ero io non esiste”. Nella stagione in cui vinse lo scudetto con la Lazio realizzò 13 reti. Guardiola gli confessò: “Purtroppo abbiamo giocato nello stesso periodo, altrimenti da tecnico, ti avrei preso subito. Saresti stato perfetto per il mio gioco”. Tantissimi gli aneddoti da spogliatoio. La finale di Coppa Campioni contro l’Olympique Marsiglia e il sospetto che qualcuno dei rivali avesse fatto ricorso all’aiuto dei farmaci (“Un difensore alla fine dei supplementari era a terra e gli usciva bava bianca dalla bocca”), la rissa con Rizzitelli a Trigoria, quella volta che Giannini perse 4 milioni in una sfida a biliardo, le battute di Boskov a cui consigliò di far esordire un certo Francesco Totti: “A distanza di quasi 30 anni aspetto ancora che Francesco mi offra una”. Ai tempi della Lazio, invece, resta epico lo scazzo tra Simeone e Fernando Couto. “Uno aveva preso delle forbici, l’altro un coltello. Se non li avessimo separati, si sarebbero ammazzati”. E Berlusconi? Uno straordinario presidente, probabilmente il migliore di ogni tempo. Non era convinto quando decisi di lanciare Donnarumma. Ma un insegnamento calcistico me lo ha lasciato: “Caro Sinisa, nel calcio se vinci sei un bravo ragazzo, se perdi sei una testa di cazzo…”

Sinisa Mihajlovic, polemica a Bologna: la sinistra gli chiede di rinnegare il suo essere serbo. Giovanni Sallusti Libero Quotidiano il 14 novembre 2020. L'ultima della sinistra è la cittadinanza onoraria previa abiura. È ancora da stabilire se il reprobo, per accedere al premio e alla riabilitazione piena, debba sottoporsi a ventiquattr' ore di gogna pubblica. Nel caso, la cerimonia di espiazione si terrà in piazza Maggiore. Perché questa storia viene da Bologna, profondo rosso dell'ideologia italica. Il protagonista, suo malgrado, è Sinisa Mihajlovic. L'allenatore della squadra locale, che ha combattuto da eroe riluttante il mostro della leucemia e innescato un legame viscerale con un pezzo di città. Sfortunatamente per lui (ma immaginiamo se ne farà una ragione), non con i burocrati di sezione, non con le anime belle imprigionate dentro l'eskimo dagli anni '70, non con l'intellighenzia progressista, quanto di più oscurantista oggi esista. Accade che Sinisa (in teoria) abbia ricevuto la cittadinanza per essersi «distinto come essere umano prima ancora che come sportivo o allenatore». Il consiglio comunale votò compatto a fine luglio, 26 componenti su 29, compreso il sindaco dem Virginio Merola. il diktat Un'ovvietà umana, che ora viene messa in discussione a pochi giorni dalla consegna ufficiale, tramite "lettera-appello" vergata da un centinaio di firme del bel mondo partitico-cooperativistico-culturale emiliano. Tra queste, i consiglieri regionali Andrea Costa (Pd) e Silvia Zamboni (Verdi), don Luigi Ciotti, Fabio Anselmo (avvocato del caso Cucchi), il regista Paolo Billi, il musicista Massimo Zambon, Valentino Minarelli (segretario Spi-Cgil Bologna). Nella sostanza, un perentorio dispaccio del Politburo, con le istruzioni su cosa fare per essere ammessi nella Repubblica dei giusti e degli omaggiati, cioè la loro. «Egregio sig. Mihajlovic», debuttano i compagni con un'empatia pari a quella dei congressi del Pcus sotto Breznev, «è nostra convinzione che parte del suo passato, da lei mai ritrattato, renda un grave errore per tutta la comunità bolognese e italiana il conferimento di questa onorificenza». Pur senza nominarlo, gli inquisitori si riferiscono al rapporto, che in una fase fu anche di amicizia, tra Mihajlovic e eljko Ranatovic, detto Arkan la Tigre, criminale di guerra serbo che durante gli anni della disgregazione della Jugoslavia si diede alla pulizia etnica e ad efferatezze stomachevoli contro la popolazione civile. Tra persone perbene non andrebbe neanche detto, ma visto che la censura politicamente corretta è tutto tranne che perbene, tocca farlo: chi scrive giudica Arkan un macellaio la cui traiettoria (dis)umana non è minimamente riscattabile. Lo stesso Sinisa ieri si è espresso così in un'intervista al Corriere: «Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita». C'era la guerra, esimi appellanti in poltrona, peraltro figlia della follia autoriaria e centralista titina, che impose l'unione forzata a popoli diversi in nome dell'ideologia comunista (ma su questo dettaglio da parte vostra non si è sentita una sillaba di autocritica in tre decenni). C'era la guerra, e per uno strano incrocio esistenzial-calcistico belgradese, il serbo Mihajlovic si ritrovò un amico a combattere (oscenamente, ora lo sappiamo) dalla parte dei serbi. Non rinnegò, anche perché conosceva turpitudini analoghe compiute dall'altra parte su suoi compatrioti, parenti, amici.

LA GUERRA. C'era la guerra, uno schifo, il collasso dell'umanità. Sinisa non rivendica le azioni politico-militari di Arkan, Sinisa è un uomo cresciuto e arrivato al successo nella libertà, nella pace, nella democrazia, come potrebbe? Ma non sputa sul cadavere, non mente a se stesso e alla storia, non capovolge l'amicizia personale che c'è stata nell'inimicizia a posteriori, a comando, nel tradimento in assenza del tradito. È per questo, che Sinisa è un uomo. Se volete dargli la cittadinanza onoraria, dovete darla a lui, non al suo santino buonista e rieducato. Anche perché uno che ha guardato in faccia il mattatoio balcanico e l'abisso della leucemia no, non si fa rieducare.

MARCO IMARISIO per il Corriere della Sera il 12 novembre 2020.

Sinisa Mihajlovic, le sembra giusto che la lotta contro il cancro venga sempre definita come una guerra, come una battaglia da vincere?

«Oggi, solo oggi, capisco la domanda. Ammalarsi non è una colpa. Succede, e basta. Ti cade il mondo addosso. Cerchi di reagire. Ognuno lo fa a suo modo. La verità è che non sono un eroe, e neppure Superman. Sono uno che quando parlava così, si faceva coraggio. Perché aveva paura, e piangeva, e si chiedeva perché, e implorava aiuto a Dio, come tutti. Pensavo solo a darmi forza nell'unico modo che conosco. Combatti, non mollare mai».

E chi non ce la fa?

«Non è certo un perdente. Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Non esiste una ricetta, io almeno non ce l'ho. Tu puoi sentirti un guerriero, ma senza dottori non vai da nessuna parte. L'unica cosa che puoi fare è non perdere voglia di vivere. Il resto non dipende da noi».

Perché ne «La partita della vita», la sua autobiografia, ha scelto di raccontarsi dal letto d'ospedale?

«Non avrei potuto fare altrimenti. Adesso siamo qui a parlare, sul terrazzo della mia casa, davanti alla città più bella del mondo, Roma, mentre fumo il mio sigaro. Mi godo ogni momento. Prima non lo facevo, davo tutto per scontato. Conta la salute, contano gli affetti. Nient' altro. La malattia mi ha reso un uomo migliore».

Chi è Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora?

«Al Sant' Orsola mi avevano dato questa falsa identità, per non attirare curiosi che disturbassero altri malati. Dopo i primi due cicli di chemio, dimostravo altro che 69 anni. Trovavo ironico quel senza fissa dimora affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di m...».

Le pesava?

«Sono un uomo controverso e divisivo, si dice così? E ci ho messo anche io del mio. Facevo il macho, dicevo cose che potevo tenere per me. Ma se faccio una cazzata, e ne ho fatte tante, mi prendo le mie responsabilità».

Qualcosa che invece non rifarebbe?

«Ottobre 2000, Lazio-Arsenal di Champions League. Da quando gioco a calcio ho dato e preso sputi e gomitate e insulti. Succede anche con Vieira. Gli dico nero di m... Tre giornate di squalifica. Sbagliai, e tanto. Lui però mi aveva chiamato zingaro di m... per tutta la partita. Per lui l'insulto era zingaro, per me era m... Nei confronti di noi serbi, il razzismo non esiste...».

Quando capì che in Jugoslavia veniva giù tutto?

«Finale di Coppa di Jugoslavia 1990. Perdiamo contro l'Hajduk Spalato, gol di Boksic. Prima della partita, nel tunnel che porta al campo, Igor Stimac, croato, mio compagno di stanza nella nazionale giovanile mi dice: "Prego Dio che i nostri uccidano la tua famiglia a Borovo", che è il paese dei miei genitori».

Ricorda il primo incontro con Zeljko Raznatovic, detto Arkan?

«Quando io giocavo nel Vojvodina, al termine di una partita combattuta l'avevo insultato non sapendo chi fosse. Quando mi ingaggiano alla Stella Rossa, mi convoca nella sua villa. Pensavo mi volesse ammazzare. Invece fu gentile, affabile. "Qualsiasi cosa ti serva, Sinisa, sai che puoi venire da me. Ti lascio il mio telefono". Nei miei anni a Belgrado l'ho frequentato per circa 200 sere all'anno».

La fascinazione del male?

«Forse all'inizio c'era anche quello, poi diventammo davvero amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri».

Vuole che le legga i crimini di guerra del suo amico?

«Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita».

Risponderà alla lettera aperta che in attesa della cittadinanza onoraria di Bologna le chiede di dissociarsi dagli autori dei genocidi nei Balcani?

«No. Ho già detto quel che dovevo dire. Io la guerra l'ho vissuta dall'Italia, cercando di aiutare quanta più gente possibile. Una volta comprai il Messaggero . In prima pagina c'era la foto di tre ragazzi morti "vittime dei cetnici serbi". Ma uno di loro era un mio ex compagno di classe. Un serbo. I serbi hanno fatto schifo, come anche i croati. Ma la storia è sempre scritta dai vincitori. Quindi, gli unici colpevoli siamo noi».

Si sente più serbo o italiano?

«Nel 2000, quando stavano per cominciare i bombardamenti per il conflitto in Kosovo, la mia famiglia era a Roma con me. Mio papà, un ex camionista, un uomo semplice, mi disse Sinisa, io torno a casa. Lo odiai per questo. Qui aveva tutto, e invece sceglieva la nostra casa semidistrutta in un paesino senza nulla? Ma erano le sue radici. Ci ho messo tanto a riconciliarmi con lui, ma poi ho capito».

Come andò l'incontro con Massimo D'Alema, all'epoca presidente del Consiglio?

«L'aveva organizzato Sergio Cragnotti, presidente della Lazio. Volevo fargli capire che i bombardamenti della Nato avrebbero provocato la morte di tanti innocenti. Fu cortese. Mi disse che non poteva farci niente. Quella era una guerra americana. Io non amo l'America, proprio no. Pensi che il midollo per il mio trapianto mi è stato donato da un cittadino statunitense. La vita è piena di sorprese».

Cosa ricorda del suo ritorno dopo la malattia?

«Venticinque agosto 2019. Prima di campionato a Verona. Peso 75 chili, ho solo 300 globuli bianchi in corpo. Imploro i medici di lasciarmi andare. Rischiavo di cadere per terra davanti a tutti e un paio di volte stavo per farlo. Nel sottopassaggio mi sentivo gli sguardi di compassione addosso. Quando mi sono rivisto in televisione, non mi sono riconosciuto».

Perché rischiare?

«Volevo dare un messaggio. Non ci si deve vergognare della malattia. Bisogna mostrarsi per quel che si è. Volevo dire a tutte le persone nel mio stato, ai malati che ho conosciuto in ospedale di non abbattersi, di provare a vivere una vita normale, fossero anche i nostri ultimi momenti».

Chi è oggi Mihailovic?

«Un uomo che cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. Tre giorni fa ho fatto gli esami, sangue, tac ai polmoni, midollo aspirato. Ogni volta mi prende l'ansia. Il prossimo controllo a giugno. Poi, due volte all'anno. Speriamo».

Non è stanco degli applausi e dell'affetto di tutti?

«Mi ha aiutato molto. Ma ora basta. Non vedo l'ora di tornare a essere uno zingaro di m...».

 (ANSA il 23 agosto 2020) - Il tecnico del Bologna Sinisa Mihajlovic è risultato positivo al Covid dopo il tampone a cui è stato sottoposto al suo rientro a Bologna. Lo rende noto il Bologna. Mihajlovic è asintomatico, resterà in isolamento per le prossime due settimane, come previsto dal protocollo nazionale. Domani saranno fatti i test sui giocatori e i collaboratori della prima squadra. Circa un anno fa il tecnico del Bologna annunciò di essere affetto da leucemia ed è stato sottoposto anche a un trapianto di midollo. Sinisa Mihajlovic, l'allenatore del Bologna risultato positivo al Covid, era rientrato da una vacanza in Sardegna, insieme alla moglie. Sottoposto al tampone, anche se asintomatico dovrà stare in isolamento per due settimane e non potrà quindi partecipare al ritiro precampionato della squadra che comincerà in settimana a Pinzolo.

ALESSANDRO MOSSINI per il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. Al rientro dalle vacanze a Porto Cervo in Sardegna, è arrivata la notizia più temuta anche per Sinisa Mihajlovic: come tanti altri vacanzieri, l'allenatore del Bologna è risultato positivo al Covid-19, fortunatamente in maniera asintomatica. Lo ha comunicato la società rossoblù con una nota, dopo aver ricevuto i risultati del tampone di controllo effettuato venerdì al rientro in città: «Il tecnico, che è assolutamente asintomatico, resterà in isolamento per le prossime due settimane, come previsto dal protocollo nazionale». Di conseguenza, salterà il raduno odierno del Bologna (quando tutti i giocatori e gli altri membri dello staff, rientrati anche loro dalle vacanze, saranno sottoposti al tampone) e soprattutto non partirà per il ritiro in programma a Pinzolo, in Trentino, da giovedì fino al 5 settembre. Nel caso di Mihajlovic, il contagio genera logicamente qualche preoccupazione in più per il suo pregresso medico: il 13 luglio 2019 il serbo annunciò di avere la leucemia e, dopo tre cicli di chemioterapia, lo scorso 29 ottobre venne sottoposto a trapianto di midollo osseo da donatore non familiare. Da allora Mihajlovic ha gradualmente ripreso la sua vita: tante medicine da assumere ogni giorno - e un breve ricovero per una terapia antivirale a fine gennaio, data la sua condizione di immunodepresso - e controlli frequenti che hanno dato risultati sempre più confortanti, al punto che l'allenatore rossoblù negli ultimi mesi ha ripreso diversi chili, tornando a correre e ad alzare pesi quasi ogni giorno. «A nove mesi dal trapianto sto bene, forse meglio di prima» aveva detto a fine campionato, svelando poi nei primi giorni in Sardegna di sfruttare questa vacanza «per stare in famiglia e ricaricare le batterie dopo un anno faticoso sotto tanti punti di vista». Tutta la famiglia del tecnico, rientrata a Roma dopo la lunga vacanza a Porto Cervo (Mihajlovic ha raggiunto la moglie Arianna e i cinque figli il 3 agosto, all'indomani dell'ultimo turno del campionato 2019/2020) si è sottoposta al tampone. Lo hanno raccontato le figlie, Viktorija e Virginia, sui loro social network: «Vi ringraziamo per i messaggi che state mandando ma state tranquilli: papà sta benissimo ed è completamente asintomatico. Ovviamente anche noi, venendo dalla Sardegna e da Porto Cervo, siamo stati sottoposti al tampone. Vi abbracciamo». Nei venti giorni di vacanza in Costa Smeralda, ci sono state occasioni mondane, testimoniate dalle foto sui social: tutta la famiglia a inizio agosto ha partecipato alla festa privata di compleanno di Gianluca Vacchi, le serate a cena nel ristorante di Johnny Micalusi al Sottovento Club di Porto Cervo, le partite a padel o a calcetto con gli amici e un incontro a Olbia con Gianmarco Pozzecco, allenatore della Dinamo Sassari di basket (che ieri ha reso nota la negatività dell'intero staff e di tutti i giocatori). Ora il tampone obbliga Mihajlovic all'isolamento nella stanza del suo hotel bolognese, in attesa di un doppio esito negativo per poter tornare ad allenare.

Alessandro Mossini per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2020. Da ieri Sinisa Mihajlovic è ufficialmente nell' elenco degli oltre 210.000 guariti dal coronavirus in Italia: l' allenatore del Bologna nelle ultime ore si è sottoposto ai due tamponi di controllo che hanno dato esito negativo e pertanto ha terminato la sua quarantena. Oggi alle 17 a Casteldebole il tecnico guiderà un allenamento della sua squadra per la prima volta in questa stagione dopo aver saltato per intero il ritiro a Pinzolo, terminato sabato: la notizia della sua positività - pur asintomatica - era arrivata lo scorso 23 agosto, al rientro dalle tre settimane di vacanza con la famiglia in Sardegna. Una situazione che aveva generato diverse critiche, vista la presenza dell' allenatore (ripreso anche da diverse fotografie senza mascherina) a vari appuntamenti mondani, tra cui una partita di calcetto a Porto Cervo a cui aveva preso parte anche Flavio Briatore, poi risultato positivo a sua volta. «Non mi sono piaciute le critiche arrivate a me e alla mia famiglia - aveva detto Mihajlovic venerdì, collegato via Skype da Bologna alla presentazione della squadra in Trentino -, io sono un malato di regole e le ho seguite tutte. Chiaramente con le discoteche aperte i miei figli uscivano, non potevo impedirglielo: uno di loro è risultato positivo, asintomatico, e ora è di nuovo negativo. Sono stato sfortunato, ma dopo la leucemia vincerò anche questa e tornerò a fare ciò che amo». Ora si è negativizzato e da oggi tornerà sul campo, anche se la sua presenza a Pinzolo - pur virtuale - non è mancata: «Non pensiate che non vi veda e che non vi giudichi», aveva detto alla sua squadra al primo giorno di ritiro e infatti Mihajlovic lo ha seguito per intero da remoto, assistendo ad allenamenti e partitelle in diretta-video tramite link privati su Youtube e intervenendo in voce quando necessario. Una routine tecnica già rodata con il suo staff un anno fa, quando Mihajlovic stava iniziando la sua battaglia contro la leucemia: proprio il pregresso medico, con i cicli di chemioterapia e il trapianto di midollo osseo effettuato lo scorso 29 ottobre, aveva destato qualche preoccupazione in più al momento della positività al Covid ma la situazione è sempre rimasta ampiamente sotto controllo e nessun sintomo si è mai manifestato. Ora, dopo i due tamponi negativi, si torna alla normalità e Mihajlovic può pensare solamente al Milan del suo amico Ibrahimovic, primo avversario rossoblù in campionato lunedì 21 settembre.

Dal Corriere della Sera il 23 agosto 2020. Un calcio d'inizio simbolico, il ritorno alla normalità dopo mesi di angoscia e paura per la leucemia. La partita di calcetto organizzata lo scorso 14 agosto dagli amici per Sinisa Mihajlovic, nel campo da gioco dell'Hotel Cala di Volpe di Porto Cervo, aveva il sapore delle grandi occasioni. «Sto benissimo, mi sento in forma», ha detto l'allenatore del Bologna agli amici schierati in prima fila ad applaudirlo, tra cui la moglie Arianna e i cinque figli. Niente cappello, la testa libera e i piedi veloci, per lui il ruolo di terzino sinistro. Una partita tra amici, con l'inseparabile Dario Marcolin - il commentatore di Dazn, che risulterebbe negativo al test - in squadra insieme a lui. Non una competizione, ma un incontro tra vecchi compagni, messo in piedi dallo storico amico Hormoz Vasfi, il petroliere animatore della mondanità della Costa Smeralda, che adesso racconta con una certa emozione l'accaduto. «Appena Sinisa è atterrato a Olbia mi ha telefonato e mi ha detto: mi sento bene, ho ripreso anche a giocare a padel, organizza una partita di calcio, è un anno e mezzo che non gioco». Vengono coinvolti volti noti e personaggi in vacanza in Costa Smeralda: in squadra con Mihajlovic giocano l'amico Hormoz, nel ruolo di portiere, Dario Marcolin e Paolo Bonolis, anche lui pieno di entusiasmo. «Ho giocato per quattro giorni di fila, ho le gambe a pezzi, ma oggi non potevo non esserci per Sinisa», queste le parole del conduttore prima di entrare in campo. Nella squadra avversaria anche il figlio di Bonolis, Davide: il calcio d'inizio viene dato da Fabio Rovazzi e nel secondo tempo entra in campo Flavio Briatore che segna un gol. Divertimento, entusiasmo e un brindisi finale per festeggiare: tutto nel rispetto delle regole, secondo le misure anti-Covid. «Chiunque ha giocato a calcetto nel campo del Cala di Volpe ha dovuto rispettare le regole imposte dall'hotel - spiega Vasfi -: misurazione della temperatura e compilazione di un'autocertificazione sullo stato di salute». Adesso che Sinisa è a Bologna, positivo ma asintomatico, mentre Bonolis padre e figlio e Rovazzi sono risultati negativi agli esami, si cerca di ricostruire i momenti della sua vacanza, trascorsa in un clima di cautela, come conferma la moglie Arianna. Qualche uscita nei locali della Costa Smeralda con i congiunti e gli amici di sempre, rare cene e sempre all'aperto, come quella organizzata nel post partita, nel ristorante Pedri Garden di Porto Cervo e dove è arrivato anche Ibrahimovic a sorpresa per salutare l'amico. «Ci siamo sentiti oggi con Arianna, Sinisa sta bene - commenta Vasfi- : lo scorso anno dopo che è partito dalla Sardegna per il ritiro è arrivata la notizia della leucemia, quest' anno quella del test positivo. Siamo tutti affranti, ma sono certo che Sinisa non avrà problemi a superare anche questo momento».

Da ilmessaggero.it il 23 agosto 2020. Da Flavio Briatore a Paolo Bonolis, passando per l'ex presidente della Fiorentina, Andrea Della Valle, posano tutti in fila sul campetto di calcio dell'Hotel Cala di Volpe e Porto Cervo, di fianco a Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna, oggi risultato positivo al Covid-19. La partita organizzata dal petroliere Hormoz Vasfi, fa il pieno di volti noti del mondo del calcio e anche dello spettacolo. Nella foto, pubblicata da Briatore sul suo profilo Instagram, lo scorso 15 agosto, ci sono anche il commentatore Dario Marcolin e il giornalista Gabriele Parpiglia, ma in campo c'erano anche Fabio Rovazzi e Davide Bonolis, figlio di Paolo. Mihajlovic aveva accettato l'invito dell'amico petroliere anche perché l'incontro si svolgeva all'aria aperta e nel rispetto delle norme Covid. L'ex difensore della Lazio, è tornato in campo dopo la malattia che lo ha colpito un anno fa indossando la maglia del Boca Juniors e i pantaloncini della Lazio autografati dall'attuale centrocampista dei biancocelesti, Milinkovic Savic. La sera, poi è l'allenatore del Bologna ha incontrato Zlatan Ibrahimovic a cena a Porto Cervo. Tra i due era scattato un caloroso abbraccio. Il video è stato condiviso su Instagram dalla figlia di Mihajlovic, Viktorija.

Andrea Di Caro per la Gazzetta dello Sport il 16 marzo 2020. « Dopo? Sarà bellissimo... E quel dopo arriverà presto». Il messaggio di ottimismo e di speranza non arriva da uno scienziato o da un virologo, non rassicura la nostra mente con dati scientifici, ma accarezza il cuore e l' anima e dà comunque forza perché proviene da un uomo che sa cosa significa la lotta, il sacrificio, la paura, il coraggio, la resistenza e poi la vittoria del tornare alla vita. Sinisa Mihajlovic parla dalla sua casa di Roma, in sottofondo c' è il vociare di parte della sua numerosa famiglia. Poco più di anno fa, il 20 febbraio 2019, si raccontava in una lunga intervista alla Gazzetta in occasione del suo 50esimo compleanno: «È passato solo un anno ed è successo di tutto. Sono destinato a vivere tante vite in una...». In quella chiacchierata che era anche un bilancio dell' esistenza, Sinisa ci scherzava su : «Cinquanta? Me ne sento 20 in meno ma a volte penso di averne 150 di anni per tutto quello che ho vissuto». Ripercorse gli inizi, la povertà, i primi successi, il trasferimento in Italia, la guerra fratricida nella ex Jugoslavia, l' agiatezza, i trionfi, il dolore per la perdita del padre, la carriera di calciatore e di allenatore, i 6 figli, la famiglia, gli sbagli, i cambiamenti.

Mai avrebbe immaginato il poi...

«E poi la cavalcata entusiasmante col Bologna preso con un piede e mezzo in serie B e portato al decimo posto, i propositi per la nuova stagione e all' improvviso la leucemia, il ricovero, le cure, il buio, le lacrime, la lotta, il trapianto, la luce e il ritorno alla vita. E il calcio che non ho mai lasciato neanche dal letto di ospedale».

E ora anche questo stop forzato per il coronavirus.

«Capisco che per chi non è abituato può sembrare un sacrificio, ma per me queste precauzioni che ci impongono sono una passeggiata. Ho passato mesi chiuso in una stanza di ospedale tre metri per tre, attaccato a fili e flebo, senza poter aprire neanche una finestra, pensi sia un problema essere in famiglia, a casa, e uscire in terrazzo a fumare una sigaretta? Sono mesi che uso una mascherina e non abbraccio e do la mano. Non ho dovuto cambiare le abitudini. Sono un po' orso, non mi ha pesato evitare tanti contatti, anzi scherzando dico spesso che terrò questa precauzione per i prossimi 5 anni...».

Sinisa com' è la vita in casa?

«Per me piacevole. Non sto sminuendo né i pericoli del coronavirus, che debelleremo, né l' ansia di chi magari non è abituato a stare chiuso in casa. Anche mia moglie Arianna sembra un leone in gabbia: fa l' uncinetto poi si alza, poi lo riprende, poi va in cucina, poi in camera, poi torna... Si muove più lei di certi calciatori in campo (ride, ndr ). Esce solo per fare la spesa. Ognuno ha il suo vissuto, non faccio paragoni. Ma secondo te dopo aver vissuto due guerre, le bombe che potevano distruggerti la casa, i coprifuoco, sarà mai un problema stare a casa, sul divano davanti alla tv, leggere un libro o andare in terrazzo a fumare? Dopo mesi in ospedale stare in casa con la mia famiglia intorno è un privilegio...Dopo la malattia ho detto spesso che ogni cosa ha riacquistato per me valore e mi sembra bellissima: una boccata d' aria, una doccia con l' acqua che ti scende sul viso, un panorama. Io ormai apprezzo ogni singolo momento della mia vita. Oggi posso aggiungere qualche aspetto derivante dallo stare in casa...»

Tipo?

«Non ho più bisogno della sveglia. Oggi (ieri, ndr ) mi sono alzato a mezzogiorno, non so più da quanto tempo è che non accadeva. Forse da quando ero piccolo. Mi sono alzato quando è finito il sonno. Mi dispiace solo non apprezzare ancora tutti i sapori della cucina, ma mi diverte vedere i miei figli gironzolare per casa, tra le loro stanze e il salone. I pranzi insieme, le cene, le chiacchiere. E la tv...».

Cantava Arbore: «Tu nella vita comandi fino a quando, hai stretto in mano il tuo telecomando...» Chi comanda in casa Mihajlovic?

«E me lo chiedi? Arianna. Fa il tiki taka meglio di Guardiola tra Rai, Mediaset, La7, Sky. Tra un telegiornale e l' altro c' è l' alleggerimento. Poi quando spunta Maria De Filippi fine dello zapping. Sto diventando un esperto dei suoi programmi da Amici a C' è Posta per te ...».

Macho Sinisa, occhio alla risposta: anche Uomini e Donne?

«Quello lo fanno dopo pranzo, e di solito mi addormento sul divano, mentre la sera quando si addormenta Arianna parto io con film e serie tv. Libri, internet, telefono, videogiochi...C' è di peggio no? Ci chiedono solo questo: stare in casa. Gli ospedali in alcune regioni sono pieni, le terapie intensive non bastano per tutti. Io so di cosa parlo purtroppo. E non c' è solo il coronavirus da curare negli ospedali: i medici stanno facendo un lavoro enorme, abbiamo il dovere di aiutarli evitando che il contagio aumenti e di essere un pericolo per le fasce piu deboli e delicate di salute».

Come gli anziani...

«Si dice, muoiono soprattutto gli anziani con altre patologie, come fosse una consolazione...Gli anziani non sono un numero, sono una risorsa. Sono la nostra storia, i nostri affetti, il nostro cordone ombelicale, quello che ci ha permesso di essere ciò che siamo. Agli italiani dico, seguiamo le istruzioni che ci danno, dopo il picco arriverà la discesa e allora il dopo sarà bellissimo. La normalità della vita quotidiana, un abbraccio, lo stare insieme, il piacere di andare a vedere una partita di calcio».

E allora parliamo di calcio: rush finale fino al 30 giugno? Saltano gli Europei? Play-off e Play-out? Cosa si aspetta?

«Mi aspetto che il campionato finisca. Bisogna spostare gli Europei e far finire i tornei nazionali e le Coppe. Lo vogliono le federazioni, i club, le tv che hanno pagato i diritti. È giusto terminare ciò che si è cominciato. Dovremo valutare anche da quanto siamo fermi e dovranno darci un paio di settimane per riprendere il lavoro fisico prima di ripartire a giocare. Faremo meno vacanze, ci sarà qualche sacrificio in più ma chissenefrega...».

Giusto fermare gli allenamenti?

«Certo. E ancora più giusto sarebbe stato fermare molto prima anche il campionato. La gente non si è resa conto del pericolo, non ha capito. Ma una cosa è la gente e un' altra chi ha il potere di decidere e soprattutto le informazioni scientifiche per farlo. Vivo in Italia da una vita, i miei figli sono nati qui, questa dopo la Serbia è la mia seconda casa e quando ne parlo, anche se esprimo una critica, lo faccio con affetto. Però è incredibile come in Italia le decisioni vengano prese sempre a metà. Non sono mai decise fino in fondo, c' è sempre una scappatoia.

Ognuno interpreta le regole a modo proprio. C' è poco coraggio. La scelta di chiudere tutto doveva essere fatta prima e in maniera netta, invece c' è stato un decreto al giorno, un pezzetto alla volta. Proprio perché si conosce la mentalità del Paese, che tende un po' a dribblare le regole, bisognava essere netti sin dall' inizio. Spesso qui le persone rispettano le regole quando si mettono paura, come in questo caso. Ogni Paese ha le sue caratteristiche, gli italiani sono geniali, conoscono l' arte e il gusto del vivere, sono svegli, ma se vuoi imporgli le cose o lo fai in modo netto oppure ti sfuggono da tutte le parti. Ma si compattano e ritrovano l' orgoglio nel momento delle estreme difficoltà. Anche nel calcio è così, guardi gli ultimi due mondiali vinti...».

Freeziamo la classifica di A ad oggi. È giusta?

«Sì, secondo me si».

Juve-Inter cosa ha detto?

«Che la Juve è ancora la più forte di tutte e quando ci sono queste partite non le sbaglia, come si è visto sia all' andata che al ritorno. L' Inter ha comprato tanti giocatori ma è ancora dietro. Nonostante la Juve stia facendo peggio dello scorso anno e l' Inter invece meglio, il gap resta molto ampio».

Lei ha incontrato la Lazio nell' ultima di campionato: come l' ha vista?

«Bene, sta facendo una stagione strepitosa».

Le è stata tributata anche una grande festa all' Olimpico.

«Mi ha emozionato. Ringrazio i tifosi e anche la società che nella "vip zone" ha messo sotto teca, per mostrarle, tutte le maglie che ho indossato nei miei anni biancocelesti, un omaggio non credo per tutti. Diciamo che quella contro la Lazio è la partita che mi è spiaciuto meno perdere».

Secondo lei può vincere lo scudetto?

«Se il mio Bologna batterà la Juve alla ripresa del campionato sì...».

Il Bologna però ha un po' frenato ultimamente. Perché?

«Siamo stati pieni di assenti. Non so perché, ma siamo la squadra più ammonita del mondo... Eppure io non ho 11 Mihajlovic in squadra che menano. Capisco che sia più facile ammonire dei ragazzini invece che dei campioni, ma noi siamo bersagliati. Ogni giornata 3-4 gialli e quindi tante squalifiche. Con l' Udinese ci mancavano 11 giocatori. E a noi quando ne mancano un paio è già un problema».

Barrow, acquistato a gennaio, si è inserito bene...

«Sì, ma deve migliorare molto nella cattiveria. Fa quello che Dio gli ha dato, ma ci mette ancora troppo poco del suo. Viene da un Paese povero, deve ritrovare quella fame e quella umiltà tipica di chi viene da Paesi che hanno sofferto. Ci sto lavorando molto dal punto di vista mentale. Come con Orsolini. So che il carattere non si può cambiare, ma si può migliorare: io nel caso loro glielo voglio peggiorare, rendendoli più cattivi nel senso sportivo del termine».

La cattiveria agonistica, una delle qualità di Ibrahimovic che lei voleva a Bologna a fare da chioccia ai suoi ragazzi. Ora nel Milan c' è un bel caos, si sarà pentito di non essere venuto da lei?

«Non entro in casa d' altri. A Ibra avevo solo detto che a Bologna si sarebbe divertito di più che a Milano, nonostante l' importanza del club e della città. Lo penso ancora. Ma ormai è andata così. A Zlatan augurerò sempre il meglio».

Champions League: il Liverpool campione di Klopp è uscito a sorpresa e l'Atalanta invece è ai quarti.

«Klopp prima o poi doveva scivolare, è la legge dei grandi numeri. Ha giocato finora una Premier irripetibile e la vincerà trionfando. Il Liverpool inseguiva soprattutto il campionato dopo tanti anni. Poi affrontare l' Atletico del Cholo Simeone è sempre una rogna.L' Atalanta ha fatto 8 gol al Valencia, merita di essere dov' è e può andare ancora più avanti. Ma la mia favorita per la vittoria finale resta il Manchester City».

Un consiglio per quando tutto sarà finito e si ripartirà?

«Di vivere il finale di stagione tutto d' un fiato con grande passione. Senza polemiche, scuse o alibi perché ci siamo fermati, chi ci ha guadagnato, chi ci ha perso, chi deve recuperare una partita, chi ha giocato a porte chiuse o aperte...

Quello che stiamo passando ci serva da insegnamento. Soffriamo ora e quando torneremo alla normalità, quella normalità sarà bellissima. Godiamocela fino in fondo».

Mi tolga un' ultima curiosità ma si sta facendo crescere i baffi?

«Baffi e barba... D' altra parte i parrucchieri sono chiusi. Già sono pelato in testa, da qualche parte dovevo farmi crescere qualcosa. Non posso essere pelato dappertutto. Quando ricresceranno i capelli deciderò se e cosa tagliare. Quando torneremo a vivere normalmente saremo tutti diversi e saremo migliori. Non nel look, ma nell' animo. Anche le difficoltà, le sofferenze, le crisi, possono lasciare qualcosa di buono quando finiscono. E anche questo periodo difficile finirà. Dipende da noi».

Francesco Persili per Dagospia il 30 luglio 2020. “Dopo la malattia sono diventato una specie di santino, mi sono rotto le palle. Ho bisogno dei nemici per tirare fuori il massimo”. Mihajlovic si confessa a Zazzaroni in occasione dei 75 anni di “Stadio”: “Sono stato sempre divisivo, ora ho unito tutti. Non mi dicono più “zingaro di merda”, non so con chi combattere. Ho bisogno di gente che mi va contro: giornalisti, arbitri. Per avere forza ho bisogno di un nemico”. Le polemiche per lo striscione di Arkan, lo sputo a Mutu, il pandemonio per la dichiarazione di voto pro Salvini. Sinisa si è sempre divertito a “spaccare” l’opinione pubblica. “Non sono un pacifista, non mi va di essere buonista. Mi diverto di più così…”. E’ tornato Miha, il sergente di ferro. “Mi descrivete così ma non è vero. So che la disciplina è una cosa fondamentale. Ho giocato in una Nazionale di fenomeni ma non abbiamo fatto un cazzo perché non c’era disciplina. Se ci sono delle regole bisogna seguirle, perché altrimenti non si va da nessuna parte. Anche a casa mia con i figli sono così. Ma possono essere anche un tenerone. Quando sono andato via spesso con i miei calciatori, ho pianto”. Non mancano frecciate ai giornalisti: “Non possono capirne più degli allenatori, non conoscono certe sfumature tattiche”. Poi torna sulla lite con Zazzaroni che l’anno scorso aveva rivelato la malattia del tecnico senza prima chiedere il suo parere. “Spero che tu abbia capito di aver sbagliato”. La replica del direttore del Corriere dello Sport- Stadio: “Non sono mai stato così male, feci delle vacanze di merda…”. Uomo di mondo,  Mihajlovic, che Totti avrebbe voluto portare alla Roma l’anno scorso dopo il no di Conte, è in continuo aggiornamento: “Sono andato a vedere Sarri quando non lo conosceva nessuno”. Giochista o risultatista? Sinisa sceglie la terza via. La cosa fondamentale è allenare la testa. Per un allenatore la gestione dei calciatori è più difficile della parte tattica. Il futuro? Voglio fare ancora l’allenatore, poi quando mi stufo non mi dispiacerebbe fare il direttore tecnico…”. Non si è mai nascosto, neanche nei giorni difficilissimi delle cure (“Mi sono fatto vedere anche nella prima partita quando ero un morto che camminava"), Miha oggi come allora rifiuta la definizione di eroe: “Sono una persona normale, non ho vinto questa battaglia perché sono coraggioso, quelli bravi sono stati i medici. Il merito è tutto loro…”

Dagospia il 3 giugno2020. Da I Lunatici Radio2. Viktorija Mihajlovic è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Viktorija ha raccontato alcuni aspetti del suo rapporto con il papà, Sinisa: "Ho dedicato un libro al mio papà, con la voglia di farlo conoscere anche in altre vesti. Tutti lo conoscono come il sergente Sinisa, io volevo far conoscere il suo lato più umano, buono, generoso sensibile. Raccontare il Sinisa che mi fa le trecce prima di andare a scuola, o che fa il buffone per farmi ridere quando torna a casa. Il primo fidanzatino che ho portato a casa? Era un po' in soggezione. Ma anche ora le mie amiche sono in soggezione, quando le invito a cenare a casa mi dicono che se c'è Sinisa vengono dopo cena. Lui non ti mette molto a tuo agio, rimane un po' freddo, o anche quando fa la battuta, magari viene male e devi ridere per forza. Lo stesso vale anche per i fidanzati, da piccola era molto geloso dei miei fidanzati, ma anche io ci mettevo del mio. Portavo a casa ragazzi un po' bizzarri, diciamo così". Ancora sul rapporto con il papà: "E' sempre stato molto presente, anche troppo. Ogni lunedì quando tornava andava a parlare con la preside. Già uno il lunedì lo vive male, in più io avevo quest'ansia. Lui andava a parlare con la preside e ogni lunedì automaticamente mi metteva in punizione. Io a parte matematica e fisica, in cui sono sempre andata malissimo, a scuola me la cavavo, perché un po' di parlantina ce l'ho. Il mio problema era il carattere, litigavo con i professori, tanto è vero che a lui dicevo tale padre tale figlia. Lui si arrabbiava ancora di più. Se la preside diceva che avevo risposto male a un prof, lui si arrabbiava tantissimo. Diceva sempre che l'educazione doveva essere al primo posto". Sulla malattia di Sinisa: "Sono stati mesi molto difficili. Questo è un periodo felice, è come se trattieni il fiato e poi riprendi aria. Stiamo iniziando a respirare. Ci stiamo godendo papà, questi mesi in cui siamo stati tutti chiusi in casa abbiamo passato due mesi interi insieme a lui. Per noi è stata una cosa nuova, lui per il suo lavoro stava sempre in giro. Io non sono mai stata una ragazza molto affettuosa. Quando capita una cosa del genere inizi a pensare che avresti potuto comportarti differentemente in tante situazioni e cerchi di recuperare. Ci siamo uniti tutti tantissimo. E ho capito mio papà. Quando mi sgridava, mi metteva in punizione. Ho capito tante cose. Come abbiamo saputo della sua malattia? Papà lo sapeva già da due giorni, non ci aveva detto nulla. Doveva partire per il ritiro, ma ci disse che non sarebbe andato perché aveva un po' di febbre. Poi lo ha detto a mia mamma e mia mamma lo ha detto a noi. Quando abbiamo saputo della leucemia ero molto arrabbiata. Continuavo a chiedermi perché una cosa del genere era capitata a noi. Quello è stato un momento difficile. Adesso che sono finiti i cicli sicuramente è un periodo che fa un po' meno paura. Anche se è una cosa lunga, tu devi imparare a conviverci con questo peso dentro". Ancora Viktorija: "Non ci aspettavamo così tanto affetto da parte della gente. Io lo ripeterò sempre, le persone mi hanno aiutato tantissimo. Anche ora ricevo lettere e regali. C'è stato un affetto che mai mi sarei aspettato, non solo dai tifosi del Bologna o della Lazio, ma da tutti, romanisti, juventini, c'è stata un'ondata di affetto incredibile".

Mihajlovic, il contratto e una firma lezione di vita. Franco Ordine, Giovedì 18/06/2020 su Il Giornale. Ci sono gesti e scelte che ci riconciliano con il calcio di questi giorni scanditi spesso da sgambetti e trappole infernali. E quando avvengono vanno segnalati, in qualche caso sottolineati perché rappresentano l'altra faccia del Belpaese, l'altra fetta del pallone per il quale conviene ancora innamorarsi. La cerimonia molto intima della firma del rinnovo contrattuale di Sìnisa Mihajlovic con il Bologna non è un banale adempimento ma il segno che si possono realizzare obiettivi diversi dalla dura legge del business e del risultato a ogni costo. Rivedere Sinisa sorridente, con quella mise che è diventata la sua coperta di Linus (Coppola in tinta perfetta con la giacca), riapre il cuore alla speranza non soltanto di chi, come lui, si è imbattuto nella perfida malattia ma restituisce al calcio valori e messaggi che sembravano finiti in una buca, sopravanzati da un'età in cui si dimentica e cancella. Innanzitutto c'è il riconoscimento solenne e pubblico che aver lottato con medici e infermieri per guadagnare un permesso e correre ad allenare o a seguire la squadra impegnata in campo è una dimostrazione di attaccamento che merita un premio speciale. Poi quella firma documenta la voglia, reciproca, di società e allenatore, di voler puntare a traguardi più ambiziosi per il futuro, un posto in Europa league per esempio come capito al Bologna di Gazzoni Frascara. Infine significa che il rapporto cementato dalla notizia del ricovero in ospedale tra tifoseria spicciola e Sinisa può diventare la benzina per compiere insieme molto strada. Nel ricordo del cronista la processione al santuario di San Luca con la moglie di Mihajlovic confusa col resto del popolo bolognese è una fotografia che resta impressa nella memoria collettiva e che documenta il processo d'identità tra una tifoseria e una famiglia. Questo calcio ci fa stare meglio.

Sinisa Mihajlovic, le prossime tappe della sua battaglia contro la leucemia. Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. "Io sto bene, mi sento forte. Sono passati quasi 7 mesi dal trapianto e il peggio dovrebbe essere passato. Però ci vuole almeno un anno prima di tornare alla normalità, dipende da persona a persona. Ci sono momenti in cui mi sentivo davvero stanco, l'importante in quei casi è non esagerare e fare solo ciò che ti senti". Così il guerriero Sinisa Mihajlovic, diventato testimonial dell'Ail, Associazione Italiana Leucemie, nel corso della conferenza stampa della campagna "Con Sinisa per la ricerca". Dunque, il mister del Bologna ha spiegato quali saranno le prossime tappe del suo percorso: "Il prossimo controllo è a settembre, poi ne avrò un altro a dicembre e piano piano rientrerò nella normalità. Nelle cose che faccio comunque mi sento più forte di prima, forse perché ho preso un midollo giovane - ha detto con una battuta - C'è grande soddisfazione nel sapere che puoi salvare una vita. Se lo avessi saputo, avrei donato il midollo. Un piccolo sacrificio per chi lo fa, ma un grande dono per chi lo riceve", ha sottolineato quel gigante che risponde al nome di Sinisa Mihajlovic. "Sono orgoglioso di essere uomo immagine di Ali visto quello che ho passato", ha concluso.

Sinisa Mihajlovic: "Per adesso sto vincendo contro la leucemia". Sinisa Mihajlovic racconta a Silvia Toffanin il lungo calvario vissuto per combattere la leucemia, ma chiarisce: "Non penso di essere un eroe, sono un uomo normale con pregi e difetti". Luana Rosato, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale.  La scorsa estate Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna, rendeva nota a tutti la sua malattia e spiegava che, per combattere la leucemia, avrebbe dovuto allontanarsi per un periodo dai campi di calcio. Come un guerriero, l’ex calciatore, ha lottato contro la malattia e, ospite di Verissimo nella puntata che andrà in onda domani, 18 gennaio, racconta alcuni dei momenti più difficili che ha dovuto affrontare. Lui, che non vuole in alcun modo essere definito un eroe, ha fatto sapere che il trapianto di midollo osseo non ha avuto “complicazioni gravi” e, almeno per il momento, è lui ad avere la meglio sulla malattia. “Per adesso la sto vincendo, anche se devo fare attenzione – ha detto a Silvia Toffanin - . Sta andando tutto bene, non sto più prendendo il cortisone e questo è importante. Sono passati 78 giorni dal trapianto di midollo osseo e i primi 100 giorni sono i più critici. Poi dopo è tutto in discesa, bisogna avere pazienza ancora per una ventina di giorni ma superarli bene sarebbe già un bel traguardo”. Contento perché il trapianto non ha avuto complicazioni, Sinisa Mihajlovic è anche tornato ad allenarsi un po’ per tornare in forze “perché dopo 4 mesi senza fare niente e prendendo 17 pastiglie al giorno mi sono un po’ gonfiato”. Il percorso verso la guarigione è stato molto complicato per Mihajlovic che, nel salotto di Canale 5, ha ripercorso alcuni dei momenti più duri della malattia. “Ho fatto tredici chemioterapie in cinque giorni, ma già dopo il terzo avevano annientato tutto – ha raccontato - . Il primo ciclo è stato il più pesante, mi sono venuti anche degli attacchi di panico che non avevo mai avuto perché ero chiuso in una stanza con l’aria filtrata: non potevo uscire e stavo impazzendo. Volevo spaccare la finestra con una sedia, poi mia moglie e alcuni infermieri mi hanno fermato, mi hanno fatto una puntura e mi sono calmato”. Accanto a lui durante tutto il percorso c’è stata sempre la sua famiglia, alla quale ha provato a nascondere anche i momenti di maggiore sconforto. “Stavo male ma dovevo dare forza alla mia famiglia perché se mi avessero visto abbattuto sarebbe stato peggio – ha detto l’allenatore - . Cercavo di essere sempre positivo e sorridente, facevo finta di niente per non farli preoccupare. Questa è stata una delle cose più difficili perché non sempre ero al massimo della forma”. Il modo in cui ha affrontato la malattia, però, non è da ritenere in alcun modo eroico. “Non penso di essere un eroe, sono un uomo normale con pregi e difetti – ha precisato Mihajlovic - . Ho solo affrontato questa cosa per come sono io, ma ognuno la deve affrontare come vuole e può. Nessuno deve vergognarsi di essere malato o di piangere. L’importante è non avere rimpianti e non perdere mai la voglia di vivere e di combattere”. Tra gli sportivi che gli sono stati accanto durante la lotta contro la leucemia, Sinisa ha parlato di Walter Zenga, Francesco Totti e Ibrahimovic. E non solo. “Ho sentito tantissima vicinanza da gente famosa e da gente normale, anche con gli striscioni negli stadi – ha detto il mister rossoblu - . Prima ero uno che divideva, con questo problema ho unito tutti. Hanno guardato l’uomo più che l’allenatore e questo era l’importante”.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2020. Il video uscito sui siti di Sinisa Mihajlovic che torna a correre, a bordo campo, dopo la leucemia, smagrito, svuotato, eppure indomito, è una di quelle immagini che arriva al cuore. Sua figlia Viktorija l' ha visto e si è commossa: «Fino a ieri camminava e basta, questa è la prima volta che si allena e io so quanto lo desiderava. Vederlo è stata un' emozione. Mi è tornato in mente quando l' ho visto dopo il primo ciclo di chemioterapia: ne aveva fatte 13 in cinque giorni, era in ospedale, le gambe di colpo secche nei calzoncini, le orecchie che sembravano enormi perché aveva perso i capelli. L' ho abbracciato e non ho sentito la sua stretta. "Non ho molta forza", mi ha detto. Non so come sia riuscita a non piangere. Ho pianto dopo». Viktorija, 23 anni, è la maggiore dei 5 figli che l' allenatore del Bologna ha avuto da Arianna, sposata 25 anni fa. Molti la conoscono perché è stata all' Isola dei famosi , ma da quando suo papà si è ammalato, nel luglio scorso, è tornata a dedicarsi agli studi di Psicologia, perché lui le ha sempre detto «se studi, papà farà tutto per te». Ora, Viktorija ha scritto un libro, Sinisa, mio padre , in uscita il 19 maggio per Sperling & Kupfer.

Viktorija, perché questo libro e perché adesso?

«Perché davanti al rischio che papà morisse ho pensato: non ce la farò, ma poi ho scoperto che la forza ti esce. E voglio dirlo a tanti che vivono la stessa situazione».

Lui come vi ha comunicato la diagnosi?

«Tutti noi eravamo in Sardegna al mare e lui a Bologna. Ha telefonato a mamma, che ha un carattere forte e gli ha detto subito "stai tranquillo, ce la faremo". Poi mamma l' ha detto a noi, a me per ultima, perché sa che non controllo le emozioni e che ho la fobia degli ospedali. Da sempre, la mia paura più grande era che mamma o papà stessero male. Mia sorella è venuta a chiamarmi e aveva la faccia sconvolta. Ho pensato di aver fatto io qualcosa di male. Non capivo cosa. Papà era uno sportivo, giocava a Paddle tre ore di seguito, era inimmaginabile che stesse male».

Com' è stato saperlo?

«Mi sono accasciata per terra, mi ripetevo che non poteva essere successo a noi, proprio a lui che ha già sofferto tanto, che è cresciuto povero e sotto le bombe, in Serbia. Ho urlato, pianto, spaccato tutto. E desideravo solo essere figlia unica, perché pensavo che quello era un dolore troppo grande per i miei fratelli. La parola leucemia, per me, significava morte certa».

Ora lui come sta?

«Bene, anche se la sua è una malattia infida, non puoi mai dirti fuori pericolo. Dipende da che leucemia hai. Però papà è stato forte e fortunato, perché ha sopportato tre cicli di chemio, ha trovato un midollo compatibile e fatto il trapianto, e non si è mai perso d' animo. Seguiva gli allenamenti al computer e il giorno in cui è uscito dall' ospedale, senza aver mosso prima un passo, è andato dai suoi calciatori».

Che famiglia era, la vostra, prima di quel 12 luglio?

«Unitissima. Mamma e papà vengono da realtà difficili: papà era così povero che come regalo di Natale poteva scegliere fra una mela e una banana, mamma è nata in un quartiere popolare di Roma. Ma noi figli, che abbiamo tutto, ci sentiamo a casa anche lì o a Novi Sad, da zii e nonni, perché così siamo stati educati. Papà era il "sergente Sinisa" anche a casa. Quello che a tavola devi finire tutto e non si guarda il cellulare, quello che tutti i lunedì, suo giorno libero, veniva a parlare con la preside perché io sono sempre stata ribelle: non sopporto le ingiustizie e rispondevo ai professori. Per cui, lui mi metteva in punizione. Una volta, dopo due settimane chiusa in casa a giugno perché avevo preso due debiti a scuola, lo imploro di farmi uscire e lui: vai sul balcone».

Era mai tenero?

«C' era ance il papà buffo che faceva ridere noi bimbi facendo il clown, cadeva per terra, si toglieva il calzino e ce lo lanciava. Da adolescente, siamo stati in conflitto, ma la rivelazione di questi mesi, me l' ha fatta la mia psicologa: ha detto che non m' innamoro mai perché faccio confronti impossibili con mio papà».

La malattia ha cambiato lui o i vostri rapporti?

«È più empatico. Si commuove per il messaggio di un amico e, prima, mi abbracciava, ma il dialogo non c' era, mentre ora parliamo. Un giorno, gli ho dato lo sciroppo, lui ha fatto "aaah" e si è lasciato imboccare come un bimbo».

L'assist di Mihajlovic alla Lega: "Tifo per Salvini e Borgonzoni". L'allenatore del Bologna si schiera con la Lega in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Alberto Giorgi, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "Matteo Salvini è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, dai tempi del Milan. Mi piace la sua forza, la sua grinta, è un combattente". Sinisa Mihajlovic esce allo scoperto e fa il proprio endorsement al leader della Lega. "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni", spiega nell'intervista rilasciata al Resto del Carlino. L'allenatore del Bologna sta combattendo da mesi come un leone contro un brutto male e come spesso gli capita non ha paura di esporsi. Neanche se si tratta di politica. E infatti nella chiacchierata con il quotidiano locale, il serbo si lascia andare a parole al miele verso il segretario del Carroccio: "Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene. I grandi uomini fanno questo, nello sport e nella politica". Dunque, il mister dei rossoblù entra nel merito della tornata elettorale nella regione "rossa" per eccellenza, dove il centrosinistra governa senza sosta da cinquant'anni: "Cambiare tanto per cambiare non serve. Io posso solo dire che sono in Italia dal 1992 e anche se non è il mio Paese di origine, è come se lo fosse diventato. E, da allora, trovo l'Italia peggiorata. Quindi bisogna avere idee e la forza di migliorare…". Da questo presupposto, ecco l'appoggio totale al capo politico della Lega e alla candidata (leghista) del centrodestra unito contro il dem Stefano Bonaccini: "Salvini è intelligente e capace, è all'altezza di guidare il Paese. E le donne – come Lucia Borgonzoni, ndr – beh le donne sono più forti degli uomini: le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all'altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". L'ultima battuta dell'intervista di Mihajlovic al Carlino è dedicata alla querelle sul caso della nave Gregoretti e al processo a Matteo Salvini: "Normale. Silvio Berlusconi quanti processi ha avuto? È normale che quando cerchi di cambiare molte cose e magari usi metodi forti, qualcuno possa chiedere di valutare il tuo operato. Di Matteo io dico: 'Fidatevi. E vedete quello che fa'".

Mihajlovic e le elezioni in Emilia Romagna: “Sto con Salvini”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. In vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna, Sinisa Mihajlovic ha fatto sapere da che parte è schierato. Sinisa Mihajlovic ha espresso la sua opinione in merito alle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna in programma per domenica 26 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna ha dichiarato di voler sostenere Matteo Salvini e la sua candidata Lucia Borgonzoni. Il leader leghista ha ringraziato Sinisa tramite social, definendolo un “grande campione” e un “uomo coraggioso“. Pur non votando per il rinnovo del Consiglio regionale, Sinisa ha espresso la sua preferenza politica schierandosi dalla parte della Lega. Ha infatti raccontato di essere amico di Salvini da qualche anno, precisamente dal 2015, “i tempi del Milan“. Ha poi avuto recentemente un incontro con il leader del Carroccio, che ha sempre espresso ammirazione nei suoi confronti e che è passato a trovarlo per vedere come stesse. “Un incontro piacevole“, ha spiegato l’allenatore. “Mi piace la sua forza e la sua grinta, è un combattente“, ha continuato. Ha poi aggiunto che ritiene Salvini un uomo tosto che fa quello che dice, ribadendo il sentimento di amicizia che lo lega a lui. Mihajlovic ha poi espresso il suo apprezzamento anche nei confronti della candidata presidente del centrodestra. Pur non conoscendola personalmente, la ritiene una donna all’altezza in virtù del suo carattere e della sua determinazione. “Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio“, ha precisato, sostenendo che Lucia Borgonzoni sia un’ottima scelta per la regione per il suo carisma e per la fiducia che si è meritata. Non è tardato ad arrivare il ringraziamento della leghista all’allenatore del Bologna. Queste le sue parole condivise in un post su Facebook: “Grazie di cuore, Mister, speriamo, insieme alla nostra squadra, di riuscire a meritare questa fiducia, per il cambiamento dell’Emilia Romagna, con umiltà ma tanta passione“. Anche Matteo Salvini ha ringraziato Sinisa per il coraggio che ha avuto nell’esprimere la preferenza per il suo partito.

Mihajlovic si schiera con Salvini e gli heaters gli augurano la morte. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna si era schierato con la candidata del centrodestra. Dopo l’endorsement per Matteo Salvini e Lucia Bergonzoni in vista delle elezioni emiliane di domenica prossima, l’alleantore del Bologna Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli heaters  che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. L’allenatore serbo sta combattendo la sua battaglia contro la leucemia che lo ha colpito l’estate scorsa ed è reduce da un trapianto di midollo osseo. Tra coloro che si sono scagliati contro di lui per l’intervista pro-Salvini vi è anche chi gli rimprovera scarsa riconoscenza nei confronti di Stefano Bonaccini, presidente uscente dell’Emilia Romagna e candidato del centro sinistra alle elezioni di domenica, per il fatto di essere stato curato in un ospedale pubblico di Bologna. Sull’altro versante, non manca chi prende le difese di Mihajlovic stigmatizzando il comportamento di chi si è spinto fino ad augurargli la morte. “Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola”, “Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d’Italia”, sono alcuni dei commenti che circolano su twitter.

Il leone Sinisa e i conigli rossi. Andrea Indini su Il Giornale il 22 gennaio 2020. Ha visto di tutto nella sua vita Sinisa, figuriamoci se si fa scalfire da quattro conigli rossi che lo insultano e gli augurano la morte. Lui resterà sempre un leone, loro degli ignobili roditori che si attaccano a una tastiera per inveire contro chi non la pensa come loro. Ne ha viste tante Mihajlovic e oggi non si fa certo problemi a rilasciare un’intervista per dire che appoggia in tutto e per tutto Matteo Salvini. Non se li fa anche se siede sulla panchina di una squadra, il Bologna, la cui curva è più rossa che non ce n’è. E poi: perché mai dovrebbe farsene? Ha detto quello che pensa. Punto. Si chiama libertà. La violenza con cui gli sono piombati addosso era prevedibile. E sono andati a colpirlo là dove, fino a qualche settimana fa, tutti gli si stringevano attorno: la malattia che gli divora dentro, quel tumore che non lo ha fermato. Se non lo ha fatto il cancro figuriamoci se ci riusciranno quei quattro idioti che gli augurano la morte perché ha fatto un endorsement al Capitano leghista. Gli rinfacciano di appoggiare Lucia Borgonzoni e gli ricordano che nel frattempo “si fa curare con la sanità di Bonaccini”. Per questo dovrebbe tacere. “Sosterrà Salvini in Emilia Romagna – scrivono – con un tumore già ci convive”. Da brividi. E ancora: “Speriamo muoia entro domenica”. Per Sinisa sono tutti moscerini. Lui che è cresciuto nella Jugoslavia del generale Tito, che ha vissuto sulla propria pelle due guerre violentissime, che ha visto le bombe americane radere al suolo le città serbe e gli amici cadere come foglie, non si lascia certo smuovere da un augurio di morte. La morte, appunto, l’ha guardata in faccia più volte e più volte l’ha sconfitta. Con un unico rimpianto. “Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto – ha raccontato tempo fa – il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre”. Tutto il resto sono bassezze che non lo toccano ma che a noi dicono, ancora una volta, che le anime belle che vogliono i tribunali contro le destre sono i primi, feroci odiatori che metterebbero alla gogna chiunque non la pensi come loro. 

Sinisa tifa Salvini e la sinistra impazzisce: "E poi ti curi con la sanità di Bonaccini". Dopo l'endorsement dell'allenatore del Bologna Siniša Mihajlović a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, c'è chi lo accusa: "Si cura con la sanità di Bonaccini". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Sinisa Mihajlovic, ex giocatore di Sampdoria, Lazio e Inter e ora allenatore del Bologna, è finito nel mirino della stampa di sinistra dopo l'endorsement a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni dato in un'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino. "Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni" ha dichiariato Sinisa, sottolineando che Salvini "mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi". Apriti cielo! Da notare che Sinisa Mihajlovic è uno dei pochissimi "vip" a fare il tifo per Salvini e Borgonzoni in Emilia-Romagna: se dovessimo stilare la lista di quelli apparsi sui giornali in favore di Bonaccini, a cominciare da quelli saliti sul palco con le sardine a Bologna, non finiremmo più.

"Si cura con la sanità di Bonaccini". La notizia, oltre a scatenare i social (insulti compresi), ha anche acceso la stampa di sinistra e progressista. Next Quotidiano, testata edita da Nexilia, titola così: "Sinisa Mihajlovic appoggia Borgonzoni ma si cura con la sanità di Bonaccini", in riferimento alla battaglia contro la leucemia che l'allenatore del Bologna sta conducendo con grandissima tenacia e dignità dopo essersi sottoposto al trapianto di midollo osseo. Una malattia terribile che Mihajlovic sta combattendo sin dal primo giorno con la forza di un leone, senza peraltro mai abbandonare la sua squadra, il Bologna. Nell'articolo Next Quotidiano si chiede "cosa vorrebbe cambiare Mihajlovic in Emilia-Romagna" probabilmente "non l’equipe medica dell’Ospedale Sant’Orsola che lo ha avuto in cura. L’istituto di ematologia Seragnoli è considerato una delle eccellenze della Sanità pubblica italiana. Ma probabilmente all’allenatore del Bologna poco importa che il progetto della Lega sia quello di una progressiva privatizzazione del comparto sul modello della Lombardia". Oltre all'inopportunità di scomodare la malattia e questioni personali estremamente delicate per criticare una legittima opinione politica, va rilevato che la sanità "non è di Bonaccini" ma dell'Emilia-Romagna e dello stato italiano. Il fatto che un suo diritto sia stato garantito significa che Sinisa, peraltro cittadino onorario di Bologna, debba per forza di cose pensarla come l'attuale governatore su tutto? Si fa davvero fatica a comprendere la logica di un'argomentazione del genere. Lo stesso quotidiano osserva, inoltre: "Nessuno a quanto pare lo ha avvertito che in Emilia-Romagna vincerà Lucia Borgonzoni e non il leader della Lega, ma sono dettagli dei quali non si curano nemmeno i più convinti elettori della Lega". Peccato che Mihajlovic sappia benissimo chi è Lucia Borgonzoni, come spiega lui stesso nell'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino: "Le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all’altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". Ci sarebbe poi molto da discutere e da obiettare sulla paventata privatizzazione della sanità menzionata nell'articolo, oggetto di dibattito politico (e scontro) fra lo stesso Bonaccini e la Lega in Emilia-Romagna. Bonaccini aveva commentato così sulla sua pagina Facebook l’intervista del segretario della Lega Emilia, Gianluca Vinci, andata in onda su Telereggio: "Il segretario della Lega Emilia ci spiega il loro progetto per la sanita’ in Regione: privatizzazione del 50% dei servizi. Dice inoltre che il loro programma e’ stato scritto con i presidenti di Lombardia e Veneto". Affermazioni per le quali il governatore uscente dell'Emilia-Romagna è stato querelato dallo stesso Vinci: "Bonaccini pubblica sul suo profilo una fake news creata con un copia incolla di parti di una mia intervista distorcendone il significato. Complimenti al governatore ‘uscente’ per questa ennesima dimostrazione del fatto che è in estrema difficoltà".

Insulti sui social contro Sinisa: c'è chi gli augura la morte. Nel frattempo, Sinisa è stato oggetto di pesanti attacchi sui social network dopo il suo endorsement per Matteo Salvini in vista delle elezioni regionali di domenica. Come riporta l'Adnkronos, l'allenatore del Bologna è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". A scagliarsi contro il il mister dei rossoblù anche la pagina SatirSfaction. "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive", si legge su Twitter. E ancora "Mihajlovic sostiene Salvini: "Darei il mio sangue per lui". Frasi forti che non hanno fatto per nulla sorridere. Anzi, hanno attirato le critiche degli utenti. "Questa non è satira, è assoluta mancanza di rispetto", "Fai schifo", "Non è satira, è stronzaggine pura", "Vi dovreste vergognare", "Mi viene il voltastomaco", alcune delle reazioni al post. Senza dimenticare la gaffe dell'assessore regionale della giunta Bonaccini, Massimo Mezzetti: "E pensare che, se dessimo retta a chi dice “negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri”, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi" ha scritto sulla sua pagina Facebook. Dichiarazioni a cui ha prontamente risposto Matteo Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona".

Gli insulti shock a Mihajlovic: "Malato mentale, meriti la morte". Vergognosi attacchi all'allenatore del Bologna dopo l'endorsement alla Lega: "Ha alcuni danni cerebrali irreversibili, speriamo che muoia". Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Una vergogna assoluta: commenti deplorevoli ai danni di Sinisa Mihajlovic, "colpevole" di aver espresso parole positive nei confronti della Lega. Il serbo, che sta combattendo contro la leucemia ed è reduce da un trapianto di midollo osseo, ha strizzato l'occhio a Matteo Salvini: "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni. Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene". Appoggiare una linea politica di destra, come al solito, ha scatenato tutta la violenza dei leoni da tastiera della sinistra. Coloro che si dichiarano antifascisti e antiviolenti hanno messo in campo un'ondata di minacce contro l'allenatore del Bologna. Tra l'altro è spuntata anche la battuta choc della pagina di SatirSfaction: "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive". Gli haters lo hanno ricoperto di offese, arrivando addirittura ad augurargli la morte. "Speriamo muoia entro domenica. Fatti curare da Casapound. Sei un fascista. Laziale. Ti davano dello zingaro e te lo sei scordato e quindi non mi sorprende che tu abbia fatto propaganda per Salvini. Ai bolognesi tifosi però dispiace. Se ti levi dalle palle a me sta bene", scrive un utente. C'è chi ha espresso felicità per il travaglio che ha passato: "Mi auguro sinceramente che la chemio aiuti Mihajlovic ad uscire dalla malattia! Purtroppo però debbo constatare che alcuni danni cerebrali irreversibili sembra che li abbia già fatti". Un'altra utente ha invece twittato: "Questo per farvi capire che a volte le disgrazie uno se le merita". Ovviamente non sono mancate le difese a sostegno del tecnico: "Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola"; "Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d'Italia".  

Salvini replica all'uscita di Massimo Mezzetti su Sinisa Mihajlovic: "Non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "E pensare che, se dessimo retta a chi dice negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi". È il commento, pubblicato su Facebook, di Massimo Mezzetti, assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità nella giunta Bonaccini, in Emilia-Romagna. Il riferimento dell'assessore regionale è alle recenti dichiarazioni dell'allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che ha confessato in un'intervista a Il Resto del Carlino di fare il tifo per il leader leghista Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni. Parole, quelle dell'assessore, destinate ad alimentare nuove polemiche. Durissima la replica del leader del Carroccio, Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona" osserva Salvini in una nota. "Orgogliosi di governare tante Regioni con Sanità d’eccellenza, onorati della stima di Sinisa e fieri di poter liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra di Bonaccini e Mezzetti. Speriamo - prosegue Matteo Salvini - che Bonaccini censuri la scemenza del suo assessore, e che magari ci parli anche di Jolanda di Savoia". Sui social network alcuni uteni hanno espresso dure critiche nei confronti dell'uscita (a dir poco infelice) dell'assessore regionale. "Questa te la potevi risparmiare" scrive un utente sotto il post, mentre un altro rimarca: "Sono di sinistra. Ma questa è pessima". Mezzetti prova a difendersi: "Non mi sembra di essere stato offensivo nei confronti di [Mihajlovic] in quanto uomo. Ho messo in evidenza una sua contraddizione fra ciò che sostiene (forse meglio dire, chi sostiene) e l'esperienza che ha vissuto". E ancora: "Ho fatto una constatazione semplice. I cattivi sono quelli che non l'avrebbero curato, mica io. Io voglio che possa continuare a usufruire della nostra buona sanità, non sono come quelli che vogliono cacciare gli stranieri dai nostri ospedali". Dopo l'assist a Matteo Salvini e alla Lega, l'allenatore del Bologna ed ex calciatore è stato oggetto di una vera e propria campagna d'odio via social. Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". La sua colpa? Non essere di sinistra o, perlomeno, non simpatizzare per la sinistra italiana. Quella dei "buoni", delle sardine e di chi rigetta l'odio.

ELEONORA CAPELLI per bologna.repubblica.it il 23 gennaio 2020. Le regionali in Emilia si trasformano in un derby tra allenatori rossoblù. Dopo l'endorsement di Sinisa Mihajlovic per la Lega alle elezioni del prossimo 26 gennaio, l'ex allenatore del Bologna, Renzo Ulivieri scende in campo per Bonaccini e per la coalizione di centrosinistra. In particolare a sostegno del candidato Igor Taruffi della lista "Coraggiosa". "Sono un estimatore di Mihajlovic, in tante occasioni ci siamo conosciuti e abbiamo parlato - dice l'allenatore toscano, sulla panchina del Bologna dal 1994 al 1998 e successivamente dal 2005 al 2007 - non condivido chi sostiene che non dovesse parlare, chi è nel mondo del calcio può parlare e sosterrò sempre la sua libertà di farlo. Però poi dico: non gli date retta". Ulivieri, che in passato è stato anche candidato alle elezioni con Sel, difende la dimensione dell'impegno politico ma anche idee completamente diverse da quelle di Sinisa. "Il nostro è un pensiero completamente diverso - spiega - riguardo l'uomo, l'umanità, riguardo al senso di stare insieme. Sostengo che l'Emilia è un modello, sono per Bonaccini e Taruffi, per quella coalizione che porta avanti un discorso cominciato tanti anni fa, di democrazia, di partecipazione, di scelte". Per questo Ulivieri chiede: "Non statelo a sentire". "Le cose in Emilia stanno in un'altra maniera, non come dice Salvini - sostiene Ulivieri - i cittadini dell'Emilia lo sanno e non si faranno incantare".

Tony Damascelli per il Giornale il 23 gennaio 2020. Non c' è dubbio che Benito Mussolini fosse tifoso della Roma così come, in seguito, Giulio Andreotti, mentre Palmiro Togliatti si scaldasse per la Juventus, come Luciano Lama, gente di sinistra, quest' ultima, vicina al simbolo del capitalismo, Giovanni Agnelli. Ai tempi, nessuna speculazione o rivolta di popolo per il tifo calcistico dei personaggi politici ma è vero il contrario, quando un calciatore illustra la propria idea e ideologia, allora la musica cambia, Bruno Neri si rifiutò di alzare il braccio per il saluto romano, era l' anno millenovecentotrentuno e si inaugurava lo stadio di Firenze alla presenza dell' autorità del fascio, quell' immagine restò non soltanto nelle fotografie ma fu il simbolo di una ribellione che portò Neri a diventare partigiano ed essere poi fucilato dai nazisti. Venne poi la democrazia che, comunque accetta con fatica, alcune posizioni politiche degli atleti. Si discute della dichiarazione pro Salvini e Lega di Sinisa Mihajlovic, allenatore simbolo del Bologna, cioè del club che è stato allenato negli anni da Renzo Ulivieri la cui appartenenza al partito comunista viene ribadita con il busto di Vladimir Ilic Uljanov, per i compagni di tutto il mondo, Lenin, collocato sulla credenza di casa. Lo stesso Uliveri, vice presidente della Federcalcio e presidente degli allenatori, si è fotografato a Chicago, posando con il dito medio rivolto alla Trump Tower. Affollato, come una gradinata, è l' elenco di figure illustri che passano dal pugno chiuso di Paolo Sollier a quello di Cristiano Lucarelli, così come Riccardo Zampagna apertamente schierato con gli operai della ThyssenKrupp, acciaierie di Terni, fabbrica nella quale lui stesso aveva lavorato prima di darsi al football. Non figurine ma persone e personaggi di rilievo per la tifoseria che, spesso, si manifesta con nomi da battaglia, dai commandos ai feddayn, dagli ultras alle brigate. Quando il portiere del Milan, Christian Abbiati, dichiarò di condividere il fascismo per i valori della Patria, il senso dell' ordine e della sicurezza, garanzie del vivere quotidiano, provocò il subbuglio anche se tentò di rimediare dicendo di non poter assolutamente accettare le leggi razziali e l' alleanza con Hitler e l' entrata in guerra. Fu timbrato, come Paolo Di Canio che, tra tatuaggi duceschi e saluto romano, non abbisogna di passaporto diplomatico. Idem come sopra per Stefano Tacconi che si presentò per le liste di Alleanza Nazionale che fu. Di destra è Sergio Pellissier che ha ammesso di rispettare il fascismo «per le cose belle, accanto a quelle brutte». Se la squadra va verso la squadraccia, in campo corrono anche molti compagni e affini, Simone Perrotta si è innamorato dei 5Stelle, Massimo Mauro era entrato nel giro dell' Ulivo, Sacchi e Lippi amano il garofano rosso, mentre la battuta più felice rimane quella di Eugenio Fascetti: «L' unica cosa di sinistra che mi piace è la colonna della classifica di serie A». Aggiungo ai passionari della politica, Giovanni Galli e Giuseppe Giannini e Angelo Peruzzi, in formazione tra Forza Italia e Popolo delle Libertà. A sorpresa, Antonio Cabrini aveva aderito all' Italia dei Valori di Di Pietro. Un album che non solletica i collezionisti ma dimostra che il football tenta di nascondersi nel canneto. Se i politici usano il calcio per aumentare il consenso e salire a bordo della diligenza quando la loro squadra, nazionale o di club, vince, i calciatori, sulla stessa diligenza preferiscono non salire, per evitare fischi e ingiurie del favoloso pubblico dei tifosi. Che sono anche elettori.

Alessandro Barbano per il ''Corriere dello Sport'' il 23 gennaio 2020. Disse, Sinisa Mihajlovic, tornando dopo tre mesi di cure: “Mi sorprende aver unito tutti con la mia malattia, io sono stato sempre divisivo. E forse tornerò a esserlo”. La promessa l’ha mantenuta con l’endorsement a Matteo Salvini, fatto ieri in un’intervista al Carlino. Chi lo conosce bene non si è stupito, perché sa che la divisività è una cifra irredimibile del suo carattere. Ma per un Sergente serbo che si schiera a destra, c’è subito uno Zar russo che gli risponde dal lato mancino. È Ivan Zaytsev, campione del volley modenese e nazionale, in piazza Grande con le sardine fin dalle prime adunate: sul suo profilo Instagram da ieri compare una foto di Stefano Bonaccini, con una eloquente didascalia: “Il mio Presidente”. Lo sport si è schierato. Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla valenza di questa sfida elettorale, eccolo servito: la competizione tracima dalle segreterie politiche fino agli spogliatoi più prestigiosi. L’Emilia Romagna è una roccaforte che neanche gli incerti della Seconda Repubblica avevano messo in discussione. Su questo confine mai conteso, e oggi improvvisamente contendibile, si giocano non solo gli equilibri di governo, ma le visioni e gli schemi con cui il Paese si è raccontato e in parte ancora si racconta da settant’anni. Non c’è da stupirsi che la battaglia delle battaglie abbia assoldato l’intera platea dei riservisti. Ma quanto pesa l’opinione dei campioni dello sport? Molto, secondo le aspettative degli spin doctor dei due sfidanti, che se li sono contesi con un corteggiamento scientifico. Meno, a giudicare dalle reazioni sui social: la sovraesposizione ha sempre un effetto paradosso. Così, sulla community “Lo spettro della bolognesità”, che conta su Facebook 17mila utenti, c’è chi arriva a rimproverare a Mihajlovic di sputare nel piatto di quel modello emiliano che lo ha assistito con tempestività taumaturgica. “Mica l’ha operato Bonaccini”, replica un altro cibernauta. E da più parti ci si chiede in che misura la sortita del tecnico chiami in corresponsabilità anche il club: in tempi in cui le società regolano il diritto di parola dei loro campioni, è difficile pensare che il Bologna non sapesse e non volesse. D’altra parte Sinisa non è uno abituato a chiedere il permesso di parlare. E certamente parlare di politica è un suo diritto. Ma che cosa accadrebbe se il tecnico della Spal Leonardo Semplici, contro cui il Bologna giocherà a Ferrara il giorno prima dell’apertura delle urne, dichiarasse la sua fede per Bonaccini? Il derby emiliano rischierebbe di trasformarsi in un antipasto bollente delle elezioni. In nome di un tirannia che assoggetta ambiti della vita pubblici abitualmente separati, il calcio cesserebbe di essere quella valvola di decantazione che è. Certamente questo Mihajlovic e Zaytsev e le loro scuderie politiche di riferimento non l’hanno pensato. A questa soffocante polarizzazione di bandiere e stati d’animo viene in soccorso un motto di Blaise Pascal, a cui si ispira il filosofo statunitense Michael Walzer nel suo libro “Sfere di giustizia”: «Dobbiamo onori diversi ai diversi meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza». E, si può aggiungere, ammirazione all’impresa sportiva. Questo per dire che il 4-2-3-1 del Sergente e l’ace in battuta a 120 all’ora dello zar restano una fenomenologia del corpo, e non una religione dello spirito e del sapere assoluto. Per nostra fortuna.

Francesco Persili per Dagospia il 24 aprile 2020. “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”. Pensi subito a Michael Jordan quando senti Paolo Maldini affermare in diretta Instagram con Vieri: “Ho vinto 5 Champions ma sono il giocatore più perdente della storia. Ho perso 3 finali di Champions, 1 finale di Supercoppa Europea, 3 finali di Intercontinentale, 1 finale mondiale, 1 finale degli Europei e 1 semifinale Mondiale. Nel 2006 Lippi mi chiese di andare ai Mondiali e risposi di no. Quando hanno vinto ho pensato di essere uno sfigato. Il mio momento più brutto? Quando siamo usciti dal campo di Marsiglia per le luci spente, anche se c’era molta confusione». “Cuore di Drago” parla anche della Dinastia Maldini. Dal padre Cesare, primo capitano rossonero ad alzare la Coppa Campioni, e poi suo ct in Nazionale al rapporto da responsabile dell’area tecnica del Milan con il figlio Daniel, oggi aggregato alla prima squadra. “La ripartenza della Serie A? Il campionato deve provare a riprendere altrimenti è un disastro economico. Le tv non pagherebbero, tante squadre fallirebbero. Il calcio è una delle prime aziende del Paese. La priorità è la salute, ma se ci saranno le condizioni per iniziare e il governo darà l’ok dobbiamo provare. I protocolli per i giocatori sarebbero molto rigidi, anche se il calcio resta uno sport di contatto…”

Sacchi come Mihajlovic: ha scelto Salvini e Borgonzoni. Stasera a Bologna presenterà il suo libro in un incontro organizzato da Forza Italia. La senatrice Bernini: ''Ci aspettiamo il suo appoggio''. Antonio Prisco, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Anche Arrigo Sacchi in appoggio alla Lega di Matteo Salvini e della candidata Lucia Borgonzoni, in vista delle prossime elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Dopo le dichiarazioni di Sinisa Mihajlovic, dal mondo del calcio potrebbe arrivare un nuovo endorsement a favore di Lucia Borgonzoni. Arrigo Sacchi, romagnolo di Fusignano, l'indimenticato allenatore del primo Milan di Silvio Berlusconi e della Nazionale italiana, potrebbe lanciare da Bologna il proprio endorsement al centrodestra in vista del voto di domenica. Questa sera, nelle sale del Museo della storia di Bologna, Sacchi presenterà il libro La coppa degli immortali Sottotitolo: Milan 1989: la leggenda della squadra più forte di tutti i tempi raccontata da chi la inventò, scritto con Luigi Garlando. A quanto si sa, Arrigo non ha mai aderito ad alcun partito, rifiutando sempre qualsiasi tessera in tasca. Tuttavia non ha mai nascosto di avere votato sempre per Silvio Berlusconi, da quando il Cavaliere scese in campo nel 1994. Sugli inviti, il simbolo Forza Italia-Berlusconi per Borgonzoni, che si troverà anche sulle schede elettorali delle regionali non lascerebbe alcun dubbio sulla scelta dell'ex tecnico milanista. Con Sacchi, all’incontro intervengono Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di FI, Adriano Galliani, ex vicepresidente del Milan, senatore di FI, e Marino Bartoletti, giornalista, nel 2004 candidato sindaco civico a Forlì, sostenuto dal centrodestra. Non sarebbe la prima volta che il nome di Sacchi viene associato alla Lega. L’agosto scorso, il grande tifoso rossonero Matteo Salvini, allora Ministero dell’Interno, dalla spiaggia del Papeete, a Milano Marittima, pubblicò su Instagram un selfie proprio in suo compagnia con il commento: ''Arrigo Sacchi, numero uno!''. Inutile nascondere che tutti, questa sera, si attendono dall'ex allenatore rossonero un sostegno esplicito a favore del centro destra. ''Sarei molto delusa se non lo facesse'', afferma la senatrice Anna Maria Bernini, che con grande entusiasmo aggiunge: ''Il mondo pallonaro è con noi, con un presidente così, se il mondo del pallone non fosse con noi avremmo veramente sbagliato tutto''. Intanto sponda Pd arrivano a sorpresa le dichiarazioni di Andrea Corsini, assessore regionale al turismo dell'Emilia-Romagna: ''Arrigo Sacchi ha partecipato a due iniziative organizzate dal Partito Democratico di Cervia e Fusignano, per promuovere e sostenere la mia candidatura alle elezioni regionali di domenica prossima. In entrambe le occasioni e in una importante trasmissione radiofonica nazionale Arrigo ha dichiarato che lui sostiene le persone che hanno lavorato bene e quindi sosterrà Andrea Corsini e Stefano Bonaccini''. Questa sera la soluzione del giallo?

Da itasportpress.it il 16 aprile 2020. Una lunga carriera dirigenziale nel Milan quella di Paolo Taveggia. L’ex direttore organizzativo rossonero ha parlato nelle scorse ore ai microfoni di Milannews.it toccando numerosi argomenti.

ANEDDOTI – “Oltre alle vittorie nelle finali di Coppa dei Campioni, la cosa che più mi ha fatto godere è aver battuto il Real Madrid 5-0 a Milano. Su quella sfida ho due aneddoti. Il giorno prima della gara il nostro portiere Giovanni Galli, avvicinandomi, mi disse che nella partita di andata Sanchez, ogni volta che faceva i passi per rinviare il pallone, gli si metteva davanti e gli sputava in faccia. Quando prima del match parlai con l’arbitro Ponnet, gli comunicai questi episodi dicendogli di fare attenzione. Non a caso, lo spagnolo venne ammonito al primo fallo dopo tre minuti di gioco… Il secondo aneddoto avvenne a fine partita: Schuster, innervosito per l’umiliazione subita, si avvicinò e mi disse: "avete pagato gli arbitri". Io risposi: "se lo avessimo fatto non avremmo vinto 5-0. Non siamo come i tuoi dirigenti, che gli arbitri li hanno pagati tante volte”.

BELGRADO – “Quella finale fu un piccolo film. A Milano avevamo pareggiato 1-1, al ritorno dovevamo giocare al Marakana, nel quale prendevano posto anche gli ultras della Stella Rossa. Ci portammo dietro anche Gullit, anche se non poteva giocare per una simil pubalgia. La sera della nebbia credo che se noi avessimo giocato con le mani e loro con i piedi non avremmo vinto comunque, era una di quelle sere in cui non funzionava nulla. All’intervallo eravamo sullo 0-0, quando ritornammo in campo non si riusciva a vedere niente a due metri di distanza. Anche dalla panchina non si vedeva niente. Capimmo che loro erano passati in vantaggio dal boato. Ramaccioni (team manager del Milan, ndr) mi disse di far notare la situazione alla terna arbitrale. Mi alzai per chiedere al guardalinee se riusciva a vedere qualcosa, lui mi fece tornare a sedere. Continuai a camminare seguendo l’assistente come un’ombra, fino a quando a un certo punto sentimmo i tre fischi dell’arbitro: gara sospesa. Disse che avremmo dovuto aspettare 45 minuti in attesa che la nebbia si diradasse. Rientrai negli spogliatoi e vidi che i giocatori stavano facendo la doccia: non avevano capito che era sospesa e non rimandata. Andai a bussare alla porta dell’arbitro Pauly, il quale mi confermò che la partita era sospesa. Feci una sceneggiata tipo Alberto Sordi dicendogli che la mia carriera era rovinata, perché i giocatori erano sotto la doccia a causa del malinteso. Aprì la finestrella, guardò fuori e mi disse: "si gioca domani alle 15". Non ho mai raccontato questa cosa per vent’anni. La partita, il giorno dopo, ripartì dallo 0-0 e terminò 1-1. Dopo i supplementari si andò ai rigori. Il quarto penalty avrebbe dovuto tirarlo Cappellini, come era indicato anche sulla lista consegnata all’arbitro. Ma lui non se la sentì e andò Rijkaard. Segnò e passaggio del turno per noi, con quelli della Stella Rossa che non erano a conoscenza dei rigoristi designati. A fine gara chiesi spiegazioni a Rijkaard, che mi disse: ‘Inizialmente non volevo tirarlo, ma poi mi sono reso conto che se lo avesse sbagliato Cappellini la sua carriera sarebbe finita, mentre io sarei rimasto comunque Frank Rijkard”.

MARSIGLIA – “L’aneddoto che ricordo con meno piacere risale al 1991, Marsiglia-Milan, quando il Milan uscì dal campo e si spensero le luci. Fu un errore generale, generato anche da qualche furbizia da parte del Marsiglia, in cui tutti abbiamo avuto delle responsabilità. Noi dovevamo giocare il ritorno al Velodrome dopo aver fatto 1-1 a Milano. Il Marsiglia aveva un’organizzazione importante ai tempi, il presidente Tapie era anche presidente dell’Adidas, uno dei grandi sponsor della UEFA. Qualche giorno prima della partita mi chiamò Uli Hoeness (ai tempi dg del Bayern Monaco, ndr), con i quali avevo dei rapporti meravigliosi, specificando che fosse una telefonata riservata e mi disse: "Ti faccio questa confidenza solo perchè siamo amici, mi ha chiamato Beckenbauer (dt del Marsiglia, ndr) avvisandomi che stanno preparando delle cose poco simpatiche per il Milan in Francia, con anche il pericolo che ci possa essere qualche contaminazione del cibo in albergo destinato ai giocatori". Io mi occupavo anche dell’organizzazione logistica e così decisi, senza dire veramente nulla a nessuno tranne a Galliani, di cambiare hotel ad una settimana dalla partita. Nemmeno i giocatori e l’autista sapevano di questo cambio. Pensa che Maldini, dopo un quarto d’ora dall’arrivo in albergo, mi disse che Adriana (attuale moglie dell’ex capitano, ndr) stava provando a chiamare l’albergo, ma che non riusciva a trovarlo, perchè lei in realtà aveva il numero di quello che doveva essere l’hotel originario. La sera andammo al campo per l’allenamento alla vigilia della partita e trovammo i cancelli del Velodrome chiusi. Dopo un po’ riuscimmo a farci aprire, ma i palloni sembravano scomparsi e vidi che c’erano un po’ di persone che stavano lavorando nel fossato interno attorno al campo. Al momento non ci feci troppo caso, ma il giorno dopo questo particolare si rivelerà fondamentale per capire cosa successe realmente. Alla fine saltarono fuori i palloni e facemmo una breve rifinitura. Il giorno della partita, nel momento in cui il Marsiglia era avanti 1-0 e mancavano tre minuti alla fine della gara, Waddle si trascinò il pallone sul fondo, l’arbitro Bo Karlsson fischiò e fece un gesto con le braccia che si poteva interpretare come la fine della gara. I giocatori del Marsiglia cominciarono a festeggiare, noi pensammo che la partita fosse finita. Io vidi che nel frattempo stavano iniziando ad entrare in campo i vari soggetti che sono attorno al campo, dai poliziotti marsigliesi che festeggiavano ai fotografi.  Ramaccioni mi guardò e mi disse che non era ancora finita la partita e di andare ad avvisare l’arbitro che mancavano ancora tre minuti. Karlsson mi disse che ne era consapevole e io gli feci notare la confusione che c’era in campo in quel momento e che non si poteva continuare in quelle condizioni. Nel frattempo i giocatori del Milan si stavano scambiando le maglie con quelli del Marsiglia, con il pubblico del Velodrome che era in festa. Mentre stavamo facendo questi ragionamenti, si spense completamente uno dei quattro piloni con i riflettori. Karlsson a quel punto mi disse che le squadre dovessero rientrare negli spogliatoi, che avrebbero liberato il campo e poi si sarebbe finita la partita. Ci avviammo per andare negli spogliatoi – a cui si accedeva tramite una botola dietro la porta del Marsiglia – ma la botola non si aprì perchè probabilmente era chiusa dall’interno o per la troppa confusione che c’era sul campo. A quel punto rimanemmo tutti lì attorno nel mezzo di un casino generale in cui Papin – che sarebbe poi venuto da noi l’anno successivo – ci stava sputando addosso e con il Velodrome che ci urlava di tutto. I fari a quel punto cominciarono a riaccendersi piano e piano e l’arbitro disse di ricominciare la partita. Tanto è vero che chi guarda il filmato, vede che io e Beckenbauer stiamo tornando verso la panchina, parlottando tra di noi – io non gli ho mai detto che sapevo tutta la storia che mi aveva rivelato Hoeness al telefono – e Gullit si sta rimettendo la maglia per poter rigiocare. In quel momento entrò Galliani in campo – che non era riuscito ad arrivare sul terreno di gioco attraverso gli spogliatoi, ma passando tra il pubblico di casa inferocito – e quello fu un errore”.

ATTUALITA’ -“Se avessi dovuto pensare io a una ripartenza del Milan avrei coinvolto Maldini e Boban oppure Leonardo, ma avrei messo a loro disposizione persone con grande esperienza, da permettergli di non andare allo sbaraglio. Un soggetto alla Ramaccioni, alla Braida o alla Taveggia. Ci voleva qualcuno al loro fianco per permettergli di imparare. Non mi è poi mai piaciuta l’idea che si potesse costruire una società ex novo, andando a prendere un puzzle di soggetti. Quando entrai io al Milan, ad esempio, ci conoscevamo tutti. Facendo come adesso, invece, rischi di mettere più galli nello stesso pollaio. Se una società non funziona, puoi avere anche Gesù in campo, ma non vinci. Il Milan deve poi mantenere la milanesità in società: il modello di business americano non è applicabile da noi. In Italia avviamo una nostra cultura e un nostro modo di pensare”.

Francesco Persili per Dagospia il 13 aprile 2020. Certi amori non finiscono. “Il 13 aprile di tre anni fa abbiamo venduto il Milan. Oggi ho un po’ di lucciconi…”. Adriano Galliani, oggi senatore di Forza Italia e ad del Monza, a #CasaSkySport ripercorre l’epopea rossonera e parla della sua nuova avventura con il club brianzolo. “Prima del virus ero convinto che il 1° luglio 2021 il Monza potesse festeggiare l’approdo in Serie A, è l'unica squadra lombarda a non esserci riuscita. Continuiamo ad avere questa speranza, virus permettendo. I campionati? Mi auguro che possano finire, tutti i verdetti siano decisi sul campo. Il Milan? Trovo inelegante e inutile spiegare a chi è subentrato cosa deve fare. La nuova proprietà deve decidere senza ascoltare i miei consigli. Romanticamente sono legato a tutti i grandi calciatori che abbiamo avuto al Milan. Abbiamo avuto otto Palloni d'Oro. Quando acquistammo il club partimmo da una ossatura ottima, la difesa con Tassotti, Baresi, Galli, Costacurta, Maldini. Poi sono arrivati anche gli olandesi. Quindi Kakà, che ho provato a portare al Monza. Ma anche Sheva. Ronaldinho e Weah, Donadoni, Savicevic, Boban, Desailly... Potrei citare tutte le formazioni del Milan a memoria".

I giorni del Condor. Erano le ultime ore di mercato quelle in cui Galliani tirava fuori il meglio. “Ho iniziato nell’autunno del ’75. Ho capito che i prezzi sono altissimi all’inizio e poi scendono. Il mio maestro è stato Silvio Berlusconi. Molto di quello che sono lo devo a lui…”. Nella lista degli acquisti mancati l’ex ad rossonero inserisce Carlitos Tevez e Roberto Baggio, che poi sarebbe arrivato 5 anni dopo. "Totti? Lo corteggiammo ma voleva rimanere a Roma. Per Del Piero, invece, l’allora ds del Padova Aggradi ci chiese 5 miliardi non me la sentii. E così anche per Cristiano Ronaldo: lo Sporting chiese 16-17 miliardi per un ragazzino di sedici anni... Ricordo che Braida spingeva e io ero preoccupato perché era una cifra mostruosa". Costacurta ricorda di aver segnalato dopo un’amichevole anche un certo Ibra, allora 19enne: “Era fortissimo ma pensavamo che facesse pochi gol – spiega Galliani - Ancora non sapeva calciare. Su questo migliorò grazie al lavoro di Capello e Italo Galbiati. Nell'estate del 2006 avevamo concluso il suo acquisto, la Juventus lo vendeva. Poi anche il Milan fu coinvolto in Calciopoli e finì all’Inter. Arrivò da noi nel 2010. Nell'estate 2012 abbiamo dovuto cederlo, lui non mi ha parlato per oltre un anno. Ibra al Monza? Ne ho parlato con lui ma con la vicenda coronavirus è impensabilissimo”. L’intervento al telefono di Capello offre l’assist a Galliani per ribadire che lui, Sacchi e Ancelotti sono stati i “tre tecnici che hanno fatto la grande storia del Milan”. “Quando sono tornato dal Real ho trovato una squadra che non mi soddisfaceva”, l’appunto di Don Fabio. “Quella stagione è andata così. Ma le sconfitte ormai non me le ricordo più…”. Tra i tecnici che potevano sposarsi con la filosofia berlusconiana di vincere attraverso il bel gioco ci sono Sarri e Guardiola: "L'attuale tecnico della Juve è stato a un passo dal Milan", rivela Galliani. "Guardiola invece lo chiamai due volte nel suo anno sabbatico. Ci ho provato ma non è mai stato vicino a noi..." Spazio poi alla musica, altra grande passione di Galliani. Da “Amici mai” di Antonello Venditti a “I migliori anni della nostra vita” fino a “Se mi lasci, non vale”, utilizzata per convincere Gattuso a non lasciare il Milan, Galliani ripercorre la colonna sonora dei trionfi e racconta anche di un video inviato a Costacurta risalente ad agosto 2003 dopo la vittoria della Supercoppa europea a Montecarlo: “C’era Laura Pausini e ci siamo uniti anche io e Billy”. Nelle immagini si può apprezzare Ancelotti scatenato sulle note di “Non c’è” e Galliani che accenna “Sapore di sale”. Costacurta: “Eravamo così forti e invincibili che pensavamo di essere anche grandi cantanti…”

Dagospia l'8 maggio 2020.“Non sono morto d’infarto perché con quella difesa guidata da Baresi era impossibile prendere gol”. Adriano Galliani interviene a #CasaSkySport per celebrare i 60 anni del “Piscininin” Franco Baresi: “Con lui e Maldini in 196 partite il Milan ha subito solo 23 gol. Una rete ogni 8 partite e mezza. Quando abbiamo acquistato il Milan ci siamo ritrovati una difesa con Tassotti, Costacurta, Baresi, Maldini (e Filippo Galli). Abbiamo ricostruito la squadra su quel blocco. E’ stata la difesa più forte di ogni tempo a livello di club e di Nazionale”. L’ex ad rossonero ricorda la manina di Kaiser Franz e i 24 fuorigioco contro il Real: “Quando lui alzava il braccio, l’arbitro fischiava fuorigioco”. “Abbiamo un po’ esagerato in quella circostanza”, ammette Baresi che incassa i complimenti di Arrigo Sacchi: “All’inizio i ragazzi erano diffidenti. Franco non parlava quasi mai ma è stato un esempio visivo illuminante per tutti. Un uomo generoso, serio. Ha giocato un derby con il braccio rotto. I grandi calciatori sono quelli come lui che giocano con la squadra, per la squadra, a tutto campo, a tutto tempo…”. Costacurta cita una definizione di Brera: “Baresi è dotato di uno stile unico: prepotente, imperioso, spietato. Si getta sul pallone come una belva…”. Lui introverso? Non mi risulta. Al mondiale di Usa ’94 si mise anche a raccontare barzellette…”

Dagospia il 14 ottobre 2020. Da I Lunatici Radio2.  Billy Costacurta è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. L'ex difensore del Milan di Sacchi e Capello ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? Da ragazzo buono, adesso non so cosa sia la notte, la conosco pochissimo, vent'anni fa però le cose erano diverse. Adesso conosco meglio altre parti della giornata. Quando giocavo alcune notti servivano anche per rilassarsi un po' e allentare la tensione, ma la notte per i professionisti, per gli sportivi, deve essere soprattutto riposo. Poi c'è riposo e riposo, io e Maldini, che è stato il mio compagno di merende, andavamo in discoteca, però senza bere e fumare, perché non abbiamo mai bevuto né fumato. Altri invece hanno esagerato, esageravano con l'alcol e le sigarette e la mattina quando si svegliavano per andare agli allenamenti non erano in perfetta forma. Non chiedetemi nomi. Ne faccio solo uno: Nicola Berti. Faceva delle feste meravigliose, da lui ti lasciavi andare. Anche io e Maldini che eravamo un po' bacchettoni. Mi ricordo una nottata in Francia con Dugarry, che era il re delle notti in costa Azzurra...".

Sulla sua infanzia: "Volevo fare il giocatore di basket, ci giocavo fino a tredici anni. Infatti il soprannome Billy nasce come presa in giro verso di me mentre giocavo a Basket. Secondo alcuni giocavo molto meglio a basket che a calcio. A un certo punto mi presero al Milan, e quell'anno dovetti scegliere uno dei due sport. E' stato un incastro perfetto, avevo 14 anni, arrivava il tesseramento, capitò che con la mia squadra di quel periodo giocai contro il Milan e venni notato. Mi prese uno dei settori giovanili più forti d'Europa, si incastrò tutto meravigliosamente. Era vicino a casa".

Costacurta ha perso il papà a diciassette anni: "Non fu facile. La prima convocazione per andare ad allenarmi con il Milan mi arrivò l'8 agosto del 1980. E il 2 agosto c'era stata la strage di Bologna. Mia madre fu quasi costretta a permettermi di andare in treno da Gallarate a Milano. Non fu facile per lei, che aveva già perso una figlia. Lei ebbe il coraggio di darmi il permesso di andare in treno a Milano. Poi dopo tre anni persi mio padre. Ancora oggi ringrazio mia madre per il suo coraggio. Il vantaggio di quel periodo è che arrivando a scuola con la borsa del Milan conquistavo le ragazze con una facilità incredibile. La borsa del Milan tirava molto, io attiravo molto".

Sulla migliore linea difensiva della storia: "Tassotti, Costacurta, Baresi, Madini. Diventammo quello che siamo diventati grazie a Sacchi. Questo pazzo scatenato, e lo dico con affetto, all'inizio non capivamo se era un genio o un pazzo. All'inizio fu difficile accettare la pesantezza dei suoi allenamenti. Poi capimmo. Fu grazie ai suoi allenamenti che ci togliemmo tante gioie. Il rapporto di Sacchi con Van Basten? Non c'era grande sintonia tra i due. L'olandese pensava che il Milan potesse volare anche senza Sacchi. Noi italiani invece pensiamo che senza Sacchi non ci sarebbe stato uno dei Milan più grandi di sempre".

Sui mondiali del 1994: "E' stato raccontato tutto. Io presi una ammonizione in semifinale in Bulgaria contro Stoickov, il pallone d'oro, che faceva delle simulazioni pazzesche. Persi la finale per colpa di quel cartellino giallo. Vidi l'allenamento prima della partita di Roberto Baggio e mi resi conto che non avremmo potuto vincere perché Baggio non stava praticamente in piedi".

Sul rapporto con Fabio Capello: "Per me è stato più che un allenatore. Era il mio mister quando morì mio padre. Prese in un certo senso il posto di mio padre, io lo ringrazierò sempre. Se sono riuscito a superare certi momenti di difficoltà è merito di Capello. Con tutte le sue rigidità, i suoi commenti, per me Capello è stato un padre. Era un grande motivatore, questa è stata la sua forza".

Il più forte con cui ha giocato: "Ho giocato con quattordici palloni d'oro. Rispondere è difficile. Van Basten è arrivato a 23 anni giocando con una caviglia sola. Ronaldo il fenomeno è stato il più difficile da marcare in tutta la mia carriera".

Sul campionato di quest'anno: "Vedremo cosa si inventerà Andrea Pirlo. La Juventus è appena superiore all'Inter per qualità e profondità della rosa. Solo che l'Inter ha un fenomeno in panchina, mentre Pirlo è al primo anno. E credo che l'esperienza faccia sempre bene. Io credo che Pirlo sia un genio, ha una qualità innata di non perdere mai la lucidità, questo è un vantaggio".

Sul momento generale che stiamo attraversando: "Ho un figlio di sedici anni, l'adolescenza è un periodo difficile, in questo periodo ho conosciuto meglio lui ma anche mia moglie. Viverci vicino così mi ha fatto scoprire alcuni lati di lei, questo sia un vantaggio. La conoscenza ulteriore di due persone che io amo alla follia. Se io e Martina litighiamo mai? Sì, anche se io e mia moglie litighiamo soltanto per questioni riguardanti nostro figlio. Stiamo insieme da 25 anni, lei è un po' più ansiosa con nostro figlio, lei a 16 anni è diventata miss Italia, è stata più a contatto con certe regole, io ho avuto più libertà. Abbiamo una diversità di vedute per quel che riguarda la crescita di nostro figlio che ci porta ogni tanto a dei contrasti che riguardano però solo nostro figlio, per il resto ci siamo incastrati perfettamente. Lei mi controlla il telefonino, io invece non l'ho mai fatto".

Sul Milan: "Cosa manca? Berlusconi! Lui guardava la lista dei palloni d'oro e li andava a comprare. Sarò sempre riconoscente a Berlusconi, anche se ho criticato il suo ingresso in politica. Ho criticato spesso i suoi alleati di Governo, una volta parlai bene di Veltroni e Berlusconi si infastidì".

L’Italia del Mondiale ‘94 oggi: chi sono questi azzurri di Sacchi? Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 da Corriere.it. 1994, 17 luglio. I tifosi dell’Italia ci hanno creduto, ma la finale del Mondiale l’ha vinta il Brasile. Gli over 30 la ricordano bene. Ma non è così facile ricordare i protagonisti di questa partita. Franco Baresi, indimenticato capitano del Milan, ha postato su Twitter uno scatto in piscina con alcuni di quei compagni. Li riconoscete tutti? I protagonisti di quella finale si sono ritrovati (quasi) tutti a Fortaleza, in Brasile , per rigiocare quella partita (scopri chi ha vinto), mancavano solo Roberto Baggio da una parte e Dunga e Branco dall’altra. A seguire, lo scatto in vacanza. Li riconoscete? Da sinistra Chicco Evani, oggi 57 anni, centrocampista del Milan, Roberto Mussi, 56, difensore in procinto di passare dal Torino al Parma, Luigi Apolloni, 52 anni, colonna dei gialloblù, Stefano Eranio, 53 anni, centrocampista del Milan, Franco Baresi, 59 anni, che disputò quella finale appena rientrato da un intervento al menisco, e Antonio Benarrivo, 51 anni, terzino destro titolare del Parma e di quella Nazionale.

Daniele Dallera per il Corriere della Sera il 14 giugno 2020. «In Italia chiedono di vincere, mai di giocare bene. Si va per conoscenze più che per conoscenza». Da Milano Marittima il maestro Arrigo Sacchi ha la voce squillante che serve a condire concetti molto chiari. Durante la clausura non ha parlato «perché il calcio è la cosa più importante tra le meno importanti». Ma ora che si riaccende il motore, la saggezza dell'allenatore che ha rivoluzionato il gioco ci guida dentro una ripartenza strana, desiderata, ma sotto certi aspetti assurda con partite senza tifosi, al caldo e ogni tre giorni.

Sacchi, il cultore del bello, è pronto e non rinuncia al suo credo. «Ho difeso lo stile in un Paese in cui lo stile c'è solo nella moda. Lo stile ti aiuta a capire come sarai e dove andrai». Arrigo il calcio che ricomincia dove approderà?

«Vorrei potervi dire che questa terribile emergenza migliorerà la nostra cultura. Ma onestamente non lo penso. In campo mi aspetto le stesse cose e gli stessi atteggiamenti. Dobbiamo capire che il calcio è uno spettacolo e non una questione di vita o di morte».

Sarà lo stesso campionato che abbiamo lasciato il 9 marzo o se lo aspetta diverso?

«È difficile rispondere perché veniamo da tre mesi pazzeschi. Ci sono troppe incognite. Si gioca prima con la testa che con i piedi e non so che segni ha lasciato sui giocatori il coronavirus. E neppure quali saranno le loro motivazioni. Io, per esempio, ho pensato pochissimo a questa ripresa e mi sono concentrato sull'enorme disgrazia che ci ha travolto e alla nostra impreparazione collettiva».

Altri Paesi hanno fatto peggio di noi.

«Usa e Inghilterra hanno affrontato il problema con presunzione e arroganza. L'Italia però è stata approssimativa e ha risparmiato troppo sulla salute negli ultimi 30 anni».

Come ha vissuto il lockdown?

«Benissimo. Per evitare la noia ho fatto sport: passeggiate, palestra e mountain bike lungo i canali per non trovare nessuno. So che non si poteva fare, ma meglio la multa degli antidepressivi».

È felice che si ricominci?

«Lo sono, ma a una condizione: che ci si fermi subito se dovesse capitare qualcosa. Si gioca, e lo capisco, per un fatto sociale e per questioni economiche, altrimenti molti club andrebbero in crisi». 

Chi è favorito?

«Le squadre più mature e più intelligenti, quelle che capiranno come la forza del collettivo venga prima delle qualità del singolo. Non faccio un pronostico, ma un auspicio: sarei contento vincesse chi dà tutto, come ha fatto sino adesso l'Atalanta. E subito dopo ci metto la Lazio, che non ha la stessa intensità dei bergamaschi, ma offre un calcio brioso e internazionale. Giocare bene significa coraggio e avvicinarsi al futuro».

Sarri, un utopista secondo Chiellini, ha il compito di non interrompere la striscia vincente della Juventus.

«Maurizio è un grandissimo allenatore, sa essere autore e direttore d'orchestra, convinto che la squadra migliori i singoli. Lui, Giampaolo e Gasperini devono capire che non sono maghi e hanno poco tempo a disposizione. Credono nelle loro qualità, ma devono farsi prendere i giocatori adatti».

Vuol dire che la Juve non è costruita per Sarri?

«Non ha gli interpreti giusti. Non mi fraintendete: faccio un tifo esagerato per i bianconeri che sono i leader in Italia. Però negli ultimi dieci anni nessuna squadra italiana ha vinto in Europa mentre negli anni novanta dominavamo la scena. Spero che la Juve possa interrompere questa tradizione negativa. Ma per farlo deve comprare elementi che permetteranno a Sarri di esaltare le sue qualità».

L'Inter è terza, staccata dalle prime due e, tra Coppa Italia e campionato, attesa da una partenza difficile e stressante.

«Conte è molto bravo, soltanto che deve rischiare di più e avere più fiducia. Non è un problema tattico, ma di mentalità. Credo che Antonio ci arriverà perché ha la sensibilità dei grandi tecnici. Occorre che si faccia dare i giocatori con le giuste caratteristiche. Non necessariamente dei campioni, ma che possono aiutarlo a realizzare i suoi progetti. Sono convinto che nella prossima stagione l'Inter sarà un pericolo per tutti».

Lei nel Milan non voleva sempre i più forti.

«Volevo i più umili e i più funzionali. Quando ho chiesto Ancelotti mi hanno risposto che, a causa delle ginocchia, aveva il 20 per cento di inabilità e che prenderlo sarebbe stato un rischio. Alla fine ho convinto Berlusconi. Maradona un giorno mi disse: mister con lei corre veloce anche Ancelotti. Gli risposi che Carletto pensa veloce».

Giocare in estate penalizzerà lo spettacolo?

«Al Mondiale americano nel '94 eravamo sulla costa Est con il 90 per cento di umidità, una temperatura sino a 42 gradi e partite a mezzogiorno. Stare a Est voleva dire uscire lessi e invece noi siamo arrivati sino alla finale persa a rigori con il Brasile. Dipende dalla forza mentale e morale del gruppo. Sarà così anche in questa strana estate. Vinceranno i più seri».

È contento delle cinque sostituzioni?

«No perché è una norma che favorisce i club più ricchi».

Il suo Milan era stellare, adesso fatica a lottare per l'Europa League. Cosa deve fare per rinascere?

«Mettere il gioco al centro del progetto e prendere giocatori giusti. Serve un'idea condivisa. Un club viene prima della squadra e la squadra prima del singolo. Non so se il Milan lo ha capito. Ci sono state delle incomprensioni tra Gazidis e Boban e forse anche con Maldini».

E di Rangnick, possibile futuro allenatore, cosa ne pensa?

«Ha qualità, ma in Italia per emergere bisogna conoscere il calcio e la sua gente».

Ultima domanda su Icardi: abbiamo perso un campione lasciandolo al Paris Saint Germain?

«Quando ero supervisore delle Nazionali giovanili ho chiesto a Mauro se voleva vestire l'azzurro. Mi sembrava formidabile. All'Inter ha migliorato la qualità, ma è diventato un giocatore complicato».

Sacchi racconta Baresi: "Chi è davvero Franco" ​E sulla finale Usa '94...In esclusiva per ilgiornale.it Arrigo Sacchi ha voluto fare gli auguri a Franco Baresi ricordando la sua figura come uomo e calciatore: "Esempio in campo e fuori". Marco Gentile, Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale.  Franco Baresi compie oggi 60 anni. L’ex difensore del Milan, bandiera storica del club rossonero è considerato da tutti uno dei più forti difensori italiani della storia del calcio con Gaetano Scirea, Giacinto Facchetti, Paolo Maldini. Baresi fu soprannominato fin da giovane “Piscinin” e in seguito Kaiser Franz in onore al grande difensore tedesco Franz Beckenbauer. Scartato dall’Inter per le sue caratteristiche fisiche, approda al Milan all’età di 14 anni, nel 1974, e dopo tre anni nelle giovanili fa il suo esordio in Serie A nella stagione 1977-78, all’età di 17 anni e 350 giorni. In quell’annata Baresi mette insieme solo tre presenze ed è nella stagione successiva che spicca il volo. Da quel momento in poi disputa altre 19 stagioni da protagonista, di cui 15 da capitano, sempre con la maglia del Milan, 17 anni in Serie A e due in Serie B. Baresi chiude la sua carriera all’età di 37 anni con 719 partite disputate e 33 reti segnate. L’ex fuoriclasse del Milan e del calcio italiano mette in bacheca sei scudetti, quattro Supercoppe Italiane, tre Champions League, una Mitropa Cup, due Coppe Intercontinentali e tre Supercoppe Europee. Con la maglia della nazionale, invece, mette insieme 81 presenze e una rete in 12 anni dal 1982 al 1994 vincendo il titolo mondiale in Spagna nell’82 e perdendo amaramente ai calci di rigore, di cui uno da lui fallito, ad Usa 94. Baresi è attualmente il brand ambassador del Milan e da ben 46 anni ha legato la sua immagine ai colori rossoneri e al club di via Aldo Rossi. In esclusiva per ilgiornale.it, chi lo conosce bene come Arrigo Sacchi suo allenatore per ben dieci anni tra Milan e nazionale italiana ha voluto dedicargli degli auguri speciali ricordando i tempi passati insieme:

Sacchi, oggi è il compleanno di uno dei suoi calciatori prediletti, Franco Baresi:

“E allora voglio fargli tantissimi auguri. Anzi, i migliori auguri di sempre”.

Ci racconta qualcosa del calciatore e dell’uomo?

“Lui è stato uno straordinario protagonista di quel grande Milan non solo per le qualità tecniche ma anche per quella umane e professionali. Aveva una grinta incredibile, era un esempio straordinario per tutto il gruppo. Parlava poco ma pesava tanto nello spogliatoio. Ha aiutato il club a vincere diversi titoli e sono felice del fatto che ne abbia messi in bacheca anche altri di riconoscimenti, anche extracampo”.

Può affermare che sia uno dei più grandi difensori mai allenati?

“Dico di più: per me è stato il più grande difensore italiano e gli sarò per sempre molto riconoscente per quello che mi ha dato come atleta e come uomo. Davvero, per me è stato un vero piacere allenarlo e sono felice di aver contribuito alla sua maturazione con la maglia del Milan”.

Che difensore era Baresi?

“Fisicamente era straordinario, era intelligente tatticamente, aveva senso della posizione e queste caratteristiche le ha sempre avute. Era anche un grande organizzatore di gioco e tutti intorno a lui lo ammiravano, i compagni erano più tranquilli sapendo che potevano contare su un difensore come lui e gli attaccanti lo temevano”.

Lei l’ha anche allenato con la maglia della nazionale dove ci sono ricordi belli e brutti:

“Io l’ho allenato per 10 anni e anche lì in nazionale dimostrò il suo grande attaccamento alla causa”

Che cosa intende dire?

“Baresi era il capitano a Usa 94 ma si fece male contro la Norvegia, nella fase a gironi. Il Milan voleva tornasse alla base ma lui decise di restare lì con noi. Fu operato e io gli dissi che l’avremmo aspettato fino alla finale ma che prima dovevamo raggiungerla e così abbiamo fatto. In soli 25 giorni recuperò dall’infortunio e giocò da titolare con la fascia al braccio contro il Brasile giocando una partita eccellente”.

Purtroppo per l’Italia, per lei e per Baresi quella finale ad Usa 94 fu amara per la nostra nazionale, che ricordi ha di quella partita?

“Io penso che quando una squadra ha dato tutto e quella nazionale diede tutto, non c’è errore dal dischetto che tenga. Quando in Italia attraverso i giornali e la cultura si capirà che questa è la cosa più importante sarà sempre troppo tardi purtroppo".

Da repubblica.it l'8 maggio 2020. Franco Baresi, uno dei liberi più forti della storia del calcio, taglia domani, venerdì 8 maggio, il traguardo dei 60 anni. È stata un'icona dello sport italiano ma soprattutto del Milan visto che di questi 60, 46 li ha vissuti in rossonero. Aveva solo 14 anni quando da Travagliato, piccolo comune in provincia di Brescia, arrivò a Milano. Gli affibbiarono il nomignolo "el piscinin", il piccolino. Lui lo ha tramutato in gigante guadagnandosi, non a caso, in seguito, un altro appellativo, quello di 'Kaiser Franz' in onore a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi di tutti i tempi. Lui e il fratello Beppe partirono con il borsone pieno di sogni, dalla squadra dell'oratorio. Resteranno per sempre nella metropoli, dando vita a tanti derby tra Milan e Inter e tra fratelli. Franco, due anni più giovane, fu scartato inizialmente dall'Inter, ma il Milan colse l'attimo e intuì subito il talento e la grinta di quel giovane difensore.

Con il Milan ha vinto 17 trofei in 19 anni. Il 23 aprile del 1978 esordì a Verona, città simbolo che tornerà protagonista ciclicamente nella sua lunga carriera. In campo con Gianni Rivera, monumento del calcio italiano che gli consegnerà la fascia di capitano, che non mollerà fino al fatidico 1 giugno 1997, nella partita casalinga contro il Cagliari. In quel momento Baresi lasciò la fascia e il campo, ma non il mondo Milan, che diventerà la sua residenza. Dopo 6 anni vissuti nelle giovanili, nel 2008 è entrato a far parte della direzione marketing. Dal 2017, infine, gli è stato assegnato il ruolo di brand ambassador. In questa lunga e indimenticabile parentesi di vita, ha collezionato sul campo 714 presenze totali e ben 31 reti, arrivate anche grazie alla sua abilità dagli 11 metri. Nel mezzo di questo lungo ed esaltante cammino, tante vittorie che hanno segnato l'epopea berlusconiana, con in panchina Arrigo Sacchi prima e Fabio Capello poi: 3 Champions League, 6 scudetti, 2 Coppe Intercontinentali, 2 Supercoppe Europee, 4 Supercoppe Italiane.

Contro la Steaua la vittoria più bella. Tutto iniziò nel 1979, con lo scudetto della stella. Franco decise di non abbandonare la barca durante la tempesta della Serie B, arrivata per ben due stagioni (1980 e 1982). In quel momento si capì che era davvero amore eterno, e lui ne fu ripagato. Con l'avvento di Silvio Berlusconi iniziò a sollevare trofei e a essere considerato uno dei più forti difensori del mondo, ottenendo il secondo gradino del podio del Pallone d'Oro nel 1989, anno dominato da Marco Van Basten. Proprio in quell'anno ci fu Milan-Steaua Bucarest, la prima vittoria europea: resterà la più bella impresa scalfita nel suo cuore.

In Nazionale più lacrime che sorrisi. Tante vittorie, ma anche qualche rimpianto, soprattutto con la maglia azzurra. La sua storia con la Nazionale iniziò con il botto, con un Mondiale vinto nel 1982 da comprimario, senza alcuna presenza in campo. Da lì, altri tre campionati del mondo giocati. Impossibile dimenticare l'amarezza di Italia '90 (terzo posto), ma soprattutto l'incubo di Pasadena, quella lotteria dei rigori che condannò l'Italia in finale nel mondiale americano contro il Brasile nel 1994. Suo uno degli errori dal dischetto, che non cancellò una delle migliori partite disputate in carriera da Baresi, arrivata dopo un'operazione al menisco subita solo due settimane prima. Annullò sul campo il grande Romario, ma le sue lacrime restano ancora oggi negli occhi di tutti. Così come resteranno nella storia le sue lacrime d'addio nel 1997, quando decise di consegnare la sua fascia da capitano a Paolo Maldini, un altro predestinato. Da quel giorno la maglia numero 6 non è stata più indossata da nessuno. Un numero diventato leggenda.

I 60 anni di Franco Baresi, il giocatore rossonero più forte del secolo. Carlo Pellegatti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Auguri, Capitano! Franco Baresi compie sessanta anni. Quanto tempo è passato da quando era per tutti “Piscinin”. Il piccolino, certo, per i suoi 164 centimetri, che convincono Atalanta e Inter a scartarlo dopo il primo provino nel maggio del ’74. Troppo basso, troppo esile. L’allenatore della sua prima società, U.S.O. Travagliato, allora parla con Italo Galbiati, il tecnico da poco passato dall’Inter al Milan, cercando di convincerlo a provare anche con la maglia rossonera. Nell’allenamento decisivo, davanti a Trapattoni, allenatore del Milan, Sandro Vitali e Gianni Rivera, già sorprende per intelligenza, senso della posizione, grinta e determinazione. L’accordo è presto raggiunto per la cifra di un milione e mezzo. Con una clausola particolare, legato a ogni centimetro di crescita. Per fortuna un bonus legato all’altezza fisica, non a quella tecnica: altrimenti il Milan avrebbe dovuto pagare… una fortuna! Nel 1977 debutta nella formazione Primavera, ma è Nils Liedholm ad avere il coraggio e l’intuizione, come qualche anno dopo con Maldini, di lanciarlo in prima squadra. Il suo debutto avviene a Verona, il 23 aprile 1978, a causa dell’infortunio del titolare Turone. Ma nella stagione successiva, il tecnico svedese non esita a schierarlo addirittura titolare nel Milan che conquista lo Scudetto della Stella. Comincia così la leggenda di Franco Baresi, “L’Immensità che diventa regola”! Una grandezza che viene confermata, partita dopo partita, grazie non solo alle sue qualità tecniche, ma anche a una spiccata personalità, al prepotente carisma, incredibile per la sua età, a un formidabile spirito di sacrificio. Straordinario poi l’attaccamento a una maglia che indosserà per 718 partite, in venti stagioni che lo hanno visto vincere sei Scudetti, tre Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, tre Supercoppe europee, quattro Supercoppe italiane. Diventa presto anche “Mahatma, la grande anima” di un Milan, quello degli Immortali di Arrigo Sacchi, che viene eletto la più forte squadra di Club di tutti i tempi. È il superbo ed epico punto di riferimento anche con Fabio Capello alla guida degli “Invincibili”, bravi a vincere quattro scudetti su cinque dal 1992 al 1996, conquistando tre finali di Coppa dei Campioni. Indimenticabile il trionfo di Atene sul Barcellona, battuto 4-0. Franco non gioca la finale per squalifica, ma il gruppo di Silvio Berlusconi è composto da grandissimi campioni, soprattutto nel reparto arretrato che entra nell’Empireo Platonico, il più alto dei cieli del calcio mondiale. Una difesa, comandata dal numero sei milanista, difesa che molti hanno paragonato per compattezza, saldezza e forza alla Falange di Filippo II di Macedonia. Nella leggenda di Franco Baresi, un solo rimpianto legato al Mondiale giocato negli Stati Uniti, nel 1994. In maglia azzurra, sfiora infatti il titolo di Campione del Mondo, che avrebbe potuto conquistare da Capitano. Nel 1982 infatti è nel gruppo di Bearzot, che alza il trofeo in Spagna, però senza giocare un minuto. A Usa ’94 invece, dopo aver recuperato in 23 giorni da un operazione al menisco, un altro dei suoi record straordinari, gioca la finale di Pasadena, urlando prima di dolore per i crampi e la sofferenza nel caldo infernale, ma poi piangendo, consolato da Arrigo Sacchi, dopo la crudele sconfitta ai rigori, figlia anche del primo penalty sbagliato proprio da lui. Debole consolazione il riconoscimento di migliore in campo, ancora una volta il più bravo di tutti. L’omaggio più giusto e commovente alla fine della sua magnifica carriera. Il Milan decide di ritirare la maglia numero 6, che dunque nessun altro giocatore indosserà mai più. In onore del suo Capitano, eletto giocatore rossonero più forte del secolo, del suo “Uomo che cadde sulla terra”. E allora Buon Compleanno, Franco BaresiFran. 6 per sempre!

Franco Baresi: "Il Milan è la mia vita, mi ha forgiato". Nel giorno in cui compie 60 anni l'ex campione si racconta. Gli aneddoti di una carriera vissuta tutta con la maglia rossonera. Enrico Currò l'8 maggio 2020 su La Repubblica. "Il Milan è la mia vita: mi ha forgiato", si racconta il campione, attempato solo perché così dice il tempo che passa, sessant'anni oggi per l'anagrafe. Ma un fuoriclasse è eterno e lo sa. Franco Baresi si racconta in videochat, al modo nuovo della pandemia: parole poche, è sempre stato così, e immagini ogni tanto a scatti, colpa della connessione, tanto conta il senso: asciutto, preciso, scarno: "Sento spesso i miei parenti a Travagliato, per fortuna il mio paese è stato colpito poco. Ma mi hanno raccontato l'atmosfera che c'era nella provincia di Bergamo e Brescia, tremenda. L'Italia è stata messa a dura prova. C'è una ferita profonda, che sarà dura rimarginare. Penso alla sofferenza di chi ha perso i propri cari, di chi ha vissuto in prima linea a contatto con la morte. E' stato qualcosa di devastante da vedere". Il legame con la terra resta forte. A Travagliato, paese di agricoltori e carpentieri e calciatori a un quarto d'ora di bus da Brescia, quarantasei anni fa Franchino era pronto per l'Uso, non per l'Inter: infatti finì al Milan e lì fece la storia. Che oggi, sessantesimo compleanno dell'ex gracile ragazzino diventato monumento del calcio italiano, è decisamente leggenda. Dove poi finisce la leggenda - a seconda degli aedi, Franchino fu scartato dall'Inter appunto perché troppo gracile, nel provino nerazzurro in cui presero suo fratello di due anni più grande, oppure scelse la sponda rossonera per sfuggire all'inevitabile confronto con Giuseppe - comincia la legenda. Uso sta per Unione Sportiva Oratorio, la squadra di Travagliato, culla anche di altri giocatori di Serie A, come Lorini del Milan e Pancheri dell'Inter. Ma soprattutto, Franchino e Beppe sono i fratelli Baresi: dal 1978 al 1992 si sono sfidati nel derby di Milano. Franco ha vinto più di Beppe. E' stato tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta il migliore difensore del mondo. Ha sfiorato il Pallone d'oro, battuto secondo prassi da un centravanti, però mica da uno qualunque: dal suo compagno Marco Van Basten, fabbricante di gol capolavoro. Nelle sue venti stagioni di carriera ha vestito soltanto la maglia del Milan, oltre a quella della Nazionale, che ne era logica conseguenza. E' sceso in Serie B per due volte e da lì ha scalato l'Everest del calcio. Quando ha smesso, il 1° giugno 1997, il suo numero 6 è stato ritirato: nessuno, al Milan, lo potrà più portare: "Fu un gesto emozionante per me. C'è stata sempre riconoscenza nei miei confronti da parte della società, Berlusconi giocò d'anticipo e sorprese tutti". I sessant'anni di Franco Baresi sono nella dichiarazione d'amore: "Il Milan è la mia vita: mi ha forgiato". Però la sua non è soltanto una festa milanista.

Libero di fare sognare. Baresi II, così denominato per per distinguerlo dal suddetto Baresi I, sbocciò al calcio nelle giovanili rossonere. Anno 1974, numerazione romana ancora vigente per i fratelli calciatori: i mitici Sentimenti I, II, II, IV e V, modenesi di Bomporto nati tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, l'avevano portata appunto fino al cinque. Franchino, non ancora Franco, perse presto mamma Regina e papà Terzo, agricoltore, investito da un'auto non lontano dall'oratorio. A casa erano in cinque figli: Angelo, Lucia, Beppe, Franchino, Emanuela. Si concentrò sul calcio: la stoffa c'era, la personalità pure. Era un libero, ruolo antico se sotteso all'implicito catenaccio all'italiana, quasi una sorta di spazzatore d'area, e invece modernissimo, se interpretato in base all'evoluzione della specie, culminata in un felice meticciato tecnico: quello tra gli esteti dell'anticipo e della scelta di tempo - a calamitare il pallone nella propria area - e i raffinati costruttori di gioco, eleganti nell'avanzata da dietro fino alle soglie dell'area altrui. Facchetti e Beckenbauer e Krol, infine Scirea e lui, sinonimo di stile frammisto a concretezza. Rimase libero per definizione anche sotto il regno di Sacchi, rivoluzionario della zona e della difesa in linea: libertà, tipica dei fuoriclasse, di immaginare passaggi e coperture del campo precluse agli altri. Sbrigativi detrattori lo fotografavano nell'atto di alzare il braccio per chiamare il fuorigioco, trappola sacchiana basata sulla frazione di secondo: Baresi era ben altro. L'aneddotica più remota lo pesca minorenne, con Pippo Marchioro allenatore che lo rimprovera per qualche eccesso di sganciamento in avanti, però gli profetizza anche un'ottima carriera. Lo battezzerà al grande calcio Nils Liedholm, maestro aperto alle novità: dopo avere pensato all'arretramento di Bigon, non tarderà ad accorgersi che il libero lo aveva già in casa, giovanissimo: "Ho incontrato tante persone, lungo il mio cammino. Quattro, su tutte: Rivera, Liedholm, Berlusconi e Sacchi. Liedholm mi ha dato fiducia. Era bravissimo con i giovani. Mi ha lanciato in un ruolo di solito riservato ai più esperti e mi ha fatto esordire in Serie A contro il Verona, al Bentegodi". Era il 23 aprile 1978: "Vincemmo 2-1. Non giocai benissimo, ma la vittoria aiuta. I compagni furono eccezionali con me. Negli spogliatoi c'era anche Nereo Rocco. Mi fece diventare rosso per una battuta in dialetto triestino, quando mi vide: "Ciò, mona, te ga zogà anca ti?". Aveva giocato anche lui, il "Piscinin", come lo chiamavano all'inizio, nel senso dell'apprendista, del garzone. Piscinin, ma nient'affatto arrendevole. Su quella partita circola un altro aneddoto: a Gianni Rivera, il celebre capitano, a un certo punto il non ancora diciottenne Baresi si sarebbe rivolto senza soggezione: "Allora, me lo passi il pallone?".

Un capitano di 22 anni. Certo è che quella frase, se davvero ci fu, non spezzò l'incantesimo: i campioni si fiutano: "Rivera è stato il mio capitano. Da lui ho imparato tantissimo, anche se l'ho avuto solo un anno, era a fine carriera. Mi è servito molto quell'anno, in cui vincemmo lo scudetto con una squadra che non era favorita. Se penso a Liedholm e a Rocco, mi vengono i brividi". All'epoca spense l'emozione spendendo buona parte del premio scudetto per comparsi una Golf grigia da 9 milioni di lire. Era un calcio più povero e presto fu anche un povero Milan: due retrocessioni in Serie B, la prima per il calcioscommesse, la seconda sul campo. Ma Baresi non tradì mai la causa: nemmeno quando, nel 1982, le voci di calciomercato lo accostarono alla Juventus, dove avrebbe certamente guadagnato di più: "Il ricordo più brutto è quello della seconda retrocessione: per un'infezione da stafilococco rimasi fuori da ottobre a febbraio. Comprarono Venturi per sostituirmi. Fu un'annata balorda. Ma quelle sulla Juve erano solo voci, a me non era mai arrivata la richiesta e penso anche che il Milan non abbia mai voluto vendermi. Comunque io sono cresciuto in questo club e non ebbi mai nemmeno il pensiero di andarmene. Quell'anno, poi, mi fecero capitano: a 22 anni, non so se ero pronto ma ho imparato strada facendo. La mia decisione è stata ricambiata, diventare capitano è stato un onore e uno stimolo enorme. E al Milan mi sono preso tutte le soddisfazioni possibili". Capitano lo è rimasto per quindici stagioni: "Il segreto, quando porti la fascia, è di farsi valere sul campo. All'inizio stavo zitto, perché ero giovane e non contavo niente. Dovevo essere un punto di riferimento con il comportamento. Ho cercato di essere sempre un uomo sincero, di avere coraggio e di ispirare i compagni, senza lasciare indietro nessuno". Da capitano a capitano, la staffetta è stata perfetta: Rivera, Baresi, Maldini. Un'eredità del genere, oggi, può pesare a Romagnoli? "Alessio è uno tra i giocatori migliori in Italia. E' al Milan da diversi anni e credo che stia capendo l'importanza della maglia rossonera. La fascia al braccio è un pezzo di stoffa, ma ha effetti incredibili su chi la indossa". Traduzione: sono le vittorie a renderla storica: "Io ho avuto la fortuna e il privilegio di avere per trent'anni Berlusconi presidente. È stato lungimirante e per me fondamentale. Ha portato la sua mentalità vincente dentro una squadra di calcio". Con Sacchi, visionario di un gioco inedito, non scoccò subito la scintilla, ma Baresi smentisce: "Arrigo è stato quello che mi ha completato e migliorato sotto tanti punti di vista. Ha introdotto una cultura del lavoro diversa. Preparava le gare in maniera nuova, rispetto al metodo abituale dell'epoca. I suoi primi due anni furono formidabili. Lo scudetto del 1988 fu pieno di sorprese: praticavamo un calcio completamente nuovo. L'anno dopo tornammo in Coppa dei Campioni e la vincemmo: in poco tempo eravamo arrivati in cima al mondo, un momento grandioso".

Nazionale senza rimpianti. In Nazionale ha giocato 81 partite, chiudendo da capitano. Eppure la sensazione è che qualche ferita sia stata lenita soltanto dal tempo. Enzo Bearzot, dopo qualche tentativo di schierarlo da mediano per farlo coesistere con Scirea libero, non lo portò al Mondiale del 1986 in Messico: "Divergenze normali. La verità è che io ho vestito due maglie, quella del Milan e quella della Nazionale. E che ho fatto tre Mondiali, con un primo, un secondo e un terzo posto: non so quanti calciatori possano dire la stessa cosa. Certo, ero dispiaciuto per non essere andato in Messico. Ma io posso solo ringraziare Bearzot. Nell'82 ero retrocesso con il Milan in Serie B, eppure lui mi convocò per il Mondiale di Spagna. Partecipare a quella coppa del Mondo mi ha fatto vivere momenti straordinari e ha mitigato la delusione per la retrocessione. È stata un'esperienza che mi ha fatto crescere molto. Bearzot voleva vedermi giocare in coppia con Scirea, per questo provò anche a cambiarmi ruolo". Dopo il terzo posto di Italia '90, tra le immagini simbolo del titolo sfiorato a Usa '94 c'è quella del rigore sbagliato a Pasadena, nella finale col Brasile: "Tenevo moltissimo a quel Mondiale perché ero capitano, c'erano tanti compagni di club e Sacchi allenatore. Quando mi infortunai, alla seconda partita, il mio morale era sotto i tacchi, vedevo che si stava frantumando la mia occasione. Devo solo ringraziare i miei compagni per aver giocato la finale, la squadra dimostrò grande carattere. E' stato un successo giocare la finale a 23 giorni dall'operazione al ginocchio, poi i rigori fanno parte del gioco. Anni dopo ci è andata meglio, nel 2006, sempre ai rigori". Nemmeno il Pallone d'oro mancato, nel 1989, è un rimpianto: "Ci sono andato vicino in due occasioni, ma davanti avevo Van Basten: quali rimpianti dovrei avere?".

Giocare per passione, come all'oratorio. Quella del sessantenne campione - che al Milan è poi rimasto da dirigente, da allenatore delle giovanili (salvo una brevissima parentesi nel Fulham) e ancora da dirigente, nel classico legame indissolubile - è stata una carriera felice. Segnava poco, ultimo gol in campionato nel 1995 a Padova, allenatore Fabio Capello, altro ciclo vincente: sgroppata improvvisa, triangolo dettato all'allora futuro Pallone d'oro e attuale presidente della Liberia George Weah, controllo sopraffino tra petto e palleggio aereo, tocco breve di giustezza: il tocco dell'artista: "Penso alla mia infanzia e alle tappe che ho dovuto affrontare. Sono arrivato adolescente e oggi ho 60 anni. Dare consigli al cuore dei giovani di oggi non è semplice. Ma l'aspetto umano è fondamentale. Lo sport deve essere fatto con amore e passione". Tutto è partito dall'oratorio di Travagliato, luogo di una memoria da non cancellare: ormai i ragazzi non crescono più al calcio in quei laboratori di artigianato del pallone, che erano scuole in cui continuare a imparare in infiniti pomeriggi dietro il pallone, dopo la scuola: "Sì, sono cresciuto lì. Gli oratori erano fondamentali per i giovani e per la loro crescita. Ma più del luogo credo che siano ancora più fondamentali le persone che gestiscono i ragazzi, anche oggi: devono trasmettere valori che vanno anche oltre il calcio". L'oratorio dopo l'oratorio, per l'ex "Piscinin", è stato il Milan, che oggi non è più lo stesso dei grandi trionfi: "Ne ho viste tante, sia sul campo sia da dirigente. In ogni club ci sono dei cicli, che prevedono anche dei cambiamenti. Ci sono stati cambi di proprietà, negli ultimi tempi. Berlusconi è rimasto per 30 anni e la continuità aziendale, di sicuro, è un punto a favore. Oggi c'è tanta concorrenza, non è semplice perché vanno rispettate diverse regole, come il Fair Play Finanziario. Penso che il Milan, comunque, possa tornare in alto". Come in un'eventuale top 11 ideale, che Baresi si astiene dal declamare: "Come faccio a trovarne undici? Ho avuto la fortuna di aver vissuto tante formazioni e non voglio dimenticare nessuno. Ho avuto compagni meravigliosi, tanti campioni. Posso dire che il Milan deve imporre il proprio gioco con coraggio e non avere paura. Questo aiuta a crescere".

Rangnick chissà, Van Dijk un sogno. Sul nome del tedesco Ralf Rangnick, accostato alla panchina per la prossima stagione e per un progetto a medio-lungo termine, nonché ammiratore dichiarato del gioco di Sacchi, il campione esteta non casca nel trabocchetto, però nemmeno boccia il candidato: "Non bisogna mai essere prevenuti rispetto alle novità. Questa è una mia prerogativa. Poi ci mancherebbe, ora c'è un allenatore e una proprietà che decide, ci sono le persone che dovranno scegliere per il meglio. Credo che alla base debba esserci sempre il club: non c'è bisogno di individualismo, ma di coesione. Bisogna pensare insieme, senza dimenticare la storia di questo club e la sua filosofia". Paolo Maldini dirigente è la storia del Milan: deve rimanere? "E' difficile rispondere, quando non sappiamo come la pensa. Eviterei di fare supposizioni: sappiamo chi è Paolo e che cosa ha fatto per il Milan". Di una cosa Baresi è certo: Donnarumma farebbe bene a restare: "Le opportunità sono diverse rispetto ai miei tempi, dare consigli è sempre molto difficile. Ma se fossi Donnarumma, non esiterei a rimanere". Il Milan era abituato a dominare il mercato, ma il suo potere d'acquisto non è più lo stesso: certi giocatori, per ora, si possono solo sognare: "Il difensore che mi piace è van Dijk. La sua annata è stata strepitosa, mi ha impressionato. Al Liverpool ha fatto la differenza per la sua padronanza, per la personalità. Hanno speso tanto per prenderlo, ma credo che sia stato davvero un grande colpo". La speranza meno proibita, oggi, è un'altra: il ritorno al calcio giocato, perché sarebbe l'inizio del ritorno alla normalità: "So che tutti gli appassionati sperano che il campionato riparta e che possa essere portato a termine. Io mi metto nei panni dei giocatori e so che non è facile. Giocare in stadi vuoti non è semplice. Ma se saranno in sicurezza e se ci saranno dei comportamenti responsabili, credo che sia giusto provare, per dare alla gente anche un po' d'allegria e di svago. Per dare una speranza in più. Certo, anche il calcio deve dimostrare di essere un esempio, di avere il senso di responsabilità. Io mi auguro che il campionato si possa finire: saranno le autorità a dire quando".

Pietro Paolo Virdis. Dagospia l'11 maggio 2020. Da Le Lunatiche.

Sulla sua attuale professione di ristoratore: La mia è una scelta logica, visto che è sempre stata una passione anche durante i miei anni di professione calcistica, mi è sempre piaciuto, insieme a mia moglie, assaggiare i vini, fare delle belle cenette. Quindi è un fatto consequenziale che poi è diventato anche una professione. Per quanto riguarda l’aspetto calcistico, ho provato ad allenare per qualche anno ma evidentemente non era una cosa mia, quindi mi son buttato su una roba che era un’altra passione e quindi posso dire di aver avuto la fortuna di fare nella vita due cose a cui mi appassionavo, prima il calcio e adesso cibo e vino. Da ristoratore la ripartenza è durissima, noi in questo momento abbiamo la possibilità di vendita a domicilio di vino. Non abbiamo fatto il delivery, anche perché un piatto di spaghetti con la bottarga messi nel cartone o nella plastica non credo che abbiano lo stesso gusto, quindi abbiamo deciso di non farlo. Le uniche cose che portiamo a casa sono le bottiglie di vino, dei vasetti e altre cose che non vengono condizionate dal trasporto. Quindi aspetteremo ligi l’1 di giugno a meno che non ci siano degli anticipi.

Su Arrigo Sacchi: Sacchi è stato un rivoluzionario, un allenatore con cui non è stato facile iniziare ma che poi ci ha convinto e ci ha trascinati in questa grande avventura. Era un ottimo motivatore, ha avuto dalla sua la fortuna di trovare tutti insieme grandi giocatori, ma lui è stato bravo a metterli assieme e a creare un gioco che ha portato addirittura quella squadra ad essere considerata una delle più grandi di tutti i tempi se non la più grande. È stato il culmine di un inseguimento che abbiamo potato avanti per lunga parte del campionato, il Napoli era davanti a noi, però noi non abbiamo mai avuto un attimo di dubbio, ci arrivavano delle notizie da Napoli, anche loro erano in gran difficoltà e noi abbiam trovato stimoli ancora maggiori. Siamo riusciti ad arrivare alla partita con una carica enorme ma siamo riusciti a vincerla e poi a vincere un campionato che è stato il primo e credo anche storico. Noi abbiamo fatto del nostro meglio, non ho mai creduto alle chiacchiere che sono venute fuori sul Napoli e lo scudetto che avrebbero perso di proposito, le chiacchiere occorre che vengano dimostrate in pratica. Noi abbiamo avuto sempre un forte confronto negli spogliatoi per trovare una quadra sul nostro gioco e qualcosa del comportamento di Arrigo non piaceva a Marco, lo sapevamo tutti. Sono idee che son venute fuori.

Su Franco Baresi: Baresi è stato un giocatore favoloso, io me lo ricordo agli esordi, ho qualche anno in più di lui quindi me ricordo bambino scendere in campo lanciato da Liedholm in un Milan che vinse la stella. Vedere un ragazzino che affrontava il campo con quella spregiudicatezza, con quella grinta e quella decisione era bellissimo. Ancora di più rispetto agli anni della maturità. I primi anni sono stati fantastici, perché giocava senza freni, veniva avanti a partecipare alla manovra e addirittura concluderla, poi nel tempo ho imparato a conoscerlo, non è mai stato un grande chiacchierone.

Su Silvio Berlusconi: Berlusconi quando inizialmente lo abbiamo visto arrivare eravamo tutti molto curiosi per il modo in cui si proponeva, però ci è voluto poco tempo per capire chi fosse, aveva le idee molto chiare. Arrivava velocemente a farsi conoscere e poi a conoscere il Milan ed è stato di parola.

Sul calcio: Allora si giocava a uomo poi, con Liedholm è partito il calcio a zona, quindi la possibilità di esprimersi meglio, anche per l’attaccante. Nei tempi precedenti gli attaccanti più duri saranno stati Vierchoood, Ferri dell’Inter. Sicuramente oggi mi sarei trovato meglio, c’è più spazio per l’attaccante. C’è un lavoro e un’intesa maggiore nel gioco di squadra, però oggi l’attaccante ha più possibilità di realizzare rispetto a prima.

Sullo scudetto del Cagliari: La partita Bologna-Cagliari all’Amsicora mi vide presente insieme a mio padre, feci anche invasione di campo. Ho assistito alla grande vittoria del Cagliari di Riva, peccato per gli infortuni che poi Riva ebbe, perché quella squadra avrebbe meritato qualche scudetto in più, che non ha potuto raggiungere. Però ancora se ne parla, si celebra, questo è bellissimo, quest’anno sono cinquant’anni e quindi gli auguri oltre che ha Franco vanno al grande Cagliari.

Sulla Juventus: Andai alla Juventus molto giovane, avevo volontà di rimanere ancora in Sardegna perché avevamo fatto degli spareggi per la serie B che ci avevano visti perdenti, quindi chiesi al presidente di farmi restare ma lui mi rispose che non avevano più soldi e dovevano vendermi. Non credo che alla Juventus abbiano mai preso bene il fatto che un ragazzino non volesse andarci. Poi alla Juve ho avuto dei problemi, malattie, situazioni difficili che non sono riuscito a gestire quindi quegli anni sono stati molto complicati.

Su Zico: Con l’Udinese ho fatto due anni, purtroppo il primo mi ruppi la gamba e saltai cinque mesi, quindi il primo anno viene a passare. Il secondo anno in questa società che voleva lanciarsi in alto, arrivò anche Zico, uno dei grandi giocatori di quei tempi. Fu una cosa fantastica, un trascinatore per tutti noi che riuscimmo a combattere fino alla fine per una posizione in Uefa che per una città come Udine sarebbe stata un ottimo raggiungimento. Zico una persona solare, molto piacevole, molto umile, con cui è stato molto facile andare d’accordo.

Sulla nazionale: Ho vestito la maglia azzurra meno di quello che avrei meritato, forse perché ho sempre trovato giocatori più forti che me lo hanno impedito, credo che sia questo il motivo principale. Forse qualche presenza potevo farla ma a quei tempi tutte le squadre avevano grandi attaccanti italiani, quindi non è stato facile. Mi sono preso soddisfazioni con le giovanili, con le olimpiche, qualche maglia azzurra ce l’ho ancora.

Sulla ripartenza della Serie A: In questi giorni siamo al primo “libera tutti”, già sentiamo che c’è troppa gente per la strada o almeno così lamentano i media. I numeri da noi sono abbastanza alti, è sempre complicato per chi deve decidere. Anch’io faccio fatica a dire cosa sarebbe giusto fare. Agli allenamenti vediamo già che ci sono dei giocatori con degli addetti che sono infetti, è complicato.

Sebastiano Rossi: "Berlusconi, Capello, Sacchi, vi racconto tutto del mio Milan". In esclusiva per ilgiornale.it, l'ex portiere Sebastiano Rossi ha toccato diversi temi tra cui il Milan, la Coppa Campioni del 1994, Sacchi, Capello, Berlusconi e molto altro ancora. Marco Gentile, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Sebastiano Rossi è stato uno dei portieri italiani più forti degli anni ottanta-novata. Il 55enne di Cesena dopo anni di gavetta tra Forlì, Cesena, Empoli e Rondinella Marzocco, nel 1990 approda al Milan dove diventa quasi subito protagonista. Nel 1990-91 con Arrigo Sacchi in panchina non riesce a trovare molto spazio ma nonostante questo raccoglie 18 presenze stagionali. Nella stagione successiva, però, diventa titolare inamovibile di uno dei club più vincenti e gloriosi della storia del calcio italiano e mondiale. Con la maglia del Milan Rossi vince tutto: cinque scudetti, tre Supercoppe Italiane, una Coppa Intercontinentale, due Supercoppe Europee e una Coppa dei campioni, quella vinta dai rossoneri ad Atene con un nettissimo 4-0 contro il Barcellona. In esclusiva per ilgiornale.it l'ex portiere di Cesena ha toccato diversi temi tra cui la situazione attuale del calcio italiano il Milan, Capello, Sacchi, la nazionale e molto altro ancora.

Rossi, sembra che si tornerà in campo a metà giugno dopo lo stop forzato per la pandemia da coronavirus. Lei è favorevole alla ripartenza?

"Diciamo che l'Italia non può vivere senza calcio, questo è poco ma sicuro. Penso anche che per il bene di tutti bisognerà fare molta attenzione per evitare contagi: non sarà una scelta difficile da prendere. Chiaro che se si dovesse riprendere si dovrebbe mantenere un regolamento ben preciso perché la paura è che possa cambiare qualche regola".

Cosa intende con "cambiare qualche regola"?

"Penso alla marcatura a uomo che non si potrà più fare, ad esempio (ride; ndr). A parte gli scherzi mi auguro per il bene del calcio che si riparta e che si possa giocare realmente a calcio e che non diventi una cosa artefatta. Già non sarà bello vedere gli spalti vuoti, speriamo che si possa vedere del vero calcio. Comunque sono favorevole ad una ripresa".

Lei è stato una colonna per dodici anni del Milan, cosa ne pensa dell'attuale situazione societaria?

"Io parlo di rendimento di squadra perché altro non posso dire non essendo al corrente di altro. Penso che le aspettative fossero ben altre però questa è una squadra giovane e spero che la società possa nei prossimi anni ricostruire una squadra all'altezza del suo nome e del suo blasone per riportarla in alto, dove merita".

Boban è stato licenziato e pare che anche Maldini possa lasciare il Milan a fine stagione. Cosa ne pensa dei suoi ex compagni di squadra?

"Maldini e Boban sono stati grandi in primis due grandissimi calciatori e in secondo luogo sono grandi miei amici. Al di là di questo io non sono certo che Boban sia stato cacciato e non sono certo che Maldini sarà cacciato. A mio avviso, conoscendoli, la decisione di lasciare l'ha presa Zvone e in futuro, nel caso la prenderà, sarà Paolo a decidere se rimanere o meno. Sono ragazzi troppo onesti per fingere e stare in una situazione di mezzo, lo dico perché li conosco bene".

Si può dire che il ricordo più bello che ha con la maglia del Milan è la famosa finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona nel 1994?

"Quella è stata davvero una grande emozione, è stato il finale di una stagione calcistica che a volte può finire con una vittoria, altre no. Noi vincemmo la Coppa dei campioni e fu davvero qualcosa di incredibile contro una squadra molto forte come il Barcellona. Serata memorabile che rimarrà per sempre impressa nella mia mente".

C'è qualche compagno di squadra con cui ha legato particolarmente nei suoi anni al Milan?

"Ai tempi del Milan ho davvero legato con tutti, farei un torto a qualcuno se facessi solo qualche nome. Ho avuto la fortuna di conoscere in primis grandi campioni e tutte persone di grandissimo livello morale".

Sacchi e Capello sono stati due allenatori fondamentali nella sua carriera: che ricordo ha di entrambi?

"Premesso che da tutti gli allenatori avuti in carriera ho imparato qualcosa, nel caso specifico posso dire che sono stati due grandi maestri. Su Sacchi non c'è niente da dire perché lo conosco da quando avevo 15 anni da quando vincemmo il tricolore con squadra Primavera del Cesena. Mi ha visto crescere e io ho visto crescere lui come allenatore, ha dato svolta al calcio mondiale, bisogna dire le cose come stanno. Per quanto riguarda Capello, invece, e non lo dico solo per le vittorie che ho raggiunto con il suo Milan posso dire che è uno degli allenatori ai quali mi sento più legato, senza togliere niente agli altri".

Eppure van Basten ha usato parole dure contro Sacchi nella sua biografia. Cosa ne pensa di quelle parole?

"Purtroppo la biografia di Marco non l'ho letta... La leggerò ma sicuramente penso che non facciano bene a nessuno queste parole, né ai protagonisti ma nemmeno ai lettori. Penso non sia il modo giusto per far conoscere le proprie vicessitudini durante una carriera calcistica. Lo dico in termini generali: parlare in modo negativo di persone sui libri e sul giornale non è da persona di carattere. Lungi da me accusare van Basten e difendere Sacchi però mi sembra che con Sacchi allenatore Marco abbia comunque vinto due palloni d'oro e due Coppa Campioni..."

Passiamo ad un tasto dolente, la Nazionale italiana: Sacchi non la convocò per il Mondiale di Usa 94. Ci rimase male?

"Penso che in quel Mondiale avrei meritato di esserci e lo dico senza polemica, presunzione e senza nulla togliere ai miei tre colleghi convocati. Magari con me in porta non saremmo mai arrivati in finale, ma ripeto penso che avrei meritato di esserci per quanto fatto con il Milan e per i tanti calciatori rossoneri convocati in quella nazionale. Ma nessuna polemica"

Tanti ricordano il suo brutto gesto quando stese Bucchi in quel famoso Milan-Perugia. Cosa si sente di dire in merito?

"L'ho rivisto tante volte e devo dire che fu un gesto eclatante ma io non volevo fare male a nessuno, davvero. Rivederlo in tv mi ha fatto strano, non volevo fargli male ma non è sicuramente un gesto da insegnare alle giovani leve. Alla fine non si è fatto male nessuno a livello fisico e sono felice di questo, ma il gesto rimane ed è un stato un errore che ho ammesso e per il quale ho pagato con la squalifica".

Da quel momento in poi un giovane Abbiati prese le chiavi della porta del Milan, le diede fastidio?

"No, Christian è veramente un ragazzo d'oro, umile, intelligente e quindi sono stato molto contento per lui in quel momento. Abbiati non c'entra niente si è guadagnato il posto da titolare sul campo".

Ha qualche rimpianto in carriera?

"Direi di no, nessun rimpianto, davvero".

Quanto sono stati importanti per lei e per il Milan due grandi personaggi come Berlusconi e Galliani?

"Non basterebbe un giorno intero per parlare di due leggende simili. Ho avuto la fortuna di conoscere due grandissime persone e mi porto dietro i loro insegnamenti sempre ben presenti nella mia mente Al di là del risultato erano sempre persone vicine a tutti i giocatori, un grande esempio per tutti, davvero".

Lei era in campo nel derby del 6-0, una grande serata per i colori rossoneri...

"Fa sempre piacere vincere in questo modo un derby perché quando scendi in campo cerchi di batterlo, di massacrarlo l'avversario, sempre sportivamente parlando. Il 6-0 è un risultato pesante per chi lo subisce e un po' ero dispiaciuto per i miei avversari, anche se fui felice nel vedere i tifosi rossoneri entusiasti per quello che eravamo stati capaci di fare".

Dagospia il 26 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Daniele Massaro è intervenuto ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei. L'ex attaccante di Milan, Fiorentina, Roma e Nazionale ha ricordato: "Da bambino? Giocavo sempre a calcio in oratorio. I miei mi lasciavano giocare a patto che studiassi e facessi i compiti. L'incontro che ha cambiato la mia vita è stato quello con Adriano Galliani, che mi vide e mi portò al Monza. E che quando Berlusconi comprò il Milan, dopo aver iniziato a lavorare per il club rossonero, gli consigliò di portarmi a Milano, raccontando al presidente che praticamente mi aveva visto nascere. Berlusconi? Come presidente di calcio, generosissimo e preparatissimo. Un grande motivatore. Sapeva sempre cosa dirti per farti rendere al meglio. Trattava tutti benissimo, dal capitano al massaggiatore". Il primo incontro con Sacchi: "Quando arrivai al Milan Sacchi mi vide e mi disse che con lui non avrei mai giocato. Perché non avevo le caratteristiche che aveva in mente per praticare il suo tipo di calcio. Risposti 'perfetto mister, mi insegni a giocare a pallone'. Per Sacchi ho cambiato ruolo, io nascevo da centrocampista, ho giocato anche da centravanti, ma tornare in Nazionale per i mondiali del 1994 dodici anni dopo aver vinto la Coppa del Mondo con l'Italia nel 1982 fu una soddisfazione indescrivibile". Sul rigore sbagliato nella finale dei mondiali contro il Brasile: "In realtà io non avrei dovuto tirarlo, non ero nella lista e dei rigoristi e in carriera non avevo mai calciato un rigore. Ma mi sono assunto comunque quella responsabilità e purtroppo è andata male. Nel periodo di lockdown hanno ritrasmesso quella partita in televisione, non nego di averla guardata sperando inconsciamente in un esito diverso. Mi dicevo 'Dai Daniele, questa volta sai dove si butta il portiere del Brasile, stavolta la metti dentro. E invece no'. In quella finale fummo penalizzati anche dal gran caldo. Quando andai sul dischetto pensai che l'importante era prendere la porta contando di spiazzare il portiere. Purtroppo è andata male". Sui calciatori più forti con cui ha giocato: "Tra gli avversari, Maradona. Tra i miei compagni, Van Basten e Baresi. Nel periodo del Milan era una fortuna allenarsi tutta la settimana contro i difensori più forti d'Italia e del mondo. Non vedevo l'ora di arrivare alla partita, così sapevo che almeno a marcarvi non ci sarebbe stato Franco Baresi, il numero uno in assoluto. Savicevic? Quando era in giornata era ai livelli di Maradona. Per fermarlo gli dovevi sparare. Purtroppo era discontinuo, ma aveva delle qualità pazzesche". Sulla doppietta segnata in finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona: "Non capita a tutti di segnare due gol in una partita del genere, contro una delle squadre più forti del mondo, con indosso la maglia del club per cui tifavi fin da bambino e con cui hai sempre sognato di giocare. Li ricordo bene quei gol e quella notte. La prima rete fu su un tiro sbagliato di Savicevic. Diceva "hai visto che assist che ti ho fatto" e io rispondevo "ma quale assist, hai tirato, ti ha detto bene che ero sulla traiettoria". Alla fine lo ha ammesso anche lui". Sulla parentesi alla Roma, anno in cui gli fu attribuita una rissa con Renato Portaluppi: "Ricordo che giocavamo a Bergamo. Stavamo vincendo uno a zero e mancavano pochi secondi alla fine della partita. Renato prende palla a centrocampo, io e un altro compagno accompagniamo l'azione, eravamo tre contro uno, bastava che l'avesse passata e saremmo andati in porta. Invece si è fatto togliere la palla, l'Atalanta l'ha messa in mezzo e ci hanno pareggiato all'ultimo secondo. Durante il ritorno negli spogliatoi sono volate parole grosse, anche io mi sono fatto sentire. Poi negli spogliatoi effettivamente qualcuno è arrivato alle mani, ma non sono stato io. Evidentemente, sapendo che a fine stagione sarei tornato al Milan, è convenuto dare la colpa a me".

Angelo Colombo, "Io solo in mezzo ai fenomeni del Milan": il racconto della sua parabola rossonera. Francesco Perugini su Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. «Ci sono partite che sai di vincere prima di giocare. Non riesco a dimenticare il silenzio incredibile nel viaggio dall' albergo allo spogliatoio. Sapevamo che avremmo vinto». Angelo Colombo se lo ricorda bene quell' 1 maggio 1988, il giorno di Napoli-Milan 2-3, quando iniziò la saga degli Immortali di Arrigo Sacchi.

Vittoria in trasferta, sorpasso in classifica e ipoteca sullo scudetto: come andò?

«Fu la svolta della nostra storia. Uscimmo tra gli applausi dei tifosi napoletani, sportivissimi. In quegli anni la vera rivalità era con gli azzurri, più che con la Juve o l' Inter: non erano mai sfide noiose con due reparti d' attacco incredibili». E Sacchi diceva: «Per vincere servono undici Colombo e non undici Maradona».

Era così?

«Fa piacere ricordarlo, ma la verità è che andavamo a memoria, eravamo talmente concentrati da andare in campo quasi in trance. All' epoca tutti facevano le stesse cose, Sacchi portò una rivoluzione come l' Ajax di Cruyff. Ma non era solo quello: il presidente Berlusconi stava con noi tutto il sabato, era un vulcano di motivazioni. E c' erano 60-70 mila abbonati. Noi eravamo giovani e affamati, solo Franco Baresi aveva vinto lo scudetto della Stella con Gianni Rivera».

Non fu semplice all' inizio. Il momento più duro?

«I primi due mesi furono complicati. Uscimmo dalla coppa Uefa contro l' Espanyol a Lecce e fu pesante. Da lì iniziammo a ingranare e acquisimmo sicurezza. Poi il petardo che colpì Tancredi e ci costò la partita con la Roma. Dico che le partite decisive si vincono ed è bellissimo, ma è il percorso che ti lascia ricordi ed emozioni».

Le piace la fama di gregario?

«A furia di dirlo diventa vero (ride, ndr). Dicono mi si notasse di più perché ero l' unico biondo in mezzo a tanti mori, ma giocavamo così corti che le corse erano sempre corte e rapide. La settimana prima del San Paolo vincemmo il derby 2-0: Gullit a un certo punto prese palla nella nostra area e arrivò in quella di Zenga con tre avversari attaccati. Ruud di sicuro correva più di me».

Il trionfo più bello?

«La finale di Barcellona contro la Steaua, la prima Coppa Campioni: era l' approdo di due anni di lavoro. Anche in quel caso si sapeva già chi avrebbe vinto, eravamo tutti sulla stessa frequenza. Eravamo la squadra più forte del mondo? In quel momento non ce ne accorgevamo. Il possesso palla di Guardiola a volte è soporifero, solo il Liverpool di Klopp è aggressivo e spettacolare come lo eravamo noi».

Sacchi pretendeva troppo? In fondo con quei campioni molti pensano che avreste vinto lo stesso...

«Forse sì, Fabio Capello ha vinto quattro scudetti con buona parte di quel gruppo. Però non sarebbe stata la stessa cosa, non ci sarebbe stato quel gioco che tutti ricordano ancora oggi. Sacchi era molto esigente con noi, ma ancor di più con se stesso. Era esagerato, non aveva mai un attimo di relax per recuperare. Si stava ammalando per questo e a Parma diede le dimissioni».

Dopo la seconda Coppa Campioni finì al Bari e poi in Australia. Come mai?

«Salvemini mi voleva e decisi di andare in Puglia, non ci fu nient' altro. L' Australia? C' erano già stati il papà di Bobo Vieri e Andrea Icardi. Una sera un ex ragazzo della Primavera mi invitò a raggiungerlo ai Marconi Stallions. Fu bellissimo, all' epoca si giocava solo nella parte occidentale del Paese tra Sidney, Melbourne e Adelaide. Oggi faccio l' opinionista e ho il brevetto di volo: un' emozione unica. Ho fatto il master da allenatore mentre lavoravo nel settore giovanile del Milan, ma non ho mai praticato».

Ultimamente il libro di Van Basten ha riacceso la discussione su quegli anni. Lei l' ha letto?

«Ho visto che ha sparato un paio di colpi. L' ho comprato, ce l' ho sul comodino, ma ora sto leggendo altro...».

Fa il tifo per Paolo Maldini ancora nel futuro del Milan?

«Assolutamente. Ci vuole la memoria storica e la mentalità giusta per portare avanti il dopo-Berlusconi. Ora vedo un cantiere aperto, speriamo che lavorino nel modo giusto».

Morte Anastasi, la Sla gioca a calcio e miete vittime senza fare sconti. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Guariniello: «C’è un nesso. La mafia ha i pentiti, il pallone no». Anastasi Pietro, morto venerdì a Varese di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) a 71 anni, ci costringe ad aggiornare la macabra contabilità dei caduti sotto l’implacabile tackle della «malattia professionale» dei calciatori. A definire per primo così la Sla è stato il magistrato torinese Raffaele Guariniello, autore di un prezioso studio epidemiologico su un campione di 24 mila calciatori italiani di Serie A, B e C dalla stagione ‘59-60 a quella ‘99-2000 (fondamentale si rivelò l’archivio delle figurine Panini), recentemente confermato da uno studio dell’Istituto Mario Negri di Milano arrivato fino al 2018 con un follow up allargato. Le ricerche concordano: in Italia i calciatori si ammalano di Sla di più e prima delle altre categorie professionali. I casi fin qui accertati di Sla nel calcio italiano sono 32. Esclusi Anastasi e Giovanni Bertini, ex difensore di Roma e Fiorentina (le misteriose morti dei giocatori viola degli anni 70, da Beatrice a Longoni, da Saltutti a Galdiolo, furono al centro di un’inchiesta di Guariniello), arresosi alla Sla a 68 anni lo scorso dicembre. «Il rischio ricalcolato sulla popolazione calcistica è circa 2 volte di più rispetto alla popolazione generale — spiega il dottor Ettore Beghi —. Considerando solo la Serie A, il rischio sale a 6 volte di più». Il 6 novembre 2002 si spegneva Gianluca Signorini, amatissima bandiera del Genoa, il primo celebre caduto sul fronte della Sla. Verrebbe da dire che dopo quasi quattro lustri di indagini e ricerca non è cambiato nulla. La Sla resta una malattia neurodegenerativa incurabile, multifattoriale, quindi difficilissima da decifrare. «La mia speranza, mentre la casistica purtroppo cresce, è che sia maturata la consapevolezza dell’ambiente — dice l’ex pm, che presiede la commissione amianto del ministero dell’Ambiente —. Trovare il nesso tra calcio e Sla è importante ai fini della prevenzione. Io lavorai da solo, in un clima sconsolante. Con una perplessità che non mi ha mai abbandonato: benché non si possa pensare che la Sla sia una malattia solo dei giocatori italiani, il mio studio non ebbe seguito in Europa. Provai a sensibilizzare Michel Platini all’Uefa, da noi Damiano Tommasi sembrava molto interessato, ma non ci fu seguito. Sarebbe stato interessante, invece, incrociare i dati». I casi nel calcio continentale non mancano (l’olandese Fernando Ricksen, ex Rangers e Zenit, è deceduto il 18 settembre 2019 a soli 43 anni), però nessuno ne parla. Contro l’indifferenza delle istituzioni ha sbattuto anche Chantal Borgonovo, che insieme al marito Stefano (ex Fiorentina e Milan) ha combattuto in prima linea, pubblicamente: una generosità che ha finalmente portato la Sla sulle prime pagine dei giornali. «La ricerca va avanti, ma sul fronte calcio siamo fermi — racconta dal timone della Fondazione Borgonovo —. Nel silenzio generale i calciatori continuano ad ammalarsi e morire». Nel febbraio 2017 un incontro a Zurigo con il neopresidente della Fifa Gianni Infantino, cui fu chiesto di finanziare proprio la ricerca del l’Istituto Mario Negri, finì con un pugno di mosche in mano. Salvo sentirsi dire un anno dopo che «adesso che c’è la Fondazione Fifa siamo pronti al dialogo». Un libro già uscito, una fiction da proporre, altre iniziative per tenere vivo l’interesse su un tema di cui si torna a parlare in occasione dei funerali (stamane a Varese quello di Anastasi): «A vent’anni pensi solo a giocare a calcio. Dovrebbero essere le istituzioni a fare opera di sensibilizzazione. Ma io non mi arrendo» promette Chantal.Il primo nel ‘73 fu Armando Segato, ex Cagliari e Fiorentina, seguito da Fulvio Bernardini, centrocampista di Lazio, Inter e Roma, ct della Nazionale dal ’74 al ’77. Le ipotesi? Sempre le stesse: 1) Traumi (colpi di testa, scontri, infortuni); 2) uso di sostanze dopanti e abuso di farmaci; 3) esposizione a sostanze chimiche per ravvivare l’erba e il verde dei campi. «Non si vuole criminalizzare il calcio — chiosa Guariniello —, ma trovare il nesso. Peccato non aver mai incontrato un pentito su questo fronte. La mafia li ha, il calcio no».

ROMOLO BUFFONI per il Messaggero il 9 settembre 2020. Sei anni e mezzo così non si augurano nemmeno al peggior nemico. In questo lasso di tempo la Roma ha visto crollare e andare sotto ai ferri quindici suoi giocatori, per diciannove volte messi ko dalla rottura dei legamenti crociati di un ginocchio. Serie che, se si considera la disavventura capitata a Marco Tumminello quando, di proprietà dei giallorossi, vestiva in prestito la casacca del Crotone, sale a 16 calciatori rotti in 20 occasioni. Una catena di disgrazie sportive di cui, nel mondo, non si ha notizia essercene di simili. Una maledizione? Facile cadere nelle suggestioni sovrannaturali di cui comunque lo sport si nutre da sempre (l'anatema di Bela Guttmann al Benfica «senza di me in panchina non vincerete più in Europa» è la più celebre, con i portoghesi costretti a giocare e perdere ben 8 finali di coppa da quel giorno). E in fondo anche la Roma un po' ci ha creduto quando chiamò, giusto il 25 ottobre dell'anno scorso, Monsignor Fisichella a benedire i campi di allenamento del centro sportivo di Trigoria. Campi che, prima dell'acqua santa, avevano ricevuto il trattamento del rifacimento totale perché accusati di essere troppo duri. DALL'OLANDESE ALL'OLANDA In giro con le loro nazionali, al Bernardini, all'Olimpico o in trasferta, il tremendo infortunio che nel calcio è ormai considerato alla stregua di una tassa da pagare, colpisce la Roma con singolare continuità e frequenza. Dal crac di Strootman a Napoli del 9 marzo 2014, al secondo trauma patito da Zaniolo ad Amsterdam lunedì, non c'è pace per i colori giallorossi. In quattro hanno dovuto subire la rottura dell'articolazione due volte: Strootman, Florenzi, il giovane Bouah e appunto Zaniolo. In mezzo al tritacarne ci sono finiti big come Rudiger, Mario Rui, Emerson Palmieri, Karsdorp e Zappacosta e giovani speranze come Capradossi, Ponce, lo sfortunatissimo Nura (costretto a smettere per problemi cardiaci), Calafiori e Bianda. Una guerra che non guarda in faccia nessuno ma che sembra concentrarsi solo sul colore (giallorosso) della maglia. Dal ko di Kevin l'olandese a quello di Nicolò contro l'Olanda, i tifosi sperano che almeno il cerchio dell'infame destino si sia finalmente chiuso.

GIANLUCA LENGUA per il Messaggero il 9 settembre 2020. Francesco Rocca il suo calvario lo ha vissuto nel 1976 all'età di 22 anni, quando i medici non lo hanno preservato da un brutto infortunio lasciandolo giocare anche in Nazionale. Una serie di errori che gli sono costati la carriera e lo hanno portato a dedicare gli anni successivi allo studio della «macchina umana».

A distanza di 44 anni è Nicolò Zaniolo a vivere momenti di sofferenza e frustrazione. Che idea si è fatto rivedendo la dinamica dell'infortunio?

«Per prima cosa gli faccio un in bocca al lupo sperando che possa ritornare a vivere la gioia dei suoi 20 anni. Ho capito della gravità dell'episodio quando si è messo le mani tra i capelli perché quel gesto è sinonimo di dolore fortissimo come il distacco del legamento crociato, dato che lui già l'aveva subito».

Due crociati in otto mesi, qualcosa si poteva fare meglio?

«Non entro nel merito di quello che fanno gli altri. Io ho una concezione del metodo basata su dati scientifici e sull'esperienza personale che è sempre stata volta al non far accadere ad altri quello che è successo a me. Infatti in 30 anni di professione non ho mai avuto un giocatore infortunato».

Quindi non è solo sfortuna?

«La sfortuna è un concetto astratto. Quando uno è sfortunato è frutto dell'ignoranza e dell'incompetenza di chi ha gestito la situazione. E i danni sono devastanti».

Come si gestisce la lesione del crociato?

«Lo valuteranno medici e preparatori, a me dispiace che il ragazzo dovrà vedere la vita con occhi diversi. La struttura anatomica non sarà più la stessa. Il legamento è riaggiustato e dovrà fare sacrifici enormi per tornare al livello attuale».

La sua struttura muscolare ha influito sull'infortunio?

«È un concetto che porto avanti da 30 anni. Il potenziamento del quadricipite porta a un'alterazione del rapporto di equilibrio tra i legamenti e la potenza del quadricipite stesso. Perché se si aumenta la potenza di un muscolo, teoricamente bisogna potenziare le strutture che lo sorreggono, quindi, i legamenti e le capsule articolari. Siccome questo non avviene, il rischio è che il potenziamento a gioco lungo possa danneggiare le strutture».

Un problema del calcio moderno?

«Il metodo di lavoro è determinante in riferimento al risultato del funzionamento della macchina umana. A causa di errori medici sono rimasto con la zoppia per tutta la vita. Lì c'era gente che sapeva che non potevo più giocare e io non ero carne da macello, come invece sono stato».

Anche Zaniolo rischia di diventare carne da macello?

«Non lo so. Essere professionisti significa avere la coscienza che gli errori possono ricadere sui giovani per tutta la vita. E questo è un fatto di etica e morale dello sport».

Il suo metodo è applicato in Serie A?

«Ho migliorato la mia cultura con lo studio scientifico, stilando un metodo di lavoro che mi ha consentito in tutti questi anni di non far male a nessuno. Per giudicare un lavoro devo vedere quello che fanno tutti i giorni, ma il mio giudizio è legato alla responsabilità diretta. Se sbagli è giusto che paghi. Perché un mio errore può portare dolore e tristezza ad altre persone».

Quali sono i doveri di un allenatore?

«Deve fare felici la proprietà perché investe dei soldi, gli atleti perché investono la loro vita per far sì che non gli succeda nulla pur mantenendo il 100% delle loro potenzialità e i tifosi che pagano».

Qual è la preparazione ideale pre-campionato?

«Deve durare 40 giorni, ma fondamentale è il contenuto. E questo è un segreto professionale, frutto di studio, lavoro e soprattutto di valutazioni rispetto alle esigenze personali».

È vero che ai giocatori non va di allenarsi?

«Non è assolutamente vero, i giocatori hanno tutto l'interesse ad allenarsi e far sì che il loro corpo giri a mille per almeno 15/20 anni. Sanno bene che meglio si allenano, più durano e più guadagnano. Lo sport ha regole immortali e non cambieranno mai».

Zaniolo è stato bersaglio dei tifosi della Lazio, come lo è stato lei a suo tempo. Che cosa gli consiglia?

«Io ho sempre perdonato. Gli direi di soprassedere e pensare a tornare quello di prima perché ne varrà della vita. Non darei mai spazio alle contestazioni che fanno parte del gioco».

Da corrieredellosport.it il 14 gennaio 2020. "Grazie a tutti per l’affetto che mi avete trasmesso in queste ore. Non vedo l’ora di tornare. Forza Roma". Queste le prime parole di Nicolò Zaniolo dopo l'intervento di ricostruzione del legamento crociato anteriore del ginocchio destro, e alla sutura della lesione del menisco esterno. La Roma, tramite un tweet sui propri account social, ha confermato la riuscita dell'operazione. Zaniolo resterà per tre giorni nella clinica romana, poi rientrerà a casa e comincerà il percorso di riabilitazione. La giornata di Zaniolo a Villa Stuart è iniziata lle 9, quando il ragazzo è stato accompagnato dalla madre e dalla fidanzata alla clinica romana per sottoporsi all'intervento chirurgico. Poco dopo il suo arrivo è arrivato anche il vicepresidente della Roma Mauro Baldissoni che ha incontrato il ragazzo per una mezz'ora, per fargli sentire la vicinanza del club. Tanti messaggi di vicinanza dal mondo del calcio, soprattutto dal ct Roberto Mancini ("Forza Nicolò! Ti aspetto in campo più determinato che mai"), e dal capitano della Roma Alessandro Florenzi ("Tu non sei il tuo infortunio, tu sei questo sorriso. Restiamo uniti, questo è il momento. Uniti per fare gruppo e per la differenza!"). Il terzino anche ieri sera dopo la partita contro la Juve aveva voluto sostenere Zaniolo, facendogli visita nel suo appartamento all'Eur (preso in affitto da Totti), e portandogli le stampelle che aveva utilizzato nei suoi due infortuni. Dopo il saluto di Baldissoni, questa mattina anche Davide Zappacosta e Federico Fazio hanno fatto visita trequartista. Il terzino giallorosso, nella clinica per una visita di controllo per il recupero dalla rottura del crociato, ha voluto fare un saluto anche al suo compagno di squadra che ha subìto il suo stesso infortunio. In serata, dopo l'intervento, l'amministratore delegato Guido Fienga ha voluto incontrare Nicolò per fargli sentire la vicinanza del club. Zaniolo è entrato in sala operatoria alle 16.05. Il professor Mariani e il suo equipe sono intervenuti in artroscopia sul ginocchio destro e dopo circa un'ora l'operazione è terminata e riuscita perfettamente. Il giocatore resterà tre giorni a Villa Stuart, poi si sposterà a casa e comincerà il percorso riabilitativo. Il padre di Zaniolo, dopo l'intervento del figlio: “Europei? Lui ci tiene, ma è normale che ci siano dei tempi. Se questi tempi lo consentiranno bene, altrimenti se ne farà una ragione. Parliamo di un periodo tra i 5 e i 6 mesi, bisogna andarci sempre con i piedi di piombo. Ora deve pensare a rimettersi, poi piano piano penserà magari anche agli Europei. Ma la prima cosa è stare bene. Domani comincia la riabilitazione, poi ci sarà un iter, che non conosco nel dettaglio, ma sicuramente sarà tanta fisioterapia. Ora scalpita un po’, ma bisogna tenerlo calmo”. Zaniolo, il retroscena: quel ginocchio gonfio che aumenta i rimpianti. Nicolò era stato tenuto a riposo precauzionale nei primi allenamenti della settimana, tornando in gruppo soltanto giovedì con qualche dolorino residuo.

Roberto Maida per corrieredellosport.it il 14 gennaio 2020. Diciannove legamenti crociati saltati dal 2014 in poi. Il caso di Zaniolo riapre il dossier dell’incubo per la Roma. Che cambia i medici, i campi, i sistemi di allenamento; che invita i monsignori a benedire il centro sportivo di Trigoria. Ma non riesce ad annientare il nemico oscuro. Solo in questa stagione erano già saltate le ginocchia di Zappacosta e di Bouah, terzino destro molto promettente della Primavera, che a settembre si è rotto il crociato sinistro subito dopo la lentissima guarigione (dieci mesi) dal gemello destro. Ora il crack di uno dei giocatori più importanti della squadra. Gli esperti si dividono sulle motivazioni del proliferare di infortuni, che sono ampiamente superiori alla media riscontrata dai report Uefa tra le squadre che partecipano alla Champions League. Ma in realtà nessuno sa dare risposte certe, come spesso capita nel campo della medicina. E a proposito di campo. Si è discusso molto ieri, sui social e non solo, delle dichiarazioni forti di Diego Perotti successive a Roma-Juventus: «Il terreno dell’Olimpico non è da Serie A, è pieno di buche. Non è un alibi per la sconfitta ma è un dato che dobbiamo evidenziare». Indirettamente, quindi, verrebbe da pensare che la superficie, già un po’ consumata dalla partita tra Lazio e Napoli giocata il giorno prima, abbia contribuito ai tremendi incidenti di Zaniolo e Demiral, due giocatori di due squadre diverse. In realtà al Coni, proprietario dello stadio Olimpico, e alla Roma, proprietaria di Zaniolo, questo elemento non risulta come acceleratore di infortuni. Semmai, parlando dei tanti problemi fisici che la Roma sta vivendo anche in questa stagione, una ragione potrebbe essere la differenza tra i campi di Trigoria, che sono un misto tra erba naturale e sintetica, e quello dell’Olimpico, composto invece esclusivamente da erba vera. Ipotesi, comunque. Che possono servire come base di analisi per il futuro ma non chiarire oltre ogni ragionevole dubbio l’assurda escalation della Roma.

Da gianlucadimarzio.com il 26 gennaio 2020. “Non sai cosa hai fatto”. È stata la prima cosa che gli hanno detto i compagni: “Stankovic e Nesta mi hanno preso e portato sotto la Curva Nord. Mi hanno ripetuto ‘non sai cosa hai fatto’, per due volte. Scandisce bene ogni parola Lucas Castroman, consapevole dell’importanza di quell’attimo: “All’inizio non capivo – racconta a Gianlucadimarzio.com - ora me ne rendo perfettamente conto”. Lo chiamano ancora a distanza di 20 anni: “Amici, tifosi e conoscenti, mi ricordano ancora di quel gol”. Lucas aveva appena 21 anni, i capelli lunghi e sciolti e una voglia pazza di entrare in campo: “Ero lì ad aspettare che il mister mi chiamasse, sapevo che quella partita non si poteva perdere”. La Roma viaggiava spedita verso lo scudetto, una vittoria avrebbe segnato la fine del campionato: “Sono entrato e ho iniziato a fare degli scatti sulla destra, penso che quello abbia un po’ trascinato i miei compagni”. La Lazio era sotto di due gol, la fine vicina. Poi il gol di Nedved e quello di Castroman, allo scadere: “Sentivo che potevo segnare, quando è arrivato il pallone l’unica cosa che mi è venuta in mente è stata festeggiare”. Lucas ora è dall’altra parte del mondo, in Argentina. A Lujan per la precisione, dove c’è una cattedrale simile a Notre Dame e una statua della Madonna famosa in tutto il mondo. A ricordare quel gol nel derby del 2001 però il suo viso si sarà sicuramente illuminato ancora: “Mi ha cambiato la vita, se la gente ancora mi ricorda vuol dire che faccio parte della gloriosa storia della Lazio”. Non se n’è mai vantato però: “Non mi piaceva fare il ‘figo’ come si dice a Roma, sono sempre stato un ragazzo con i piedi a terra”. Per questo forse si è sentito tradito dal mondo del calcio: “Ora non lo seguo più, guardo solo l’Argentina, perché c’è Messi, e il Mondiale, una volta ogni quattro anni”. Una ferita ancora aperta di cui non svela troppo: “Mi faceva troppo male, sentivo che c’erano ingiustizie dentro e fuori dal campo, quindi ho deciso proprio di non ritornare”. Il calcio fa ancora parte della sua vita, ma con un altro spirito: “Ho una scuola calcio, ma solo per il divertimento dei bambini, non li faccio giocare in nessun campionato. Voglio solo fargli capire la vita”. Lucas Castroman passa il tempo in tanti altri modi: “Al mattino vado a dare una mano a papà che vende santini vicino alla chiesa. Ha anche un parcheggio, quindi controllo le macchine che entrano ed escono”. Mette in pratica anche quello che ha imparato all’istituto tecnico dove si è diplomato anni fa: “So lavorare con il gas e l'elettricità, mi piace il lavoro manuale, per questo con alcuni miei amici faccio la manutenzione completa degli appartamenti che ho preso quando giocavo”. Ha anche un B&B e ora passa più tempo con la sua famiglia: “Sto recuperando quello che il calcio mi ha un po’ tolto”. In un modo o nell’altro è ancora informato sulla Lazio: “Mi arrivano notizie, sono felicissimo che stia lottando per le prime posizione, se lo merita”. Quello che non si aspettava era un Inzaghi già allenatore di vertice: “Quando giocava sembrava più un avvocato che un calciatore, però se c’era qualcuno che non mi aspettavo in panchina era proprio lui. Il primo ero io, e Simone con me”. Vent’anni però cambiano le persone, mentre i ricordi rimangono fissi, non li cancella nessuno. Come quel gol al 95’. E tra 20 anni ci sarà ancora qualcuno pronto a ricordarglielo.  

Hakan Sukur, da stella del calcio a autista di Uber: «Erdogan mi ha tolto tutto». Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Costretto a vivere da esule negli Stati Uniti, Hakan Sukursi ritrova a vivere la curiosa parabola da stella del calcio turco (oltre che autore del gol più veloce nella storia dei Mondiali: nel 2002 impiegò 11 secondi nella finale per il terzo posto Turchia-Corea del Sud), con un passato in Italia con le maglie di Torino, Inter e Parma, a conducente di Uber. In un’intervista al Welt am Sonntag, l’ex attaccante racconta della triste parabola che ha preso la sua vita e accusa il governo turco guidato da Erdogan di perseguitarlo. «Quale sarebbe stato il mio ruolo? Fino a oggi nessuno è stato in grado di spiegarlo — spiega Sukur —. Ho fatto solo cose legali nel mio Paese. Possono indicare quale crimine avrei commesso? No, sanno solo dire traditore e terrorista. Sono un nemico del governo, non dello Stato o della nazione turca. Adoro la mia bandiera e il nostro Paese». Tutto inizia nel 2008, anno del suo addio al calcio con il Galatasaray. Nel 2011 Hakan Sukur entra a far parte dell’Akp, il partito che vede Erdogan tra i cofondatori. La sua avventura dura soltanto due anni perché nel 2013 decide di uscirne dopo uno scandalo corruzione e finisce col pagare le conseguenze della rottura tra Erdogan e Fethullah Gulen, il predicatore che vive negli Stati Uniti ed è accusato dal governo turco di terrorismo. Così anche Hakan Sukur — che sostiene Gulen — finisce nel mirino della giustizia turca perché incriminato per alcune frasi su Erdogan e il figlio Bilal. I suoi beni sono quindi tutto congelati. Fortuna per lui essere emigrato negli States nel 2012. «Il negozio di mia moglie — racconta il turco — era stato preso a colpi di pietre, i miei figli sono stati aggrediti per strada, io venivo minacciato per ogni affermazione che facevo». Nel 2015 Hakan Sukur aveva anche aperto un locale in California, ma «veniva strana gente a suonare la dombra», strumento musicale al quale spesso l’Akp fa riferimento come simbolo della vera musica turca. Intimidazioni, insomma, che hanno spinto l’ex giocatore a trasferirsi a Washington dove ora fa l’autista Uber. «Non ho più nulla, Erdogan mi ha preso tutto. Quando sono andato via dalla Turchia hanno arrestato mio padre e mi hanno confiscato tutto quello che avevo. Mi hanno portato via anche la libertà, il diritto alla parola, anche il diritto al lavoro».

Sukur, l’ex re del gol che fa l’autista di Uber «Erdogan mi ha portato via tutto». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. Ha giocato in Italia, è il miglior marcatore della Nazionale turca e ora vive negli Usa. La giacca di raso rossa del sindaco di Istanbul, Recep Tayyip Erdogan, è abbondante e vistosa. Siamo nel 1994, sul Bosforo, a un matrimonio vip trasmesso in diretta tv. La sposa al centro del tavolo ride: il suo nome è Esra Elbirlik, ha 20 anni, è una brillante studentessa di Chimica farmaceutica all’Università di Istanbul. Accanto a lei c’è il calciatore turco più forte del momento: si chiama Hakan Sukur, di anni ne ha 23, è figlio di due immigrati (kosovaro il padre, macedone la madre) e con il Galatasaray da tre stagioni segna un gol ogni due partite, anche nelle coppe europee. Accanto a lui, come testimone, siede Fethullah Gülen, fine intellettuale, predicatore molto influente e amico della coppia, oltreché del sindaco Erdogan. Calcio, politica e religione siedono allo stesso tavolo: un quadro fedele degli ultimi anni della storia turca in generale. E di quella di Sukur in particolare. Oggi il più grande attaccante della storia del suo Paese fa l’autista di Uber e il rivenditore di libri a Washington. Nelle foto al volante, pubblicate dal Welt am Sonntag, appare ingrassato e sciupato rispetto a due anni fa, quando gestiva una caffetteria nella Silicon Valley e giocava a calcetto a pochi passi dalla sede di Google. Allora era stato il New York Times a scovarlo. Ma dopo quell’intervista Sukur ha ricevuto visite spiacevoli nel suo locale («venivano a suonare la dombra», simbolo della vera musica turca) e ha preferito cambiare di nuovo vita, sempre in esilio, con una moglie e tre figli adolescenti e senza poter contare sul consistente patrimonio accumulato negli anni d’oro, quando vinceva la Coppa Uefa (2000), segnava al volo nel derby con la maglia dell’Inter (2001) e realizzava contro la Corea del Sud il gol più veloce di sempre (10’’89) in un Mondiale (2002): «Erdogan mi ha tolto tutto. Possono indicare quale crimine avrei commesso? Sanno solo darmi del traditore e del terrorista. Sono un nemico del governo, non della nazione turca. Adoro la mia bandiera e il nostro Paese». Il matrimonio glamour del ’94 dura quattro mesi: Esra, costretta a sposare il calciatore famoso, «non mi ha mai amato», come ammette lo stesso Sukur. Muore nel 1999, il 17 agosto, in un terremoto devastante. Il giocatore cerca fortuna al Torino nel 1995, ma soffre così tanto la lontananza dal suo Paese da farsi spedire cibo turco da Istanbul. In Italia ci torna comunque negli anni della maturità, all’Inter appunto e al Parma. Ma il bilancio della sua carriera parla chiaro: il «Toro del Bosforo» segna tantissimo con la Nazionale (51 volte, nessuno come lui) e col Galatasaray, ma tra serie A e Premier League (col Blackburn) esulta appena dodici volte. Dopo aver smesso nel 2008, Sukur viene eletto in Parlamento nel 2011, nel partito di Erdogan (Akp), al terzo mandato come primo ministro. Il legame di Sukur con Gülen, fautore di un Islam moderato e filo-europeo, però è più forte della sua fedeltà politica. E quando la situazione precipita, il nome del campione viene rimosso in tutta fretta da due stadi a lui intitolati: «Con l’impeccabile tempismo di un innato attaccante d’area — scrive Patrick Keddie nel suo “The Passion. Calcio e storia della Turchia moderna” — Sukur si dimette dall’Akp il 16 dicembre 2013, il giorno prima che esploda lo scandalo di corruzione che travolge il partito con accuse che coinvolgono Erdogan e i suoi figli». Sukur però fa sapere di aver lasciato l’Akp «per la chiusura delle scuole guleniste da parte del governo»: l’auto-esilio in Pennsylvania dell’amico predicatore lo autorizza a pensare che la deriva autoritaria della Turchia sia inarrestabile. E un’altra foto che lo riguarda sembra testimoniarlo: è quella dei manifesti elettorali per la campagna presidenziale di Erdogan nel 2014, nella provincia di Sakaria (collegio di Sukur), nella quale il politico di lungo corso ha una mano sul cuore mentre accanto a lui Hakan ha l’aria disperata, mentre dice: «Come posso guardare i Sakariani negli occhi?». L’ex campione si ribella via social network: «Posso guardare tutto il mio Paese negli occhi. Ed è importante poter guardare anche Allah negli occhi». Sukur non riesce ad entrare come indipendente in Parlamento nel 2015 e da allora viene considerato come i gulenisti: appartenente a un’organizzazione terroristica. Si rifugia così in California con la famiglia. Nel 2016 per l’ex bomber arriva anche l’incriminazione «per insulti al Presidente attraverso i social media». Mentre il fallito colpo di Stato del 15 luglio, del quale vengono accusati proprio i seguaci di Gülen (che si dichiara estraneo), accelera il progetto di Erdogan. Selmet Sukur, padre di Hakan, viene arrestato mentre prega in una moschea. Tra i numerosi beni sequestrati alla famiglia, c’è anche la sede di una scuola gulenista. Oggi il sogno di Sukur è quello di aprire un’altra accademia, però di calcio: «La gente è preoccupata di legare i propri investimenti alla mia immagine. Ma prima o poi anche il buio finirà».

Da repubblica.it il 14 gennaio 2020. Ricordate Hakan Sukur? L'ex attaccante turco, 48 anni, un passato in Italia con le maglie di Torino, Inter e Parma e detentore del record del gol più veloce ai Mondiali (Turchia-Corea del Sud 2002, finale per il terzo posto, rete dopo 10 secondi e 8 centesimi), oggi è costretto a fare l'autista Uber per le strade di Washington e a vendere libri. Il motivo? I contrasti con il presidente turco Erdogan: "Mi ha tolto tutto, non mi è rimasto niente". Andiamo per ordine. Sukur, ritiratosi nel 2008, decise di intraprendere la carriera politica schierandosi proprio con il partito di Erdogan (l'AKP), tanto da essere eletto parlamentare nel 2011. L'idillio però finì presto. Nel 2016 l'inizio dell'incubo quando fu accusato di aver partecipato al fallito colpo di stato e di essere vicino a Fetullah Gulen, ex alleato e successivamente nemico del presidente turco. Accuse che oggi l'ex interista, in un duro sfogo alla Welt am Sonntag, respinge al mittente: "Golpe? Quale sarebbe stato il mio ruolo? Nessuno è in grado di spiegarlo. Ho sempre fatto cose legali. Non sono un traditore o un terrorista. Sono un nemico del governo, ma non dello Stato o della nazione, amo il mio Paese". Eppure Hakan Sukur negli ultimi anni è stato letteralmente perseguitato, lui e la sua famiglia. "Grazie al partito era aumentata la mia popolarità. Poi quando sono iniziate le ostilità è cambiato tutto. Ricevevo continua minacce dopo ogni dichiarazione - confessa l'ex Galatasaray -. Hanno lanciato bombe nella boutique di mia moglie, i miei figli sono stati molestati per strada. Mio padre è stato incarcerato e tutti i beni sono stati confiscati". Costretto dunque a emigrare negli Stati Uniti, inizialmente i problemi continuarono anche lì: "Ho gestito una caffetteria in California - spiega -, ma venivano persone strane al bar che suonavano la musica Dombra (definita dall'AKP la musica dei veri turchi)". Intimidazioni che oggi sembrano cessate, anche se Sukur per campare è costretto a vendere libri e portare a spasso le persone tramite l'applicazione Uber. Nella speranza di poter tornare liberamente in Turchia, ecco un messaggio a Erdogan: "Ritorna alla democrazia, alla giustizia e ai diritti umani. Interessati dei problemi della gente. Diventa il presidente di cui la Turchia ha bisogno".

Da gazzetta.it il 9 gennaio 2020. La polizia greca indaga sugli spari di ieri contro Darko Kovacevic, attaccante serbo ex Juve e Lazio oggi 46 anni, che vive in Grecia dove ha lavorato (e potrebbe tornare a lavorare) per l'Olympiacos. Kovacevic sta bene e ha raccontato alle autorità quanto accaduto: era all'esterno della sua casa a Glyfada, località prestigiosa sul mare a meno di mezz'ora da Atene, quando ha visto un uomo uscire da un'auto e avvicinarsi. L'uomo gli ha sparato ma Kovacevic, secondo la ricostruzione più probabile, si sarebbe gettato a terra ferendosi solo leggermente nella caduta. L'ex attaccante, che negli ultimi anni è stato anche un dirigente della federazione serba, non ha riconosciuto il killer. Nella serata di ieri è stata ritrovata l'auto usata nell'assalto, una Smart bruciata a poche centinaia di metri di distanza dal luogo degli spari. All'interno, la parte metallica di una pistola, indizio che potrebbe essere utile nelle indagini. Probabilmente Kovacevic è stato sorvegliato a lungo da "professionisti" e, anche per questo, la polizia sospetta che gli spari siano stati un avvertimento. Difficile immaginare che un killer professionista possa mancare il bersaglio da così breve distanza. Al di là delle supposizioni, quindi, il caso resta aperto: la polizia continua a controllare le telecamere nella zone e nelle vie limitrofe per raccogliere informazioni sull'auto. Sembra anche intenzionata a investigare su possibili moventi di natura finanziaria. Non è escluso che a breve, già in giornata, ci possano essere novità.

Darko Kovacevic: l’ex Juve colpito da spari sotto casa sua. Debora Faravelli il 07/01/2020 su Notizie.it.  Darko Kovacevic è stato protagonista di agguato sotto casa sua: un uomo gli ha sparato e l'ex attaccante è rimasto ferito ad ua gamba. L’ex attaccante serbo Darko Kovacevic, che ha indossato le maglie della Juventus e della Lazio e ora dirige l’Olympiacos di Atene, è stato vittima di un agguato mentre si trovava nella città. Un uomo gli ha sparato nei pressi della sua abitazione ferendolo ad una gamba. L’ex attaccante non sarebbe in pericolo di vita.

Agguato a Darko Kovacevic. L’episodio è avvenuto nella serata di martedì 7 gennaio 2020 a Glyfada, comune della periferia sud della capitale greca. La dinamica della sparatoria è ancora in fase di ricostruzione da parte delle forze dell’ordine. Tuttavia, stando alle prime notizie giunte, a colpirlo sarebbe stato un uomo alla guida di una Smart. Sceso dall’auto, avrebbe aperto il fuoco nella direzione di Kovacevic per poi darsi alla fuga. Non è chiaro se in macchina con lui ci fossero altri individui o fosse solo così come ignoto è il movente dell’aggressione. A dare queste informazioni sarebbe stata la stessa vittima, che ai giornalisti avrebbe spiegato la dinamica della vicenda. Questa la descrizione da lui fornita: “Ho visto un uomo scendere da una macchina con la pistola puntata. È venuto verso di me, mi sono istintivamente piegato alla mia destra, lui mi ha sparato, è risalito in macchina ed è fuggito“. L’ex attaccante, ora 46enne, ha una riportato una ferita ad una gamba: non è chiaro se a provocarla sia stato il colpo esploso o la caduta a terra. Secondo quanto riferisce un quotidiano, una Smart come quella descritta da Koovacevic sarebbe stata trovata poco dopo incendiata. Il luogo del ritrovamento non è lontano da Glyfada e dall’abitazione di Kovacevic, motivo per cui si pensa possa essere la stessa.

Francesco Cevasco per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2020. «E tuttavia quel dipinto, Il sogno di Achille , lo turbò profondamente, perché Achille sognava Patroclo, la persona a lui più cara, che non c' era più, così come lui sognava le persone più amate, che non c' erano più. Con quelle persone Luigi, come Achille, parlava». Luigi è Gigi, Gigi Riva, Giggirrivva, Rombo di Tuono. Da quando lo ha conosciuto, in quel dipinto si è sempre specchiato. Un potente guerriero ma anche una malinconica figura nuda e fragile avvinghiata a una palma, con l' elmo in testa ma con il corpo quasi adagiato sulla riva di un mare che si apre sui misteriosi simboli di un futuro indecifrabile. Il sogno di Achille è il titolo del quadro di Alberto Savinio e anche del romanzo di Carlo Vulpio (edito da Chiarelettere, in libreria in questi giorni). Romanzo, non biografia. Il racconto di un' ira che non si placherà mai nemmeno negli anni di una vita che ha conosciuto anche successo, fama e amore restituito. Come Achille anche Gigi sognava e parlava con le persone che non c' erano più, che la vita gli aveva strappato via quando non era ancora il tempo giusto, la mamma, il papà, una sorellina. «La prima cosa che capì da bambino fu che erano poveri», comincia così il romanzo. E poi ci sono anche tante altre cose che Luigi capì con il passare di un tempo spesso doloroso. La sofferenza che si prova quando ti tolgono la libertà; per il semplice motivo che sei povero e «devi» andare in collegio. Tre volte c'è stato Luigi. E tre volte è «evaso». E poi la libertà se l' è conquistata grazie anche al dono - come per il suo amato Achille - che una divinità, nel suo caso Eupalla, gli ha soffiato nel corpo. Quel piede sinistro con cui sfidava le leggi balistiche e la legge di gravità. Anche di mani ne aveva una sola, la sinistra ovviamente, e la usava per scrivere sfidando la legge delle suore: quella è la mano del diavolo, se non cambi farai una brutta fine. Quando si dice «un signore»: dei tormenti della sua infanzia (e anche di quelli da adulto) non ha mai fatto un piagnisteo. Le sue notti insonni, assediato dai fantasmi del passato, le ha sempre tenute per sé. Dei suoi guai professionali - un paio di fratture alle gambe, un tendine che vola via dal muscolo che deve proteggere - ha dovuto parlarne perché erano lì: sotto gli occhi di tutti. Sembrava quasi chiedere scusa ai tifosi che lo amavano se gli era capitato quell'incidente, e se ha mai odiato il killer che gli aveva spaccato una gamba - come avrebbe fatto qualsiasi comune mortale, ma anche un semidio come lui - quell'odio lo ha raccontato solo a sé stesso. È ovvio che soldi ne ha guadagnati tanti. Ma non quanti avrebbe potuto. Achille non è avido, è ricco di gloria e d' ira per chi se la merita. Racconta Vulpio: «Accadde allora, quando Gigi Riva era al culmine della sua attività agonistica. In quegli anni Franco Zeffirelli si stava preparando a girare il film Fratello sole, sorella luna e pensò, anzi era convinto, che il volto migliore per interpretare Francesco d' Assisi sarebbe stato quello di Gigi Riva. Voleva scritturarlo anche lui a tutti i costi, come la Juventus, e la produzione del film arrivò a offrire a Gigi 400 milioni di lire. Gigi Riva rifiutò anche quei soldi e, ancora una volta, non per albagia ma per l' esatto contrario». La citazione della Juventus non è casuale: la società di Torino aveva proposto a Riva di moltiplicare per cinque volte il suo stipendio al Cagliari. Dando per scontato ciò che scontato non era. Tanto che, come sappiamo, Riva restò a Cagliari per tutta la sua vita di calciatore; e anche adesso. Ma perché? Uno che veniva da Leggiuno, un piccolo paese a due chilometri dalle rive del Lago Maggiore, un «polentone» nordico, un giovanotto che era arrivato in Sardegna nel 1963 con l' idea di tornarsene indietro il prima possibile, un diciannovenne che una sera, «era una delle prime in cui usciva con l' allenatore, alcuni dirigenti e compagni di squadra, si soffermò a guardare l' orizzonte, con il mare calmo, la luna luminosa e il cielo pieno di stelle. Le luci che vide brillare in lontananza gli sembravano provenire dall' altra parte del mare, dal litorale opposto. Come fosse la cosa più ovvia, senza pensarci un istante, esclamò: "Ma quella è l' Africa! Qui siamo a due passi dall' Africa!". "Ma come" disse l' allenatore Arturo "Sandokan" Silvestri, rivolgendosi con un largo sorriso ai dirigenti, sardi, offesi "non conosci la geografia? Quelle luci che si vedono laggiù non sono la Tunisia, ma l' illuminazione di una raffineria di petrolio che stanno costruendo a Sarroch, nel golfo degli Angeli, che dista una ventina di chilometri. L' Africa è lontana"». E calcò la voce sulla parola «lontana». Poi, per la Sardegna, fu vero amore. Come quello per Gianna: «Riva a Cagliari si era innamorato di Gianna. E lei di lui. Lei però era sposata e aveva un bambino. Quindi per la legge italiana era un' adultera, come Giulia Occhini, la "dama bianca" di Coppi. Il marito la denunciò e venne aperto un procedimento penale. Di nuovo, tornava a trovarlo Alberto Savinio. Questa volta non con il dipinto, ma con un racconto, Achille innamorato , in cui Savinio immagina l' eroe in lacrime che spacca la montagna con un singhiozzo al pensiero di Ifigenia». Comunque la storia finì benissimo e Gigi e Gianna vissero felici e contenti. Ci sono tante altre cose nel libro di Vulpio compreso uno sguardo che corre parallelo agli anni della vita di Riva, uno sguardo attento alle vicende storiche, politiche e sociali che accompagnano la sua carriera. Il racconto si chiude con una frase di Gigi che comincia così: «Ho avuto tutto. Il calcio, la gente, il popolo sardo mi hanno dato tutto. Ma ho un rimpianto...». E questa volta il sogno di Achille, il sogno di Gigi, non si potrà avverare.

Luca Telese per “la Verità” il 9 gennaio 2020. «Non ho mai amato le celebrazioni, i momenti sacri. L'unica cosa solenne del calcio sono i 90 minuti». E ancora: «Non mi piace la retorica, la narrazione dei campioni d' acciaio che vincono tutto. Io ero un orfano che il calcio ha reso adulto. Ero un uomo pieno di debolezze umanissime, in una squadra di uomini come me, fatti di carne e di ossa, che erano diventati la mia famiglia». Gigi Riva soffia via una nuvola di fumo e mi guarda negli occhi: «Noi non siamo stati super eroi, fotomodelli da copertina, campioni di ingaggi. Siamo diventati campioni d' Italia perché quando eravamo insieme ci trasformavamo, perché la cosa più bella di questo sport è che un gruppo può davvero diventare più della somma dei singoli talenti. Io ho amato il pallone per questo». Un pomeriggio nella casa di Gigi Riva, con i mobili sobri stile anni Sessanta, le collane con gli accrediti plasticati degli stadi di tutto il mondo (raccolte da accompagnatore della nazionale azzurra) appese come un trofeo alla parete. Riva ride di gusto, guardando la matassa: «Quella della nazionale è stata una stagione felice». Un pomeriggio a casa di Riva parlando di «quella volta che Boniperti», i leggendari no alla Juventus, i segreti di Dino Zoff e di Enrico Albertosi, il rapporto delicato tra la storia familiare e il romanzo di formazione di un campione unico. Un pomeriggio guardando il calcio di oggi con gli occhi del calcio di ieri. E persino con il sorriso: «Negli anni Sessanta con l' ingaggio di serie A sopravvivevi appena. Vivevamo di premi partita. Ci guadagnavano il pane punto dopo punto. E il severo magazziniere del Cagliari non mi cambiava gli scarpini scuciti dicendomi: "Gigi, abbiamo un calzolaio straordinario che te li rifà nuovi!". Ah ah ah. Il bello è che era vero». Un pomeriggio viaggiando nella memoria tra Leggiuno, Lombardia, terra natía, e Cagliari, Sardegna, patria adottiva. Sono passati cinquant' anni dallo storico scudetto del Cagliari, ma a pensarci bene è molto più di un secolo. Tommaso Giulini, il presidente che ha rilanciato il Cagliari nel calcio che conta, e che ha riportato i rossoblù in gara per l' Europa, ha dovuto sudare sette camicie perché Riva accettasse la nomina a presidente onorario della squadra. Gigi è l' uomo più schivo del mondo, non ama i galloni di latta: «Lo sai, è un classico, non solo del calcio. Le vecchie glorie che vogliono mettere il becco, che amano il pennacchio e la ribalta». Ma è stata proprio la ritrosia a far scattare il congegno del racconto, in quel pomeriggio festivo. Riva spiegava che dopo la proposta di Giulini aveva trascorso «due notti in bianco», che era stato tentato di chiamare il presidente e dirgli: «Tommaso, grazie mille ma non accetto». E che gli era passata tutta la vita davanti. E che vita: la storia inizia con due lutti drammatici, la vita in collegio. Pausa, sigaretta: «Mio padre era stato barbiere, sarto. Nel 1953 era andato a lavorare in fonderia, faceva l' operaio quando morì per un infortunio sul lavoro». La madre Edis lavorava in filanda e faceva le pulizie: lo manda in collegio. E l' odio di Gigi per quella struttura non lo lascerà mai più: «Una formazione durissima. Il peso, l' umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il dover dire sempre grazie a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi». È l' Italia ancora povera, quella degli anni Sessanta: «Ho dovuto fare i conti per tutta la vita, con il ricordo di quelle notti». Ed è un' immagine terribile ancora oggi: «È quando stai per addormentarti che la giornata ti cade addosso. Quante volte aspettavo quel momento in cui tornati in camerata potevo mettere la testa sotto le coperte, chiudermi in una gabbia fatta con le lenzuola, un filtro che mi isolasse da tutti». Altra pausa. «Restare solo così: e piangere». Gigi arriva al Legnano a suon di gol. Il mancino che lo porterà nella storia è già esplosivo. Ma proprio quando si sente accolto lo raggiunge la notizia della morte della madre: «Nella mia memoria privata Legnano è questo: il giorno in cui mi arriva la notizia più terribile della mia vita. Mia madre non c' è più, sono solo al mondo». Giocava in serie C, anno 1963. E proprio in quel momento un altro trauma, la cessione al Cagliari: "Non è leggenda. Ero arrabbiato con il mondo. Incazzato nero"». Lo aspetta un viaggio rocambolesco sull' aereo a elica che di lì a poco lo porta in Sardegna: un 212 Fiat trimotore. Il colpo di mercato è una storia da film: «All' Olimpico, per la nazionale Juniores, 13 marzo 1963, molti osservatori in tribuna: per il Cagliari ci sono Silvestri, Tognon e Arrica. Nell' intervallo chiudono l' accordo con il Legnano per 37 milioni». Ma nel secondo tempo «io segno il 3 a 2 della vittoria e il Bologna a fine partita offre 50 milioni». Tuttavia il presidente del Legano non si rimangia la parola: «I dirigenti si erano già stretti la mano e quindi niente da fare: Cagliari. A me non lo dice nemmeno il presidente, ma il mister Lupi». Finisce su quell' aereo tra Milano e Cagliari, viaggio infinito. «Quattro scali! Non era un aereo, ma una corriera Quando ho visto per la prima volta le luci del golfo di Cagliari, nell' ovale del finestrino buio, ho pensato davvero: "Ma dove sono arrivato? In Africa?"». Sospira: «Ero un ragazzino di diciassette anni che non si era mai allontanato da dove era nato, e che adesso arrivava in un luogo sconosciuto senza sapere se mai sarebbe tornato a casa sua». Ad Alghero, addirittura, si informa se c' era un volo che tornasse a Milano. Nulla è facile. Nei giorni dell' esordio, Gianni Brera, che poi conierà l' appellativo di Rombo di tuono, scrive che sembrava «zoppo». A aggiunge: «Gioca solo con il sinistro». Riva oggi ride: «Vero. Ma inizio ad ambientarmi in città. La cosa bella, da subito, è stato il gruppo, la squadra. Quelli di noi che non erano sposati stavano alla foresteria. Dormivamo insieme, vivevamo insieme. Mangiavamo insieme». Gli spiace molto la foresteria, dove stanno gli scapoli: «Tomasini, Nenè, Cera ed io». Dividendo la spesa acquistano una famosa Fiat 600. E l' istruttore della scuola guida gli dice: «Se segni domenica ti do la patente subito!». Realizza una doppietta e vince la scommessa. Torna a Cagliari dall' istruttore: «Era l' uomo più felice della terra, contento che avessi segnato "per lui". Il giorno dopo guidavo da solo per le vie di Cagliari». Sul campo, non c' erano sponsor: le scarpe, gli occhiali, le tute. Tutto era razionato dalla società. Approfitta dei famosi scarpini Valsport «Gigi Riva», sogno degli adolescenti del 1970. E il bomber si fa serio: «Adesso ti rivelo un segreto. Li avevo disegnati io: materialmente, intendo. Erano bellissimi, per l' epoca: tutti in cuoio spesso. Avevano un rinforzo a doppia cucitura sulla punta e sul tallone, ovviamente. E poi altri due raddoppi di cucitura intorno al plantare. Così, vedi? Sotto l' arcata e sull' esterno». Sospiro: «Spesso spaccavo gli scarpini, mi facevano male i piedi, dopo le partite». Dice che i denti, per via della postura e dei digrignamenti gli danno noia anche oggi. Così firma il contratto con la Valsport, solo a patto che rifornisse anche i compagni e che avessero le quattro cuciture. Racconta ancora: «A me gli scarpini si scucivano, si spaccavano. Letteralmente. Dopo certi interventi, dopo certi tiri». Un giorno Fabio Capello lo osserva durante un allenamento: «Quattordici cross, quattordici tiri al volo, quattordici centri consecutivi: Gigi faceva paura». Si entra nella favola, quasi senza rendersi conto: «Siamo andati avanti così: un gruppo di ragazzi che amavano follemente il calcio, una squadra vera, un grande allenatore, e passo dopo passo siamo arrivati al tricolore». Per tutto il 1969 sono primi in classifica, ma non ne parlano nemmeno: «Poi Scopigno nello spogliatoio di Bari dice una frase. Entra e fa: "Se non perdiamo oggi viviamo lo scudetto"». Altra pausa: «Infatti non perdemmo a Bari e vincemmo lo scudetto». Ne posso dire una su Albertosi? Restiamo in silenzio: «Zoff era bravissimo a parere tutto il possibile. Ma Ricky era il numero uno nel parare l'impossibile». Il primo trofeo al Sud, in un campionato, un' isola in festa. Oggi Riva dice: «Io ero orfano e poi sono stato adottato da una squadra e da una città. E infine da una regione». In Messico, in quella stessa estate, diventa il beniamino d' Italia, il marcatore azzurro più prolifico della storia. La Juve lo vuole a tutti i costi. E qui c' è un aneddoto sublime: «Dopo la terza volta che avevo rifiutato il trasferimento loro avevano capito che non mi sarei mosso. Tuttavia mi chiamavano ogni anno. Ogni anno!». Un po' tutti: «Sì Agnelli, certo. Mi voleva. Ma quello che proprio non mollava mai era Boniperti. Mi chiamava ogni anno». Ne parlava nello spogliatoio: «Ai miei compagni dicevo: se a voi va bene non mi muovo. Una volta Martiradonna mi fa: "Ecco, rimani, così finisco di pagare la cucina"». Un giorno, negli anni Duemila, in un aeroporto Riva incontra qualcuno della Juve che gli dice: «Gigi, chiamiamo insieme Boniperti e gli facciamo gli auguri?». Accetta: «Prendo la linea io per un effetto sorpresa. Faccio: "Sono Gigi Riva!"». E lui? «Sento dall' altra parte del telefono che lui c' è. Ma non dice nulla. Gli faccio: "Mi senti Giampiero?". Risposta: "Ti sento, ti sento Gigi". E fa una pausa. Allora gli chiedo: "Tutto bene?". E lui, serissimo: "Bene, sì. Ma non sarei sincero se non ti dicessi che io questa telefonata, da te, l' aspettavo mezzo secolo fa"». La serata sta per finire: «Non ho mai amato il trionfalismo. La retorica. Noi eravamo un gruppo di ragazzi che siano diventati uomini sul campo. Io ero pieno di dubbi, di insicurezze. Ma grazie ai miei compagni sono diventato quello che tutti conoscono».

Da gazzetta.it il 17 gennaio 2020. Ennesima puntata della telenovela Spinazzola-Politano tra Roma e Inter, ma stavolta dovrebbe essere l’ultima: lo scambio salta, con i giocatori che in queste ore stanno tornando rispettivamente a Milano e a Roma. I giallorossi, che in un primo momento parevano propensi ad accettare le richieste dell’Inter (la base era quella di uno scambio di prestiti con obbligo di riscatto legato alle presenze), all’ennesima condizione posta da Milano dopo la seconda visita medica di Spinazzola avrebbero fermato tutto. A Roma intanto discutono sul da farsi: Politano continua a piacere a prescindere dalla trattativa saltata, ma solo se l’Inter volesse cederlo in prestito gratuito. L’altra pista giallorossa per l’esterno d’attacco, invece, porta a Suso. Per l’Inter invece una traccia alternativa porta al nigeriano Victor Moses, 29 anni, da gennaio 2019 al Fenerbahçe ma fedelissimo di Conte ai tempi del Chelsea.

Inter e Roma, tutti i dispetti di mercato. Da Dzeko a Spinazzola, è guerra fredda. Il tormentone per l'attaccante, poi rimasto in giallorosso, seguito dalla lite per lo scambio con Politano. Marotta e Petrachi nemici. Giovanni Capuano il 16 gennaio 2020 su Panorama. Può essere che la foto scattata all'aeroporto Fiumicino con la sciarpa della Roma resti l'unica di Matteo Politano da calciatore giallorosso. Oppure che sia solo la prima di una lunga storia d'amore alla cui origine c'è, però, un clamoroso dissidio tra due club che rischia di far saltare una trattativa che pareva chiusa con reciproca soddisfazione. Dietro l'irrigidimento dell'Inter nel pretendere nuovi test atletici per Spinazzola, destinato a rinforzare la rosa di Conte e congelato a Milano dopo aver fatto le visite mediche, dietro la volontà di ricontrattare i termini dell'intesa e dietro all'irrigidimento della Roma che si impunta su quanto concordato prima, si nasconde una vera e propria guerra. L'affare Politano-Spinazzola rappresentava e rappresenta per entrambe le società una doppia opportunità: da un lato dare a Conte e Fonseca giocatori funzionali ai rispettivi progetti, dall'altro garantire plusvalenza e rientro dall'investimento su cifre difficili da ottenere cash da altri club. Ecco perché pareva tutto perfetto fino a che non si è bloccato tutto.

Il precedente di Dzeko rimasto a Roma. Difficile non ripensare all'estate 2019, quella appena trascorsa. Il lungo tormentone Dzeko, attaccante bosniaco tornato dalle vacanze da separato in casa a Trigoria, promesso e promessosi all'Inter e piano piano diventato un duello di mercato con alla finestra, spettatrice interessata e diretta protagonista, anche la Juventus. Come sia finita la storia è noto. L'accordo per scambiarsi Spinazzola e Luca Pellegrini con rispettiva valutazione (29,5 e 222 milioni di euro) ha tolto alla Roma l'assillo di fare entro il 30 giugno la plusvalenza che quadrava i conti in ottica Uefa. L'ha resa più forte nei confronti dell'Inter che non è riuscita a cogliere l'attimo. Voleva Dzeko a prezzo di saldo, ha visto salire il costo progressivamente (10, 15, poi 20 milioni) fino alla firma del rinnovo di contratto del bosniaco, stufo di aspettare i nerazzurri. Niente Dzeko, con buona pace delle speranze di Conte. E in casa Inter il sospetto che quella manovra della Juventus a giugno sia stata decisiva a mettere i bastoni tra le ruote, quasi un'alleanza anti-Marotta costruita su due necessità convergenti. Curiosamente lo stesso Spinazzola si è ritrovato al centro dell'intrigo. Uno scherzo del destino che è anche una delle storie che il calciomercato si è abituato a raccontare. Non è raro che accada. In tempi recenti basti pensare allo scambio Vucinic-Guarin saltato a furor di popolo con scambio di accuse reciproche. Ora è il turno di Inter e Roma, con la Juventus convitato di pietra.

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it il 13 febbraio 2020. «Cazzate» «calunnie» «falsità» «inesattezze» «vigliacchi». Gianluca Petrachi ha un rapporto cordiale con la stampa, in particolare con quella scritta. Eppure afferma di non leggere i giornali. Il guaio è che i sensibilissimi addetti alla comunicazione della Roma gli consegnano ogni mattina la mazzetta sottolineando le cazzate, calunnie, falsità, inesattezze pubblicate da quei vigliacchi del Corriere dello Sport e della Gazzetta (i quotidiani che ha citato). Conoscendo la suscettibilità e la scarsa perizia dialettica di Petrachi, mi permetto di suggerire a Paul Rogers & derivati, gli stessi che postarono il tweet in inglese per darci dei razzisti innescando una delle più disprezzabili e immotivate shit storm degli ultimi tempi (do you remember “Black Friday”?), di risparmiarsi la fatica per non fare ulteriormente incazzare il ds e quelli che - inconsapevolmente? - riesce a colpire: da Monchi, Baldini e Baldissoni («dissi che per la Roma era l’anno zero per recuperare dagli errori fatti negli anni precedenti») al miliardario e prossimo proprietario fresco di oscar per “Parasite”, Parassita, Dan Friedkin («non arriva Paperon de’ Paperoni»). Chiarendo che sulla sua assoluzione facemmo un titolo, non una breve, ricordo a Petrachi, del quale per sua stessa ammissione sono amico, che adesso lavora alla Roma, rappresentando una società prestigiosa e seguita da sei quotidiani e un numero infinito di radio dedicate, e che pertanto un’attenzione speciale nelle uscite pubbliche dovrebbe averla. Gianluca, a casa nostra, così come a Milano, i vigliacchi non si nascondono: noi ci mettiamo sempre la faccia e la firma.

Alessandro Angeloni per il Messaggero il 13 febbraio 2020. Gianluca Petrachi attacca, sbatte i pugni, ma si fa male. Spara nel mucchio (sui giornali, che controlla ma non legge) e sostiene in maniera non elegantissima di essere venuto a Roma per «riparare gli errori del recente passato» (Monchi, per la cronaca, ha raggiunto almeno una semifinale di Champions e un terzo posto). Gli errori li commettono tutti. Ma lui no, stando a ciò che dice. Usa un linguaggio, diciamo così, da campo, non è il tipo che cita Dante o Kerouac, inciampa spesso nella parola «cazzata» e parla di «calunnie» e «falsità» sul suo conto. Di falso alla fine c'è poco. Ad esempio: scrivere che Petrachi avrebbe rischiato una squalifica, significa calunniare? No. Raccontare della sua irruzione nello spogliatoio è falsità? No. Lo hanno ammesso i Fonseca e poi lui stesso, rivendicando il diritto di poter entrare nello spogliatoio quando vuole, anche se Fonseca ha fatto capire di non gradire. Petrachi difende il suo lavoro, quello del ds rivoluzionario e fa capire come non ci sia grande disponibilità economica. «La Roma ha fatto una vera e propria rivoluzione, molti dimenticano che abbiamo fatto uscire venti giocatori e ne abbiamo presi quattordici. Voglio ricordare che la Roma non compra gente da settanta milioni, ma con quelli ne abbiamo presi sette. Per un progetto del genere ho chiesto pazienza». Pazienza sì, ci mancherebbe. Ma i conti - sulla compravendita - a volte non tornano: Spinazzola (29,5 milioni), Diawara (21), Pau Lopez (23,5), Veretout (17+2 di bonus), Cetin (3), Mancini (15 +8 di bonus) sono costati - diluiti nel tempo - 119 milioni. Senza contare i bonus legati a Pau Lopez e i prestiti onerosi di Smalling e Kalinic. Petrachi, sempre a proposito di soldi, parla della futura società, riferendosi a un closing in atto. E qui scatta la gaffe. «Non arriva mica Paperon de Paperoni e compra chissà chi...». Il povero Fredkin ringrazia (ri)sentito, così come i tifosi, che possono serenamente perdere le speranze e buttare a mare i sogni di gloria. «Il progetto è partito sei mesi fa e non si modifica con il cambio societario. Il mercato di gennaio ha avuto delle criticità. Questa squadra deve solo ritrovare l'umiltà. Non siamo lontani anni luce dalla Champions». Ne ha anche per Dzeko. «Ho letto che sono stato bacchettato da Edin perché vuole qualità. Lui fa il calciatore ed è intelligente, non si sarebbe mai permesso di farlo. Se deve fare qualcosa lo fa nello spogliatoio, con i ragazzini, visto che è anche il capitano e leader». 1) Dzeko è libero di dare un giudizio tecnico senza dover bacchettare qualcuno in particolare. Dire che manchi qualità è una sua opinione, perché sentirsi così colpiti? 2) Per quanto ci riguarda abbiamo riferito come il ds abbia bacchettato Dzeko, come ha fatto in conferenza lui, ieri. Il dirigente della Roma si sente sotto osservazione, come normale che sia, le voci su Paratici infastidiscono. A Trigoria si guardano intorno, sono tutti sotto osservazione, compreso il ds. I tre ragazzi vicino a lui, Perez, Villar e Ibanez («Sabatini è stato irrispettoso») sono figli del secondo mercato furbo, sperando sia più redditizio di quello estivo. Loro giovani di belle speranze, questo sì. Ma uno di loro il giorno della presentazione viene bacchettato. «Ho detto a Perez, dopo Sassuolo, che il suo atteggiamento non mi era piaciuto, vorrei che ci mettesse l'anima: anche se sei mediocre, a Roma ti apprezzano per l'impegno. Oggi la Roma la sento mia, anche se qualcuno vuole già tagliarmi la testa sul patibolo». E non siamo noi. Non siamo noi che abbiamo pensato a Paratici. 

Da goal.com il 13 febbraio 2020. Gianluca Petrachi ha voluto mettere ogni singolo puntino sulle 'i' durante la conferenza stampa di presentazione dei nuovi acquisti della Roma. Si è parlato poco di Villar, Perez e Ibanez. Ha parlato molto il direttore sportivo giallorosso. Uno sfogo, un monologo che però, secondo 'La Gazzetta dello Sport', il resto della dirigenza non ha condiviso. La sua posizione non è la stessa del club che rispetta le idee di Petrachi, ma non appoggia.

Francesco Persili per Dagospia il 27 febbraio 2020. “Nella Roma c’è una proliferazione di dirigenti e costi ingiustificati. A Trigoria lavorano troppe persone…”. Ettore Viola, figlio di Dino, il presidente che portò la Roma al punto più alto della sua storia, archivia la gestione Pallotta. “Ha creduto troppo alle promesse che qualcuno gli ha fatto, altrimenti non sarebbe mai venuto. In questi 10 anni la Roma non ha vinto nulla anche se il club è solido e il marchio è conosciuto in tutto il mondo. Lui si è fatto vedere poco e non ha mai fatto neanche lo sforzo di parlare italiano. DiBenedetto almeno dava l’idea di essere più presente. Forse non avrebbe fatto un bagno nella fontana come Jim dopo Roma-Barcellona, al massimo un pediluvio…”. Pallotta disse: “Nel 2020 dovreste avere lo stadio. Se non lo avrete per quella data avrete un altro proprietario, perché non mi vedrete più da queste parti”. La questione del nuovo impianto porta Ettore Viola a ricordare i tentativi del padre di dotare la Roma di uno stadio di proprietà. “Ci ha provato 3 volte con 3 sindaci diversi e non ci è riuscito. Gli offrirono l’area della Romanina. Oggi ritengo che la soluzione Tor Vergata possa essere più fruibile rispetto a Tor di Valle”. Si volta pagina. È in arrivo Friedkin. “L’inizio sembra incoraggiante. Lui vuole seguire la Roma più da vicino. Il figlio Ryan avrà un ruolo di primo piano, una scelta simile a quella di Zhang nell’Inter. Mi pare che questo dimostri un attaccamento all’investimento”. Appartenenza e sentimento. Valori senza tempo del “romanismo”. Ettore Viola mostra con orgoglio una lettera scritta nel ’65 dal padre al conte Marini Dettina in cui dice di restituire la tessera di socio vitalizio. Erano i tempi cupi della colletta del Sistina e Dino Viola scrive: “Mi auguro che tutti i soci siano animati dalla mia stessa aspirazione: sportivi sempre e validi sostenitori così da portare ancora una volta alla Società un contributo determinante per farla riemergere dall’avvilente situazione in cui si trova…”. Il figlio del presidente del secondo scudetto giallorosso rammenta quando si nascondeva dietro la porta della casa di famiglia ai Parioli per origliare le riunioni di mercato tra l’Ingegnere, Aldo Pasquali e Oronzo Pugliese, il mago di Turi (che poi ispirò anche il mitico Oronzo Canà di Lino Banfi ne “L’allenatore nel pallone”). “Mio padre non ha mai venduto la Roma in vita. E ha lasciato nel patrimonio del club Totti e 4 miliardi e mezzo, frutto del risarcimento per la causa vinta contro la Figc per la questione Flaminio”. Il passato non si dimentica. Ettore Viola si rammarica per il trattamento ricevuto dagli ex Capitani. “Hanno fatto la storia della Roma e sono stati congedati in malo modo. Francesco aveva un ruolo nella società e non lo facevano partecipare alle riunioni. De Rossi, che mi sembra abbia una attitudine da tecnico, poteva iniziare come vice di Fonseca. Sarebbe stato molto utile in quel ruolo…”. Come vive da romanista il campionato di vertice della Lazio? “Sono contento. Mia figlia ha sposato uno splendido laziale…Battute a parte, ricordo che al tempo di mio padre loro finivano sempre sotto o erano in B. L’Ingegnere non è si mai confrontato con loro. Il suo avversario principale era la Juve. Riteneva i laziali ‘bravi cugini di un calcio minore”. Adesso con Lotito, i biancocelesti vincono trofei e hanno 17 punti di vantaggio in classifica. “Lunga vita a Lotito. Il calcio è cambiato ma lui dimostra che non è necessario avere una proprietà straniera e una società piena di dirigenti per centrare risultati. Ha una catena di comando leggera: lui, il ds Tare, Peruzzi e il tecnico Inzaghi. Non insegue plusvalenze a ogni costo ma sceglie ogni anno uno o più tasselli utili per rinforzare la squadra. Quello di Lotito può essere un modello. È un po’ il calcio che faceva mio padre. Ai tempi di Dino Viola la Roma era una famiglia. Era riuscito a creare un habitat in cui i calciatori si sentivano a loro agio e rendevano al meglio. Li seguiva nella vita privata, era sempre vicino a tutti per un consiglio. Mi auguro che Friedkin faccia come lui e rivolga maggiore attenzione di Pallotta alla squadra. Si possono fare i soldi non solo con le plusvalenze ma anche con le vittorie che ingenerano ricadute positive anche a livello di ricavi”. Si parla in queste ore di un supermanager (Boniek, Capello) per ricostruire l’area tecnica. Ettore Viola confessa un suo sogno: “Mi piacerebbe varcare di nuovo il cancello di Trigoria ed entrare nel consiglio della nuova Roma, a costo zero. Ho tanta esperienza e conoscenze da condividere. Con professionalità, passione, entusiasmo la Roma può competere con tutti. Come ai tempi dello scudetto e della finale di Coppa Campioni. Come ai tempi di Dino Viola…”

Il caso umano di Politano e il revisionismo delle milanesi. Riccardo Signori, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale.  Mettiamo pure che certi incidenti di percorso sono ben pagati e una delusione diventa meno deludente, mettiamo pure che il professionismo impone di accettare anche gli scherzi del destino, ma l'insano oggetto del desiderio di Matteo Politano non può ricondursi alla pace dell'animo accettando lo sfottò da web che racconta una massima della vita: «L'importante è la salute». Ovviamente stampato su sciarpa giallorossa. Il caso Politano, tifoso della Roma, felice di evadere dalla prigione contiana per giocarsela nella squadra del cuore eppoi rispedito a Milano per evidenti pasticci dirigenziali, è una delle storie che talvolta ci fanno dimenticare che pure i giocatori hanno un cuore, un'anima, e non sempre tutto si riduce al rispetto della diagonale e al signorsì al tecnico. Politano c'è rimasto male come un qualunque ragazzo che si nutre di passioni, e c'è rimasto peggio sapendo di tornare dove è stato accettato a fatica dall'allenatore fin da inizio stagione. Frittata degna dei presupposti che hanno nutrito il rapporto fra Conte e l'Inter. C'erano giocatori sgraditi e andavano spediti: questo il primo comandamento. E qui si innesta il revisionismo di mercato che Inter e Milan stanno mettendo in atto. Si dice: per rinforzare la squadra. Perfetto! Ma allora significa che, prima, sono stati commessi errori. Non è pensabile che l'Inter, dopo un mercato sostanzioso, debba acquistare 4 giocatori per migliorare la rosa e magari vendere Lazaro, acquisito in estate per una bella cifra. Conte si lamentava per la coperta corta. E l'Inter cosa fa? Compra con la formula: uno esce e l'altro entra. Già, mancano i soldi. Ma, allora, la coperta è corta o la rosa va rinforzata? E cosa dire del Milan? È bastato Ibrahimovic perché la squadra abbia preso altra faccia. Ovvero: è bastato inserire un giocatore di classe perché anche gli altri sboccino a miglior calcio. Può aver sbagliato l'allenatore precedente? Forse. Ma i dirigenti? Fare e non disfare: questo è un problema. Tradotto: mettere toppe agli errori. Ma, va detto, neppur la Juve è da imitare: ha sbagliato qualcosa nel mercato, e non l'ammette. Ammettere di sbagliare: dirlo o non dirlo? Questo è il problema.

Inter, addio al mistero Gabigol: storia di un affare sbagliato. L'attaccante è stato il primo colpo dell'era Suning. Pagato 33 milioni di euro non ha lasciato traccia in Italia e in Europa. Giovanni Capuano il 17 gennaio 2020 su Panorama. Gabigol saluta per sempre l'Inter. Addio all'Italia e all'Europa tre anni e cinque mesi dopo essere sbarcato tra dubbi e un battage di comunicazione che lo portò ad essere accostato a Ronaldo. Quello brasiliano, il Fenomeno portato a San Siro da Massimo Moratti con ben altre soddisfazioni della breve parabola di Gabriel Barbosa. Mancini non lo voleva, qualche dirigente nemmeno, ma Gabigol fu all'epoca il primo vero colpo di Suning. Lui e Joao Mario, 80 milioni in due spesi per dimostrare di voler investire e tornare grandi anche se dal punto di vista tecnico le perplessità erano tante, soprattutto sull'attaccante considerato che il portoghese era fresco campione d'Europa con la sua nazionale. Come è andata è ormai un bilancio chiuso. Entrambi hanno deluso, ma la parabola di Gabigol è simbolica di come sul mercato sudamericano si possano prendere abbagli colossali pagando tanto per poi essere costretti a gestire (in perdita) per rivendere.

Quanto è costato davvero Gabigol. In maglia nerazzurra Gabigol non ha lasciato il segno. In una stagione solo 10 apparizioni (una sola volta titolare in Coppa Italia) e un golletto realizzato in trasferta a Bologna. Segnarsi la data: 19 febbraio 2017. Rete che vale tre punti, conferma il brasiliano nel cuore dei tifosi ma non smuove l'animo di tecnici e dirigenti che hanno già compreso l'errore commesso. Pagato 33,1 milioni di euro, commissione (discussa) all'agente da 3,6 e polemiche sul legame tra il potente Kia Jooranchian e la famiglia Suning, Gabigol diventa in fretta un peso anche per i 2,7 milioni di euro netti di ingaggio sul contratto quinquennale. Dall'Inter si muove solo in prestito: Benfica (5 mini presenze in sei mesi con un solo gol), poi il ritorno al Santos e da qui al Flamengo. L'ultima parte è quella del riscatto. In rossonero - scherzo del destino - si rilancia fino alla stagione da record e alla doppietta decisiva nella finale della Copa Libertadores che fa esultare quasi più a Milano che in patria. E' il lasciapassarre per poter tornare ad avere un mercato per Gabigol che resta al Flamengo per 18 milioni più percentuale corposa sulla futura rivendita. Poteva portare di più? Probabile, considerati i numeri degli ultimi diciotto mesi. Ma su di lui pesa la doppia bocciatura in Italia e Portogallo, in definitiva nel calcio europeo. 349 minuti in campo in un anno e mezzo, due gol e una marea di panchine. Troppo poco per sperare che qualcuno ci riprovasse seriamente.

Conte, lite in tv con Capello: «Non siamo solo contropiede. E poi non dicevi che Lukaku era una pippa?» Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Galeotta è stata l’opinione di Fabio Capello, negli studi di Sky Sport, che spiegava i motivi (secondo lui) per i qualil’Inter vince di più in trasferta che a San Siro. In sostanza, lontano dal Meazza i nerazzurri possono chiudersi e ripartire; in casa devono attaccare di più trovando, nella maggior parte dei casi, avversarie più chiuse. Arrivato giusto in tempo nella postazione di Sky Sport, Antonio Conte ha subito preso di petto la questione lanciata dall’ex tecnico di Milan, Roma e Juventus: «Stavo sorridendo perché non sono d’accordo con Capello, non penso che l’Inter oggi sia rimasta lì abbassata per poi ripartire. Ha preso altissimo il Napoli e ha provato a farlo per tutta la partita. Sento parlare sempre di contropiede e contropiede, ma...». A questo punto Capello gli chiede: «Vuoi che dica ripartenze che è più moderno? Non hai ascoltato quello che ho detto». «Di cosa stiamo parlando?», sbotta ancora Conte. E ancora l’ex c.t.: «Non è questo il calcio che facciamo, con tutto il rispetto. Il calcio deve essere visto. Questa squadra gioca a memoria e meno male che gli avversari ci temono di più di chi vede la partita. Certe volte sento delle astrusità».

La situazione si riscalda e allora si cercano di affrontare altri temi, come ad esempio la vittoria al San Paolo dopo 23 anni (l’ultima volta prima di ieri era stato nel 1997) e soprattutto un elogio a Lukaku («Lui è una pippa», scherza. «Su Romelu ne ho sentite di tutti i colori»). Però, la diatriba non finisce qui perché Conte non si arrende: «Gli avversari bisogna sempre aggredirli alti, trovare verticalizzazioni in fase di possesso e difendere quando si deve difendere. E questo è il calcio per tutti». Tra i due, c’è da ricordarlo, non scorre buon sangue. Come dimenticare il botta e risposta del febbraio 2014. All’epoca c.t. della Russia, Capello aveva commentato la scelta di Conte di far saltare un giorno di riposo alla Juventus dopo il 2-2 in rimonta subito dal Verona: «Castighi non ne ho mai dati. Non fa parte del mio modo di pensare». E aveva parlato anche di un campionato italiano troppo facile. Frase che aveva indispettito l’attuale tecnico dell’Inter: «C’è più puzza in casa di altri. Dei suoi anni (alla Juventus, ndr) ricordo non tanto gioco e due scudetti revocati. I maestri che non conoscono le situazioni si facessero i fatti loro. C’è più puzza in casa loro che in casa degli altri. Altri grandi ex bianconeri, come Lippi e Trapattoni sono sempre educati e rispettosi del lavoro degli altri. Capello guardi a casa sua e pensi a fare un buon lavoro per i Mondiali. Quando parla un guru del calcio dobbiamo stare zitti, inchinarci e fare riverenze. Ora giochiamo senza di lui e a quanto pare giochiamo un torneo amatoriale». A quando il terzo round?

Conte-Capello, lite a Sky sull’Inter che gioca in contropiede: chi ha ragione, stando ai numeri (e non solo). Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Tommaso Pelizzari. A pochi minuti dalla chiusura ufficiale delle feste natalizie, è arrivato l’ultimo fuoco d’artificio. Mancava poco al passaggio tra il 6 e il 7 gennaio 2020 quando l’allenatore dell’Inter Antonio Conte ha contestato l’opinionista di Sky Fabio Capello, secondo il quale i nerazzurri hanno vinto più in trasferta che in casa perché a San Siro trovano squadre più chiuse e quindi meno spazi per ripartire in contropiede (come invece succederebbe lontano dal Meazza e come — secondo Capello — è successo in Napoli-Inter 1-3, cioè la partita di cui si stava in quel momento parlando in studio). Chi ha ragione dei due? Capello, con la sua interpretazione «tradizionale» o Conte, per il quale il modo di giocare dell’Inter è fondato su tre principi: «Gli avversari bisogna sempre aggredirli alti, trovare verticalizzazioni in fase di possesso e difendere quando si deve difendere»? Un aiuto può venire dai numeri della squadra di Conte, che finora ha giocato 9 partite in casa e 9 in trasferta. A San Siro ne ha vinte 6, pareggiate 2 e persa una. Mentre in trasferta sono arrivate 8 vittorie e un pareggio (con la Fiorentina). In particolare, sono tre i dati che possono aiutare a capire il modo di giocare di una squadra: la percentuale di possesso palla, quella del cosiddetto «vantaggio territoriale» (ovvero: quanti palloni in una partita vengono toccati nella metà campo avversaria). E infine il baricentro, cioè il posizionamento medio della squadra nei 90 minuti. Un buon modo per capire se, come dice Capello, esistono due Inter (quella di San Siro più offensiva e quella da trasferta più coperta e pronta a ripartire) è calcolare i dati medi di questi tre parametri nelle partite al Meazza e in quelle esterne. Sotto questo aspetto, il confronto dà risultati chiarissimi. Secondo Opta, il possesso palla dell’Inter, che in casa è mediamente del 57,7%, in trasferta scende al 49,9. Ancora più netta è la distanza tra il vantaggio territoriale in casa (52,7%) e quello lontano da San Siro: 43%. Differenza netta, anche se un po’ più bassa, tra baricentro casalingo e baricentro esterno: 53,9 contro 47,1. Ha ragione Capello, quindi? Sì, se ci limitiamo a guardare i numeri. Meno, se questi numeri li analizziamo in primo luogo alla luce di quanto rivendica Conte, cioè il modo di giocare con cui ha impostato l’Inter: costruendo sempre dal basso, ovvero cominciando l’azione dal portiere Handanovic e con il giro palla tra difensori e centrocampisti arretrati. Un «modus operandi», questo, che l’Inter persegue sia in casa che fuori: ed è naturale che in trasferta, con la squadra di casa tendenzialmente più portata ad aggredire, l’«uscita» dei nerazzurri possa diventare più laboriosa. Ma c’è di più. Per capire come mai ci sia una tale differenza media, bisogna allora andare a guardare anche l’andamento delle singole partite, che può essere decisivo nel determinare i dati finali. Non è un caso, per esempio, che i numeri di possesso o vantaggio territoriale più alti in casa siano arrivati contro Parma e Verona, squadre che si chiudono moltissimo e che oltretutto a San Siro si sono ritrovate in vantaggio, costringendo l’Inter all’assalto. Allo stesso modo, il vantaggio territoriale basso con la Sampdoria (a Genova) si può far risalire all’espulsione di Alexis Sanchez che ha lasciato l’Inter in 10 per un tempo intero. Oppure, il 41,6% di possesso palla (e il 35% di vantaggio territoriale) contro il Torino si spiegano allo stesso modo dei dati simili (43,4% e 34%) di Napoli: coi granata l’Inter si è trovata sullo 0-2 dopo 32 minuti, con gli azzurri dopo 33. A quel punto, una reazione delle squadre di casa era non solo preventivabile, ma anche inevitabile. Piuttosto, c’è un altro aspetto da tenere presente. Dei sette potenziali punti persi in casa, l’Inter ne ha lasciati 5 con Juve e Roma: sconfitta 2-1 coi bianconeri il 6 ottobre, 0-0 coi giallorossi il 6 dicembre, a cui si aggiungono quelli non conquistati nel 2-2 con il Parma del 26 ottobre. Quindi, a incidere sul saldo casa/trasferta della squadra di Conte è stato un altro fattore, che nel girone di ritorno si farà sentire parecchio: in quello di andata, infatti, i nerazzurri hanno affrontato a San Siro tutte le squadre di testa: oltre a Juve e Roma, anche la Lazio (battuta 1-0 il 25 settembre). Non è, non può essere un caso, che proprio in quelle tre partite la squadra di Conte ha espresso i vantaggi territoriali più bassi (41% coi bianconeri, 44 con le romane), giocando con il baricentro mediamente più arretrato (47, 53 e 52,2 metri) sul prato del Meazza. E sabato 11 gennaio (ore 20.45) a Milano si presenta la quinta in graduatoria, cioè l’Atalanta per chiudere il girone d’andata. Detto in altri termini: da qui a fine campionato l’Inter dovrà andare due volte a Roma, allo Stadium e a Bergamo. È assai più probabile che a preoccupare Antonio Conte sia un pensiero come questo.

Conte-Capello: una lite che dura dal 2004, quando don Fabio non rinnovò il contratto a Antonio (che si ritirò). Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 da Salvatore Riggio su Corriere.it Arrivato sulla panchina della Juventus, l’allenatore non volle più Conte né come giocatore (e lui si ritirò), né come membro del suo staff tecnico: da lì cominciò tutto. Il botta e risposta tra Antonio Conte e Fabio Capello ha origine in antichi dissapori. Non è la prima volta, infatti, che i due si confrontano con toni così accessi. Quella di lunedì 6 gennaio, al termine del match vinto 3-1 dall’Inter al San Paolo contro il Napoli, è soltanto l’ultimo di una serie che dura da almeno 15 anni.

2004: Capello non rinnova il contratto a Conte. Nel 2004 Fabio Capello arriva sulla panchina della Juventus, dopo aver vinto tutto con Milan, Real Madrid e Roma. Don Fabio, però, sceglie di non rinnovare il contratto ad Antonio Conte, una delle bandiere bianconere, che decide così di ritirarsi e non indossare un’altra maglia. Ma non solo. Perché Capello non lo volle nemmeno nel suo staff. Da quel momento, è iniziato tutto.

Conte su Capello: «Di lui ricordo non gioco e 2 scudetti revocati». La replica di Antonio Conte non si era fatta attendere: «Dei suoi anni (alla Juventus, ndr) ricordo il non gioco e due scudetti revocati. I maestri che non conoscono le situazioni si facessero i fatti loro. C’è più puzza in casa loro che in casa degli altri. Altri grandi ex bianconeri come Lippi e Trapattoni sono sempre educati e rispettosi del lavoro degli altri. Capello guardi a casa sua e pensi a fare un buon lavoro per i Mondiali. Quando parla un guru del calcio dobbiamo stare zitti, inchinarci e fare riverenze. Ora giochiamo senza di lui e a quanto pare giochiamo un torneo amatoriale».

Febbraio 2014: Capello critica i metodi di Conte. I due si sono sempre evitati. Fino al febbraio 2014. Fabio Capello è c.t. della Russia e interviene in tackle su una decisione presa da Antonio Conte, in quel momento tecnico della Juventus. Galeotto quindi il commento sulla scelta dell’ex centrocampista di far saltare un giorno di riposo ai bianconeri dopo il 2-2 in rimonta subito dal Verona: «Castighi non ne ho mai dati. Non fa parte del mio modo di pensare». Inoltre, Capello aveva parlato anche di un campionato italiano troppo facile.

Gennaio 2020: la «ripartenza» di Capello. Negli studi di Sky Sport, Fabio Capello i motivi (secondo lui) per i quali l’Inter vince di più in trasferta che a San Siro. In sostanza, lontano dal Meazza i nerazzurri possono chiudersi e ripartire; in casa devono attaccare di più trovando, nella maggior parte dei casi, avversarie più chiuse. Antonio Conte è in collegamento giusto in tempo per sentire tutto. «Stavo sorridendo perché non sono d’accordo con Capello, non penso che l’Inter oggi sia rimasta lì abbassata per poi ripartire. Ha preso altissimo il Napoli e ha provato a farlo per tutta la partita. Sento parlare sempre di contropiede e contropiede, ma...».

«Non mi ascolti». «Astrusità». A questo punto Capello gli chiede: «Vuoi che dica ripartenze che è più moderno? Non hai ascoltato quello che ho detto». «Di cosa stiamo parlando?», sbotta ancora Conte. E ancora l’ex c.t.: «Non è questo il calcio che facciamo, con tutto il rispetto. Il calcio deve essere visto. Questa squadra gioca a memoria e meno male che gli avversari ci temono di più di chi vede la partita. Certe volte sento delle astrusità». Poi arriverà la difesa di Lukaku: «Lukaku è una pippa, ne ho sentite dire di tutti i colori su di lui. Meglio che si continui a dire che è una pippa. Oggi è facile parlare di Lukaku, ma andiamo a ritroso. Salire sul carro dopo è facile».

Dagospia l'8 ottobre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Fabio Capello è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Capello ha parlato del campionato appena iniziato: "Quest'anno la favorita è l'Inter. Perché nella voglia di cambiare giocatori, ha tenuto anche dei calciatori che dovevano andare via e invece son rimasti. Ha una rosa super fornita, di grande livello. La Juve ha fatto ottimi acquisti ma bisognerà vedere come riuscire a metterli in campo. Stavolta gli avversari sono molto competitivi. Metto prima l'Inter. Poi il Napoli. E poi per la Champions il Milan insieme alla Roma. L'Atalanta? E' molto interessante, se recupera Ilicic diventa una mina vagante, vedremo come si posizionerà alla metà del torneo. E' una squadra da temere da parte di tutti, è una squadra pericolosa, da temere sotto tutti gli aspetti". Sul calcio senza pubblico: "Ci sono delle valutazioni da fare, ci sono giocatori che senza pubblico rendono di più, hanno più coraggio, si segnano più gol. Il pubblico se non hai personalità ti blocca, per alcuni calciatori giocare senza tifosi è produttivo. Io direi che senza pubblico manca quell'atmosfera trainante, io alla forza del pubblico do il venti percento. Ci sono squadre che quando giocano in casa vivono delle trasformazioni pazzesche". Sul suo rapporto con la notte: "Di notti insonni ce ne sono state nella mia carriera, soprattutto dopo qualche sconfitta immeritata, dopo aver lavorato tanto. Ricordare le facce tristi di giocatori e dirigenti mi faceva essere insonne. E poi anche per qualche motivo più personale, privato. Se dovessi dirne una, quella dopo la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Marsiglia. E poi dopo una finale di Intercontinentale a Tokyo, contro il Velez. Fu una partita dominata, il portiere loro parò l'impossibile, ci diedero un rigore contro per un fallo stupido e perdemmo una partita stradominata":

Sui suoi esordi da calciatore: "Sono nato in un paese con 1100 abitanti. L'unica cosa che si faceva era giocare a calcio. Ho sempre giocato. Prima a Ferrara, con la Spal, con la Primavera. Poi sono entrato in prima squadra, mi sono trasferito alla Roma, ho vinto una Coppa Italia con Herrera, poi sono arrivato alla Juve e ho esordito in Nazionale. Ho fatto tutto passo dopo passo. Il momento più alto da calciatore? Il gol all'Inghilterra. Una delle cose più tristi, che non mi hanno fatto dormire, è stata l'eliminazione dai mondiali del 74 in Germania. La delusione e la rabbia dei nostri connazionali emigrati mi hanno colpito molto. Il gruppo era fortissimo, ma si è disgregato già quando furono dati i numeri delle maglie per le gare del mondiale. Quando furono assegnati i numeri, alcuni dissero che già avevano capito quali sarebbero stati i titolari. E' iniziata una battaglia tra Lazio e Napoli contro Milan, Inter e Juventus. Un po' sud contro nord".

Sulla carriera da allenatore: "Ho imparato tanto da Helenio Herrera e Liedholm. Per capacità e intelligenza di gestire varie situazioni. Sono stato contento di tutte le esperienze che ho avuto, ho fatto una carriera interessante sotto tanti aspetti, ho girato il mondo, tra Italia, Spagna, Inghilterra, Russia e Cina, mi sono migliorato in tutte le conoscenze. Per quanto riguarda la cultura e il calcio. L'arrivo al Milan? Mi chiamò Berlusconi, io avevo fatto l'allenatore per cinque partite e avevo qualificato la squadra in Coppa Uefa. Mi stavo occupando del settore giovanile, al Milan c'era Sacchi, aveva qualche problema con alcuni giocatori, diceva che bisognava cederli, Berlusconi invece decise di tenere i giocatori e di chiamare me in panchina. Io dissi di sì, mi mancava tantissimo il campo. Il più forte che ho allenato al Milan? Difficile da dire. Gli olandesi erano fortissimi. Savicevic era fenomenale. Ci misi tre mesi a fargli capire cosa volevo, era abituato a ricevere la palla e basta. Una delle considerazioni che ho sempre fatto in quel periodo è che era difficile vincere il pallone d'oro per chi non faceva l'attaccante. Baresi e Maldini l'avrebbero sicuramente meritato".

Sullo scudetto alla Roma: "Pensare che fui vicinissimo alla Lazio nel 1997. Ci incontrammo a Madrid, allenavo il Real, poi mi richiamò Berlusconi, al quale dovevo tutto e a quel punto per riconoscenza accettai al Milan e fu il mio più grave errore nelle scelte tornare. Io ho una capacità nel costruire le squadre, lì mi ritrovai con la squadra fatta, e non era una squadra competitiva. Lo scudetto nella Roma? Non è una leggenda che uno scudetto a Roma vale più che a Milano o Torino. Se hai la squadra a vincere lo scudetto ci arrivi anche a Roma. E' il dopo che è difficile. Si continua a festeggiare anche dopo lo scudetto per mesi. Non si ha più voglia, concentrazione, attenzione. Ci sono le radio, tutti lavorano per farti rilassare. L'ambiente romano? Per me non era un problema, io con le radio non andavo d'accordo, avevo detto subito che con le radio del raccordo anulare non avrei parlato. Non ero disponibile a parlare ogni giorno di quello che succedeva nello spogliatoio. Tanto lo sapevano comunque, perché a Roma si sa tutto. I giocatori, i procuratori, qualcuno che chiacchiera, c'è sempre. E' difficile mantenere un segreto. Ricordo quando chiamai Sensi, io non ho mai avuto procuratori, lui mi disse che mi voleva in panchina, ci incontrammo, firmai il contratto. C'era un problema con molti giocatori che Zeman avrebbe voluto mandare via. La squadra era forte, dopo un anno capimmo che serviva un giocatore di un certo livello, che facesse la differenza, e fu fatto un sacrificio per acquistare Batistuta. Arrivò con dei problemi al ginocchio ma si curò e fu fondamentale. Totti? Io ho sempre chiesto e dato rispetto ai giocatori. Devi essere capitano non solo per lo scambio del gagliardetto. Devi essere leader in tutti i momenti. Volevo che fosse così".

Su Cassano e Ronaldo: "Ronaldo il fenomeno era il più forte di tutti. E' stato il migliore. Ma è stato anche il giocatore che ho fatto cedere al Real Madrid perché non voleva perdere peso. Anche con quel peso enorme aveva ancora delle qualità incredibile. E' stato importante cederlo quando ero al Madrid, vincemmo il campionato. Io gli dissi che doveva mettersi a dieta. Gli chiedi di dimagrire. Mi disse che nel 2002 pesava 84 chili, quando lo allenavo io ne pesava 96. Gli chiedi di arrivare a 89, ma non ce la face. Cassano? Giocatore straordinario, talento unico, sotto certi aspetti vicino alla porta qualche volta aveva più talento di Totti, nello stretto aveva quel dribbling che gli permetteva di saltare l'uomo. Però purtroppo anche lui dopo un anno non aveva capito la sua forza. Un talento sprecato".

Sulla Nazionale Italiana: "C'è stato un momento in cui sono stato vicino alla panchina azzurra, io ho rifiutato perché non mi sentivo di poter allenare la nazionale italiana. Ora la squadra di Mancini ha una grande fortuna, ha bei giocatori. Ha un grande portiere, che fa sempre la differenza, e abbondanza di forza e qualità a centrocampo. Con forza e qualità a centrocampo, hai qualcosa di veramente importante".

Da palermotoday.it il 28 dicembre 2019. "Sono del Cep, Centro elementi pericolosi". La battuta è di Totò Schillaci che oggi è stato ospite di Vieni da Me, il salotto televisivo di Rai Uno con Caterina Balivo padrona di casa. L’ex campione ha parlato di tutto. Dalle notti magiche a Italia '90 ai primi passi nel quartiere palermitano - il Cep (centro edilizia popolare) - alla testata data a Roberto Baggio, suo compagno di squadra nella Juventus e nella Nazionale. Prendendo, infatti, un paio di guantoni da uno dei cassetti dei ricordi, Schillaci ha detto: "Secondo me… mi fanno ricordare la testata di Baggio… Trapattoni voleva darci dei guantoni… ‘La prossima volta colpitevi con i guantoni’…". "Totògol", che da poco ha compiuto 55 anni, ha ricordato: "Passavo un periodo un po’ brutto, lui negli spogliatoi mi provocava e scherzava. Io ero seduto e stavo leggendo il giornale, lui con la gamba continuava a colpire il giornale. Io gli dicevo ‘basta, finiscila’… Una, due, tre volte… Alla quarta mi sono alzato e ad un certo punto di ho mollato una testata. Trapattoni si presentò con i guantoni e scherzando disse ‘la prossima volta usate questi’…". Schillaci è stato un vero e proprio fiume in piena. Durante l'intervista Caterina Balivo gli ha mostrato un filmato con i gol messi a segno in Nazionale in quello splendido mondiale di quasi 30 anni fa. Un colpo al cuore per la stella palermitana che a un certo punto si è emozionato mostrando in diretta i suoi (famosi) occhi pieni di lacrime. “E' emozionante", ha detto. "Lo è anche per noi e non abbiamo fatto nulla", ha aggiunto Caterina Balivo. Non solo calcio. La conduttrice ha "indagato" anche sul fronte della vita privata di Schillaci: "Hai mai tradito?", ha chiesto all'ex bomber: "In passato ho tradito - ha ammesso Totò - ma oggi sono innamorato di mia moglie. Sono fortunato perché Barbara è una ragazza bellissima, intelligente e solare e mi ha cambiato la vita. Mi sono sposato nel 2012 e sono molto felice. Ero convinto che fosse la persona giusta e ne sono ancora convinto". Tornando al calcio giocato, ma non troppo, Schillaci ha rivelato che il suo compagno "del cuore" è sempre stato Stefano Tacconi. E l'ex portiere della Juventus gli ha inviato un videomessaggio in cui ha punzecchiato il bomber: “Totò forse ti sei confuso. Quanto mai sei stato un playboy? Quello ero io”, ha detto Tacconi. "E’ vero - ha poi controbattuto il palermitano - non sono mai stato un playboy perché sono sempre stato un professionista rispettando le regole". Così Schillaci sul periodo juventino: "E' stato un sogno. Se ero che volevano mandarmi a scuola di italiano? Sì, ma io ho rifiutato. Non ho mai studiato, avevo sempre in mente il pallone, me lo portavo pure a letto. Quando mi chiedevano 'come vai a scuola?', io rispondevo: A piedi". Inevitabile parlare del passato da gommista ("una volta a Firenze mi hanno tirato un copertone dagli spalti per prendermi in giro"), dei capelli ("a 16 anni mi facevo fare la permanente, sono sempre stato 'malato' con i capelli") e ovviamente del Mondiale italiano: "E’ stato un sogno straordinario, con tanti campioni. La canzone del mondiale sembra scritta per me. E' stata una favola, ho esaudito un sogno che avevo fin da bambino. L’ultimo convocato ero io e mi sono conquistato la panchina, poi per fortuna, nella prima partita sono subentrato nella ripresa e da lì è iniziata la mia avventura mondiale ma non mi aspettavo di ottenere tutto questo successo. Poi ho avuto molte difficoltà ad affrontare tutta questa popolarità. Il calcio mi ha aiutato ad allontanarmi dalle cattive amicizie e ho inseguito quell’avventura". Così invece su Palermo, la sua città: ("vengo dal Cep, Centro elementi pericolosi - dice scherzando - c'è gente buona e cattiva, mi ha aiutato a formare il carattere, dopo la fine dei mondiali mi hanno accolto in 20 mila") e sull'"inizio di tutto": "Sono nato in casa, a 7 mesi, ed ero tra la vita e la morte. C’era molto freddo, era il 1° dicembre e nevicava quel giorno. L’ostetrica disse ai miei genitori che non sapeva se sarei sopravvissuto. Invece, i miei nonni mi riscaldavano con le bottiglie dell’acqua calda e mi facevano mangiare con il cucchiaino ed oggi sono qui. La mia infanzia è stata particolare, sono nato al Capo e sono cresciuto in un quartiere molto povero. Nel 1982 abbiamo vinto il Mondiale e io ero a Messina. Mi trovavo sul tetto di un autobus e pensavo: 'Chissà se un giorno vedrò dal vivo una partita in Nazionale...'. Ci sono persone che hanno intrapreso una strada ben diversa dalla mia. Fortunatamente il mio sogno è sempre stato uno solo: diventare un calciatore. Così ho intrapreso questa strada e creduto fortemente nel mio sogno. Il calcio mi ha allontanato dalle cattive amicizie. E oggi posso dirti che dietro a tutto questo successo c’è un cammino in salita pieno di difficoltà che ho superato tutto con grande serietà".

Michela Proietti per corriere.it il 29 dicembre 2019. L’anello in stile principesco sfoggiato dal calciatore. Sempre a Dubai, lo scorso anno , aveva indossato gioielli per 1 milione di euro secondo una stima degli esperti. La passione per il lusso del calciatore è irrefrenabile e in fatto di orologi non conosce limiti: Ronaldo possiede una intera collezione, di cui fa parte un prezioso Montres Breguet doppio Touribillon del valore di mercato di 720mila euro.

Dieci anni senza esoneri. La Juve è regina d'Europa. Ma l'Italia è maglia nera. Ferrara, nel 2010, l'ultimo tecnico cacciato Sei cambi all'Inter, quattro per Milan e Roma. Andrea Bonso, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. Era il 28 gennaio 2010 e, nel quarto di finale di Coppa Italia, l'Inter di Mourinho sconfisse la Juve andando avanti nella competizione, che poi vincerà in quello che fu il magico anno del triplete. Alla guida della Juve c'era Ciro Ferrara, ma quella sconfitta costò il posto al tecnico napoletano. La sua squadra, infatti, era sesta in campionato e già fuori dalla Champions: troppo poco per una società che puntava a tornare grande dopo Calciopoli. Quell'eliminazione fu quindi la goccia che fece traboccare il vaso e la dirigenza si decise a dare il ben servito a Ferrara, chiamando Zaccheroni al suo posto. Ma nemmeno Zac riuscì a portare la tanto sperata svolta e chiuse l'annata con un deludente settimo posto. L'esonero di Ferrara, però, segnò una data significativa nella storia recente bianconera: da quel giorno la Juve non ha più cambiato un allenatore a stagione in corso, diventando così, tra le big europee, la squadra che non lo fa da più tempo. Un traguardo che tuttavia non sarebbe stato possibile senza gli ultimi stravolgimenti capitati ad Arsenal e Barcellona. Eh sì, perché i Gunners, dopo ben ventiquattro anni dall'ultima volta, a novembre hanno silurato Unai Emery, a causa di una serie di risultati disastrosi. Nel 1995 a saltare fu invece la testa dello scozzese Graham, che, a differenza del collega basco, guidò l'Arsenal per ben nove anni vincendo anche due titoli nazionali. Pochi giorni fa, invece, il ribaltone in casa Barcellona, dove Quique Setién ha sostituto Valverde. Sul tecnico spagnolo, oltre che un rapporto non idilliaco con lo spogliatoio, pesavano ancora come un macigno le rimonte subite con Roma e Liverpool, alle quali si è aggiunta quella in semifinale di Supercoppa Spagnola contro l'Atletico. E pensare che i blaugrana non esoneravano un allenatore in corsa dal 2003, quando al posto di Van Gaal arrivò Anti, che diventò in questo modo l'unico allenatore della storia a guidare Real, Atletico e, per l'appunto, Barcellona. E le altre big? Dopo la Juve, è il PSG la squadra che non caccia l'allenatore da più tempo, quando, nel dicembre 2012, Ancelotti subentrò a Koumbourè. Nel 2015 toccò al Liverpool, che salutò Rodgers per accogliere un certo Jürgen Klopp. Al Chelsea è curioso come Mourinho sia l'ultimo esonero sia dei Blues (2015) che dello United (2018). Il Real l'anno scorso fu costretto addirittura a tre cambi in panchina (Lopetegui, Solari e Zidane), mentre questa stagione il Bayern ha lanciato Flick al posto di Kovac. Per non parlare, poi, delle altre italiane. Il Napoli un mese fa ha scaricato Ancelotti per fare spazio a Gattuso. Le milanesi e la Roma, invece, nell'ultimo decennio sono state delle habitué dell'esonero in corso: sei per l'Inter, quattro per il Milan e i giallorossi. Una striscia positiva, quella della Juve, che, al netto di fatti clamorosi quanto improbabili (e Sarri è libero di toccare ferro), sembra destinata quindi a continuare almeno per un altro anno.

Da liberoquotidiano.it il 17 gennaio 2020. Prosegue l'inchiesta condotta dal Pm di Torino, Chiara Maino, su supposte indebite pressioni da parte capi ultrà nei confronti della società Juventus. Le frange più estreme del tifo juventino, infatti, hanno veementemente protestato contro il caro biglietti e abbonamenti. Tanto che gli inquirenti hanno ritenuto possibili ulteriori pressioni su Leonardo Bonucci, tornato alla Juve nell'estate 2018 da "traditore", dopo la parentesi al Milan. Così, scrive il Corriere della Sera, "il 4 agosto 2018 decidono (gli inquirenti ndr) di mettere sotto controllo i cinque numeri di cellulare intestati a Bonucci". Il difensore juventino, preoccupato da un'accoglienza ostile, ritenne necessario mettersi in contatto con la curva per ricucire lo strappo. Tra fine luglio e i primi giorni dell'agosto 2018, Bonucci entra in contatto telefonico con Fabio Trinchero, uno dei capi dei "Viking", indagato nell'ambito dell'inchiesta "Last Banner", poc'anzi menzionata. Secondo le intercettazioni, Bonucci avrebbe detto a Trinchero: "Mi farebbe piacere, quando torno dall’America, fare due chiacchiere per spiegarti come effettivamente sono andate le cose". Il capo ultrà gli rispose: "Con un confronto si possono aggiustare le cose". Ciononostante, nelle prime uscite stagionali arrivano le contestazioni. Bonucci chiede spiegazioni, ma un ultrà chiarisce: "Non è per te. Ti usano come pretesto per attaccare la società". Un Bonucci determinato a pacificare il rapporto con gli ultrà impensierisce la dirigenza bianconera, la quale teme che il proprio difensore possa stringere i contatti con i capi ultrà. "Capace che lo troviamo in uno dei bar loro (degli ultrà ndr)", riferisce al telefono un dirigente juventino intercettato.

Svelata la dura frase di Sarri alla Juve dopo l'esonero. Maurizio Sarri avrebbe espresso tutta la sua perplessità alla dirigenza della Juventus subito dopo l'esonero: "Mi mandate via ma questa squadra non è allenabile". L'ex Napoli si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Marco Gentile, Giovedì 10/09/2020 su Il Giornale.  Maurizio Sarri ha vinto lo scudetto con la Juventus ma è stato esonerato il giorno successivo all'eliminazione dagli ottavi di finale di Champions League per mano del Lione di Rudi Garcia. Il tecnico toscano non l'ha presa, ovviamente, affatto bene e secondo quanto riporta il Corriere di Torino si sarebbe sfogato con la dirigenza bianconera per una scelta, a suo dire ingiusta e immotivata dopo una sola stagione: "Voi mi mandate via ma questa squadra è inallenabile", lo sfogo dell'ex tecnico di Chelsea, Empoli e Napoli.

Problemi di organico. Sarri ha dovuto affrontare diversi problemi alla Juventus, primo su tutti quello relativo ad una rosa sì lunga ma che poco si sposava con la sua idea di calcio per caratteristiche di tanti calciatori che in realtà non si sono mai adattati al 100% ai suoi schemi. L'ex tecnico del Napoli, dunque, si sarebbe sfogato con Andrea Agnelli e Fabio Paratici mostrando tutte le sue perplessità circa l'esonero ma anche sulla rosa a sua disposizione in questa travagliata stagione 2019-2020 anche per via del coronavirus che ha di fatto, per tutti, diviso la stagione in due tronconi.

Questione di gioco. Il 61enne toscano era stato scelto per il bel gioco ma in realtà si contano sulle dita di una mano le partite giocate veramente bene dalla Juventus. La Vecchia Signora ha vinto sì il suo 36esimo scudetto, il nono di fila, ma l'ha fatto in maniera non abituale, ovvero soffrendo oltremisura e solo le defezioni di Inter e Lazio hanno permesso alla Juventus di poterla spuntare in un finale di stagione convulso.

Il nuovo corso. La Juventus ha subito deciso di voltare pagina puntando su un allenatore giovanissimo come Andrea Pirlo, 41 anni, che non ha ancora maturato una presenza su nessuna panchina ma che metterà al servizio della causa la sua idea di calcio e il suo carattere che gli ha permesso di essere uno dei giocatori più al forti al mondo nel suo ruolo. "Il maestro" dovrà cercare di riuscire dove Sarri ha in parte "fallito": far coesistere e amalgamare al meglio un gruppo con diverse personalità e caratteristiche tecniche. La stagione è ormai alle porte ma il club deve ancora sfoltire la rosa con degli esuberi, Khedira e Higuain su tutti, ma soprattutto scegliere il nuovo attaccante per rimpiazzare il Pipita con le quotazioni di Suarez che stanno perdendo quota nelle ultime ore.

I 419 pazzi giorni di una meteora di nome Maurizio. Doveva portare il bel gioco, come Maifredi 30 anni fa. Dopo di lui partì la rivoluzione. Sarà così? Domenico Latagliata, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. Il (presunto) calcio champagne non porta bene alla Juventus. Questione di Dna, probabilmente. O del fatto che a Torino, città concreta e operaia, il risultato vada di pari passo con lo spettacolo: se manca il primo, manca anche il secondo. Basta capirsi, insomma. E, soprattutto, basta saperlo: Sarri lo ha imparato a proprie spese, pur avendo vinto lo scudetto. Gigi Maifredi, stagione di grazia (per gli avversari) 1990/91, anche: chiamato da Luca Cordero di Montezemolo per fare cambiare pelle alla Signora e avvicinarsi al Milan berlusconiano, non ne imbroccò una. O quasi: la zona difensiva non attecchì, Roberto Baggio predicava nel deserto e il settimo posto in classifica portò per la prima volta dopo ventotto anni all'esclusione dalle coppe europee. Né andò meglio in Europa, nell'allora Coppa delle Coppe: il cammino si interruppe in semifinale contro il Barcellona allenato da Johan Cruijff. Ne seguì una vera restaurazione, con il ritorno di Boniperti e Trapattoni: non è ancora dato a sapere quel che succederà sotto la Mole nelle prossime ore, ma intanto ieri è andato in archivio l'interregno di Sarri. Il quale, va ripetuto per giustizia, al contrario di Maifredi lo scudetto l'ha vinto e perdipiù subito, ma non ha mai avuto davvero la squadra dalla sua parte: nemmeno nella tournée della scorsa estate, quando leggenda vuole siano nati i primi dissapori con parte della vecchia guardia. E anche i tifosi, pretenziosi perché ammaliati dalla bellezza del gioco espresso precedentemente dal Napoli, gli hanno presto voltato le spalle. Si è così tornati a pensare solo al risultato, raggiunto in campionato ma non oltre i patri confini. Dove il bilancio (negativo) ha infine determinato il futuro: era dal 2015/16 che i bianconeri raggiungevano almeno i quarti di finale, traguardo minimo per sentirsi grandi e giustificare l'arrivo di CR7. Fallito l'approdo alle Final Eight di Lisbona, il castello è quindi crollato e Agnelli ha messo il turbo. Ringraziando Sarri per il lavoro svolto (un minimo di stile è rimasto) e per «la vittoria del nono scudetto consecutivo, coronamento di un percorso personale che lo ha portato a scalare tutte le categorie del calcio italiano». Non è bastato. E non poteva bastare. Perché la Signora si sente europea e mondiale: come Ronaldo, il quale con Sarri non ha mai davvero legato nonostante sotto la sua guida abbia decisamente segnato di più rispetto alla scorsa stagione (37-28). I numeri però non sono tutto, a volte nemmeno per CR7: bisogna alzare i trofei più importanti, per essere grandi. E comunque anche certi dati avevano fatto capire, strada facendo, che la Juve non era più né carne né pesce: troppi, alla fine, i 54 gol presi in 52 partite, troppi i 4 ko nelle ultime 8 di campionato, troppe le rimonte subite, troppo pochi i 76 gol segnati in campionato se paragonati ai 98 dell'Atalanta. Tutto troppo dal verso sbagliato. Motivo per cui, si cambia.

Da "gazzetta.it" il 9 agosto 2020. Ci siamo, ora è ufficiale: Andrea Pirlo sarà il nuovo allenatore della Juve fino al 2022. Prenderà il posto di Sarri, esonerato dopo l'eliminazione dalla Champions per mano del Lione. L'ex regista, 41 anni, aveva appena intrapreso l'avventura in Serie C come allenatore della Juve Under 23, ma la sua tappa è durata solo dieci giorni (era stato ufficializzato il 30 luglio). Il presidente Agnelli, il giorno della sua presentazione da tecnico dell'U23, disse che "il percorso della seconda squadra verso la prima deve valere per i giocatori e per l'allenatore. Devono meritarlo, e questa è solo la prima tappa". Ed è stato lo stesso presidente a decidere in prima persona e a chiamare Pirlo in sede alla Continassa oggi pomeriggio. Al suo posto, alla guida dell’Under 23 dovrebbe andare uno tra Fabio Grosso (favorito) e Marco Baroni. Pirlo è alla sua prima esperienza in Serie A da allenatore. Dopo tre stagioni a New York in Mls, ha smesso di giocare nel 2017 e nel 2018 ha preso il patentino da tecnico (27 settembre). Una carriera unica, trofei in serie, due volte campione d'Europa e campione del Mondo nel 2006 con la Nazionale azzurra. Più di 700 presenze in carriera con le maglie di Inter, Brescia, Reggina, Milan, Juve e New York FC. Regista inimitabile dal palmarés pieno di vittorie. Ora la panchina bianconera, lo ha annunciato ufficialmente il club bianconero.

Andrea Pirlo alla Juventus? Paola Ferrari: i due pessimi precedenti, una "mezza gufata". Libero Quotidiano il 09 agosto 2020. È il tema sportivo del giorno, del mese, della settimana. Si parla della cacciata di Maurizio Sarri dalla Juventus dopo il flop in Champions League con il Lione. O meglio, si parla della successione, la scelta di Andrea Pirlo, lanciato subito ad altissimi livelli. Una sorta di esordiente su una delle panchine più ambite al mondo, dove arriva solo dieci giorni dopo la nomina a mister della Under 23 bianconera. Decisione di Andrea Agnelli che punta tutto sull'ex regista. Una decisione che viene commentata su Twitter da Paola Ferrari, la signora del calcio in Rai, che si produce in una mezza "gufata" (non ce ne voglia). Il punto è che la Ferrari ricorda un paio di precedenti simili a quello di Pirlo. Precedenti che però non furono di successo. "La Juventus fa la stessa scelta che fecero Inter e Milan con Andrea Stramaccioni e Pippo Inzaghi. Ad entrambe non andò bene però! Comunque benvenuto Pirlo. E in bocca al lupo", cinguetta Paola Ferrari. Oscuri presagi?

Juventus, Maurizio Sarri esonerato: i 6 motivi della decisione. La Juventus ha deciso di esonerare Maurizio Sarri a poco più di una stagione dal suo arrivo e dopo il flop in Champions League contro il Lione. Dall’assenza del gioco, alla brutta figura in Europa, passando per lo scarso feeling con lo spogliatoio e la comunicazione non troppo fortunata: ecco tutte le “colpe” del tecnico. Marco Beltrami l'8 agosto 2020 su Fanpage.it. La Juventus ha deciso di esonerare Maurizio Sarri. Il tecnico arrivato poco più di un anno fa, ha pagato per tutti all'indomani dell'eliminazione in Champions per mano del Lione. Non è bastata dunque al presidente Agnelli la vittoria del nono Scudetto consecutivo, con l'allenatore che è finito sotto accusa per una serie di aspetti che hanno portato la dirigenza ad optare per un nuovo ribaltone. Ecco quelle che sono le principali "colpe" di Maurizio Sarri, e le grandi aspettative che sono state disattese.

L'assenza del gioco nella Juventus di Sarri. L'accusa principale rivolta a Sarri è quella relativa all'assenza del famigerato "gioco". Soltanto un anno fa, la Juventus dava il benservito al "pragmatico" Allegri per cercare di andare oltre il risultato, puntando su un mister considerato il profeta di un calcio divertente e convincente, più "europeo" rispetto a quello del predecessore. In realtà trame e palleggio in bianconero si sono visti solo a sprazzi, e per larghi tratti della stagione la squadra ha giocato anche peggio rispetto al recente passato e aiutata in molte occasioni dalle proprie importanti individualità. Ad aiutare Sarri non sono arrivati nemmeno i risultati visto che, è stato portato a casa il nono Scudetto consecutivo, ma sono stati registrati flop pesanti in Supercoppa, Coppa Italia e soprattutto Champions dove la Juventus ha ceduto il passo al Lione, squadra nettamente inferiore in termini di valori. Una situazione inammissibile in un club dove "vincere è l'unica cosa che conta".

Il flop in Champions League della Juventus, eliminata dal Lione. Già la Champions. Dichiarazioni di facciata a parte, è questo ogni anno il principale obiettivo della Juventus. Con Sarri si sperava di poter contare su una squadra più a suo agio in ambito continentale, anche sulla scia del successo con il suo Chelsea nella scorsa Europa League. Anche in Europa però i bianconeri non sono riusciti a cambiare marcia rispetto al passato, e l'eliminazione contro un Lione, sicuramente inferiore e di fatto fermo dal pre-lockdown è ingiustificabile, se si considera che si tratta degli ottavi. Dito puntato soprattutto sulla gara d'andata, in cui è andata in scena forse la peggiore Juventus dell'anno e non solo, incapace nell'arco di 90′ di mettere in difficoltà l'avversario. Un peccato, in considerazione del fatto che nella final eight, con partite secche potrebbe succedere di tutto. La sensazione è quella di aver gettato alle ortiche una colossale opportunità di arrivare fino in fondo.

Il rendimento da incubo della difesa della Juventus con Sarri. Il reparto che ha fatto più fatica è stato sicuramente quello arretrato. Quella difesa che nelle ultime stagioni era stata sempre il punto di forza e il primo fattore dei successi della Juventus, ha perso certezze con il passare dei mesi. Al netto dei tanti infortuni, i 43 gol subiti in campionato, sono un'enormità considerando che la Juventus non si dimostrava così vulnerabile dal 2010/2011, ultima stagione a bocca asciutta prima del filotto di titoli iniziato con Conte. Troppe lacune, troppa fragilità per una squadra che soprattutto dopo il lockdown ha dato la sensazione di poter subire gol in qualsiasi momento della partita. Certo anche l'attacco, considerando i nomi su cui poteva disporre (Ronaldo e Dybala su tutti) non ha brillato per efficacia in Serie A confermandosi il peggiore tra le prime cinque in classifica.

La difficoltà di Maurizio Sarri nell'imporre le proprie idee. Il tanto atteso "Sarrismo" dunque a Torino non ha mai attecchito. Il tecnico non è mai riuscito ad imporre le sue idee, dovendo fare i conti con la gestione di uno spogliatoio importante, dove i campioni non mancano. Le premesse e promesse della scorsa estate si sono rivelate infondate e l'allenatore è stato costretto a cambiare diverse volte. Basti pensare per esempio alla "gestione" di Pjanic, uno che a detta di Sarri avrebbe dovuto toccare "150 palloni in partita" e che invece non è riuscito ad allinearsi alle idee del mister. La sensazione è stata sin dall'inizio quella di una difficoltà di natura gestionale, con i calciatori che non sono riusciti a riconoscere l'autorità del tecnico.

Lo scarso feeling con lo spogliatoio della Juventus. E a tal proposito l'empatia con la squadra non è stata mai totale. Sin dal momento del suo arrivo con le lamentele per una rosa troppo numerosa (paradossali se si pensa che ieri è stato necessario l'inserimento di Olivieri dell'Under 23) con la rottura con Emre Can e Mandzukic, Sarri non è riuscito a far breccia nel gruppo Juventus con le sue scelte che sono state maldigerite anche in maniera plateale. Cristiano Ronaldo, stella indiscussa della squadra, spesso e volentieri in campo si è lamentato in direzione della panchina durante la partita puntando il dito contro l'atteggiamento della squadra e i pochi palloni ricevuti.

I problemi a livello di comunicazione e le uscite che hanno fatto arrabbiare i tifosi della Juventus. In ultimo non bisogna dimenticare anche l'aspetto extra-campo, soprattutto per quanto concerne la comunicazione. Alcune uscite di Maurizio Sarri non sono state gradite né dai tifosi, né dalla dirigenza. Basti pensare alle parole dopo la sconfitta della Juventus contro il Napoli sua ex squadra quando dichiarò: "Sono contento per i ragazzi a cui sono affezionato e resterò per sempre. Se proprio devo perdere, almeno qui sono contento per loro". Ma anche quelle dopo il flop in Champions contro il Lione "Se ci fosse una classifica della Champions League, saremmo primi". Una differenza notevole rispetto al suo predecessore Allegri, sempre molto abile davanti ai microfoni.

Juve ko a Verona l'Sos ai senatori: "Spero che mi aiuti qualcuno..." Roberto Dupplicato, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. I primi problemi tra Sarri e la Juve scoppiano la scorsa estate. Sulla rosa ampia e incompleta il tecnico esprimeva la sua stima per Paratici, dicendo di vivere una «situazione imbarazzante».

Dicembre 2019, Juve avanti 1-0 con la Lazio ma Sarri chiede a Bonucci (foto) più attenzione. Il difensore gli si avvicina e davanti alla bordocampista DAZN risponde con presunzione: «Sì, sì... abbiamo capito, ma stai calmo». L'azione dopo, la Lazio pareggia dopo una sbavatura di Bonucci.

La Juve ha cambiato Sarri? Ecco come l'allenatore rispose a gennaio: «Per mia moglie sono sempre la stessa testa di...».

Caressa su Sky: «Ti dà un po' più fastidio aver perso a Napoli?». La risposta: «Sinceramente no. Sono contento per i ragazzi a cui sono e rimarrò affezionato per sempre».

Dopo la sconfitta di Verona Sarri manda l'Sos ai senatori: «Spero che mi aiuti qualcuno...».

Buffon a giugno: «Credo che nel prossimo anno avremo l'opportunità di vedere il vero Sarri».

Paratici a luglio spegne le speculazioni sul futuro: «Sarri sarà senz'altro l'allenatore della Juve anche l'anno prossimo».

Dopo il suo primo Scudetto l'ex allenatore del Chelsea ha almeno potuto mandare un saluto a Conte e Allegri: «Ho vinto in Italia e in Europa, in pochi come me».

Sarri giovedì aveva già ringraziato Paratici, Nedved e tutto lo staff: «Quella col Lione la mia ultima gara con la Juve? No, i nostri dirigenti non sono dilettanti».

Sarri dopo l'eliminazione: «Con 6 vittorie, un pareggio e una sconfitta, se ci fosse una classifica avremmo 19 punti». Pure l'Uefa, però, con questa novità dell'eliminazione con gare andata e ritorno...

A. Ba. - G. Odd. Per “la Stampa” il 9 agosto 2020. Un amore mai sbocciato, una rivoluzione subito fallita. Maurizio Sarri è durato ben più del sarrismo che avrebbe dovuto portare alla Juventus un anno fa, ma la sua (breve) epoca bianconera si chiude con un amaro esonero dopo 419 giorni di lavoro, 52 partite giocate in una stagione senza precedenti e uno scudetto appena messo in bacheca. L' eliminazione agli ottavi di Champions, contro il Lione, è stato il punto di non ritorno, però la decisione di cacciarlo non è figlia di quella beffarda vittoria: da tempo i dirigenti bianconeri stavano valutando l' ipotesi di cambiare allenatore e così gli ultimi giorni sono stati un lungo e freddo addio. Le parole e gli atteggiamenti del tecnico toscano, subito dopo la conquista del tricolore e prima della partita più importante dell' anno («I dirigenti non sono dei dilettanti, il mio lavoro non verrà valutato dall' esito di un' unica gara»), lasciavano intendere quanto fosse vicino il capolinea per Sarri. Paga per un feeling mai nato con l' ambiente, anche per gli atteggiamenti così poco juventini, ma soprattutto il fallimento di non essere riuscito ad imporre la sua Idea in campo e nello spogliatoio. Proprio con i giocatori è spesso entrato in conflitto per metodi e modi controversi: ci sono state incomprensioni con la vecchia guardia (anche con Barzagli che gli faceva da assistente), con Pjanic e con Ronaldo. Dalla fuga dallo Stadium durante Juve-Milan, dopo una sostituzione non gradita, al rifiuto di fare il centravanti: non sono mancati gli attriti con il portoghese, così come le delusioni per le sconfitte nelle finali di Coppa Italia e Supercoppa oltre al mancato accesso nella Final Eight di Champions. Douglas Costa, sollievo social Non è dunque un caso se nessun calciatore ha lasciato un messaggio sui social per salutare o ringraziare Sarri. Anzi Douglas Costa, così come gli ex bianconeri Emre Can e Mandzukic, hanno apprezzato con un like la notizia ufficiale dell' esonero. Un silenzio emblematico, tale e quale a quello di Andrea Agnelli che non l' aveva citato nella famosa conferenza per presentare Andrea Pirlo lo scorso 31 luglio.Certe cose non succedono per sbaglio, anche se il presidente aveva rassicurato Sarri sulla solidità dell' avventura dopo la finale di Roma persa contro il Napoli ai rigori. Anche per questo il tecnico c' è rimasto male e adesso rispetterà il contratto da oltre 7 milioni di euro netti a stagione fino al 30 giugno 2022 (uno sicuro più un altro di opzione). Non gli mancherà il tempo per rimirare la medaglia dello scudetto, ricevuta appena otto giorni fa.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 9 agosto 2020. Per chi non segue con passione il calcio questa è una notizia del cavolo: la Juventus ha licenziato l' allenatore che ha portato la squadra a vincere lo scudetto, ma non è riuscito a trascinarla verso la finale di Champions. Capirai che delitto. La competizione europea per i bianconeri è da sempre un calvario. Quindi il crimine attribuito a Maurizio Sarri, ottimo trainer, non è da ergastolo. Costui non meritava un siluramento, visto che comunque ha conquistato lo scudetto. Niente da fare. I signorotti torinesi essendo sia inflessibili sia presuntuosi hanno preso l' allenatore a pedate nel sedere e lo hanno cacciato malamente. Per altro senza avere ancora individuato un successore sulla carta migliore. Io non conosco Sarri personalmente ma sono memore delle sua imprese alla guida del Napoli e prima ancora dell' Empoli, per cui non posso non stimarlo e deplorare il suo allontanamento avvenuto in circostanze vergognose. Uno porta a casa mi pare il nono scudetto, avendo dominato il campionato nazionale, e anziché un premio gli rifilano il benservito come usa con le serve a ore. E solo perché giovedì sera la Juve contro il Lione ha vinto a 2 a 1 quando sarebbe stato necessario un 3 a 1 per passare il turno. Agnelli non ha sentito ragioni e anziché bocciare se stesso ha messo alla porta il tecnico in modo brutale. Una mossa da padrone delle ferriere che fa venire voglia di rispolverare il comunismo anche se mi sta sui palloni. Ma la cosa non mi stupisce più di tanto. Infatti qualche tempo fa la tigre vestita da Agnellino ebbe a dire in sede europea: ma che ci fa l' Atalanta in Champions, certe squadrette non meritano il grande palcoscenico del calcio, stiano in Patria e non disturbino noi principi. Segnalo a questo gentiluomo dei miei stivali che l' Atalanta è ancora in gara per ottenere il trono mentre la sua, pur essendo fortissima, è alla canna del gas. Nello sport va avanti chi ottiene buoni risultati e non chi pensa basti la Panda per andare avanti. Reclamiamo un po' di rispetto per Sarri e per i pedatori eccelsi di Bergamo.

Cosa si sono detti Sarri e Agnelli: il faccia a faccia a porte chiuse. Sarri non avrebbe legato con diversi esponenti della Juventus: da Agnelli a CR7 passando per Chiellini e Buffon, la scintilla non è mai scattata con l'ambiente bianconero. Marco Gentile, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. Maurizio Sarri ha lasciato in silenzio e in punta di piedi la Juventus che ha deciso di puntare con forza su Andrea Pirlo, uno dei pupilli di Andrea Agnelli. Il giovane presidente bianconero ha deciso di puntare deciso su quello che in teoria sarebbe dovuto essere il tecnico dell'under 23 per una serie di ragioni soprattutto legati a costi e tempistiche. Il rapporto tra Sarri e Agnelli non sarebbe mai decollato e non solo dato che il tecnico toscano non avrebbe legato nemmeno con la gran parte dell'ambiente bianconero.

Nervi tesi. Secondo quanto riporta il Mattino la scintilla tra Sarri e l'ambiente bianconero non sarebbe mai scattata per varie ragioni e il messaggio arrivato forte e chiaro è stato il seguente: "Meglio lasciarsi prima che sia troppo tardi". L'ex di Chelsea, Empoli e Napoli tra l'altro aveva il contratto in scadenza il 30 giugno del 2022 e ora potrebbe anche decidere di restare fermo un anno se non arriverà un'opportunità davvero irrinunciabile.

Questione di feeling. Sarri ha pagato a caro prezzo le sconfitte nelle finali di Supercoppa Italiana e Coppa Italia per mano di Lazio e Napoli e la prematura elimininazione dalla Champions League ma anche altre cose non sono piaciute alla dirigenza e ad alcuni calciatori nonostante la conquista del nono, sudatissimo, scudetto consecutivo. Secondo quanto riporta la Gazzetta dello Sport, inoltre, non sarebbe scattato il feeling con diversi calciatori tra cui due dei due grandi leader: il capitano Giorgio Chiellini e soprattutto Cristiano Ronaldo e per ragioni differenti. Al portoghese pare non sia mai andato giù lo spostamento della sua posizione in campo e le sostituzioni subite mentre a Chiellini non sarebbe addirittura mai piaciuto lo stile Sarri.

Il fumo, il linguaggio e i silenzi. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, inoltre, il fallimento Juventus-Sarri sarebbe stato totale soprattutto dal punto di vista empatico e comunicativo con alcuni giocatori infastiditi dal suo continuo fumare fuori dagli spogliatoi, le troppe parolacce e il linguaggio molto spesso colorito e lo scarso feeling con la maggior parte dei calciatori della sua rosa tra cui Buffon, spesso silenzioso nello spogliatoio a testimonianza di una scarsa empatia con il tecnico. I recenti like social in relazione al suo addio da parte di Douglas Costa e di due ex scartati da Sarri ovvero Mandzukic ed Emre Can fanno capire come il tecnico non avesse propriamente in mano lo spogliatoio. Durante la preparazione estiva, inoltre, era il 21 luglio del 2019 la Juventus è sotto contro il Tottenham dell'allora tecnico Pochettino con Sarri che pare se ne sia uscito fuori con una battuta infelice: "Ma come ho fatto a perdere due scudetti contro di voi?". Una battuta ovviamente scherzosa ma che di fatto non fu interpretata bene da gran parte dello spogliatoio e che ha poi compromesso la stagione intera.

Il futuro di CR7. France Football qualche tempo fa si era espresso in maniera netta circa la voglia di CR7 di continuare la sua avventura in Italia: "Cristiano si è stancato della Juventus", aveva scritto il periodico francese con il Psg in agguato per strapparlo alla Vecchia Signora. Ora il portoghese si sta rilassando in vacanza in compagnia della sua famiglia e della fidanzata Georgina Rodriguez sul suo yacht privato ma le voci sul suo futuro non si placano. Secondo quanto riporta Footmercato Leonardo avrebbe già contattato Jorge Mendes, agente dell'ex di Real Madrid e United che fino a qualche settimana fa aveva parlato di una permanenza a Torino da parte del suo assistito. Agnelli, subito dopo l'eliminazione dalla Champions League l'ha definito un punto di riferimento importante per la Juventus ma l'idea di vederlo lontano dalla Juventus non è poi un'utopia e il Psg farà di tutto per convincerlo a misurarsi nel quinto campionato europeo dopo quello portoghese, inglese, spagnolo e italiano ma sempre e comunque Agnelli e Pirlo permettendo.

Juventus, non tutti i calciatori erano contro Sarri. Arriva il bel messaggio di Bonucci per il tecnico. Leonardo Bonucci, difensore della Juventus, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social su mister Maurizio Sarri. Redazione di areanapoli.it il 9 agosto 2020. Maurizio Sarri e Leonardo Bonucci sono stati due protagonisti importanti della Juventus. Entrambi hanno condiviso diverse conferenze stampa d Champions League. E non solo. Leonardo Bonucci, difensore dei bianconeri, ha pubblicato un bel messaggio sui suoi profili ufficiali social. Ecco quanto si legge: "Rapporto schietto e sincero fin dall'inizio, abbiamo condiviso gioie e dolori di un anno unico nel suo genere. Grazie Mister Sarri, buona fortuna".  Maurizio Sarri è stato esonerato dalla Juventus il giorno dopo l'eliminazione in Champions contro il Lione. La decisione del club bianconero ha scatenato reazioni di ogni tipo: in molti hanno accolto favorevolmente la scelta del club torinese, compresi Emre Can e Douglas Costa. L'ex centrocampista bianconero, ceduto a gennaio al Borussia Dortmund a causa dello scarso minutaggio concessogli dal tecnico (che non lo inserí nemmeno in lista Champions), ha mostrato il suo apprezzamento alla scelta della società bianconera, con un like al post tramite il quale il club ha ufficializzato la decisione su Instagram. Non tutti i giocatori della Juve hanno messo "Mi Piace" alla notizia dell'esonero. Bonucci, evidentemente, era molto legato a Sarri.

Juve, cacciare Sarri non risolverà i problemi: dai dirigenti che volevano vendere Dybala a una squadra indebolita (Ronaldo a parte). La società ha impiegato pochissimo per la scelta, ma Agnelli ha parlato di "analisi completa": non basterà l'esonero per trovare la soluzione a una stagione "agrodolce". Per esempio una rosa sbilanciata con il tecnico costretto ad arrangiarsi con giocatori poco adatti alle sue idee o riciclati (Higuain). C'è il campione portoghese in più, sì, ma a che prezzo se la struttura è meno forte in campo e nel portafogli? Lorenzo Vendemiale l'8 agosto 2020 su Il Fatto Quotidiano. Madido di sudore, stravolto dalla partita, “devastato” dall’eliminazione, per usare le sue parole. Forse Maurizio Sarri se lo sentiva, sapeva in cuor suo che la sconfitta (o meglio, la vittoria inutile) contro il Lione gli sarebbe stata fatale. Aveva un po’ l’aspetto del condannato a morte, e le dichiarazioni vaghe del presidente Agnelli certo non lo hanno incoraggiato. Di tempo per decidere la Juventus se n’è preso pochissimo, segno che la scelta in fondo era già stata maturata: Sarri è stato esonerato, la sua avventura in bianconero è durata solo un anno, concluso comunque con uno scudetto, il primo della sua carriera, il nono per la Juve. La differenza fra i punti di vista è tutta qui. Mentre si scatena già il totonomi – da Simone Inzaghi a Zidane, da Pochettino al ritorno di Allegri – in casa Juve però è ancora tempo di bilanci, perché le scelte sul futuro passano inevitabilmente dalla presa di coscienza di ciò che non ha funzionato quest’anno. Un po’ lo ha già fatto Agnelli, che ha definito giustamente la stagione “agrodolce”, ha sottolineato la necessità di “ripartire con rinnovato entusiasmo”, ma anche di fare “un’analisi completa”: nelle parole del patron bianconero c’è la ragione dell’esonero di Sarri, ma anche la consapevolezza che non basterà l’esonero di Sarri per risolvere tutti i problemi. Era quello che più o meno tutti pensavano già dopo la fine del campionato. La Juve ha vinto ma non ha convinto, un po’ come il suo allenatore. Lo scudetto, l’ennesimo, non ha entusiasmato chi lo vince da nove anni di fila, ma nemmeno poteva essere dato per scontato. Se Sarri avesse perso quello, allora sì che si sarebbe potuto parlare di fallimento, così è solo un’altra stagione che si conclude in trionfo in Italia e in lacrime in Europa. Semmai quello che gli si può davvero rimproverare è di non aver lasciato il segno, essersi piegato troppo alla realtà bianconera: era stato preso per cambiare la Juventus, renderla più offensiva, spettacolare e magari europea dopo gli anni della realpolitik di Allegri, ha finito per adeguarsi allo spogliatoio e vivere delle giocate delle sue stelle, fagocitato dalla grandezza di Ronaldo. Come semplice gestore di campioni, Sarri non è certo il migliore degli allenatori, tanto vale sostituirlo. Probabilmente Agnelli ha cambiato per questo, e per la storia dell’entusiasmo da restituire a un ambiente, che la tuta trasandata di Sarri non l’aveva mai digeriti davvero. Questione di stile (Juve). Detto ciò, il tecnico non è stato certo il limite principale, non l’unico almeno. Sarri un anno fa non c’era e i bianconeri non avevano fatto miglior figura con l’Ajax. Sul banco degli imputati sale in blocco anche la dirigenza, che questa squadra l’ha costruita, dall’allenatore in giù. Nedved, Paratici che la scorsa estate aveva fatto il giro dell’Europa per provare a piazzare Dybala, che poi si è rivelato il miglior giocatore del campionato. La rosa era sbilanciata, Sarri ha dovuto arrangiarsi con giocatori poco adatti alle sue idee, a volte con pezzi proprio riciclati, tipo Higuain. Qualcuno oggi forse a Torino rimpiange Marotta. E si interroga perfino sull’affare Ronaldo. CR7 anche ieri contro il Lione è stato fenomenale, in due anni ha segnato oltre 50 gol in Serie A, il suo rendimento è indiscutibile. A che prezzo, però. La scommessa economica del suo acquisto è stata vinta solo in parte, con il fatturato che è cresciuto ma non abbastanza da sostenere l’aumento dei costi. Oggi la Juve è una squadra finanziariamente e tecnicamente più debole di qualche anno fa. C’è un Ronaldo in più, ma è come se fosse scomparso il resto della squadra (basta pensare al confronto tra il centrocampo con Pirlo, Pogba e Vidal e quello attuale). In Italia resta ancora nettamente la più forte, ma intanto l’età media della rosa è salita e anche in patria il vantaggio sulle avversarie si è ridotto in maniera preoccupante. In fondo, l’ha detto proprio Agnelli che “l’analisi dovrà essere completa”. Oggi Sarri ha pagato per tutti, anche per le sue colpe. Ma non è detto che senza di lui la Juventus sarà necessariamente migliore. 

Juventus, Sarri: "Ho fatto 8 promozioni, quando mi dicono che non ho vinto nulla mi girano i..." Le parole dell'allenatore alla vigilia della finale di coppa Italia contro il Napoli. Emanuele Gamba il 16 giugno 2020 su La Repubblica. Maurizio Sarri è alla ricerca del suo primo trofeo italiano dopo la Coppa Italia di serie D con la Sansovino, ma se la questione viene messa in questi termine lui si inalbera: "Mi girano i coglioni quando dicono che non ho vinto niente. Ho fatto otto promozioni e tutte sul campo, non ho saltato una categoria tranne nel passaggio dalla C1 alla B, dove ho comunque raggiunto i play-off. E sul campo ho conquistato l'accesso alla Champions. E' un percorso che può sembrare semplice ma invece è difficilissimo. Qui ho sbagliato qualche partita e ci sta, ma era dagli anni 50 che un allenatore al primo anno di Juventus non aveva la mia media punti, anche se nessuno se ne ricorda. È chiaro che diventa tutto più difficile se vincere è un'abitudine, ma bisogna sempre ricordarsi che la vittoria non è la normalità ma va vissuta come un momento eccezionale". Anche per questo dice di non voler vincere per sé stesso: "Il sentimento prevalente è aiutare i giocatori a vincere, e di farlo per società e tifosi". Il fatto che possa accadere contro il "suo" Napoli non lo turba: "In questo momento non ho retropensieri. Sono pienamente proiettato su di noi".

Da gazzetta.it il 17 aprile 2020. Maurizio Sarri sceglie la tv della Juventus per una chiacchierata che, in tempi di quarantena, tocca svariati argomenti. “Da ragazzo divoravo Bukowski, merito di una prof di italiano bravissima. Beatles o Rolling Stones? Più Rolling Stones. Fino a 7-8 anni fa quando mi trovavo con gli amici di mio figlio sentivo musica imbarazzante. Prima mi dicevano sei vecchio, adesso sono i primi a dirmi di mettere musica Anni 70. Io scaramantico? Quando allenavo in eccellenza in Toscana avevo la fissazione di mettere la macchina sempre nello stesso posto, i ragazzi se ne erano accorti e ogni tanto mettevano una macchina lì apposta. Mi ricordo che una volta entrai in spogliatoio e dissi al ragazzo che gli avrei dato tre minuti per spostarla altrimenti l’avrei fatto io in un’altra maniera. Lui non uscì, io misi la macchina dietro e gliela portai via. La partita poi è finita 2-0 per noi e non mi ha potuto dire niente”.

CALCIO E...VIAGGI. Un tifoso gli chiede dei viaggi che vorrebbe fare e fatalmente si torna al pallone: “Il primo è Roma per la finale di Coppa Italia, poi qualsiasi tappa europea perché vorrebbe dire che saremmo andati avanti. In questo momento non ho la testa completamente libera. Ho riguardato alcune partite nostre per schiarirmi le idee. Ora si deve pensare che l’estate la faremo speriamo giocando quindi penso sia giusto staccare un po’ ora. Anche perché faremo probabilmente fra questa stagione e la prossima 14-15 mesi di fila. Guardo qualche partita del passato e ogni volta che vedo il Milan di Sacchi mi rendo conto che erano vent’anni avanti”.

SENTIMENTI. “Se ho mai pianto per il calcio? Ho pianto più per sofferenza visto che ho vinto poco a questi livelli. Mai pubblicamente, però a volte mi sono trovato da solo in casa con le lacrime. Penso faccia parte della passione che ci metti. Non è un segno di debolezza ma di passione e forza per ripartire. Io ho avuto un rapporto conflittuale per i primi mesi con lo spogliatoio del Chelsea, poi quando ho detto che andavo via dopo la finale di Europa League ho pianto così come molti di loro. La Premier un po’ manca, il clima che si respira intorno allo stadio è fantastico. In un anno là non ho mai sentito un coro contro, le tifoserie arrivano allo stadio insieme, le strutture sono bellissime gli stadi tutti pieni. Non sono uno da pacche sulle spalle, sono uno che se fai degli errori te lo dice. Parlo molto di quello che sbagliano e poco di quello che fanno bene. All’impatto è pesante, poi dopo ti riconoscono un’onestà di fondo. Io i rapporti migliori ce li ho con tutti i giocatori che ho fatto giocare poco”.

ESSERE GOBBI. Sarri parla poi del suo impatto con la Juve e dice cose niente affatto banali. “Due cose mi hanno colpito. Noi siamo circondati da amore in qualsiasi posto di Italia ma anche da odio. Questa è una cosa che capisci solo quando vivi la Juve. Noi siamo quelli sempre favoriti dagli arbitri, poi guardi i numeri e capisci che vanno in tutt’altra direzione. Personalmente sono stato fischiato a Napoli dove sono nato e ho dato tutto, se non ho vinto è perché sono scarso. A Torino i tifosi della Fiorentina hanno fatto cori insultando mia madre e questo ti fa capire quanto odio c’è per la Juve. Quando vedi l’odio esterno ti attacchi all’interno e ti innamori della realtà. Se diventi gobbo lo diventi anche perché sei sempre attaccato dall’esterno”.

Da “la Stampa” il 18 febbraio 2020. Nonostante i luoghi comuni, Maurizio Sarri non è un tattico integralista: ha sempre adattato il modulo alle caratteristiche delle sue squadre. Il 4-3-1-2 era marchio dell' Empoli rivelazione, il 4-3-3 ha radici nel Napoli che mancava d' un trequartista e provò inutilmente a riconvertire Insigne. Le parole di domenica, tuttavia, non sono un manifesto di duttilità: ammettere che la Juventus non avrà mai la sua «organizzazione collettiva» non è solo un omaggio alla qualità dei campioni, ma, se non una resa, l' ammissione della difficoltà di seminare l' Idea in un gruppo di «individualisti fortissimi». Lecito chiedersi se il progetto non sia già in frantumi, con serenità perché i risultati sorridono e in casa bianconera, per tradizione, comandano. La squadra si è isolata di nuovo in vetta al campionato, ha guadagnato gli ottavi di Champions in carrozza, ha allungato le mani sulla finale di Coppa Italia, ma Sarri era stato chiamato perché tutto ciò avvenisse attraverso lo spettacolo. Nessuno l' ha proclamato, ma era insito in un ribaltone clamoroso: cos' altro si poteva rimproverare a Massimiliano Allegri se non l' appartenenza ai pratici "risultatisti" opposti agli esteti della panchina? Sarri custodisce le ambizioni, però tradisce le promesse sul gioco: c' era bisogno di pagare due tecnici per vincere comunque tra lampi di classe o di cinismo? Paradossalmente, la manovra è addirittura meno brillante e il popolo, prima di lasciarsi abbagliare dalla punizione magica di Dybala, domenica ha borbottato e fischiato vedendo i bianconeri cincischiare contro un Brescia assai più piccolo, per giunta incerottato e sfortunato. E anche del presidente Andrea Agnelli, a un certo punto, le telecamere hanno colto un' espressione tutt' altro che radiosa: magari casuale, magari dettata da chissà quale pensiero estraneo al calcio, magari fallace, ma non è certo assurdo immaginarlo dubbioso e sconcertato, intento a chiedersi il perché di una rivoluzione che non ha voluto: l' ha solo sottoscritta, da capo illuminato, quando la sfiducia insinuata da qualche suo stretto manager aveva infine incrinato il rapporto tra questi e il vecchio allenatore. Obiezione: le somme si tirano alla fine. Respinta perché nessuno discute la forza della Juve né sminuisce le aspettative: ci chiediamo, semplicemente, che bisogno c' era di cambiare tutto perché nulla cambiasse. O peggiorasse addirittura.

ALFREDO PEDULLA’ per la Gazzetta dello Sport il 27 agosto 2020. Nella testa di Maurizio Sarri la risoluzione non può essere, e non sarà, contrattuale. L'impegno con la Juve resta fino a quando non arriverà una proposta ritenuta davvero giusta per ripartire. E' un'altra la vera "risoluzione", nelle sue ore di pace dentro l'eremo toscano a Piandiscò (la nuova villa con vista sulle colline del Chianti), in compagnia della moglie Marina e del figlio Nicolé. La "risoluzione" è con il passato recente, anche se gli ha dato uno scudetto (con la Juve) e un'Europa League (alla guida del Chelsea). Sarri non ha rabbia, ma malinconia, inquietudine, smarrimento misto a pentimento. Chelsea e Juve gli hanno gonfiato il conto in banca e arricchito la bacheca. Maurizio è ricco ma povero. Tornerà ricco quando allenerà e non gestirà. Quando gli diranno di mettere un pilota automatico, dopo avergli proposto una bella iniezione sul mercato, quando guarderà prima dentro la scatola. E se la troverà vuota, dirà no. In fondo, è colpa anche sua: lui non chiede mai, e sbaglia. Conte ha avuto 200 milioni al primo anno, Guardiola quasi 800 da quando è arrivato e il Manchester City mai è andato oltre i quarti di Champions. Dov' è l'errore? È anche lui che non guarda oltre il 4-3-3, non si tutela con un paio di richieste secche. E sbaglia, per troppa generosità o per quella forma di altruismo che se alleni e devi vincere proponendo il tuo calcio non puoi avere. L'egoismo è di pochi, gli allenatori che chiedono, ottengono e lo fanno per legittima difesa di un concetto tattico. Sarri non l'ha fatto. I punti chiave sono dieci, nel suo tormentato rapporto con la Juve che ha portato a un divorzio da oltre 40 milioni lordi, quelli che comprendono il suo staff. E una penale da 2,5 milioni che la Juve gli dovrà versare non facendo ovviamente scattare l'opzione prevista per il terzo anno. Il Sarri di oggi, in dieci punti, va riepilogato così.

1 Il rapporto di Maurizio con i giocatori Il rapporto con la squadra è stato variegato. Sarri non è uno che porta i giocatori dalla sua parte con le parole, al massimo con i fatti. E se non scatta la scintilla, con Chiellini non è scattata, qualche incendio ci può stare. Il feeling con Dybala è stato totale, testimoniato da bellissimi pensieri, pubblici e privati. Molto bene con De Ligt che gli ha scritto parole sentite. E anche con Cuadrado. Tra il mutismo di Rabiot, l'ermetismo di qualche altro, cose normali di spogliatoio.

2 Con Cristiano si sono sopportati Il rapporto con Ronaldo? Il rispetto reciproco, Cristiano è un'azienda individuale che fattura centinaia di milioni, che ha un oceano di follower, che non si ammazza di tattica perché sa che almeno 30 gol a stagione li porta sempre a casa. Almeno. Quindi, si sono quasi sopportati, ma senza grandi frizioni. Nel 4-3-3 spettacolare di Sarri l'individuo di classe mondiale che si isola dagli schemi è un valore aggiunto per l'occhio del tifoso, di sicuro non per la funzionalità del sistema tattico.

3 A Cagliari si è rischiata la rottura immediata Uno dei momenti più bassi dopo la sconfitta di Cagliari. Ininfluente ai fini della classifica, la Juve era già campione d'Italia, ma che ha generato tensioni incredibili tali da sfiorare la rottura immediata. Poi la volontà e la necessità di preparare il Lione hanno fatto rientrare tutto.

4 Mandzukic ed Emre Can due casi diversi Mandzukic è stato un finto problema, aveva ormai deciso di lasciare e la Juve di tagliare un ingaggio. Certo, poi Maurizio ha scoperto di dover giocare il finale di gara contro il Lione con baby Olivieri, ma qui torniamo al discorso di prima: le richieste di mercato sono un optional a casa Sarri. Però, servirà da lezione, gli optional fanno diventare un'auto ancor più da corsa. Emre Can lo aveva puntato pensando che fosse lui il responsabile del "taglio" dalla lista Champions. Sarri ha dovuto eseguire perché riteneva Emre Can non indicato per il 4-3-3. Non un Allan, per capirci. Strada facendo avrebbe scoperto che non sarebbe stato soltanto un problema tattico.

5 Con Paratici il rapporto è andato peggiorando Il rapporto con Fabio Paratici è andato piano piano scemando. A fine agosto del 2019 c'era la necessità di fare plusvalenze, al punto che Dybala era stato ceduto allo United, se Paulo non si fosse impuntato facendo saltare tutto. A gennaio aveva chiesto un terzino sinistro come il pane, non ci fu la possibilità di accontentarlo. Il mercato è stato un supplizio, dall'inizio alla fine, spesso in antitesi con le sue idee.

6 Se la Juve voleva solo un gestore di uomini... I confronti non sono stati sempre molto chiari. Lo slogan: se volevate uno per gestire, dovevate prendere un altro. Magari confermando Allegri che aveva ancora un anno di contratto. Sarà il punto di partenza essenziale per il prossimo impegno lavorativo, varrà più di qualsiasi altra cosa.

7 Quel sondaggio dalla Cina respinto Sarri è stato sondato dalla Cina a primavera inoltrata, forse sapevano che il rapporto con la Juve sarebbe terminato. Avevano messo sul tavolo una proposta in doppia cifra, ma disse no ancor prima di far nascere qualsiasi trattativa. In Cina sarebbe durato (durerebbe) non più di una settimana.

8 Niente estero a meno che l'Atletico... All'estero non tornerà, anche se la magia della Premier (gli stadi, l'atmosfera, la civiltà) sarà una pietra miliare di ricordi. Farebbe un'eccezione, l'Atletico quando e se finirà il ciclo del Cholo Simeone. In Italia? Ci possono essere solo due situazioni in divenire, ma parlarne oggi è anacronistico.

9 Da Douglas Costa non se l'aspettava Una delle prime cose, tra le prime cinque, che l'ha più ferito è stato il "like" di Douglas Costa sotto il comunicato dell'esonero. I 46 milioni per acquistarlo dal Bayern mai sono stati giustificati. Eppure Sarri pensa di averlo gestito con delicatezza e rispetto, sapendo che se avesse giocato tre partite di fila si sarebbe rotto. Non le ha giocate quasi mai, si è rotto lo stesso.

10 Il suo futuro era già stato deciso La notte dell'eliminazione dalla Champions: aveva capito tutto da giorni. La famosa frase "i dirigenti della Juve mica sono dilettanti, non decidono in base al risultato di una partita". Avevano già deciso, lui sapeva, la telefonata (sabato 8 agosto) gli è arrivata il giorno dopo verso le 13,30. La sera prima 4 o 5 calciatori incrociati in garage gli avevano chiesto "ma tanto lei, mister, resterà anche l'anno prossimo, no?". Ingenuità, perfidia, superficialità, nessuno può saperlo. Sarri affogherà la malinconia con i pochi amici di sempre, Alessandro e Marcello in testa: gente di calcio, ma anche di vita. Il suo cane Ciro non abbaierà alla luna, piuttosto al motto "io gestisco, non alleno". Il prossimo Sarri ripartirà da qui: non sarà un altro, ma quello di prima.

Napoli- Juventus, Maurizio Sarri: «Dopo la Juve potrei anche smettere di allenare». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Filippo Bonsignore. «Ritornare un giorno a Napoli? Dopo la Juve potrei anche smettere». Maurizio Sarri allontana anche in modo clamoroso la possibilità di tornare un giorno sulla panchina azzurra. «Di botto, posso dire che dopo questa esperienza potrei anche smettere. Dipende quante energie mi saranno rimaste e se penserò di poter fare ancora bene, ma in questo momento non ho questi pensieri». Il tecnico bianconero poi chiarisce il concetto: «La pressione è un falso mito, quella che uno sente è quella che si pone autonomamente; non è questo il punto. Resta da vedere le energie che rimangono: se uno è svuotato e sente di non aver più motivazioni è giusto smettere. Io in questo momento me le sento ma questa domanda mi trasporta un po’ avanti nel tempo e non so se tra due anni, alla scadenza del contratto, sarà lo stesso. Se sì, sarà giusto proseguire ma ci sta che, con il cervello che inizia a perdere colpi, decida di continuare comunque, facendo una caz…». Intanto, il tecnico bianconero torna a Napoli per la prima volta da avversario: “E’ chiaro che per me sarà partita particolare ma è altrettanto chiaro che non rischio di spendere energie per un aspetto personale rispetto ad un obiettivo collettivo, che è quello di giocare partita di alto livello per portare a casa punti”. E in caso di fischi? “Li considererei una manifestazione d’affetto. Ero a Napoli quando la Juve ha pagato la clausola di Higuain e posso dire che i fischi al Pipita erano ingiusti”. Sarri non si fida della squadra di Gattuso così lontana dal vertice: “Le squadre forti, anche se attraversano momenti difficili, rimangono pericolosissime in una partita secca. Il Napoli ha una classifica strana, che non corrisponde a ciò che sta esprimendo e in più viene da una vittoria che lo può rilanciare”. L’allenatore della Juve come sempre non si cura del mercato. Sul possibile scambio De Sciglio-Kurzawa con il Psg frena: “Kurzawa lo conosco poco, una cosa è studiare un giocatore, un’altra guardarlo in tv mentre si cena con la famiglia. E poi il direttore Paratici mi ha detto che è solo un’ipotesi non c’è nulla di definitivo”. Mentre sull’arrivo di Eriksen all’Inter chiarisce: “E’ un giocatore di grande levatura; da qui a pensare che possa cambiare l’equilibrio di un campionato è un passo successivo ma a noi non interessa. Noi siamo competitivi e il nostro obiettivo è quello di rendere al 100% delle nostre possibilità, cosa che finora abbiamo fatto solo per spezzoni di partita”.

GIANLUCA ODDENINO per la Stampa il 24 gennaio 2020.  Il luogo di nascita sulla carta d' identità, il cane randagio di nome Ciro e una valigia di ricordi ben nascosta nella nuova casa torinese. A Maurizio Sarri è rimasto solo questo di Napoli e del Napoli dopo le tre stagioni che hanno cambiato la vita a lui e ai tifosi azzurri: un taglio netto con il passato fin dal giugno 2018, quando De Laurentiis non lo confermò sulla panchina della squadra che ha sempre tifato e il Comandante ripartì dal Chelsea fino a diventare Mister Europa. Quel senso di dolce nostalgia per Sarri, però, si è trasformato in aperta ostilità da parte dei napoletani dopo la scelta estiva di guidare la Juventus. Una sfida irrinunciabile per qualsiasi allenatore, figuriamoci per chi navigava in Serie C fino a qualche anno prima, ma allo stesso tempo un atto di tradimento per chi si era immedesimato in quest' uomo così anti-sistema, nato 61 anni fa a Napoli e cresciuto a Bagnoli con il padre Amerigo impegnato all' Italsider. Il figliol prodig(i)o ora torna a casa per la prima volta e per lui sarà anche il debutto da ex (all' andata era in tribuna causa polmonite), ma domenica sera al San Paolo non ci saranno gli applausi di chi lo amava incondizionatamente, fino a trasformare il Sarrismo in una filosofia di vita fatta di "gioia e rivoluzione". Sono giorni frenetici a Napoli e ad ora non si segnalano iniziative organizzate dai 40mila che affolleranno lo stadio. Quei cuori, però, sono ancora in tumulto e minacciano fischi. «Dal punto di vista materiale ci sono tre punti in palio - ha sussurrato Maurizio Sarri dopo la vittoria in Coppa Italia contro la Roma in cui ha perso Danilo per quasi un mese -, dal punto di vista emotivo è chiaramente una partita particolare per me. Perché con il Napoli e soprattutto la città di Napoli c' è stato un rapporto forte: dal punto di vista umano sarà un momento importante, ho sentito molto quell' esperienza». Il filo rosso dello scetticismo Un ritorno dai sentimenti forti e contrastanti. Impossibile fare finta di nulla, anche perché Sarri ha fatto sognare lo scudetto ad una città che vive di calcio e ha ancora nella mente la vittoria a Torino del 22 aprile 2018: gol di Koulibaly e dito medio mostrato da Sarri all' ingresso dello Stadium. Sembra un' era geologica fa e chissà quando si rivedrà un Napoli capace di fare 91 punti con 28 vittorie su 38 partite di campionato oppure festeggiare un capocannoniere azzurro con 36 gol in 35 presenze (Higuain nel 2015/16). "Scurdammoce 'o passato" e Sarri c' è riuscito in fretta, diventando il primo allenatore juventino a vincere 14 partite casalinghe su 15 restando imbattuto (Parola nel 1959/60 ne perse una). Con i risultati e con un gioco sempre più spettacolare ha conquistato un ambiente che era scettico al suo arrivo, come accadde a Napoli nel 2015, il resto l' ha fatto modificando parte del suo carattere e del suo armadio con la scomparsa della tuta in panchina. «Sono abituato ad essere accolto in questo modo - ha detto Sarri dopo gli applausi dei tifosi bianconeri -: fa parte del mio percorso, però a me gira ancora per aver pareggiato allo Stadium con il Sassuolo». Incontentabile e ora c' è Napoli: difficilmente farà sconti al vecchio amore.

Se vincere non è l’unica cosa che conta: Sarri, il provinciale che ha scalato un sogno impossibile. Paolo Lazzari su larno.ilgiornale.it l'8 agosto 2020. Esattamente ventuno anni fa – era il giugno 1999 – Maurizio Sarri ispirava forte, si faceva coraggio e prendeva una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua esistenza. “Lascio il lavoro, di qui in avanti farò soltanto l’allenatore”, confessava ai colleghi ed agli amici, increduli. Un crocchio di persone si raduna intorno a lui, per convincerlo a cambiare idea: come fai a mollare un posto sicuro e prestigioso alla Banca Toscana? Il Tegoleto non è certo il Real Madrid e le categorie minori del calcio italiano assomigliano molto ad un groviglio capace di innalzarti su un altare cosparso di gemme un giorno per poi triturarti e sputarti via quello successivo. La sentenza però è stata emessa: Sarri lascia l’impiego che lo ha portato a lavorare anche a Londra, in Germania, in Svizzera e Lussemburgo, per accendere un sogno a tempo pieno. E pazienza per la categoria. Il calcio, del resto, è sempre stata una questione genetica per lui: figlio di un operaio toscano, cresciuto vicino a Bergamo e successivamente a Figline Valdarno, Maurizio è stato giocatore prima che mister. La sua carriera in panchina inizia nel 1990: mentre l’Italia vive le sue notti magiche e sogna la coppa del mondo, lui firma per lo Stia, seconda categoria. Ci resterà soltanto un anno, ma quando lascia non fa salti in avanti: la Faellese, la squadra successiva, abita ancora nelle paludi del calcio italiano. Lui però non lascia che il contesto lo deprima e dopo tre stagioni infila un doppio salto di categoria, finendo in Promozione. Successivamente assume la guida tecnica del Cavriglia e dell’Antella, conducendo entrambe all’Eccellenza. Attenzione: non dimenticate queste piccole deflagrazioni di gloria, perché lui non lo farà. “Quando mi dicono che non ho vinto niente in carriera mi arrabbio (eufemismo, ndr), perché le promozioni contano eccome”, dirà sulla panchina del Chelsea, nel ventre di Stamford Bridge, subito dopo aver sollevato l’Europa League. Per indovinare il vero giorno fortunato della sua vita, tuttavia, bisogna riavvolgere il nastro e tornare al 2000, quando lo chiama la Sansovino. Sarri non può ancora saperlo, ma da qui in avanti le cose cambieranno radicalmente. In meglio. Difesa a quattro alta, a zona, giropalla ossessivo e verticalizzazioni dirompenti: il suo credo tattico è un postulato granitico che si comincia ad intravedere da qui. Maurizio infila un’impressionante sequela di risultati positivi nelle categorie minori, fino ad attirare l’attenzione dell’Empoli. In mezzo c’era stato anche un avvicendamento che oggi fa ancora sorridere: ad Arezzo sostituisce l’esonerato Antonio Conte e pareggia 2-2 contro la Juventus di Didier Deschamps precipitata in B dopo lo squassante terremoto di Calciopoli. Al Castellani si intravedono sprazzi di calcio totale: maniacale, ossessivo nella gestione degli allenamenti e delle situazioni tattiche, Sarri riporta gli azzurri in A al secondo tentativo (l’anno prima perde ai playoff contro il Livorno, ndr) e li salva facilmente nella stagione successiva. Quello che più impressiona, oltre i risultati, è tuttavia la fluidità con cui un club di provincia riesce a macinare gioco, irridendo i colossi del campionato. Particolari che si insinuano nella mente delle persone, fino a fare la differenza: De Laurentiis ne viene stregato e lo ingaggia, nel 2015. Con i partenopei Sarri sfiorerà a ripetizione la vittoria del campionato e farà stabilire il nuovo record di marcature in Serie A a Gonzalo Higuain (36). Anche il bel gioco prosegue ininterrotto, ma tutto questo non basta. Sarri torna così a Londra, ma stavolta non per stare dietro la scrivania di una filiale. Il Chelsea di Abramovich lo ingaggia per scrivere una pagina nuova, ma dopo un solo anno lo rispedisce al mittente, malgrado l’Europa League conquistata in finale ai danni dell’Arsenal. Schietto in conferenza stampa ed integralista sul campo, nella City fa presto ad attirarsi le antipatie dei supporters dei Blues, che scherniscono il suo gioco additandolo come Sarriball. Uno scenario che si ripete oggi, con l’esonero – dopo un solo anno – da parte della Juventus. “Vincere è l’unica cosa che conta”: il motto inciso nell’anima del club bianconero stavolta merita di essere rivisto. Perché Sarri ha comunque portato a casa il nono scudetto di fila e non era banale. Tuttavia, a Torino, non è mai riuscito a stappare il bel gioco che era sempre stato un tratto connaturato della sua visione del calcio. Ha perso supercoppa e coppa Italia e, soprattutto, è uscito inopinatamente dalla Champions contro un avversario più che abbordabile. Adesso, per lui, si aprono nuovi scenari probabilmente più consoni alla sua figura, mai totalmente incastonata dentro le maglie strette dello stile Juve. “Ho scelto come unico mestiere quello che avrei fatto gratis”, rivela quel giorno di oltre vent’anni fa ai suoi colleghi, attoniti. Oggi Sarri è di nuovo con la valigia in mano, recluso nell’ennesimo angolo transitorio della sua esistenza. Non c’è dubbio però che la sua totalizzante storia d’amore con il calcio proseguirà, certo condita da una feroce voglia di rivalsa: quella di un underdog di provincia che, a forza di crederci, ha scalato un sogno impossibile.

Panchina d'oro, vince Gasperini: battuti Mihajlovic e Allegri. Trionfa il tecnico dell'Atalanta. Secondo Mihajlovic che si aggiudica un riconoscimento per il settore tecnico, terzo Allegri. Antonio Prisco, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Gian Piero Gasperini ha vinto la Panchina d'oro, il tecnico dell'Atalanta conquista il prestigioso riconoscimento quale miglior allenatore della passata stagione di Serie A, grazie al terzo posto ottenuto alla guida degli orobici. Nella consueta cerimonia di consegna del premio, svoltasi a Firenze, al Centro tecnico federale di Coverciano, Gasperini ha ottenuto 22 voti superando Sinisa Mihajlovic, con 13 voti e Massimiliano Allegri con 6 preferenze. Il tecnico di Grugliasco conquista la Panchina d'oro, dopo aver trionfato in quella d'argento nel lontano 2006-2007, quando era alla guida del Genoa. E' il secondo a vincere sia la Panchina d'oro che quella d'argento dopo Maurizio Sarri, riuscito nell'impresa all'Empoli e al Napoli, mentre Allegri aveva ottenuto quella di Lega Pro con il Sassuolo e poi quella di Serie A per quattro volte, tre con la Juventus e una con il Cagliari. Gasp si è detto felicissimo per il riconoscimento e subito dopo aver ricevuto il premio ha dichiarato: "E' un orgoglio che condivido con staff e giocatori, con Percassi. E' frutto del lavoro di tutta Bergamo, ma lo dedico anche a tutti gli allenatori. E' una professione difficile, ci sono tensioni, dormiamo poco la domenica sia quando perdiamo che quando vinciamo. Però siamo privilegiati e queste sono grandi soddisfazioni".

Gli altri premi. La Panchina d'argento è stata assegnata, invece, all'allenatore del Lecce, Fabio Liverani, per la promozione in A raggiunta alla guida dei salentini. Mihajlovic, che sembrava in grande ascesa nelle ultime ore per quella d'oro, si è aggiudicato un riconoscimento speciale per il settore tecnico. Sinisa ritornato in ospedale per delle prove virali, dopo la vittoria col Brescia, non era presente alla consegna del premio, ritirato dal direttore sportivo del Bologna Riccardo Bigon. A Roberto Samaden, responsabile delle giovanili dell'Inter, è andato il premio Mino Favini dedicato ai giovani. La panchina d'oro femminile va invece a Betty Bavagnoli, allenatrice della Roma calcio femminile, mentre Fabio Caserta, tecnico della Juve Stabia, autore della promozione dalla C alla B, vince la panchina della Serie C.

Da corriere.it il 16 dicembre 2020. Sulla diatriba (eufemismo) tra Gian Piero Gasperini e Gomez, adesso scende in campo la moglie del Papu, Linda Raff. Tra tecnico e fantasista i rapporti ormai sono ai minimi livelli dopo il litigio avvenuto negli spogliatoi del match di Champions tra Atalanta e Midtjylland di martedì 1 dicembre. Successivamente Gomez, assieme a Ilicic che aveva preso le sue difese, non era stato convocato per la trasferta di campionato di Udine del 6 dicembre (match rinviato per pioggia), per poi firmare una sorta di armistizio per il delicato match di Champions contro l’Ajax, vinto dall’Atalanta con tanto di qualificazione agli ottavi (9 dicembre, 0-1: gol di Muriel). Fino alla panchina nell’ultimo match, quello contro la Fiorentina (13 dicembre). Il Papu ha spiegato che dirà la verità appena andrà via (in Italia farebbe comodo a tante, ma questa volta potrebbe anche cedere ai dollari sauditi). Intanto però c’è stato l’intervento della moglie appunto, che su Instagram ha pubblicato «La storia dei tre setacci», una sorta di parabola attribuita a Socrate. «Né vero, né buono, né utile». Un modo per prendere le parti del marito e avvisare i tifosi della Dea che tutto quello raccontato non corrisponde alla realtà.

Il racconto. Ecco il testo: «Un giorno Socrate fu avvicinato da un uomo in piena agitazione che gli disse: “Ascolta Socrate, ti devo raccontare qualcosa d’importante sul tuo amico”. «Aspetta un attimo – lo interruppe il saggio – Hai fatto passare ciò che mi vuoi raccontare attraverso i tre setacci?». «Tre setacci?», chiese l’altro meravigliato. «Sì mio caro, vediamo se ciò che mi vuoi raccontare passa attraverso i tre setacci. Il primo setaccio è quello della verità: sei convinto che tutto quello che mi vuoi dire sia vero?». «In effetti no, l’ho solo sentito raccontare da altri». «Ma allora l’hai almeno passato al secondo setaccio, quello della bontà? Anche se quello che vuoi raccontare non è del tutto vero, è almeno qualcosa di buono?». L’uomo rispose esitante: «Devo confessarti di no. Piuttosto il contrario…». «E hai pensato al terzo setaccio? Ti sei chiesto a che serva raccontarmi queste cose sul mio amico? Serve a qualcosa?». «Beh, veramente no…». «Vedi – continuò il saggio – se ciò che mi vuoi raccontare non è vero, né buono, né utile, allora preferisco non saperlo e ti consiglio di dimenticarlo».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2020. Caro Papu Gomez, noi di Libero ti abbiamo già scritto una lettera, firmata da Fabrizio Biasin, che è un provetto cronista. Ma se mi permetti anche io avrei qualcosa da dirti. Tu sei un grande giocatore, questo è indiscutibile. Lo sei diventato all'Atalanta sotto la guida esperta di Gasperini, prima non eri un cazzo, almeno questo ammettilo. Ora hai una certa età e non hai davanti un lungo percorso come campione, ti conviene patteggiare con l'allenatore e rimanere nerazzurro fino al termine della tua splendida carriera. Oddio, se andrai al Milan, come si mormora, sarai ancora in grado di affermare la tua, non perderai la stima di coloro, tutti, che ti apprezzano, tuttavia il loro affetto si scioglierà nell'indifferenza. Tu non sei un giocatore qualsiasi, bensì una bandiera, l'idea di perderti per una bega con il trainer manda gli atalantini, compreso me, nella più tetra depressione. Noi tifosi ti vogliamo bene e ti preghiamo di restare a Bergamo, che vede in te qualcosa di più di un calciatore: lo sai, sei un mito. L'idea di non ammirarti più in campo mi immalinconisce e mi fa pure arrabbiare. Certamente il Milan è un paradiso per un pedatore, mentre l'Atalanta è soltanto una casa calda e accogliente. Non abbandonarla. Devi sapere che un trainer è il responsabile tecnico di una squadra, spetta a lui decidere come e dove stare in campo. Quindi il Gasp ha fatto il suo dovere nel darti degli ordini, tu dovresti compiere il tuo: obbedire e ubbidir tacendo, come si usava esortare una volta. Ti prego, caro Papu, non ci lasciare. Se starai con noi nerazzurri non ti pentirai, tu mi capisci perché sei più bergamasco di me. Mercoledì sera ti ho visto giocare nella ripresa con i tuoi vecchi compagni contro la Juventus. Come sei entrato in formazione il gioco dei nerazzurri si è illuminato e di lì a poco la Dea, anche per merito tuo, ha pareggiato contro la Juventus di Ronaldo. Questo significherà qualcosa, credo. E dovrebbe bastare a far sì che fra te e Gasperini scoppi la pace. Archiviate, tu e lui, ogni acredine e ricominciate a lavorare insieme senza inutili asprezze polemiche. Il calcio non è soltanto atletismo, ha una componente cardiaca, cioè di cuore, che deve aiutare chi pratica tale sport ad avere un po' di riguardo per noi tifosi. Forza, Papu, dribbla i tuoi risentimenti e resta a Bergamo. Una stretta di mano col tuo attuale nemico e tornerà il sereno. Noi fiduciosi siamo in attesa della armonia che ha fatto grande la nostra squadra.

Da Rep-pubblica.it il 21 maggio 2020. Il Guardian riporta un lungo colloquio con Gian Piero Gasperini. L'allenatore dell'Atalanta descrive le sue sensazioni e quelle della squadra al ritorno da Valencia, dopo la qualificazione ai quarti della Champions, quando Bergamo entrò nel dramma della pandemia: "Ci sembrava di essere in un Paese lacerato dalla guerra. È successo tutto così in fretta: pochi giorni prima non si pensava che sarebbe accaduto. Ricordo che, quando siamo arrivati a Valencia, abbiamo trovato una città piena di gente che festeggiava per strada o fuori dallo stadio, mentre a Bergamo c'erano i primi segnali che la situazione era critica. Quando siamo tornati a casa, ci siamo resi conto di quanto fosse cambiata la città in soli due giorni. Siamo passati dall'euforia alla paura nell'arco di 48 ore. Gli ultimi due mesi sono stati qualcosa di straordinario, inspiegabile con le parole. Bergamo è stata al centro di questo terribile coronavirus. La pandemia ha colpito profondamente la nostra città e ha causato tanti morti. Non dimenticherò mai, per il resto della mia vita, le sirene delle ambulanze nel centro di Bergamo".

La teoria del branco di lupi. Quando le partite riprenderanno, Gasperini sa già che cosa dirà alla sua squadra. "Metterò al centro le emozioni. Questi giocatori hanno un grande legame con Bergamo: con la città e con i tifosi. Parlerò col cuore, il mio sentimento è questo: Bergamo ha sofferto molto e questo è il momento in cui noi dobbiamo farla sorridere di nuovo". L'allenatore dell'Atalanta parla poi dell'eccezionale stagione di un gruppo che ha stupito l'Europa. Per motivare i giocatori, espone messaggi negli spogliatoi: uno tra i più recenti era un aforisma del grande cestista Michael Jordan: "Ventisei volte mi hanno affidato il tiro finale e l'ho sbagliato. Ho fallito più e più volte nella mia vita. Ed è per questo che ho successo. Ma il messaggio migliore è sul branco di lupi. Ho messo una foto di un branco di lupi nello spogliatoio. Ci sono lupi davanti, alcuni al centro e uno dietro. Quelli davanti danno il ritmo all'inizio, quelli successivi sono i più forti: devono proteggere tutti, se vengono attaccati. Quelli al centro sono sempre protetti. Poi ci sono altri cinque forti più indietro, per proteggere da un attacco alle spalle. Infine c'è l'ultimo, il capo: fa in modo che nessuno venga lasciato indietro. Tiene tutti uniti ed è sempre pronto a correre ovunque, a proteggere tutto il gruppo. Il messaggio è che un leader non si limita a stare davanti, ma si prende cura della squadra: è quello che voglio dai miei giocatori. Devono crescere e migliorare, giorno dopo giorno, perché se non migliorano, hanno finito. Chi si ferma è perduto”

Mi spaventa chi non è abituato a lavorare. I 70 gol in 25 partite di campionato, le tre volte in cui l'Atalanta ne ha segnati 7, i 5 rifilati a Milan e Parma: la ricetta funziona ed è valsa all'Atalanta l'etichetta di squadra più divertente del mondo in questa stagione: "Per dare un'idea del metodo, userò un proverbio cinese del 500 a.C., dall'Arte della Guerra: difendere ti rende invincibile. Ma se vuoi vincere, devi attaccare. Poi bisogna crescere e migliorare, come ho detto. Durante l'allenamento i miei giocatori devono lottare e chi non è abituato a lavorare sodo mi spaventa. Ma è dalla lotta che nascono le vittorie. Se non si corre in allenamento, non si corre durante la partita. E i calciatori non sono gli atleti che si allenano più duramente".

Ilicic era la "nonna", ora è il "professore". La selezione comincia dal calciomercato: "Non abbiamo avuto i mezzi per grandi investimenti, perciò abbiamo dovuto trovare in Europa giovani giocatori con la stessa filosofia: capaci di adattarsi al nostro stile di gioco, con una mentalità vincente e offensiva e disposti a lavorare sodo. Chi ci crede è uno di noi. Chi ha paura se ne va". Gomez e Ilicic sono le due stelle: "Il Papu è un giocatore straordinario, che non ha raggiunto il suo potenziale perché non si è mai allenato bene. Quando ha iniziato a farlo, ha alzato il suo livello, fino a diventare uno dei migliori d'Europa. Ha perso tempo perché allenarsi fa diventare un campione: ha sempre avuto tutto per diventarlo. Ilicic lo chiamavamo "la nonna", perché andava in giro a fare il simpatico con tutti. Abbiamo dovuto convincerlo ad aumentare i suoi sforzi in allenamento. Gli mancava quel passo mentale. Ma una volta che ha cambiato mentalità, abbiamo smesso di chiamarlo nonna: ora lo chiamiamo "Il professore". Si è reso conto che ogni sessione di allenamento è divertente e da quel momento è rinato. I suoi 5 gol in Champions sono stati superlativi".

La chiamata di Guardiola. Gasperini ha vinto la Panchina d'oro, culmine di una lunga gavetta, anche se il suo marchio tattico è tale almeno da quando, al Genoa, si meritò il soprannome di "Gasperson" per assonanza con Sir Alex Ferguson, il demiurgo del grande Manchester United. L'esonero all'Inter, brevissima parentesi, è stato l'inizio della ripartenza e dell'amicizia con Pep Guardiola, lo stratega del Barcellona del tiki taka e oggi del Manchester City: "Ero appena stato licenziato dall'Inter, perché non avevo la stessa visione della dirigenza, quando mi arrivò un bellissimo messaggio: Guardiola voleva incontrarmi e mi invitava a vedere i suoi allenamenti al Barça. È stato un momento molto difficile della mia carriera e vedere come un collega straordinario come lui che mi rimaneva vicino in quel momento mi fece capire che tipo di persona fosse. Pep mi rese molto felice".

La fiducia ai giovani. Anche all'Atalanta, nel 2016, ci fu una svolta, dopo 4 sconfitte e il lancio dei giovani: "Decisi di puntare sulle mie idee, rischiando. Lanciai Caldara, Gagliardini, Petagna, Conti e altri giovani con poche partite in serie A. E' stato l'inizio della crescita. Bergamo è un luogo molto importante per il lavoro, per l'industria, per la produttività. Volevo avere un progetto legato ai ragazzi, preferibilmente cresciuti nel settore giovanile, che è eccezionale. Per troppo tempo la spina dorsale della squadra era stata troppo vecchia, così ho cercato di evitare la retrocessione con un metodo diverso: dare piena fiducia ai giovani, farli crescere e dare la priorità al calcio di qualità".

Guardate dove sta l'arbitro. Il pressing a tutto campo è la ricetta originaria, tra le novità spunta perfino un'occhiata all'arbitro: "Oggi la ricerca dello spazio in campo è fondamentale, così ho detto ai ragazzi: guardate dove sta l'arbitro, è sempre nella posizione ideale per vedere la partita. Soprattutto Gomez ha ascoltato il consiglio e ha funzionato". Altro aforisma: non si perde mai: "Dico sempre ai miei giocatori: non perdiamo mai, perché o vinciamo o impariamo". Lui spesso studia gli schemi di notte, come ha raccontato sua moglie Cristina: "Con il mio tablet di notte o con la mia lavagna sto sempre a studiare per trovare soluzioni per la partita successiva. Solo quando ritengo che possano funzionare le uso in allenamento".

Giocare contro di noi è come andare dal dentista. La difesa a tre è un cardine: "Ne sono orgoglioso, la uso dai tempi del settore giovanile della Juventus. Allora mi dissero che era troppo difensiva. Ho dimostrato che era vero il contrario: i tre difensori partecipano allo sviluppo del gioco, sono allenati per essere coinvolti nelle azioni d'attacco. Il modulo non ha importanza, conta di più con quanti giocatori si attacca o si difende. Se dovessi riassumere la mia filosofia difensiva in una sola frase, sarebbe che io non credo e non crederò mai al concetto di aspettare che l'avversario commetta un errore: credo che si debba cercare di rubargli il pallone per attaccare". E' il metodo che ha fatto dire a Guardiola la famosa frase, alla vigilia di Atalanta-Manchester City a San Siro: giocare con l'Atalanta di Gasperini è come andare dal dentista: "E' il mio obiettivo: dare fastidio a qualsiasi avversario. Chi gioca contro di noi deve correre molto ed essere infastidito. Penso che la metafora del dentista sia perfetta". Ora l'obiettivo prioritario è un altro: "Restituire il sorriso a Bergamo".

Gabriele Gambini per ''La Verità'' il 31 luglio 2020. Non ha usato troppi giri di parole, l' allenatore Gian Piero Gasperini, al termine di Parma-Atalanta, commentando l' imminente sfida di Champions League tra la sua baldanzosa Dea e i francesi del Paris Saint Germain: «Recuperare Josip Ilicic? Viaggiamo alla giornata. Ma la vedo difficile. Siamo stati per molti mesi senza Duvan Zapata e adesso purtroppo è arrivata questa assenza pesante. Non abbiamo un giocatore con le caratteristiche di Ilicic, davanti dobbiamo adeguarci un po' con Pasalic, un po' con Malinovskyi, un po' con Gomez, che sta interpretando tutti i ruoli. Sopperiamo all' assenza con altre qualità. Per noi Ilicic è fondamentale, fino a marzo era stato devastante sia in campionato sia in coppa, è come se mancasse Dybala alla Juve, Immobile alla Lazio o Lukaku all' Inter». La realtà è venuta a galla. Niente Ilicic fino a fine stagione e il Cielo solo sa se sarà arruolabile per l' inizio della prossima. I bollettini medici che riferivano di infortuni muscolari più o meno identificabili a carico del trentaduenne sloveno hanno funzionato da paravento dalla ripartenza del campionato dopo la quarantena fino a oggi. Ma adesso sembrano una foglia di fico fantasiosa e striminzita. L' atleta avrebbe avuto qualche giorno di permesso per recarsi in Slovenia, sua terra natale. Nessun problema fisico a carico del bomber Josip, quest' anno decisivo con 21 presenze e 15 gol in Serie A e 6 presenze e 5 gol in Champions League. I motivi della sua assenza, riferiscono voci vicine allo spogliatoio degli orobici, più che fisici sono metafisici, e il termine metafisica - Aristotele ci perdoni - è da intendere non tanto con valore concettuale filosofico, quanto con quello più popolare, ascrivibile a cagion spirituale e psicologica. Un problema serio di natura privata, personale, pare attanagliarne l' animo. Si sarebbe insinuato tra le pieghe della sua coscienza al punto da indurlo a rinunciare alla più ghiotta occasione della carriera: disputare una partita della massima competizione europea nella squadra rivelazione dell' anno, con la possibilità - dovuta alle regole introdotte nel post coronavirus - di passare il turno in una sfida secca, incidendo il proprio nome nell' epica omerica delle battaglie calcistiche. Peraltro dopo una prima parte di campionato formidabile. Lo spiega nel dettaglio un articolo pubblicato sull' Eco di Bergamo qualche giorno fa. Fin dal periodo di quarantena, Josip Ilicic è stato forse l' unico, tra i giocatori di Serie A, a non pubblicare alcuno stralcio della propria vita privata in tempi di Covid-19 sui social network. Un animo schivo, il suo, tipico della schiatta balcanica, poco dedito all' esultanza plateale persino dopo aver siglato quattro reti in una sola partita (è accaduto contro il Valencia). E però, al momento di tornare in campo, il fantasista si è eclissato davvero, è scomparso del tutto dai radar. Quel sibillino «gli siamo vicini» pronunciato dal tecnico Gasperini al termine della partita tra i nerazzurri e il Sassuolo ha sollevato più di un dubbio sulle vere motivazioni della sua assenza prolungata. Ma ha consentito di grattare sopra la scorza del calciatore - esempio di vita straordinaria, cioè fuori dall' ordinario - per ritrovare l' identità dell' uomo - esempio di vita ordinaria, dunque fatta anche di eventi accidentali. Disinnescando per una volta quel luogo comune che si avvale di moltissimi appigli pratici: diventare calciatore professionista dal portafoglio pingue risolve ogni problema esistenziale. La vicenda del tesserato atalantino, se confermata nelle sue motivazioni di natura personale, al di là di quali siano nello specifico, dimostra invece che identità e stabilità dell' individuo possono ancora prevalere sulla costruzione di un personaggio standard, starlette dalle passioni omologate, ingenuo cittadino del mondo, consumatore spendente. I tifosi atalantini sperano di recuperare il loro beniamino in tempo per la partita di Champions League del 12 agosto a Lisbona. Tributandogli solidarietà attraverso Instagram e con i post di Facebook. I sostenitori sono stati invitati a cambiare la propria immagine di profilo sulle pagine social, pubblicandone una dello sloveno numero 72 per dimostrargli «sostegno, vicinanza e affetto in un momento difficile». E se «Mola mia (non mollare in dialetto orobico, ndr)» è il motto dei bergamaschi, ci pensa ancora l' allenatore Gasperini a caricare l' ambiente: «Per noi il secondo posto in Serie A sarebbe il miglior piazzamento di sempre dopo il terzo dell' anno scorso. In questi anni siamo arrivati davanti a tutte le grandi, a turno. Tranne la Juventus, ovviamente. Manca una partita, ci proveremo. La nostra migliore qualità in questi anni? Ne dico una che le racchiude tutte: la testa. La testa di questi ragazzi è veramente forte e sulla testa abbiamo costruito la maggior parte dei risultati». La testa, certo, e in casi come questo, pure il cuore.

Ilicic, i problemi e il giallo dell’assenza dall’Atalanta: i soldati, i morti, la Bergamo ferita. Il bomber della Dea ha smesso di giocare. Nessun rapporto in crisi con la moglie: la pandemia ha riaperto ferite nel suo cuore, dai morti di Bergamo alla guerra nei Balcani. Di Arianna Ravelli (ha collaborato Albert Voncina) l'1 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. L’Atalanta che trionfa nella notte di Valencia e scolpisce il suo nome nell’élite della Champions, lui che segna quattro gol, dribbling, serpentine, estasi tecnico sportiva, le suggestioni di Pallone d’oro. L’epicentro della pandemia, il conteggio dei morti, il suono delle sirene, i camion dei soldati che di notte trasportano le bare via da Bergamo. Forse è stato troppo. Troppo tutto assieme e troppo velocemente. Quello che è sicuro è che Josip Ilicic quando il pallone ha ricominciato a rotolare e quando tutti parlavano di ritorno alla vita è sparito. Ultima comparsa in campo l’11 luglio contro la Juventus, spento, depotenziato, poi basta. Un recupero che slitta a non si sa quando, forse nemmeno all’inizio della prossima stagione, il permesso di tornare in Slovenia per riprendersi. Due parole sussurrate dal suo allenatore Gian Piero Gasperini, «gli siamo vicini», altre che rimbalzano «problemi personali» e che come succede quando il mistero è fitto hanno preso la forma di bufale, come quelle di un rapporto in crisi con la moglie Tina, anche lei, come Josip, scappata in Slovenia dalla guerra, e conosciuta dentro lo stadio dell’Interblock, dove lui cercava di prendere il volo e lei si allenava sui 400 metri. Come ha raccontato in una delle rarissime interviste rilasciata a Sportweek ai tempi di Palermo, il primo approdo in Italia. E ora che succede? Attorno si è alzata una barriera di silenzio che sa di protezione. E di rispetto per un ragazzo che non si sa cosa abbia, ma che di sicuro sta soffrendo. Un ragazzo molto sensibile (al portale croato 24sata a febbraio aveva detto: «Quello che è successo a Davide Astori è stato nella mia testa per giorni. Non riuscivo a dormire, ho pensato: “E se non mi svegliassi la mattina, e se non vedessi la mia famiglia?”»), solitario, con il culto della privacy. A Zingonia lo chiamano «la nonna», perché ascolta ogni malanno. «So già cosa mi vuole chiedere, ma io non parlo. Clic», la reazione del manager Amir Ruzniç. Ma non è per morbosità se tutti si chiedono che fine ha fatto Ilicic, è che questi tempi hanno già portato via così tanto che il rischio di vedere perduto un talento come il suo fa malinconia. «Ogni tanto lo chiamo per sapere come sta, ma adesso non mi ha risposto — racconta Antonio Sivec, che quando era a Palermo, gli faceva da interprete —. Cosa sta succedendo? Per me si è spaventato con la pandemia. Ma non per sé, per le sue bambine. Lui con loro vuole essere il padre che non ha mai avuto. Tutti quei morti gli avranno ricordato la guerra... sarà sconvolto, altra spiegazione non esiste; questa è paura, paura che ti blocca le gambe». Certezze non ce ne sono. Nemmeno sul passato. Ilicic è nato nel 1988 a Prijedor, in Bosnia e Erzegovina, poi luogo di un terribile eccidio; suo padre è morto quando lui aveva sette mesi, pare per malattia, anche se in Slovenia girano altre ricostruzioni. «Non so cosa voglia dire la parola “papà”, sono stati i compagni di scuola a spiegarmi cos’è», ha raccontato una volta. E chissà che dentro non sia rimasto un buco nero dentro il quale ogni tanto il ragazzo si perde.

Il male oscuro di Ilicic, il campione sparito. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da Franco Vanni su La Repubblica.it La stella dell'Atalanta è tornata in Slovenia, dalle persone care. Il club lascia solo trapelare che non è infortunato ma quasi certamente non tornerà per la Champions. Cosa sta succedendo a uno dei protagonisti del campionato? Non sono i muscoli e non le ossa. O almeno, questo lascia filtrare fra mille comprensibili reticenze l’Atalanta. A fermare Josip Ilicic, giocatore simbolo della squadra di Gasperini, potrebbe essere un dolore più profondo, che non passa con le infiltrazioni e con la fisioterapia. Il 32enne sloveno è tornato a casa, nella sua campagna. A curarlo sono la compagna Tina e i familiari, che lo conoscono davvero, da prima che il calcio portasse soldi e fama. “È un ragazzo forte ma anche fragile, come i tronchi degli alberi antichi”, dicono di lui i compagni con cui ha condiviso lo spogliatoio a Firenze, fra il 2013 e il 2017. A Zingonia non sono bastati i gol, le vittorie e la fiducia del club nerazzurro a evitare che qualcosa si rompesse. Josip Ilicic ha sofferto i mesi di lockdown a Bergamo, con la conta quotidiana dei morti, le immagini delle bare trasportate dai camion militari, la paura di fare anche le cose più semplici e la metamorfosi del contatto umano: da fonte di conforto a pericolo di contagio. Se la sua sia depressione lo possono dire solo i medici, perché di malattia si tratta e non di un semplice stato d’animo. L’Atalanta, che gli deve moltissimo, ha fatto tutto quel che poteva. I suoi compagni, la società e lo stesso Gasperini si sono spinti fino ai propri limiti in una missione troppo grande anche per loro. L’allenatore gli ha dato fiducia sempre, fino a schierarlo contro la Juve nonostante le partite spente che aveva giocato con Lazio, Udinese, Cagliari e Sampdoria. Non è bastato. La scintilla non ha riacceso il fuoco. Il rischio è Ilicic non prenderà parte all’impresa più grande della storia atalantina: le fasi finali di Champions. La società lo aspetta rispettosa, come tutta la città. E non consola il fatto che anche la prima avversaria, il Psg, dovrà fare a meno di Mbappé. Il Gasp, alla prospettiva di dover fare a meno del suo campione, non si nasconde: “Per noi giocare senza Ilicic è come per la Juve fare a meno di Dybala, o per l’Inter giocare senza Lukaku”. Lukaku questa serà sarà a disposizione di Conte, e non è una cosa da poco. A Bergamo ci si gioca il secondo posto in campionato, meta mai raggiunta dalla Dea. Nella scalata, finora, Ilicic non è mai stato capocordata, non è nel suo carattere. Ma è stato l’alpinista più forte.

Da corriere.it il 2 agosto 2020. Ancora non è un ritorno sul campo di calcio ma è già qualcosa. Josip Ilicic torna a battere un colpo dai social, postando due immagini che dovrebbero rassicurare sulla sua situazione e dando un sorriso ai tifosi dell’Atalanta, da settimane preoccupati per le condizioni del giocatore più dotato ma anche più fragile della rosa. Una foto è comparsa nelle stories di Instagram, un selfie a due ripreso dalla moglie del campione, Tina, che appare in primo piano, mentre Ilicic sullo sfondo sembra schermirsi. Ma con gli occhi sorride, sornione, come a Bergamo ci si è abituati a vedergli fare nei momenti migliori. I due sono insieme e già questa è una porta chiusa sulle tante illazioni che nelle ultime settimane sono circolate sulla vita privata di Ilicic, come possibile detonatore di una crisi personale e sportiva che resta in gran parte un mistero. Nell’altra immagine, pubblicata come post invece da Ilicic sempre su Instagram, c’è tutta l’Atalanta che sul campo festeggia il raggiungimento del terzo posto in campionato per il secondo anno di fila. Una sola parola: «Grandi», e un cuore. Un enorme successo cui Ilicic ha contribuito in misura determinante, pur avendo giocato in pratica solo metà stagione: restano i 15 gol dello sloveno e sono tanti, se si considera che dopo il lockdown ha giocato pochissimo. Ora bisogna capire quali siano i tempi di recupero del giocatore, che secondo Gian Piero Gasperini non volerà a Lisbona per la final eight di Champions. E probabilmente faticherà ad esserci alla ripresa della stagione. Ma, almeno, quel sorriso sornione fa ben sperare.

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 2 agosto 2020. Guardatelo bene. Non adesso, che è diventato invisibile, guardatelo nei giorni in cui il mondo intero lo celebrava e tutto sembrava ridergli intorno, ditemi se l’avete mai visto per un secondo aprire la ruota del pavone o mostrare qualcosa che somigliasse, se non all’euforia di essere Cristiano Ronaldo, almeno al piacere di essere Josip Ilicic. Senza arrivare agli estremi di Lombroso, che ha trasformato un’intuizione fisiognomica in una teoria risibile per quanto smaniosa di diventare un dogma, i volti raccontano molto, se non tutto. Non di quello che sei, ma certamente di quello che sei diventato. Quello di Josip è un volto appeso a una malinconia vicina allo spavento. Qualcosa che ha visto, che ha percepito, che solo lui sa, e forse nemmeno lui sa. È il volto che resta dopo uno o più insulti che stanno nella parte più irraccontabile della sua biografia. La palla al piede che ha bisogno di un  campo di calcio per diventare piuma e svolazzo. Nel bla-bla della vita liofilizzata, plastificata, dunque negata, il calciatore di successo che soffre, senza apostrofo, è un paradosso paragonabile a quello di una statua di plastica che si dà fuoco perché ha scoperto un giorno di non essere riciclabile. Ilicic che non partecipa alla sua festa promessa, la consacrazione Champions, è l’attore che va a pesca con i parenti il giorno in cui, forse, vincerà l’Oscar. L’altro bla-bla imperversante, i calciatori che non avrebbero un’anima. Ce l’hanno a tal punto che passano la vita a diventare un luogo comune per scansare la fatica di averne una. Si fingono e sembrano intangibili, salvo andare in pezzi al primo scroscio di vita. Non tutti e non certo Josip. Nella sua vita, a quanto risulta, non passa da ieri il vascello fantasma, che chiamano “male oscuro” perché non si sa da dove viene, perché viene e dove andrà. Fantasmi, già. Josip Ilicic sa di che si tratta. Mai stato un allegrone. Eufemismo. Sempre stato un solitario. Anche quando, a vent’anni, arriva a Palermo, indovinato da Walter Sabatini, e mostra subito il suo calcio speciale. Parla poco e sorride meno. Zero tendenza al rumore consolatorio della socialità. I compagni li rispetta, ma non li cerca. Non è migliorato col tempo. Bergamo lo consacra gigante del calcio, ma non inganna che i suoi piedi, per quanto geniali, sono fatti di argilla. Uscito dalla clausura di Bergamo, smagrito e svuotato, da tutto ciò che aveva visto, ascoltato, vissuto. Al di là dei morti e degli ammalati, come tanti altri crivellato di colpi. Ha provato a giocare a calcio, Gasperini e i compagni sono stati padre e fratelli, ma la sua palla al piede era piombo e non diventava piuma. Il sistema protegge i suoi pollastri d’oro. Li fornisce di cuffie gigantesche per non sentire i suoni sconci della vita reale. Per quelli come Josip non ci sono cuffie, non ci sono filtri. Prima ancora, a Firenze, lo aveva prostrato la perdita dell’amico Davide Astori. E, prima ancora, l’infanzia in una Slovenia piena di guerra. E,  ancora prima, il papà mai conosciuto, mai chiamato, per sempre perduto, quando aveva sette mesi. Josip era, a trentadue anni, uno dei protagonisti più attesi di questa Champions ferita. Non ce la fa a fingersi quello che oggi non è. Si chiede ai calciatori, ai giorni nostri, di prestarsi come le attrici, le infermiere e le puttane di un tempo, spedite al fronte per consolare le pene di un’umanità sofferente e smarrita. Josip non ci sarà, perché lui, ora lo sappiamo, è dalla parte di chi soffre. Non averlo con noi significa una sola cosa: desiderare di riaverlo quanto prima.

Da corrieredellosport.it il 27 ottobre 2020. Il dramma di Bergamo, il calcio che si ferma, la malattia maledetta che trasforma i sorrisi in lacrime, il manto nero della depressione che avvolge tutto nel suo buio anche se sei sul palcoscenico del mondo, ammirato da tutti e attorno a te si parla di Pallone d'Oro: il caso di Josip Ilicic aveva commosso non solo l'Atalanta ma tutto il mondo sportivo italiano e internazionale, e ora che il talento sloveno ha ritrovato la gioia di vivere e di giocare - lasciando alle spalle i momenti difficili e complicati - si può parlare anche più serenamente di quello che ha vissuto, senza timore di affrontare le cose come sono. A rivelare i motivi che hanno allontanato Ilicic dal nerazzurro, dal calcio e da tutto il mondo sportivo che lo circondava, per cercare rifugio lontano da tutto e da tutti, è stato il Papu Gomez, compagno di squadra e amico del campione di Gasperini, in un'intervista rilasciata a Tyc Sports: "Sì, Josip ha avuto il Coronavirus - ha ammesso l'argentino - e ha sofferto molto, cadendo in depressione. Nella vita può arrivare un momento in cui la testa ti esplode, ma per fortuna ora sta bene, è tornato ed è molto importante per noi". L'Atalanta è infatti nella stagione della consacrazione, protagonista in Italia e in Europa: "L’anno scorso forse siamo stati una sorpresa ma ora ci siamo fatti un nome - continua - e possiamo competere con qualsiasi squadra. Sappiamo di rischiare dietro, è vero, ma il nostro gioco offensivo ci ha portato fino a qui, siamo sempre tanti in area e siamo in grado di segnare tanto. Il futuro? A febbraio faccio 33 anni, ho tre anni di contratto qui, voglio restare e continuare anche nel club una volta finita la mia carriera".

Agnelli e l'Atalanta in Champions: "Non hanno storia, loro dentro e la Roma fuori, non so se è giusto". Il presidente della Juve: ''I bergamaschi con una grande prestazione sportiva hanno avuto accesso diretto alla Champions. Giusto o meno, penso poi alla Roma, che ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il ranking dell'Italia, ha avuto una brutta stagione ed è fuori. Bisogna proteggere gli investimenti". Domenico Marchese il 05 marzo 2020 su La Repubblica. Dopo aver analizzato il futuro del calcio nell'immediato, assecondando ogni scelta effettuata dal governo italiano per il bene della salute pubblica, Andrea Agnelli ha esposto al forum del Financial Times Business of Football Summit, in corso di svolgimento a Londra, anche le sue idee sulla riforma della Champions League e sul futuro a lungo termine del calcio. "Quello che stiamo facendo è analizzare le dinamiche e capire cosa vorranno i consumatori nei prossimi 10/15 anni". Il presidente della Juve è sempre stato esplicito, indicando nelle grandi partite tra grandi squadre il menu preferito dagli appassionati di tutto il mondo: un crescente desiderio di grandi match che portano naturalmente alla creazione di una superlega. Con l'ipotesi di licenze a lungo termine per evitare che si ripeta la situazione di quest'anno: l'Atalanta in Champions con una sola stagione positiva, la Roma fuori nonostante "abbia contributo negli anni a tenere alto il ranking italiano". Un punto di vista condivisibile o meno, ma che si scontra evidentemente contro l'idea fino a oggi dominante: "Stiamo cercando di capire come offrire ad un maggior numero di società la possibilità di crescere e diventare grandi - spiega il presidente della Juventus -. Oggi ci sono posizioni dominanti, le leghe minori hanno meno possibilità di lottare". Un'idea sulla falsariga del basket, che permette alle squadre che detengono un diritto pluriennale di poterne usufruire raggiungendo un risultato minimo: "Mantenere il proprio livello internazionale con una determinata posizione minima in classifica. Ho grande rispetto per quello che sta facendo l'Atalanta, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla Champions. Giusto o meno, penso poi alla Roma, che ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il ranking dell'Italia, ha avuto una brutta stagione ed è fuori. Con tutte le conseguenze del caso a livello economico. Bisogna proteggere gli investimenti". Si potrebbe obiettare che anche l'Atalanta, per quanto con un inizio e una piazza decisamente più piccola, stia affrontando tanti investimenti, dallo stadio al settore giovanile, che se fatto nel modo giusto costa molto più degli investimenti economici fatti per acquistare un calciatore. Un percorso, quello disegnato da Agnelli, che potrebbe escludere piazze virtuose come quella bergamasca, o comunque rendere più difficile il cammino: "Non lo so, si tratta di mettere in campo un processo trasparente per questa decisione. Ci sono squadre che hanno fatto la semifinale di Champions League, che hanno vinto il campionato o la coppa e che guadagnano le qualificazioni solo per il ranking del loro paese. L'obiettivo è bilanciare, quanto pesa il contributo al calcio europeo e quanto pesa la prestazione di un singolo anno. Non ho la risposta. Quello che va capito è come assicurare ai club sani, ma anche limitati dalle dimensioni del loro mercato, a lottare e a non trasformarsi in realtà dedicate alla crescita dei giocatori per le grandi società. Gli ottavi di Champions quest'anno ne sono la dimostrazione, anche la Coppa del Mondo 2018 è stata la dimostrazione del dominio dei paesi europei". Tre mesi nel listino dei titoli con maggior capitalizzazione, prima di essere retrocessa nel Mid Cap. Il titolo Juventus abbandona il Ftse Mib, che comprende le maggiori 40 società italiane per capitalizzazione, venendo sostituita a partire dal 23 marzo da Banca Mediolanum. La notizia è diventata ufficiale nella giornata di oggi dopo che ieri il titolo, sceso sotto la soglia di 0,90 euro, aveva chiuso  ancora una volta in forte ribasso. Difficile ipotizzare un declassamento dovuto ai risultati sportivi, visto che fin dall'ingresso in Borsa la Juventus aveva puntato sulla solidità societaria più che sui risultati sportivi, troppo aleatori e soggetti ad oscillazioni. Decisiva la relazione finanziaria semestrale in cui è stato certificato un deficit di 50,7 milioni di euro e le prospettive certamente non entusiasmanti, visto il doppio turno di campionato a porte chiuse che potrebbe portare una mancato incasso di 10/15 milioni, strettamente connesso alle disposizioni che saranno impartite per la sfida di Champions League contro il Lione. 

Dagospia il 13 ottobre 2020. L' ultima fatica di Vittorio Feltri, con ogni probabilità, non è stata una fatica. Esce oggi in libreria «Ritratti di campioni. Cronache di un giornalista tifoso» (Mondadori, 157 pp, 18 euro). Vien da sé che per uno scrittore «innamorato di calcio, ciclismo, scherma, equitazione e soprattutto degli uomini e delle donne che ne sono le gemme» sia stato tutto tranne che faticoso intraprendere questo «viaggio tra gli italiani che più possono insegnarci con le loro virtù a non soccombere, anzi a salire sul podio nella competizione...». Da Totti a Pirlo, da Conte ad Ancelotti, da Rossi a Tomba, dalla Vezzali alla Pellegrini, ci sono tutti i più importanti. Per gentile concessione dell' autore e dell' editore, pubblichiamo il ritratto di Antonio Percassi, ex calciatore, grande imprenditore, e patron di una magica Atalanta.

Estratto del libro di Vittorio Feltri “Ritratti di campioni” pubblicato da “Il Giornale” il 13 ottobre 2020. Antonio Percassi non se la tira da divo, odia la mondanità, eppure è un padreterno che, pur passando inosservato, domina la scena da dietro le quinte. D' altronde non solo è bergamasco, quindi schivo e addirittura scontroso, ma si porta sulle forti spalle l' aggravante di essere nato a Clusone, in Valseriana, aspra come il carattere dei suoi abitanti che parlano un dialetto talmente incomprensibile ai forestieri da non sembrare di ceppo indoeuropeo. L' uomo, grande imprenditore, merita di essere raccontato attraverso le sue mirabili opere. Figlio di un modesto costruttore di case, Antonio (Tone) mentre studia da geometra con profitto (si diploma in fretta) sfoga la sua passione per il calcio, giocando nei ragazzi dell' Atalanta, da cui una domenica fu prelevato e buttato  in prima squadra. Aveva 18 anni. Il suo fu un esordio felice. La partita allo stadio Comunale, ora Azzurri d' Italia, contro il Bari terminò 0 a 0. L' avversario diretto del debuttante non toccò palla e il giovincello di Clusone si spalancò le porte al professionismo. Nell' ambiente, pur cambiando club, rimase per alcuni anni con alterne fortune. Parliamoci chiaro. Percassi col pallone tra i piedi non era un fenomeno. Se la cavava perché era intelligente e sapeva stare in campo con autorità. Non aveva una tecnica sopraffina, però la grinta e il senso della posizione non gli mancavano di certo. A un dato momento, nel fiore degli anni (26), si ruppe le scatole di sudare marcando attaccanti, si ritirò prematuramente dall' agonismo e si annidò nell' azienda paterna con l' intento di incrementarne gli affari. La iniziale esperienza dietro la scrivania non fu delle migliori. Ma dagli errori si impara a non commetterne. Egli non sbagliò più un colpo. L' attività di famiglia, grazie all' entusiasmo e alla sagacia di Antonio, crebbe a dismisura, diventando un colosso in ambito edile. A missione compiuta, l' ex difensore non si adagiò nella bambagia, bensì si lanciò in altre imprese che ingigantirono l' impero. I migliori marchi di abbigliamento entrarono nel suo recinto commerciale, idem quelli della cosmesi. La famosa Kiko, per citare un caso, si è sviluppata nelle mani di Antonio. Il quale, mai domo, realizzò il supermercato numero uno d' Europa, l' Orio Center. Non si tratta di robetta. Sorvoliamo sulle restaurazioni di immobili, le più corrette e affascinanti di Bergamo e provincia: i palazzi e le ville da lui sistemati sono autentici gioielli e hanno suscitato ammirazione. Comunque il capolavoro è stato l' Atalanta, di cui si è preso cura alcuni anni orsono, dopo un esperimento precedente finito né bene né male. Da quando al timone della società c' è lui, i trionfi si succedono a ritmo incalzante. E ciò è noto a chiunque segua il calcio. I nerazzurri, pur agendo in provincia, recitano un ruolo importante nel campionato. Le loro prestazioni spesso sono incantevoli. Infatti i risultati che conseguono gli orobici fanno venire i brividi in patria e all' estero. Siamo di fronte a un miracolo. Un vivaio esemplare, che sforna talenti a ripetizione, una gestione manageriale perfetta, bilanci in ragguardevole attivo. La lungimiranza del Tone lascia a bocca aperta. Mi domando dove e come abbia imparato a stravincere in ambito economico e in quello sportivo. Nel 2017 la Dea ha realizzato un utile di 27 milioni di euro. Si è comprata lo stadio e si accinge a ricostruirlo. E pensare che se conosci Percassi non immagini che sia un portento. Ha l' aspetto e i modi di una persona qualunque. Egli non è uno smargiasso. Poche parole gli escono dalla bocca. Quando abbiamo pranzato insieme, avrà pronunciato sì e no tre frasi secche seppur cordiali. Egli stava in silenzio, ma ascoltava con attenzione le bischerate dei commensali. Chissà cosa pensava, forse di essere al cospetto di quattro imbecilli. Un giorno, nel 2000, mi convocò nel suo ufficio e mostrò interesse per il giornale che stavo per fondare, «Libero». Mi illusi che intendesse entrare in società con me. Sul più bello fece una rapida marcia indietro. Non si fidava di un pazzo come me, evidentemente. E qui sbagliò, perché il quotidiano si rivelò un buon affare. Peggio per lui e pure per me. Antonio è una garanzia di durata e non solo di effimero successo. In un' altra circostanza fummo sul punto di collaborare. Desideravamo, lui, Tomaso Trussardi ed io, acquistare un ristorante a Bergamo Alta, la Taverna del Colleoni, ma anche stavolta la trattativa si inceppò. Percassi, pignolo e guardingo, controllò ogni virgola e maturò la convinzione che non fosse il caso di procedere. Sottovoce mi disse: «Lasciamo perdere, non conviene». Di sicuro aveva ragione, ma mi sarebbe piaciuto lavorare con lui, implacabile in tutti i campi e non solo su quello erboso. Oggi perfino nel calcio è il numero uno. Il valligiano rustico è troppo bravo. Ha sei figli, tra cui un ex calciatore che ora aiuta il papà. Secondo le statistiche, su sei eredi avere un coglione è fatale. Quelli di Antonio invece sono tutti in riga. Non può essere solo fortuna.

Una vita da arbitra: 1.600 in Italia che resistono a pregiudizi e aggressioni. Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Quello sporco ultimo fischio che sabato scorso a Meda ha scatenato l’inseguimento all’arbitro (donna e minorenne: 16 anni) al termine di Real Meda-Rivanazzanese, Under 15 femminile, in cambio di pochi euro: 30 per la categoria Giovanissimi e Allievi, indipendentemente dal sesso dell’arbitro. «La somma comprende tutto: benzina e pedaggi» fa notare l’ex fischietto Luca Marelli nel suo interessante blog. Il rimborso spese diventa di 38 euro per le trasferte sopra i 25 km: «Rare». Quelle sopra i 50 km, poi (da 42 a 88 euro), sono inesistenti: «Si tratta di gare provinciali che si svolgono su un territorio molto limitato. I designatori locali, inoltre, hanno l’indicazione di risparmiare il più possibile». Di Stephanie Frappart, la francese 36enne arrivata a dirigere una finale di Supercoppa europea di calcio maschile (Liverpool-Chelsea 7-6 ai rigori), ce n’è una sola. E arbitrare da donna in provincia, non è difficile da capire, non si fa per soldi. Suscitano ancora più impressione, conteggiati dall’Osservatorio Violenza dell’Associazione italiana arbitri (Aia) al 30 giugno 2019, i 3.037 episodi segnalati nelle ultime sei stagioni, 457 solo nella scorsa, così catalogati: 78 tentata violenza, 60 violenza morale, 200 fisica, 119 fisica grave con responsabilità distribuite tra calciatori, dirigenti ed estranei (Alto Adige regione più virtuosa con zero casi; Calabria maglia nera con 79). Di essi, una decina hanno riguardato un’arbitra. L’Aia ha aperto le porte alle donne nel 1990. Oggi in organico ci sono più di 1.600 fischietti rosa: in Europa, ne ha di più solo la Germania. Donne, spesso, pronte a tutto. Tentativi di aggressione, sputi, insulti sessisti (nel novembre 2018 il Gazzettino di Treviso raccontò la vicenda della 19enne Sara Semenzin, invitata a «cambiare mestiere e restare ai fornelli la domenica» mentre arbitrava Marchesane-Real Stroppari, seconda categoria), spogliatoi senza serratura in cui entra — impunito — chiunque, proprio come è capitato alla minorenne della provincia di Milano che sognava di diventare brava come l’arbitro Collina (lo racconta su Instagram), assediata dai genitori della squadra ospite dopo aver convalidato al Real Meda il gol vittoria allo scadere ed essere stata affrontata con durezza da Paolo Bottazzi, l’allenatore della Rivanazzanese che si è subito scusato («Non era mia intenzione spaventarla, volevo solo richiamare la sua attenzione ma ho commesso un errore: avrei dovuto parlarle con le mani dietro la schiena, anziché toccarle il braccio») ma rischia una denuncia dei genitori della ragazza, che per sedare gli animi hanno chiamato i carabinieri. Un mese fa l’indecorso trattamento spettò a una 16enne nella categoria Giovanissimi regionali a Sava, Taranto. E lo scorso maggio a Mestre la 22enne Giulia Nicastro dovette assistere allo spettacolo di un calciatore classe 2004 che si calò i pantaloncini per contestare un calcio d’angolo. Un’ordinaria amministrazione di piccole oscenità e grandi torti che Elisabet Spina, ex centrocampista, oggi responsabile del settore femminile del Milan, conosce bene: «Il calcio donne ha aperto le porte a tante figure professionali che una volta non esistevano: il rischio di riproporre i modelli di comportamento negativi del calcio maschile è reale. Dobbiamo essere brave a impedire la contaminazione». Come? «L’Aia sta facendo sensibilizzazione nei settori giovanili; noi al Milan proviamo a formare, oltre alle calciatrici, anche le figure genitoriali. Sul tema del razzismo, per esempio, con la prima squadra siamo stati al Binario 21 della stazione di Milano in occasione del Memoriale della Shoah e ci stiamo occupando dell’integrazione di Refiloe Jane, la prima sudafricana in A». Per Carolina Morace, leggendaria bomber azzurra, il problema è culturale: «Succede spesso che i falliti del calcio maschile vengano da noi, portando la loro mentalità. Chi si rende responsabile di violenza va radiato. Ma il punto è la scuola: paghiamo di più i professori perché insegnino educazione e rispetto. Quando allenavo in Australia arrivavano circolari su come trattare i bimbi transgender. L’Italia è indietro, manca progettualità». Contro la violenza sugli arbitri il presidente dell’Aia Marcello Nicchi ha chiesto aiuto al ministero dell’Interno. «È ora di intervenire in modo duro, sennò il calcio non ha futuro. Le persone violente non devono più entrare sui campi. Per fortuna la 16enne di Meda ha reagito bene: le abbiamo messo a disposizione l’ufficio legale dell’Aia ma non ha subito traumi». Tornerà ad arbitrare già domenica (con molti in bocca al lupo).

Roberta Scorranese per il ''Corriere della Sera'' l'11 ottobre 2020. Tutto è cominciato con una gaffe. A Tokyo, a un evento della Fifa. Da una parte c’è Carolina Morace, tra le più forti calciatrici di tutti i tempi. Dall’altra c’è una bellissima donna che si chiama Nicola. «Ma si legge Nìcola, non potevo saperlo. La chiamai con il secondo nome, Jane, mi sembrava più “da donna”, e lei, guardandomi intensamente, mi disse: “Perché mi chiami Jane?”». Da allora Carolina Morace e l’australiana Nicola Jane Williams non si sono più separate. Si sono sposate due volte, nei primi tempi della loro relazione hanno preso decine di aerei per trascorrere del tempo assieme, hanno costruito pazientemente un amore che solo adesso la cinquantaseienne ex calciatrice e coach — inserita tra le «Leggende del calcio» del Golden Foot Award — ha deciso di raccontare. Ha scelto il Corriere della Sera, che anticipa il libro-confessione (scritto con la giornalista Alessia Tarquinio) Fuori dagli schemi, in uscita per Piemme il 13 ottobre.

L’amore, la vita, il calcio. Un racconto intenso, di cuore. Come mai proprio adesso?

«Credo che nella vita ci siano dei momenti in cui certe cose diventano naturali. Forse prima non si è pronti. Poi, un giorno, le parole nascono con una spontaneità nuova».

Il coming out questa volta viene da uno dei simboli del calcio femminile. E sarà importante per tutte le donne del pallone.

«L’ho fatto naturalmente per loro, per le più giovani, ma l’ho fatto anche per molte mie amiche quarantenni o cinquantenni che ancora non trovano il coraggio di raccontarsi».

Sarà da sprone anche per gli uomini?

«Il mondo del calcio è pieno di pregiudizi e di omofobia. Non biasimo chi non fa coming out. Per molti uomini il non farlo è una forma di protezione. Credo che sia giusto farlo quando si è pronti, quando si è sicuri di poter togliere la maschera e non rimetterla più».

Quanto è stata importante Nicola in questa scelta?

«Moltissimo. Lei ha ricevuto un’educazione diversa: in Australia, come in molti altri Paesi del mondo, il fatto che due persone dello stesso sesso si amino non interessa a nessuno. Lei stessa, nei primi tempi della nostra storia, quando veniva in Italia, si meravigliava del peso che diamo a queste scelte. E solo con lei sono riuscita a essere vera, senza maschere. Adesso non mi nascondo più».

Eravamo rimaste alla gaffe fatta a Tokyo. È andata che vi siete sposate due volte.

«La proposta gliel’ho fatta nel giorno del mio quarantottesimo compleanno. Avevo comprato gli anelli, avevo ripassato per ore la frase “vuoi sposarmi?”. Sono una donna tradizionale, sì, anche in questo caso sono rimasta me stessa. E credere che prima nella mia vita non avevo mai pensato al matrimonio. Ci siamo sposate una prima volta a Bristol, sul piroscafo SS Great Britain e poi in Australia».

Papà che ha detto?

«Gli dissi: “Papà, mi sposo”. E lui: “Bene!” “Sì, ma non con un uomo”. “Va bene! Basta che tu sia felice”».

Lui l’ha sempre incoraggiata in campo?

«Se lui avesse pensato — come molti facevano allora e fanno oggi — che il calcio femminile è uno sport per uomini mancati e non ci avesse visto una prospettiva, io non avrei il trofeo della Hall of fame del calcio italiano. Non ho mai detto “Da grande voglio giocare a pallone”, ho giocato e basta. E dico: non chiedete il permesso di fare una cosa che vi fa stare bene. Fatela. Assecondate il vostro talento. Sarà dura, ma vi sentirete vivi, veri e speciali».

Forse è questo il punto: molti genitori di potenziali calciatrici non vedono «una prospettiva» nel calcio femminile, almeno in Italia. E finiscono per scoraggiarle. È così?

«È anche così. Il punto è squisitamente culturale: da noi il calcio femminile è soffocato da stereotipi che lo rendono poco appetibile, sì, parlo anche di sponsorizzazioni. Dunque, si deve cominciare a scuola, si deve far capire alle ragazze che anche nel calcio ci può essere una carriera e poi, naturalmente, ci si deve attivare perché questo si possa realizzare. E poi ci vuole qualità: il calcio femminile si merita gente intelligente, colta, preparata. Non gli scarti di un mondo, quello maschile, che non li vuole».

Investimenti, visioni, talento.

«Basta osservare cosa succede nelle leghe femminili che contano. Il modello tedesco garantisce alle società che non hanno alle spalle la forza del maschile 700 mila euro; a quelle professionistiche, 300 mila. Crediamoci e anche quello femminile diventerà un grande spettacolo. Dobbiamo aspirare a un bel gioco, anche nel calcio giocato da donne».

Lei ha la fama di «sergente di ferro». È ancora così?

«Ma no, diciamo che sono sempre stata una donna molto ferma nelle mie convinzioni. Quando divenni la prima donna ad allenare una squadra professionistica maschile, la Viterbese di Luciano Gaucci, tutti cominciarono a osservarmi e al tempo stesso tutti si aspettavano chissà quale bizzarria da me. Oltre al fatto che si sentivano in dovere, o in diritto, di darmi consigli. Ma devo dire che allora mi trattarono proprio come un collega maschio».

Le chiedevano se entrava negli spogliatoi.

«Avrei voluto rispondere: “No, mando dei pizzini” o “un piccione viaggiatore”».

Rigore, ironia, coraggio. Forse Morace, più che essere «fuori dagli schemi» ha uno schema tutto suo, che persegue con forza.

«Mi piace appoggiare chi è intelligente e capace, senza ipocrisie. Di certo non sono una donna che supporta un’altra donna solo per appartenenza allo stesso sesso. Allo stesso modo appoggio gli uomini: la persona viene prima del suo sesso».

Lei ha allenato la nazionale femminile italiana, la canadese e quella di Trinidad, oltre al Milan, per citare qualche incarico.

«Ho una certa esperienza e sempre ho cercato di comportarmi così come i miei schemi mi hanno suggerito».

Però del calcio femminile si è cominciato a parlare da poco.

«Esisteva ma non c’era. Centinaia di donne giocavano ma erano circondate da pregiudizi, considerate come maschi mancati. L’unico modo per motivare le bambine, dar loro l’ambizione di diventare campionesse vuol dire restituire al calcio femminile la giusta dignità e smettere di considerarlo un parente povero. Se le bambine saranno motivate potrà aumentare il numero delle praticanti e diventerà, forse, uno sport di massa».

Carolina, ora lei e Nicola volete un figlio.

«Sì, lo desideriamo. Lei ha già una figlia ed è una bravissima madre, mi commuovo nel vederla parlare così intensamente con la sua bambina, il tempo che le dedica e il modo con cui sta seguendo la sua crescita. Non sarà facile per noi, specie in questo periodo in cui spostarsi per il mondo è complicato a causa della pandemia. So già che dovremo avere pazienza, sia per questo che per tutte le difficoltà che incontreremo».

Però con lei si sente di poterlo fare.

«Nicola mi ha liberato anche di questo timore. In realtà, quando avevo trentanove anni — e lo racconto nel libro — ho provato a diventare madre. Ero una donna single e determinata ma i figli non arrivarono e così smisi di accanirmi. Dovevo solo aspettare. E con mia moglie oggi mi sento nel momento giusto».

Lei parla di Nicola con un amore che sembra nato ieri, anche se vi conoscete da anni.

«Lei è bellissima, è intraprendente, è dinamica. Pensi che ha cambiato volto alla mia casa, ma intendo dire sul serio, mettendoci le mani: pavimenti, arredo. È pragmatica, diretta, schietta. Così facendo mi ha aiutata a far luce su di me, a capire chi sono».

E oggi come si definirebbe (in amore) Carolina Morace?

«Sono una donna che ama una donna».

Da gazzetta.it il 13 febbraio 2020. Svolta della Figc sull'uso della Var nel campionato italiano. Con una nota sul sito ufficiale, la Federcalcio ha comunicato di essersi fatta "interprete delle richieste pervenute nelle ultime settimane da numerose società di Serie A ed ha anticipato informalmente alla Fifa la propria disponibilità a sperimentare l’utilizzo del challenge (la chiamata all’on field review da parte delle squadre), nei tempi e nei modi che l’Ifab eventualmente stabilirà. Nel comunicato si legge anche la Figc "è convinta che, continuando il percorso già intrapreso, si possa portare il calcio in una dimensione sempre più vicina ai milioni di appassionati, senza intaccare l’autorevolezza dell’arbitro bensì fornendogli strumenti concreti di ausilio. Il presidente Gabriele Gravina, inoltre, ha condiviso con il designatore della Can A Nicola Rizzoli l’esigenza, già trasferita ai direttori di gara, di intensificare il ricorso all’on field review nei casi controversi che rientrano nell’ambito del protocollo internazionale. Ciò al fine di non alimentare polemiche strumentali che intacchino l’immagine del nostro campionato, che si appresta ad entrare nella fase cruciale della stagione".

Roberto Avantaggiato per “il Messaggero” il 14 febbraio 2020. La Federcalcio svolta decisa. Verso le società di calcio, che in questa fase della stagione alzano toni e polveroni sulla regolarità del campionato. Puntando il dito, come avviene da sempre d' altronde, verso la classe arbitrale che, anche in tempo di Var, non viene risparmiata da critiche e attacchi.

Da Commisso, fino a D'Aversa domenica scorsa, il livello della polemica nelle ultime settimane ha avuto un' impennata. Niente di nuovo, per il febbraio del nostro calcio. Ma inusuale in un' era che avrebbe dovuto invertire la rotta con l' introduzione del Var. Strumento che invece sta diventando l' oggetto scatenante degli attacchi e delle repliche (alcune fuori posto) dei diretti interessati. Per questo, la Figc ha deciso di virare a 180 gradi e mettere un punto alla situazione. «L'On Field Review dev' essere usato di più», ha ordinato il presidente federale, Gabriele Gravina, ieri con una nota. Figlia di una serie di incontri e colloqui che da tre giorni il numero uno del calcio laziale ha con il designatore degli arbitri, Nicola Rizzoli. Confronto che suona come un avvertimento per il presidente degli arbitri, Marcello Nicchi, che in queste settimane è stato impegnato più a riscrivere le norme elettorali della sua associazione (per garantirsi una eleggibilità che altrimenti è a rischio e che sora al vaglio della Figc...) che a evitare le polemiche per gli arbitraggi dei suoi direttori di gara. Gravina è però andato oltre, rivelando di voler chiedere all' Ifab l' introduzione nel nostro campionato, in via sperimentale, del challenge, ovvero la chiamata da parte delle squadre all' on field review di un episodio contestato. Uno o due a partita, sarà tutto da vedere, ma anche questo è il segnale di come la Federcalcio abbia preso in mano la situazione e deciso di far sentire la voce del padrone, evitando così che con le elezioni che si avvicinano, qualcuno pensi di poter camminare da solo o per interessi di parte. «L'Italia è stata tra le prime a sperimentare il Var, offrendo un importante contributo alla sua introduzione in tutto il mondo», ha voluto sottolinear la Figc, nell' avanzare la candidatura del nostro calcio a innovare ancora, introducendo, appunto, la chiamata di parte per l' utilizzo del Var. Proposta sulla quale Paratici(ds Juve) si è detto favorevole. Ottenere il sì dell' Ifab, però, sarà molto difficile, per non dire impossibile, ma la lettera di richiesta e disponibilità alla sperimentazione è pronta a partire. Anche per dare una risposta ai club di serie A, e in particolare a qualche presidente che sui media annuncia confronti avvenuti con i vertici federali prima che questi addirittura avvengano. «Una situazione che non si può più accettare», si sono detti in via Allegri dando vita al dialogo diretto con Rizzoli. Al quale è stato chiesto, esplicitamente, di sensibilizzare gli arbitri a utilizzare di più l' on field review per rendere gli stessi direttori di gara più sereni rispetto a quanto appaiono in questa fase della stagione, che rischia di diventare penalizzante pr tutta la categoria, già in difficoltà per un cambio generazionale che sta incidendo molto sul piano della qualità (abbiamo un solo arbitro elite nella Fifa, oltretutto a fine carriera, quando fino a qualche anno fa ne avevamo quattro). Rizzoli, oggi trasmetterà l' invito del presidente della Figc ai direttori di gara di serie A (sia quelli che scendono in campo che quelli che vanno davanti al Var) nel consueto raduno quindicinale, che serve ad analizzare errori e comportamenti. E che, stavolta, dovrà trasformarsi in un confronto per arrivare ad un utilizzo più intenso (sempre nel rispetto dei dettami indicati dal protocollo) ma soprattutto uniforme del Var.

Dal “Fatto quotidiano” il 12 febbraio 2020. Gentile Ziliani, leggo sul Mattino che i tifosi del Napoli avrebbero addirittura deciso di citare in Tribunale l' arbitro Giua, reo di aver ammonito Milik, vittima invece di un fallo in area durante la gara contro il Lecce, e di aver ignorato il Var. Allo stesso Giua è stata inflitta una giornata di sospensione. Analoghe polemiche si erano generate dopo la partita tra Parma e Lazio: in questo caso l'arbitro Di Bello aveva lasciato scontente entrambe le tifoserie, ignorando il Var. Una tecnologia introdotta per facilitare il lavoro dei fischietti, che però i fischietti non utilizzano. Cosa l'hanno introdotta a fare, allora? Patrizio Quattrucci

Risposta di Paolo Ziliani: Caro Patrizio, tanto per cominciare la notizia è che gli arbitri italiani, dopo essere finiti assieme ai loro infedeli dirigenti nell'infamante scandalo di Calciopoli (il presidente Aia Lanese squalificato per 2 anni e 6 mesi, i designatori Bergamo e Pairetto radiati, l'internazionale De Santis squalificato per 4 anni e poi dismesso), sono ufficialmente diventati, sotto la gestione Nicchi-Rizzoli, i peggiori arbitri d'Europa. A dirlo non sono io, anche se lo scrivo da tempo e sono stato portato in tribunale non so quante volte (prossimamente: Rizzoli-bis e Pairetto jr.), ma a certificarlo è la stessa Uefa che all'ultimo raduno di Maiorca ha ammesso tra i "top referees" un solo italiano, Orsato, a fronte di 3 inglesi, 3 spagnoli e 2 francesi, olandesi, inglesi (e guarda un po'!, c' è anche Oliver, quello del bidone della spazzatura al posto del cuore), sloveni, rumeni. E siccome al ridicolo non c'è mai fine, l'ultima dal fronte è questa: il torinese Rosetti, che ha sostituito lo sgradito (ad Agnelli) Collina alla guida degli arbitri Uefa, dopo aver tentato di inserire Rocchi nella categoria Elite, è stato costretto a battere in ritirata. Motivo: nel match di Champions Chelsea-Ajax 4-4, Rocchi - con Valeri al Var - commise una serie di cantonate tali ai danni dell'Ajax (che in vantaggio 4-1 si trovò con 2 giocatori espulsi e un rigore contro al termine di un'azione che avrebbe dovuto essere interrotta) da renderlo del tutto insalvabile. La Uefa ha ammesso gli errori e ora l'Ajax sta per chiedere ai nostri eroi un risarcimento di 12 milioni, cioè il danno da mancata qualificazione. Nicchi, che in campo si atteggiava a duce (abbiamo ricordato lunedì cosa fece al povero Andersson del Bologna) e venne fermato da Casarin, ha fatto scuola: Rocchi fa il duce con l'Ajax, Giua col Napoli, Di Bello col Parma e i risultati alla fine sono questi. Dica dunque ai tifosi del Napoli di andare tranquilli: perché o li ferma un tribunale oppure non li ferma più nessuno. Paolo Ziliani.".

Estratto dell’articolo di Bruno Maiorano per “il Mattino” il 14 febbraio 2020. La telefonata di Aurelio De Laurentiis al presidente della Federcalcio Gabriele Gravina non è certo caduta nel vuoto. Dopo il rigore non concesso contro il Lecce (contatto sospetto tra Donati e Milik nell' area del Lecce) il patron del Napoli ha chiesto maggiore chiarezza e soprattutto maggiore attenzione da parte della classe arbitrale. Il suo invito è stato rivolto innanzitutto alla Federazione che a suo avviso dovrebbe tutelare tutti i club impegnati in campo. E così la replica da parte del numero uno della Figc non si è fatta attendere. Come? Due strade: un'esortazione («arbitri, usate di più il Var») ed un' apertura («pronti a sperimentare il challenge»). Il campionato sta per entrare nel vivo, sia nella corsa scudetto sia in quella per non retrocedere, e la Federcalcio […] ha fatto sentire la sua voce su temi caldi legati all' uso del Var. Fin dall' approvazione del Video assistant referee, nel marzo del 2016, l' International Football Association Board (Ifab) aveva premesso di non aspettarsi che l' impiego della tecnologia avrebbe azzerato gli errori, ma che sarebbe stata un valido aiuto agli arbitri per ridurli al minimo, a livello per così dire fisiologico. Come hanno però evidenziato le recenti polemiche (vedi anche le accuse del presidente della Fiorentina Commisso dopo la partita con la Juventus) l' utilizzo della video assistenza sembra non aver ancora trovato il giusto bilanciamento. Una situazione che ha spinto il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina e il designatore arbitrale Nicola Rizzoli a farsi portavoce della necessità di «intensificare il ricorso all' on field review» del Var, nei casi controversi «che rientrano nell' ambito del protocollo internazionale». […] Non appare casuale che la raccomandazione arrivi a pochi giorni dalla mancata revisione dell' episodio che ha portato all' ammonizione di Milik per simulazione in Napoli-Lecce. Episodio per il quale, oltretutto, l' attaccante polacco è stato multato. […]

Estratto dell’articolo di G.Buc. per “la Stampa” il 14 febbraio 2020. Il video c'è e va utilizzato. […] «I contatti "bassi" vanno sempre rivisti...», è la riflessione dei vertici arbitrali, più volte disattesa. Gravina e Rizzoli scendono in campo e la loro uscita si è già tradotta in un' indicazione trasferita ai direttori di gara «per non alimentare polemiche strumentali che intacchino l' immagine del nostro campionato ora che si appresta ad entrare nella fase cruciale della stagione intensificate il ricorso alla Var per i casi controversi...». […] La Var va rafforzata, è il pensiero condiviso. E per rafforzarla così come chiede più di un club di A (dalla Fiorentina al Napoli passando per il Torino) […]

Nicchi risponde a Commisso: «Gli arbitri sono disgustati da questo comportamento». Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 da Corriere.it. «Lo sfogo di Commisso? Io dico solo che gli arbitri italiani sono disgustati da questo comportamento». È la reazione del presidente dell’Aia, Marcello Nicchi, a Coverciano per l’assegnazione della Panchina d’oro agli allenatori. Nicchi ha poi tenuto a precisare di non aver incrociato il patron della Fiorentina che si è recato al centro tecnico federale per confrontarsi con il presidente della Figc, Gabriele Gravina (con cui ha avuto un lungo incontro), dopo l’attacco alla direzione di gara nella partita contro la Juventus. Commisso ha risposto indirettamente: «Non voglio favori da nessuno, ma solo essere trattato come gli altri. Rispetto per Firenze». Come si ricorderà, domenica Commisso aveva pesantemente criticato la direzione arbitrale di Pasqua che ha assegnato due rigori alla Juventus: «Sono disgustato dagli aiuti che concedono gli arbitri alla Juventus», a cui poi aveva risposto Pavel Nedved: «Si sta usando un po’ troppo la scusa degli arbitri quando la Juve vince sul campo. Siamo stufi». Botta e risposta, con tanto di invito reciproco a «prendersi un tè», con risposta finale di Commisso ai microfoni di 90° minuto: «Nedved chiuda la bocca e non parli con me. Io non parlo con Nedved, parlo semmai con il suo presidente». Poi la risposta di Nicchi. 

Dagospia il 3 febbraio 2020. Dall’account twitter di Sandro Piccinini. Al di là del merito dei casi di oggi, un consiglio gratis alla Juventus: per fare la morale agli altri sul comportamento da tenere a fine gara non mandi Nedved, spesso protagonista di sceneggiate irrispettose e intimidatorie verso gli arbitri #JuveFiorentina.

La risposta di Maurizio Pistocchi. Attento Sandro: l’ultimo che ha detto qualcosa di scomodo su Nedved sono stato io....e sai bene come è andata a finire?

Paolo Ziliani per il “Fatto quotidiano” il 10 febbraio 2020. Perché il calcio italiano è diventato questa indegna cosa cui ogni giorno ci tocca assistere? Perché i fatti succedono senza che nessuno ci faccia caso; anche se sono importanti; anche se produrranno conseguenze irreparabili. Come nel 2009 quando Marcello Nicchi diventa presidente nazionale AIA (associazione italiana arbitri). Sono passati tre anni da Calciopoli e a capo del movimento spunta un ex dal passato imbarazzante. Al termine della stagione '96-'97 il designatore Casarin lo ferma dopo due incresciosi episodi di cui è protagonista: uno di bullismo puro (in Vicenza-Bologna 2-0 espelle Andersson del Bologna che a bordo campo chiede a Ulivieri di essere sostituito non ritenendosi tutelato dall' arbitro; Casarin ferma Nicchi per tre mesi), uno di inettitudine (in Perugia-Napoli 1-1, al rientro dopo la sospensione, convalida un gol di mano dal perugino Rapajc). L' anno prima, in Sampdoria-Inter 0-0, Nicchi aveva ammonito per simulazione Mancini, atterrato invece da Pagliuca; Mancini aveva perso la testa, era stato espulso e aveva rimediato 6 giornate di squalifica. Per Casarin, il modo di porsi nei confronti dei giocatori, che Nicchi prendeva di petto quasi sfidandoli, era inammissibile. Sipario, quindi. Domanda: com' è possibile che un arbitro così discusso diventi presidente nazionale? Difficile dirlo. Quel che è certo è che Nicchi fu il quarto uomo di Pierluigi Pairetto (il designatore radiato a Calciopoli per i rapporti con Moggi) nella finale europea '96, Germania-R. Ceca 2-1: un buon amico insomma, e certo il figlio di Pairetto, Luca, con Nicchi a capo dell' AIA di strada ne ha fatta nonostante i continui pastrocchi (l'ultimo: i 7 ammoniti più un espulso della Roma nel 2-4 contro il Sassuolo). Appena eletto, Nicchi porta all'AIA come suo vice Nicola Pisacreta e come capo del settore tecnico Alfredo Trentalange. Pisacreta è il guardalinee che nella più scandalosa partita di Calciopoli, Roma-Juventus 1-2, nel '94-'95, fece convalidare il gol di Cannavaro segnato in fuorigioco e sostenne Racalbuto nella concessione del rigore del 2-1 per un atterramento di Zalayeta avvenuto fuori area ("È fuori e nemmeno netto" disse Bergomi in telecronaca Sky, tuttora reperibile su Youtube). I due minuti di proteste di Totti e compagni non servirono. In quanto a Trentalange, di Torino pure lui, era l'osservatore di Rocchi nella scabrosa partita Chievo-Lazio finita nel mirino degli investigatori. Il voto che diede a Rocchi fu alto e venne interrogato perché spiegasse. Curioso notare come Gianluca Rocchi, nell'organigramma AIA , figuri oggi come rappresentante degli arbitri; e come tra i responsabili degli Organi Tecnici ci sia Matteo Trefoloni, che era l' arbitro designato per la famosa Roma-Juve di cui sopra e che non se la sentì, e mandò un certificato medico per farsi sostituire, sapendo cosa lo aspettava. "Posso affermare - disse Trefoloni all'interrogatorio - che sia Bergamo che la Fazi (designatore e segretaria, n.d.r.) svolgevano un'attività volta a determinare in noi arbitri una sudditanza psicologica che si traduceva poi a seconda delle partite da arbitrare in una gestione delle stesse in linea con il volere dei citati". Dopo Roma-Juve, il presidente Figc Carraro, che aveva chiesto un arbitraggio imparziale, chiamò Bergamo e disse: "Allora io non conto un cazzo!". Oggi i telefoni tacciono.

Il fischio finale di Rocchi: un altro Juve-Roma per salutare la Serie A. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 su La Repubblica.it da Matteo Pinci. Juventus-Roma, sempre lei. Per l'ultima volta, però. Allo Juventus Stadium non c'è in palio nulla, né scudetti né qualificazioni europee, eppure per almeno uno dei protagonisti non sarà un giorno come un altro. La 263esima partita in Serie A, 16 anni dopo il debutto in un caldo pomeriggio di maggio del 2004 a Lecce (Lecce-Reggina 2-1), sarà l'ultima per Gianluca Rocchi, arbitro fiorentino arrivato ai fatidici 46 anni: il migliore in Italia, oggi, senza che nessuno possa sentirsi offeso nel sentirlo dire. Ma che proprio allo Juventus Stadium ha iniziato la propria ascesa. Come? Con uno di quei pomeriggi che fanno tremare anche i ricordi. Un altro Juventus-Roma, ma quel giorno non era affatto un'amichevole: era l'ottobre del 2014, prima contro prima, entrambe al comando di un campionato che promettevano di contendersi fino alla fine (non andò così). Rocchi concesse tre rigori di cui due alla Juventus, entrambi molto discussi dai romanisti: Totti a fine partita ne disse di tutti i colori, lui - come ogni arbitro in casi simili - finì nel tritacarne della critica, non foss'altro perché la Juve vinse 3-2 a pochi minuti dalla fine: un successo accompagnato dal celeberrimo violino mimato dall'allenatore romanista Rudi Garcia. Un altro arbitro ne sarebbe uscito tritato, nonostante un curriculum già decisamente carnoso, perdendo magari sicurezza in se stesso. Lui invece aveva deciso di metterci la faccia, andando davanti a una telecamera per ammettere un errore sul primo rigore e spiegarne la genesi. Da lì, da quella giornata, ha trovato nuove forze. E ha iniziato una scalata: nel 2017 la Uefa lo ha scelto per dirigere la Supercoppa Europea tra Real e Manchester United, nel 2018 è stato l'unico rappresentante dell'Italia ai Mondiali di Russia (dove gli è stata ingiustamente negata una semifinale che avrebbe strameritato), nel 2019 è sua la finale di Europa League tra Chelsea e Arsenal a parziale restituzione del maltolto un anno prima. In mezzo, anche un ruolo da rappresentante arbitrale, spendendosi anche per i tanti arbitri aggrediti in tutta Italia. Il futuro è una laurea, e con le lezioni per i vertici dell'Associazione italiana arbitri all'orizzonti, chissà. Difficilissimo invece vederlo tra i Var Pro insieme agli altri arbitri arrivati al limite anagrafico per arbitrare in campo. I protocolli anti Covid gli impediranno di celebrare l'ultima volta in Serie A come avrebbe voluto, magari accompagnato dai figli allo stadio. Ma quelle tribune, seppur vuote, e quelle maglie gli ricorderanno forse il momento in cui ha davvero preso in mano la propria carriera. Facendone un piccolo capolavoro.

Da corrieredellosport.it l'11 febbraio 2020. “Il sistema arbitrale era indifferente al Var, ma ha risparmiato il 98% di errori. Nicchi disse quattro anni fa di essere contrario al Var”. Lo dice Carlo Tavecchio, ex presidente della Figc, in una intervista a Radio Punto Nuovo, emittente della Campania:“Ho lasciato la federazione con dimissioni spontanee perché per me, non andare ai Mondiali, è un fatto gravissimo e qualcuno doveva dimostrare di aver capito. Ho voluto trascinare con le mie dimissioni anche la parte politica, il mio è stato un gesto corretto dal punto di vista etico e morale”.

"Il Var ha migliorato le partite". Tavecchio poi si addentra sulle vicende arbitrali: “Il Var è un discorso molto ampio che parte da una questione nel 2014. Due anni dopo vennero stabilite le norme di ausilio agli arbitri e si doveva capire chi dovesse applicarle. Le abbiamo applicate noi contro l'indifferenza del sistema arbitrale che non aveva avuto modo di apprezzare. L'uomo non può stabilire a vista 10 centimetri di fuorigioco, quindi questa tecnologia ha migliorato l'andamento delle partire. Il Var è una grande innovazione e il calcio è arrivato anche tardi ad utilizzare questo supplemento”.

Tavecchio: "Difficile spodestare la Juve". “Nicchi? Le dichiarazioni restano agli atti – continua Tavecchio - non posso giudicare gli arbitri che sono un'associazione con le proprie gestioni politiche, avranno le proprie motivazioni per eleggere Nicchi. Presunzione di non andare al Var? L'arbitro è il primo grado di giustizia sportiva, è difficile giudicare. Ognuno ha le proprie caratteristiche e peculiarità, anche se mi sembra illogico non utilizzare un supplemento che può darti una mano concreta. Non ho seguito le polemiche di Giua, ma il presidente del Napoli ha il suo avvocato che sa il suo mestiere. E' un campionato finalmente combattuto, la completa egemonia dei risultati della Juve era troppo, anche se credo sia difficile spodestarla”.

Gennaro Arpaia per “il Mattino”l'11 febbraio 2020. Non si ferma l'onda lunga delle proteste dei tifosi azzurri, ancora arrabbiati per l' ennesimo episodio arbitrale che non fa dormire. «Gli arbitri, soprattutto quelli esordienti a caccia di visibilità, devono smetterla di sentirsi protagonisti - attacca Simone sui social - Vanno in campo per far rispettare le regole, non per interpretarle a modo proprio». Il suo pensiero è ripreso anche da Annamaria: «Vorrei avere la presunzione di Giua che assume decisioni manco fosse il Collina di turno». Ettore rincara la dose: «Questo è arbitro di serie A? Non concede un rigore, ammonisce Milik, è un arrogante, i vertici Aia devono andare a casa, il calcio italiano non è credibile». Ma il parallelismo con l' episodio legato al rigore fischiato dallo stesso Giua a Cristiano Ronaldo alimenta solo le vibranti proteste. «Gli arbitri sbagliano in buona fede? Difficile crederci quando lo stesso arbitro si comporta in modo così differente su un episodio da rigore a seconda che il giocatore si chiami Ronaldo o Milik» scrive Gaetano. «Non c' è che dire, Nicchi sta allevando una classe arbitrale degna di lui». «Il contatto c' è stato e il rigore c' era. Milik ha accentuato la caduta, ma quello che più deve fare riflettere è che Giua era lo stesso del rigore dato a Ronaldo per un fallo della stessa dinamica», insiste Mario. Ma c' è anche chi non vuole alibi, come Ettore. «Rigore netto, ma doveva essere quello del potenziale 4-1». Intanto i tifosi non stanno a guardare e attraverso l' avvocato Angelo Pisani parte la citazione al tribunale di Roma nei confronti di Giua, Nicchi e anche Rizzoli. Al centro della protesta c' è il Var ignorato: «In violazione di ogni regola e buonsenso, l' arbitro addirittura ha ammonito Milik, la vittima del fallo da rigore, per simulazione e con palese disprezzo per le regole rifiutava di consultare il Var fuorviando e falsando l' esito della gara» si legge dall' atto. Un errore che non riguarda solo il tifo, ma anche le tasche: «Falsare l' esito di una gara attraverso errori gravi, oltre che screditare il «movimento calcistico, lede gli interessi economici di ogni tifoso che paga un abbonamento allo stadio o a una pay tv». Con conseguenze pessime: «Nei tifosi si è formato un sentimento di smarrimento e di sfiducia nei confronti dei più elementari valori sportivi, che li ha portati a perdere interesse nel coltivare la propria passione».

Pino Taormina per “il Mattino” il 3 maggio 2020. È stato a capo della Procura federale dall' agosto del 2016 fino allo scorso dicembre. Quando si è dimesso all' improvviso. Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma dal 2008 fino al 2015, parla per la prima volta del suo addio e degli anni alla guida della Procura.

Prefetto Pecoraro, come è gestito il calcio in questo momento?

«C'è confusione, non è semplice. Ma da quel che leggo, il protocollo non va predisposto dalla Figc né dal suo comitato tecnico-scientifico ma va predisposto da chi le regole le detta, ovvero dal governo. Come si possono dettare le norme per se stessi? E poi va anche regolamentato il trasferimento della squadra da una città all' altra».

E le squadre che devono fare?

«Applicare il protocollo con la Figc garante verso il governo della sua applicazione e nel contempo anche controllore, sanzionando anche duramente chi dovesse fare di testa sua».

Prefetto, perché si è dimesso l' 11 dicembre?

«C' erano ormai visioni differenti tra me e la Federazione. Era una questione di coerenza e di rispetto nei confronti dei miei colleghi della Procura, non potevo andare avanti in quel clima».

Il motivo è stata la sostituzione dei suoi vice?

«Non potevo accettarlo. Né come segnale né come gesto. Non l' ho interpretata come una sfiducia nei miei confronti, ma al lavoro fatto dalla Procura nel suo complesso fino a quel momento sì. Anche perché mancavano appena sei mesi alla fine del mandato».

Un messaggio per lei, dunque.

«Il rapporto fiduciario è tra il capo dell' ufficio e i suoi vice. E quindi tra il capo della Federazione e il capo della Procura. Facendo riferimento al mondo a cui ho appartenuto per decenni, nel 1994 l' allora capo della Polizia Parisi si dimise anche perché gli avevano nominato dei vice diversi da quelli che aveva indicato lui. Per carità, erano figure straordinarie. Ma lui interpretò quel gesto come un venir meno del rapporto di fiducia con il governo. La stessa cosa che è successa a me in Procura».

 Poteva sorvolare, proprio perché mancavano sei mesi?

«Quando nel 2007 avevo l' incarico di capo dipartimento dei Vigili del fuoco, dissi al ministro Amato che avrei dovuto indicare io il mio vice. Gli spiegai che fidarsi di me significava farmelo scegliere. E lui accettò il principio perché esisteva tra di noi un rapporto fiduciario».

Senza girarci intorno, è stato un modo per mettere le mani sulla Procura?

«L' impressione è quella. Certo. Fermo restando che parliamo di professionisti degnissimi di occupare quel posto. Ma è impensabile che un vice venga scelto senza chiedere e condividerlo con il capo dell' ufficio».

Perché la Figc ha avvertito questa necessità?

«Il pretesto era che la Procura dovesse essere formata da soli cinque vice e non da dieci...».

Perché parla di pretesto se c' era una norma?

«Certo, ma l' errore, se possiamo parlare di errore, era stato fatto tre anni e mezzo prima e anche Gravina c' era e aveva partecipato a quell' elezione. A me è sembrato assurdo voler correggere quell' errore commesso a così pochi mesi dalla scadenza naturale. E in ogni caso si può anche ridurre da 10 a 5 ma, se si vuole continuare a dare fiducia al lavoro della Procura, i cinque dovevano essere scelti tra quelli che c'erano prima. E con me».

Ma lei ha avuto pressioni per qualche procedimento?

«Scontri diretti con Gravina o altri mai. Probabilmente la mia visione della Procura era divenuta diversa dalla loro».

Perché la sua visione qual è?

«Con Tavecchio e con Fabbricini puntavamo al controllo dei bilanci, delle plusvalenze e della scommesse. Il sistema calcio va rifondato da qui. Sapevo bene che il sistema plusvalenza è una bolla pericolosa, che regge il sistema in maniera viziata. Volevo approfondire, fare accertamenti. La Federazione, e in particolare proprio Gravina, avevano pensato di creare una commissione conoscitiva per la verifica dei bilanci, con un presidente già individuato, ma poi tutto è sfumato. E non so perché. Palermo, Foggia, Bari hanno portato alla luce situazioni gravi di bilancio: se si interviene prima si evitano delusioni dei tifosi, false aspettative, il caos».

E sulle scommesse?

«Sapevamo di flussi anomali, ma senza avere i nomi degli scommettitori. Nella commissione presso il Dipartimento della Pubblica sicurezza che si occupa di scommesse c' è il rappresentate della Federazione ma non della Procura. E più volte ho chiesto la partecipazione anche della Procura dal momento che nessuno ci riferiva di quello che succedeva in quella commissione. Sono tanti anche i calciatori che scommettono, ma non abbiamo le prove. Dovevamo fare accertamenti, perché mica i tesserati scommettono con i propri nomi. Il Coni si è adoperato per darci una mano, abbiamo scritto all' Agenzia dei Monopoli ma loro ci hanno risposto che i nomi degli scommettitori non si possono dare perché c' è la privacy. E questo sempre in solitudine, senza che in Procura sia stato avvertito il sostegno della Figc».

Gli audio di Miccichè e De Siervo in Lega?

«Non hanno avuto alcun peso».

Non ha sentito il fiato sul collo per nessuna inchiesta?

«Su di me mai, su qualche mio vice ogni tanto... Ma pressioni vere solo dai media come nel procedimento sui rapporti tra alcuni dirigenti della Juve e il mondo degli ultrà o quella del Palermo per false comunicazioni sociali. Perché i media riflettevano l' animo di grandi tifoserie. Ma ciò non ci ha mai né infastidito né influenzato nel nostro lavoro».

Gravina poteva fare di più per non farla dimettere?

«Sinceramente ero anche stanco. Anche perché alcune cose non mi erano piaciute».

Quali?

«La mancata interruzione del gioco di Inter-Napoli e la difesa d' ufficio dell' arbitro Mazzoleni non le ho mai mandate giù. Intervenni duramente. E non c' entra nulla che sono tifoso del Napoli. Il razzismo e la discriminazione territoriale sono una cosa insopportabile. Per me il gioco andava interrotto anche quella sera, come da quel momento in poi è successo. Ma Mazzoleni disse che non aveva sentito nulla, mentre i miei ispettori a bordo campo stranamente avevano sentito tutto e pure riferito. Era un momento strano. Gli incidenti fuori dallo stadio, il clima all' interno di San Siro: mi aspettavo una reazione forte da parte dell' arbitro, cosa che è avvenuta giustamente qualche tempo dopo da parte di Rocchi in Roma-Napoli».

Torniamo alle visioni diverse, dunque?

«Io non riesco a capire come gli arbitri, che per me sono come un giudice, come un tribunale, al di sopra delle parti, facciano parte del Consiglio federale e quindi del potere esecutivo. Se ci sono loro, ci stiano anche i medici sportivi e via dicendo».

Da come parla, sembra uno che poteva anche andare via prima di dicembre.

«Ci sono stati momenti complicati, ma è stata la direzione di Orsato in Inter-Juventus che mi ha portato ad avere delle tensioni con il mondo arbitrale. Avevo avuto degli esposti, sottoscritti, di associazioni, tifosi, organizzazioni sul suo operato e per non sbagliare chiesi anche ai miei vice se era il caso di aprire o no un procedimento. Io non credo che avremmo trovato prove di malafede e chiesi all' Aia prima e poi alla Lega, ai soli fini conoscitivi, i dialoghi audio-video tra Var e arbitro di quella partita.

Insistetti: fateceli consultare, altrimenti che Procura federale siamo? Ce li diedero solo a inizio del campionato successivo. Ma lì ci fu la sorpresa».

Quale?

«Apriamo il file e l' unico episodio in cui non c' è audio registrato era l' unico che ci importava: quello tra Orsato e il Var che aveva portato alla mancata espulsione di Pjanic. C' erano i colloqui di tutto tranne che di quello».

Chiese il motivo?

«Subito. Mi dissero che non c' era e basta. Io sono certo che non ci sia stato dolo, ma ero obbligato a procedere, anche perché dovevo dare delle risposte a quegli esposti. Alla fine ho archiviato. Ed è per questo che c' è bisogno di maggiore trasparenza».

Cosa pensa degli arbitri?

«Sono bravissimi tecnicamente ma non tutti sono in grado di sopportare le pressioni di una partita allo stesso modo».

Pericoloso il braccio di ferro tra Figc e Coni?

«Il Coni giustifica gli sport che hanno già deciso di non dover andare avanti. Ed è giusto. Ma, ripeto, inutile arrabbiarsi con il calcio: non sono i medici che devono chiudere gli stadi, ma il governo». 

Edmondo Pinna per corrieredellosport.it il 4 maggio 2020. C’è stata anche un’indicazione - involontaria, ovviamente - da parte di Valeri, uomo VAR, a Orsato nella terribile notte di San Siro, per evitargli l’ennesimo errore. Parliamo del mancato secondo giallo a Pjanic, in particolare dell’entrata scomposta su Rafinha al 12 del secondo tempo. Dalla notte di sabato, emergono nuovi frammenti nella ricostruzione delle comunicazioni che ci sono state fra l’arbitro centrale e la control room. I due hanno sicuramente parlato prima e dopo l’evidenza (i segni dei tacchetti di Vecino) dell’infortunio di Mandzukic, in particolare sulla sostenibilità del provvedimento disciplinare (giallo fatto immediatamente da Orsato, che aveva visuale libera ed era vicino ai due) e opportunità di una review, che l’internazionale di Schio ha ritenuto doverosa dopo aver visto il sangue, dunque dopo che la conversazione fra i due era iniziata. Ma c’è dell’altro. Quando Pjanic entra in maniera rude e scomposta su Rafinha, colpendolo all’altezza del petto con le gambe, ovviamente il livello d’attenzione nella saletta VAR (Valeri e Giallatini, quest’ultimo come AVAR) è salito, in particolare per rivedere se l’intervento fosse o meno da rosso diretto (è uno dei quattro casi previsti dal protocollo per aprire una review). E più o meno questo deve aver sentito nell’auricolare Orsato, cioè che quell’intervento non era da espulsione. Un’indicazione, appunto, che l’arbitro di Schio non ha saputo cogliere. Perché è chiaro che se rosso non “poteva” essere, quell’intervento così maldestro e sicuramente anche imprudente a quel punto “doveva” essere da giallo (il VAR non può intervenire sulle ammonizioni, ancorché seconde e dunque con conseguente rosso). Insomma, sarebbe bastato usare la logica e fare una deduzione. Probabilmente lo stato di tensione già alto per quello che era successo e/o forse anche la sua presunzione, la sua grande fortuna fino a quando non ha “patito” l’esclusione dai Mondiali come arbitro (ci andrà da VAR), hanno fatto il resto.

Matteo Pinci per repubblica.it il 4 maggio 2020. Il mondo del calcio ha trovato il modo per farsi distrarre qualche ora dal braccio di ferro Serie A-governo sulla ripartenza del campionato. Ci ha pensato l'ex procuratore federale Giuseppe Pecoraro. In un'intervista al Mattino, Pecoraro ha lanciato un sasso che aveva tenuto in tasca due lunghi anni. Dopo il famoso Inter-Juve del 2018 in cui i bianconeri vinsero ribaltando il match, impedendo al Napoli di vincere lo scudetto, Pecoraro chiese - ha spiegato - l'audio del Var per capire cosa successe riguardo una mancata ammonizione a Pjanic che sarebbe costata l'espulsione del centrocampista della Juventus. Pecoraro ha denunciato che quei file audio "ce li diedero solo a inizio campionato successivo. Ma lì ci fu la sorpresa. Apriamo il file e l'unico episodio in cui non c'è audio registrato era l'unico che ci importava: quello tra Orsato e il Var che aveva portato alla mancata espulsione di Pjanic. Motivo? Mi dissero che non c'era e basta".

"Nessuna condotta irregolare degli arbitri". Denuncia rumorosa, ma inconsistente. Il motivo? Era stato lo stesso Pecoraro a firmare l'archiviazione del "caso", con motivazione stringente, dopo una serie di mail intercorse tra la sua procura, il designatore Nicola Rizzoli, il responsabile del progetto Var Roberto Rosetti e Alessandro Arduino della società che fornisce il Var, la Hawk Eye. Già all'ora Pecoraro aveva chiesto il perché nel file audio l'episodio fosse senza sonoro. Scoprendo che "l'audio non è presente in quanto l'episodio non era stato clippato perché non rientrante nei casi Var del protocollo Ifab". Insomma, non c'erano state comunicazioni tra arbitro e Var, perché trattandosi di una ammonizione semplicemente non era intervenuto. E la stessa Procura aveva concluso l'atto decretando che il materiale esaminato "non ha evidenziato alcun fatto specifico che possa consentire di ipotizzare condotte irregolari da parte degli ufficiali di gara".

Come funziona l'archiviazione dei file. Necessario è spiegare il perché nelle mani del procuratore arrivò quel tipo di materiale. Negli archivi del designatore e poi dell'Ifab - ossia il board che vigila a livello mondiale sul regolamento del calcio - finiscono solo i 7-8 casi di ogni partita che possono rientrare nel protocollo Var, anche quelli dubbi, perché sono quelle le uniche clip che vengono registrate, a scopi didattici (il cosiddetto "clippato"). Inviare l'intera partita sarebbe d'altronde impossibile, visto il peso in termini di giga da trasferire: più semplice sarà conservarle in futuro con la centrale unica del Var a Coverciano. Oggi sempre per motivi legati allo spazio di archiviazione, le registrazioni restano solo 3 mesi al designatore: il motivo per cui i file di Inter-Juventus arrivarono alla Procura federale solo all'inizio della stagione successiva è che la richiesta fu inviata da Pecoraro soltanto alla fine del campionato, servì del tempo tecnico per elaborarla, farla pervenire all'Ifab (autorizzato a conservare più a lungo il materiale) e ottenere i file. Un altro quesito a cui è facile rispondere, insomma. Il perché Pecoraro fosse così interessato a quel fallo di Pjanic resta quindi l'unica domanda senza risposta.

Da mondonapoli.it il 5 maggio 2020. Maurizio Pistocchi, giornalista Mediaset, ha rilasciato alcune dichiarazioni ai microfoni di Radio Kiss Kiss Napoli: “Le parole di Pecoraro? Fanno effetto, tutti ricordiamo come quella partita Orsato abbia commesso gravi errori molto male poiché ci sono tanti episodi in cui ha sbagliato. Pero ad oggi rimane il mistero su questa famosa comunicazione tra Orsato e il VAR sull’episodio di Pjanic e le parole di Pecoraro fanno riflettere: è molto strano che il procuratore federale se ne esca con queste dichiarazioni adesso, due anni dopo, facendo accrescere i sospetti sul calcio italiano. Quella partita per Orsato è una macchia nera nella sua carriera”.

Da corrieredellosport.it il 6 maggio 2020. Massimo De Santis, ex arbitro, è intervenuto in diretta a Radio Punto Nuovo: “Mi domando a che cosa serve la procura federale nell'ambito della FIGC se poi si agisce solo su input della Procura della Repubblica. La domanda che mi pongo su Orsato è come si fa a non prendere un provvedimento in tal senso. Come tutti gli arbitri anche lui può sbagliare, ma un tempo gli errori potevamo vederli solo dopo, oggi ci sono soggetti in una stanza con dei monitor ed in tempi rapidi davanti ad un replay non sanno prendere decisioni? La gente vuole che una partita di calcio termini senza contestazione, fermo restando che esisterà sempre almeno un parere controverso. Ma in casi come quello di Orsato e tanti altri, se mettiamo l'ausilio televisivo, 60 mila persone dallo stadio e i milioni che stanno a casa hanno possibilità di capire. Valeri e Orsato hanno fatto finta di non vedere? Da arbitro per la posizione di Orsato dovrebbe aver visto che lì c'è un provvedimento disciplinare. Puoi sbagliare sul rosso o giallo, ma il provvedimento c'è tutto".

De Santis sul file audio di Orsato. "Il file audio potrebbe non esserci mai stato, perché Valeri, sbagliando, in quel momento l'ha ritenuto da ammonizione e quindi non è intervenuto. Perché gli audio della partita non vengono messi su un nastro e consegnati alla Procura? Al termine della gara, non dopo 18 mesi. Perché Pecoraro non ha messo in atto i suoi poteri? Sulle chiacchiere è nato Calciopoli e potrebbe nascere un altro processo rimettendo il calcio sotto accusa. Per il campionato oggetto di Calciopoli, non c'è un episodio contestato, oggi lo facciamo perché è impossibile fare cose così eclatanti con l'aiuto della tecnologia. Su un campionato, la partita chiave è quella dell'ultima giornata, in questo periodo sento ancora alcuni giocatori dell'Inter per il famoso 5 maggio in cui persero e vanno a vedere le partite di 5 mesi prima. Orsato sbagliò tutta la partita Inter-Juve, ma un qualsiasi arbitro, anche un ragazzo dell'Eccellenza, messo nella stessa posizione di Orsato, l'unico dubbio che può avere è se cacciare il cartellino giallo o rosso".

De Santis e la sudditanza psicologica. "In una partita così importante, se fossi stato al VAR l'avrei chiamato e gli avrei detto che magari non è rosso, ma almeno giallo sì. Altrimenti che ci sto a fare davanti al monitor? Sudditanza psicologica? Quando scendi in campo tanti ragionamenti non li fai. Molti arbitri sono intimoriti ad oggi, ma se io avessi avuto la fortuna di arbitrare in questo momento con tutti questi strumenti, avrei potuto arbitrare camminando. Hai tutte le possibilità di poter decidere con tranquillità, un arbitro con gli attributi va a bordo campo a rivedere l'azione. Stanno attaccati ai protocolli, ma se neanche Valeri si è accorto che quello era quantomeno giallo, è una classe arbitrale da cancellare. L'espulsione di Zidane arrivò per via contorta, ma fu giusta. La personalità ed il carattere fanno la differenza, ma è indubitabile che il calcio è stato invaso dal mezzo televisivo. Pecoraro perché ha aperto l'indagine adesso, dopo un anno e mezzo? Questo è il problema e la cosa più brutta. Al processo di Napoli dissi di prendere le partite per cui fui accusato, il PM mi rispose che prendendo i filmati non c'erano episodi che avrebbero potuto condannarmi perché troppo bravo. Sono stati tutti bravi, io portai a far vedere che i tabulati erano falsificati in un file Excel e la Procura non ha più voluto vedere" ha concluso De Santis.

Inter-Juve 2018: Orsato si prese 8,5 dall’osservatore arbitrale (che però ammise il grave errore su Pjanic). Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Marco Letizia. Il giorno dopo, lo ricordano in tanti, si gridò allo scandalo. E quasi tutti i giornali italiani, sportivi e non, non avevano dubbi: il suo fu un arbitraggio da dimenticare. Il bersaglio di tutti l’arbitro Daniele Orsato, che diresse la celebre Inter-Juventus del 2018 finita 3-2 per i bianconeri, gara decisiva per assegnare lo scudetto agli uomini di Allegri nel testa a testa finale con il Napoli. Gara macchiata dalla mancata espulsione al 12’ della ripresa di Pjanic, che già ammonito non si beccò il secondo cartellino giallo per una durissima entrata su Rafinha (in quel momento i nerazzurri erano in vantaggio per 2-1). Su questo episodio recentemente è esplosa una prima polemica quando l’ex procuratore della Figc Giuseppe Pecoraro ha dichiarato: «L’unico episodio dei dialoghi fra l’arbitro Orsato e il Var in cui non c’è audio registrato era l’unico che ci importava: quello che aveva portato alla mancata espulsione di Pjanic». Una tesi contestata dal designatore della A Nicola Rizzoli per il quale: «L’audio non esiste in quanto l’intervento di Pjanic non era da Var». Ma se sulle eventuali colpe degli arbitri alla Var rimangono dei dubbi, sull’arbitraggio di Orsato almeno per i giornali italiani dubbi non ce ne furono dato che quasi unanimemente il giorno dopo diedero voti ad Orsato oscillanti tra il 3 (Corriere dello Sport) e il 5 (Tuttosport) con il Corriere della Sera che gli diede 4. Oggi però in un libro scritto per Chiarelettere dall’ex arbitro Claudio Gavillucci (con Manuela D’Alessandro e Antonietta Ferrante) intitolato «L’uomo nero. Le verità di un arbitro scomodo» in cui l’autore cerca di spiegare come funziona il sistema arbitri in Italia, emerge un retroscena che rinfocolerà le polemiche. Gavillucci pubblica infatti la scheda contenente la relazione dell’osservatore arbitrale della Can di A che assegna ad Orsato non la sufficienza, ma un supervoto: 8,5. Anche se lo stesso osservatore arbitrale deve segnalare: «Dovrei però rilevare un mancato provvedimento disciplinare per Pjanic (sarebbe stato doppia ammonizione) al 12′ del secondo tempo: non mi sembra vi sia alcun dubbio circa un intervento assolutamente falloso e senza possibilità alcuna di contendere il pallone ma solo di “abbattere” l’avversario». Quindi errore clamoroso che condiziona la partita e il risultato finale, ma arbitraggio da 8,5. Peccato però che a un giudizio ottimo non corrisponda un sostegno ad Orsato, che non solo non arbitrerà più nelle ultime 4 giornate del campionato 2017-2018, ma non arbitrerà più l’Inter da allora. Gavillucci nel libro spiega: «In conclusione, il voto dell’osservatore è buono, ottima la forma e ampia l’affidabilità. Giudizio confermato dall’organo tecnico presente in tribuna il quale è certo che “Daniele saprà superare questo momento di grandi polemiche per tornare più forte di prima”. Da quel 28 aprile 2018 alla fine del campionato però Orsato non ha più avuto nessun ruolo in campo, terminando di fatto il suo campionato quattro domeniche prima. A distanza di quasi due anni non ha ancora diretto l’Inter. Una scelta che suona come una condanna e che non tiene conto delle pressioni a cui già club e tifoserie sottopongono i fischietti. Nessuno sa che per diversi giorni dopo quella sfida Daniele, ex compagno di stanza in ritiro e amico, è stato bersaglio di pesanti minacce. Un solo errore non può pregiudicare una carriera né giustificare in alcun modo insulti o intimidazioni. Cercare l’infallibilità in un arbitro è come chiedere a un calciatore di non sbagliare mai un rigore». Una rivelazione quella di Gavillucci che lascia però più interrogativi di prima. Se Orsato arbitrò bene venne fermato solo per le minacce e le intimidazioni? Ma allora ci fu un condizionamento successivo. Oppure Orsato commise un errore enorme che fece gridare allo scandalo tutta Italia. E allora perché valutare come eccezionale il suo arbitraggio?

Inter-Juve e quel file VAR “sparito” su “un errore gravissimo che ha condizionato un campionato”. Le Iene News il 06 ottobre 2020. Filippo Roma e Marco Occhipinti stasera a Le Iene indagano sulla mancata espulsione dello juventino Pjanic durante Inter-Juve del 2018, un episodio molto discusso che probabilmente condizionò le sorti del campionato. Che fine hanno fatto le comunicazioni audio tra la sala VAR e l’arbitro Orsato di cui parla l'ex procuratore della FIGC Giuseppe Pecoraro? "Quel file su Inter-Juve di Orsato è sparito" e riguardava “un errore gravissimo che ha condizionato un campionato”. A dichiararlo ai microfoni di Filippo Roma e Marco Occhipinti è Giuseppe Pecoraro, ex procuratore della Federazione Italiana Giuoco Calcio, riferendosi alle comunicazioni audio tra VAR e arbitro Orsato, durante la partita Inter-Juve dell'aprile 2018. L'audio "sparito" riguarda proprio uno degli episodi calcistici più contestati degli ultimi anni, che probabilmente condizionarono l'esito del campionato, poi vinto dalla Juve. Ricordate l'episodio? Siamo a tre giornate dalla fine del campionato, con la Juve in testa e il Napoli a -1. Al dodicesimo del secondo tempo, Pjanic entra duro su Rafinha e rischia l'espulsione, essendo già stato ammonito nel corso di quell'incontro. Subito dopo il fallo, l'arbitro Orsato tira fuori il cartellino dalla tasca, ma dopo 35 secondi di attesa decide di non ammonire Pjanic per il suo intervento scomposto, ma l’interista D’Ambrosio per proteste. Solo che subito il fallo, con il cartellino già in mano, aveva fatto segno a D’Ambrosio di allontanarsi. Perché non ammonirlo immediatamente, quando l’aveva a mezzo metro, per ammonirlo dopo tutti quei secondi di attesa? Quel cartellino era sin dall’inizio per D’Ambrosio o l’arbitro Orsato l’aveva tirato fuori per Pjanic. E durante quei 35 secondi tra il fallo e l’ammonizione il VAR ha comunicato qualcosa negli auricolari dell’arbitro Orsato? E la stessa domanda che si fece all’epoca la procura Federale e le rivelazioni clamorose dell'ex procuratore della FIGC Pecoraro gettano un'ulteriore ombra su quella partita. Pecoraro infatti ha spiegato a Filippo Roma che all'epoca, immediatamente dopo il match, chiese i relativi file audio-video, i dialoghi tra il VAR e l’arbitro Orsato, ma che questi gli sarebbero stati forniti solo 6 mesi dopo. Quando ormai il campionato successivo era iniziato. Ma soprattutto che tra gli episodi ricevuti dalla Lega, l’episodio del fallo di Pjanic aveva il video, ma non l’audio dei colloqui tra la sala del VAR e l’arbitro Orsato! "La Lega disse che non l'avevano, che non c'era l'audio", spiega. L'ex procuratore racconta ancora che quella sua richiesta creò forti tensioni con il mondo arbitrale e che nessuno gli diede mai una spiegazione chiara del perché mancasse solo l’audio relativo a quell’episodio. Pecoraro sospetta che quel giorno qualcosa fu detto dal VAR a Orsato e che poi quell’audio sia sparito. L’ex prefetto di Roma poi parla di un possibile "condizionamento generale" degli arbitri. In che senso? "Se al Lecce non danno un rigore ma chi glielo scrive, cioè dura un giorno", intendendo le polemiche post partita su giornali e tv. "Se un rigore non viene dato alla Juventus, all'Inter, al Milan, al Napoli, pensi alla polemica che c'è per tutta la settimana... Pensa che un arbitro questo non lo sappia? Non abbiamo gli sciocchi in campo, abbiamo gente che sa muoversi... Ma sono tutte considerazioni ovvie mi sembra...". Dichiarazioni bomba se si pensa che vengono da un uomo che ha ricoperto un ruolo ai vertici del calcio italiano. Filippo Roma va allora a chiedere spiegazioni a Claudio Gavillucci, ex arbitro di calcio di serie A italiano, che oggi allena la serie semiprofessionistica inglese e che conferma la prassi sulle registrazioni dei match di serie A: "La registrazione audio-video del VAR parte dal momento in cui c’è il calcio d’inizio", spiega Gavillucci, smentendo quanto sostenuto dal designatore degli arbitri Rizzoli, che invece sosteneva che "l'audio-registrazione dell'intera partita è una cosa che non esiste, cioè non c'è proprio, non viene fatta". Filippo Roma chiede spiegazioni a Nicola Rizzoli, designatore degli arbitri di Serie A, che però nega le circostanze riferite da Pecoraro: "Non è scomparso nulla, non c’è nulla da nascondere. A Pecoraro è arrivato il video, è quello che è arrivato a tutti, nel senso le telecamere normali, le immagini normali, quella evidentemente non è una situazione da VAR". Alla fine Rizzoli annuncia che in nome della massima trasparenza prossimamente si potranno ascoltare tutti gli audio VAR adesso segreti. Continuiamo a chiederci come mai ci siano voluti sei mesi per far arrivare il materiale richiesto alla procura federale e perché gli sia arrivato solo il video e non l’audio dell’episodio incriminato. Pecoraro spiega che negli altri episodi che gli sono stati mandati, c'erano sia la traccia video che quella audio. E lancia la bomba: "Penso che Var e arbitro abbiano parlato. Che cosa si siano detti, questo non lo sappiamo. La risposta più semplice è che non me l’abbiano voluto dare, perché mi danno l’audio degli altri episodi e non mi danno questo, quando a me interessava soltanto quell’episodio lì…".

Inter-Juve, il mistero dell'audio del Var "sparito" sul caso Pjanic. Le Iene News il 06 ottobre 2020. Filippo Roma e Marco Occhipinti indagano sulla mancata espulsione dello juventino Pianjc durante Inter-Juve del 2018, un episodio molto discusso che probabilmente condizionò le sorti del campionato. Che fine hanno fatto le comunicazioni audio tra VAR ed arbitro Orsato di cui parla l'ex procuratore della FIGC Giuseppe Pecoraro? Abbiamo indagato su questa strana vicenda. Che fine ha fatto l’audio delle comunicazioni tra VAR e l'arbitro Orsato durante Inter-Juve dell’aprile 2018? Se lo sono chiesto Filippo Roma e Marco Occhipinti, che hanno indagato su uno dei più contestati episodi calcistici degli ultimi anni: il fallo da espulsione dello juventino Pjanic durante Inter-Juve dell’aprile 2018. Siamo a tre giornate dalla fine del campionato, con la Juve in testa e il Napoli a -1. A un certo momento Pjanic entra duro su Rafinha e rischia l'espulsione, essendo già stato ammonito nel corso di quell'incontro. Al fallo l'arbitro Orsato si avvicina, cartellino in mano, ma dopo qualche secondo di attesa decide di non ammonire Pjanic per il suo intervento scomposto. Osservando con attenzione le immagini notiamo che nei momenti immediatamente successivi al fallo, Orsato ha in mano un cartellino giallo, che però non mostra allo juventino Pjanic ma all’interista d’Ambrosio. Perché non ammonirlo immediatamente, quando l’aveva a mezzo metro, e aspettare invece tutti quei secondi di attesa per farlo? Quel cartellino era sin dall’inizio per d’Ambrosio o l’arbitro Orsato l’aveva tirato fuori per Pjanic? E durante quei 35 secondi tra il fallo e l’ammonizione, il Var ha comunicato qualcosa negli auricolari dell’arbitro Orsato? E' la stessa domanda che si fece all’epoca la Procura federale, un dubbio al quale si aggiungono in seguito le dichiarazioni bomba di Pecoraro, ex procuratore della FIGC, a Filippo Roma rispetto a un'eventuale comunicazione via radio del VAR all'arbitro Orsato: "quel file su Inter-Juve di Orsato è sparito". Pecoraro all'epoca chiese i file audio-video di quel match, i dialoghi tra il VAR e l’arbitro Orsato; li riceverà soltanto sei mesi dopo (e solo la parte video, non l'audio dei colloqui tra VAR e Orsato). "La Lega disse che non l'avevano, che non c'era l'audio", ci spiega Pecoraro. L'ex procuratore racconta ancora che quella sua richiesta creò forti tensioni con il mondo arbitrale e che nessuno gli diede mai una spiegazione chiara del perché mancasse solo l’audio relativo a quell’episodio. E poi parla di un possibile "condizionamento" degli arbitri. In che senso? "Se al Lecce non danno un rigore ma chi glielo scrive, cioè dura un giorno", riferendosi alle polemiche sui giornali. "Se un rigore non viene dato alla Juventus, all'Inter, al Milan, al Napoli, pensi la polemica che c'è per tutta la settimana... Pensa che un arbitro questo non lo sappia? Non abbiamo gli sciocchi in campo, abbiamo gente che sa muoversi... Ma sono tutte considerazioni ovvie mi sembra...". Filippo Roma allora va a chiedere spiegazioni a Claudio Gavillucci, ex arbitro di calcio di serie A italiano che oggi allena la serie semiprofessionistica inglese e che conferma la prassi sulle registrazioni dei match di serie A: "La registrazione audio-video del VAR parte dal momento in cui c’è il calcio d’inizio". Gavillucci smentisce così quanto sostenuto dal designatore degli arbitri Rizzoli, che invece ha detto che "l'audio-registrazione dell'intera partita è una cosa che non esiste, non viene fatta". Secondo Nicola Rizzoli, designatore degli arbitri di Serie A, non ci sarebbe nessun mistero: "Non è scomparso nulla, non c’è nulla da nascondere. A Pecoraro è arrivato il video, è quello che è arrivato a tutti, nel senso le telecamere normali, le immagini normali, quella evidentemente non è una situazione da VAR". Alla fine Rizzoli annuncia che in nome della massima trasparenza prossimamente si potranno ascoltare tutti gli audio VAR che ora invece sono segreti. Pecoraro però, raggiunto nuovamente al telefono, spiega che negli altri episodi che gli sono stati mandati, c'erano sia la traccia video che quella audio: "Ritengo che abbiano parlato, però lo ritengo io. Che cosa si siano detti, questo non lo sappiamo. La risposta più semplice è che non me l’abbiano voluto dare, perché mi danno l’audio degli altri episodi e non mi danno questo, quando a me interessava soltanto quell’episodio lì…". Proviamo ad avvicinare lo stesso arbitro Orsato e Paolo Valeri, che era di turno al Var durante Inter-Juve, ma nessuno dei due risponde alle domande di Filippo Roma.

Da ansa.it l'11 febbraio 2020. Daspo per un anno per un arbitro che, al termine di una partita del campionato di seconda categoria, ha colpito con un testata al volto uno dei giocatori. Lo ha disposto il questore di Macerata Antonio Pignataro. E' successo il primo febbraio a Mogliano (Macerata) dopo l'incontro Borgo Mogliano-Montottone, terminato 3 a 1. All'uscita dagli spogliatoi l'arbitro ha colpito con una testata il portiere del Borgo Mogliano, espulso durante il match. Si tratta del primo Daspo in Italia nei confronti di un arbitro. Il calciatore è stato soccorso dai sanitari del 118 presenti sul posto e trasportato all'ospedale di Macerata, dove è stata stilata una prognosi di alcuni giorni. A seguito delle indagini svolte dai carabinieri, incaricati del servizio di ordine pubblico e della conseguente informativa alla Procura di Macerata, il questore Pignataro ha emesso il provvedimento nei confronti dell'arbitro, un 31enne di origini napoletane. 

Pavel Nedved, il figlio insulta Sandro Piccinini: "Anche i giornalai fanno i giornalisti". Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. Pavel Nedved jr, figlio dell’ex calciatore e attuale dirigente della Juventus, si è inserito nel dibattito che si era scatenato dopo le parole dello stesso Pavel Nedved dopo Juventus-Fiorentina e le polemiche arbitrali partite dalle dichiarazioni di Rocco Commisso, presidente della Fiorentina. Le parole del dirigente juventino non erano infatti piaciute a Sandro Piccinini, il quale aveva detto che la Juve non dovrebbe mandare a parlare Nedved, poiché, a suo dire, quando il vicepresidente bianconero era in campo era solito lamentarsi con gli arbitri e aveva un atteggiamento intimidatorio. Frasi non gradite dal figlio di Nedved, che ha subito risposto via Instagram Stories: "Se anche i giornalai fanno i giornalisti" e una foto che era tutta un programma (un uomo che si picchia la fronte).

Da ansa.it il 3 febbraio 2020. Torna la 'guerra' tra Juventus e Fiorentina. Il secondo rigore nel 3-0 dei bianconeri all'Allianz Stadium fa perdere le staffe al presidente viola Rocco Commisso. "Sono disgustato dagli aiuti che concedono gli arbitri alla Juventus"; Nedved risponde a tono "perché si sta usando un po' troppo la scusa degli arbitri quando la Juve vince sul campo. Siamo stufi". Botta e risposta a Torino, con tanto di invito reciproco a "prendersi un the", con una coda in serata quando Commisso ai microfoni di 90° minuto rincara la dose: "Nedved chiuda la bocca e non parli con me. Io non parlo con Nedved, parlo semmai con il suo presidente". Ma questa volta la Juventus non vuole replicare. Clima incandescente, quindi, dopo il 3-0 con cui la Juventus ha superato la Fiorentina, con i viola contro l'arbitro Pasqua e i bianconeri pronti a difendere la vittoria: "Sono da 6 mesi in Italia e non ho mai parlato, questa volta lo devo fare: una squadra come la Juve, che vale 350 milioni, non ha bisogno degli aiuti degli arbitri - l'invettiva del presidente della Fiorentina -, è fortissima, lasciate che la partita la vinca sul campo. Non è giusto per il calcio italiano, queste gare vanno in tutto il mondo, quando vedono queste porcherie cosa pensano? Sono disgustato, le gare in Italia sono decise dagli arbitri, non si può andare avanti così. Con l'Inter non ci hanno dato un rigore, con il Genoa lo stesso, e oggi due contro". Parole pesanti che hanno scatenato la reazione del vice-presidente bianconero Pavel Nedved: "Capisco che Commisso sia su di giri, ma non si fanno certe dichiarazioni, fanno male al calcio e allontanano la gente dagli stadi. La Juve ottiene risultati giocando bene, facendo tutto sul campo per vincere. Dobbiamo smetterla quando si gioca contro la Juve di farsi degli alibi, di usare la scusa degli arbitri".

Da fcinter1908.it il 3 febbraio 2020. Sandro Piccinini, giornalista sportivo, ha commentato con parole molto dure le dichiarazioni di Pavel Nedved dopo Juventus-Fiorentina, in risposta allo sfogo di Commisso. Il suo pensiero ha scatenato critiche e messaggi di sostegno e solidarietà (come quello di Pistocchi). Attaccato da alcuni tifosi bianconeri, ha rincarato la dose nei confronti del dirigente bianconero e ribadito il suo pensiero con determinazione: “Vergognarmi? Si vergogni lui. Proprio perché è il vice presidente di una società come la Juve dovrebbe evitare di inseguire gli arbitri negli spogliatoi per insultarli, come dimostrano le multe che ha preso. Tutti possono stigmatizzare le parole di Commisso, tutti tranne lui”.

Edoardo Lusena per “la Gazzetta dello Sport” il 3 febbraio 2020. Non ci sono solo i due rigori concessi alla Juve negli oltre 90 minuti allo Stadium. Si parte al 10' quando Pjanic va a terra in area: Pasqua giustamente non punisce Cutrone ma le immagini mostrano anche che, oltre a non esserci fallo del viola, il crollo più che plateale dello juventino non è causato da alcun contatto. Al 32' contatto dubbio a palla lontana tra Igor e CR7 in area viola, ma per Pasqua è regolare anche dopo confronto col Var. Al 37' il primo rigore: destro di Pjanic di fronte all' area su Pezzella. Pasqua sembra vedere solo il braccio destro, chiuso sul corpo, del capitano viola. Ma il Var Calvarese lo manda al monitor e le immagini mostrano che il braccio sinistro di Pezzella, colpito sul polso, è aperto in posizione innaturale. Pasqua a questo punto indica il dischetto per un rigore corretto. Al 79' è ancora penalty per l' arbitro di Tivoli dopo il contatto tra Ceccherini e Bentancur che va giù in area dopo un contrasto col braccio iniziato a filo d' area. Interviene ancora il Var Calvarese che lo manda al monitor forse per dubbi sull' entità del presunto fallo. Pasqua però non ha ripensamenti e conferma un rigore che però lascia più di un dubbio. Ceccherini protesta, e viene anche ammonito.

Da gazzetta.it il 3 febbraio 2020. È un Rocco Commisso particolarmente arrabbiato, quello che si presenta ai microfoni di Dazn nel dopo gara di Juve-Fiorentina: l’attacco all’arbitro Pasqua, soprattutto in occasione del secondo rigore, è diretto. “Sono disgustato. Io credo che una squadra che ha 350 milioni di ingaggi non ha bisogno degli arbitri, la Juve è fortissima, lasciate che la partita la vinca sul campo, non per i regali che concedono gli arbitri. Non è giusto per il calcio italiano, queste gare vanno in tutto il mondo, quando vedono queste porcherie cosa pensano? Sono disgustato. Le gare in Italia sono decise dagli arbitri, non si può andare avanti così. Con il Genoa non ci hanno dato rigore, con l’Inter non ci hanno dato rigore, oggi ci hanno dato due rigori contro, forse il primo ci stava ma il secondo sicuramente no. Quando i rigori ci sono non vanno al Var qui il rigore non c’era e sono andati al Var e la decisione è stata quella che è stata”. Pronta la replica del vice presidente della Juventus Pavel Nedved: “Siamo stufi, basta farsi alibi quando si gioca contro la Juve. Vinciamo con merito, sul campo. Smettiamola di parlare d’altro. E bisogna fare attenzione a dire parole come quelle di Commisso, così corriamo il rischio di allontanare solo la gente dagli stadi. Prima di usare frasi così forti sarebbe meglio se prendesse un tè”. E Commisso contro replica: “Ha detto sta cosa del tè? Ma perché non lo prende lui?”.

Da Il Fatto Quotidiano il 4 febbraio 2020. Gentile redazione, ho seguito molto perplessa le polemiche tra Commisso, presidente della Fiorentina, e Nedved, vicepresidente della Juventus: la pietra dello scandalo, al solito, è l' imparzialità o meno degli arbitri. A parte il livello becero del dibattito, a me sembra che attribuire sempre e solo le colpe al direttore di gara sia superficiale, se non ingeneroso e autoassolutorio. Che dite voi? Elisa Dandolo

LA RISPOSTA DI PAOLO ZILIANI. Da Il Fatto Quotidiano il 4 febbraio 2020. Gentile Elisa, il nostro pensiero, invece, è che abbia fatto bene Pavel Nedved, vicepresidente della Juventus, a ribattere alle accuse di Commisso che aveva parlato di "arbitri che fanno vincere la Juventus", di "porcheria" e di "schifo". Ed è stata una fortuna che Nedved, nell' occasione, non fosse sotto squalifica per insulti agli arbitri come svariate volte gli è capitato da quando è dirigente della Juventus: ad esempio quando fu inibito per un mese per essersi scagliato contro l' arbitro Valeri al termine di Juventus-Sampdoria 1-2 (6 gennaio 2013, due gol di Icardi, la Samp che vince a Torino con un uomo in meno). Per meglio capirci: se dopo la recente sconfitta della Juventus in Supercoppa contro la Lazio (a Ryad, 22 dicembre 2019, 1-3), per la piazzata fatta negli spogliatoi a fine partita per l' arbitraggio di Calvarese, Nedved fosse stato squalificato per 40 giorni, invece che multato di 5 mila euro (al pari di Paratici), domenica non avrebbe potuto presentarsi negli spogliatoi per dire a Commisso che gli arbitri vanno rispettati: e sarebbe stato un peccato, perché le prediche fatte dal suo pulpito sono vangelo. Nedved ha la massima devozione per gli arbitri, a patto che la Juve vinca. Certo, anche lui è umano: e può succedere che anche dopo una vittoria, come in Atalanta-Juventus 0-3, vada lo stesso a insultare l' arbitro Orsato, ricevendo i soliti 5 mila euro di multa, rimproverandogli di aver fischiato un rigore contro la Juve, per fallo di Chiellini, rigore poi parato da Buffon. Insomma: Nedved che dice che prendersela con gli arbitri quando si perde è un alibi, è stata una bella pagina del nostro calcio. E dimenticavamo: non solo i dirigenti dovrebbero prendere esempio da lui, ma anche i calciatori. Sapete cosa fece Nedved quando il compianto arbitro Farina, l' 1 dicembre 2006, gli mostrò il cartellino rosso in Genoa-Juventus 1-1 per aver calpestato un avversario (sua specialità della casa)? Lo insultò e gli calpestò un piede. Fosse stato un giocatore del Pizzighettone o dell' Akragas gli avrebbero dato 2 anni. Giocava nella Juve, gli diedero 5 giornate.

DA it.blastingnews.com il 4 febbraio 2020. Al di là del merito dei casi di oggi, un consiglio gratis alla Juventus: per fare la morale agli altri sul comportamento da tenere a fine gara non mandi Nedved, spesso protagonista di sceneggiate irrispettose e intimidatorie verso gli arbitri #JuveFiorentina. Il tweet dell'ex telecronista Mediaset Sandro Piccinini ha scatenato la rabbia del figlio di Nedved, Pavel Jr. Ovviamente c'era chi era schierato a favore di Pavel Nedved e chi invece sosteneva la tesi del presidente della Fiorentina Commisso. Ma quello che ha lasciato di stucco i tifosi bianconeri è stato il tweet di Sandro Piccinini. L'ex telecronista ha voluto dare un consiglio alla Juventus, sottolineando che il club non dovrebbe mandare a parlare Pavel Nedved, poiché, a suo dire, quando il vicepresidente bianconero era in campo era solito lamentarsi con gli arbitri e aveva un atteggiamento intimidatorio. Queste parole di Piccinini hanno scatenato l'ira dei tifosi della Juventus e alla rabbia del popolo della Vecchia Signora si è aggiunta anche la reazione di Pavel Nedved jr, figlio del dirigente juventino. Il secondogenito del vicepresidente bianconero, tramite una storia su Instagram, è stato piuttosto duro e ha scritto: "Quando anche i giornalai fanno i giornalisti", queste le parole del ragazzo pubblicate sul noto social network.

Nedved difende la Juve. Pavel Nedved, ieri, ha parlato a diversi media per difendere la Juventus dagli attacchi del presidente della Fiorentina Commisso. Il vicepresidente bianconero ha rilasciato anche alcune dichiarazioni a Jtv: "Le parole di Commisso mi sono sembrate fuori luogo" ha detto Nedved, che poi ha aggiunto che quella di ieri è stata una bella partita ben giocata da entrambe le formazione e che i bianconeri hanno vinto meritatamente per 3-0. Inoltre, il vicepresidente della Juventus ha sottolineato che ultimamente le altre squadre fanno fatica a digerire le sconfitte contro i ragazzi di Maurizio Sarri e non accettano nemmeno le decisioni del Var. Dunque per Nedved questi atteggiamenti non dovrebbero esserci perché non fanno bene al calcio.

Nedved invoca la calma. Pavel Nedved nel corso del suo intervento a Juventus TV ha anche spiegato che certe polemiche contribuiscono ad allontanare le persone dagli stadi e dunque certe dichiarazioni andrebbero evitate. Infine, il vicepresidente della Vecchia Signora ha spiegato che il club bianconero lavora per proporre il suo calcio sia in Italia che in Europa e perciò non capisce il senso di queste polemiche.

Da corrieredellosport.it il 4 febbraio 2020. In diretta a Radio Punto Nuovo, è intervenuto Robert Boggi, ex arbitro: “A Nicchi nessuno dice mai niente con tutti i guai che fa. Non dimentichiamo mai che è stato il sorteggiatore delle palline con Bergamo e Pairetto. La colpa non è sua, è stato un grandissimo, ha fatto passare un sistema dittatoriale, senza che nessuno gli dicesse niente: è un fenomeno, tutti quelli che si mettono contro di lui devono andarsene. Io persi le elezioni, la gente aveva paura anche di mettere firme e appoggiarmi. Qualora ci sarà un altro candidato sarà perché si vuole cambiare sistema, altrimenti nessuno si candiderà più".

"Mi dimisi a novembre del 2013, dopo pochi mesi mi arrivò una comunicazione per un processo perché avevo parlato male di Nicchi. Loro sono scientifici, devono colpire tutti gli avversari. Sono preoccupato per i giovani arbitri che sono vittime di un sistema. Se non fosse stato per me, molti degli arbitri di oggi non avrebbero fatto neanche una partita in Serie B. Quella che è stata una volta Calciopoli, lo sarà ancora e non ci sarà più modo di tornare indietro".

"VAR? Fino a pochi anni fa era quello che si sarebbe opposto fino alla fine per non far entrare il VAR nel calcio. Il problema non è l'utilità, ma la definizione delle norme. Nel campionato inglese viene utilizzato massimo 2-3 volte, qui per ogni cosa. Non vorrei che tutta questa storia è per togliere responsabilità all'arbitro, altrimenti a cosa servono tutti gli assistenti e guardalinee? Il gol annullato di ieri di Gaston Ramirez, ai miei tempi sarebbe stato regolare. So che in Serie A sono tutti alla ricerca di difensori senza braccia. Stanno ammazzando il calcio, hanno rovinato la bellezza di questo sport e nessuno parla".

"Sudditanza psicologica? Non esiste la sudditanza, la libertà va conquistata. Esistono arbitri che hanno la forza di conquistare la libertà? Solo due o tre. Un'altra grandissima stronzata è stata quella di dividere gli arbitri di Serie A e Serie B, gestire un campionato con 20 persone o 40 persone, è diverso. Ai miei tempi cacciavo sempre fuori Montero della Juventus, gli dissi "Non ce l'ho con te" e lui mi rispose "Stai facendo il tuo dovere, è colpa mia se ho preso il pallone con la mano".

Da ansa.it il 7 febbraio 2020. L'Aia, l'Associazione italiana arbitri, passa al contrattacco dopo le parole dell'ex fischietto Robert Anthony Boggi che aveva parlato di rischio di una nuova Calciopoli e annuncia le vie legali. Controreplica di Boggi "Non ho niente da temere". "In relazione alle recenti dichiarazioni dell'ex associato Robert Anthony Boggi - si legge in una nota - l'Aia comunica di aver ha dato avvio alle iniziative previste dalla legge a tutela della reputazione dell'Associazione, degli Arbitri e del suo Presidente. Le dichiarazioni sono contrarie a verità e, per di più, hanno un contenuto gravemente lesivo della reputazione e della dignità degli organi direttivi democrativamente eletti e degli Arbitri federali in attività. Di qui, la decisione di ricorrere all'Autorità Giudiziaria, in tutte le sedi, nella certezza che essa giungerà ad accertare l'illegittimità delle dichiarazioni rese e, ancora una volta, darà giusta tutela al buon nome dell'Associazione e degli Arbitri di calcio italiani". "Il comunicato Aia? Non hanno niente da fare e che pensare - la replica di Boggi a Radio Punto Nuovo - Ho detto tutte cose vere, provate. Andiamo in tribunale, la differenza che passa tra me e loro, io sono malato e non so neanche quanto tempo mi resta, loro di me cos'hanno paura? Ho espresso solo un mio giudizio, io non ho offeso nessuno". (ANSA).

Cuadrado e il suo sosia Quadrado: quando la realtà supera la fantasia. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Si dice che tutti nel mondo abbiano sette sosia. Verità o leggenda, non è dato sapere, ma sicuramente Cuadrado ne ha uno e sono tre le cose davvero stupefacenti di questa storia al limite dell’immaginazione. In primis, il soprannome. Si chiama Quadrado (Anderson Matheus Rodrigues de Castro il suo vero nome) proprio per la somiglianza con il colombiano. In secondo luogo, il mestiere: anche il sosia del bianconero fa il calciatore. Gioca in Brasile, al Sao Caetano, che in rosa - giusto per non farsi mancare niente - ha anche Douglas e Ronaldo (ma non esistono affinità somatiche con i due giocatori di Maurizio Sarri). In terzo luogo, ha 17 anni e ha debuttato tra i grandi con un gol nell’1-3 che la sua squadra ha rifilato al Club Atletico...Juventus nel match di serie B del Paulistao. Sì, proprio così: una Juventus nel destino. Se poi vogliamo essere più precisi, basta guardare la sua foto per accorgersi stesso taglio dei capelli, volto, movimenti in campo (qui c’è da gustarsi il video degli highlights della partita pubblicato sull’account Instagram). Sembra tutto uno scherzo, ma in realtà non è così. Pura realtà. Un motivo in più per seguire il Sao Caetano (da poco retrocesso nella serie D del torneo nazionale), club che era stato ad alti livelli del calcio brasiliano e continentale a inizio anni 2000. Indimenticabile la finale di Coppa Libertadores conquistata nel 2002. Poi la squadra aveva vissuto un vero e proprio dramma: la morte in campo per arresto cardiaco di un suo giocatore nel 2004 (Paulo Sergio de Oliveira Silva, detto Serginho). Da lì il declino e la crisi attuale. Ora si spera in una risalita, magari proprio con gli omonimi juventini Ronaldo, Douglas e Quadrado.

Juventus, Cristiano Ronaldo non gioca (come promesso)?: due tifosi coreani fanno causa e la vincono. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 da Corriere.it. Compri i biglietti per vedere Cristiano Ronaldo e poi Ronaldo non gioca? Hai due soluzioni. La prima: infuriarti. La seconda (che non esclude la prima): fare causa a chi te li avevi venduti, e magari vincerla. È quello che hanno fatto due tifosi coreani che avevano acquistato i biglietti per godersi da vicino CR7 nell’amichevole del 26 luglio 2019 a Seul tra Juve e K League (3-3). Peccato che quel giorno Ronaldo non sia mai entrato in campo, vittima di un affaticamento muscolare. La causa per pubblicità ingannevole è scattata immediata e ieri un giudice ha dato ragione ai tifosi traditi, ordinando a un’agenzia locale, la The Fasta, che ha venduto loro i biglietti, di risarcirli. E non si tratta di una cifra da niente, ma di 282 euro a testa. I due tifosi risarciti rischiano di non essere i soli. Quel giorno allo stadio c’erano altre 65mila persone, e molte altre hanno fatto causa. Il palazzo di giustizia di Seul si deve ancora esprimere, ma è legittimo pensare che, stabilito il precedente, partiranno presto altri risarcimenti. Contro l’agenzia The Fasta è stata presentata anche una denuncia penale: il promoter è accusato di aver frodato circa 6 miliardi di won (4,4 milioni di euro). Secondo l’accusa, durante la vendita dei ticket, sostenuto di avere una clausola con la Juve che garantiva la presenza in campo di Ronaldo per almeno 45 minuti. Ecco perché i biglietti (da 23 a 300 euro) erano stati venduti in un amen. Infuriarsi era il minimo. Fare causa anche.

Ronaldo e Dybala, il bacio fortuito diventa virale. Curioso fermo immagine in cui si vede CR7 correre verso i tifosi assieme a Paulo Dybala baciandolo sulla bocca. La foto sta facendo il giro del web. Alessandro Ferro, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. Galeotto fu... il gol. Sta diventando virale il bacio che, durante l'esultanza per la rete della vittoria contro il Parma, immortala Cristiano Ronaldo baciare sulle labbra il suo partner d'attacco ed uomo assist sul gol del 2-1, Paulo Dybala. Un fermo immagine mostra i due che, abbracciati, corrono esultanti verso i proprio tifosi con l'istantanea che mostra come CR7 baci, fortuitamente e nell'impeto del momento, il fuoriclasse argentino. Gli occhi attenti dei social non si sono fatti sfuggire l'occasione e si sono scatenati per questa istantanea che ormai è diventata virale. Se si guarda il video girato per intero, però, si nota chiaramente come Ronaldo baci in maniera del tutto fortuita il suo compagno di squadra nel momento in cui i due si girano per abbracciarsi. Ai tifosi bianconeri però, il bacio importa relativamente: con i tre punti contro il Parma la Juve si è portata a +4 sull'Inter. Lo stesso CR7 ha postato, sul proprio profilo Instagram, una foto con le mani verso il cielo in segno di esultanza seguita dalla scritta "Happy to score again today, 3 important points" con gli ormai consueti hastag del popolo bianconero #finoallafine e #forzajuve. Non è stata la prima volta, però, che tra Ronaldo e Dybala scorre un certo affetto. CR7 si era già reso protagonista di un simpatico siparietto davanti alle telecamere nei confronti del proprio partner d'attacco al termine di una gara in cui l'argentino aveva messo a segno una rete. Durante le consuete interviste post-gara, Ronaldo si è avvicinato baciando Dybala sulla guancia. Oltre a Ronaldo, dopo la vittoria sul Parma, si sono scatenati sui social anche altri calciatori bianconeri. "Prendiamo questi 3 punti importanti e continuiamo il cammino. Una squadra come la nostra però deve voler di più, deve migliorare. Da Squadra. Per i grandi obiettivi", sottolinea su Twitter il difensore centrale Leonardo Bonucci. "Dovevamo vincere e l'abbiamo fatto. Testa alla prossima!!", è il tweet del centrocampista bosniaco Miralem Pjanic. "Vincere, vincere, vincere", il motto dell'attaccante argentino Paulo Dybala. "Un pò più di tre punti", il commento, sempre su Instagram, del tuttofare francese Blaise Matuidi. "La seconda parte di una maratona è quella in cui bisogna aumentare la velocità", ammonisce l'esterno offensivo brasiliano Douglas Costa. "L'unica cosa che conta era vincere", ricorda il jolly colombiano Juan Cuadrado. Laconico il difensore brasiliano Alex Sandro: "+3".

Stefano Semeraro per ''la Stampa'' il 7 giugno 2020. Nelle favole i cavalieri che inseguono la virtù, di solito, trovano il tesoro. Nello sport gli atleti che cercano la perfezione, quasi sempre, riempiono il conto in banca. Il terzo principe sportivo più ricco della storia, ci narra Forbes, è Cristiano Ronaldo, il fuoriclasse della Juventus che negli ultimi 365 giorni, stando alla list di settore della rivista americana, ha guadagnato 105 milioni di dollari. Un milione e seicento mila in meno di Roger Federer - bazzecole... - ma quanto basta a fargli superare la soglia del miliardo di dollari incassato in carriera. In euro fanno circa 885 milioni, cifra meno tonda ma, ne converrete, egualmente invidiabile. È il frutto di una vita spesa a migliorarsi con ostinazione quotidiana, quasi mistica: gli allenamenti ossessivi, la palestra in casa con tanto di sala di crioterapia, la dieta curatissima. Ma anche di un Dna da unto del signore (del pallone), perché in campo Cristiano vede meglio e decide prima cosa fare: ad esempio tentare una rovesciata. Il combinato disposto di cromosomi ed etica del lavoro ne fanno un incrocio fra Terminator e Predator, con il portafoglio di Rockfeller e il 7 per cento di massa grassa. Un portoghese fra i Paperoni dello sport, ma solo per passaporto.

Talento smisurato. Se sul talento si può investire, insomma, è la professionalità che alla lunga paga, specie se grazie ad una cura fisica maniacale si tengono lontani gli infortuni, e la carriera scavalca i decenni. A dimostrarlo è anche il fatto che CR7 è stato l' unico a spuntare un contratto a vita con la Nike - 20 milioni all' anno a partire dal 2016 - insieme con Michael Jordan e LeBron James. Segno che a Portland sono convinti che l' investimento frutterà anche quando il fenomeno avrà appeso gli scarpini ad un gancio dorato (a forma di swoosh, probabilmente). L' ex ragazzino povero di Funchal, figlio di un padre alcolizzato, cresciuto a fede e pallone da mamma Maria Dolores, starà gongolando (insieme al suo commercialista) anche per aver battuto sulla data di ingresso nel club dei Billionaire l' avversario di sempre, Leo Messi. Ronaldo - secondo nome che gli deriva dall' ammirazione paterna per uno dei fari del neoliberismo, il defunto presidente degli Usa Ronald Reagan - è infatti il terzo a staccare la tessera da socio ancora in attività, ma il primo in uno sport di squadra, dopo Tiger Woods (golf), che ha superato il fatidico miliardo nel 2009, e Floyd Mayweather (boxe), che ha tagliato il traguardo nel 2017. Messi gli sta ancora davanti per Palloni d' oro vinti - 6 contro 5 - ma dietro nei trionfi in Champions League - 4 contro 5. In attesa di ulteriori puntate da Guinness, nel caveau per il momento è Cristiano a festeggiare.

Come ha messo insieme il gruzzoletto, il fenomeno? Sempre secondo Forbes, 650 milioni se li è sudati in ingaggi, nei suoi 17 anni da professionista passati fra Sporting Lisbona, Manchester United, Real Madrid e Juventus; il resto in contratti pubblicitari. La Vecchia Signora ha contribuito in maniera generosa: 31 milioni (di euro) netti di stipendio a stagione, che fanno di lui il calciatore più pagato nella storia del calcio italiano. A fine carriera, in base al suo attuale contratto che scade nel 2022, il monte salario arriverà a 765 milioni di dollari.

L' unico atleta di uno sport di squadra a vederlo nei rettilinei è Alex Rodriguez, formidabile terza base dei New York Yankees, che si è ritirato nel 2016, dopo 22 anni di onorati fuoricampo, con 450 milioni di dollari di paga. David Beckham, puntualizza Forbes, è andato in pensione con quasi mezzo miliardo di dollari, ma la metà spillata agli sponsor: il look leccatissimo, curato dalla moglie Victoria, ovviamente, ha fatto la sua parte.

Nessuno come lui sui social. Il discorso vale peraltro anche per CR7, il campione che sfoggia addominali tartarugati con pochi rivali al mondo, tagli di capelli sempre imitatissimi, un volto da attore, e che ha saputo costruirsi negli ultimi anni un' immagine di affettuoso family man - osservarlo, prego, travestito da Aladdin per il compleanno dei figli - dopo aver fatto bramire d' invidia milioni (miliardi?) di maschi per la sua love story con Irina Shayk. Nessuno, fra l' altro, è più seguito di lui sui social: 427 milioni di followers fra Facebook, Twitter e Instagram. «Cristiano Ronaldo è uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, nello sport più popolare del mondo, in un' era in cui il calcio è più ricco che mai», spiega Nick Harris, esperto di Sporting Intelligence, il sito che cura la periodica indagine sui salari di tutti i team sportivi del mondo. «È il botteghino fatto persona». Un fuoriclasse da incasso, accompagnato dalla fama di implacabile motivatore - di se stesso e dei compagni - che ricorda la ferocia di Air Jordan ai tempi dei Bulls, ma dotato anche un lato umano più vulnerabile. Ne ha parlato Luka Modric, suo ex compagno di squadra ai tempi del Real, che nella sua autobiografia ha raccontato di come Mourinho negli spogliatoi fosse capace di estrargli lacrime di umiliazione, se CR7 faceva tanto di perdersi l' uomo sulla fascia. «Faccio del mio meglio e lui continua a criticarmi», digrignò una volta Ronaldo, schiantato da un integralismo persino più estremo del suo. Probabilmente, senza il taglio salariale dovuto al coronavirus, Ronaldo (con Messi) avrebbe sorpassato anche Federer nei guadagni degli ultimi 12 mesi. Il Covid-19 non ha provocato infatti tagli lineari. Per il baseball per il pugilato sono state lacrime e sangue, il football americano deve ancora passare alla cassa, il tennis e la F1 soffrono ma soprattutto ai piani bassi. Federer infatti 100 dei suoi 106,6 milioni li ha guadagnati attraverso gli sponsor (Nike, Credit Suisse, Barilla, Rolex e altri), mentre la quota "endorsement" di Ronaldo si ferma a 45. Entrambi però impallidirebbero - in una classifica davvero "all time" - davanti a Gaius Appuleios Diocles. Un' auriga vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, predecessore di Lester Piggot (o Lewis Hamilton) che, nato - guarda caso - in Lusitania, l' attuale Portogallo, dopo 25 anni di carriera al Circo Massimo, a 42 anni (aveva iniziato a 17) si vantava di aver guadagnato 35.863.120 sesterzi. Pari, secondo lo studioso Peter Struck dell' università della Pennsylvania, a 15 miliardi di dollari di oggi. Ma allora Forbes, e il calcio, ancora non esistevano.

Da calciomercato.com il 6 ottobre 2020. Nel pieno dell'ultima giornata di calciomercato, con la Juventus intenta a definire l'operazione Federico Chiesa, dalla Spagna arriva una notizia che poco ha a che fare con il pallone: possono arrivare nuove accuse di stupro per Cristiano Ronaldo, può riaprirsi il caso Kathryn Mayorga. CR7 era stato dichiarato innocente in seguito alle accuse avanzate dalla modella statunitense ma, riferisce Deportes Cuatro, un nuovo esame può rimescolare le carte. Come si legge infatti, tutto ruota attorno ai 300mila euro che Ronaldo pagò a Mayorga per mantenere la segretezza dell'accaduto, che risale a una notte a Las Vegas nel giugno 2009. La modella e i suoi legali intendono dimostrare che, nel momento in cui ha firmato questo accordo, Kahtryn non stava bene mentalmente. Pertanto, si sottoporrà a un esame di capacità mentale con il quale intende dimostrare di non conoscere tutti i termini di contratto o le conseguenze derivanti dall'accettare quei 300mila euro nel 2010. Mayorga dovrà comparire in un tribunale di Las Vegas con l'esito del test e, qualora il giudice accolga il rapporto, Ronaldo dovrà affrontare una nuova udienza pubblica. CR7 si concentra sul campo e lascia al lavoro la sua squadra di avvocati che, riferisce Deportes Cuatro citando fonti vicine ai legali, sottolineano di aver già provato con tutti i mezzi possibili la capacità mentale di Kathryn Mayorga al momento dell'accettazione dell'accordo.

Cristiano Ronaldo, festa e regalo a sorpresa per i suoi 35 anni. Festa di compleanno per il fuoriclasse portoghese. A fine serata il regalo a sorpresa di Georgina, una fiammante fuoriserie da aggiungere alla sua collezione. Antonio Prisco, Giovedì 06/02/2020 su Il Giornale. Festa a sorpresa per Cristiano Ronaldo, con un regalo speciale. Il fuoriclasse portoghese ha festeggiato i suoi 35 anni con amici e familiari, ed ha ricevuto un'auto nuova fiammante, impacchettata davanti al ristorante e pronta ad ampliare la sua invidiatissima collezione. L'attaccante della Juventus ha raggiunto un ristorante sul lungo Po di Torino poco dopo le 20 insieme a Georgina Rodriguez e il figlio Cristiano Junior, ad attenderli amici e parenti che hanno improvvisato il consueto ''Tanti auguri'' (rigorosamente in portoghese) fuori dal locale, tra baci, abbracci e pacche sulle spalle. Tra gli invitati anche il terzo portiere bianconero Carlo Pinsoglio. Poi cena giapponese e rientro a casa, tutto in perfetto orario visto che ad attenderlo c’è una nuova giornata di allenamenti alla Continassa. ll momento è stato immortalato da Georgina su Instagram."Per altri 1000 anni al tuo fianco. Ti amiamo", la dedica della bella argentina al suo amato Cristiano per il 35esimo compleanno. Il portoghese, dopo aver ricevuto dalla compagna un mazzo di rose di ritorno dall'allenamento, nel dopo cena trovato una bellissima sorpresa fuori dal ristorante, una nuova auto da aggiungere alla sua collezione: per la precisione una fiammante Mercedes Brabus Classe G di colore nero da 600mila euro infiocchettata per bene. Dunque una serata perfetta per il sette bianconero, che sabato sera contro il Verona Cristiano punterà all'ennesimo record: la decima partita consecutiva in rete, dopo aver eguagliato David Trezeguet a 9 gol. Grande attesa invece questa sera al Festival di Sanremo per Georgina Rodriguez, che insieme ad Alketa Vejsiu affiancherà Amadeus nella conduzione della terza serata della kermesse musicale. Dal Festival fanno pretattica ma il portoghese dovrebbe essere presente nelle prime file del pubblico per non perdersi nemmeno un attimo del debutto all'Ariston della sua Georgina. E secondo i rumors per l'occasione avrebbe fatto già le cose in grande, prenotando un intero ristorante di Sanremo per festeggiare la serata.

Juve, i 35 anni di Cristiano Ronaldo Georgina organizza la festa a sorpresa, il regalo è un fuoristrada. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Filippo Bonsignore. TORINO 35 anni con sorpresa per Cristiano Ronaldo. Il fenomeno della Juventus ha festeggiato il compleanno, mercoledì sera, con una cena in un ristorante del centro di Torino organizzata dalla compagna Georgina. La modella spagnola ha fatto decisamente le cose in grande, convocando in gran segreto gli amici più fidati del compagno. Il fuoristrada regalato a Cristiano Ronaldo dagli amici per i 35 anniAll’arrivo di CR7, il gruppo è comparso all’improvviso dall’altro lato della strada, intonando il classico «tanti auguri a te» e lanciando in aria coriandoli. Ronaldo, visibilmente sorpreso, ha prima baciato Georgina e poi abbracciato tutti gli ospiti. I colpi di scena però non erano finiti: ad attendere Cristiano fuori dal locale c’era anche il regalo. Un enorme e fiammante fuoristrada nero, «impacchettato» con un enorme fiocco rosso. A casa, invece, Georgina e i figli gli avevano fatto trovare un mazzo di rose bianche con un messaggio: «Per mille anni ancora al tuo fianco. Ti amiamo papà». Oggi l’attenzione si sposta tutta sulla fidanzata del campione, che giovedì sarà ospite al Festival di Sanremo accanto al conduttore Amadeus. Per Georgina il palco del Teatro Ariston sarà il vero battesimo italiano, dopo le tante presenze allo Stadium ad assistere alle partite della Juve e dopo diverse campagne pubblicitarie. L’attesa è grande anche perché pure Ronaldo potrebbe fare un blitz in Riviera per sostenere da vicino la fidanzata. I rumors si susseguono, la certezza si avrà soltanto tra poche ore.

Cristiano Ronaldo re di Instagram: con 200 milioni di follower è la persona più seguita del pianeta. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessio Lana. Con lui il termine influencer cambia significato: Cristiano Ronaldo è diventato la persona più seguita su Instagram con ben 200 milioni di follower. Non solo. InstaCRam, come lo chiamano giocando tra il suo marchio di fabbrica, CR7, e il nome del social, è anche l'uomo con più seguaci in assoluto. Se da una parte quindi è dotato di una potenza comunicati a mai vista prima, dall'altra l'attaccante portoghese della Juve è riuscito a trasformarsi in una fabbrica di soldi social. La sua presenza online gli ha fatto guadagnare finora 47,8 milioni di dollari. La notizia dello sfondamento del muro dei 200 milioni arriva all'indomani di una defiance che si pensava avrebbe pesato sulla presenza in rete del calciatore. Tre giorni fa, nell'annunciare il dispiacere per la morte del cestista Kobe Bryant, il profilo di Cr7 mostrava un messaggio identico a quello postato dal collega portoghese ed ex centrocampista dell'Inter Luis Figo. In entrambi i profili si leggeva: «È molto triste ascoltare la straziante notizia della morte di Kobe e di sua figlia Gianna. Kobe era una vera leggenda e ispirazione per molti. Invio le mie condoglianze alla sua famiglia, ai suoi amici e alle famiglie di tutti coloro che hanno perso la vita nell'incidente. Legenda RIP». Una caduta di stile che si pensava avrebbe scatenato una rivolta social e un'emorragia di follower ma in realtà il Re dei social non ha subito alcun contraccolpo anzi, ha portato a casa ancora più seguaci. L'ascesa di Cr7 parte nell’ottobre del 2018 quando supera la cantante Selena Gomez grazie a 144 milioni di seguaci. In poco più di un anno il suo circolo digitale ha aggiunto altri 56 milioni di membri staccando di netto gli avversari. Più di lui infatti fa solo l'account di Instagram stesso (330 milioni), sotto invece troviamo la cantante Ariana Grande (173 milioni), l'attore Dwayne Johnson meglio conosciuto come The Rock (170 milioni), Selena Gomez (167 milioni) e quindi il duo Kylie Jenner (160 milioni) e Kim Kardashian (158 milioni).

Ronaldo: «C’è vita oltre al calcio, vorrei recitare a Hollywood». Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. «Voglio continuare a vincere, però mi sta rendendo conto che c’è una vita dopo il, calcio e devo essere pronto, per superare ostacoli e fare cose che non so fare. Ad esempio, partecipare a un film di Hollywood, recitare al top è un qualcosa a cui voglio prepararmi». Nel corso degli eventi a Dubai a margine dei «Globe Soccer Awards», Cristiano Ronaldo parla anche dei suoi programmi futuri, e rivela il desiderio di diventare attore, «perché nel calcio non mi capita più di non dormire alla vigilia, e quindi voglio uscire dalla mia zona di confort. Quando lo fai, è una grande sfida e a me piacciono le sfide: voglio sorprendere prima me stesso e poi gli altri, e continuare a raggiungere traguardi. Voglio anche imparare sempre nel calcio e nella vita: ho quattro figli e se mi chiedono qualcosa e non so rispondere mi vergogno, quindi devo auto educarmi, perché per via del calcio non ho potuto studiare molto». «Quando avevo 26-27 anni ho cominciato ad essere più curioso nei confronti della vita - spiega -, ad informarmi di più, a parlare meglio l’inglese, e a leggere un buon libro che fa crescere la tua intelligenza e la tua cultura. C’è vita dopo il calcio. È importante ricordarselo: vincere più Palloni d’oro e Champions mi rende felice ma è solo una tappa». Ecco quindi il CR7 in futuro attore, non tanto per vanità personale, ma perché «voglio uscire dalla mia zona di confort. Quando lo fai, è una grande sfida e a me piacciono le sfide: voglio sorprendere prima me stesso e poi gli altri, e continuare a raggiungere traguardi». Intanto, il training inizia «trovando ogni giorno un paio d’ore da dedicare a me stesso, magari per rilassarmi o leggere un libro».

Da corrieredellosport.it il 27 giugno 2020. "Sono nata in una vecchia casa, il mio letto era sorretto dai mattoni e quando avevo pochi mesi sono stata morsicata in faccia da un topo, non mi vergogno a dirlo". Katia Aveiro, sorella di Cristiano Ronaldo, pubblica un lungo post su Instagram in cui ripercorre la difficile infanzia vissuta dal fuoriclasse della Juventus a Funchal, nell'isola di Madeira. "Grazie a Dio - prosegue l'ex cantante oggi influencer -, mia madre è arrivata in tempo, se no adesso sarei molto più brutta. Sono cresciuta in un quartiere povero e fin dalla tenera età ho imparato ad apprezzare quel poco che avevo".

Da gazzetta.it il 5 giugno 2020. Quella volta che Mourinho fece quasi piangere Cristiano Ronaldo. È uno degli aneddoti più curiosi della biografia "A modo mio" in cui Luka Modric, centrocampista croato 34enne in forze al Real Madrid racconta la sua carriera. "Una volta rimasi davvero sbalordito dalla reazione rabbiosa di Mourinho nei confronti di Cristiano Ronaldo. Fu durante una partita di Coppa di Spagna del 2013 in cui stavamo vincendo 2-0: un terzino avversario andò in profondità sul versante sinistro del nostro schieramento, Ronaldo non lo seguì e Mourinho gli gridò nervosamente di marcarlo. Ad azione ormai conclusa, il mister continuò a lamentarsi. Ne nacque un vero e proprio litigio. Quando arrivammo negli spogliatoio, Ronaldo era disperato, quasi sul punto di piangere, e disse 'Faccio del mio meglio e lui continua a criticarmi'. Poi entrò Mourinho. Si mise al centro dello spogliatoio e rinfacciò con rabbia a Ronaldo di non essere stato responsabile durante la partita. Gli animi si scaldarono e ad un certo punto i compagni dovettero intervenire. Mourinho è così, ha delle reazioni sanguigne e non la manda a dire, non importa di chi si tratta", racconta Modric. Il centrocampista croato, Pallone d'oro nel 2018, torna poi sul contestatissimo rigore concesso al Real nei minuti finale della sfida Champions contro la Juventus nel 2018: "Quel penalty era sacrosanto e mi diede un grande dispiacere vedere Buffon reagire in un modo così scomposto". A proposito del cacio italiano, Modric ricorda la sua "passione giovanile" per il Milan e l'ammirazione per Boban. E su Totti dice: "E' sempre stato uno dei miei miti".

Da ilposticipo.it il 17 dicembre 2020. E alla fine…sono scintille. Come del resto ci si poteva immaginare, visti i contendenti. Liverpool-Tottenham finisce 2-1 per i padroni di casa, che escono da Anfield con i tre punti grazie a un gol a pochi minuti dal termine di Bobby Firmino, che rompe l’equilibrio creato dalle reti di Salah e Son. E non appena l’arbitro decide che è il momento di andare sotto la doccia, i due grandi protagonisti si salutano, si avvicinano e…cominciano a discutere. Col sorriso sulle labbra, certo, ma quando si scontrano Josè Mourinho e Jürgen Klopp, il rischio che succeda qualcosa di straordinario (nel bene o nel male) è sempre altissimo. Normale dunque che il siparietto abbia fatto il giro del mondo. Così come le spiegazioni dei due. Il primo a parlare è lo Special One. Che, come riporta il Sun, ha detto la sua a Klopp nonostante il risultato lo smentisse. “Gli ho detto che la squadra migliore ha perso. Lui non era d’accordo, ma è la sua opinione. E comunque se io mi comportassi a bordocampo come fa lui, mi caccerebbero dopo un minuto. Immaginate cosa potrebbe succedermi se fossi così nervoso o se prendessi la lavagnetta del recupero dalle mani del quarto uomo. Per qualche motivo, mi trattano diversamente e questo mi rende triste”. E ogni riferimento a Pep Guardiola, che ha cercato di impedire che venisse mostrato il recupero del match del suo City contro il West Bromwich, non sembra per nulla casuale. Il tedesco, dal canto suo, non è d’accordo. E nel fare i complimenti all’avversario…ci mette qualcosa che non può essere interpretata in modi diversi. “Credo che abbiamo giocato una partita davvero buona contro una squadra molto forte, che è mostruosa nel fare contropiede. Se perdi un pallone c’è l’80% di possibilità che l’azione finisca nella tua area. Ma abbiamo assolutamente meritato e quello di Bobby è stato un gol bellissimo, un colpo di testa sensazionale. Gli Spurs comunque sono al 100% tra i favoriti, vista la qualità che hanno e il modo in cui giocano. E saranno lì in alto fino alla fine della stagione”. Di certo, le polemiche tra i due non si fermeranno qui…

DA ilposticipo.it il 17 dicembre 2020. Una stagione storta capita a tutti, persino ai migliori. E tra i migliori impossibile non inserire Pep Guardiola, che tra Barcellona, Monaco di Baviera e Manchester, sponda City, ha dimostrato di saper vincere ovunque, cambiando anche il modo di intendere il calcio delle squadre che allena. Quest’anno però i suoi balbettano e per il momento guardano le altre giocarsi la Premier League da lontano. Gli uomini di Pep sono a venti punti, cinque in meno delle due capoliste Tottenham e Liverpool, ma soprattutto hanno perso un paio di occasioni importanti per riguadagnare terreno. Non ultima la partita contro il West Bromwich Albion, una squadra che forse negli anni scorsi non avrebbe creato problemi ai Citizens, ma che stavolta si permette il lusso di tornare dall’Etihad strappando un punto. E Guardiola…beh, non l’ha presa benissimo, anzi. Al punto che l’immagine clou del match non è nè il vantaggio di Gundogan nè l’autorete di Ruben Dias che fissa il punteggio sull’1-1, bensì la scenetta tra il tecnico catalano e il quarto uomo al momento di indicare il recupero. Recupero che evidentemente non bastava all’allenatore del City, considerando che ha cercato…di impedire che l’ufficiale di gara lo segnalasse all’arbitro. Una discussione abbastanza animata, come riporta il Sun, con Pep che prima spiega al quarto uomo il suo punto di vista, poi quasi lo supplica di aggiungere del tempo ai quattro minuti già decisi e alla fine…opta per bloccare la lavagnetta. Un comportamento che non si vede certo tutti i giorni e che ora potrebbe anche avere delle conseguenze. Alla fine il signor Taylor ha comunque segnalato il recupero previsto, ma le reazioni non sono mancate. Come riporta il Daily Mail, più di qualcuno ha sottolineato che in casi del genere a Guardiola…si perdona un po’ tutto, mentre ad altri allenatori (e il riferimento non è per nulla casuale) no: “Per una cosa del genere Mourinho sarebbe stato squalificato a vita”. Chissà cosa ne penserà il giudice sportivo, considerando che le immagini parlano abbastanza chiaro. E mostrano un Guardiola a cui il mondo del calcio non è abituato. Esattamente come non lo è lui a vedere la sua squadra trovare tutte queste difficoltà…

Modric svela: "Una volta Mourinho fece quasi piangere Cristiano Ronaldo". Il centrocampista croato, pallone d'oro nel 2018, ha raccontato un aneddoto legato a CR7 e Mourinho all'interno della sua autobiografia: "Cristiano era disperato". Marco Gentile, Venerdì 05/06/2020 su Il Giornale. José Mourinho nel corso della sua lunga carriera ha allenato tanti club vincenti e soprattutto tanti campioni tra cui Cristiano Ronaldo, ai tempi del Real Madrid. Il rapporto tra i due portoghesi all'inizio idilliaco andò pian piano scemando complici alcune incomprensioni tattiche. L'attuale attaccante della Juventus, però, nei suoi nove anni a Madrid riuscì a mettere insieme più gol che presenze: 450 in 438 gettoni totali.

Il pianto di Cristiano. Luka Modric suo compagno di squadra per tanti anni al Real ha da poco scritto un'autobiografia "A modo mio" dove ha svelato alcuni aneddoti particolari tra cui uno relativo proprio a Mourinho e a CR7: "Una volta rimasi davvero sbalordito dalla reazione rabbiosa di Mourinho nei confronti di Cristiano Ronaldo", inizia così il racconto del regista croato che è poi entrato nei dettagli: "Fu durante una partita di Coppa di Spagna del 2013 in cui stavamo vincendo 2-0: un terzino avversario andò in profondità sul versante sinistro del nostro schieramento, Ronaldo non lo seguì e Mourinho gli gridò nervosamente di marcarlo. Ad azione ormai conclusa, il mister continuò a lamentarsi. Ne nacque un vero e proprio litigio", le parole dell'ex giocatore del Tottenham". Finita qui? Nemmeno per sogno, dato che una volta arrivati nello spogliatoio i due si sono affrontati a muso duro con lo Special One irritato nei confronti dell'ex Sporting Lisbona e Manchester United: "Quando arrivammo negli spogliatoio, Ronaldo era disperato, quasi sul punto di piangere, e disse "Io faccio del mio meglio e lui continua a criticarmi". Poi entrò José che si mise al centro dello spogliatoio e rinfacciò con rabbia a Ronaldo di non essere stato responsabile durante la partita. Gli animi si scaldarono e ad un certo punto i compagni dovettero intervenire. Mourinho è così, ha delle reazioni sanguigne e non la manda a dire, non importa di chi si tratta". Mourinho nei suoi tre anni a Madrid ha messo in bacheca tre titoli: una Liga, una Coppa di Spagna e una Supercoppa di Spagna senza però mai incidere in Champions League con i blancos che la misero in bacheca nel 2013-2014 con in panchina Carlo Ancelotti che subentrò proprio allo Special One capace di vincere due Champions League in carriera con Porto e Inter. All'interno del libro, il pallone d'oro nel 2018 ha poi toccato tanti altri argomenti tra cui anche Francesco Totti e Gianluigi Buffon legato al rigore assegnato al Real Madrid a tempo ormai scaduto che eliminò di fatto dalla Champions League la Juventus con il numero uno bianconero che fu espulso per le eccessive proteste.

Juventus, Ronaldo: "Si vince con il lavoro, in futuro voglio fare un film a Hollywood". Il fuoriclasse portoghese spiega la ricetta del suo successo: "Se da anni sono al vertice è perché curo ogni dettaglio: preparazione fisica, cibo, tempi di recupero. Quando smetterò di giocare voglio migliorare il mio inglese e diventare attore". La Repubblica  il 28 dicembre 2019. "Io e Messi per tanti anni i migliori? Non ci sono segreti o miracoli. Vincere in tutte le squadre in cui ho militato non è una coincidenza, quando sei un campione vinci sempre". Cristiano Ronaldo spiega la ricetta del suo successo alla vigilia dei Globe Soccer Awards in programma domani a Dubai. "Senza molto lavoro, senza dedizione e passione per quello che fai non puoi ottenere tanti trofei e riconoscimenti - ha affermato CR7 durante la Dubai International Sports Conference-. La cosa più importante, secondo me, è avere sempre tante motivazioni. Non devo più dimostrare nulla a nessuno, tranne a me stesso e alla mia famiglia. Devo godermi tutto ciò che ho raggiunto".

"Dedico il 70% della mia vita al calcio". Cristiano Ronaldo si è anche soffermato sugli aspetti che gli permettono ancora all'età di 34 anni di essere uno dei calciatori più forti al mondo: "Prendermi cura di me è il mio modo di vivere. Devi sacrificare te stesso e dedicare il 70% della tua vita al calcio. Prenderti cura e conoscere il tuo corpo: preparazione fisica, cibo, recupero. E non tutti gli atleti sono disposti a farlo, lo dico senza critiche a nessuno. Mantenersi al top richiede di pensare sempre in termini di eccellenza".

"Voglio fare un film a Hollywood". "Nella mia vita cerco sempre di imparare, educare me stesso e allenarmi in ciò che mi interessa - ha proseguito l'asso portoghese -. Voglio recuperare il tempo che ho dovuto sottrarre alla scuola. Mi preparo per una nuova vita in cui voglio partecipare a nuove cose: migliorare il mio inglese e fare un film a Hollywood. C'è tempo per tutto, la giornata ha 24 ore e puoi allenarti, riposare, stare con la famiglia e gli amici, oltre a divertirti. L'importante è trovare un equilibrio".

"Battere record di gol di Pelé sarebbe motivo d'orgoglio". Tra gli obiettivi di CR7 non manca quello di battere altri record: "Ottenere primati è un processo che avviene naturalmente dopo un sacco di lavoro. Devi essere sempre pronto e i record arrivano. Battere il numero di gol di Pelé sarebbe motivo di orgoglio, ovviamente, ma ognuno di noi ha la sua storia. Pelé continuerà a essere Pelé e Cristiano a essere Cristiano. Spero che il 2020 sia un anno eccellente, come sempre. La verità è che non ho mai avuto anni brutti, spero perciò che anche il prossimo sarà fantastico".

Francesco Persili per Dagospia l'11 aprile 2020. “La Roma? Non ho scelto io di lasciarla ma un giorno mi piacerebbe allenarla". “Sarah Felberbaum? Mi ha migliorato molto. Non solo l’umore ma lo stile di vita”. Daniele De Rossi a tutto campo a #CasaSkySport. “Mi piacerebbe sedermi un giorno sulla panchina giallorossa ma non ho fretta di farlo accadere domani. Prima devo diventare allenatore. Oltre ai corsi, c’è un percorso di crescita. Dovrò imparare tanto. Andrò a vedere mille allenatori. C’è un proverbio africano che dice: “Un bambino in piedi non riesce a vedere dove vede un vecchio seduto. Io sono quel bambino”. L’ex capitano della Roma partirà da quello che considera il migliore di tutti: Pep Guardiola: “Il suo Barcellona ha cambiato la percezione del calcio”. Fonseca? “E’ molto bravo, mi andai a complimentare con lui dopo la partita con lo Shakhtar. Ma voglio rubare da tutti. Da Spalletti a Luis Enrique ("i migliori che ho avuto"), da Capello, soprattutto il modo di gestire “il rapporto con i giovani”, e poi da Gattuso e da De Zerbi “che mi fa impazzire”. Andrò a trovare anche allenatori di altri sport, contatterò coach Pozzecco. Non andrò a vedere come spiega il pick and roll ma come si rapporta ai suoi giocatori. Se non imparerò nulla perché sono un asino almeno mi sarò divertito…” De Rossi parla dell’addio alla Roma (“Il giorno più difficile è stato quando ho chiuso la porta della camera di Trigoria in cui sono entrato a 18 anni, è stata una bella botta”), dei soprannomi (“Da bambino avevo una scodella di capelli biondi e mi chiamavano 'Nino' come D’Angelo, poi sono diventato 'Capitan Futuro', che non mi ha mai pesato"), della nazionale campione del mondo 2006 (“Lippi è stato fondamentale, ha creato un gruppo di amici. Ho sempre sentito la sua fiducia anche quando era incazzatissimo dopo il rosso per la gomitata contro gli Usa”) e dell’esperienza “indimenticabile” al Boca. “Stavo da dio. Ambiente, club, tifosi, ho una nostalgia pesante di quel posto. Anche mia moglie Sarah era dispiaciutissima di lasciare Buenos Aires. L’altra sera guardavamo "La Casa di Carta". Uno dei personaggi, Palermo, ha detto una frase in argentino. E noi ci siamo guardati e ci siamo detti: "Quanto ci manca, Buenos Aires". Ho dovuto prendere decisioni che non avrei voluto prendere: ci entrava la mia famiglia”. Il discorso Roma, invece, è stato diverso. In quel caso “qualcuno ha scelto per me. I dirigenti? Non mi ha chiamato nessuno per lavori futuri, e io non chiamerò”. C'è tutto De Rossi nelle parole che spende su Bonucci: "Mi spiace che Leo venga considerato un antipatico. Una percezione totalmente sbagliata frutto anche della maglia che indossa. Perché quella squadra ti dà un certo tipo di mentalità e quella testa lì è uno dei motivi per cui vincono sempre". Nessun rammarico, se non quello dei pochi titoli vinti, per la sua carriera dedicata alla Roma: “Ho avuto l’ambizione di provare a vincere dove non si vince mai”. Poi rivela come è nata l’idea del travestimento al derby seguito in curva Sud. “Era un mio desiderio quello di andare all’Olimpico senza essere preso in braccio come Oronzo Canà ne ‘L’allenatore nel pallone’. L’unico stratagemma per passare inosservato era quel trucco. Un ragazzo dietro di me mi ha riconosciuto subito ma per fortuna è stato zitto…”.

Francesco Persili per Dagospia il 5 aprile 2020. “Avrei bisogno di una quarantena intera per raccontare sei mesi di emozioni”. Daniele De Rossi prende in contropiede Federico Buffa e irrompe a #CasaSkySport raccontando la sua avventura al Boca Juniors: “Un posto unico. Molto simile all’Italia. In Argentina si vive di passione per qualsiasi cosa: cibo, musica, tango e, naturalmente calcio. Il campionato si può discutere tecnicamente e tatticamente ma in 6 mesi nessuno ha mai tirato indietro la gamba neanche in allenamento, tutti hanno sempre dato il 200%. La cosa più bella è sugli spalti. E' una cosa che non viviamo più in Italia, non c'è più quella passione pura. Un tackle li fa esplodere come un goal. Mi sento un privilegiato anche se è durato poco. La Bombonera? Uno stadio clamoroso.  Auguro agli appassionati di calcio di visitarlo almeno una volta durante una partita del Boca. Gli ultimi novanta minuti li ho fatti nell’impianto del Rosario. Abbiamo perso ma ero lo scenario giusto per l’ultima partita. Il riscaldamento lo ho fatto in un posto di 5 metri quadrati. O fai lo schizzinoso e dici ‘io qui non gioco' oppure ti lasci trasportare dall'ubriacatura degli argentini per questo gioco. E’ stato meraviglioso conoscere un’altra piccola pagina di Argentina”. De Rossi dichiara la sua passione per le storie di Buffa: “Forse le ricordo meglio di lui, le ho viste tutte. Quella di Riva è l’ennesimo piccolo capolavoro. Conosco Gigi e meriterebbe un omaggio del genere al giorno". “Quella della squadra di Scopigno è la più grande impresa del calcio italiano”, sottolinea l’Avvocato Buffa che racconta un episodio della sua infanzia quando andava con la bici a casa Riva a Leggiuno e aspettava ore che Gigi uscisse per fumare una sigaretta: “Non la penso come Brecht. Abbiamo bisogno di eroi, di figure di ispirazione…”. Il narratore dello sport esalta De Rossi (“una delle massime entità spirituali del calcio italiano degli ultimi 20 anni”) e da quella miniera di storie che è l’Argentina ripesca la storia del “Loco” Houseman, campione del mondo del ’78, già raccontata nello spettacolo teatrale “Il rigore che non c’era”: “Il Manchester United lo voleva al posto di Best ma lui non accettò mai perché non gli andava di lasciare il suo barrio. Negli ultimi anni della sua vita si presentava ai ritiri della Nazionale per chiedere la maglia a Messi o a Dybala. La rivendeva e con i soldi andò ad acquistare l’ultima bottiglia della sua vita”. Si parla anche del Grande Torino e l’Avvocato rivela: “Stavamo girando al Filadelfia che di sera ha una mistica potentissima. Nella scena finale, mi sono messo a piangere”. Memorie del Maracanazo e dell’Uruguay di Obdulio Varela che fece piangere il Brasile si intersecano alle cronache familiari del padre, tifoso genoano in sonno, che al gol di Pato Aguilera ad Anfield esplode in una esultanza liberatoria davanti alla madre e “rivela finalmente chi è”. Tra Jordan e Ginobili, c'è spazio anche per il basket e per lo struggente ricordo di Kobe Bryant: “Quando è morto ho pensato alle analogie con l’incidente che è costato la vita a Gaetano Scirea. Entrambi prima dell’incidente hanno avuto quei sei-sette secondi per rendersi conto di quello che stava accadendo. Quegli attimi in cui sei lucido e ti accorgi che sta tutto per finire, non so quanto possano durare... Mi ha colpito la moglie che ha detto: "Nel dolore straziante di aver perso lui e mia figlia, meglio così. Perché nessuno dei due avrebbe potuto vivere senza l’altro…”

Alessandro Angeloni per il Messaggero il 7 gennaio 2020. «Ha segnato il ragazzino». Sì, era un bimbo, quel De Rossi, nel maggio del 2003, quando per la prima volta veste da titolare la maglia della sua Roma. «Ha segnato il ragazzino», lo disse Franco Sensi, il presidente, commosso in tribuna, non ricordava il nome, ma di Daniele sapeva già tutto. Tutti sapevano tutto. Daniele pure sapeva. Sapeva che avrebbe donato «una sola carriera alla Roma». Non sapeva che l'avrebbe dovuta lasciare prima del previsto, quando non voleva lui ma hanno voluto altri. Sapeva che avrebbe amato solo un'altra squadra poi, cioè il Boca. Non sapeva che ci avrebbe giocato, lo ha capito col tempo e quando è rimasto a piedi. Un rapporto breve ma intenso con gli argentini, finito con qualche mese di anticipo, dicono, per incomprensioni con la nuova società (la cordata di Jorge Ameal guidata dal Mudo Riquelme tra i dirigenti). Daniele dice addio al calcio. Non vedeva l'ora di tornare a casa, qui c'è la sua famiglia, che non vuole tenere lontano più di quanto non abbia già fatto. Ha bisogno di stare vicino soprattutto alla figlia Gaia. E poi, alla piccola Olivia e a Noah, più la bellissima compagna, l'attrice, Sarah Felberbaum. Daniele ha dato alla Roma un'anima, parecchie fibre muscolari, caviglie, per non parlare delle presenze (616, solo Totti ha fatto di più) e dei gol (63). Ha regalato spessore, romanismo, romanità, senso di appartenenza, merita una partita d'addio, come si deve. Quelle qualità ancora echeggiano da queste parti, che mancano. De Rossi è un ragazzo intelligente - come dice Nainggolan «impossibile pensarlo lontano dal calcio» - sa che sta per ricominciare un'altra vita, non necessariamente nella Roma, ma nel pallone sì. Torna in Italia da uomo più maturo, bastava sentirlo parlare ieri in perfetto Porteño per capire che stiamo raccontando un giocatore e un uomo di alto livello. Al Boca non è andata benissimo, se parliamo di presenze (solo sette) con un gol (all'esordio, anche qui), ma è andata benissimo per come è stato accolto e per quello che ha rappresentato in pochissimo tempo. Tano, l'italiano. Un tratto distintivo e profondo, perché l'Argentina ha l'Italia dentro e Daniele c'è entrato con la solita passionalità di chi scalcia l'indifferenza. «E' un giorno triste», ha detto in conferenza stampa, dopo aver comunicato al club che avrebbe ripreso la strada di casa (dei campioni del mondo in attività è rimasto solo Buffon). Non ho problemi fisici, ho solo voglia di tornare dalla mia famiglia». S'era parlato di questioni di salute legate a uno dei figli, prontamente smentiti da Daniele. «Non voglio entrare troppo nei dettagli delle questioni familiari, ma la mia figlia più grande, di un altro matrimonio, è rimasta in Italia. E una ragazza ha bisogno che suo padre le sia vicino. In teoria, potrebbe essere in pericolo e io devo avvicinarmi». De Rossi si riferisce alla primogenita, Gaia, avuta dal matrimonio controverso con Tamara Pisnoli, spesso coinvolta in guai con la giustizia, tanto che il gip, in un'ordinanza, la definì donna con «una significativa tendenza all'uso della violenza». Ecco, quel matrimonio da Daniele fu definito un errore, ma non sarà mai un errore la figlia, a cui vuole stare vicino, il più possibile. La lontananza non aiuta. «A Baires siamo lontani, fare quattordici ore di volo non è come andare in auto da Trigoria a casa mia. Se avessi avuto venticinque anni avrei deciso altro. E' un giorno triste avrei voluto giocare altri dieci anni. Il mio futuro è tracciato farò l'allenatore e studierò nei prossimi mesi. La Roma è stata la mia vita, non pensavo di amare un'altra squadra come è successo con il Boca. Sarò sempre parte di questo club. Potrei avere aperto una strada, spero che altri calciatori europei possano venire qui». De Rossi apre la sua di strada, quella di un allenatore, figura che ricopriva anche da giocatore. Lo ha ricordato Ranieri, lo ha ribadito Nainggolan, lo ha sempre sostenuto Spalletti, Totti e tutti i compagni con cui ha giocato. Non a caso anche Lippi, nel 2006, dopo le quattro giornate di squalifica nel Mondiale in Germania lo ha riproposto, e senza pensarci un secondo, in finale contro la Francia. E lui, come nulla fosse, a soli 23 anni, ha calciato uno dei tiri di rigore, segnando con la freddezza di un quarantenne. De Rossi non ha avuto la fortuna di vincere uno scudetto con la Roma. E' un cruccio, un sogno irrealizzato, un buco. Magari, chissà, c'è ancora una vita da dedicare alla Roma. E forse lui ancora non lo sa. 

Jacopo Aliprandi per corrieredellosport.it il 29 gennaio 2020. Un retroscena incredibile sul derby giocato domenica scorsa tra Roma e Lazio. Ad assistere alla stracittadina c'era anche Daniele De Rossi, e addirittura in Curva Sud. L'ex centrocampista della Roma però ha escogitato un travestimento ad hoc per non farsi riconoscere dai tifosi e dai giornalisti: parrucca, cappello e un naso di gomma. Del resto De Rossi nella conferenza stampa d'addio alla Roma, lo scorso maggio, aveva annunciato che sarebbe tornato a tifare la Roma dalla Curva Sud: lo ha fatto nella partita più importante della stagione per i tifosi, con un travestimento incredibile e accompagnato dall'attore Valerio Mastandrea. 

Il blitz di Daniele De Rossi: «Così sono riuscito a imbucarmi al derby nella mia Curva». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Luca Valdiserri. Con gli amici Zoro e Mastandrea per poter tifare liberamente: 4 ore di trucco per evitare selfie e autografi. Quattro ore nelle mani della truccatrice. L’equivalente di due partite e mezzo più abbondantissimi recuperi. Daniele De Rossi ha faticato più di quando giocava a pallone, ma lo ha fatto per una buona causa: andare in Curva Sud a sostenere la Roma, nel derby di domenica scorsa. Poteva farlo senza camuffarsi, stile Favino/Craxi in «Hammamet»: è capitato molte altre volte che un calciatore, magari squalificato, sia andato in curva tra gli ultrà. La differenza è che De Rossi non voleva fare il «vip», ma proprio il tifoso. Essere libero di cantare, gridare, soffrire, dire le parolacce senza essere riconosciuto. L’avrebbero soffocato di selfie, ma lui voleva soltanto tornare indietro nel tempo, libero come il vento. «Magari un giorno tornerò in Curva Sud, con una birra e un panino, a fare il tifo per la Roma», aveva detto Danielino il giorno del suo addio alla squadra giallorossa, il 14 maggio scorso. E lo ha fatto davvero. Settore 16F dello stadio Olimpico, accanto agli amici Valerio Mastandrea e Diego «Zoro» Bianchi. Più tanti altri che non sapevano che l’esagitato al loro fianco era De Rossi. Sui social c’è chi si vanta di aver offerto un Caffé Borghetti a quel tifoso dai capelli lunghi e imbiancati che sembrava il sosia di J Mascis, il cantante/chitarrista dei Dinosaur Jr. (De Rossi è un esperto di «alt rock», basta cercare sui social la sua playlist, fatta mentre era ancora un giocatore della Roma). Da quando è tornato dall’avventura argentina al Boca Juniors, De Rossi non ha parlato. Preferisce tenere un profilo basso, sa che le domande sull’addio alla Roma potrebbero riaprire polemiche. La ferita è ancora aperta, ma la passione non è calata. Così, in combutta con Mastandrea e Zoro, ha ideato il blitz all’Olimpico dove, come dice lui, «mi sono imbucato». C’è stato anche un guasto ai tornelli dello stadio, che ha creato lunghissime file all’ingresso della Curva Sud Laterale. Pochi minuti di interruzione della linea per leggere i biglietti nominativi sono bastati per creare 40 minuti di stop. Un caos perfetto per «imbucarsi». A rivelare al mondo il «trucco» è stata Sarah Felberbaum, la moglie di De Rossi, con un post su Instagram: «Ecco cosa succede quando tuo marito decide di infiltrarsi in Curva Sud per esaudire il suo sogno e vedere il derby. Abbiamo perso un pomeriggio intero, ore di trucco, traumatizzato i figli ma era felice come un bambino. Ti amo». L’amore che ha convinto l’attrice a seguire Daniele, con prole al seguito, in Argentina, anche se l’avventura al Boca Juniors è durata pochi mesi: «All’inizio in casa non avevamo nemmeno tutti i mobili. Sono andata a comprare un pollo arrosto in rosticceria, Daniele non era molto convinto, ma poi ci è sembrato il più buono della nostra vita». De Rossi aveva già dimostrato doti di attore proprio con l’amico Zoro, inviato del programma di Serena Dandini «The Show must go off», su La7. Era l’inizio del 2012 e il calciatore era da tempo impantanato in un difficile rinnovo di contratto con il club. L’annuncio della sua permanenza in giallorosso arrivò con un formidabile video in cui Zoro faceva il tassista e De Rossi il passeggero. «Daje che oggi stanno a ffà sciopero, ce sto solo io... Ma che sei Danielino? E ‘ndo te porto?». «E portame a Manchester. Parigi. Tokyo! Honolulu... Las Vegas... Budapest... Fa un po’ te». «Stai confuso, eh? È na questione di soldi... Te devi fa ddà de più.. Ma che, te devo portà davero?». «Vabbè, alla fine, dai, resto qua. Scendo qua, va. Quant’è?» Prezzo, un autografo. La firma che di lì a poco De Rossi avrebbe messo sul contratto. Pensava di rimanere a vita con una sola maglia, come era successo a Totti. Ma questa è un’altra storia. E anche quella del Capitano è finita nella maniera che più ha ferito i tifosi. Il video del trucco e dell’imbucata allo stadio ha fatto il giro del mondo, raccogliendo i like dei tifosi di tutte le squadre. La forza di De Rossi è proprio questa: in un calcio diventato business a tutti gli effetti, la passione vince. Anche Gaia, la moglie di Simone Inzaghi, l’allenatore della Lazio, ha commentato: «Fantastico!». E questo, conoscendo il derby di Roma, che non fa prigionieri, è il gol più incredibile che De Rossi potesse segnare.

Dagospia il 30 gennaio 2020. Tweet di Luca Di Bartolomei. Io non so se va via Florenzi. Dovesse davvero partite a lui tutta la mia gratitudine. Per la sua abnegazione, per la sua correttezza e per il suo romanismo. Dicono che siano in molti fra i tifosi a non sopportarlo. A mio modo di vedere sono loro a non essere romanisti.

Tommaso Lorenzini per “Libero quotidiano” il 30 gennaio 2020. «Giocare a calcio con i piedi è una cosa. Giocare con il cuore è un' altra cosa», scrive Alessandro Florenzi nella sua bio su Twitter e in queste ore cuore e calcio si sono mescolati, con l' esito che il pallone s' è sgonfiato e il cuore s' è spezzato. Florenzi e la Roma, il capitano e la sua squadra, della quale indossa la maglia dal 2002 (con la parentesi 2014-15 a Crotone) si stanno per dire addio. La direzione dolorosa è quella del divorzio, all' orizzonte c' è il Valencia, prossimo avversario dell' Atalanta in Champions, sulle orme di quell’Amedeo Carboni che poi al Mestalla ha scritto una lunga storia. La trattativa sta procedendo sulla base di 15 milioni (plusvalenza netta, se guardiamo i numeri), le società cercano l' accordo: i giallorossi chiedono acquisto definitivo o obbligo di riscatto, gli spagnoli dicono prestito e riscatto solo con la qualificazione in Champions. I contatti sono davvero avanzati, comunque ormai per Florenzi non pare esserci più posto alla Roma ed è il terzo capitano di fila ad essere liquidato (prima di lui, l' ultimo capitano romano a essere ceduto fu Di Bartolomei nell' 84). In questa Roma americana la fascia sembra contare poco, addirittura portare male: la successione per "romanità diretta" pare poco meno che un bacio della morte. Che ne dirà il romano d' adozione Dzeko, prossimo eletto (in attesa di Pellegrini)? Certo, fra l' uscita di scena di Totti, De Rossi e Florenzi ci sono enormi differenze, il sentimento che ha accompagnato l' ascesa di Ale non è mai stato ecumenico, un capitano precario che alla causa ha donato due rotture del ginocchio, eppure senza mai trasmettere quel carisma necessario per incendiare le folle. Bravo ragazzo ma non capobanda; ottimo soldato ma mai generale. E dunque, mentre Pallotta sta ultimando la cessione al compatriota Friedkin, è evidente come lungo la strada fra Trigoria e lo stadio Olimpico si chiude un' era. Quasi 29 anni (l' 11 marzo) 277 presenze e 28 reti (zero trofei): perché anche Florenzi se ne va? Romanisticamente parlando, era un morto che cammina, da quando Totti ha impalmato Lorenzo Pellegrini come capitano del futuro prossimo e ideale successore della sua dinastia, relegando Alessandro in un passaggio marginale della propria autobiografia e mettendo pure un malandrino like a un post Instagram che ne caldeggiava la cessione. C'è poi la posizione contraria di gran parte dei tifosi (sebbene ci siano molte voci dissonanti), i quali con il solito scavalcamento dei ruoli per molti mesi gli hanno contestato i tentennamenti sul rinnovo (in mezzo alle voci dell' interesse di Juve e Inter), perdonandogli pochissimo in campo e apostrofandolo come «Trenta denari», frattura che nemmeno il prolungamento del 2018 fino al 2023 ha saputo sanare (a tre milioni annuali, firmato con il ds Monchi). I più irriducibili fanno pesare tutt' ora quel 28 gennaio 2018, quando il capitano fermò i compagni (in particolar modo Nainggolan) e portò tutti negli spogliatoi invece di recarsi sotto la Curva Sud a incassare la contestazione per il ko con la Samp. A completare il quadro c' è il mai nato rapporto con Fonseca (gli preferisce Santon): con lui, uno dei più poliedrici jolly della A si è "evoluto" in panchinaro, dove è rimasto per 7 volte, cui si sommano una mancata convocazione e sole 6 gare giocate per intero (3 vittorie e 3 ko). Chi sorride è Roberto Mancini, che fin dall' inizio lo ha incluso nella lista dei papabili per l' Europeo con l' Italia. Diceva a novembre, Mancio: «Florenzi gioca poco con la Roma? Sarà riposato per la Nazionale».

Massimo Cecchini per gazzetta.it il 16 gennaio 2020. Potrà avere un uso dei social discutibile, potrà aver affrontato il tramonto della carriera da calciatore in modo criticabile, potrà aver iniziato la sua vita da dirigente in maniera timida, ma una cosa è certa: Francesco Totti si conferma un protagonista del calcio italiano. Stavolta lo fa in una intervista su Dazn, che apre anche spiragli a un possibile (difficile) futuro alla Roma. “Quando ero fuori a volte mi sarei strappato i vestiti da dirigente per entrare in campo. Da fuori è tutto più facile, tutti siamo più forti e più bravi – “perché non ha fatto questo, perché non ha fatto quello” -, ma se sei stato anche dentro il campo sai che sono due cose diverse. Parecchie partite avevo voglia di spogliarmi, potevo ancora dire la mia. Soprattutto vedendo quello che ci sta in giro...”. Il passato, però, non combacia col calcio di oggi. “Un Totti a 25 anni non giocherebbe sicuramente alla Roma, già se lo sarebbero comprato”. Lo dice quasi da procuratore, la sua nuova carriera. “Ma è una parola vecchia. Preferisco dire scouting. Perlustro, vedo, riesco a trovare qualche giovane promettente. Io mi metto sempre in gioco, mi piace conoscere quello che c’è al di là. Il futuro sicuramente riserva cose positive: voglio vedere cosa riserva a me”.  Il pensiero va sempre al suo addio alla Roma, dopo le dimissioni da dirigente. “Da calciatore ero più espansivo, ero più me stesso; da dirigente devi essere più pacato, stare attento a quello che dici. Le parole sono fondamentali. L’addio al calcio? Io ho sempre avuto la passione: quando c’è quella, per un giocatore è tutto. Quando lo fai con la determinazione, con la voglia, con la spensieratezza, poi ti vengono cose che non avresti mai immaginato… poi la fine deve arrivare. E’ arrivata un po’ inaspettata, ma giusta. Ora l’ho metabolizzata, ma ci ho messo due anni, perché non è stata una scelta mia. In ogni caso, non mi sono mai pentito delle decisioni, anche se quando avevo 25 anni e mi chiamò il Real Madrid dei Galacticos avevo avuto un po’ un momento di disorientamento. Infatti quando oggi vedo qualcuno di quei giocatori del Real mi dicono: ma tu sei matto, hai rinunciato alla squadra più forte del mondo… Vuol dire che la testa ogni tanto non ragiona, devi essere matto. Comunque ho fatto una scelta d’amore che non rinnego. Anzi è stata una doppia vittoria stare per 25 anni con la maglia della mia squadra del cuore”.  Ma se adesso con i colori giallorossi c’è stato il divorzio, l’avvenire è ancora da definire. “Tornare alla Roma con un’altra proprietà e con un altro ruolo? Mai dire mai”. E quando gli si chiede perché il dirigente non gliel’hanno lasciato fare, replica sicuro: “ Perché ero ingombrante”.

Giuseppe Falcao per leggo.it il 16 gennaio 2020. «Francesco Totti è stato l'ultimo acquisto di mio padre». Le parole sono quelle di Ettore, figlio del presidente della Roma, Dino Viola. Al circolo Antico Tiro al Volo racconta: «Papà aveva avuto mille segnalazioni su Totti e lo comprò a 13 anni dalla Lodigiani».

C'è una famosa foto in cui Totti stringe la mano a Dino Viola.

«Fu scattata a Trigoria, nel Natale del 1990. Fu l'ultimo Natale di papà. In quel periodo voleva portare Falcao sulla panchina della Roma».

Falcao, mio padre, allenatore della Roma?

«Si, era tutto fatto. Si sarebbero dovuti incontrare a Cortina per firmare il contratto, però il presidente pochi giorni dopo si ammalò e fu l'inizio della fine».

Che rapporto c'era tra Viola e Falcao?

«Ottimo, anche se con Paulo e Cristoforo Colombo ogni rinnovo di contratto era una battaglia. Ci tengo a smentire una leggenda metropolitana collegata al suo passaggio all'Inter. Non fu Andreotti a far saltare la trattativa come si racconta».

E cosa accadde?

«Bastò una telefonata, a cui ho assistito personalmente, tra mio padre e l'allora presidente dell'Inter Fraizzoli. Mio padre era arrabbiato con Mazzola perché aveva trattato direttamente con Falcao, che era sotto contratto. Fraizzoli capì, da galantuomo quale era, che avevano sbagliato e per non rompere i rapporti, non prese Falcao».

C'è appena stata Roma-Juventus, la partita per eccellenza dei tempi di suo padre.

«La sfida di mio padre era fronteggiare la Juve e ci riuscì alla grande, nonostante la potenza della Fiat e della famiglia Agnelli».

Ricorda l'aggressione subita da suo padre al Comunale di Torino?

«Parlare di aggressione è eccessivo. Ma lui e mia madre furono spintonati, fuori dalla tribuna autorità; ci rimasero molto male».

C'era qualche calciatore preferito dal presidentissimo?

«Li amava. Talmente innamorato che spesso toglieva alla famiglia per dare a loro. Quando avevo bisogno di alcuni biglietti non andavo a chiederglieli direttamente, ma mandavo Sebino Nela o Agostino Di Bartolomei a prenderli per me. Sapevo che mio padre a loro non avrebbe detto di no».

Cosa ha rappresentato lo Scudetto?

«Il coronamento del sogno di mio padre. Si innamorò della Roma quando arrivò in città all'età di 11 anni. Quello scudetto fu la sua grande gioia da presidente e da tifoso».

Roma-Liverpool, fu il grande dolore?

«Mio padre diceva che se non l'avessimo giocata a Roma, l'avremmo vinta».

Roma-Lecce: come fecero i giallorossi a perdere quella partita?

«La Roma entrò in campo sicura di sé, convinta di vincere. Strano che il Lecce in quella partita si giocasse un premio a vincere. Ancor più strano per una squadra già retrocessa».

Altro mistero, la cessione di Ancelotti.

«Mio padre non lo voleva vendere, ma Berlusconi trattò direttamente con Carlo, offrendogli un triennale. Ancelotti, avendo qualche problema fisico, accettò. Andò a Trigoria e chiese a papà di essere ceduto. Alla fine piansero insieme e Viola lo lasciò andare. Però si legò al dito il gesto di Berlusconi».

Dopo la morte di suo padre, la Roma cambiò proprietà.

«Un mese dopo fu presa da Ciarrapico. Era praticamente scritto che la Roma sarebbe dovuta diventare sua. Si prese la Roma in malo modo, scordandosi di darci anche qualche miliardo».

Da figlio di Dino Viola che consiglio si sente di dare a Friedkin, probabile nuovo presidente della Roma?

«Di leggere la storia dell'ingegner Dino Viola, studiarla e capire come riuscì a rendere vincente e forte la Roma».

Donadoni: "La mia vita da pendolare in Cina". I sogni e i programmi. Roberto Donadoni guida un club del campionato cinese, lo Schenzhen, che milita nella Serie B cinese. Vuole tornare nella massima serie e non esclude di poter allenare di nuovo in Serie A. Ma gli piacerebbe anche andare in Inghilterra. Orlando Sacchelli, Martedì 07/01/2020, su Il Giornale. Quando suona il telefono, in attesa che mi risponda, il pensiero va a quel servizio che molti anni fa il Guerin Sportivo gli dedicò alla fine degli anni Ottanta. Come si era formato, quali erano i suoi sogni e i suoi progetti, le foto e il quadernino che il piccolo Roberto utilizzava per annotare i propri appunti di calcio. Che per lui, anche se era solo un bambino, era già una roba seria. Dopo tanti anni e tantissimi successi, prima da giocatore poi da allenatore, oggi Roberto Donadoni guida un club del campionato cinese, lo Schenzhen, che quest’anno milita nella League One, la Serie B cinese.

Come sta andando l’esperienza in Cina?

«Sono tornato giusto oggi. Arrivo da un incontro con il nuovo general manager della mia squadra, lo Shenzhen. Nei prossimi giorni ci rivedremo. L’obiettivo è gettare le basi per un pronto ritorno nella massima serie, la Super League. Abbiamo la possibilità di cambiare solo 5 giocatori cinesi. Come stranieri, ne possiamo avere 4 ma solo due in campo».

Che tipo di calcio è?

«Nella massima serie ci sono 4-5 squadra di buon livello, con ottimi stranieri, come Hulk, Oscar che sono forti e hanno ancora anni davanti. Un altro è El Shaarawy. In generale il livello è inferiore quello italiano, perché gli aspetti tecnico-tattici sono meno conosciuti rispetto a noi. Però ci sono numeri impressionanti da un punto di vista umano e il calcio sta avanzando di anno in anno».

Veniamo al campionato italiano. Come vede la lotta al vertice?

«Direi che la lotta per lo scudetto è tra Juventus e Inter, ma anche la Lazio sta facendo benissimo. E che dire dell’Atalanta, che nelle ultime due partite ha segnato dieci gol».

Che succede al Milan?

«Si sta trascinando in una situazione particolare, non solo a livello tecnico. Dal livello societario a scendere non si riesce a trovare stabilità. È evidente che qualcosa non va. Forse, vista la situazione, i valori tecnici attuali sono inferiori a quelli delle altre squadre».

Ibrahimovic può dare la scossa?

«Tutti abbiamo ancora negli occhi Ibra quando era in Italia o quello delle grandi squadre in cui ha giocato subito dopo. L’età non è più quella di una volta ma certi numeri il giocatore sicuramente li ha ancora oggi. Prendendolo il Milan è andato contro la sua filosofia di puntare sui giovani, ma a volte qualche chioccia ci vuole in campo per far maturare i giovani».

Qual è, invece, la maggiore sorpresa di quest’anno?

«Ci sono diverse squadre. Penso alla Lazio e all’Atalanta, che però non sono sorprese. Direi che vanno bene anche il Verona, il Bologna e il Cagliari».

Mister Donadoni, le piacerebbe tornare in Serie A?

«Adesso ho tutta l’intenzione di portare avanti il discorso con il mio club, tornando in Super League (Serie A). Ma non escludo la possibilità di tornare ad allenare in Italia. O anche in un altro campionato straniero».

Qual è il campionato in Europa che le piace di più?

«Quello inglese. Mi piace il modo di interpretare le partite, l’atteggiamento coinvolgente, lo spirito battagliero, le poche proteste in campo...»

Europei 2020, come saranno?

«Molto dipenderà da come si arriverà in fondo ai vari campionati. Ma devo dire che la formula itinerante di quest’anno può condizionare le squadre che giocheranno praticamente in casa. Sono molto curioso di vedere questo torneo. L’Italia se la può giocare.

Come passa il tempo libero in Cina?

«Molto con il mio staff (sei persone, ndr). Direi che cerchiamo di non cambiare molto le abitudini rispetto all’Italia. Nel complesso faccio un po’ più vita da solitario, ma grazie a questo posso concentrarmi molto sul campo, con un orario più continuato».

La sua famiglia l’ha seguita?

«No, è rimasta in Italia, anche perché mia figlia ha iniziato la scuola da poco… faccio il pendolare, tra Cina e Italia».

Ha problemi con il cibo in Cina?

«Si trova più o meno tutto il cibo che c’è da noi, anche se non è proprio uguale a come siamo abituati noi. Anche il cibo locale, però, è molto interessante».

Tipo?

«Direi che il riso, che si può mangiare in mille modi diversi. E bisogna stare attenti a non esagerare, perché si rischia di far crescere troppo la pancia».

Champions, sarà l’anno della Juve?

«Anche l’anno scorso è arrivata a buon punto. Questa volta potrebbe farcela, anche se per me il favorito è il Liverpool».

Marco Gentile per il Giornale  il 28 Gennaio 2020. Non c'è mai fine al peggio e i social network, purtroppo, se non utilizzati in maniera corretta possono diventare un'arma davvero pericolosa. Questa volta a finire nel mirino degli hater, e non è la prima volta, è stato l'attaccante della Lazio, il capocannoniere del campionato di Serie A Ciro Immobile con qualche utente che si è divertito a mettere in rete una frase terribile visto il suo significato: "Ma Immobile ce l’ha l’elicottero?". Ovviamente questa frase è riconducibile al tragico incidente in cui ha perso la vita l'ex fuoriclasse Nba Kobe Bryant, deceduto insieme alla figlia Gianna e ad altre sette persone a bordo dell'elicottero che si è schiantato al suolo dopo 40' dal suo decollo. La moglie dell'attaccante della Lazio ha risposto a questo odio social con una story su Instagram dove ha postato la frase choc con il seguente commento: "Povertà d'animo. Ma dico io, dopo una tragedia del genere, come si possono scrivere certe cose? Per carità, nessuno può piacere a tutti, ma ci sono modi e modi. Qui si parla di ignoranza, cattiveria, qui si tratta di essere mostri! Io ho paura di queste persone, mi fanno pena e tristezza. Ma non state bene per nulla! Ogni giorno che passa rimango sempre più senza parole". Immobile non ha risposto alle provocazioni social ed ha postato solo una foto del mitico Kobe Bryant sul suo profilo Instagram con una semplice e significativa didascalia: "Rip leggenda". Il suo post ha raccolto oltre 125.000 like e una serie infinita di commenti, la maggior parte dei quali fortunatamente per omaggiare la memoria dello scomparso Kobe che ha lasciato un vuoto enorme nel mondo dello sport e non solo. Non è la prima volta che lady Immobile scende in campo per difendere il marito visto che in un'altra circostanza qualcuno sui social aveva insultato le figlie della coppia. Jessica ha postato in una story anche una foto di Kobe con la figlia Gianna e subito dopo la seguente didascalia a corredo:"Non siamo niente in questo mondo, siamo delle parentesi, siamo dei passanti. Costruiamo qualcosa di bello e lasciamo qualcosa di bello, amiamo e doniamo la vita è troppo breve per tutto il resto". Quest'ultimo messaggio della moglie di Immobile dovrebbe essere di insegnamento per troppe persone che riversano odio sui social senza un reale motivo.

Da corrieredellosport.it il 19 febbraio 2020. Ciro Immobile l’idolo dei tifosi della Lazio, Ciro Immobile l’idolo della sua famiglia. Non poteva essere altrimenti per un calciatore stratosferico e un marito-padre esemplare. L’attaccante biancoceleste, tramite Instagram, ha risposto a un po’ di domande dei suoi followers: “In squadra vado d’accordo con tutti, i miei compagni sono fantastici. Tirare un rigore? Non è facile, ma la pressione e lo stress fanno parte del calcio. A volte va bene, a volte va male…”.

Immobile e i tifosi. Il rapporto con la città è incredibile. Immobile a Roma si sente a casa: “La gente educata mi fa sorridere ed emozionare quando mi dicono che sono una brava persona. I laziali all’Olimpico? Emozione incredibile. Per la città non giro più con Lazzari, l’ho licenziato come autista perché non conosce bene le strade. Acerbi? È più geloso lui che Jessica. E Luis Alberto mi conosce meglio di mia moglie”. Chiusura su alcuni compagni: “Correa e Caicedo sono due amici e due giocatori straordinari. Con il Sergente Milinkovic mi trovo bene e Straskosha è troppo forte. Leiva? Un campione in campo e fuori”. Ecco la Lazio descritta dal suo uomo più rappresentativo. Un gruppo, una famiglia che sognano in grande dopo una stagione fin qui straordinaria.

Da corrieredellosport.it l'1 agosto 2020. Ciro Immobile ha vinto la Scarpa d'Oro 2019/20. L'attaccante della Lazio è primo nella classifica speciale dei marcatori in Europa e non può essere raggiunto da nessuno. La Juventus infatti ha diramato l'elenco dei convocati, in cui non figura il nome di Cristiano Ronaldo, unico che avrebbe potuto contendere il titolo al centravanti della Lazio. Adesso non ci sono più dubbi. Immobile vince la Scarpa d'Oro e anche il titolo di capocannoniere in Serie A. È il primo italiano dal 2006 a riuscirci. L'attaccante biancoceleste corona una stagione straordinaria battendo anche Robert Lewandowski. A decretare il trionfo di Immobile, è la mancata convocazione di CR7, che non giocherà contro la Roma. Soltanto altri due calciatori italiani erano riusciti a vincere la Scarpa d'Oro nella storia: Luca Toni nel 2006 e Francesco Totti nel 2007. Immobile aveva già vinto tre titoli di capocannoniere: uno in Serie B con il Pescara (2011-2012) e due in Serie A con Torino (2013-2014) e Lazio (2017-2018).

Emiliano Bernardini per “il Messaggero” il 20 febbraio 2020. Cin, cin! La Lazio brinda a Ciro Immobile. Trent' anni in grande stile. In stile «Grande Gatsby». Il personaggio nato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald e interpretato da Leonardo Di Caprio nel film diretto da Baz Luhrmann nel 2013 per cui lui e sua moglie Jessica vanno pazzi. Musica maestro. Palazzo Brancaccio di Roma apre le porte per un party sfarzoso. Amici, parenti e soprattutto tutta la squadra si stringe intorno al bomber biancoceleste e azzurro. Domani sera Inzaghi e i suoi ragazzi si concederanno un piccolo strappo alla regola per celebrare Immobile. D' altronde ormai lo spogliatoio è diventato una seconda famiglia: «I miei compagni sono fantastici». Un feeling nato con il tempo sintomo che quello biancoceleste è un gruppo vero. «Luis Alberto? Mi conosce quasi come mia moglie» e poi ancora «Acerbi? E' più geloso di Jessica», «Correa e Caicedo? Due amici e due giocatori incredibili», «Leiva? Un campione in campo e fuori». Stasera smoking per gli uomini e vestiti anni 20 per le donne. Un omaggio dovuto per il suo compleanno e in senso più allargato per la stagione straordinaria: sta frantumando ogni record a suon di gol. Sarà l' occasione anche per celebrare le sue 100 reti (la cena in programma era saltata tempo fa). E' l' uomo del momento. Nessun dubbio. Quel momento atteso, inseguito e fortemente voluto è arrivato. L' Italia del calcio volge finalmente lo sguardo verso quell' attaccante da sempre snobbato. Ora che sta andando oltre ogni previsione, invece, fa notizia. Lo stesso ct dell' Italia, Roberto Mancini si è dovuto ricredere. Già, ma che fatica. Impegno e dedizione, decisamente tutt' altra storia rispetto al modo di affrontare la vita di Jay Gatsby. Ciro è glamour ma non come meriterebbe. Altri ricevono sicuramente maggiori attenzioni e carezze. Lui, no. Ha sempre avuto bisogno di andare oltre l' ordinario. «All' estero ha fallito», «In Europa non incide», «Non ha grande tecnica», «E' un attaccante atipico» i leit motiv che da sempre lo accompagnano. C' è un insegnamento nel Grande Gatsby che forse ben si sposa con lui e che dice: «Non importa se ieri ci è sfuggito il futuro orgiastico, nel senso di esaltazione sfrenata: domani correremo più forte». Ciro lo ha fatto. E' maturato e ora è diventato sordo a certe provocazioni. «Ho scelto me tanto non capirà nessuno» verrebbe da dire citando Rocco Hunt, il suo cantante preferito. D' altronde segna più di tutti in Italia e in Europa. Ventisei gol in 24 partite non sono certo cose da tutti. Re della classifica marcatori della serie A e pronto ad infilarsi la Scarpa d' Oro dei grandi bomber d' Europa. Il futuro? A tranquillizzare i laziali ci pensa il suo procuratore Marco Sommella: «Se lo godranno ancora per tanto tempo». Trent' anni ora punta i trenta gol, gliene mancano solo 3. Domenica contro il Genoa proverà la scalata. Quando vede rossoblù si accende: 9 centri in 10 gare. Ad accoglierlo il solito ambiente molto caldo, da quelle parte non hanno molto amore per lui. A spingere Ciro verso una nuova impresa ci sarà la gente laziale. I tifosi laziali che hanno già esaurito il settore ospiti (2.039 tagliandi) e che stanno acquistando biglietti di Gradinata Sud e di Distinti. L' Associazione club genoani però in una nota sostiene che società e Questura avrebbero fatto «una scelta assurda e provocatoria». La gara non è a rischio e la Questura stessa, valutando il comportamento esemplare dei 4 mila biancocelesti a Parma ha deciso di non porre limitazioni.

Lazio, Lotito chiede i danni ai tifosi: «Per i cori e i saluti romani ci dovete 50.000 euro». Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefano Agresti. La Lazio non si ferma alle minacce e invia le lettere: il club di Lotito chiede i danni ai tifosi che si sono resi responsabili dei cori razzisti e dei saluti romani in occasione della partita di Europa League contro il Rennes. Un comportamento che ha determinato la chiusura della Curva Nord per una giornata da parte della Uefa, procurando un danno patrimoniale alla società. Da qui la decisione di passare all'azione: «Dai filmati eseguiti dagli organi Uefa e dalle indagini della polizia conseguenti è emerso che lei si è reso responsabile dei comportamenti sanzionati Indipendentemente dagli aspetti penali del suo comportamento da questo è derivato un grande danno economico alla società scrivente che può essere stimato, tra mancati incassi da biglietteria e sanzione economica inflitta, in almeno euro 50.000». Un'iniziativa clamorosa e senza precedenti, attraverso la quale la Lazio intende manifestare una volta di più la propria avversione nei confronti di qualsiasi atteggiamento che possa essere connotato come razzista. Non solo: facendo ricorso al codice etico, la società di Lotito «ha disposto la sospensione del suo accesso allo stadio Olimpico per le prossime tre gare».

Lazio, addio agli Irriducibili: si scioglie lo storico gruppo della Curva Nord. Ci sarà soltanto lo striscione degli Ultras Lazio, che raccoglierà e identificherà l'intera tifoseria. Franchino: "Non c'entra nulla con la morte di Piscitelli". La Repubblica il 27 febbraio 2020. Addio Irriducibili, dopo 33 anni si sciolgono: una "svolta epocale" per la Curva Nord biancoceleste dell'Olimpico dove da ora sugli spalti ci sarà solo la sigla degli Ultras Lazio. La notizia è stata annunciata in un comunicato dagli stessi ultrà: "Come per tutte le cose della vita, esiste un inizio e, inevitabilmente, una fine. C'è un tempo per tutto. Anche su quelle storie fantastiche, gloriose, prima o poi, cala il sipario". "Troppo sangue, troppe diffide, troppi arresti". "Dopo trentatrè anni - si legge - abbiamo deciso di sciogliere il gruppo". Tutto è iniziato il 18 ottobre 1987, quando, "in un tranquillo Lazio-Padova, apparve sulle gradinate dello Stadio Olimpico lo striscione Irriducibili. 10 metri di stoffa, scritta bianca, sfondo blu. Un nome che diventerà ben presto il nostro simbolo". Ma "da oggi ci sarà una svolta epocale. Senza precedenti per la Nord. Per la prima volta in curva sarà presente soltanto uno striscione, dietro il quale si identificherà tutta la tifoseria laziale: Ultras Lazio. Con la stessa voglia di sempre. Stesso entusiasmo, stessa adrenalina" spiegano. "Va via un pezzo di noi, un pezzo di storia. Dietro quel nome molti di noi han perso la libertà e la vita. Sciogliere gli Irriducibili è stata una esigenza dopo un corso: tutto ha un inizio, una durata e una fine e abbiamo ritenuto opportuno chiudere questo capitolo". Così commenta  l'attuale capo ultras degli Irriducibili Franco Costantino, noto come 'Franchino'. "Una decisione sofferta - dice - ma no, la morte di Fabrizio (Piscitelli 'Diabolik', ucciso al parco degli Acquedotti la scorsa estate) non c'entra. Sono negli Irriducibili dal primo giorno, avevo 16 anni e oggi ne ho 49. Ieri avevamo tutti gli occhi lucidi e non nascondo che stanotte non ho dormito".

Curva nord Lazio: gli Irriducibili si sciolgono dopo 33 anni. Il gruppo storico della curva nord della Lazio ha deciso di dire basta dopo 33 anni e non c'entra la morte di Fabrizio Piscitelli: "Si è chiusa un'era". Marco Gentile, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. La Lazio di Simone Inzaghi sta facendo letteralmente sognare i tifosi biancocelesti che sognano ora di vincere il tricolore come avvenuto 20 anni fa nel 1999-2000 quando i ragazzi di Sven Goran Eriksson recuperarono diversi punti alla Juventus di Carlo Ancelotti che perse lo scudetto all'ultima giornata perdendo per 1-0 sul campo, ai limiti della praticabilità per via della pioggia, del Perugia allenato da Carlo Mazzone. I biancocelesti stanno volando in campionato e non perdono una partita da 20 giornate dove hanno vinto 16 gare e pareggiato quattro volte. La Lazio è ora al secondo posto a quota 59 punti ma una vittoria nell'anticipo di sabato, alle ore 15, nel match dello stadio Olimpico contro il Bologna di Sinisa Mihajlovic porterebbe per oltre 24 ore la squadra di Simone Inzaghi al primo posto della classifica a più due sulla Juventus che sarà invece impegnata, a porte chiuse o aperte, domenica o lunedì all'Allianz Stadium contro l'Inter di Antonio Conte che si sta giocando il titolo proprio con bianconeri e biancocelesti. In queste ultime settimane il pubblico di fede biancoceleste ha seguito in maniera nutrita la squadra sia in casa che in trasferta ma oggi c'è da registrare lo scioglimento di uno dei gruppi più importanti e longevo della storia della curva nord della Lazio. Sabato 29 febbraio contro il Bologna, infatti, sarà l'ultima partita degli "Irriducibili", gruppo istituito nel 1987: gli stendardi di uno dei gruppi più caldi della tifoseria laziale non appariranno più in curva nord. A comunicare lo scioglimento del gruppo, il cui ex leader era Fabrizio Piscitelli conosciuto come Diabolik ucciso sette mesi fa a Roma durante un agguato legato al traffico di droga, ci hanno pensato gli stessi Irriducibili con un lungo comunicato ufficiale. Uno dei leader degli Irriducibili Franco Costantino all'Adnkronos ha parlato dello scioglimento del gruppo più datato della curva nord: "Questa è una decisione sofferta, ma no, la morte di Fabrizio non c'entra. Sono negli Irriducibili dal primo giorno, avevo 16 anni e oggi ne ho 49. Ieri avevamo tutti gli occhi lucidi e non nascondo che stanotte non ho dormito". Franco Costantino ha poi concluso: "Quando si ha una responsabilità del genere bisogna portare avanti decisioni importanti, la curva nord si unirà dietro un unico striscione che col nome di Ultras Lazio. Abbiamo dato tanto ma lo scioglimento è prettamente legato al decorrere di un'epoca, è finita un'era. Ne parlavamo già l'anno scorso, Fabrizio sarebbe stracontento di questo".

Lotito, dagli applausi allo sgarbo all'Atalanta. Franco Ordine, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Claudio Lotito, presidente della Lazio, deus ex machina delle vicende calcistiche italiane e prezzemolo di molte altre attività romane, ha ricevuto in questi giorni una montagna di complimenti. Meritati. È partito ereditando un club pieno di debiti con il fisco, ha ricevuto l'ostilità dichiarata della curva senza indietreggiare di un centimetro, ed è arrivato a sfidare Juve e Inter per lo scudetto dopo aver collezionato trofei, tra coppa Italia e super-coppa d'Italia. L'arrivo di Gravina in federcalcio gli ha tagliato le unghie cancellando il ruolo di consigliere privilegiato di Tavecchio al quale si era legato diventando accompagnatore di scorta della Nazionale ma si è rifatto a Milano, dove è stato protagonista della recente elezione di Dal Pino, alla Lega di serie A. Tra le tante qualità riconosciute, resistono nell'uomo sconfitto solo alle lezioni politiche del 2018, alcuni difetti. Lotito è convinto di essere, oltre che il più bravo, anche il più furbo della compagnia. Ne ha fornito testimonianza plastica vietando all'Atalanta la richiesta, per lui ininfluente, di anticipare la sfida della prossima settimana da sabato 7 marzo a venerdì 6 marzo, concessione resa in passato ad altri club impegnati in Champions. Qualche giorno dopo, l'Atalanta deve passare da Valencia per provare a conquistare lo storico traguardo dei quarti di finale che avrebbe un sapore speciale non solo per Bergamo ma per l'intero calcio italiano. Lotito ha ripetuto il suo no, condizione che il presidente della Lega (eletto con i voti del laziale) ritiene indispensabile per procedere al cambio di calendario così confermando la prassi dei predecessori, intervenuti solo in caso di accordo tra le parti in causa. C'è una sola spiegazione a questo gesto che sa di cieco egoismo: sperare che il giorno in meno a disposizione per gli atalantini suggerisca a Gasperini un turn over da cui trarre profitto. Un calcolo di questo tipo può andar bene per un profitto economico di un'azienda, per lo sport diventa un fastidioso precedente da furbetto del quartierino. Non solo, ma può trasformarsi in una motivazione straordinaria per la formidabile pattuglia bergamasca che è stata capace di ben altre imprese. Fossimo al posto di Claudio Lotito ci penseremmo prima di enunciare l'ennesimo non possumus.

Alvaro Moretti per “il Messaggero” il 18 febbraio 2020. Claudio Lotito l'aveva detto, in effetti. Molti avevano sorriso, altri irriso: lui la Lazio già da un paio d'anni la vede «come una Ferrari». Nei momenti di bassa marea (dicembre 2018, crisetta con Simone Inzaghi) la definirà «ingolfata», la Ferrari biancoceleste ma pur sempre bolide. Alla fine ha convinto tutti, anche il suo allenatore che qualche tempo fa vedeva «5-6 corazzate» davanti al suo gruppo. Ecco, ora che tutt'Italia comincia a credere davvero possibile la sorpresona laziale, ora che - dopo la Juventus, cade contro Immobile e compagni anche l'Inter - ora gli va dato atto.

Allora, presidente, la Lazio sembra proprio una Ferrari.

«Sono contento che ve ne ricordiate. Di quella frase, che non era detta per buttare lì una dichiarazione ad effetto. Io ci credevo».

Bisognerà andarsi a leggere le altre frasi celebri per scoprire qualcosa del giocattolo laziale.

«Io ci metterei insieme la frase in cui ricordavo, eravamo in crisi, che era finita la stagione dei diritti e cominciava quella dei doveri. La svolta nel gruppo arriva proprio quando tutti hanno cominciato a capire questo: niente rendite di posizione. Devo dare atto ai miei giocatori di aver rispettato chi li rispettava e si stanno comportando da grandi professionisti e da gente di famiglia».

Lei si definiva il pater familias della Lazio e il richiamo alla famiglia l'hanno fatto Milinkovic Savic e Immobile, i marcatori di Lazio-Inter.

«La più grande soddisfazione della partita di domenica non sono i messaggi e le telefonate, ma la mia entrata negli spogliatoi dopo il 90': entro e vedo 5 o 6 giocatori arrivare verso di me, pieni di adrenalina. Urlavano: «visto, presidente, abbiamo fatto quello che hai detto; hai visto presidente, hai visto!». Urlavano come matti».

La telefonata più significativa di queste ore?

«Tantissime da laziali, molte da non laziali. Ci chiedono di rompere il monopolio della Juve, di battere l'Inter. Tifano per noi tutti quelli che non tifano Juve e Inter».

Beh, non proprio tutti: pensiamo ai romanisti.

«Diciamo che mi pare non dispiaccia quando i trofei non li vincono i soliti».

Parlavamo di Milinkovic, il Sergente s'è pure vestito da gladiatore. A Sergej ronzano intorno tanti da anni.

«Mi fa molto piacere sentirlo parlare di famiglia laziale. Lo abbiamo trattato bene, abbiamo rivisto il suo contratto più volte, lo abbiamo fatto sentire importante. Stiamo crescendo tutti insieme».

Anche Inzaghi e Tare.

«Alla Lazio si sa che comando io, ma il merito più grande è stato sempre quello di saper scegliere le poche persone di cui fidarmi».

Quando parlava di Ferrari il meno convinto sembrava Inzaghi.

«Simone ha capito tante cose ed è molto migliorato in questi anni insieme: ha capito che per andare così avanti, serviva coinvolgere di più ogni pezzo della nostra rosa. L'ha fatto, in particolare in questa stagione, e i risultati si vedono. Tutti si sentono importanti e indispensabili. Sanno che il tecnico li vedrà. Il turnover era una cosa imprescindibile, ha accettato il rischio e ha cambiato alcune sue convinzioni. Ed è diventato grande. I suoi giocatori gli stanno dando tutto, è evidente».

Immobile diceva: «ogni tanto ci mandiamo a quel paese, ma poi la finiamo lì, non ci sono tipi rancorosi».

«È vero. E le racconto una cosa: molti di loro si frequentano tanto fuori dal campo e si divertono insieme. Mi chiamano per raccontarmi gli scherzi che si fanno. In pratica sono un loro confidente, oltre che pater familias. Quello che mi sorprende di questo gruppo è che non vige il mors tua, vita mea, sembrano in competizione solo con gli avversari non con il compagno che gioca. E questo deriva dalla gestione nuova di Inzaghi».

Quel che succede in campo lo stiamo vedendo, ma il segreto per una serie come questa sta probabilmente a Formello.

«Un giorno vi faremo vedere come abbiamo rivoluzionato il nostro quartier generale: ho preso tanti dei suggerimenti che mi arrivavano proprio dai giocatori. E loro si sentono tutelati, da me e dalla nostra struttura. Sanno che per me non sono oggetti agonistici: che se non stanno bene, non giocano. Che abbiamo voglia di curarli dal punto di vista fisico, psicologico, familiare».

Ma quanto ha goduto lei, Lotito, al fischio finale di Rocchi?

«In campo si divertono loro, sugli spalti i tifosi, io lavoro. Eppoi, ricordatevelo sempre: Lotito è un animale a sangue freddo».

Questa cosa gliela imputano, però.

«Lo so, ma in momenti come questi servo io, serve il mio realismo per tenere tutti ancorati al terreno e con lo sguardo all'obiettivo».

Che sarebbe lo scudetto.

«Quello mi chiedevano al telefono da Milano, dal Sud Io penso alle cose concrete, non ai sogni».

Eppure l'Olimpico, dopo tanti momenti brutti, sugli spalti è diventato uno spettacolo.

«Un modo nuovo per comunicare con il calcio: sarà la prossima rivoluzione. Avete sentito cantare Briga, il violinista e anche il matrimonio in diretta tra i tifosi americani Due nuove scenografie mozzafiato sugli spalti. Lo stadio è proprio bello quest'anno».

Ma proprio americani, come la proprietà della Roma, dovevano essere.

«Erano americani, che ci posso fare? La cosa bella è che si viene come ad un appuntamento irrinunciabile, con una storia nuova che stiamo scrivendo».

E tra record aggiornati e sogni è proprio una stagione di sogni. Sogni tricolori, a sangue freddo.

La Lazio e quel no a Mussolini per restare club indipendente. Nel 1927 il partito voleva un'unica squadra dal nome Roma. Ma la società guidata del generale Vaccaro rifiutò la fusione. Giacomo Puglisi, Mercoledì 08/01/2020 su Il Giornale. I primi della capitale, e quanto vale. Così recita uno degli inni della Lazio. Già, perché la società biancoceleste, che domani compirà 120 anni, ha da sempre il vanto di aver portato il calcio a Roma. Tanto i laziali preferirono perfino restare i primi invece di diventare gli unici: quando nel 1927 il partito fascista pianificò la creazione di una nuova squadra che portasse il nome della capitale, infatti, la Lazio, che avrebbe dovuto partecipare alla fusione di tutte le squadre che hanno poi dato origine alla Roma, fu l'unica società che decise di restare indipendente. Non è un caso che il generale Giorgio Vaccaro, che si assunse l'onere di far sapere al partito fascista che la Lazio si sarebbe tirata fuori dalla fusione, ancora oggi per i tifosi sia un eroe: «La Lazio è Ente Morale dal 1921 per Regio Decreto - ricordò Vaccaro alle autorità fasciste -. La società ha una sua storia, non può scomparire. Se proprio vogliamo creare una nuova squadra, ben venga, ma il suo nome deve essere Lazio, i colori il bianco e l'azzurro». Per questo, in un derby di qualche anno fa, la curva laziale espose uno striscione molto significativo: «1927, vincemmo scegliendo di non essere voi». Nei suoi 120 anni di storia (che Lotito insieme con la squadra festeggerà stasera, in attesa della mezzanotte, cenando dentro una sala della centralissima Castel Sant'Angelo) la Lazio ha vissuto di alti e bassi: la squadra forte, per molti decenni, è stata la Roma, inizialmente anche sostenuta dal regime fascista (nel 1942 i giallorossi vinsero lo scudetto perché diversi loro giocatori chiave vennero esentati dalla guerra, a differenza degli atleti delle altre squadre). Anche per questo a Roma i laziali sono sempre stati in minoranza, ed ecco perché il popolo biancoceleste ha sempre avuto bisogno di uomini carismatici a rappresentarlo: da Silvio Piola, miglior marcatore della storia della Serie A (290 reti) e anche della Lazio (159 gol in totale), Giorgio Chinaglia, bomber del primo scudetto (1974), Bruno Giordano. Uomini anche controversi, legati, in taluni casi, anche ad eventi di cronaca (Giordano venne squalificato per il calcio-scommesse, Chinaglia fu condannato per bancarotta da presidente del club), ma ai quali i laziali saranno comunque eternamente grati. Lo dimostra la storia di Pino Wilson e Giancarlo Oddi, difensori (il primo era anche capitano) della prima Lazio scudettata che ancora oggi hanno una loro trasmissione in radio. A loro i tifosi che chiamano dimostrano sempre massimo rispetto e riconoscenza, tanto che si rivolgono a loro con appellativi quali «Capitano» (rivolto a Wilson) e Mister (Oddi).

Dopo le difficoltà degli anni Ottanta, quando la Lazio si salvò allo spareggio dalla retrocessione in C, ci ha pensato Sergio Cragnotti a prendere per mano la squadra e a portarla, per qualche mese, al primo posto del ranking Uefa grazie alle vittorie di Coppa delle Coppe, Supercoppa Europea, scudetto e altri titoli nazionali. Negli ultimi 15 anni al comando del club c'è Claudio Lotito, che con una gestione particolarmente strategica e oculata è riuscito a evitare il fallimento, portando comunque altri 6 titoli in bacheca. Dal 2019 appena terminato la Lazio, grazie alla Coppa Italia vinta a maggio e alla Supercoppa conquistata a dicembre, per la prima volta nella storia vanta più titoli della Roma (16 a 14). Vincere però per il laziale non è mai stato fondamentale. Prevale l'orgoglio di essere i primi della capitale. E quanto vale...

Piazza della Libertà, la Lazio dei pionieri e la "Spoon River" dello scudetto negato. Marco Patucchi su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Nel 1915 il campionato italiano venne sospeso per la Grande Guerra, alla vigilia della finalissima alla quale si era qualificata la Lazio. Il titolo verrà poi consegnato d'ufficio al Genoa. Oltre un secolo dopo, la Figc potrebbe decidere adesso l'assegnazione ex aequo alle due squadre, riscrivendo la storia di centinaia di giovani scomparsi nella carneficina del conflitto. Tra di loro, i pionieri della società sportiva nata il 9 gennaio 1900. Se vi capita di passeggiare a Villa Borghese la domenica mattina, nel parco alle spalle della Galleria Borghese, il Parco dei Daini, e veder giocare una partita di calcio da due squadre di amatori, melting pot di etnie e generazioni, non sottovalutate quel campo di terra e polvere. Romani di mezza età e giovani sudamericani o magrebini, le maglie di qualsiasi colore e le porte prefabbricate, si sfidano ogni domenica mattina in quello che loro stessi chiamano "Il tempio". Magari senza sapere perché. Lì c'è una radice storica dello sport italiano, lì ha mosso i primi passi il calcio della Capitale. Inizio Novecento, fino ad allora il football nel nostro Paese lo hanno giocato soprattutto i marinai inglesi scesi dai bastimenti nei porti di Genova (dove nel 1893 hanno fondato il Genoa Cricket and Football Club), Livorno, Napoli, Palermo.  A Roma c'è solo la Lazio, nata il 9 gennaio 1900 a Piazza della Libertà come società  di podisti che apprendono i rudimenti del calcio dai seminaristi del Collegio Scozzese e del Collegio Irlandese, con i quali si sfidano prima in Piazza d'Armi nell'attuale quartiere Prati e, dal 1906, al Parco dei Daini (in quella che allora si chiamava Villa Umberto) nei pressi della sede sociale, uno scantinato della Casina dell'Uccelleria. Il 27 gennaio 1901 la prima partita di football sperimentale della Lazio: vittoria per 1-0 contro il Veloce Club sul campo del Velodromo Roma, appena fuori Porta Salaria, e il 13 maggio del 1904 a Piazza d'Armi il primo derby contro il Club Sportivo Virtus (3-0 con tripletta del capitano Sante Ancherani). Un gruppo di atleti della Lazio in una foto di inizio secoloLe maglie biancocelesti, i colori della Grecia, per onorare lo spirito olimpico, lo stesso che in quegli anni di inizio secolo spingeva ogni società sportiva a battezzarsi con nomi classicheggianti (Virtus, Fulgur, Spes, Audace, Fortitudo...), tutte tranne la Lazio che si ispira all'antico Latium Vetus, culla della civiltà latina e romana. E l'aquila, emblema supremo dell'impero romano. Lo spirito olimpico è nel dna dei primi atleti laziali, i pionieri.  Come Pericle Pagliani che segna molti record italiani, dai 10mila nel 1904 ai 5mila su strada l'anno successivo, ai 5mila nel 1908 quando vince anche i campionati italiani di corsa campestre. Partecipa alle Olimpiadi di Londra nel 1908, quelle della leggendaria maratona di Dorando Pietri.  Qualche anno prima, durante una gara a Carpi, era stato proprio Pagliani a ispirare Pietri che, vestito da garzone, aveva inseguito il podista della Lazio per buona parte della competizione. Ma torniamo al calcio, altrimenti finiremmo per perderci  nella sterminata storia polisportiva della Lazio che vanta vicende e personaggi mitici. Negli anni Cinquanta, ad esempio, nelle piscine spopola Carlo Pedersoli (poi attore di successo con il nome d'arte Bud Spencer), primo italiano sotto il minuto nei 100 stile libero e centroboa nella pallanuoto. E nel ciclismo è Fausto Coppi a vestire la maglia della Lazio che nel 1945 accoglie il "campionissimo" reduce dalla guerra: quasi un anno di competizioni, con al fianco anche il fratello Serse, e sei vittorie prima del ritorno nella Bianchi. La mitica compagine ciclistica che, guarda caso, sfoggia una divisa da gara biancoceleste. Torniamo al calcio dei pionieri, appunto (raccontato anche da un grande volume in libreria da qualche giorno: "S.S.Lazio. La Storia", di Fabio Argentini e Luca Aleandri, Goal Book Editore). Il drappello di ragazzi che nel 1908 partecipa per la prima volta a un torneo nazionale, superando i vari turni e aggiudicandosi le finali interregionali vincendo a Pisa tre partite in un solo giorno (alle 10, alle 14 e alle 16,30). Nel 1912 la Figc (Federazione italiana gioco calcio) vara il campionato italiano di prima categoria, cioè l'attuale serie A,e la Lazio conquista la finalissima nazionale in tre edizioni consecutive, aggiudicandosi il girone dell'Italia centrale e battendo la vincitrice del girone meridionale: nel giugno del 1913 perde per 6 a 0 con la Pro Vercelli, squadra simbolo dell'allora avanzatissimo calcio del Nord, sul campo neutro di Genova; nel 1914 la finale nazionale si gioca in due partite di andata e ritorno e in entrambi la Lazio viene sconfitta dal Casale (1-7 a Casale e 0-2 a Roma). La finalissima dell'anno successivo (mai giocata) è il cuore di questa storia, l'epopea dello "scudetto negato". Il campionato italiano inizia il 4 ottobre 1914 e tra vari gironi del Nord, del Centro e del Sud, partecipano più di 50 squadre comprese Genoa, Juventus, Torino, Milan, Bologna, Internazionale, Hellas Verona, Naples e, appunto, la Lazio che da quell'anno disputa le partite casalinghe nello Stadio della Rondinella appena costruito in classico stile inglese sotto i colli dei Parioli e inaugurato il primo novembre 1914. L'addio al Parco dei Daini dipendeva da un incidente dell'anno precedente, che era costato la revoca della concessione per l'uso del "tempio": una pallonata involontaria del calciatore Fernando Saraceni alla figlia del prefetto di Roma, Angelo Annatarone, che passava in carrozza nel parco durante una partita della Lazio. Dopo i sei gironi eliminatori e i quattro gruppi di semifinale, al girone finale del Nord approdano Torino, Inter, Genoa, Milan e in quest'ordine di classifica si presentano al giro di boa tra le partite d'andata e di ritorno, tanto che il quotidiano L'Italia sportiva titola a tutta pagina: "Anche quest'anno il campionato ad una squadra piemontese?".  A fine maggio, quando rimangono da giocare solo i ritorni di Inter-Milan e Torino-Genoa, la classifica recita: Genoa punti 7, Torino 5, Inter 5, Milan 3. Nel frattempo il girone finale del campionato dell'Italia Centrale, dopo i due gruppi iniziali che avevano qualificato rispettivamente Pisa, Lucca, Roman e Lazio, se lo erano aggiudicato i biancocelesti conquistando così automaticamente  il diritto a partecipare per il terzo anno consecutivo alla finalissima nazionale perché Naples e Internazionale di Napoli (le due squadre che si giocavano il titolo del Sud) erano state squalificate dalla Figc per irregolarità di tesseramento. Con la Lazio prima finalista del campionato nazionale e in attesa di conoscere il nome della concorrente settentrionale, la storia (quella con la "S" maiuscola) il 23 maggio 1915 volta drammaticamente pagina: l'ambasciatore a Vienna, Giuseppe Avarna, consegna la dichiarazione di guerra dell'Italia all'impero austroungarico. E' l'inizio della Grande Guerra, la carneficina che perderà per sempre 650mila soldati italiani, ferendone e mutilandone oltre un milione. "Concordia parvae res crescunt" è il motto della Lazio: "Nell'armonia le piccole cose crescono" dice la frase di Sallustio, che come un tragico monito nella versione completa prosegue con il suo opposto, "nel contrasto anche le più grandi svaniscono". Tra il 1915 e il 1918 svanirà ancora una volta l'innocenza del mondo e nel baratro finiranno anche i ragazzi del football. Mobilitazione generale e campionato sospeso. A casa torneranno in pochi. Tra atleti e dirigenti delle varie sezioni sportive della Lazio, scrivono Emiliano Foglia e Gian Luca Mignogna nel libro "Lo scudetto spezzato" (Goalbook Edizioni),  in circa 300 partirono per la Grande Guerra: secondo le ricerche di LazioWiki contenute nel volume "Dal Tevere al Piave" (Eraclea) ne morirono 32 e altri 12 rimasero feriti. Tutti si coprirono di una gloria agli antipodi di quella delle vittorie sportive: 25 Medaglie d'Argento al Valore Militare, 38 di Bronzo e 14 Croci di Guerra. Tra i caduti laziali, quattordici avevano giocato nelle squadre di calcio delle varie categorie, alcuni parallelamente ad altri sport. Ecco la "Spoon River" del football biancoceleste: Giorgio Bompiani, 26 anni, tenente dei bersaglieri caduto in combattimento a Castelnuovo di Sagrado, Gorizia; Ernesto Bonaga, 21 anni, sottotenente di fanteria morto a Dosso Faiti (Slovenia); Alberto Canalini, 35 anni, battaglione ciclisti, disperso a Jamiano sul Carso; Manlio Cianconi, 24 anni, ufficiale di fanteria caduto a Col d'Asiago; Renato De Censi, 26 anni, marinaio cannoniere morto nel 1919 nell'affondamento del piroscafo San Spiridione; Orazio Caggiotti, 25 anni, capitano dei bersaglieri, caduto nella battaglia del Monte Pecinka (Slovenia); Lorenzo Gaslini, 28 anni, sergente dei granatieri di Sardegna e poi pilota d'aviazione, deceduto per una malattia contratta in guerra; Enrico Laviosa, 19 anni, sottotenente d'artiglieria, Monte Vodice Zagomilla (Gorizia); Fulvio Massini, 20 anni, aspirante ufficiale di fanteria caduto sulle alture del Solber; Andrea Teodoro Molina, 20 anni, fante disperso nei combattimenti sul Col di Lana; Camillo Monetti, 26 anni, sergente maggiore di fanteria, morto per le ferite nell'ospedale militare di Udine; Luigi Riccardi, 22 anni, sottotenente di fanteria morto a San Martino del Carso; Pier Italo Rivalta, 26 anni, tenente di fanteria morto in un campo di prigionia ungherese; Mario Rotellini, 24 anni, tenente di fanteria caduto sull'Altipiano di Asiago. Oltre ai 14 calciatori, 18 caduti tra i dirigenti e gli atleti biancocelesti delle altre discipline: Arnaldo Ausenda, podista; Gaetano Chiesa, podista; Carlo Giovanni Colombo, dirigente; Ugo Conti, dirigente; Rodolfo De Mori, podista; Federico Di Palma, dirigente; Giovanni Kustermann, nuoto; Mario Malnate, podista; Armando Marcucci, podista; Florio Marsili, nuoto e canottaggio; Mario Massetti, podista; Ottorino Massetti, podista; Valerio Mengarini, nuoto e podismo; Pietro Nazari, podista; Giovani Pandolfi De Rinaldis, podista; Clemente Pansolli, podista; Gaetano Piergallini, podista; Paolo Spingardi, dirigente. In memoria di tutti i caduti della Lazio nella Grande Guerra, allo Stadio della Rondinella nel 1925 viene collocata una targa poi andata perduta. Il campo durante il conflitto era stato trasformato in "orto di guerra" per sfamare i romani e per questo, ma anche per aver creato una sezione femminile che accudiva i figli dei soldati, nel 1921 un Regio Decreto del governo Giolitti assegna alla Lazio la qualifica di "ente morale" riconoscendone i meriti sociali, culturali e sportivi. Anche il campo che oggi ospita le partite del Genoa, l'altra candidata alla vittoria del campionato "spezzato", cela un piccolo-grande segreto in onore dei calciatori scomparsi in guerra: la Medaglia d'Argento al Valore Militare di Luigi Ferraris, primo giocatore genoano caduto in combattimento sull'Alpe di Malegna, interrata sotto la porta ai piedi della Gradinata Nord dello Stadio Marassi intitolato alla memoria del centrocampista rossoblù nel 1933. Altri sei genoani non tornarono dalla Grande Guerra, come molti calciatori di tutte le squadre italiane. Quando alla fine del 1919 la Figc si riunì per deliberare l'esito del campionato 1914/15, la scelta fu quella di non disputare le due partite mancanti del girone finale del Nord e la finalissima nazionale, omologando la classifica provvisoria settentrionale con il primo posto del Genoa al quale venne assegnato d'ufficio anche il titolo nazionale, senza prendere in considerazione inspiegabilmente la Lazio, campione del Centro-Sud. Il beneficio d'inventario in questa ricostruzione è d'obbligo perché, come dimostrato da una enorme mole di studi, della delibera con la quale la Figc consegnò lo scudetto al Genoa parlarono solo i giornali dell'epoca e non esiste alcun  documento ufficiale. L'unica certezza è che la finale nazionale non fu mai giocata. Il dilemma potrebbe essere sciolto ora, dopo più di un secolo, dalla stessa Federazione gioco calcio che, spinta da una petizione popolare per l'assegnazione ex aequo del titolo italiano 1914/15 a Genoa e Lazio, ha incaricato una propria commissione storica di studiare e risolvere ufficialmente il caso. In tempi di svilimento della memoria e di effimere contrapposizioni calcistiche, sarebbe un bel segnale. Soprattutto pensando a chi, nell'assurdità di tutte le guerre del mondo ha bruciato e brucia ancora la propria gioventù.

Ore 18.04: la Lazio vince lo scudetto alla radio. Il 14 aprile del 2000 l'ultimo scudetto biancoceleste, in un pomeriggio infinito e indimenticabile. Il trionfo del gruppo di Eriksson con il gol decisivo del perugino Calori. La chiave della rimonta sulla Juve fu la clamorosa vittoria a Torino. Fabrizio Bocca il 14 maggio 2020 su La Repubblica. Ore 18.04 del 14 maggio 2000. Uno scudetto così non si era mai visto. C’era già la tv a pagamento, ma non certo negli stadi. E i telefonini al massimo potevano mandare messaggini, mica la diretta streaming. E così stavano tutti attaccati alla vecchia cara radiolina di Fantozzi, che trasmetteva “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” in edizione speciale. Nell’attesa i laziali dopo aver già festeggiato la fine del bellissimo campionato della Lazio, con i gol di Simone Inzaghi, Veron e Simeone alla Reggina, se ne andavano bighellonando qua e là per il campo, sbandierando e abbracciandosi. Già felici così. La squadra era rientrata negli spogliatoi per accalcarsi davanti alla tv, le immagini dell’epoca danno Orsi, Salas e tutti gli altri mentre guardano nei monitor tv cosa sta succedendo al Curi, dove si gioca ancora Perugia-Juventus. E’ scontato che la Juve vinca no?  Nessuno in quel momento poteva pensare che davvero arrivasse uno scudetto via radio. Succede invece. Lo scudetto alla Lazio arriva alle 18.04 di quella domenica pomeriggio di venti fa, perché il Perugia batte la Juve in una delle più controverse partite della storia del calcio italiano. Nell’intervallo della partita la pioggia era considerevolmente aumentata fino a diventare un uragano che ridusse il campo a un’immensa pozzanghera. L’arbitro Pierluigi Collina, ripreso con l’ombrello per fare le prove di rimbalzo del pallone, decise di aspettare un’ora, prima che la pioggia rallentasse e si potesse tornare a giocare tra mille difficoltà. La Juventus non glielo perdonerà mai e per una volta Moggi e Giraudo si videro tenuti distanti e messi al loro posto dal re degli arbitri italiani. Che cocciutamente portò al termine la partita, su un campo che del resto era lo stesso per entrambe le partecipanti. Si tornò sul campo sullo 0-0 e la Juventus ebbe un tempo intero per vincerla quella partita, ma non ci riuscì. Per paradosso lo scudetto della Lazio porta soprattutto la firma di Alessandro Calori, difensori toscano, che al Perugia trascorse solo quella stagione e il cui ultimo gol per la squadra di Mazzone e Gaucci fu appunto quello decisivo. Quello che dette lo scudetto alla Lazio, 26 anni dopo il primo di Chinaglia e Maestrelli. E tutti gli scudetti che arrivano al di sotto della Milano-Torino sono a loro modo “storici”. Anche se, tutto sommato, fu una sorpresa abbastanza relativa. Gli equilibri del calcio allora erano differenti. L’anno precedente la Lazio aveva perso lo scudetto per un punto contro il Milan, l’anno successivo lo avrebbe vinto la Roma. Quello scudetto ha le radici nel disegno folle  di Sergio Cragnotti, industriale precipitato nel calcio, poi coinvolto nel clamoroso crac Cirio e di molte altre aziende. La Lazio, grandissima squadra, un gruppo di campioni strappati a suon di miliardi alle tradizionali big del calcio, era la vetrina della sua malata e anche furfantesca grandeur. Rappresentava, Cragnotti, una borghesia sbrigativa e senza scrupoli che andò allo scontro, per non dire in guerra, con la nobiltà del pallone. Per poi finire di filato in carcere. La Lazio di quegli anni vide lo sbarco a Roma di giocatori come Gascoigne, Signori, Mancini, Nedved, Boksic, Vieri, Simeone e tantissimi altri: un pantheon di campioni. Era come se la Milano da bere e degli yuppies si fosse trasferita a Roma. Per dare la misura delle follie cragnottesche e dello spregiudicato clima da raider della finanza che si era impadronito del calcio, Christian Vieri viene comprato ad agosto ’98 dall’Atletico Madrid per 55 miliardi di lire e rivenduto a giugno ’99, dieci mesi dopo, all’Inter per 90 miliardi. L’anno dopo lo scudetto 2000, sarebbe stato acquistato Mendieta per 89 miliardi, un vero bidone il cui altissimo valore iniziale praticamente si dissolverà totalmente in breve tempo. E infatti da lì a poco la bolla cragnottesca sarebbe esplosa clamorosamente, facendo venire giù tutto. Anche la Lazio stessa. L’apice di quella stagione, in una raffica di polemiche arbitrali al calor bianco con la Juve sempre al centro e Cragnotti sempre all’attacco, fu il 1° aprile con la notturna al Delle Alpi tra Juventus e Lazio. Mancano addirittura Marchegiani, Nesta, Mancini e Salas ma la Juventus di Zidane, Del Piero e Filippo Inzaghi, sbatte e si intestardisce contro il muro della Lazio e soprattutto di Marco Ballotta in porta. E Simeone segna così lo storico gol che diventa il fondamento principale dello scudetto laziale. La Lazio aveva in panchina l’ineffabile Sven Goran Eriksson, ottimo allenatore, abile gestore dei tanti campioni, gran navigatore della vita e del pallone, buon viveur da trovare nella capitale la sua bambagia. E soprattutto la Lazio aveva una squadra straordinaria: Marchegiani, Nesta, Mihajlovic, Simeone, Stankovic, Nedved, Veron, Salas, Simone Inzaghi, Mancini, Boksic. Roberto Mancini che ne fu la mente in campo - e infatti un anno dopo era già l’allenatore della Fiorentina - vinse con la Samp prima e con la Lazio poi. Uno straordinario rivoluzionario col ciuffo, la sciarpa al collo e i vestiti dei migliori atelier della Capitale. Dopo la vittoria della Roma l’anno dopo, praticamente una diretta risposta alla Lazio, lo scudetto non sarebbe più uscito dall’asse Milano-Torino.

Qualcosa di simile a Dio s'è mosso nel cielo di Perugia. L'epilogo più imprevisto dimostra che nemmeno la squadra più abile nella gestione del vantaggio è imbattibile. E che la squadra perseguitata, osteggiata, frenata, alla fine vince contro tutto e tutti. Il commento di Gianni Mura dopo lo scudetto della Lazio. Gianni Mura (15 maggio 2000) il 14 maggio 2020 su La Repubblica. Scudetto alla Lazio, che al massimo sperava nello spareggio. Il Perugia fa quello di cui nessuno lo riteneva capace: batte la Juve. Nei tempi e nei modi, una domenica che non finisce mai, un thrilling. Dopo tante settimane a cercare il Grande Vecchio, qualcosa di molto simile a Dio s'è mosso nel cielo di Perugia. Pioggia, grandine, campo allagato. E intanto nel caldo di Roma la Lazio fa il suo, vince con due rigori (alquanto di manica larga) e spera. Tutto sui nervi: a Perugia il secondo tempo comincia dopo 70' , in aggiunta ai 15' dell' intervallo sono 85' , quasi una partita intera. Sempre più sui nervi. Perchè quasi subito segna Calori, poi viene espulso Zambrotta. E Mazzantini para anche le mosche, e Materazzi di testa è insuperabile, ed Esposito pare un brasiliano in una risaia. E' così, fra decine di tiri e nessun gol, che la Juve perde la partita più lunga e anche lo scudetto. Come nel '76, sempre a Perugia. E' la Juve che perde o la Lazio che vince? Non ha molta importanza stabilirlo, davanti ai numeri. Come l'onesto, ruvido Mazzone (cuore giallorosso, come Gaucci, mentre Calori tifa Juve: guardate che intrecci) penso che la Lazio sia stata la più forte e la Juve la più brava. In rapporto all'organico, la Juve ha fatto molto più del previsto. E' come se avesse forato a 200 metri dal traguardo. Ha pagato l'Intertoto e credo che le polemiche sul gol-non gol di Cannavaro l'abbiano scossa non poco. In rosso di energie, ha perso 4 delle ultime 8 partite. La Lazio le ha ripreso, sempre nelle ultime 8 partite, 10 punti. Sono tanti. Se dividiamo il campionato in due, vediamo che le squadre hanno avuto un rendimento quasi uguale: nell'andata 36 punti la Juve e 35 la Lazio, nel ritorno 37 la Lazio e 35 la Juve. Il merito maggiore della Lazio (ben motivata da Eriksson e da Cragnotti) è di averci sempre creduto, anche quando era staccata di 9 punti. Non ha mollato mai, la Lazio. E si ritrova, nell'anno in cui festeggia il secolo di fondazione, con lo scudetto. I cent'anni portano bene: anche il Milan l'anno scorso e la Juve due anni fa avevano vinto in coincidenza. E' il primo scudetto, negli ultimi 9 anni, che esce dal giro Juve-Milan. Era lo scudetto macchiato, fino a ieri mattina. Chissà cosa pensano adesso i tifosi laziali che portavano crisantemi, facevano i funerali al calcio, alzavano striscioni con su scritto "O spareggio o morte". Tutto regolare e tutto bello e giusto, adesso? Non posso dire di sì. C'è sempre troppa rabbia attorno al calcio e le notizie che arrivano dal centro di Roma (più violenze che feste) sono deprimenti, gravi ma anche marginali calcisticamente. Stiamo in campo calcistico. Collina a Perugia ha arbitrato bene, e in più ha dovuto prendersi la responsabilità di proseguire una partita che, in altre condizioni, sarebbe stata interrotta. Con un'altra situazione di classifica e senza le polemiche dell' ultima settimana, non si sarebbe continuato. Questo non significa che Collina abbia giustiziato la Juve. Si è ripartiti da 0-0, ma in quella lunghissima attesa sulle spalle e nelle teste dei giocatori della Juve crescevano i dubbi, i pesi. Tant'è vero che il Perugia insisteva per giocare, la Juve con meno vigore faceva notare che era meglio di no. Forse se lo sentiva. L'epilogo più imprevisto dimostra che nemmeno la squadra più abile nella gestione del vantaggio è imbattibile. E che la squadra perseguitata, osteggiata, frenata, alla fine vince. Contro tutto e tutti (frase vecchia). Anche contro se stessa: adesso sarebbe poco chic rilevare che Eriksson era dato per bollito, mezza squadra a turno lo trattava come uno stuoino, in società si rimpiangeva Zeman e si cercava Lippi. Eriksson, indicato come un perdente storico (e non era vero) ha tenuto acceso il fuoco. Con il turn over ha rischiato di scottarsi, ma alla fine ha ragione lui. Spinto dalla necessità, ha rinnegato l' amato 4-4-2 per il 4-5-1. Anche qui ha avuto ragione. La forza della Lazio sono stati alcuni centrocampisti (Veron, Nedved, Simeone). E per sfruttare i loro inserimenti Eriksson ha sacrificato, a volte, un attaccante. Il più prolifico, Salas, ha segnato 11 gol. C' è da chiedersi quanto varrebbe la Lazio con una punta da 20-22 gol, ma intanto va detto che Eriksson ha lavorato benissimo. Ma anche Ancelotti ha lavorato benissimo, con una rosa di qualità e quantità inferiore. E la compostezza, la sportività con cui ha commentato la tremenda botta gli fanno onore. Credo che uno spareggio avrebbe svelenito più di quest'epilogo rocambolesco. Mi sa che qualcuno, alla Juve, non potendosela prendere col sistema se la prenderà con la stampa (sarete contenti, adesso). Personalmente, sarò più contento quando, per nove mesi, si parlerà più di calcio giocato e meno di arbitri. Le condizioni ambientali di questo campionato sono state pessime. Avanti così e saranno contenti solo i fanatici, quelli che si portano a casa le zolle del prato e che vanno a caccia dell' ultimo slip. (15 maggio 2000)

L'impossibile scudetto della Lazio, una domenica come un film. Marco Patuchi il 15 settembre 2019 su La Repubblica. E' il 14 maggio 2000 e il campionato si chiude con un finale entrato nella storia del calcio. Juventus battuta a Perugia nel match interrotto e ripreso da Collina sotto al diluvio. "Un’ora dopo sono all’Olimpico, dove hanno spalancato i cancelli e la gente, ubriaca di gioia, ancora festeggia. Tornerò a casa poco prima dell’alba". La partita della mia vita è una partita che non ho visto. Non ero allo stadio come cinquant’anni fa, Lazio-Bari 4-1, la prima volta, il tuffo al cuore quando il bimbo mano a mano con il papà si affaccia sul teatro dei sogni, un tappeto volante di un verde indimenticabile. E non ero allo stadio come quella domenica pomeriggio di maggio del 1974, quando dalla Tribuna Tevere “non numerata” del vecchio Olimpico, senza copertura, tutto travertino e seggiolini di legno, ho visto i ragazzi celesti di Maestrelli vincere il primo scudetto, Lazio-Foggia 1-0, “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. O come quando Giuliano Fiorini, dopo la zampata sull’orlo del baratro, si è lanciato incontro alla Nord e noi siamo precipitati, in lacrime, verso di lui (Lazio-Vicenza 1-0, 1987). La partita della mia vita è una partita che non ho visto, neanche in televisione. Non è una delle migliaia di partite che si sono giocate davanti ai miei occhi, sotto il sole, sotto la pioggia o alla luce dei riflettori “E’ qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro” scrive Nick Hornby in Febbre a 90’. Ecco, se non ci sei dentro fermati qui. Perché non racconterò di gol, azioni memorabili, parate, punizioni, rigori...Racconterò di una pazzia. Ma chi ci sta dentro sa che pazzia non è. La partita della mia vita è iniziata alle ore 15 del 14 maggio 2000 allo Stadio Olimpico di Roma ed è finita alle 18:04 al Curi di Perugia. Ma io non c’ero. O, meglio, c’ero ma in un mondo parallelo, come un limbo sospeso nel nulla dell’angoscia. Anzi, ora che ci penso la metafora migliore sarebbe quella dell’immersione nel liquido amniotico. E quanta acqua in questa storia...Allora, alle 15 esatte del 14 maggio Lazio e Reggina iniziano la loro partita, in perfetta sincronia con il calcio d’avvio di Perugia-Juventus: Juve e Lazio si giocano lo scudetto negli ultimi 90 minuti della stagione, con i bianconeri in vantaggio di due punti.  Ma in cuor suo ogni tifoso biancazzurro sa che il campionato ormai è andato, il sogno è finito la domenica precedente, quando a una manciata di minuti dal termine di Juve-Parma, l’arbitro ha annullato un gol regolare di Cannavaro (che giocava nella squadra emiliana): con quella rete a Torino sarebbe stato pareggio e, avendo la Lazio vinto a Bologna, l’inizio dell’ultima giornata ci avrebbe visti appaiati a pari punti. Invece ai bianconeri basta battere il demotivato Perugia per conquistare lo scudetto. E la storia del calcio insegna che il risultato di quel genere di partite è praticamente segnato. Ecco perché il 14 maggio del 2000 io all’Olimpico non ci sono, e non sono neanche davanti al televisore. Ho deciso di risparmiarmi l’ennesima sofferenza. Giusto un anno prima abbiamo perso all’ultima giornata uno scudetto che fino a qualche settimana prima era indiscutibilmente nostro, il Milan ci ha sorpassati sul filo di lana. Una delusione gigantesca, indelebile per chi tifa squadre che vincono qualcosa ogni trent’anni. Un treno che non passerà più. Dunque, mentre la Lazio scende in campo io sono in un ristorante sul molo di Fiumicino, con la famiglia, al pranzo per la prima comunione di un amichetto di mio figlio Nicolò. Per me il campionato è finito una settimana prima, niente illusioni. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Così, tra un dolce e l’altro, ascolto distrattamente i camerieri accennare alla Lazio che ha finito il primo tempo sul 2 a 0, mentre Juve e Perugia rientrano negli spogliatoi sullo 0 a 0. Neanche penso che al momento sarebbe spareggio per lo scudetto, perché la vittoria finale della Juventus è un dogma. Quello che è successo a Perugia nell’intervallo ormai è storia: il temporale, il campo allagato, l’interminabile attesa decretata dall’arbitro Collina per riprendere la partita con il terreno di gioco praticabile. Intanto la Lazio la sua di partita l’ha vinta 3 a 0 (Inzaghi e Veron su rigore, poi Simeone). Ed io? Beh, quando alle 17:57 Calori infila con un diagonale la porta della Juve, in quel preciso istante sono al volante di ritorno verso la casa dei nostri amici, dove proseguiranno i festeggiamenti della prima comunione. La voce di Riccardo Cucchi esce dall’autoradio, a volume bassissimo per non illudersi troppo, come una stilettata. Stringo, anzi stritolo il braccio di mia moglie e senza mollarlo dico: “Non è successo assolutamente niente, ma ora voi andate alla festa da soli. Io vi accompagno e vado a casa...”. Spengo la radio e mi preparo al “colpo secco”: invece di soffrire le pene dell’inferno seguendo minuto per minuto l’epilogo della partita, mi staccherò dal mondo fino al fischio finale, poi accenderò la televisione e “saprò”: sarà un dolore immenso ma istantaneo o l’inizio del paradiso. Arrivo a casa quando mancano poco meno di dieci minuti al termine della partita di Perugia, recupero stimato compreso, chiudo tutte le finestre, riempio la vasca da bagno e mi immergo per non sentire nulla (dagli altri appartamenti del palazzo potrebbero arrivare voci e urla. Segnali in un senso o nell’altro). Per sicurezza faccio passare un paio di minuti in più del previsto e poi esco dalla vasca. Con addosso l’accappatoio alzo la tapparella del bagno e dalla finestra intravedo un presagio che mi fa schizzare il cuore: nel campetto della parrocchia si prepara una partita tra ragazzi, e uno di loro sta indossando la maglia della Juve. Ma lo fa lentamente, quasi controvoglia. Intuisco che potrebbe essere successo l’inimmaginabile, comunque non vado oltre il sogno dello spareggio. Accendo la tv e sullo schermo appaiono le immagini di alcuni giocatori della Lazio che, nella pancia dell’Olimpico, guardano come ipnotizzati in un piccolo schermo i secondi finali di Perugia-Juve. Il tempo si cristallizza e ancora oggi, a ripensarci, sento un brivido. E’ un attimo. Immenso. Campioni d’Italia! Un’ora dopo sono all’Olimpico, dove hanno spalancato i cancelli e la gente, ubriaca di gioia, ancora festeggia. Tornerò a casa poco prima dell’alba. “Siate tolleranti con quelli che descrivono un momento sportivo come il loro miglior momento in assoluto – scrive ancora Hornby -. Non è che manchino di immaginazione, e non è nemmeno che abbiano avuto una vita triste e vuota; è solo che la vita reale è più pallida, più opaca, e offre meno possibilità di frenesie impreviste”.

Veron: "Vent’anni fa io, Sensini e la radiolina. Fu uno scudetto da film". Parla il fuoriclasse della Lazio del 2000: "Quel giorno Dio ha fatto giustizia. Una giornata che è una sceneggiatura appassionante. Eriksson ci convinse a mettere da parte le ambizioni personali per puntare all’obiettivo comune". Giulio Cardone il 14 maggio 2020 su La Repubblica. Juan Sebastian Veron è stato la "luce" della Lazio del secondo scudetto di cui giovedì si festeggia il ventennale.

Il primo ricordo del 14 maggio 2000?

«Io e Nestor Sensini incollati a una radiolina, nella pancia dell’Olimpico, per seguire in apnea gli ultimi minuti di Perugia-Juve. Una situazione surreale, gente intorno con le lacrime agli occhi e i nervi a pezzi. Con l’Estudiantes mi è capitato di vivere le emozioni di uno spareggio, mai però potevo immaginare di vincere uno scudetto aspettando per un’ora il risultato dei rivali».

Molti suoi compagni erano davanti a una tv.

«Sì, ma io non ce la facevo. Troppa sofferenza, rischiavo grosso…».

Poi arrivò l’annuncio del radiocronista Cucchi: sono le 18.04 del 14 maggio, la Lazio è campione d’Italia.

«E fu il delirio. Penso spesso: con i telefonini di oggi, chissà quanti video spettacolari sarebbero venuti fuori. Però sa una cosa?».

Dica.

«Non festeggiammo come avremmo dovuto. Il giro di campo era previsto la sera al Circo Massimo, ma c’era troppa gente, non riuscimmo neanche a scendere dal pullman».

Se la sono goduta di più i tifosi.

«Quella è la cosa più importante, alla fine. Noi tre giorni dopo siamo andati a vincere pure la Coppa Italia, a Milano con l’Inter. Ci concentrammo subito sull’obiettivo successivo, ci sembrava normale: non ci siamo resi conto, lì per lì, di aver fatto la storia. E vent’anni sono passati in un attimo».

Si emoziona ancora, a ripensarci?

«Io sono sorpreso che non sia stato ancora girato un film sul 14 maggio 2000. Quella giornata è una sceneggiatura già scritta e appassionante. Forse le immagini potrebbero spiegare quello che le parole non riescono».

Il primo pensiero al fischio finale di Perugia?

«Che Dio aveva fatto giustizia. La domenica precedente, un gol regolare del Parma contro la Juve era stato annullato. Eravamo molto arrabbiati. E poi quello scudetto era meritato anche per altri motivi».

Cioè?

«L’anno prima io non c’ero, ma la squadra avrebbe già dovuto vincere il titolo, finito al Milan. È un club che ha sempre sofferto, la Lazio. Guardate adesso, una cavalcata favolosa e scoppia la pandemia: se si riparte, nessuno può sapere cosa accadrà. Vincere con la maglia biancoceleste vale più che altrove. Fu un’avventura unica».

Nata da un’intuizione di Mancini. Disse al presidente Cragnotti che se avesse acquistato Mihajlovic e Veron, sarebbe stato scudetto.

«Eravamo compagni alla Samp, ci eravamo ripromessi di giocare di nuovo insieme e iniziare un ciclo. Scommessa vinta. Mancini era un leader nato ed Eriksson un allenatore formidabile. Ha convinto i fuoriclasse di quella squadra a mettere da parte le ambizioni personali per puntare all’obiettivo comune. Sapeva coinvolgere tutti: anche chi restava fuori e magari si arrabbiava, poi entrava ed era decisivo. Come Almeyda e il Cholo, che all’inizio giocavano poco».

A Simeone, lei confezionò l’assist nella sfida cruciale con la Juve a Torino.

«Potevo solo tagliare il pallone in quel modo, è stato bravo lui nel movimento. Il gol della domenica prima, su punizione nel derby, mi aveva aiutato a ritrovarmi dopo un periodo così così. Ma avevo compagni straordinari, capivano di calcio e infatti quasi tutti sono diventati allenatori o dirigenti di successo».

Compreso Simone Inzaghi, centravanti di quella Lazio.

«La sorpresa più grande. All’epoca era molto giovane e non parlava mai di calcio. Piuttosto di donne (ride, ndr) o di altre cose, di calcio no. L’anno scorso sono andato a trovarlo a Formello, anche Peruzzi era d’accordo con me, ci abbiamo scherzato su: un’evoluzione fantastica la sua, ne sono felice. E tifo per lui». 

La Vecchia Signora affogata in una pozzanghera. Vent'anni dopo, Maurizio Crosetti ricorda quel giorno a Perugia in cui la Juve si lasciò sfilare uno scudetto già vinto. Maurizio Crosetti il 14 maggio 2020 su La Repubblica. Su tutti i muri di Perugia scintillava il sole anche dopo pranzo, e col sole negli occhi si andò allo stadio. Poi il cielo si opacizzò come se qualcuno ci avesse posato sopra una carta velina. La Juve quel pomeriggio era sicura, sicurissima di sé, eppure frastornata. Veniva da una settimana di accuse e sospetti. Aveva 2 punti in più della Lazio, protetti anche dal gol annullato pochi giorni prima a Fabio Cannavaro, futuro Pallone d’oro e campione del mondo bianconero: il gol di testa che il formidabile difensore aveva segnato al Delle Alpi, penultima di campionato, Juve-Parma, ma l’arbitro De Sanctis lo aveva giudicato irregolare per un presunto fallo dello stesso Cannavaro. Apriti cielo. E il cielo difatti si aprì, una settimana più tardi, rovesciando l’uragano. Era la Juve di Moggi e Giraudo. In quel torneo, Bergamo e Pairetto diventarono designatori arbitrali. Mai, la Lazio, avrebbe pensato di superare quella montagna ben più alta, a suo dire, dei due punti di distanza in classifica. Forse la Juventus era davvero stanca. Aveva cominciato la stagione in anticipo, per giocare e vincere l’Intertoto: oggi non la ricorda più nessuno. La primavera juventina fu un’altalena, più giù che su. Sconfitta dalla Lazio, caduta incredibilmente a Verona dove un suo ex giocatore, Cammarata, poi scomparso dai radar, le segnò una doppietta. Sulla panchina dei veneti c’era un altro ex bianconero, Cesare Prandelli. A Perugia si trattava di gestire un vantaggio non esiguo. La mollezza bianconera si vide già nel primo tempo. Zero a zero. Eppure l’attacco era meraviglioso: Zidane, dietro Pippo Inzaghi e Del Piero. Ma Inzaghi non segnava da otto settimane, mentre il fratello sarebbe andato a segno nel 3-0 conclusivo della Lazio contro la Reggina già salva, dunque paga. Calcio d’inizio alle ore 15, in contemporanea, ma per la Juve fu un inizio senza fine. A metà partita il cielo era già una lastra di ghisa. E nell’intervallo venne giù il diluvio universale. Quando si trattò di ricominciare la gara, un uomo senza capelli e con l’ombrello provò a far rimbalzare il pallone nella palude. Si chiamava Pierluigi Collina. Nel frattempo, Lazio-Reggina ripartì e regolarmente si concluse, mentre Collina attese fino alle 17,11 per dare il fischio d’inizio al secondo tempo, dopo oltre un’ora di stop. La Juve era frastornata. Il più juventino di tutti, cioè il capitano Antonio Conte, provò a convincere l’arbitro. «Dài, così non si può, così non è calcio». Ma la pioggia era cessata, l’erba aveva assorbito quasi tutta l’acqua e insomma si doveva riprendere. C’erano timori per l’ordine pubblico e per gli altri inevitabili sospetti che una decisione controversa, su richiesta dalla Juventus, avrebbe scatenato. La Juve avrà sbagliato, quel giorno, almeno dieci gol, forse quindici. Del Piero era ancora in cerca di sé stesso: si sarebbe mai ritrovato, dopo il terribile infortunio al ginocchio di molti mesi prima a Udine? L’allenatore Ancelotti lo aspettò come si aspetta un figlio, o il messia. Forse non aveva scelta. E non aveva un portiere diverso da Van del Sar. In compenso, già allora, lo tallonava una specie di maledizione da scudetto: ha vinto in mezza Europa, Carletto, però in Italia mica tanto. Poi arriva questa punizione per il Perugia, lunga, tesa, dalla fascia sinistra. Un pallone che sembra gonfio d’acqua quando si abbatte sulla testa del più juventino di tutti, Antonio Conte il capitano, che però schiaccia male di testa e lo consegna al piede destro di Alessandro Calori, capitano lui pure ma dell’altra armata, che non pensa e tira. Il portiere olandese vedrà quella palla picchiare una volta sull’erba, come un ciottolo mandato a rimbalzare sull’acqua da un ragazzino, e poi infilarsi in porta nell’angolino. E la Juve, mai arrivata, non arrivò. Attaccava senza costrutto, insisteva con poco giudizio, come avviluppata da un destino gramo. Si sbracciava Carletto Mazzone, il romanista, sulla panchina del Perugia, per arrivare a porgere lo scudetto ai laziali. Quanti incroci anche beffardi, su un campo di pallone. Pure quando il campo sembra una pozzanghera. E se per anni non si è mai smesso di parlare del gol di Turone, del fallo di Iuliano su Ronaldo, della rete annullata a Cannavaro, del pallone parato da Buffon dentro la porta di San Siro, traccia assai più debole ha lasciato quella nuvola di Fantozzi sulla testa della Signora a Perugia, per una volta danneggiata dal fato, dalle nuvole, forse da chi decise che quella partita andava conclusa a ogni costo, anche dopo una sosta infinita che non poteva non incidere sulle gambe e sulle teste dei calciatori. Un campione come Zambrotta si fece espellere per doppia ammonizione dopo 6 minuti, lui che era entrato al 66’ al posto di Pessotto. Non servì a nulla l’ingresso estremo della punta in più, Esnaider. Esnaider: chi era costui? Eppure, in quel giorno di tregenda bianconera, nel pomeriggio della più incredibile sconfitta di tutta la sua storia italiana, dentro la Juve accaddero due cose bellissime. La prima: le parole di Ancelotti, negli spogliatoi. «Brava la Lazio che ha fatto un punto più d noi, onore al merito». La seconda, quando Pessotto con la Juve in svantaggio si vide assegnare una rimessa laterale e favore, ma disse all’arbitro «l’ho toccata io», e dunque la rimessa passò al Perugia. Andrebbe ricordato anche questo, quando si racconta della Vecchia Signora. La Juve che un giorno, e non soltanto per propria colpa, affogò in una pozzanghera.

Da leggo.it il 13 maggio 2020. Cara Lazio, forse lo sai già, ma con te ho vissuto gli anni più belli della mia vita. Tre stagioni e mezza che non dimentico, sempre al massimo, senza rimpianti. Tutte, anche l'ultima non conclusa. E non è certo un mistero se ripeto adesso, nei giorni del ventesimo anniversario dello scudetto del 2000, che quella squadra che vinse il titolo italiano è la più forte che abbia mai allenato. Quando firmai con Cragnotti nel 1997 vidi nei suoi occhi, in quelli dei dirigenti, dello staff tecnico, dei giocatori un'immensa voglia di vincere. Anno dopo anno la squadra divenne sempre più forte, fino al capolavoro dello scudetto. Per me lavorare alla Lazio è stato come lavorare a casa. Quella era proprio casa mia. Non vi ho mai detto che effetto fantastico faceva sentire il mio nome cantato all'Olimpico dai tifosi. Abbiamo vinto tanto, tra scudetti e coppe, e non ho mai pensato che qualcuno avesse più merito di altri nei nostri successi. Eravamo un gruppo. Ringrazio tutti, questa è una buona occasione per farlo. Soprattutto i tifosi, magnifici. Sappiate che seguo ancora la Lazio e che, prima di questo drammatico periodo della pandemia che ha fermato tutto, la squadra di Simone Inzaghi mi è sembrata davvero la più forte della serie A. Vi abbraccio idealmente tutti. Siete stati voi i grandissimi, immensi come il cielo biancoceleste. Allora come oggi posso dire che è stato tutto troppo bello.

Calori e la maledizione di quel gol: ''E pensare che tifavo per la Juve...'' Il difensore del Perugia, che ora fa l'allenatore, ricorda quel pomeriggio che decise proprio lui. ''Ho fatto tanto in carriera, ma si parla solo di quell'episodio''. E sulla pioggia: "Sembrava la fine del mondo, 75' fermi, la partita andava sospesa" Luigi Panella il 14 maggio 2020 su La Repubblica. La vita compressa in un attimo. Giuliano Sarti ha giocato con Fiorentina, Inter, Juventus e Nazionale. Ha vinto tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due coppe Intercontinentali ed una Coppa delle Coppe. Eppure nella memoria collettiva c'è la palla più innocua del mondo che gli sfugge dalle mani in un pomeriggio mantovano del 1967, facendo perdere all'Inter uno scudetto praticamente vinto. Il Milan del 1973, quello della stella che poi stella no fu, ha vinto la Coppa Italia battendo la Juve, la Coppa delle Coppe piegando dopo una battaglia il 'cattivo' Leeds del 'cattivo' Don Revie, ma viene ricordato per il 5-3 nella fatal Verona che gli costò il decimo titolo. Alessandro Calori ha giocato con Pisa, Udinese, Perugia, Brescia e Venezia. Come allenatore ha guidato una decina di squadre, eppure... Quattordici maggio 2000: Perugia-Juventus 1-0, Calori al 50', uno scudetto che sembra juventino vira verso la Lazio. ''Ancora vogliamo parlare di quel gol! Penso di aver fatto parecchie cose nel calcio, è incredibile che venga ricordato sempre e solo per quello''.

Mica è colpa nostra se i muri di Roma sono ancora dipinti di grazie Calori...

''Lo immagino, del resto le radio laziali mi chiamano sempre. E anche i tifosi quando organizzano degli eventi non si dimenticano mai di me''.

E non è contento?

''Da una parte fa piacere. Chissà quanti vorrebbero avere il mio ruolo in questa storia. Dall'altra però sminuisce il resto. Insomma, questo gol se non proprio una condanna, rappresenta quanto meno una rottura...''.

Ma torniamo a quel 5' del secondo tempo. Se le ricapitasse quel pallone?

''Sono sempre stato un professionista corretto e segnerei di nuovo. Però certo, far perdere uno scudetto alla Juve... Io, juventino cresciuto nel mito di Gaetano Scirea''.

Riavvolgiamo il nastro di qualche giorno indietro. Voi salvi, Juve famelica: vi sentivate vittime sacrificali?

''Si è detto tanto in questi anni, ma mentre c'erano polemiche tra Juve e Lazio per il gol non dato a Cannavaro (che all'epoca era nel Parma, ndr) a Torino, la settimana che portava all'incontro per noi fu all'insegna del relax. Non avevamo niente da chiedere al campionato. Vero, vincendo avremmo conquistato l'Intertoto, un torneo per accedere in Coppa Uefa, ma non c'era alcuna pressione''.

Si disse che Luciano Gaucci però vi caricò come molle.

''Il presidente era un personaggio vulcanico, caricava sempre la squadra, in qualunque partita''.

E poi in panchina c'era un certo Carlo Mazzone, uno poco disposto a convenevoli.

''Sor Carletto era uno spettacolo continuo. Diceva sempre 'Me devono dà la scudetto degli onesti, me so sempre comportato da omo coretto' (ride e sfoggia un dialetto romanesco, risultato simile a quando Celentano al cinema faceva 'Er più', ndr)''.

Ma quel giorno Mazzone fece qualche raccomandazione particolare?

''No, ci disse di andare in campo e fare la nostra partita''.

Ad inizio gara la Juve spinse a tutta.

''Sì, mangiandosi un sacco di gol. In particolare Filippo Inzaghi, uno che non sbagliava mai, la porta quel giorno non la vide  proprio''.

Poi l'intervallo e la pioggia.

''Pioggia? La fine del mondo direi. Il sottopassaggio che portava al campo sembrava un fiume. Siamo stato un'ora e un quarto chiusi in spogliatoio ad aspettare, cosa non semplice: né fisicamente né psicologicamente. Noi aspettavamo senza patemi la decisione se riprendere, la Juve invece non voleva più giocare. E Collina stava al telefono, penso a parlare con il Nicchi dell'epoca, per capire il da farsi...''

La Lazio intanto aveva vinto la sua partita. Ed alla fine si giocò.

''Ma onestamente va detto la gara andava rinviata. Dopo 75' di sospensione, nonostante il campo avesse tenuto in modo accettabile, non c'erano più le condizioni per giocare''.

Lei segnò subito, e per la Juve fu il panico.

''Si fecero prendere dalla foga, inoltre Zambrotta fu espulso e restarono in dieci. Poi la stanchezza prese il sopravvento. Avevano cominciato a luglio dell'anno prima con l'Intertoto".

Alcuni di voi, Materazzi su tutti, difesero con le unghie la vittoria.

''Materazzi è Materazzi, se sposa una causa lo fa fino in fondo...''.

Calori adesso fa all'allenatore. Quest'anno a Terni non è andata granché. Programmi?

''Mi rifaccio all'insegnamento di Mazzone. Non voglio regali da nessuno, mi piacerebbe però prendere una squadra X, piccola, e portarla in serie A''.

Facciamo un gioco. La squadra X da lei allenata è già salva, ed all'ultima giornata riceve la Juventus a caccia dello scudetto.

''Facciamo che è meglio di no. Ho già dato''.

Gabriele Romagnoli per Il Venerdì – la Repubblica il 9 ottobre 2020. Ogni tempo produce diverse regole e almeno un’eccezione. Le prime servono per spiegarlo, ma è con l’ultima che lo si può raccontare. L’anomalia, che solamente lì ed allora sarebbe stata possibile, contiene l’esplosione e il tramonto di un’epoca. Negli anni Settanta una delle più evidenti fu una squadra di calcio: la Lazio. Quella di Chinaglia e Wilson, con Maestrelli in panchina e Lenzini alla presidenza. Un’intrusa al ballo. Chiunque si sia inserito tra Juventus, Inter e Milan ha conquistato le simpatie del resto d’Italia: dal Cagliari al Verona, alla Sampdoria. La Lazio no. E non soltanto perché era una squadra della Capitale. Perché era quella cosa lì, irripetibile, con il senno di poi ancor più impossibile. Eppure fu. E vinse. Non fu il successo a connotarla, fu la sua stessa esistenza: un esperimento chimico che avrebbe dovuto portare all’esplosione secondo qualsiasi libro di testo, invece stabilì un equilibrio tra elementi incompatibili. Quel tempo fu l’ingrediente chiave, un attimo dopo non sarebbe potuto accadere, infatti un attimo dopo tutto svanì.

IL CENTRAVANTI COL FUCILE. Le situazioni straordinarie lasciano tracce nella cronaca, si nobilitano nella memoria e contengono in sé il nocciolo del romanzesco come pretesa. È a una versione narrativa che demandano la propria rappresentazione, cercando al contempo libertà e accuratezza. A quella impossibile Lazio dedica un romanzo Angelo Carotenuto, firma di queste pagine. La copertina è già una manifestazione d’intenti. Il titolo, Le canaglie, allude a una caratteristica, diversamente leggibile (simpatiche canaglie, canaglie e basta), della maggior parte dei protagonisti. La foto ritrae Giorgio Chinaglia con maglia, pantaloncini, scarpini slacciati e un Winchester tra le mani, sullo sfondo di uno spogliatoio scaciato. La scattò Marcello Geppetti, l’uomo che riprese la dolce vita e quella Lazio, a cui è ispirato il personaggio del fotografo che fa da voce narrante.

LA METÀ OSCURA DI ROMA. Le Canaglie sono una capsula del tempo. Mentre leggevo ho annotato i richiami dell’epoca, via via che riecheggiavano. Alti e bassi, in ordine sparso e confuso come si era: il referendum sul divorzio, il tuca tuca, l’assalto alle Olimpiadi di Monaco, Inardi a Rischiatutto, l’austerity, il colera a Napoli, i morti di Primavalle, il Rex di Fellini per Amarcord, l’omicidio di Pasolini. E buongiorno notte: poi sarebbe stato ucciso Aldo Moro e tutto quel rumore di fondo anziché una rivoluzione avrebbe prodotto fughe in India o nella droga, tv commerciale e restaurazione all’aperitivo. Carotenuto ha svolto un lavoro di ricerca durato quattro anni. Se cita la voce di Ameri alla radio gli fa dire le esatte parole. Lo stesso per Vespa al telegiornale. Sono ricreati ma credibili anche i dialoghi dei calciatori. La prosa che li accompagna è andata alla ricerca di un linguaggio perduto. Diceva Sordi: «Di romanesco esistono solo i carciofi». Ma il romano è una lingua da reinventare. La storia si svolge tra l’autunno del 1971, quando la Lazio delle canaglie è ancora in B, e l’inizio del 1977, quando si dissolve. Sarebbe sbagliato pensare che lo scudetto sia il punto chiave. Quello è un incidente, uno sviluppo che mette sotto i riflettori uno spettacolo che si svolgeva comunque, nell’ombra che sempre avvolge metà di Roma, mentre tutti guardano il sole. Ancor più limitante sarebbe credere che si tratti di un romanzo sul calcio. Non c’è un dribbling, si affronta la realtà. I veri temi sono altri. Essenzialmente tre: il conflitto, la perdita, la fine.

FIGLI DI MAESTRELLI. Il conflitto era il comune denominatore di quel periodo, così intenso da farsi epoca. Sì o No. Rossi o neri. Con lo Stato o con le Br. Lo si risolveva nella lotta, prevalentemente nel sangue. Non c’erano mediazioni. Non affioravano soluzioni di interesse comune. Spranghe, molotov, pistole. Cancellazione dell’idea avversaria. Nella Lazio accadde l’incredibile: due mondi diversi e opposti trovarono un’orbita comune. Due clan dichiarati invece di cercare l’eliminazione l’uno dell’altro collaborarono, per forza, per necessità, ma anche per una sottesa forma di rispetto che nasceva proprio dalla mancanza d’ipocrisia, dal non aver mai fatto finta di essere alleati. Roma divampava e la Lazio faceva del proprio fuoco brace, evitava l’incendio. Riconosceva il principio che tutto accende: il padre, Tommaso Maestrelli, che di quella sua arte di tenere tutto insieme pagherà il conto con il male che accoglierà dentro di sé. La perdita era il destino, familiare a tutti. La perdita nei roghi di periferia accesi per odio indeterminato. La perdita delle figlie che una sera non tornavano a casa e non si ritrovavano mai più. La perdita del genitore, che si spegne inevitabilmente dopo aver tentato il miracolo laico della resurrezione di sé e dei suoi ragazzi. La perdita inimmaginabile del ragazzo che scherza con il fuoco, se mai è davvero per questo che morì Re Cecconi. Tutto così rapido, feroce e incolmabile. La felicità passa, il dolore resta. Lo scudetto è un trionfo transitorio, un autobus che scarica in fretta. Sembrano tutte, le canaglie, Dustin Hofmann nella scena finale del Laureato. Si è ripreso la ragazza, si guardano: e adesso? Lo domanda Martini a Pulici, la sera della vittoria: «E adesso, Felice, che facciamo?». Tra l’illusione di Re Cecconi («Avremo vent’anni per sempre») e il sogno di un tifoso sdentato («Vorrei che stasera nessuno morisse») affiora, nel vuoto che già si crea intorno, una constatazione amara: «lo scudetto sta slittando nel gelo della storia». Poi la calotta si richiude. Non resta che la fine. Quegli anni la segnano per un calcio che i ragazzi nati dopo non hanno mai conosciuto e neppure immaginano. Non solo dentro, ancor più fuori dal campo. Il calcio dei sacerdoti al seguito. Dei calciatori al cinema come gli altri spettatori. Delle fughe dal ritiro con le lenzuola annodate. Così comuni e mortali che morivano davvero. Tra tutti i momenti in cui finisce quel mondo, ognuno ha in testa il proprio. Scelgo questo, a pagina 238: quando (è il primo luglio 1974) i calciatori ottengono di poter apparire a Carosello facendo pubblicità: Mazzola a un cioccolato, Boninsegna ai mobili, Zigoni ai biscotti. Dopo è quasi inevitabile si arrivi alle mutande di Cristiano Ronaldo, alle storie Instagram della famiglia Icardi e alla rasatura da bomber, in qualunque cosa consista. Non bisogna mai confondere la memoria con la nostalgia, il retrovisore inganna, l’occhio no: la politica non era affatto migliore, il calcio eccome.

UN AMORE COSÌ GRANDE. Le canaglie collezionano aneddoti oggi irripetibili: il presidente chiuso in bagno dall’allenatore nell’ultima ora di mercato per evitare gli venda il centravanti, gli attori famosi e il figlio di un presidente che si mettono in coda per partecipare alla partitella/corrida del venerdì, l’auto del dottore spinta sul fondo della piscina dell’albergo. E la moglie dell’allenatore che cucina, la sera, per tutti. Ecco, a Lina Maestrelli va l’Oscar da non protagonista. Come a Judi Dench, le sono bastati 8 minuti. La scena è nella camera della clinica dove il marito si sta spegnendo. Lei gli chiede l’autografo. Lui pensa sia impazzita. «Perché a me no? Fai gli autografi solo alle tue ammiratrici? Io ti ammiro da trent’anni». Lui scrive: «A Lina, non ancora di me stanca». Poi si vede allo specchio e capisce che sta finendo, che la storia ha esaurito la pazienza per le eccezioni.

Lazio Campione d'Italia. Italia campione di nulla nel Paese delle "Canaglie". Nel romanzo di Angelo Carotenuto una squadra di balordi domata da un vero maestro di vita nei terribili anni Settanta. Daniele Abbiati, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Intanto che «illuminavano nei bidoni il fuoco le mignotte», «Roma si sta svegliando con una certa strafottenza». «La cordalenta del lungotevere indifferente a tutto» saluta un nuovo giorno dell'autunno 1971. A questo punto, il lettore ha già capito che Le canaglie (Sellerio, pagg. 354, euro 16) di Angelo Carotenuto è anche un libro di scrittura, che rimanda all'attore e poeta dialettale Pippo Tamburri, il Petrolini dell'Ottocento, alla ricercatezza barocca di Gadda, alla prosa scabra e rugosa di Pasolini, al ritmo sceneggiante di Sciascia. E se ne compiace, il lettore, perché di libri scritti ha gran bisogno, in mezzo a tanti libri semplicemente pubblicati. In copertina, ci sono tre uomini. Un pischello s'affaccia dalla porta di uno spogliatoio e guarda un omone con in mano un fucile. L'omone è Giorgio, detto «er Gobbo», e accanto ai suoi piedoni nelle scarpe da calcio non ancora allacciate ci sono altre scarpe da calcio, quelle dei suoi compagni-camerati, tutte in fila per due. Su una panchetta, il barattolo con il grasso e la spazzola, per lucidarle. E il terzo uomo? Non si vede, ma c'è. È quello che ha scattato la foto. Si chiama Marcello Geppetti e dopo le stelle della Dolce vita, all'inizio dei Settanta ritrae il buio della cronaca nera e i colori del calcio, pieno di zone grigie. Nel romanzo di Carotenuto, Geppetti mantiene il nome ma cambia il cognome in Traseticcio, che in lingua napoletana sta per «persona che s'intromette nelle faccende altrui», proprio come fanno i paparazzi. A pagina 104, lui, voce narrante, afferma: «Una fotografia è il resoconto di un'attesa. Bisogna vestisse de silenzio per andarle incontro. Una fotografia ci sceglie. Gli occhi li tenemo tutti, ma l'immagine di un istante se concede a una persona sola». Nella «Nota» finale, l'autore dice che «parla spesso citando alla lettera e rielaborando pensieri e riflessioni di Cartier-Bresson, Sebastião Salgado e altri grandi fotografi». Ma chi sono Le canaglie? Canaglia suona bene per Chinaglia, proprio quel Giorgio là, e per i suoi amici e nemici, dentro e fuori quello spogliatoio là. Il sostantivo compare due volte in tutto il libro, sul finire. Maggio 1976, Tommaso Maestrelli, «er Tiepido», allenatore e maestro di vita, «il nostro strumento di misura morale», dirà il portiere Felice Pulici quando, meno di sette mesi dopo, il mister morirà, si rivolge a Luis Vinício che l'ha sostituito sulla panchina della sua Lazio: «Se con i miei ragazzi entri in armonia, vedrai, ti prenderanno l'anima. Sono canaglie, ma simpatici». Inizio gennaio 1977, Luciano Re Cecconi, «er Biondo», parla a Marcello, fingendo di dubitare della sua fede calcistica: «Se alla prossima partita ti vedo in campo, sei laziale. Se non ti vedo, sei una canaglia». Lui, il motore perpetuo della squadra, in campo non ci sarà, per colpa di una burla sfociata in tragedia. La fine di Luciano, ucciso pochi giorni dopo dalla «legittima difesa putativa» di un gioielliere, come sentenzia il tribunale, è anche l'epilogo del romanzo, l'ultima vittima di tanta violenza talmente reale da generare quella presunta. Il calcio, Roma, l'Italia, gli anni di piombo, il terrorismo: Carotenuto ci offre un grumo rappreso di pochi anni e tanti fatti, un paesaggio che abbraccia il verde spelacchiato di Tor di Quinto, laboratorio di rivalità e contrasti dove nacque la Lazio Campione del '74, il rogo di Primavalle, l'assassinio di Vittorio Occorsio, le fisime e le topiche degli intellettuali che sdottoravano sugli opposti estremismi, l'Austerity, i padri spirituali delle squadre, le femministe, le giornaliste, i papponi del calciomercato, la strage di Piazza della Loggia. L'autore, insaporendo il suo dire con l'argot dell'alter ego di Geppetti (che nacque a Rieti nel '33 e morì a Roma nel '98), cui infligge due drammi familiari in linea con lo spirito del tempo, resta fedele alla cronaca, anche perché quella cronaca era già un romanzo criminale, anzi canagliesco. Torniamo alla foto, a Giorgio che tiene il fucile e lo guarda come un bambino guarderebbe un pallone di cuoio che gli hanno appena regalato. Che cosa ci fa, un fucile nelle mani di un calciatore? Allora è normale, nella Lazio e non solo, un sottoprodotto della violenza reale che sta nelle strade e nelle piazze e che, come abbiamo detto, genera la violenza presunta, minacciata con l'arroganza di chi ha paura. Il capo biancoceleste è lui, il bomber, in ticket, diremmo oggi, con Pino Wilson, «il Baronetto», il capitano. Nell'autunno del '71 da cui siamo partiti, la Lazio è in serie B, e per risalire il presidente Umberto Lenzini si affida a Tommaso Maestrelli, proveniente dal Foggia. Dal Livorno, invece, arriva un centrocampista di calibro medio-basso, tale Luigi Martini. E da lì scocca la scintilla. Martini, l'uomo che ben presto in tutti gli stadi i tifosi avversari chiameranno «fascio di merda», riciclato da Tom come terzino sinistro, dà una scossa allo spogliatoio, mettendosi da subito in urto con i due Gracchi e creando un clan alternativo. Nella stagione successiva, in seria A, il seme della discordia inizia a dare buoni frutti, perché arriva dal Foggia, ovviamente su richiesta di Tom che lo conosce benissimo, il panzer di Nerviano, Luciano Re Cecconi, che con Martini ha fatto il militare... Arrivano anche Petrelli scartato dalla Roma, Frustalupi («distributore di opportunità e risorse come un acquaricciaro») scartato dall'Inter, il terzo Mazzola, Ferruccio, che torna dal prestito alla Fiorentina, dal Como s'affaccia Renzo Garlaschelli («un reverendo del puttanesimo», leggi donnaiolo incallito), e dal Novara un portiere di classe, Felice Pulici. Terzo posto. Per il primo, basta aspettare la primavera del '74, il 12 maggio per la precisione, giorno del referendum sul divorzio, quando «er Gobbo» mette un rigore nella porta del Foggia e la Lazio, «dopo 74 anni, 4 mesi, 3 giorni e 90 minuti dal giorno in cui è nata», diventa Campione d'Italia. Il resto dell'Italia, invece, non è campione di nulla. È ostaggio delle Br e di sé stessa, si fa del male e finisce di dilapidare i crediti acquisiti con il boom economico. Il 2 novembre dell'anno successivo perderà Pier Paolo Pasolini, ed esattamente 13 mesi dopo PPP un altro «comunista» vero o presunto, un altro profeta inascoltato, Tommaso Maestrelli, unico pacificatore fra tante canaglie. «Nessuno - gli fa dire Carotenuto - può resistere alla sincerità e alla buona fede: nemmeno quelli in malafede. I semplici promettono di meno ma mantengono di più».

La meglio gioventù bianoceleste nell'Italia del boom: il romanzo dello scudetto 1974. Marco Ruffolo su La Repubblica l'8 gennaio 2020. L'entusiasmo di un Paese invaso da televisori, auto e lavatrici. Ma anche della grande migrazione verso Nord di chi cerca lavoro. A partire da quel lontano 1961, anno d’oro del miracolo economico e anno nero della Lazio che retrocede per la prima volta in B. Un periodo complesso per i tifosi della Lazio, alla vigilia del primo, indimenticabile scudetto. Lui è l’unico in tutto lo stadio che resta fermo, quasi accasciato sulla panchina. Si lascia abbracciare dagli altri senza fare nulla, senza dire nulla. Un solo gesto: si passa due volte le mani tra i capelli, poi lentamente si alza e si gira a raccogliere la sua giacca di lana a quadretti, paradosso scaramantico nella calura di quel 12 maggio 1974. Alle diciassette e quarantacinque l’arbitro Panzino ha fischiato la fine della sfida con il Foggia. La Lazio di Tommaso Maestrelli è campione d’Italia. In quei gesti trattenuti dell’artefice del miracolo, mentre tutto intorno è il delirio, nella commossa serietà della sua espressione, c’è tutto il peso consapevole di un’attesa che dura da tre quarti di secolo, c’è soprattutto il riscatto di una squadra che esattamente tredici anni prima ha toccato il fondo. Da lì, da quel lontano 1961, anno d’oro del miracolo economico e anno nero per la società biancoceleste, retrocessa per la prima volta in B, parte la nostra storia. Il flashback spalanca le porte su un’Italia che non conosce ancora le paure, gli scontri e insieme le conquiste civili degli successivi anni Settanta. E’ l’Italia del boom. La ricchezza cresce a un ritmo dell’8%; una valanga di auto, televisori e lavatrici investe le famiglie italiane. Si tocca con mano l’entusiasmo di chi sta assaporando per la prima volta i frutti di un lavoro durissimo, che parte dalla ricostruzione di un Paese distrutto dalla guerra e finisce per proiettarlo tra le nazioni più industrializzate. Certo, con la ricchezza arrivano anche gli squilibri di una crescita lasciata a se stessa, il divario tra Nord e Sud, il diluvio di valigie di cartone che inonda Milano e Torino: un’immigrazione interna mai vista in passato. Ma la neonata stagione del centrosinistra alimenta le speranze che quegli squilibri prima o poi saranno superati. E l’arrivo di Kennedy in America dà il benestare alla nuova stagione politica italiana. Ogni aspetto della vita sociale si sintonizza sulle lancette del boom. Anche le fortune calcistiche dei primi anni Sessanta seguono le orme del miracolo economico, concentrandosi sulla direttrice Milano-Torino. Il dominio del Nord nel calcio è totale. La Lega è nelle mani di Angelo Moratti, Andrea Rizzoli e Gianni Agnelli. Le loro squadre – Inter, Milan e Juve – monopolizzano il campionato. Il Centro-Sud non ha le risorse per entrare nella corsa al vertice. Così, mentre nel 1961 la Juventus vince il suo dodicesimo titolo, la Lazio, già commissariata e con le casse a secco, scivola in B. Neanche un mito come Fulvio Bernardini riesce a risollevarla, e dopo sette sconfitte e due pareggi viene sostituito. Nella serie cadetta la squadra resterà due anni. E’ un periodo in cui personaggi inquietanti, dalle finanze oscure e dal passato politico ancora più nero, gravitano intorno alla Lazio. Nel ’63, per cinque mesi, la società cade nelle mani di un sedicente produttore cinematografico, consigliere comunale del Msi, ex brigatista nero al seguito di Pavolini e braccio destro (pare) del dittatore cubano Batista. E’ Ernesto Brivio, 'l’ultima raffica di Salò', come ama definirsi il neopresidente. Che all’inizio diverte per le sue stravaganze, come la promessa di far giocare almeno una volta in squadra il tennista Nicola Pietrangeli e l’attore Maurizio Arena. O come quel cucciolo di leone che porta al guinzaglio per le vie di Roma. Pochi mesi dopo essere stato misteriosamente ferito alla mano con un colpo di pistola, Brivio viene cacciato dai consiglieri della società e dagli stessi tifosi. Partirà in tutta fretta per il Libano dove verrà arrestato per bancarotta fraudolenta, condannato e poi prosciolto in appello. Solo la sagacia e la determinazione dell’istrionico Juan Carlos Lorenzo, chiamato ad allenare la squadra dallo stesso Brivio, consentiranno alla Lazio di tornare in A. Lo stesso anno, intanto, Inter e Milan si dividono scudetto e Coppa dei Campioni. Tecnico navigato e preparato Don Juan: i biancocelesti lo incroceranno più di una volta lungo il loro cammino, nel bene e nel male, accettandone l’ossessiva ritualità scaramantica (quella che lo portava a bruciare le divise dei giocatori dopo le sconfitte); tollerando la stravaganza dei suoi allenamenti (con il terzino Zanetti costretto a rincorrere una gallina sul campo di Tor di Quinto); mettendo in pratica i suoi trucchetti per distrarre gli avversari, come le finte risse. Dopo la partenza dell’unico gioiello della squadra, il Gaucho Morrone, e i mancati acquisti di valore, Lorenzo si vendica con il tradimento più clamoroso e passa nella stagione’64-65 ad allenare la Roma, dove sarà ricordato solo per la 'colletta del Sistina', un grottesco tentativo di finanziare una trasferta con i soldi chiesti al pubblico del teatro romano. Anche i cugini, infatti, pur evitando la B, se la passano piuttosto male, e come i biancocelesti navigano nella parte bassa della classifica. La Capitale dei palazzinari, dove il miracolo economico non può venire dalle fabbriche e i soldi arrivano a singhiozzo solo dal cemento o dal cinema, condanna le due squadre a una doppia povertà di talenti e di finanze. Povertà che non può che partorire derby letteralmente inguardabili per la loro bruttezza. La Lazio va a tentoni: nessun progetto, solo promesse e toppe cucite in extremis su un vestito ormai logoro. Ma in quel 1965, mentre l’Inter si prepara a vincere il suo triplete (scudetto, Coppa dei Campioni e Coppa intercontinentale), qualcosa di nuovo avviene: Umberto Lenzini diventa presidente della Lazio. Non che questo sia il preludio di una immediata resurrezione. I soldi sono ancora pochi, ma la serietà e la passione del Sor Umberto sono un ottimo biglietto da visita. Negli anni successivi gran parte del suo patrimonio finirà nelle casse esangui della società. Americano di nascita, a tredici anni arriva in Italia con la famiglia, che ha fatto una discreta fortuna in Colorado. E che ora comincia a comprare terreni su terreni a Roma. Poi qualcuno convince Umberto e i suoi fratelli, non senza fatica, a investire nella Lazio. In occasione del deposito in banca del capitale sociale, il direttore dell’agenzia Bnl, laziale anche lui, lo ammonisce scherzosamente: “Dottor Lenzini, mi raccomando, non faccia come Lorenzo e il presidente della Roma, che noi laziali non ci vogliamo andare al Sistina”. La Lazio, tuttavia, dovrà subire per altre due volte la retrocessione: nel ’67 (dopo una drammatica partita contro la Juve che si cuce addosso l’ennesimo scudetto), e nel ’71. Dopo la prima bocciatura, sarà lo stesso Lorenzo, richiamato in gran segreto da Lenzini, a riportare subito la squadra in A. Quattro anni dopo sarà sempre lui, croce e delizia dei tifosi biancocelesti, a trascinarla di nuovo in B. Nel frattempo, però, grazie agli sforzi finanziari di Lenzini, la rosa della Lazio comincia a rafforzarsi. Prima con Massa, poi con Facco, Ferruccio Mazzola e Ghio. Quindi con due giovani interessanti presi dall’Internapoli: Giorgio Chinaglia e Pino Wilson. E ancora con Nanni, che viene dal Trapani. La sensazione è che il vento stia cambiando. E un vento ben più forte sta soffiando sull’Italia di quel fine decennio, già molto diversa dall’operoso e stabile Paese del boom. Il Sessantotto sgretola certezze e tabù, combatte luoghi comuni e ingiustizie dure a morire. Il profitto, il guadagno personale ma anche la stessa operosità di una generazione che ha ricostruito il Paese, non sono più valori in sé. L’economia cresce ancora, ma non più ai ritmi arrembanti di prima. E con l’offuscarsi dei miti del decennio appena trascorso – come le auto-icone di Dante Giacosa (600 e 500), l’Autostrada del Sole costruita in soli otto anni, la pubblicità garbata di Carosello – sembrano cambiare le prospettive anche sul rettangolo di gioco. A  cominciare proprio dal campionato ‘68-69: si spezza l’egemonia delle squadre-regine che avevano incarnato perfettamente lo spirito del boom. Moratti e Herrera abbandonano l’Inter, la Juve rallenta. Solo il Milan resta ai vertici conquistando la Coppa dei Campioni. Stanno emergendo nuove realtà sportive, e non più al Nord: la Fiorentina vincerà lo scudetto quell’anno, il Cagliari di Riva la stagione dopo. Ed è proprio Riva a trascinare l’Italia nella sua prima e unica vittoria dei Campionati europei. La Lazio della stagione 1973/74La rivincita dei piccoli del Centro-Sud è una ventata inattesa, ma non vede la Lazio protagonista. Lenzini si è illuso di aver quadrato il cerchio, ma tra il ‘70 e il ‘71 tornano a galla i soliti problemi di rosa. Ghio parte per Napoli, Chinaglia minaccia di andarsene, e alla fine è retrocessione. Tutto da rifare. Ma questa volta c’è un direttore sportivo con le idee chiare. E’ Antonio Sbardella, ex calciatore, ex arbitro: “Dottor Lenzini, prenda Maestrelli”. Nella stagione appena conclusa il suo Foggia ha rifilato cinque gol alla Lazio. Ma poi è retrocesso. Tommaso Maestrelli trova il gelo a Tor di Quinto. I giocatori si impegnano solo a tratti, Chinaglia rimpiange Lorenzo, i tifosi contestano il nuovo allenatore. “Lina – dice alla moglie – prepariamoci a fare le valigie, credo che tra poco torneremo a Bari”. Le valigie non le farà mai: a Roma costruirà il suo capolavoro calcistico e umano. Nell’estate del ’71 arriva Martini dal Livorno, torna Oddi dalla Massese. Metà squadra del futuro scudetto esiste già. E Tommaso detta il suo aut aut al Sor Umberto: senza Giorgio Chinaglia, chiesto da più di una squadra del Nord, non si fa nulla. Partita dopo partita, il gioco diventa sempre più spettacolare. Secondo posto in B e promozione, con i 21 gol di Giorgione, che fa il suo esordio in Nazionale segnando alla Bulgaria. Maestrelli decide di accompagnarlo nella sua prima avventura azzurra: dopo quel gesto, l’iniziale gelo da parte del centravanti si trasformerà in un affetto letteralmente filiale. Ciascun giocatore di quella Lazio, in realtà, è sorpreso dall’approccio schietto di un uomo che sa far convivere dentro di sé affetto e carattere. Per il ritorno in serie A, la rosa si arricchisce, grazie anche al sacrificio di Massa. Ma arrivano giocatori per lo più sconosciuti. Pulici dal Novara (il secondo portiere più battuto della serie B); Garlaschelli dal Como; Re Cecconi, allievo di Maestrelli, dal Foggia, Petrelli dalla Roma, D’Amico dalla Primavera della Lazio. Solo Mario Frustalupi, scartato dall’Inter, è un nome di un certo peso. La scommessa è temeraria. Lazio subito fuori dalla Coppa Italia e Maestrelli corregge in corsa l’assetto. Martini trasformato in terzino sinistro, Nanni arretrato a mediano. Garlaschelli più avanzato. C’è chi è convinto, a ragione, che la Lazio non giocherà mai così bene come nel suo primo campionato di serie A, tra il ’72 e il ’73, quando sfiora addirittura lo scudetto. E’ un calcio che l’Italia non ha mai visto, molto simile, sia pure con alcune varianti, a un modello che negli stessi anni Johan Cruijff e compagni stanno sperimentando nell’Ajax e nella nazionale olandese. La Lazio entra in campo all'Olimpico per la partita con il Foggia, che gli consegnerà lo scudetto 1973-74Verrà definito 'calcio totale': ciascun giocatore non deve mai restare nella propria posizione di origine e quando si sposta deve essere immediatamente sostituito da un compagno, in modo da non squilibrare la disposizione tattica dell’intera squadra. Il risultato è un movimento continuo che spiazza gli avversari, che non dà punti di riferimento. "Panturbiglione", lo definirà polemicamente Gianni Brera che preferiva di gran lunga il gioco all’italiana a quella “giostra ineffabile”, a quella “girandola arrembante”. Il gioco della Lazio era per Brera una “eresia podistica”, un dispendio fisico suicida. Ma che intanto funzionava e non scopriva affatto la difesa, per due anni di seguito la migliore del campionato. Tante le novità tattiche: due terzini (Martini e Petrelli) che oltre a marcare spingono sulla fascia e crossano per le punte; un regista arretrato (Frustalupi); un centravanti (Chinaglia) che pressa il primo portatore di palla. Il risultato è una scintillante coreografia tutta corsa e intelligenza. Ma non finisce qui il contributo di Maestrelli. Quel miracolo calcistico, già sotto gli occhi di tutti, nasconde in realtà una paziente e faticosissima costruzione sotterranea che con le tattiche di gioco non ha nulla a che fare. E’ il vero capolavoro umano di Tommaso Maestrelli: condurre undici teste calde, undici “scalmanati deficienti” (come li ricorda il più giovane di loro, Vincenzino D’Amico) - spaccati in due bande rivali e con due spogliatoi rigidamente separati - a unirsi in un unico organismo pensante, compatto e organizzato, dove gelosie, spavalderie ed egoismi cedono spazio, quando comincia la gara, ad una insospettata e invulnerabile solidarietà di gruppo. Maestrelli psicologo, a volte anche psichiatra, Maestrelli confessore, consigliere, padre, maestro di vita. Tra gli accostamenti cinematografici spesso utilizzati per definire quella Lazio, molti commentatori hanno fatto ricorso a film come 'Mucchio selvaggio', o 'Quella sporca dozzina'. Ma non sta nella condizione di partenza di quei giovanotti 'scapestrati' il tratto distintivo della squadra: il suo vero mistero è la trasformazione che investe quel manipolo di pazzi quando dagli allenamenti di Tor di Quinto o dai ritiri all’Hotel Americana si trasferiscono all’Olimpico o sui campi delle trasferte. Un’idea approssimativa di questa metamorfosi ce la dà uno dei più appassionanti musical degli ultimi decenni - 'The Commitments' - dove un improvvisato manager disoccupato riesce, sia pure temporaneamente, a fare di otto giovani sottoproletari dublinesi rissosi e strafottenti, gelosi l’uno dell’altro ed egoisti, una meravigliosa band che suona in perfetta armonia una trascinante musica soul. Lo stesso accade alla Lazio. Maestrelli non pretende di trasformare i suoi giocatori in undici ragazzi modello, ma punta a canalizzare la loro irruenza in energia positiva, e soprattutto fa di se stesso, del suo mettersi totalmente a disposizione dei ragazzi nella vita di tutti i giorni, il loro unico, ma fortissimo, comune denominatore. E’ lui che, durante i ritiri, sveglia Chinaglia tirandogli le coperte dal letto. E’ lui che per sei mesi lo ospita a casa sua per proteggerlo dalle minacce dei romanisti, inviperiti da quella corsa sotto la Sud con l’indice proteso, dopo un derby vinto dalla Lazio. Lui che sequestra patente e soldi al diciannovenne D’Amico che oggi apprezza il gesto: “Lo sapevo che era necessario per un tipo come me”. Lui che a Torino rifiuta cortesemente l’invito dell’Avvocato a guidare la Juve dopo lo scudetto: “Non posso certo abbandonare proprio adesso i miei ragazzi”. Lui che all’Olimpico contro il Verona, impedisce alla squadra, che sta perdendo, di entrare negli spogliatoi dopo il primo tempo, e la rimanda in campo, con il pubblico che a poco a poco capisce il senso della sfida e trasforma i fischi in un crescendo di incitamenti, con gli avversari che si preoccupano e vengono asfaltati nel secondo tempo. Ancora lui che vola in Germania per far da paciere quando Chinaglia manda a quel paese Valcareggi ai Mondiali. Sapeva, Tommaso, quando tirare le briglie. Ma anche quando lasciar perdere. Come quando i ritiri si trasformavano in un continuo tiro al bersaglio, contro alberi, lampioni o contro la lampadina della camera da letto, così, giusto per evitarsi la scocciatura di alzarsi per spegnerla. La corsa ad armarsi, che aveva contagiato molti di loro con tanto di fucili di precisione e revolver 44 Magnum, così come le simpatie di qualcuno per il Movimento sociale, sono state più volte raccontate accostandole, piuttosto forzatamente, al clima politico rovente dei quei primi anni Settanta. Quanto lontana appariva l’Italia del decennio precedente ora che la crisi petrolifera, con le sue domeniche a piedi e i cinema chiusi alle 23, stava mandando in orbita l’inflazione; ora che le bombe fasciste e i primi assalti delle Brigate Rosse stavano trasformando una parte della politica in un ring di omicidi. Come quello del commissario Calabresi. Ma nulla c’entrava questa plumbea atmosfera con le ribalderie infantili di undici calciatori, che di politica sapevano poco o nulla. E poi, non era tutto cupo e grigio il clima di quel decennio: la mattina dopo il trionfo biancoceleste del 12 maggio ‘74 l’Italia si sveglia scoprendo di essere molto più civile di quanto si potesse pensare, avendo detto no all’abolizione di una conquista come il divorzio. E in quegli anni molte altre conquiste civili e sociali saranno raggiunte. Quando il 13 maggio il telegiornale dà la notizia della vittoria dei No al referendum – ricorda  Franco Recanatesi nel suo bellissimo libro "Uno più undici" – Tommaso commenta rivolto alla moglie Lina: “Buone notizie”. Lui, ex partigiano, non dà troppo peso alle spavalderie paramilitari dei suoi ragazzi e non sopporta la strumentalizzazione politica che qualcuno vuol fare di loro. Che in fondo la politica non c’entri, che il loro sia solo un atteggiarsi un po’ spaccone e niente di più, lo capisce anche un leader comunista come Enrico Berlinguer, che non nasconde le sue simpatie per quella Lazio. A dispetto di chi la vuole dipingere come una emanazione romana dell’estrema destra, sarà proprio la Lazio l’unica squadra italiana a rifiutarsi di scendere in campo contro una dittatura fascista sapendo che perderà tre a zero a tavolino. Succederà nell’ottobre ’75 in Coppa Uefa in vista dell’incontro con il Barcellona: poche settimane prima il regime franchista aveva giustiziato cinque dissidenti. Il vero problema è un altro: quella squadra è clamorosamente spaccata in due. Da una parte i 'meneghini' come li chiama Chinaglia – con Martini e Re Cecconi in testa -, dall’altra i chinagliani. Mille volte ci sono state raccontate le sfide al calor bianco (altro che semplici partitelle) giocate in mezzo alla settimana tra le due bande rivali, con il loro non raro corredo di risse e insulti; con Giorgione che non ci sta a perdere e costringe Maestrelli ad allungare la sfida, illuminata solo dagli abbaglianti delle auto, fino a che non segna (un formidabile allenamento atletico per tutti). Con lo stesso Chinaglia che chiede al mister di non far giocare la domenica successiva Martini e Re Cecconi, e Maestrelli che annuisce e poi puntualmente li schiera tutti e due, come è ovvio che sia. Ma la domenica, ogni domenica, come d’incanto, risse e insulti cessano e si compie la metamorfosi, la nascita del più compatto collettivo della serie A, una coralità solidale dove ognuno dà man forte all’altro. Chinaglia in aiuto di Re Cecconi, Martini di Wilson, tutti pronti a vendicare vicendevolmente i falli di qualche avversario. Poi, finita la partita, ricomincia tutto da capo. A costellare l’anno dello scudetto, restano nella memoria moltissimi flash: i due derby vinti; la partita vinta furiosamente all’Olimpico contro la Juve con un sonoro 3 a 1; il gol di Re Cecconi al Milan a una manciata di secondi dal fischio finale; la rimonta trascinata dal pubblico contro il Verona. E tanti altri. Momenti di una storia che potrebbe durare ancora a lungo. “Ragazzi – dirà ai suoi giocatori il mister dopo i festeggiamenti nel ritiro di Pievepelago – cerchiamo tutti insieme di non perdere la fame e la rabbia, perché io la voglio giocare quella Coppa dei Campioni che ci è stata negata quest’anno”. Negata dopo la squalifica inflitta per quella 'caccia all’inglese' scatenata l’anno prima non dai tifosi ma dagli stessi giocatori della Lazio negli spogliatoi, alla fine della partita di ritorno con l’Ipswich, rovinata scandalosamente da un arbitro non si sa se più ubriaco o più filo-inglese. Sarà ancora scudetto nel 74-75? No. Quella storia che si preparava a scrivere il mister non andrà avanti. Ne andrà avanti un’altra che neppure il più struggente dei romanzi potrebbe uguagliare in sofferenza. Maestrelli scopre di avere un cancro incurabile. Da casa sua, arrampicata sulla collina Fleming, scruta con il binocolo gli allentamenti dei suoi ragazzi, che disperati sbandano in campionato. “Mister – gli dicono mentre fanno i turni in ospedale - noi senza di lei siamo un’armata Brancaleone, lo sa questo, vero?”. Poi improvvisamente una cura miracolosa lo rimette in piedi. Vuole addirittura leggere il coccodrillo che gli ha preparato Recanatesi: “Ben fatto”, gli dice. E incredibilmente torna ad allenare la squadra salvandola all’ultima giornata dalla B. “Provo la soddisfazione più grande della mia vita, maggiore di quella per lo scudetto”, dirà alla fine. Poche settimane e il male rialza la testa. Morirà il 2 dicembre 1976 a soli 54 anni, mettendo fine a un sogno che rapidamente precipiterà nell’incubo, quasi una maledizione, con la fine assurda di Luciano Re Cecconi e l’incidente mortale di Mario Frustalupi. Oggi nessuno dei suoi ragazzi rimasti, tutti più anziani di lui e stretti da una amicizia inscalfibile, riesce a trattenere la commozione nel ricordarlo. Resta impressa l’immagine del capitano Pino Wilson che, intervistato in una splendida trasmissione di 'Sfide', protende improvvisamente le mani per stoppare l’operatore televisivo perché non ce la fa più a parlare. Poi completa a fatica la sua testimonianza di affetto: “E’ come se il Padreterno avesse raggruppato tutte le doti migliori in questo uomo per fargliele esternare, e poi gli avesse tolto tutto all’improvviso…e questa è la cosa più brutta”. A più di quarant’anni da quel sogno troppo breve, ci ritorna alla mente l’immagine sobria e quasi anacronistica di lui immobile e muto in panchina mentre esplode l’Olimpico, l’immagine di un uomo che in silenzio si è messo a cambiare il calcio italiano ma che soprattutto ha dimostrato sul campo come le singole individualità, anche le più riottose e inconciliabili, possano essere condotte, con la forza dell’empatia e del sacrificio, ad accordarsi armonicamente fino a raggiungere un insospettabile e magico stato di grazia. Almeno per un po’. Una lezione di vita, prima ancora che di calcio.

Claudio De Carli per “il Giornale” il 21 gennaio 2020. Tor di Quinto, 12 maggio 1974, Lazio campione d'Italia, interno. Tavolata di tutta la squadra, eccitazione adolescenziale, ognuno racconta qualcosa, Luigi Polentes si è comprato un orologio nuovo alla gioielleria di Gigi Bezzi, lo fa girare, bello, sì sì, proprio bello, complimenti. Long John dice: fa vedere... e se lo mette al polso, poi legge infrangibile, ride, tutti ridono, allora se lo toglie e lo appoggia sulla tovaglia, prende un coltello per la lama e batte forte il manico sul quadrante, il vetro va in frantumi. Di colpo silenzio: «T' hanno fregato, gli fa a Polentes, vedi, non è infrangibile» e scoppia a ridere. Quanto ci manchi Giorgione, puro e vero, distruttore del falso in un mondo di quasi tutti ipocriti, se uno è scarso è scarso e bisogna dirlo, non è coraggio, è la verità, e la dicevi con quella testa incassata nel collo piegata da un lato. Bullo per indole, grande e grosso per natura, emigrante innocente, Galles, serie B, quando torna da noi è uno di Carnaby Street, giacca di velluto, camicia colorata, pantaloni attillati a tubo, stivaletti, basettoni, capello lungo. Diciannove anni, bocciato, il presidente dello Swansea Glen Davis fa: quell' italiano... come si chiama...sì sì, Chinaglia. Bene, quello non diventerà mai un calciatore professionista, non è portato, troppo grosso, meglio per il rugby. E gli sbatte il cartellino in faccia. Era partito a sei anni dalla casa di nonna Clelia a Montecimato quasi Carrara, solo, su un treno con un cartellino al collo come le bestie, nome, cognome e indirizzo della destinazione, 111 Richmond street, Cardiff, Wales. Lì c' è il resto della famiglia, di mattina gioca a rugby, seconda linea, al pomeriggio calcio, centravanti. Torna quando la Massese lo tessera per 250 mila lire al mese, l' Internapoli picchia 100 milioni sul tavolo, la notizia gli arriva quando sotto leva è su un banco di marmo in punizione per aver messo le mani addosso a un sergente. Ma all' Internapoli conosce Pino Wilson, mezzo inglese, un amicone, la Lazio li prende in un colpo solo. La sua storia inizia qui. Lui e Wilson da una parte, Luciano Re Cecconi e Luigi Martini dall' altra, due bande armate, spogliatoi separati, se per caso sbagliavi porta ti arrivava una bottigliata in faccia, Felice Pulici la evita per un pelo, botte senza pietà durante le partite di allenamento, in gara una squadra di cemento a presa rapida, la Lazio. Chi tradiva aveva chiuso. E una volta si sono messi a sparare per davvero tutti assieme dalle finestre dell' Hotel Americana alla vigilia di un derby. I tifosi della Roma si erano messi a far casino per disturbarli durante la notte, è partito qualche colpo, tutti spariti. Wilson è il padrino, Long John il supremo, la Lazio è mia, cosa mia, fa, e prende a calci nel sedere Vincenzo D' Amico a San Siro perché non ha fatto pressing su Alessandro Mazzola, fa a cazzotti con Martini, tenta di strozzare l' arbitro Menicucci, non ci riesce, lo rincorre per prenderlo a ombrellate, attacca al muro un dirigente perché ritarda gli stipendi, si sposa, divorzia, si risposa, indagato, processato, prosciolto, spacca difese, un bisonte che vuole sempre vincere, chi non gli passa la palla finisce sul taccuino. A Monaco manda a quel paese due volte Valcareggi (nella foto) perché lo sostituisce con Pietro Anastasi durante Italia-Haiti al mondiale, il braccio destro che accompagna il labiale. Bufera. Chi pensa di essere? Mai sostituito nella Lazio? E allora? È solo un disadattato irrecuperabile, commenta Franco Carraro. Il gesto è da maleducato, in mondovisione e va su tutti i giornali, ma aveva ragione. Il ct si era intestardito e aveva messo dentro contemporaneamente Sandro Mazzola, Luigi Riva, Gianni Rivera e lui. Non funziona, Long John gioca da schifo ma non è lui il peggiore, però paga lui. Tommaso Maestrelli vola in Germania, gli chiede di scusarsi pubblicamente, non esiste, gli risponde, e non devo farlo per la Lazio che qui non è rispettata, dovevamo esserci almeno in sette, invece due fanno panchina e io vengo sostituito. Il suo mondiale del '74 si chiude qui. Ma poi si prende una rivincita che entra nella storia, in un colpo solo sistema Italia e Inghilterra a Wembley davanti a quarantamila emigrati che gli inglesi chiamano camerieri. E lui l' ha fatto il cameriere al Mario' s Bamboo restaurant di suo padre. All' 88' va via sulla destra a modo suo, ingobbito, testa giù, quando arriva sul fondo la butta in mezzo, Peter Shilton va in presa bassa, gli sfugge, area piccola, c' è lì Fabio Capello a un metro, la mette, 1-0, prima vittoria dell' Italia contro l' Inghilterra. Ma lo chiamano fascista. Un tifoso della Roma un sabato sera lo insulta. È al cinema Gregory con tutta la squadra, lui aspetta che si spengano le luci e poi gli si piazza dietro la poltroncina, gli batte due dita sulla spalla, il tifoso si gira e gli arrivano un destro e sinistro che lo sprofondano sulla mouquette della sala. Mi dicono che sono fascista solo perché vado al poligono con una 44 magnum a esercitarmi, tutta la Lazio la chiamano fascista, anche Martini e Re Cecconi girano armati e fanno paracadutismo con quelli della Folgore e allora? Io di politica non c' ho mai capito niente, destra, sinistra, centro, per me sono la stessa cosa, ma mi piace Giorgio Almirante, uno fuori dagli schemi, mi piace come parla, non so se è un tifoso della Lazio, ma mi sembra proprio come noi, forte, aggressivo, sfacciato, fuori dal Palazzo, e lo voto. Ma in politica poi ci si butta, due volte, con la Democrazia Cristiana alle regionali e alle europee, niente da fare, ci riprova con i Popolari, bocciato. Va in America, i Cosmos di Edson Arantes do Nascimento lo ricoprono di dollari, lì c' è il business, in nove anni di Nasl segna 231 gol in 234 partite ma quel cimitero di elefanti del soccer non decolla, adesso ha i soldi, è ricco, e ritorna in Italia per la seconda volta. Guai infiniti, casini a Foggia, presidente alla Lazio, paga tutti i debiti, la vuole la meglio squadra del mondo, le ha fatto vincere quasi da solo uno scudetto, la riduce con le pezze al sedere da dirigente, un amore viscerale, sbaglia ogni volta sempre di più, un' indole incapace di controllarsi che lo porta a strafare, generoso e inviso nelle stanze che contano con un progetto dissennato di grandezza. Paga e paga pesante la sua idea di libertà assoluta. È scappato dalla Lazio con un piede in serie B ma i tifosi non smettono di amarlo: agisco con il cuore, fa, e questo non è sbagliato nel mondo del calcio, voglio troppo bene alla Lazio, per me questa è normalità. Unico, dinastia di uomini che non tornano, lo sguardo malinconico e gli occhi da buono, ha costretto i cronisti a raccontare cose che nel nostro calcio non erano mai successe, caudillo di una squadra trasgressiva che giocava contro tutto, scandalizzava e vinceva. Di notte in giro per Roma sulla Jaguar e la giacca con le frange, I' m a football crazy, il primo aprile 2012 a Naples, piccola cittadina della Florida, la morte improvvisa per infarto cardiaco, quanto ci manchi Long John.

Giorgio Chinaglia, irresistibile condottiero della riscossa di un popolo. Paolo Gallori su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Chinaglia è il bambino di Carrara che a 8 anni lascia la nonna in Toscana e arriva in Galles in treno con un cartello al collo con su scritto l’indirizzo dei genitori, emigrati prima di lui. Il ragazzino che studia e la sera lava i piatti nel ristorante del papà. Suo il gol su rigore nel derby dello scudetto '74: una foto celebre cristallizza un istante che vale l’immortalità biancoceleste, il volto di Giorgio trasfigurato dalla gioia di essersi fatto beffe del nemico verso il quale punta il dito. Da qualche parte, in questa città dalle stratificazioni millenarie, deve esserci ancora un vecchio frigorifero tempestato di figurine di calciatori. Ingiallite, scorticate, ma sempre lì, incollate a uno sportello malandato. Tra queste, il ritratto di un giovane in maglia biancoceleste, incorniciato nella posa di sempre, le mani sui fianchi, la testa un po’ piegata e incassata tra le larghe spalle: Giorgio Chinaglia. Gli occhi azzurri attraversati da un’espressione a metà tra dolcezza e tristezza, stridente con l’immagine del centravanti che spaventava i difensori e con la sfrontatezza del personaggio cucitogli addosso dai rotocalchi. Dicono tanto di Chinaglia, quegli occhi. Il 9 gennaio del 2000, alla festa del centenario della S.S. Lazio, lui c’era. Dieci anni dopo, la sua assenza pesava come un macigno, a ricordare quel tentativo di scalata alla società dalle conseguenze drammatiche, su cui Chinaglia aveva messo la faccia riparando poi negli Stati Uniti per non finirne travolto. La dolcezza e la tristezza di quella foto tessera del calcio anni Settanta riaffioravano nelle interviste rilasciate dall’esilio, quando Giorgio ricordava la Lazio e la sua gente. “Io credevo di far bene, di dare una possibilità alla Lazio… Tre volte sono tornato in Italia e tre volte sono stato preso a calci in culo… Senza il calcio non so stare. Chiarirò tutto e tornerò”. Giorgio Chinaglia non vide mai più Roma. Il cuore lo tradì il primo aprile del 2012. Con la morte arrivò il silenzio delle cronache, Chinaglia smise di essere un caso giudiziario e pian piano riprese a farsi largo in ogni laziale l’archetipo del Chinaglia calciatore. E adesso, con il 120mo anniversario della S.S. Lazio, celebrazione di una grande storia di calcio italiano, è tempo di consegnare definitivamente alla memoria biancoceleste il campione che più di ogni altro ha lasciato un segno nella storia del club. Sentimenti, rimpianti, inquietudine. Si sarebbe indotti alla tenerezza. Attenti a non cadere nella trappola del Chinaglia “grande grosso e fregnone” per dirla con la Sora Lella. Dalle cronache del tempo e dal racconto di chi l’ha conosciuto, in campo e fuori, emerge una personalità complessa, difficile, insofferente alle imposizioni, incapace di far buon viso a cattivo gioco, piuttosto pronto a ribaltare i tavoli e a mettere in discussione l’autorità. Chinaglia negato per la diplomazia, arrogante e narciso, Chinaglia che credeva ciecamente in se stesso, che si riteneva il meglio per gli altri. Chinaglia che esprimeva il dolore più grande con lacrime da bambino e il massimo della gioia correndo per il campo come un bisonte nella sua prateria. Un enigma caratteriale che avrebbe acceso la fantasia popolare e allo stesso tempo indotto il campione della gente in scelte personali autodistruttive. Perché è esattamente a quell’incrocio che risiede il fascino di Chinaglia: non un gigante buono come tanti, ma un elefante imbizzarrito nella cristalleria del calcio italiano, per mandarne in frantumi prassi paludate e gerarchie consolidate. Con le inevitabili conseguenze. Tutto questo con indosso una maglia biancoceleste. Una storia bellissima. Giorgio Chinaglia è il bambino di Carrara che a 8 anni lascia la nonna in Toscana e arriva in Galles in treno con un cartello al collo con su scritto l’indirizzo dei genitori, emigrati prima di lui. E’ il ragazzino che frequenta le scuole cattoliche e la sera lava i piatti nel ristorante aperto dal papà con i risparmi messi insieme col lavoro in miniera. E’ una maturazione fisica esplosiva che nel Regno Unito lo pone al bivio tra palla ovale e pallone, con la scelta del calcio dettata dall’italianità orgogliosa di papà Mario. Chinaglia è il rifiuto sdegnato di sottoporsi a un provino per il Cardiff City e il conseguente approdo allo Swansea. Dove gioca anche Gareth Edwards, poi rugbista di fama e autore di una meta leggendaria in un match tra All Blacks e la selezione dei Barbarians. “Allo Swansea i gol li segnava tutti un italiano - ricorderà anni dopo - Giorgio Chinaglia”. Allo Swansea c’è chi vede in Chinaglia la stoffa del campione. Ma per arcane ragioni (tra queste l’ombra dell’italianità) il club non investe nel ragazzo e lo scarica. Schiaffi che forgiano. Per fortuna in Italia c’è chi è pronto a offrirgli un contratto e Giorgio compie per la prima volta il viaggio di ritorno. Chinaglia è già un ambizioso e vive con grande sofferenza il purgatorio cui da italiano cresciuto calcisticamente all’estero deve sottoporsi prima di approdare alla massima serie: tre anni in C. Durante il primo respira l’aria di casa della Massese, poi per la bella cifra di 100 milioni passa all’Internapoli fondata da Carlo De Gaudio, in seguito noto dirigente della nazionale. L’Internapoli sfiora la promozione ma la società si indebita oltre misura e alla fine smobilita. Ed ecco Chinaglia impacchettato assieme a un compagno di squadra di origini inglesi, Giuseppe Wilson, e spedito alla Lazio, neopromossa in Serie A, per 200 milioni. E’ l’estate del 1969, il destino si compie. E’ ancora il campionato delle 16 squadre, della chiusura ai calciatori stranieri, delle candide maglie senza sponsor e dei due punti per la vittoria. Allenatore dei biancocelesti è l’argentino Juan Carlos Lorenzo, un duro che crede in quel ragazzo e lo fa debuttare in campionato alla seconda giornata. Chinaglia assorbe gli insegnamenti del maestro sudamericano e lo ripaga con 12 gol nella stagione 1969-70, conclusa con un confortante ottavo posto. Giorgio è ormai un titolare e si sente già idolo delle folle biancocelesti. Impossibile non notare quel ragazzo grande e grosso, che sembra vagare indolente sul campo con la testa incassata tra le spalle larghissime ma quando parte travolge tutto e tutti. I capelli lunghi e le basette folte da bucaniere, Chinaglia diventa “Long John”. Ad ogni partita, ad ogni gol, Giorgio sente crescere addosso le aspettative di felicità del pubblico e ne fa il suo carburante. Il fiato della passione sul collo, è esattamente quello di cui Giorgio Chinaglia ha bisogno per esplodere. Non avverrà nel campionato successivo, chiuso malamente con la retrocessione della Lazio e il licenziamento di Lorenzo. Chinaglia, solo 9 reti in 30 presenze, è accusato dalla tifoseria di essersi fatto sedurre dalla vita notturna. Non solo. Al posto di Lorenzo viene chiamato Tommaso Maestrelli, a sua volta piombato in B alla guida del Foggia. Chinaglia ha perso il suo maestro argentino e non capisce perché assumere un perdente per sostituirne un altro. Il ragionamento dell’uomo estraneo alle mezze misure. Con queste premesse Maestrelli assume l’incarico alla Lazio. Saranno le sue qualità umane a conquistare Chinaglia portandolo per sempre dalla sua parte. E sarà la grande fortuna della Lazio. Tornata immediatamente in A, la squadra stupisce lottando per lo scudetto nella stagione 1972-73. La matricola che rivaleggia con i grandi club, mai visto fino ad allora nel calcio italiano, tutto ha il sapore di una favola da calcio britannico. Troppo britannico, infatti, la favola svanisce all’ultima giornata, quando il Milan capolista va a Verona mentre Juventus e Lazio, che inseguono a un punto, affrontano sempre in trasferta Roma e Napoli. I rossoneri cadono pesantemente, la Juve infilza la Roma a tre minuti dalla fine e la Lazio incassa il gol del Napoli esponendo il fianco negli ultimi assalti disperati alla ricerca della vittoria che la porterebbe allo spareggio con i bianconeri. La delusione è forte, ma Chinaglia, autore di 10 gol, si è ripreso la Lazio e l’Olimpico, che vede nella tipica esultanza del centravanti, la corsa sotto la curva con il dito puntato verso il cielo, il gesto del condottiero. Ruolo che Giorgio rivendica anche all’interno del gruppo, a suo modo e non senza resistenze. E’ la Lazio dei clan e di un’aneddotica anni '70 degna di un capitolo di Romanzo Criminale. Da una parte Chinaglia, Pino Wilson e Giancarlo Oddi, dall’altra Pierluigi Martini, Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi, al resto della ciurma decidere con chi schierarsi. Una storia di partitelle in “famiglia” del venerdì più simili a settimanali rese dei conti giocate coi parastinchi. “Signori contro poveracci” ricordò una volta Giorgio ridendo e lasciando intendere chi fossero i primi e chi i secondi. Quelli che correvano a 100 all’ora tra i piaceri notturni di Roma e quelli che inseguivano nuove sensazioni dando meno nell’occhio. Passione comune, le pistole, la mania del possesso dell’arma introdotta nell’ambiente da Sergio Petrelli ed evoluta nel far west di un poligono montato dietro il campo d’allenamento e interruttori della luce spenti con un proiettile. In quello spogliatoio da separati in casa Chinaglia sguazza e non perde occasione per riaffermare la propria leadership. Un giorno però esagera. “Con i vostri stipendi non ci comprate nemmeno le mie scarpe”. Qualcuno si vendica inchiodandogli le scarpe al muro. Anni dopo si scopre la complicità dell’amico Oddi con l’autore del misfatto. Grande amico di Giorgio e suo abituale compagno di stanza durante i ritiri, Giancarlo aveva lasciato socchiusa la porta. Evidentemente quella frase era stata troppo pesante anche per lui. “E poi le scarpe di Giorgio erano inguardabili”. Per il campionato 1973-74 si aggrega alla rosa un giovane della primavera biancoceleste, Vincenzo D’Amico, 19 anni e il baricentro basso d’ordinanza del fantasista. Che annusa immediatamente l’aria. “Tutti soffrivamo Chinaglia, nessuno escluso, persino Maestrelli. Lui comandava e si incazzava. Con chi stavo io? Con Chinaglia, per forza. Dovevo giocare per fargli fare gol. Per questo Sergio Garlaschelli ce l’aveva un po’ con me. Ma in campo la squadra si ritrovava sempre unita”. Merito del mister Maestrelli, uomo di grandissima umanità e intelligenza, l’unico lubrificante in grado di far marciare l’ingranaggio Lazio a pieno regime evitando che qualche scheggia dello spogliatoio possa gripparlo. Chinaglia lo considera un papà, ma l’immagine da libro cuore non deve oscurare l’importanza della visione calcistica con cui il tecnico plasma la squadra. La Lazio 73-74 è una formazione ad alto dinamismo, a partire dall’uso delle fasce del reparto difensivo, imperniato sulla regia arretrata di Wilson con Petrelli, Oddi e Martini. A centrocampo tempi di manovra dettati da un Frustalupi in stato di grazia assistito dalla sapienza di Franco Nanni, passando per i recuperi e gli slanci dell’inesauribile Re Cecconi. In attacco lui, Long John, l’imprevedibilità di D’Amico e la velocità di Garlaschelli. “Giocavamo come nessuno, come l’Olanda prima dell’Olanda, eravamo una squadra modernissima” disse una volta Felice Pulici, portiere di quella Lazio e in seguito direttore sportivo del club. Calcio totale per puntare alla rivincita, dunque. Ma non sarebbe stata una passeggiata. Il campionato della Lazio è un inizio sprint, subito due vittorie con Vicenza e Sampdoria. Ma alla terza giornata è già scontro diretto con la Juventus al Comunale di Torino. I bianconeri si impongono per 3-1, la Lazio accusa e nelle tre partite che seguono sono solo pareggi con Fiorentina, Cesena e Inter. Juventus e Napoli volano, i ragazzi di Maestrelli devono accelerare. La rimonta inizia con una vittoria a Cagliari, ma è il successo nel derby con la Roma a mettere il turbo ai biancocelesti. Un 2-1 in rimonta, Giorgio Chinaglia in mezza rovesciata firma il 2-1 e poi corre in preda a un’esultanza incontenibile. I tifosi giallorossi non la prendono bene. Nelle settimane successive a casa Chinaglia vengono recapitate promesse di vendetta, la pistola diventa compagna quotidiana del giocatore. Che in campo dimentica tutto e trascina la squadra verso la vetta della classifica. Suo il gol che decide lo scontro diretto col Napoli all’Olimpico e vale l’aggancio in testa ai partenopei assieme alla Juve. Stesso risultato di 1-0 a Verona e soprattutto col Milan in casa, gol di Re Cecconi nei minuti finali. La Lazio c’è e il 27 gennaio è campione d’inverno con un 4-0 al Bologna, tre i punti di vantaggio su Juventus, Napoli e Fiorentina. Alla terza di ritorno, la Juventus rende visita alla Lazio all’Olimpico. Chinaglia è una furia, segna due gol e finisce 3-1 per i biancocelesti. Ormai è fuga, ma gli ostacoli non mancano. Ecco l’attesissimo derby di ritorno. E’ il 17 marzo 1974, la Roma lotta per non retrocedere, la Lazio corre in vetta. Ma tutto lo stadio, memore di quanto accaduto all’andata e coltivando speranze diametralmente opposte, attende lui, Chinaglia. Che lo sa e asseconda la sua anima da guascone ignorando il clima da guerriglia urbana che avvolge la partita. Il derby di Giorgio inizia con una rapida sortita all’uscita degli spogliatoi. Dagli spalti lo riconoscono e partono bordate di fischi romanisti miste ai cori laziali. Le squadre iniziano il riscaldamento e Giorgio, rivolto verso la Sud, mima platealmente il gesto di chi prende la mira con il piede. “Andai anche negli spogliatoi della Roma per dire loro: vi aspetto fuori. Può sembrare assurdo, ma io ero tifoso della mia squadra” ricordò Chinaglia molti anni dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Poi il teatrino finisce e si fa sul serio. La storia si ripete. Come all’andata, Roma di nuovo in vantaggio per un’incertezza di Pulici, e come all’andata è Long John a fissare il risultato sul 2-1 per la Lazio, su calcio di rigore. Giorgio prende la rincorsa e batte Paolo Conti, ma stavolta non gli basta esultare, corre oltre la porta romanista e punta il dito verso la Sud dove, impotenti, sono assiepate le schiere dei tifosi giallorossi. Una foto celebre cristallizza un istante che vale l’immortalità biancoceleste, il volto di Giorgio stravolto, quasi trasfigurato dalla gioia di essersi fatto di nuovo beffe del nemico. “Era un dito di sfida - ricorda Pino Wilson -. Ai romanisti che lo avevano minacciato Giorgio diceva: qui comando io”. E ancora Pierluigi Martini: “Inimmaginabile che un giocatore della Lazio potesse osare tanto. Chinaglia diventata un simbolo”. Ma il vero capolavoro Chinaglia lo compie nella partita successiva, nona di ritorno. E’ la svolta del campionato. La Lazio in trasferta a Napoli, la Juventus in attesa di un suo passo falso. E’ una battaglia. Gli azzurri si portano in vantaggio per tre volte e per tre volte Chinaglia firma il pareggio, in una delle sue più belle partite di sempre. Non è ancora finita. Sette giorni dopo, il 14 aprile, all’Olimpico arriva un modesto Verona, destinato a retrocedere da ultimo in classifica. La Lazio passa subito in vantaggio, ma il primo tempo si chiude con gli scaligeri sorprendentemente avanti per 2-1. E qui accade qualcosa. I biancocelesti, frustrati, non rientrano negli spogliatoi. Non è chiaro chi lo abbia deciso. Forse Maestrelli, ma altre testimonianze tramandano la versione secondo cui è un Chinaglia arrabbiatissimo a trattenere i compagni sul terreno di gioco. Nella ripresa tutto cambia, la Lazio rimonta, passa in vantaggio e la zampata del centravanti suggella il 4-2 finale e un altro pomeriggio da consegnare all’epica biancoceleste. E si arriva al giorno del giudizio. Quattordicesima e penultima giornata, la Lazio ospita il Foggia da padrona del suo destino: tre punti di vantaggio sulla Juventus, una vittoria vuol dire scudetto, il primo nella storia della Lazio. La squadra sente su di sé una responsabilità che appesantisce le ore della vigilia in ritiro e toglie l’appetito. Il tragitto in pullman fino allo stadio nel silenzio, ognuno assorto nei suoi pensieri. Poi l’Olimpico, gremito e fremente. Inizia la partita, non si sblocca. Alla mezz’ora della ripresa ecco il calcio di rigore per la Lazio. Chinaglia si porta sul dischetto, solo i guanti del portiere Trentini lo separano dal paradiso. Re Cecconi gli passa accanto: “Tiraglielo a destra”. Long John segna. Ancora un quarto d’ora ed Enrico Ameri alla radio scandisce: “Sono le 17,45 del 12 maggio 1974, la Lazio è campione d’Italia”. La foto di Chinaglia, travolto dall’abbraccio dei tifosi nell’allora consueta invasione di campo, finisce su tutte le prime pagine del giorno dopo. Giorgio Chinaglia chiude vincendo anche la classifica dei cannonieri: 24 gol, solo uno in più dell’interista Roberto Boninsegna, in un torneo di appena 30 partite. E per Long John si schiude definitivamente il nuovo sogno: la maglia azzurra da centravanti titolare ai Mondiali in Germania. “La più grande delusione della mia vita” disse una volta Chinaglia in un’intervista Rai. Anche i sassi sanno come andò. L’Italia che va sotto di un gol con la modesta Haiti, il ct Valcareggi che sostituisce Chinaglia con Anastasi nella ripresa, Giorgio che esce dal campo mimando con la mano un plateale “vai vai” all’indirizzo della panchina fino al liberatorio “vaffa” perfettamente intuibile dal labiale. Gli azzurri vincono in rimonta, ma Chinaglia è un caso nazionale. I vertici del calcio sono infuriati. Carraro definisce Giorgio “un disadattato”, Allodi vorrebbe allontanarlo dalla squadra. Finisce invece che Chinaglia salta la sfida pareggiata con l’Argentina ma rientra a sorpresa con la Polonia, affondando assieme alla squadra. Italia eliminata, una caporetto. Pian piano filtrano varie teorie sulla disfatta. Chinaglia con la maglia della Nazionale ai Mondiali 1974Importante la testimonianza di Gigi Riva, che parla di un Rivera fuori forma e del dilemma, anche quattro anni dopo il Messico, della sua convivenza in campo con Mazzola. E poi, di uno spogliatoio dilaniato da gelosie ed egoismi, in cui Chinaglia fa l’errore di cavalcare la questione meridionale sollevata dal napoletano Antonio Juliano denunciando la scarsità di laziali in azzurro e i favoritismi di Valcareggi. Rombo di Tuono non le manda a dire: “Nel gruppo c’era chi aveva influenza su di lui. Lo consigliava male e lo induceva a prendere decisioni sbagliate. Non faccio nomi, dico solo che con Giorgio aveva appena vinto lo scudetto”. Nella rosa di quella nazionale, oltre a Chinaglia, della Lazio facevano parte solo Wilson e Re Cecconi. Lo stesso Chinaglia espose il suo personale retroscena. Un vertice notturno della squadra alla vigilia della partita con Haiti. Si decide ai voti di giocare con Rivera e senza Mazzola. Giorgio che si incarica di svegliare i piena notte Valcareggi per consegnargli il foglietto con la formazione. Morale: Rivera e Mazzola giocano assieme, Chinaglia diventa il perfetto capro espiatorio da dare in pasto all’opinione pubblica. Erano trascorsi solo pochi mesi dal 14 novembre del 1973, quando con una poderosa progressione sulla fascia destra Chinaglia aveva confezionato per Fabio Capello il celebre assist che era valso l’1-0 nell’unica vittoria dell’Italia in casa dell’Inghilterra, a Wembley. La disfatta in Germania cancellava anche quel ricordo. Il nuovo destino di Chinaglia sarebbero stati i fischi in ogni stadio sin dal campionato successivo. Il vento in Italia era cambiato per Chinaglia, che non avrebbe resistito ancora a lungo alle sirene dei Cosmos di New York e alla prospettiva di giocare da stella della Major Soccer League accanto a Pelè e Beckenbauer, assicurando la tranquillità alla sua famiglia lontano da Roma. Chinaglia lasciava l’Italia sul finire della stagione 1975-76, voltando le spalle a una Lazio ripiombata nella lotta per non retrocedere e mettendo nel bagaglio il dolore per il destino di Maestrelli, morto il successivo 2 dicembre consumato dal cancro. Inizia qui un’altra storia, quella della seconda vita di Chinaglia e dei suoi ritorni da ex calciatore e commentatore televisivo, dell’imprenditore e dei suoi tentativi di legare ancora il suo nome alla Lazio. Una vicenda amara e decisamente poco interessante. Meglio allora ricordare l’ultimo viaggio a Roma di Giorgio Chinaglia: settembre 2015, il desiderio esaudito di essere sepolto accanto a “papà” Maestrelli nel cimitero di Prima Porta. Dove ritrovare l’abbraccio di un popolo che lui credeva lo avesse dimenticato. Invece la figurina del giovane condottiero in maglia biancoceleste è ancora lì, incollata al frigo. Con quegli occhi dolci e tristi che in un pomeriggio indimenticabile il suo popolo vide schiudersi alla gioia, mentre lui puntava il dito verso la Sud.

Casa Maestrelli, il segreto di quel folle scudetto nell'umanità di un allenatore unico. Massimo Mazzitelli su La Repubblica l'8 gennaio 2020. A casa del tecnico la moglie Lina cucinava per i giocatori che, a turno, si presentavano per parlare con Maestrelli. Massimo, uno dei figli, racconta quei giorni indimenticabili: "Chinaglia diventò uno di famiglia, spesso dormiva da noi. Era fissato con il fucile. La sera del derby del dito alzato contro la Curva Sud, trovò decine di tifosi romanisti sotto casa, Petrelli lo portò da noi. Alle quattro di mattina sentivamo dei rumori dal balcone e trovammo Giorgio con il fucile appoggiato sul davanzale. ‘Giorgio ma sei matto, cosa stai facendo…’ ‘Difendo lei e la sua famiglia se arrivano i romanisti…’" “ 'LINA sto arrivando, puoi aggiungere un posto in più a tavola? Viene un amico a pranzo da noi'.  Era la solita chiamata del babbo, a mezzogiorno al telefono fisso chiaramente, quello con la ruota dei numeri…”.  Massimo Maestrelli racconta 'Casa Maestrelli', uno dei segreti, forse il più importante di quella Lazio rimasta nella storia del calcio italiano che vinse lo scudetto nel 1974. Intorno a mamma Lina e la sua pasta e piselli portafortuna (“L’abbiamo mangiata tutti i venerdì l’anno dello scudetto, babbo era un po’ superstizioso…”) neell’appartamento di via Banti, Collina Fleming, è nato e si è cementato il gruppo che avrebbe conquistato il campionato. Storie di una squadra folle, il clan Chinaglia contro quello Martini-Re Cecconi, le sfide in famiglia a Tor di Quinto che finivano quasi sempre in rissa, le pistole, i paracaduti, il mite presidente Lenzini, il dottor Ziaco, Bob Lovati, Gigi Bezzi, Nanni Gilardoni, l’autista Recchia. Una squadra e uno scudetto che sono diventate leggenda. Una conquista che nei racconti aveva poco di sportivo e tanto di aneddoti. Ogni giornalista che ha vissuto quell’impresa ha avuto un segreto da raccontare perché quello scudetto non si poteva spiegare solo con lo sport, perché sarebbe stato inspiegabile. La piccola Lazio contro la corazzata Juventus, una squadra che nei decenni precedenti non aveva fatto altro che retrocedere e risalire che sfidava le grandi del calcio italiano senza bussare alla porta. E allora nel compleanno dei 120 anni della Lazio aggiungiamo un segreto in più di quella che resta l’impresa più grande di questa società. “Casa Maestrelli”. Dove Chinaglia ha trovato la sua nuova famiglia ed è diventato “Long John”, tra quelle mura si sono risolte le tante litigate tra giocatori. Massimo Maestrelli, uno dei “gemelli” ha un elenco di ricordi. A cominciare dalla prima volta di Giorgio che sarebbe diventato il “quinto” figlio di Tommaso dopo Massimo, Maurizio, Patrizia e Tiziana. “Arrivò questo ragazzo alto, grosso, io e Maurizio eravamo un po’ impauriti. E anche sorpresi perché mai avevamo visto un giocatore in casa, babbo era geloso delle mie sorelle e conosceva i calciatori…”. Quel pranzo e quella presenza divennero un’abitudine. “Giorgio diventò uno di famiglia e spesso dormiva da noi. Ricordi di Chinaglia a casa? Tanti…” Il fucile, ad esempio. “Era fissato con quel fucile. Diceva a tutti che era uguale a quello che aveva sparato a Dallas a John Kennedy. Non so dove l’avesse comprato. La sera del derby, quello del dito alzato contro la Curva Sud, Giorgio trovò decine di tifosi romanisti ad aspettarlo sotto casa: voleva scendere dalla macchina di Petrelli col fucile in mano e spaventarli, ma per fortuna Petrelli lo portò da noi. Alle quattro di mattina sentivamo dei rumori dal balcone e andammo a svegliare babbo: trovammo Giorgio seduto con il fucile appoggiato sul davanzale. ‘Giorgio ma sei matto, cosa stai facendo…’ ‘Difendo lei e la sua famiglia se arrivano i romanisti…’ ". Ma le notti con Chinaglia in casa erano sempre agitate. “Io e Maurizio dormivamo in una stanzetta accanto alla cucina e una volta sentiamo dei rumori, ci alziamo e troviamo Giorgio con un coltello in bocca. Aveva mal di denti e con coltello e forchetta si tolse il dente da solo. Babbo stava svenendo…”. Ma c’è un giorno che Massimo ricorda come quello dove vide Chinaglia furioso, veramente arrabbiato. Colpa delle… scarpe. “Giorgio si era comprato delle scarpe di coccodrillo. Erano inguardabili, verdi, ma le aveva pagate una cifra sconsiderata. Andava al campo e prendeva in giro i suoi compagni dicendo che loro non se le sarebbero mai potute permettere delle scarpe così. Era vero perché io credo che Chinaglia guadagnasse dieci volte più degli altri. Ma mai scherzare con i calciatori, specialmente di quella Lazio. Durante un ritiro Giorgio trovò le sue belle scarpe di coccodrillo inchiodate al muro dell’albergo, fuori la stanza dove le aveva lasciate per farle lucidare. Erano da buttare. Ricordo che tornò a casa con babbo che rideva e lui che urlava…”. Ma “Casa Maestrelli” non fu solo Chinaglia. La signora Lina cucinò per tutti. Pulici, Oddi, Wilson, Re Cecconi, Martini, il posto dell’ospite era sempre occupato. Il pranzo cominciava alle 14.30 e finiva alle 17 e il rituale era sempre lo stesso. “Noi arrivavamo da scuola affamati ma dovevamo aspettare babbo e il giocatore di turno per mangiare. Si cominciava alle 14,30, poi arrivati al caffè noi e la mamma lasciavamo babbo nel salotto a parlare. C’era sempre qualcosa da risolvere: le liti in allenamento, le risse sfiorate. Due gruppi divisi che durante la settimana non facevano che litigare. Io sentivo quei discorsi e non capivo come poi la domenica quei due clan diventassero una squadra. Babbo ascoltava e dava sempre ragione a chi aveva davanti, tanto sapeva che poi tutto passava quando c’era da vincere una partita. Ma tutti uscivano convinti di avere l’allenatore dalla loro parte…” Tommaso Maestrelli aveva cementato anche l’ambiente intorno alla squadra. “La sera toccava ai giornalisti, Enrico Bendoni era il suo preferito, dirigenti, amici. E mamma Lina sempre in cucina e sempre col sorriso. Era felice perché vedeva babbo contento, realizzato, voleva fare la sua parte e aveva capito che la casa sempre aperta a tutti, quei pranzi e quelle cene erano importanti”. Ma c’è una cena che Massimo Maestrelli non dimenticherà mai, perché è stata la festa più grande ma anche il confine tra la gioia e i dolori della vita. Era la notte dello scudetto, il 12 maggio del 1974. Ormai il 13 maggio: “Alle quattro della mattina dopo aver girato mezza città con la squadra e i dirigenti a far festa nelle piazze e nei locali, qualcuno cominciò ad avere fame. Mamma Lina era con il babbo, nel gruppo. E tutti guardarono lei. Capì al volo. 'Ok. andiamo tutti a casa…'. Non so quanti, ma eravamo tanti. Giorgio, Pino, Frustalupi, Cecco, Oddi, Pulici, la squadra c’era quasi tutta. Partì la solita pasta e piselli e arrivammo a mattina inoltrata. La gioia era tanta, io e Maurizio eravamo felici, pensavamo che quella fosse la vita. Ma durò poco, il resto della storia lo conoscete.”

Giuseppe Falcao per leggo.it il 6 febbraio 2020. Il primo pensiero è subito struggente. «Quando allo stadio sento l’inno con quella frase: “Su c’è il Maestro che ce sta a guardà…”, il cuore mi si allarga di un paio di centimetri e le pulsazioni aumentano vertiginosamente». Le parole emozionate sono quelle di Massimo Maestrelli, figlio di Tommaso, indimenticato allenatore del primo scudetto della Lazio nella stagione 1973-1974.

Cosa legge negli occhi dei tifosi laziali quando scoprono che lei è il figlio di Maestrelli?

«Tanto affetto. Pochi giorni fa sono stato a Nepi, in un club dedicato a papà. Un signore mi ha detto: “vedo in te gli occhi di tuo padre e ritorno indietro nel tempo, a pensare ai tanti pomeriggi di felicità che mi ha regalato Maestrelli».

Questo grande affetto dei tifosi l’ha legata di più alla Lazio?

«Mi sento legato a tutte le squadre che ha allenato mio padre, ma la Lazio più di tutte. Infatti, quando lui stava molto male, mamma aveva pensato di tornare a vivere a Bari insieme a noi. Lì aveva le sue sorelle. Papà però si oppose: “Roma è la tua città, vedrai che poi apprezzerai questa cosa”, le disse guardando come al solito lontano».

Roma le è stata davvero di aiuto dopo la scomparsa di suo padre?

«L’amore della città mi ha sostenuto. Sembrerà strano ma ogni giorno da 45 anni mi capita di incontrare persone che mi raccontano aneddoti e storie della Lazio di Maestrelli. Quindi per me è come se lui non fosse mai mancato».

Che padre è stato?

«Divertente, ironico, affettuoso. La famiglia era il centro di tutto».

Prima di allenare la Lazio, Maestrelli è stato calciatore nella Roma. Lo ricordava mai?

«Diventò anche capitano giallorosso. Noi a casa lo prendevamo in giro: “Stai per vincere lo scudetto con la Lazio e sei retrocesso con la Roma”. Papà fu anche amico di Liedholm e la nostra famiglia aveva un buon rapporto con i Viola».

Nils Liedholm e Tommaso Maestrelli erano davvero amici?

«Sì e poi avevano una particolarità che li univa di più: erano nati entrambi in ottobre: papà il 7 e Nils l’8. Ogni anno si scambiavano gli auguri. Quando la Roma vinse lo Scudetto, la mia famiglia inviò un telegramma al Barone: “Complimenti per aver riportato lo Scudetto a Roma”. Lui ad un giornalista raccontò che il nostro fu il messaggio più bello».

Che rapporto avevate con la famiglia Viola?

«Mamma e Donna Flora si conoscevano e ad ogni Natale si facevano gli auguri. Poi circa quindici anni fa a casa mia invitammo a cena Flora Viola. Ascoltare queste due donne parlare orgogliose tutta la sera dei loro mariti fu molto emozionante».

Dopo aver allenato il Foggia, per Tommaso Maestrelli arrivò la Lazio.

«Prima della Lazio, fu contattato anche dalla Roma. La Roma era in A, la Lazio invece era in B. Non so perché scelse il club biancoceleste. Vide qualcosa nella Lazio e la scelse».

Lei e suo fratello Maurizio vivevate molto la Lazio in quel periodo?

«Si. Assistevamo all’allenamento, poi giocavamo con i calciatori. La cosa bella è che nonostante fossimo solo dei bambini, venivamo trattati come adulti».

Che ricordi ha del periodo dello Scudetto?

«Ho fissa in mente l’immagine di papà al gol di Chinaglia al Foggia: restò seduto. Lo stadio stava esplodendo e lui era lì concentrato che si stava godendo quel momento da solo. Sembrava che volesse fermare il tempo, come se quell’istante dovesse durare per sempre».

Fu la sua più grande gioia da allenatore?

«Si, ma non solo. Fu orgoglioso anche della salvezza dei biancocelesti. Non avrebbe mai accettato di portare la Lazio in serie B dopo averla riportata in Serie A».

Che rapporto c’era con il suo presidente Lenzini?

«Ottimo. Avevano la tradizione scaramantica della partita a scopa prima dell’inizio di ogni partita. Ho ancora le banconote vinte firmate da Lenzini».

Cosa ha rappresentato Giorgio Chinaglia?

«Chinaglia era un ragazzo difficile e fragile. Aveva il padre che viveva lontano e si attaccò molto a mio padre. Era uno di casa, stava sempre a pranzo da noi».

Poi arrivò Bruno Giordano.

«Giordano fu la più grande cotta calcistica presa da mio padre. Fu attratto incredibilmente dal talento di Bruno».

La sua partita preferita di quell’epoca indimenticabile?

«Lazio-Milan 1-0 gol di Re Cecconi al 93’. Ci fu il boato più forte sentito all’Olimpico nella storia della Lazio».

Che ricordo ha del povero Re Cecconi?

«Un ragazzo eccezionale, buono, pulito. Faceva il meccanico. Papà lo conobbe a Foggia. La sua morte mi colpì molto, fu assurda».

La morte di suo padre, poco tempo dopo quella di Re Cecconi. La Lazio tricolore è stata più volte colpita al cuore.

«Ho una mia teoria. Quella squadra fece una cosa talmente grande che attirò l’attenzione degli Dei...».

Frequenta ancora lo stadio?

«Ero abbonato con mio fratello, poi dopo la sua morte mi sono allontanato. Adesso però con i miei figli sto tornando più spesso».

Qualcuno dice che Simone Inzaghi assomigli come allenatore un po’ a suo padre?

«Simone mi ricorda papà nel sorriso e nella signorilità».

C’è un calciatore di oggi che più di tutti rappresenta la Lazialità?

«Penso a Ciro Immobile. Mi ricorda molto Giorgio Chinaglia, soprattutto per la grinta».

Claudio Lotito una volta ha detto che lo Scudetto dell’era Lenzini è stato casuale.

«Casuale o non casuale, soprattutto per me e per mio fratello fu un’esperienza pazzesca. Abbiamo vissuto quell’epoca in un modo indescrivibile. Siamo stati i ragazzi più fortunati del mondo e questo mi ripaga di ogni cosa».

Juan Carlos Lorenzo, tecnico stracult tra aneddoti e straordinaria conoscenza del calcio. Fabrizio Bocca su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Argentino di Buenos Aires, per tre volte sulla panchina della Lazio. Infiniti racconti sulla sua superstizione e sul suo particolare modo di interpretare il gioco: dalle maglie bruciate negli spogliatoi al numero 8 che lo ossessionava in ogni scelta fino a quel look estremo con la musica del tango a tutto volume per disorientare i giocatori della Roma prima di un derby. Allenarsi correndo dietro una gallina, il pullman della squadra costretto a passare per scaramanzia col rosso, l’ossessione nel numero 8, una caccia senza quartiere alle spie. Juan Carlos Lorenzo fu un grande allenatore, ma uscito direttamente da uno di quei film anni 70-80, oggi Stracult. Se non fosse che quelle cinecommedie - “Il presidente del Borgorosso Football Club” (1970), “L’allenatore nel Pallone” (1984), “Mezzo Destro, Mezzo Sinistro” (1985) - uscirono dopo di lui, prendendo in parte ispirazione anche da questo totem della Lazio anni 60. Anzi in “Mezzo destro, Mezzo Sinistro”, l’allenatore interpretato da Leo Gullotta “Juan Carlos Fulgencio”, lo richiama espressamente. Lazio dove Lorenzo tornò, a più riprese, l’ultima, richiamato da Giorgio Chinaglia, nel 1984. Come se Carlo Taranto, Lino Banfi e Leo Gullotta fossero usciti dallo schermo e si fossero seduti in panchina vicino a te. Andando indietro nel tempo, esiste una Lazio vincente, quella di Cragnotti ed Eriksson (a cavallo tra gli anni 90 e 2000), una Lazio epica, quella del primo scudetto di Maestrelli e Chinaglia (anni 70), e una Lazio eroica (anni 60), grandiosa e disperata al tempo stesso, ma leggendaria, il vero cuore degli autentici, anziani, laziali. Un prequel, direbbero oggi: tutto quello che è stato dopo, lì nacque. In un calcio più a misura d’uomo, ma anche rustico, abbastanza smandrappato, in un Olimpico antico ma originale e pieno di sole, tra uomini incredibili e un mondo all’opposto. Di quella Lazio così umanamente ricca, Juan Carlos Lorenzo, argentino di Buenos Aires, allenatore internazionale che sarebbe poi arrivato anche a una finale di Coppa dei Campioni con l’Atletico Madrid (1974) e avrebbe anche vinto titoli in patria col Boca Juniors, per due volte ct della nazionale, per tutti semplicemente Toto, ne fu il personaggio eponimo. Quello che ha lasciato più ricordi, aneddoti, storie tramandate di laziale in laziale, anche deformate e ingigantite sempre più. L’allenatore stregone passato alla leggenda. Centrocampista della Sampdoria nei primi anni 50, aveva cominciato la carriera di allenatore con un certo successo, fino ad arrivare alla guida dell’Argentina stessa ai Mondiali in Cile, e trovare poi un ingaggio in Italia nella Lazio dell’allora vicepresidente e commissario straordinario Angelo Miceli, costruttore siciliano in attività a Roma (1962). E’ una Lazio che gioca in serie B, non una grande squadra, ma un club che vive di una nobiltà decaduta, instabile, addirittura commissariato dalla Lega Calcio per gravi problemi economici. E’ un passato, quello di Lorenzo, che torna e ritorna più volte, fino alla prima metà degli anni 80 appunto. Juan Carlos Lorenzo guiderà la Lazio per tre volte nella sua carriera, per 6 stagioni (o spezzoni) e 185 partite complessive. Ne faccio, per comodità, una breve sintesi: 

62-63 Serie B, subentrato a Roberto Facchini alla 5a giornata, direttore tecnico insieme a Bob Lovati allenatore ufficiale, 48 punti insieme al Bari, 3° posto ufficiale e promozione in serie A. Principali giocatori: Pagni, Bernasconi, Rozzoni, Morrone.

63-64 Serie A, ottavo posto. Principali giocatori: Landoni, Pagni, Maraschi, Morrone.

68-69 Serie B, 1° posto. Presidente Umberto Lenzini, Lorenzo direttore tecnico, con Lovati allenatore. Promozione in Serie A. Principali giocatori: Ferruccio Mazzola, Governato, Ghio, Massa, Morrone.

69-70 Serie A, 8° posto. Principali giocatori, Wilson, Chinaglia, Marchesi, Oddi, Governato, Nanni, Massa, Morrone.

70-71 Serie A, 15° posto, Lazio retrocessa in Serie B. Principali giocatori: Wilson, Chinaglia, Marchesi, Governato, Facco, Morrone. 

84-85 Serie A, presidente Giorgio Chinaglia, Lorenzo subentra a Paolo Carosi dalla 4a giornata (ottobre 84). Licenziato dopo la 20a giornata. Giocatori principali: Manfredonia, Giordano, D’Amico, Laudrup. A fine stagione 15° posto e retrocessione in B.

Lorenzo con Giordano, Laudrup, Batista e D'AmicoJuan Carlos Lorenzo è il padre - forse, meglio, uno zio simpaticone - della Lazio che poi tutti racconteranno. Quella di Maestrelli, Chinaglia, lo scudetto, le maledizioni, la grandezza anche tragica dei suoi personaggi. Quando a Roma però senti parlare con grande orgoglio di “lazialità” vuol dire che il vero laziale da quegli anni deve essere passato ed essere stato temprato.

Juan Carlos Lorenzo è la versione romana e laziale di Helenio Herrera: e infatti per ben tre anni (68-69, 69-70, 70-71) lì troveremo uno di quà e uno di là dal Tevere: Herrera alla Roma, Lorenzo tornato alla Lazio riportato in biancoceleste da Umberto Lenzini. Per Herrera e Lorenzo il calcio è un tango, non va solo giocato e ballato, va interpretato, caricato umanamente di sentimento, riempito di sguardi, espressioni, e soprattutto, nel loro caso, di parole ed impeto. La partita e tutto ciò che c’è intorno alla partita va interpretato, come un grande attore. Già il fatto che tutti chiamassero Lorenzo per riverenza “Don Juan” (Don Giovanni) può dirci del fascino tutto latino del personaggio. Al di là dei risultati, comunque importanti anche se spesso contraddittori, di quella Lazio resta proprio la teatralità, il racconto trasmesso per via orale dai tifosi, l’eccentricità della vita quotidiana della squadra. Non riuscendo più a dare ordine alle letture, ai racconti e in parte anche ai ricordi da bambino per antiche frequentazioni genitoriali, e professionali per aver intercettato JCL negli anni 80 - in quello strambo e pazzo remake della Lazio anni 70 -  ho cercato di fare una lista delle superstizioni e stranezze di Juan Carlos Lorenzo. Ripeto, non tutto è storicamente provato e documentato - anche se Wilson e Oddi possono andare avanti ore a raccontare senza fermarsi -  ma secondo me modificato dalla tramandazione orale della leggenda. E proprio per questo diventato intramontabile e oggetto di “cult” anche cinematografico. Dunque così, abbastanza random.

Dopo un derby perso con la Roma, fece bruciare le maglie nello spogliatoio.

Costrinse i giocatori a vestire le magliette estive anche a gennaio perché con quelle aveva vinto un derby.

Non si può cambiare l’abito di una partita vinta, non solo l’allenatore (considerava portafortuna le scarpe luccicanti, una camicia blu a pallini bianchi e una cravatta altrettanto blu): tutti. In realtà qualsiasi gesto, qualsiasi pratica viene ripetuta ossessivamente se si vince: anche il menù prepartita o della sera prima.

Siccome prima di una partita vinta a Roma il pullmann della squadra passò inavvertitamente col rosso all’incrocio delle Belle Arti, si dice che Lorenzo costringesse l’autista a fare sempre la stessa strada e a passare col rosso al semaforo delle Belle Arti.

Aveva la scaramanzia del numero 8: in albergo voleva solo camere con quel numero (108, 218, 328 etc), viaggiava in scompartimenti di treno con l’8, idem per il numero di posto. Si dice che alla vigilia di un partita, in ritiro costrinse un tale a cambiare stanza, perché non se ne trovava un’altra col numero 8.

Era ossessionato dalle “spie”, le vedeva ovunque, nei campi d’allenamento e negli alberghi. Oddi racconta che un giorno fu costretto a parlare con un tizio che allo sguardo non convinceva Lorenzo e che lui guardava sospettoso nell’hall del ritiro a Fregene. Voleva insomma che lo facesse andar via. “Ma io sono il proprietario dell’albergo, sono io che caccio voi!”

Si rifiutò di far cominciare un allenamento a porte aperte con i tifosi già sulle tribune del Flaminio, tutti furono mandati via. Disse che arrivando al campo aveva visto un tizio con la macchina targata Brescia e la domenica successiva la Lazio doveva giocare proprio col Brescia. Per sicurezza comunque in casi del genere usava mettere terzini a centravanti e viceversa.

Costrinse il terzino Zanetti, ma forse anche altri giocatori, a inseguire e prendere una gallina in un recinto a Tor di Quinto per migliorare riflessi e scatto. E’ pittoresco e assurdo, ma non così unico: in Rocky II (1979), il vecchio allenatore interpretato da Burgess Meredith costringe anche Stallone/Balboa a farlo, affermando come “ai suoi tempi” il “Chicken Chase” (inseguimento alla gallina) fosse una pratica di allenamento comune nello sport. 

Nel novembre 84 (terza esperienza laziale, richiamato da Chinaglia presidente americano) affronta il derby con la Roma, accogliendo nei corridoi dell’Olimpico i giocatori giallorossi con pantaloni ascellari, camicia scura con colletto dalle punte enormi, cinta altissima, tacco altissimo, capelli imbrillantinati, un calice di spumante in mano rivolto agli avversari, e un mangianastri che suona un tango a tutto volume. I giocatori della Roma rimangono esterrefatti.

Prima di un Samp-Lazio (dicembre 84) costringe il terzino Filisetti (76 chili) a perdere cinque chili in una settimana perché deve marcare Francis (71). Altri dicono che i chili da perdere erano solo tre. Ovviamente Filisetti non si regge in piedi, la Samp va avanti di due gol. Lorenzo sostituisce Filisetti, negli spogliatoi fa bruciare le maglie, e pareggia 2-2 con Calisti e Batista.

Ricordando un gol fatto su punizione mentre Ghio e Ferruccio Mazzola litigavano furibondamente distraendo gli altri, pretese che sulle punizioni si operassero manovre di disturbo. A Giordano arrivò a chiedere “Invece di tirare punizione, devi metterti vicino a barriera e dire: hijo de mignota, mortaci tui” per seminare confusione nella squadra avversaria. Con Giordano non si prese mai, era convinto gli facesse la guerra, lo mise fuori squadra.

Si dice che ai giocatori chiedesse di cospargersi le mani con una crema urticante e poi toccare e irritare gli occhi degli avversari. Oppure ai difensori (Spinozzi, Filisetti, Storgato), di mettere nei calzettoni foto delle mogli di Virdis, Altobelli, Zico per farli arrabbiare, reagire e dunque farli espellere.

Al portiere Orsi ordirò di cambiare la maglia rossa perché “attirava” i tiri degli altri.

Altre storie: spargere il sale sul campo (lo facevano anche Anconetani al Pisa e Rozzi all’Ascoli), entrare sul campo col piede sinistro: ma questo nel calcio è comunissimo.

Lorenzo non è solo un allenatore, è un “manager” ante litteram. Alla Lazio si ricorda il cosiddetto piano MILOR 1964 (Miceli-Lorenzo): è sua l’idea, mutuata dal Boca Juniors, in tempi di crisi economica nella sua prima Lazio, di una vendita di abbonamenti pluriennali per tifosi Doc. 200.000 lire l’uno per arrivare a 600.000.000, e garantire campagna acquisti e pagamento degli  stipendi ai giocatori. L’anno dopo però Lorenzo passò clamorosamente alla Roma (alla notizia venne letteralmente cacciato in malo modo da Tor di Quinto dal dirigente notaio Nanni Gilardoni), e fu sua l’idea della “Colletta del Sistina” (1965) - presidente Marini Dettina -  con la squadra radunata al teatro per chiedere i soldi per la trasferta di Vicenza e il pagamento degli stipendi. Giacomino Losi bassò col bussolotto tra le file della gente. Forse la scena più umiliante e beffarda della storia della Roma e del calcio intero. 

L’aneddotica tracimante ha schiacciato e travolto Juan Carlos Lorenzo: siamo in piena commedia all’italiana. Ma l’allenatore resta comunque un grande tecnico, un precursore dell’allenatore come leader protagonista, che storicamente si ritiene un traguardo raggiunto e tagliato da Helenio Herrera. Lorenzo resta l’uomo delle promozioni della Lazio, quando la B non era un campionato spazzato via dal calcio estero, ma un torneo seguito e popolare. E’ l’allenatore che spinge all’ingaggio di Wilson e Chinaglia dall’Internapoli, convinto dai rapporti degli osservatori. E’ lui che sgrezza tecnicamente Chinaglia lo sottopone a dieta ferrea, gli vieta l’alcol e perfino l’ascensore. Long John manterrà un ottimo rapporto con lui.   Lorenzo pratica un calcio moderno, spiega il “tourbillon” ai giocatori in ritiro muovendo monete da 50 e 100 lire su un tavolo, come un prestigiatore. I suoi erano germi di calcio totale. Nonostante la retrocessione del 71, l’esonero e l’ingaggio di Maestrelli, a Roma sorgerà un movimento di tifosi - “La Coscienza della Lazio” - che critica e contesta pesantemente squadra e società all’inizio della nuova stagione. Si è sempre sospettato che a dirigere e indirizzare “La Coscienza della Lazio” ci fosse Lorenzo stesso. Insomma siamo a qualcosa di sideralmente distante dal calcio di oggi. Il suo ritorno alla Lazio nel 1984 fu un disastro concluso, con la retrocessione in B della squadra di Giordano, D’Amico, Manfredonia e Laudrup. E’ stato scritto persino che al primo allenamento avesse letto un biglietto di auguri che diceva essergli stato mandato da Alcide De Gasperi, morto però trenta anni prima. O forse chissà che De Gasperi fosse… Poi fece marcare Maradona al giovane Fonte, e l’argentino ne fece tre. Fu la fine: esonerato se ne andò senza salutare nessuno, nemmeno Chinaglia, ritirandosi tra Miami e Buenos Aires. Ma lasciando di se stesso la più stramba, buffa, paradossale leggenda del calcio italiano. Personaggio da cinecommedia o letterario da libro di Osvaldo Soriano, a Tor di Quinto dove un tempo si allenava la squadra, la Lazio un giorno dovrà innalzare la statua di un uomo dal sorriso beffardo, il corpo tozzo, il nasone schiacciato, le gambe arcuate, e la coppola appoggiata sui capelli imbrillantinati. Nessun laziale rinuncerebbe a un solo minuto di quella storia. Juan Carlos Lorenzo, nato a Buenos Aires il 20 ottobre 1922, morto  sempre a Buenos Aires il 14 novembre 2001. La maggioranza delle fonti sostengono che le sue ceneri siano state sparse dietro una porta alla Bombonera, nello stadio del Boca. Ma anche questo è leggenda. La volontà della moglie e un numero identificativo della sua lapide ci dicono che i suoi resti sono sepolti al cimitero “Jardin de Paz” a Belgrano. 

Silvio Piola, bomber irraggiungibile: 290 gol in serie A, il titolo mondiale e un cuore biancoceleste. Luigi Panella su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Il più prolifico centravanti della storia del nostro Paese ha giocato e segnato per nove anni nella Lazio. I ricordi della figlia Paola: "La firma del contratto al Caffè Vernetti, la passione per la caccia, i trionfi con la nazionale e quell'incredibile doppietta, con la testa rotta, nel derby del 1941". NEL 1934 il calcio è un fenomeno che ormai va oltre lo sport. In Italia, in Europa, nel mondo. La Coppa Rimet, che il Brasile di Pelè farà sua definitivamente nel 1970 con la vittoria del suo terzo titolo mondiale, ha vissuto già due edizioni. Nel 1930 la finalissima di Montevideo tra Uruguay (che vincerà 4-2) e Argentina, ha trasformato i mulinelli del Rio della Plata in torce infuocate al punto che l'arbitro della partita, l'inappuntabile belga Langenus, per dirigerla ha preteso una assicurazione sulla vita e un battello pronto a salpare per l'Europa pochi minuti dopo il fischio finale. Nel 1934, nello Stadio del Partito Nazionale Fascista (l'attuale Flaminio), l'Italia ha battuto la Cecoslovacchia 2-1 conquistando un titolo esaltato da Mussolini come era successo solo con il superuomo Primo Carnera, tornato dagli Usa l'anno precedente con il titolo mondiale dei pesi massimi. I pensieri degli azzurri sono pieni di fantasmi in quel pomeriggio del 10 giugno: li scacciano via Orsi, che a 8 minuti dal termine pareggia il gol danubiano di Puc, e Schiavio che regala il trionfo ai supplementari. Il divo della squadra però è un altro: bello, la chioma luccicante di brillantina e classe da vendere. Le donne dell'alta società di Milano se lo contendono e in tanti canticchiano una canzone che fa “La donzelletta vien dalla campagna, leggendo la Gazzetta dello Sport e come ogni ragazza, lei va pazza per Meazza, che fa reti a tempo di fox-trot.''. Giuseppe Meazza gioca nell'Ambrosiana, così chiamata dal regime che trova il nome Internazionale politicamente scorretto. Ormai, con la Juventus che inanella scudetti in serie, il Milan, il Torino, il Bologna che si appresta a far tremare il mondo e le squadre della Capitale che cercano di farsi spazio, il calcio appartiene alle grandi città. E, anche se è passato poco tempo, il calcio dominante del quadrilatero piemontese (la Pro Vercelli con il suo carico di sette scudetti, Novara, Casale e Alessandria) sembra ormai roba superata. La Pro Vercelli ad esempio vivacchia in serie A ma ormai non vince più titoli, anche se nelle sue fila si sta distinguendo un attaccante alto (178 cm per l'epoca non sono pochi), coraggioso, potente e con un grande fiuto del gol. Si chiama Silvio Piola. Si è fatto conoscere eccome: in una partita contro la Fiorentina finita 7-2 segna 6 reti, record mai battuto e solo eguagliato da Omar Sivori che però nel famosissimo 9-1 del 1961 brutalizza i giovani dell'Inter, mandati in campo per protesta dopo una decisione della corte federale favorevole alla Juventus. Rispetto a Meazza, anche per il carattere riservato, Piola è il classico antidivo ma quando la Pro Vercelli è costretta a cederlo per risanare il bilancio societario, non ha dubbi sulla scelta. “Lui voleva andare all'Ambrosiana, non solo per il blasone della squadra, ma anche per mettersi in mostra per la Nazionale. All'epoca, tranne alcune eccezioni, la squadra azzurra era composta quasi interamente da giocatori della squadre del nord”, racconta la figlia Paola. Le cose non vanno così. Il potentissimo generale Giorgio Vaccaro, anche lui piemontese, non solo è presidente della Figc, ma è anche un accesissimo tifoso della Lazio. La prima mossa è di far trasferire Piola, che sta facendo il servizio militare, a Roma, quindi... ''Si incontrarono al Caffè Vernetti di Vercelli, lui e il presidente della Pro Vercelli Ressia. E' lì, in uno spazio ancora oggi indicato alla clientela, che mio padre venne ceduto alla Lazio”. Prende il via una avventura straordinaria, durerà nove anni: “All'inizio era un po' restio, anche la sua mamma era preoccupata per il salto dalla provincia alla grande città. Ma Roma lo accolse in maniera che è persino riduttivo definire amorevole”. La sua prima casa è al quartiere Flaminio, a Via del Vignola. Una posizione strategica: ha tutto ad un tiro di schioppo. E’ vicino allo stadio Flaminio ed al campo di allenamento della Rondinella. E’ vicino alla sede, che all’epoca ha due entrate: via Frattina e via Borgognona. Al centro di una stanza c’è il biliardo, il tecnico Molnar vi dispone sopra le sfere numerate e spiega la tattica ai giocatori. Vicino c’è il tram, che i romani chiamano linea rossa per il colore delle vetture: poche fermate ed arriva a Villa Borghese, per la precisione a Piazza di Siena, dove svolge ulteriori allenamenti, da solo, per migliorare la condizione atletica. Inoltre, particolare non secondario, c’è la tenuta di caccia dei Parioli. La caccia è un’attrazione irresistibile per Piola, ma che gli crea qualche problema nei rapporti con gli altri. “Si portava sempre dietro i suoi cani. Questi però davano fastidio ai vicini che protestarono. Fu sfrattato e dovette trasferirsi alla Città Giardino, dove andò meglio. Per fortuna che il presidente della Lazio, Zenobi, era meno suscettibile. Tollerava mio padre quando arrivata in sede vestito da cacciatore e con i cani, gli voleva bene. Per i mondiali di Francia gli regalò dei parastinchi speciali, rinforzati con stecche di alluminio per rinforzarli”. Caccia a parte, è il campo di calcio l'habitat naturale di Piola. Non è solo un ariete da gol, ma ha tecnica ed una perfetta coordinazione che gli permette di entrare nella storia come uno dei più grandi artisti della rovesciata. La più celebre, il 13 maggio 1939, a Milano contro l'Inghilterra, tiene incollata alla radio mezza Italia. Il radiocronista è il leggendario Niccolò Carosio: “Italia e Inghilterra si stanno affrontando in un acceso e vertiginoso confronto. Attaccano gli inglesi con Matthews, Foni intercetta e spazza il pallone sul versante destro dell'attacco azzurro dove attacca Serantoni, cross al centro, rovesciata di Piola, rete!”. In realtà quella spettacolare rovesciata, come lo stesso Piola disse tanto tempo dopo, celò un colpo di mano dato al pallone che l'arbitro non vide. “Ma lui voleva dirlo, - spiega la figlia – solo che ordini superiori gli suggerirono di lasciare l'episodio sotto traccia. A quei tempi con l'Inghilterra non correva buon sangue''. Ironia della sorte, 47 anni dopo un giocatore dell'Argentina, altra nazione che con l'Inghilterra ha il sangue amaro, tale Diego Armando Maradona, replicò la furbata addirittura in un quarto di finale mondiale. Nella Lazio Piola non fatica ad imporsi. Vero, nelle prime due stagioni la squadra è lontana dal vertice della classifica, ma le reti arrivano copiose. In biancoceleste saranno 143 in 227 partite, complessivamente in carriera ne segnerà 290 in serie A (comprese 16 con il campionato diviso in due gironi per motivi bellici), record praticamente inattaccabile. La stagione 1936/37 è quella della consacrazione con la Lazio: vince il titolo di capocannoniere, sfiora lo scudetto (che va al Bologna) e conduce i biancocelesti alla finale della Coppa dell'Europa Centrale, una Champions League ante litteram. Contro gli ungheresi del Ferencvaros, capitanati da un mito del calcio danubiano come Gyula Sarosi, sono due battaglie: 4-2 per loro a Budapest, 4-5 sempre per loro a Roma. C'è però un momento in cui la Lazio è vicina anche all'impresa impossibile, ma proprio Piola sbaglia un calcio di rigore. Capita anche ai grandissimi. Oltre alle doti tecniche c'è tanto altro. Da Piola arriva sempre e comunque l'elogio incondizionato ai compagni: “Lui era molto amico di Uber Gradella, che era più giovane ed era arrivato alla Lazio qualche anno dopo. Un giorno Uber fece un errore e il tecnico nell'intervallo lo rimproverò. Mio padre allora ne prese platealmente le difese: 'Vero, lui ha lasciato entrare quel pallone, ma anche io ancora non l'ho buttato dentro la porta'”. Proprio un episodio che riguarda Gradella fa capire la popolarità raggiunta dal calcio. Una volta il portiere è in giro per la città e viene affiancato da una macchina nera: scendono due uomini, sono in borghese, si qualificano, fanno parte della polizia fascista. Gradella, non capendo, trattiene il respiro prima di rilassarsi: nella macchina infatti ci sono i due figli di Mussolini, Bruno e Vittorio, che lo hanno riconosciuto e vogliono un autografo. Piola è l'attaccamento alla maglia, è il coraggio, è una sorta di eroe popolare. ''Nel '35 durante una gara di campionato, si fece parecchio male ad un piede, ma nell'intervallo non volle togliere la scarpa. 'Se l'avessi tolta non sarei riuscito a tornare in campo' mi raccontò. Continuò quindi a giocare e segnò anche''. E poi quel derby del marzo del 1941, con la Lazio che rischia la retrocessione mentre la Roma sta mettendo le basi per lo scudetto che arriverà la stagione successiva: “Nel primo tempo in un contrasto di gioco si spacca la fronte. Un bruttissimo taglio, tanto che il medico della squadra lo vuole portare in ospedale. Lui rifiuta, si fa mettere due grappe sulle ferita, una fasciatura approssimativa e torna in campo. Non solo, ma segna di testa colpendo il pallone proprio con la parte ferita. La partita finisce 2-0, nel secondo tempo segna ancora lui, stavolta di sinistro. L'episodio lo narrò lui stesso in un 33 giri in cui lo intervistava Sandro Ciotti, e la cosa che aveva piacere di ricordare è la fine della partita, quando vedendolo sanguinante e pieno di fango tutti i tifosi, anche quelli della Roma, si alzarono in piedi ad applaudirlo”. Quando gioca quel derby, Piola è già una affermatissima star internazionale. Nel 1938 in Francia ci sono i mondiali, e con l'Europa ormai sull'orlo del conflitto bellico, l'Italia non incontra propriamente i favori del pubblico di casa. La pressione sui giocatori non è solo cosa del calcio di oggi. In molti pensano che gli azzurri quattro anni prima abbiano vinto anche grazie a qualche aiutino. Pesa quello strano forfait di Ricardo Zamora nella ripetizione del quarto di finale (ufficialmente per infortunio, ma sembra che ci sia una protesta del portiere più forte del mondo per il clima brutale della prima partita, finita in parità). Pesa quel gol contestato all'Austria in semifinale, segnato da Guaita mentre Meazza furbescamente fa ostruzione al portiere austriaco Platzer. Insomma, c'è tanta attesa sull'Italia, e questa per poco non si rivela fatale. Prima partita contro la Norvegia, si gioca ad eliminazione diretta, è l'ottavo di finale. Segna subito Pietro Ferraris, ma nel finale pareggia Brustad. Si va ai supplementari. “Ad un certo punto – racconta Paola Piola – Pasinati avanza e tira, il portiere norvegese respinge, arriva in corsa mio padre. Dietro di lui lo stesso Pietro Ferraris, che era vercellese ed era suo amico, gli aveva urlato di lasciare la palla...”. Piola quella palla non la lascia, tira, segna e ci porta ai quarti con la Francia. E quando Ferraris bonariamente lo rimprovera (''Se avessi fatto doppietta Pozzo forse non mi toglieva di squadra nelle altre partite”), Piola replica: “Ma se non facevi gol tornavamo tutti a casa...”. Nei quarti l'Italia, che si schiera in maglia e pantaloncini neri, batte la Francia 3-1: il primo tempo finisce in parità, nella ripresa Piola-Piola, c'è poco da aggiungere... Dopo la partita il centravanti riceve una quantità enorme di lettere e telegrammi. Uno in particolare lo colpisce e recita: “Tratta tutti i portieri avversari come tratteresti me. Firmato Tuo zio”, Glielo ha mandato Giuseppe Cavanna, il fratello della madre. Anche lui ha giocato al calcio, a ottimi livelli. Ruolo: portiere. Memoria: ottima. Lo zio Giuseppe ricorda benissimo quell'8 febbraio di 7 anni prima, quando in un Pro Vercelli-Napoli finito 6-3 il nipote, alla sua prima stagione con la Pro, gli aveva rifilato tre reti. La nazionale italiana vincitrice del mondiale 1938 in Francia. Silvio Piola è alla sinistra del ct, Vittorio Pozzo, che alza la Coppa RimetNella semifinale a Marsiglia c'è il Brasile, che da quando esiste il calcio si prende sempre il ruolo da favorito. E’ la sfida dei due mondi, anche perché viste le distanze abissali, è impossibile o quasi che squadre di due continenti diversi si affrontino in amichevole. Insomma, in attesa di vederla all’opera, sulla Seleçao si favoleggia. Una partita che il ct Vittorio Pozzo prepara con straordinaria abilità psicologica. Ricordava lo stesso Piola: “Pozzo era riuscito a farci intendere che bisognava astrarsi dall'ambiente. Molte volte ci faceva preparare in tenuta da gioco già dall'albergo, per evitare l'ultima mezz'ora di attesa negli spogliatoi. Poi, in pullman, si andava a zonzo per la città, per giungere all'ora dell'inizio fuori dall'ambiente...”. Pozzo fa anche leva sull'orgoglio, fa sapere ai giocatori che i brasiliani hanno già prenotato l'aereo per la finale di Parigi. Ma la Seleçao a quella partita non arriverà mai. Piola non segna ma entra nelle azioni dei gol: uno, su rigore, lo segna Meazza, che inganna il portiere Walter tenendosi i pantaloncini. Si è rotto l'elastico e rischia di fare uno dei gol più importanti della carriera mentre gli calano le braghe. Si va dunque in finale, dove Piola ritrova quel Sarosi avversario l'anno prima in Lazio-Ferencvaros. Stavolta però la storia è diversa: 4-2 per l'Italia che bissa il precedente titolo mondiale. Piola fa doppietta, è il momento più alto della carriera, reso ancora più straordinario dal fatto che tra Pro Vercelli, Lazio, Torino, Juventus e Novara il campionato non lo ha mai vinto.  Una carriera lunga, che arriva fino ai 40 anni, e che gli vale una ultima convocazione in nazionale nel 1952, a 38 anni e 7 mesi. Da allenatore poi è nella commissione tecnica per il mondiale del 1954, guida il Cagliari, quindi per un decennio è istruttore federale al centro di Coverciano: “Tra i suoi allievi c'è stato anche Sacchi”. In alcune registrazioni che talvolta ancora girano sui canali tematici della Rai, Piola spiega alcuni segreti tecnici del calcio. ''Mi capita spesso di rivederle - dice la figlia - ma quando parla è impostato, ha un tono di voce diverso rispetto a quello che usava in famiglia. Ci teneva molto a far capire il calcio come lo intendeva lui, tanto che a tavola spesso con le molliche di pane usate come giocatori ci spiegava la tattica. Come a dire se lo capite voi lo capiranno anche quelli che vedono la tv''. Piola se ne è andato in un venerdì di ottobre del 1996. Il giorno dopo, di pomeriggio, alcuni ragazzi giocano una partita a Piazza di Siena, proprio dove Piola si allenava da solo. Uno di loro, che ha vissuto sin da bambino tramite i racconti del padre le gesta di quel periodo in bianco e nero del calcio italiano, propone un minuto di silenzio. Tutti si raccolgono e lo osservano con rigore. Una delle più belle copertine di sempre gliela dedica la rivista Lazialità. Vi sono raffigurati i grandi della storia della Lazio, con lui al centro ed un titolo che dice tutto: ''In piedi, esce Piola”.

"Spero che le macerie di S. Siro non portino via nonno Meazza". Lunedì i 40 anni dall'intitolazione dello stadio a Pepin. Il nipote del campione, Federico Jaselli Meazza: "Vorrei che al nuovo restasse sempre il suo nome". Sergio Arcobelli, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Chiamarlo stadio non rende del tutto l'idea. Perché il Meazza è un luogo magico. Eppure, quel monumento rischia di essere abbattuto. Ne parla il nipote del grande Meazza, Federico Jaselli Meazza, figlio di Silvana, la prima delle due figlie di Giuseppe, di Pepin, del Balilla, riannodando il filo che dal 1924 ha legato la storia del grande campione a quella del calcio italiano.

Lunedì saranno 40 anni da quando San Siro venne intitolato in onore di suo nonno.

«Avevo solo 11 anni, ma fu una cerimonia molto bella ed emozionante. Ricordo che c'erano l'allora Sindaco di Milano Carlo Tognoli, il Presidente dell'Inter Ivanoe Fraizzoli insieme al grande Peppino Prisco e c'era anche il presidente del Milan dell'epoca Felice Colombo. Quel giorno si giocava il derby che poi l'Inter vinse 0-1 con gol di Oriali».

Inter e Milan vogliono realizzare un nuovo stadio. Che effetto le fa?

«Vorrei che lo Stadio nuovo portasse sempre il nome Meazza. Temo che un altro nome possa sbiadire il ricordo di mio nonno Peppino e che le macerie portino via i ricordi delle gesta di un grande uomo. Speriamo che non sia così. Ne vorrei parlare con l'Inter».

Su suo nonno lei ha scritto un libro ("Il mio nome è Giuseppe Meazza"). Che calciatore è stato?

«Aveva una classe ed una eleganza calcistica innate, infiammava le folle con i suoi dribbling che a volte ridicolizzavano i malcapitati portieri di turno. Massimo Moratti lo paragonò a Ronaldo il Fenomeno».

L'uomo.

«Era molto riservato, elegante e discreto. Evitava le polemiche e non diceva mai una parola di troppo. Fu il primo simbolo sportivo italiano capace di colpire l'immaginario collettivo anche fuori dal rettangolo di gioco, tanto da prestare il proprio volto per alcune pubblicità sui giornali».

Tra i vari aneddoti, c'è quello in cui andò a ballare la sera prima di una partita.

«Sì e la mattina seguente, non sentendo la sveglia, fece tardi ed entrò in campo a formazioni già schierate tra gli sguardi severi dell'allenatore e dei compagni. Dopo 10 minuti aveva già segnato 2 goal! Questo era Meazza».

L'Inter fu la sua prima ed ultima squadra.

«Una volta entrato nelle giovanili dell'Inter, Arpad Weisz lo convocò subito. Quando Leopoldo Conti seppe che avrebbe esordito quel mingherlino di soli 17 anni, esclamò: Quello lì? Ma se l'è un balilla!».

Si racconta che suo nonno fosse un pupillo del Duce.

«Già. Mussolini lo voleva alla Lazio ma lui, che allora viveva ancora con sua madre (mia bisnonna Ersilia), non si fece trovare in casa e lasciò alla mamma il compito di sbrigare la questione. Non voleva lasciare la sua Inter!».

E pensare che suo nonno da piccolo tifava Milan...

«Ma presto si innamorò di Cevenini dell'Inter. Nel '40 il nonno fu ceduto a titolo gratuito al Milan, dopo aver passato un anno senza giocare. Fu considerato un vero e proprio tradimento e i più accaniti tifosi dell'Inter gliene urlarono di tutti colori. Ma tornò a giocare la sua ultima stagione a 37 anni per salvare l'Inter che navigava in cattive acque».

A quali allenatori era più legato suo nonno?

«Arpad Weisz e Vittorio Pozzo, due maestri. Quando Weisz morì nei lager, provò lo stesso dolore di chi perde il proprio padre. Pozzo, invece, lo fece esordire a soli 20 anni in Nazionale e insieme vinsero due mondiali».

Il 9 febbraio 1930 suo nonno esordì a Roma in azzurro in un Italia-Svizzera, che guarda caso sarà la seconda partita degli Europei e si giocherà proprio a Roma.

«Vorrei che la Figc lo celebrasse in qualche maniera. Quella partita fu memorabile: al termine del primo tempo sua mamma lasciò lo stadio perché non poteva sopportare gli insulti rivolti al figlio. Nella ripresa il nonno, dopo i fischi, scatenò la sua furia, segnando 2 gol e fece vincere l'Italia 4-2».

C'era un giocatore a cui si era affezionato?

«Lui era molto legato a Facchetti e a Mazzola ma ammirava Gianni Rivera. Diceva sempre che i grandi calciatori giocano tenendo la testa alta».

Rivedremo mai un Meazza in azzurro?

«Dal 2008 vivo a Madrid con la mia compagna e i miei figli, Isabella e Matteo, entrambi nati qui. Matteo ha 7 anni ed è tifoso dell'Atletico. Se un giorno dovesse fare il calciatore, temo che sceglierebbe la Spagna».

Sfida Juve-Inter, secondo lei chi la spunterà?

«Spero l'Inter. Vedrò la partita dal ristorante Da Lele, il luogo di ritrovo dell'Inter Club Madrid, di cui sono presidente. Spero che una partita del genere non si giochi a porte chiuse, per di più alla vigilia dell'anniversario di mio nonno».

Trent'anni fa il secondo scudetto del Napoli.

Giuseppe Falcao per leggo.it il 12 maggio 2020. Diego jr e suo padre Maradona ai tempi del coronavirus. Lontani in linea d’aria, tra Buenos Aires e Napoli, vicinissimi con il cuore. Dopo anni difficili, il loro rapporto è sbocciato ed è diventato bellissimo. In questi mesi anche di più, durante il periodo buio delle quarantene, tappati in casa, tra ansie e paure.

Ha un segreto per tirare su il morale di Diego Armando Maradona?

«Sì. In questo periodo di quarantena gli mando spesso su whatsapp le foto dei suoi due nipoti, i piccoli Diego Matias e India Nicole. Provo a fargli delle sorprese ma so che ormai lui se le aspetta. È molto felice di vederle e di sapere che stiamo tutti bene. Mi chiede di noi, di Napoli, di come sta la città, dei napoletani che lui ama profondamente».

Nonno Maradona, suona un po’ strano a dirsi.

«Ama i suoi nipoti e io ne sono felice. Ci sentiamo al telefono e ci mandiamo dei messaggi. Anche a me fa bene sentirlo così vicino, anche se in linea d’aria siamo distanti. Magari è vero che in questo assurdo periodo abbiamo più tempo libero per noi, ma abbiamo anche più pensieri, si è più apatici, chiusi in casa. Insomma, non è facile. L’affetto delle persone che ami aiuta tanto».

Cosa le racconta Maradona dell’Argentina, come stanno affrontando l’emergenza?

«È orgoglioso del suo Paese. In Argentina la situazione è sotto controllo. Il Governo ha preso delle decisioni drastiche e sono riusciti a contenere il virus, a differenza del Brasile; lì Bolsonaro ha sottovalutato il problema e oggi ne stanno pagando le conseguenze».

Come vive l’isolamento uno come Maradona?

«È chiuso in casa, come quasi tutti, ma non è preoccupato per se stesso, piuttosto per il futuro del calcio argentino. E allora si è messo a disposizione degli altri, si è dimezzato lo stipendio per aiutare il presidente del Gimnasia La Plata, il club che ha allenato fino alla sospensione del campionato, a pagare tutti gli impiegati del club. Non lo dico perché sono il figlio, ma lo hanno raccontato i giornali. Un grande gesto».

E il calcio italiano? Ne parlate mai?

«Meno. Lui segue il Napoli, come me, ma oggi la priorità per lui è la salute e, naturalmente, il calcio argentino».

Che papà è per lei Diego Armando Maradona?

«Le persone che ho incontrato nella mia vita prima di conoscerlo, lo avevano descritto come un mostro. Invece è proprio il contrario. E’ un papà affettuoso, giocherellone con i nipoti. Sicuramente è una persona che ha avuto delle esperienze di vita che l’hanno segnato. E sono davvero felice del rapporto che giorno per giorno stiamo costruendo insieme».

Napoli e Maradona, lo scudetto bis per dirsi addio. Fabrizio Bocca il  28 aprile 2020 su La Repubblica. Trent'anni fa, il 29 aprile 1990, il secondo storico trionfo in campionato degli azzurri. Diego fu l'anti Sacchi, lo stratega di un Milan destinato a vincere tutto. Ma invece fermato dall'argentino tra imprese straordinarie e veleni infiniti: la monetina di Alemao e la Fatal Verona bis...Non avrebbe mai dovuto esserci un pomeriggio così. Anzi a esser precisi un momento fissato nel tempo e nella memoria: le 17.47 di domenica 29 aprile 1990. Da quando sei anni prima Maradona era entrato dentro il San Paolo la storia aveva già bussato troppe volte per poter pensare che certi corto-circuiti spazio temporali potessero ripetersi con inconcepibile frequenza. Era stato talmente eccezionale il primo scudetto del Napoli - tre anni prima tra l'altro - da pensare che non sarebbe mai potuto esistere un secondo. Per giunta strappato a un drago dalle 7 teste come il Milan di Arrigo Sacchi e dei tre olandesi, già trionfatore dell'ultima Coppa dei Campioni. La ripetizione dell'impresa era un qualcosa che faceva parte di mondi diversi e paralleli: la Juve, il Milan e l'Inter quelli potevano vincere e ripetersi, gli altri no. Tutti gli altri erano (sono?) destinati a fare da contorno, da riempitivo, da intermezzo, da simpatico colore: il primo scudetto del Napoli era stato così straordinario da far esplodere la leggenda popolare, l'arte, la letteratura europea e sudamericana e soprattutto tutto l'esoterismo partenopeo col fantastico "Che ve site perso" rivolto ai defunti del cimitero di Poggioreale. (Per inciso, sembra proprio che quella scritta non fu mai fatta, almeno lì e in quel momento, e che fu solo la fantasia di un giornalista napoletano a creare la meravigliosa leggenda). Ce ne era abbastanza insomma per non dare null'altro al Napoli di Maradona e Careca e dare tutto invece al Milan divino di Gullit, Van Basten e Rijkaard. Non era previsto che anche il Napoli potesse fare epoca. E invece il Napoli aveva strappato il secondo e ultimo scudetto della sua storia al fotofinish proprio col Milan di Sacchi, in un esibizione eccezionale di talento e fantasia, rabbia e volontà, veleno e congiura. Né il Milan tutto, né Berlusconi, ancora non "sceso in campo" in politica ma comunque popolare dispensatore di intrattenimento tv, fossero le tette di "Colpo Grosso", le risate di Drive In o i gol dei suoi olandesi, né Arrigo Sacchi stesso, né Van Basten, addirittura fino a oggi - "Quello del 1990 fu uno scudetto rubato al Milan" - riconobbero mai la legittimità di quel successo. Per la storia della moneta di Alemao a Bergamo e per il crac del Milan a Verona con l'arbitro Rosario Lo Bello accusato di essere il killer del sogno rossonero. La realtà è che il primo scudetto del Napoli non ebbe quasi avversari mentre il secondo fu uno scontro fra due partiti. Il partito di Maradona e il partito di Sacchi. Essere e avere, sinistra e destra, cuore e cervello, Yin e Yang, bianco e nero. Due poli contrapposti che ora si respingono e ora si attraggono come una calamita. Il vero, ideale e simbolico avversario di Maradona non fu dunque Van Basten (capocannoniere con 19 gol, davanti a Baggio 17 e Maradona 16) che pure era fatto della medesima materia celestiale, ma Arrigo Sacchi stesso. Perché Diego era il genio fatto uomo, lo scugnizzo del popolo, e Arrigo Sacchi invece Napoleone, il generale filosofo del calcio collettivo. Anzi il dittatore del collettivo. Avreste mai potuto mettere insieme quello del gol all'Inghilterra e quello che prevedeva un'orchestra governata dal suo spartito e basta? No, o stavi con l'uno o stavi con l'altro, non era possibile alcun compromesso. "Persino a De Niro servono un copione e un regista" diceva Arrigo. Anche se l'uno riconosceva la grandezza dell'altro. Sacchi disse che "Diego è l'unica eccezione possibile, l'unico che può giocare da solo e senza spartito" e Maradona disse a Sacchi stesso: "Devi venire al Napoli, con me e Careca partirai sempre dall'1-0". La realtà è che il Napoli di Maradona aveva tenuto testa al Milan di Sacchi (anzi lo aveva tenuto dietro...), nei confronti diretti 3-0 al San Paolo e 3-0 a San Siro. Perfettamente pari. E al di là delle famigerate 100 lire in testa ad  Alemao - su cui lucrò un punto in più a tavolino - il Milan non era stato perfettamente all'altezza della sua stessa straordinarietà. La Fatal Verona 1990 più che un delitto perfetto eseguito da Lo Bello jr. con l'espulsione di Sacchi, Rijkaard, Van Basten e Costacurta, fu soprattutto il collasso del sacchismo mandato in tilt da un uomo solo. Addirittura a distanza. Quel Verona lì stava finendo in B, e anzi all'ultima di campionato perse col Cesena e non ebbe scampo. Il grandissimo Milan di Sacchi seppe vincere due Coppe dei Campioni consecutive ma non due scudetti. All'uscita degli anni 80 si compì così la parabola più straordinaria del nostro calcio, Maradona portò un altro scudetto a Napoli - non molto distante, come impresa, dal vincere un mondiale... - mentre andava già manifestando propositi di addio. Anche Sacchi poco dopo avrebbe vinto la sua seconda Coppa dei Campioni. E da allora nessuno dei due avrebbe vinto altro.

Gianfranco Zola e il suo legame con Maradona: “Una fortuna averlo incontrato”. Redazione su Il Riformista il 4 Maggio 2020. “Prima Maradona, poi Gianfranco Zola”, cantavano i tifosi del Napoli. Quella era una squadra reduce dal punto più alto della sua storia – due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa, una coppa Uefa, tra il 1986 e il 1990 – e orfana del Pibe de Oro. Toccò proprio a Zola, il fantasista sardo, caricarsi sulle spalle l’eredità da leader tecnico dell’argentino. E proprio del suo legame con il Napoli, dove ha giocato fino al 1993, e con Maradona è tornato a parlare in un’intervista a Repubblica. “Aver incrociato Maradona — che ricami con Careca — è stata la mia fortuna”, ha confidato nell’intervista Zola, oggi allenatore. Per lui 105 partite in azzurro e 32 gol. Poi una carriera internazionale, con la stagione di un grande Parma e poi l’Inghilterra con il Chelsea. Fino al ritorno in Sardegna, al Cagliari, dove ha chiuso la carriera nel 2005. Una lunga carriera lungo la quale ha incontrato molti altri campioni. “Maldini e Roby Baggio: unici. In un’amichevole per beneficenza ho giocato con Ronaldinho e Iniesta, stratosferici. Mi sarebbe piaciuto duettare con Cristiano Ronaldo, un marziano. Meglio lui o Messi? È come dover scegliere tra Marilyn Monroe e Carla Bruni… Mi sarei divertito a giocare con entrambi”. Zola ha anche stilato una sua top 11. Anzi una rosa, perché completa anche di panchina. “La mia top 11: Buffon, Ferrara, Baresi, Desailly, Maldini, Lampard, Albertini, Di Matteo, Maradona, Roby Baggio e Careca. In panchina, io con Peruzzi, Benarrivo, Francini, Poyet, Wise, Casiraghi, Vialli e Asprilla. Allenatore Nevio Scala e Arrigo Sacchi”.  Sul ritorno in campo e la ripresa delle attività: “Si riparte con le condizioni giuste, la salute prima di tutto. Serve equilibrio, vanno seguite le indicazioni mediche e del governo. Ma una delle industrie più importanti del Paese deve ridare divertimento e coraggio agli italiani. La passione aiuta anche in questi casi”.

Da liberoquotidiano.it il 4 novembre 2020. Dopo l'operazione riuscita per Diego Armando Maradona inizia la fase di recupero. "Siamo felici che tutto sia andato per il meglio", ha dichiarato il figlio Diego. "L'ultimo contatto che ho avuto è stato con una mia zia alle 8 di stamattina in Italia: è stata una nottata insonne, per il trascorso clinico di mio padre ogni operazione diventa sempre un po' preoccupante. Ci tengo a dire che papà ha reagito benissimo, è nelle mani di un'equipe medica di altissimo livello", ha precisato. Sulle origini dell'edema: "Sono state scritte tante cose inesatte, anche brutte e senza rispetto. Noi come familiari abbiamo sofferto molto della dipendenza di mio padre in passato, ora ne è uscito alla grande e il suo passato con quanto accaduto non c'entra niente", taglia corto Maradona jr ai microfoni di Sky Sport. "Alla base di questo trauma c'è una botta riportata in una caduta o in qualche situazione domestica, della quale non ci eravamo mai accorti. La Tac ha rivelato questo edema che è stato rimosso tempestivamente", conclude Diego jr.

Da gazzetta.it il 4 novembre 2020. L’operazione al cervello per rimuovere il coagulo si è conclusa ed è andata a buon fine. “L’intervento a Maradona è stato un successo”, ha detto il portavoce del campione argentino Sebastian Sanchi. Che aggiunge: “Tutto è andato come previsto, Diego sta bene e sta riposando nella sua stanza”. Maradona è stato operato dal suo medico personale Leopoldo Luque, che ha detto: “Siamo riusciti a rimuovere il coagulo di sangue. Diego ha affrontato bene l’operazione. È sotto controllo. C’è un po’ di drenaggio. Rimarrà sotto osservazione”. Inizialmente Maradona era stato ricoverato per quella che pareva soltanto una forma di anemia, con un persistente stato di ansia e depressione. Poi invece è emersa la necessità di andare sotto i ferri. Diego è stato dunque trasferito nella clinica Olivos di Buenos Aires e l'ingresso dell'ambulanza è stato accompagnato da un corteo di mezzi delle forze dell'ordine, come si vede dalle immagini trasmesse sui social da TyC Sports, e di tifosi, alcuni con fumogeni azzurri. L'ematoma subdurale è un coagulo di sangue che fuoriesce dalle vene e mette sotto pressione il cervello. Può ferire o lacerare il tessuto cerebrale vicino. In altri casi, la quantità di sangue non è abbastanza significativa e si ha una prognosi migliore. Il quadro clinico di Maradona è peggiorato nelle ultime settimane ed è esploso in vista del suo 60° compleanno. Era in pubblico nei pochi minuti in cui ha potuto essere presente sul campo del Gimnasia per il debutto della sua squadra in Coppa. Altri dettagli arrivano da Stefano Ceci, amico e manager di Diego Armando Maradona, che ha parlato a Kiss Kiss Napoli: "Sarà operato, gli è stato trovato dopo una Tac un ematoma al cervello dovuto a un trauma. Avrà sbattuto la testa e non se ne sarà reso conto, capita dopo le pillole che prende per la mancanza del sonno. Erano diversi giorni che era abbattuto, è molto giù a livello psicologico e a questo si è aggiunta anche l'anemia. Il suo corpo negli anni è stato molto provato dalla vita sregolata che ha condotto e anche la pandemia a livello psicologico non l’ha aiutato. È stato rinchiuso da mesi solo con la cuoca e un aiutante, non incontra neanche i familiari da inizio pandemia".

Maradona operato, salvo «solo per l’intuizione di un medico». Ma restano i problemi. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2020. Rimosso l’edema, adesso Diego è in rianimazione. Il neurologo: «Parametri ottimali, recupero avviato». Il racconto dell’ex fidanzata sull’abuso di alcol e i tanti ricoveri. Se l’è cavata anche questa volta, il vecchio Maradona. Martedì notte i chirurghi della Clinica Olivos di Buenos Aires (un sanatorio di proprietà svizzera per argentini ricchi come lui) hanno impiegato 80 minuti (dieci in meno di una partita di calcio) per asportargli un pezzo della calotta cranica, rimuovere l’edema che faceva pressione sul cervello e richiudere tutto. Poi l’hanno spostato in rianimazione (ci resterà qualche giorno) dove già nel pomeriggio avrebbe sorriso e stretto la mano al dottor Luque, il neurologo che lo segue e che ha rassicurato il mondo parlando di «parametri neurologici ottimali, stato del paziente eccellente, recupero avviato». Pochi ammettono che Diego è vivo solo per «una felice intuizione medica», come ha dichiarato Matias Morla, il suo avvocato, che ha ribaltato la diagnosi iniziale e consolatoria di stress. La varia e abbondante umanità che da martedì sera (quando l’ambulanza con Diego a bordo è arrivata da La Plata) sosta adorante davanti al sanatorio di avenida Maipù ha tirato un sospiro di sollievo: l’Argentina non è pronta a lasciarlo andare, non a sessant’anni appena compiuti. Idealmente, attorno al suo letto si sono stretti gli otto figli, capi di stato (i presidenti argentino Fernández e venezuelano Maduro), colleghi come Messi, (che però non gli aveva fatto gli auguri per il compleanno, «Tutta la forza del mondo con te, Diego»), milioni di like e post di tifosi. Ma, come ha scritto su Facebook Fernando Signorini, il suo storico preparatore atletico, «la migliore cura per Diego sarebbe isolarlo, soprattutto per dargli la pace interiore di cui ha bisogno e che merita». Una pace che non ha trovato tuffandosi sulla panchina del glorioso ma decaduto Gimnasia La Plata, prima divisione del campionato nazionale, da cui si alzava a fatica, passando da un farmaco all’altro per combattere la depressione o abusando di alcool, come sostiene la sua ex fidanzata Rocio che ha parlato di recenti, ripetuti ricoveri in clinica completamente infruttuosi perché all’uscita «tanto Diego torna a bere, disidratarsi e cadere nella depressione». Non l’aiutano i rapporti pessimi con la ex moglie Claudia e le figlie, in particolare con Giannina, con cui da anni è in causa per questioni di soldi col contorno di orrende liti via social. Per sfuggire da una routine che lo stava opprimendo, lo scorso anno Maradona ha accettato di allenare pur non avendo forza fisica ed equilibrio mentale per gestire una squadra, lui che da mister anarchico ne ha combinate di tutti i colori anche quando era abbastanza in forma e lucido. Quando uscirà dalla clinica (se va bene la prossima settimana) dovrà decidere il suo futuro. O potrà come sempre delegarlo alla sua variopinta cricca di avvocati, medici, agenti e improbabili tuttofare. Senza un vero percorso di guarigione (Cuba sarebbe di nuovo pronta ad ospitarlo) la sua salute resterà a forte rischio di ricadute e il mondo di perdere per sempre un fenomeno irregolare, irraggiungibile.

Maradona ha 60 anni: ecco i 7 «miracoli» del Pibe de oro a Napoli. L’arrivo in una città simile alla sua Buenos Aires, la promessa di lottare per i poveri come lui, tanti ricordi-simbolo da far scorrere più di trent’anni dopo...Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 29/10/2020. Travolgente e viscerale; folkloristica e multicolore; vincente eppure dolente. Simbiosi - oltre il calcio - di riaffermazione identitaria; di riscatto (non solo sportivo) di un popolo intero e la sua metropoli. Bellissima, affastellata e incompresa (anche da sé stessa) nelle proprie enormi potenzialità. È la storia di Diego Armando Maradona (60 anni questo 30 ottobre) a Napoli.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 5 novembre 2020. Se l' è cavata anche questa volta, il vecchio Maradona. Ieri notte i chirurghi della Clinica Olivos di Buenos Aires (un sanatorio di proprietà svizzera per argentini ricchi come lui) hanno impiegato 80 minuti (dieci in meno di una partita di calcio) per asportargli un pezzo della calotta cranica, rimuovere l' edema che faceva pressione sul cervello e richiudere tutto. Poi l' hanno spostato in rianimazione (ci resterà qualche giorno) dove già nel pomeriggio avrebbe sorriso e stretto la mano al dottor Luque, il neurologo che lo segue e che ha rassicurato il mondo parlando di «parametri neurologici ottimali, stato del paziente eccellente, recupero avviato». Pochi ammettono che Diego è vivo solo per «una felice intuizione medica», come ha dichiarato Matias Morla, il suo avvocato, che ha ribaltato la diagnosi iniziale e consolatoria di stress. La varia e abbondante umanità che da ieri sera (quando l' ambulanza con Diego a bordo è arrivata da La Plata) sosta adorante davanti al sanatorio di avenida Maipù ha tirato un sospiro di sollievo: l' Argentina non è pronta a lasciarlo andare, non a sessant' anni appena compiuti. Idealmente, attorno al suo letto si sono stretti gli otto figli, capi di stato (i presidenti argentino Fernández e venezuelano Maduro), colleghi come Messi («Tutta la forza del mondo con te, Diego»), milioni di like e post di tifosi. Ma, come ha scritto su Facebook Fernando Signorini, il suo storico preparatore atletico, «la migliore cura per Diego sarebbe isolarlo, soprattutto per dargli la pace interiore di cui ha bisogno e che merita». Una pace che non ha trovato tuffandosi sulla panchina del glorioso ma decaduto Gimnasia La Plata, prima divisione del campionato nazionale, da cui si alzava a fatica, passando da un farmaco all' altro per combattere la depressione o abusando di alcool, come sostiene la sua ex fidanzata Rocio che ha parlato di recenti, ripetuti ricoveri in clinica completamente infruttuosi perché all' uscita «tanto Diego torna a bere, disidratarsi e cadere nella depressione». Non l' aiutano i rapporti pessimi con la ex moglie Claudia e le figlie, in particolare con Giannina, con cui da anni è in causa per questioni di soldi col contorno di orrende liti via social. Per sfuggire da una routine che lo stava opprimendo, lo scorso anno Maradona ha accettato di allenare pur non avendo forza fisica ed equilibrio mentale per gestire una squadra, lui che da mister anarchico ne ha combinate di tutti i colori anche quando era abbastanza in forma e lucido. Quando uscirà dalla clinica (se va bene la prossima settimana) dovrà decidere il suo futuro. O potrà come sempre delegarlo alla sua variopinta cricca di avvocati, medici, agenti e improbabili tuttofare. Senza un vero percorso di guarigione (Cuba sarebbe di nuovo pronta ad ospitarlo) la sua salute resterà a forte rischio di ricadute e il mondo di perdere un fenomeno irregolare, irraggiungibile.

Paolo Galassi per la Repubblica il 5 novembre 2020. L'operazione alla testa, nella notte fra lunedì e martedì, è andata bene. Almeno sembra. Per Diego Armando Maradona si prevede una degenza di una settimana e un periodo indefinito di riposo. Forse non era il caso di farlo sfilare in campo, il giorno del suo 60° compleanno. Forse, per la sua salute, non era nemmeno il caso di mettergli in mano una squadra, come se alla fine non fosse il suo vice Sebastián Méndez a dirigerla e metterla in campo. Difficile dirgli di no, certo. Difficile anche rinunciare ai ghiotti contratti che lo accompagnano ovunque, inevitabilmente destinati a solleticare chi lo circonda. Finché dura, meglio essere nel posto giusto al momento giusto. Gli hanno mandato abbracci il presidente argentino Alberto Fernández e l'ex presidenta Cristina Kirchner, passata più o meno per lo stesso problema sei anni fa. Evo Morales, Nicolás Maduro e pure un figlio di Fidel Castro. Una carovana di devoti è partita da La Plata in direzione Buenos Aires, con l'idea di stazionare fuori dalla Clinica Olivos per il cosiddetto aguante , ennesimo termine che fuori dal Rio de la Plata è difficile spiegare. Un po' come il culto del Diego e del dizionario Maradoniano, un'antologia di metafore con cui immortalare luci e ombre di un paese intero. El perfume del pasto, il profumo dell'erba, è l'immagine con cui negli ultimi tempi era solito spiegare la sua nostalgia per il campo da pallone. L'odore del cuoio, il sapore del fútbol. Se non giocato, almeno accarezzato a bordocampo, come un nonno che porta il nipote a veder passare i treni. Un Maradona acciaccato, portato in giro dal Diego fanciullo, immune al tempo e alle stagioni. Dalla panchina dei Dorados di Sinaloa, in Messico, a quella del Gimnasia di La Plata, strategia di mercato costruita attorno a lui dai personaggi che ne gestiscono l'immagine, i telefoni, l'agenda e che ne filtrano persino le relazioni familiari. Almeno così pare, stando agli sfoghi di Dalma e Gianinna, figlie del suo primo e unico matrimonio (con Claudia Villafañe), capostipiti di un clan infinito, oggi sul piede di guerra con l'altro clan, quello dei «chupasangre». I succhiasangue che badano solo a «spremere il limone fino all'ultima goccia», secondo l'espressione usata da Fernando Signorini, storico preparatore atletico di Diego tra Barcellona e Napoli. Uno dei pochi a mettere in guardia il pibe Pelusa dall'idolo capace di inghiottirlo. Cupio Dissolvi, il motto latino sul'autodistruzione attribuito a San Paolo, che non a caso a Fuorigrotta ha il suo tempio pagano. «Scrivi un messaggio a Maradona, qualcuno lo legge per lui e ti blocca », ha detto lunedì il Negro Enrique, ex compagno di nazionale, abituato a scherzare sul presunto assist servito a Diego per il gol del secolo agli inglesi nell'86. In pratica, l'ultimo a toccare la palla prima del miracolo. Lo stesso reclamo burlone di Eraldo Pecci sull'impossibile punizione segnata da Diego alla Juve, il 3 novembre del 1985. Lo stesso giorno in cui, 35 anni dopo, finirà sotto ai ferri. Oggi come allora, il nucleo dell'affaire Maradona si riassume con un concetto spesso associato a Johan Cruyff (parentesi: la sua prima volta con il leggendario numero 14 sarà un 30 ottobre del '70, giorno del compleanno di Diego, ma questa è un altra storia). Da allenatore del Barça, il divino Johan parlò di entorno, per definire tutto ciò che circonda e influenza un calciatore o una squadra. Un parametro utilizzato per spiegare la Messi-novela di qualche tempo fa, e per giustificare l'ultima deriva di Diego. Ormai abituato ai fantasmi di certe notti buie, e spesso sporche.

Da ansa.it il 6 novembre 2020. "Per prima cosa vorrei dire che Diego sta bene. E anche la tomografia a cui è stato sottoposto è andata bene. Abbiamo perfino ballato...sì, ballato". Lo ha detto poco fa il dottor Leopoldo Luque, il medico neurologo che segue da anni Diego Maradona e che due giorni fa lo ha operato per un ematoma al cervello. "A margine di tutto questo - ha aggiunto Luque - abbiamo rilevato degli episodi di 'confusione' e, assieme ai colleghi del reparto di terapia intensiva, li abbiamo associati a un quadro di astinenza. Quindi pensiamo debba rimanere ancora qui, è la cosa migliore per Diego e lui lo sa". Il problema di Maradona sarebbe di dover 'pulire' il corpo dagli effetti collaterali dei farmaci che prende da anni e che, in qualche caso, non facendo quasi più effetto arriverebbero ad essere tossici. L'ex fuoriclasse ha bisogno di riposo ma ha comunque ribadito al suo avvocato, e amico, Matias Morla, che lo è andato a trovare, di voler continuare a fare l'allenatore del Gimnasia La Plata. Il club, da parte sua, ha fatto sapere che lo aspetterà.

Da repubblica.it il 6 novembre 2020. Nessuna complicazione e il recupero procede a passi spediti. Arrivano buone notizie dalla clinica privata di Buenos Aires sulle condizioni di Diego Armando Maradona dopo l'operazione al cervello per rimuovere un coagulo di sangue a cui l'ex Pibe de Oro si è dovuto sottoporre martedì dopo un malore improvviso. "L'ho appena visto, è di ottimo umore. Siamo stupiti di come sta guarendo", ha detto il medico, Leopoldo Luque, che nella notte italiana ha fornito un aggiornamento sulle condizioni del campione, oggi 60enne. "Dobbiamo essere cauti, perché siamo ancora nel periodo post-operatorio - ha ammonito il dottore parlando con i giornalisti -. Ma è chiaro che non ha complicazioni neurologiche. Ci sono altri parametri che aspettiamo di valutare perché è ancora molto presto. Ma la ripresa è ottima". I commenti hanno suscitato forti applausi e cori di incoraggiamento da parte dei sostenitori di Maradona che attendono notizie fuori dalla clinica. Maradona era stato portato all'ospedale di La Plata - dove è l'allenatore della squadra Gimnasia ed Esgrima - lunedì per una serie di test dopo essersi sentito male. Una tac ha rivelato il coagulo di sangue. Il "Pibe de Oro" ha già sofferto di problemi di salute. È sopravvissuto a due attacchi di cuore, ha anche contratto l'epatite e ha subito un intervento di bypass gastrico. Per questi motivi è considerato ad alto rischio in relazione alla pandemia di coronavirus, che ha colpito duramente l'Argentina. Diverse volte negli ultimi otto mesi è stato in isolamento ed è stato costretto a rimanere a casa la scorsa settimana dopo che una guardia del corpo ha mostrato sintomi del Covid, anche se in seguito è risultato negativo. La figlia Dalma ha detto di avergli fatto visita dopo l'operazione, ma non ha fornito ulteriori dettagli sulle sue condizioni. "Voglio solo ringraziare tutti per le continue dimostrazioni di amore per mio padre, per mia sorella e per me, grazie a tutti coloro che hanno pregato per lui", ha twittato.

Maradona, ex medico: “Ingestibile, ha sostituito la droga con l’alcool”.  Notizie.it l'08/11/2020. Maradona deve fare i conti con l’astinenza: “Le sue condizioni ricordano quelle di quando fu costretto a ricoverarsi a Cuba". L’ex campione del mondo argentino Diego Armando Maradona è ancora ricoverato in ospedale dopo l’operazione al cervello di qualche giorno fa per rimuovere un edema subdurale. I medici, durante una conferenza stampa, hanno aggiornato tutti gli appassionati sulle sue condizioni, raccontando dei suoi “progressi costanti e l’eccellente decorso post operatorio”. “Si sente molto debole anche per la dieta alla quale si è sottoposto – hanno continuato i medici -. La realtà è che per Diego è stata una settimana particolare. Ha subito molte pressioni dal punto di vista emotivo e queste cose hanno influito sulla sua condizione generale”. Durante il lungo ricovero, però, Diego Armando Maradona deve fare i conti con l’astinenza: “Le sue condizioni oggi ricordano molto quelle di quando fu costretto a ricoverarsi a Cuba per disintossicarsi dalla cocaina. Maradona ha sostituito la droga con l’alcool. Così è ingestibile“, ha svelato Alfredo Cahe, ex medico che curò Maradona. E ancora: “Un problema dovuto allo stile di vita passato. Maradona resta sedato per via endovenosa, anche se stiamo progressivamente diminuendo le dosi. Ma non ci saranno grandi cambiamenti di terapia nei prossimi giorni. Resterà ricoverato almeno fino a lunedì”. Infine: “La riabilitazione richiederà tempo“. Intanto qualche utente ha scritto un Tweet dai toni poetici: “Forza, Diego. È come contro l’Inghilterra, anche questa sfida tocca vincerla ‘un poco con la cabeza y otro poco con la mano de Dios‘”.

Da ansa.it il 12 novembre 2020. Diego Armando Maradona è stato dimesso ieri dalla clinica di Olivos, dove otto giorni fa era stato operato per un ematoma subdurale. L'ex fuoriclasse del calcio è stato portato in una casa affittata nel centro residenziale Villanueva a Tigre, località a nord dell'area metropolitana di Buenos Aires. Qui Maradona si sottoporrà ai trattamenti necessari per curare la sua dipendenza dall'alcol e da alcuni farmaci. La località dove Maradona trascorrerà questo periodo non è stata scelta a caso, in quanto a poche centinaia di metri vive Giannina, figlia dell'ex Pibe de oro e autentica 'capofamiglia' in questo delicato momento. Sarà lei a occuparsi del padre e a stargli vicina.

Da sport.sky.it il 12 novembre 2020. A rassicurare sulle condizioni di Maradona in seguito all'intervento di rimozione di un edema subdurale era già stato nel pomeriggio di mercoledì il suo avvocato-manager Matias Morla: "Quella a cui è stato sottoposto Diego non è stata affatto un'operazione di routine, per me è un miracolo che sia vivo. Credo che Diego abbia vissuto il momento più duro della sua vita. Per fortuna  la settimana scorsa questo pericolo è passato perchè l'intervento del dottor Luque è stato tempestivo. Diego è una roccia e ora credo che oggi verrà dimesso, ma non so a che ora. Con lui ho parlato e so che ha tanta voglia di tirarsi fuori dai problemi personali che ha. Intanto bisogna che ci sia una riunione con i suoi familiari e con i medici che si occupano di lui. Con attorno i dottori e la sua famiglia, Diego tornerà felice come dovrebbe essere. Insieme dovremo fargli ritrovare amore e serenità".

Salvatore Riggio per corriere.it il 2 novembre 2020. Possibile che Lionel Messi non abbia fatto gli auguri a Diego Armando Maradona? Sì, possibile. Due giorni fa, venerdì 30 ottobre, l’ex Pibe de Oro ha compiuto 60 anni e tutto il mondo del calcio (e non solo) lo ha osannato ricordando le sue meravigliose imprese con l’Argentina e, soprattutto, con il Napoli. Il demone che ha portato il calcio in Paradiso con le sue giocate, i suoi dribbling, i suoi gol. Il fuoriclasse che ha saputo contrastare nel migliore dei modi ogni avversario. All’appello degli auguri, però, non sono presenti quelli di Messi. Tra tutti, proprio quello che è considerato il suo degno erede, nonostante gli manchi il grande successo con l’Albiceleste, sfiorato in quattro occasioni, una volta al Mondiale 2014 in Brasile (sconfitta ai supplementari contro la Germania) e tre volte in Coppa America (2007, 2015 e 2016). Come si può ben comprendere, il silenzio dell’attaccante del Barcellona non poteva passare inosservato. Perfino Cristiano Ronaldo, acerrimo rivale della Pulce in campo, ha elogiato Maradona, nonostante in passato si fosse autoproclamato il calciatore migliore di tutti i tempi, anche al di sopra di Maradona stesso o di Pelé. Le ipotesi In Argentina sono divisi sul mutismo di Messi. C’è chi lo difende, spiegando che la Pulce non è mai stato molto presente sui social per eventi del genere, c’è chi però gli ricorda gli auguri dell’ex Pibe de Oro il 24 giugno, quando Leo ha compiuto 33 anni: «Il mondo ti saluta, Leo Messi, che tu sia felicissimo». C’è chi parla di gelosia verso il più grande, c’è chi spiega di litigi o incomprensioni, magari mai realmente avvenuti. Ma c’è chi fa della sana ironia. E se Messi si fosse dimenticato il compleanno del suo maestro, suo c.t. al Mondiale di Sudafrica 2010? Chissà. Magari un fraintendimento tra il campione del Barcellona – in questo momento affaccendato in altre faccende, dopo le dimissioni del nemico Josep Maria Bartomeu, oggi ex presidente dei catalani – e il suo social manager, uno dei tanti elementi di spicco del proprio entourage. Non lo sapremo mai, se non sarà lui stesso a spiegarlo. Intanto, forse, suonano a pennello le parole di Quique Setien, ex allenatore dei blaugrana. Per lui non è stato facile allenare Messi, come ha rivelato a El Pais: «È il migliore di sempre. Ci sono stati altri grandi calciatori, ma la continuità che ha avuto lui nel corso degli anni non ce l’ha avuta nessuno, neanche Pelè. È molti riservato, ma ti fa capire quello che vuole. Non parla molto, ma con lo sguardo ti dice tutto. La verità è che ci sono calciatori complicati da gestire e Leo è uno di quelli. È il migliore di sempre e chi sono io per cambiarlo?». Basteranno queste parole per giustificare l’assenza di Lionel nel giorno del 60esimo compleanno di Maradona?

Da itasportpress.itil 27 ottobre 2020. Diego Maradona, ha detto che considera l’attaccante del Barcellona Lionel Messi e l’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo i migliori calciatori del mondo. “Messi e Ronaldo, Ronaldo e Messi … Per me, questi due sono superiori agli altri. Non vedo nessuno che si avvicina a loro. Nessuno fa nemmeno la metà di quello che fanno i due”, cita Maradona, France Football. Poi l’ex campione del mondo con l’Argentina ricorda l’episodio della ‘mano di Dio’ nel 1986: “Sogno di segnare un altro gol all’Inghilterra, ma questa volta con la mano destra!”. Maradona nei quarti di finale della Coppa del Mondo 1986, realizzò un gol alla nazionale inglese con la mano sinistra. L’arbitro ritenne che la palla fosse stata colpita con la testa e assegnò il gol. In quella partita, la nazionale argentina batté l’Inghilterra 2-1 e successivamente vinse la finale con la Germania. Maradona è stato nominato il miglior giocatore del campionato del mondo in Messico.

Maradona ha 60 anni: Diego simbolo di liberazione, ha giocato il calcio più bello di sempre. Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 30/10/2020. È impossibile giudicare Maradona solo come calciatore. Si può fare per Di Stefano, Pelè, non per lui. Maradona. è stato un simbolo di liberazione, uno che attraverso il calcio guidava la gente a riscattarsi, che dentro di sé non tollerava regole ma le portava agli altri. Era un sole dell’avvenire prosaico ma reale. Ha portato felicità concreta sbattendo Napoli in faccia all’Italia, ne ha descritto la grandezza moderna, l’ha scossa dalla sua distrazione e rimessa al centro del mondo. Maradona non è un eroe positivo né ha mai voluto esserlo. Credo si sia sempre sentito un martire della sua diversità, il mondo era cattivo perché la rifiutava, perché lui era eccessivo, melodrammatico, esagerato da sopportare. Viveva in mezzo a una corte di amici che lo aiutava a farsi re, una corte fraterna e golosa, fra concubine e cocaina. Poi alle prime luci dell’alba le prostitute di strada lo vedevano arrivare malinconico, meditando sui suoi errori. Gli si mettevano intorno e lo ascoltavano, dicono si commuovesse.

Momenti scioccanti di un uomo «scioccante». Tutti gli hanno sempre perdonato tutto perché Maradona ha preso e dato tutto. Commiserandosi, piangendo, gridando, non rispettando né il calcio né se stesso, ma dicendo sempre sì agli altri. Ho parlato con tanti suoi ex compagni di squadra, lo adorano ancora. Perché li ha fatti vincere dove nessuno aveva vinto e perché era davvero un compagno di strada, era generoso, esagerato. Un leader mai sospettoso ma dirimente, sentivi che aveva ragione perché lo diceva lui. È andato oltre il calcio, ha preso la vita a dosi massicce, ne è stato qualche volta travolto, è rimasto sempre ben dentro al mondo, sempre certo di due cose: che erano giuste le sue visioni e che non avrebbe mai potuto essere come gli altri. Ha sbagliato molto, si è entusiasmato anche di più. Credo sia un buon risultato. Il giocatore è stato unico, questo è facile, lo abbiamo visto tutti. Il calcio si stava organizzando e lui era un solista naturale. Scelse di farlo in mezzo agli altri. Il Napoli vinceva, dei valori si rovesciavano, bastava poco per chiamarla rivoluzione. Nessuno ha mai giocato al calcio come Maradona. Alcuni hanno fatto di più, vinto di più, vissuto meglio. Ma il calcio di Maradona resta il calcio più bello, scolaro della migliore grammatica tecnica. Si può interpretarlo diversamente come Cruyff, o in altri ruoli come per esempio Guardiola in panchina, ma non si può fare di meglio.

Maradonapoli. Ha vinto tutto, è riuscito ad appaiare Pelè come miglior giocatore del Novecento nelle classiche ufficiali della Fifa, lui che è stato sospeso dal calcio due volte per doping. Ha avuto il Pallone d’oro alla carriera perché inesistente quando giocava lui (era riservato solo agli europei). Ha segnato un gol all’Inghilterra che è ancora il più bello e nella stessa partita ne ha segnato un altro d’inganno con la mano. Questo era Maradona, le due facce della medaglia. Ma quando mi sono trovato solo con lui dietro i palcoscenici di Sky a parlare di vita, dopo quarant’anni di mestiere sentii che ero in soggezione. Avevo davanti un uomo sbagliato e magico che sembrava travolgerti ad ogni idea. Era piccolo e grasso, allora tanto grasso, ma sentivi solo il rumore del fascino. Buon compleanno Diego. Non ti scusare mai. Siamo tutti pari.

Claudio De Carli per “il Giornale” il 27 ottobre 2020. Ho sempre detto a Diego di smettere di mangiare troppo. Gli dico sempre che è grasso, sono la sua mamma, so quando certe cose sono sbagliate, adesso si è fatto una bella indigestione, comunque gli faranno una flebo e tutto tornerà a posto. Forse la vita del Pibe si può riassumere in questa reazione di mamma Tota quando quel giorno le telefonano da Punte de l' Este in Uruguay per avvisarla che il figlio è ricoverato per arresto cardiaco. Senza altri particolari. Quante cose nascoste e quante ne ha nascoste lui: Hai voluto vedere come palleggio con un' arancia, ha detto a un cronista ficcanaso, ti è piaciuto? Ti sei accorto che mentre palleggiavo l' ho toccata anche con la mano? No?

Neanche l' arbitro quel giorno contro gli inglesi. Con quel bel faccione d' argentino di casa nostra. Adesso ne fa sessanta e il meglio lo abbiamo visto qui noi, compreso il suo miglior mondiale, ne ha vinti uno ma quello che ha lasciato giù all' Olimpico per una ingiusta decisione del signor Codesal, è stato il suo, con una gamba sola e dieci modesti amici che ha portato in finale. Se ne era sorpreso anche Pelè: Questa Argentina è radicalmente cambiata da Messico '86, così mediocre non l' avevo mai vista, povero Maradona, deve sentirsi così solo...O' Rey ha fatto male i conti, non era iniziata bene a Milano con quel gol di Oman Biyik, ma El Diez non si era scosso: arriviamo fino in fondo. Per uno che se va a una festa in smoking bianco e dal cielo piove un pallone infangato lo stoppa col petto, dichiarazione di Cornejo il suo scopritore ufficiale, niente è già scritto. Nuvole sopra Baires, Lanus, una ventina di chilometri dalla capitale, qui Dona Tota regala al mondo un bambino che resta solo suo per pochissimo tempo e le ha dato più gioie e dolori di qualunque altro figlio sulla terra. Diego quando è cresciuto e ha fatto i soldi l' ha ricompensata per non farle mancare niente e a Villa Devoto, il quartiere periferico più pulito di Baires, ha costruito una residenza con un enorme parco attorno e una piscina dove la mamma galleggia mentre alza gli occhi e vede le nuvole passare. Lui è andato al quartiere Palermo, appartamento al decimo piano in Avenida Libertador 2.800, nel viale dove passeggia l' upper class argentina, e anche se ha volentieri cambiato letto, Dona Tota è sempre stata la prima a saperlo, prima che Coppola le desse un colpo di telefono e prima che uscisse la storia triste sulle edizioni straordinarie. Attorno a lui tutto è straordinario, immenso, gol di destro, di sinistro, di testa, capolavori, il rigore camminando che schianta Walter Zenga nella semifinale di Napoli non lo dimenticheremo mai. Con un rispetto poco consono sui campi per gli avversari, ne ha prese tante, falciato, insultato, non si ricordano reazioni. A Napoli volevano che lui li toccasse, erano e sono tuttora convinti che possa fare miracoli, volevano essere benedetti. Come quella volta che si trova nel parco divertimenti di Edenlandia in fuga dalla folla che lo circonda. Entra in un bar, c' è una signora in stato interessante che lo osserva: Ma che bel pancione, esclama, e le posa una mano sul grembo: Signora le faccio i miei complimenti e tanti auguri per il suo bambino. Bè, si racconta che quel bambino a due anni già palleggiava come un adulto, e tutti i mariti volevano portare le loro signore in gravidanza da Diego per ricevere una carezza sul pancione. «Guagliò, che vi siete persi», c' è scritto sui muri del cimitero. Poi da Napoli è dovuto scappare, brutte faccende, camorra, cocaina, un figlio, è arrivato dal cielo sopra un elicottero sceso dritto dritto sul cerchio del San Paolo quel giorno strapieno. Si è messo a palleggiare e non la finiva più, lo hanno interrotto perché stava andando a scatafascio il cerimoniale. Le Notti Magiche sono sue, con la Romania gioca con una caviglia gonfia contro il parere del medico, arriva il Brasile e Alemao, compagno al Napoli, prega gli altri nazionali: Niente calci al principale. Poi all' 82' dopo una partita dominata dai brasiliani, inventa una magia e manda Caniggia solo davanti al portiere, 1-0, avanti Argentina. E quando quella maledetta semifinale contro l' Italia si è giocata a Napoli, non è mai stato chiaro da che parte stava la gente. Lui uno degli scugnizzi che girano per il Maschio Angioino, uno come loro abituati a vendere tutto, soprattutto quello che non hanno, l' importante è confondere le idee e impacchettarle col fiocco. Lui bambino lo è sempre rimasto, facile incunearsi nelle sue debolezze. Prima della sfida con gli azzurri tira fuori le tre carte e incanta tutti. Poi è arrivata la Germania a Roma, lacrime durante l' inno argentino e quel rigore trasformato da Brehme: Un complotto contro di noi, hanno strappato anche la nostra bandiera. Ospiti a Trigoria? Il presidente della Roma veniva ogni giorno a vedere se avessimo fatto danni, per chi ci aveva preso? Sconfitti dalla mafia e da un rigore che non ha visto nessuno. Poi in America lo trattano da latinos, prima lo invitano con tante mille grazie, poi quando vedono che può andare a vincere il Mondiale lo squalificano per uso di sostanze stupefacenti. Tutti sapevano e conoscevano le sue abitudini. Adesso sul web non girano bei filmati, ma la gente gira la testa: È lui? Mah, io non ci credo.

Carmando: "Vi racconto il mio Maradona segreto". Marco Azzi il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Lo storico massaggiatore degli anni d'oro racconta il secondo scudetto, oltre la monetina di Bergamo ("Con Alemao feci la cosa giusta"). Il suo legame  speciale con Diego e quel rito prima di ogni partita. Trent'anni dalla pietra miliare del secondo scudetto del Napoli: scolpita con impareggiabile maestria dai piedi fatati di Diego Armando Maradona, ma plasmata dietro le quinte pure dalle mani d'oro di Salvatore Carmando, massaggiatore tout court, diventato però un personaggio pubblico per il suo rapporto personale e professionale con il fuoriclasse argentino (“Mi volle al suo fianco in due Mondiali”) e per il famigerato episodio della monetina di Bergamo. "Di questa storia se n'è parlato fin troppo e io non ne ho più voglia, dopo tanto tempo. Ripeto solo che feci la cosa giusta: Alemao venne colpito alla testa, lo invitai a rimanere steso e gli curai la ferita”. Era l'8 aprile del 1990, il Napoli vinse 2-0 a tavolino contro l'Atalanta e tre settimane dopo arrivò il secondo scudetto. “Strameritato, altro che ombre. Quella squadra era formidabile, andava convinta su ogni campo di essere più forte degli avversari e vinceva. Era la grande forza del Napoli, all'epoca. Maradona era il numero uno per distacco, ma aveva al suo fianco tanti altri campioni. Careca secondo me è stato il secondo giocatore più talentuoso del mondo. Un attaccante come il brasiliano non l'ho mai più visto”.

Prima dello scudetto del 1990, c'era stato quello del 1987. Quale è stato il più bello, Carmando?

“Lo spettacolo al San Paolo e in tutta la città, la gioia dei tifosi napoletani e le lacrime dei giocatori furono uguali. Non si può scegliere tra il primo e il secondo. Anche Maradona li amò entrambi nello stesso modo. Nel 1987 fu una festa di liberazione, il sogno di una vita che finalmente diventò realtà. Nel 1990 eravamo consapevoli dall'inizio di poter vincere, ormai il Napoli era entrato in un'altra dimensione. La squadra era formata da un gruppo di ragazzi fantastici e amicissimi tra di loro. Negli spogliatoi ci divertivamo tanto, uno scherzo dopo l'altro. Ma il clou fu il party sulla nave nel mezzo del Golfo, dopo la vittoria decisiva contro la Lazio. Mi ricordo che c'era tra gli ospiti pure Massimo Troisi. Si divertiva molto per le mie battute e mi disse: ”Lo sai che sei un grande comico, più bravo di me?”. Anche il presidente Ferlaino la pensava così e gli diede ragione. Fu una notte di baldoria”.

I suoi sette anni con Maradona come furono, invece?

“Speciali. Con Diego diventammo amici praticamente subito, nel ritiro estivo di Castel Del Piano. Mi osservò per un po' di tempo mentre lavoravo, in silenzio. Poi Maradona mi scelse: sarai tu il mio unico massaggiatore. Non si faceva toccare da altri e per stendersi sul lettino dei massaggi aspettava che tutti i compagni fossero andati via dallo spogliatoio. Restavamo lì, da soli. Per ore. Nacque così un rapporto personale, oltre che professionale”.

Diventaste inseparabili, infatti.

“Maradona mi volle con lui anche ai Mondiali in Messico, non me l'aspettavo. Feci un viaggio in aereo lunghissimo e con tre scali, per raggiungere Diego al seguito della sua nazionale. Ma il regalo me lo fece lui”.

Estate 1986, racconti Carmando.

“Arriviamo in Messico e per dieci giorni la dissenteria non mi dà tregua. A un certo punto avviso Diego che non ce la faccio più e che voglio andare via. Lui capisce che faccio sul serio solo quando mi vede preparare la valigia: viene in camera mia e mi ferma. 'Resisti almeno un altro po', dai'. Un attimo dopo Maradona lascia il ritiro con un componente dello staff della nazionale argentina e ricomparire dopo un'ora, trascinando due cassette d'acqua minerale italiana. Non seppi mai dove le aveva trovate, Ma il mal di pancia mi passò”.

Valse la pena di resistere.

“Altroché, Maradona in Messico fece la storia del calcio. Il suo gol all'Inghilterra lo vidi da bordo del campo, anche se non mi era permesso di stare sulla panchina dell'Argentina. Ma quella fu la mia fortuna. Diego venne infatti a festeggiare proprio sotto la tribuna di fronte, dove mi trovavo io. Capii subito d'aver ammirato dal vivo un prodigio, la prodezza più bella di sempre: ci abbracciammo e piangemmo insieme”.

L'abbraccio tra Maradona e Carmando diventò un rito, da allora.

“Sì, specialmente con il Napoli. Prima di ogni partita Diego s'avvicinava per darmi un bacio sulla fronte, era un momento tutto nostro”.

Il bacio, e poi?

“Adesso posso rivelarlo, non l'ho mai detto. Recitavamo una preghiera, era la nostra benedizione prima della battaglia”.

Nemici mai, eppure a Italia '90 le vostre strade si divisero...

“Ero entrato nello staff dell'Italia in quel Mondiale e Diego l'accettò, non provò nemmeno a farmi tradire la nostra Nazionale. Solamente prima della sfortunata semifinale al San Paolo mi rimproverò con dolcezza. Peccato che non stai con noi, disse. Vinse lui ai calci di rigore con l'Argentina e mi è rimasto un grande rimpianto, perché l'Italia era la squadra più forte del torneo e avrebbe meritato di alzare la Coppa. Avevamo attaccanti come Vialli, Baggio, Mancini, Schillaci. Ci mancò la fortuna”.

Fu il suo secondo Mondiale, Carmando.

“Grandi emozioni. Gigi Riva era il nostro team manager, le colazioni con lui le conservo nel mio cuore. Nel ritiro d'Italia '90 bussava ogni mattina alle 6 precise alla mia porta: caffè e sigaretta. Non eravamo molto loquaci, ma ci intendevamo. Poi Riva si faceva preparare un'altra macchinetta intera e se la portava in camera. Amava la mozzarella e i frutti di mare, ricordo che li feci arrivare solo per lui da Salerno. I giocatori erano a dieta e non potevano mangiarli”.

Tornando a Maradona, invece, lui qualche stravizio se lo concedeva.

“Ma era un super atleta, fisicamente formidabile. Ritornò al top per i Mondiali nel 1994 ed ero di nuovo al suo fianco negli Stati Uniti, dove purtroppo lo incastrarono. È la festa del Napoli, però: via i cattivi ricordi”.

Diego Maradona incastrato a Usa '94, la testimonianza di Abel Balbo: "Complotto della Fifa". Libero Quotidiano il 7 maggio 2020. La positività di Diego Maradona dopo Argentina-Nigeria e l’esclusione dal Mondiale del 1994 è una delle vicende più oscure nella storia del calcio. A distanza di 26 anni, Abel Balbo ha rilanciato la polemica, ribadendo che si è trattato di uno spregevole intervento della Fifa per punire la voce fuori dal coro del “Diez”. Che sarà stato anche un drogato, ma il tempo gli ha dato ragione: tutto quello che diceva sulla Fifa era vero, visto quanto emerso negli ultimi anni. “È stata la prima volta che un’infermiera è entrata dentro al campo per prelevare un giocatore per il controllo antidoping - ha ricordato a Tnt Sports Balbo, attaccante argentino con un passato in serie A - Quello che è successo a Diego è stato un complotto. Davamo fastidio e non potevano permettere che diventassimo campioni del mondo. Era tutto molto strano, Diego con noi è sempre stato molto sincero e stava facendo le cose per bene. Ma lo hanno cercato e se lo sono venuti a prendere, hanno messo su un teatrino. Poi tutti hanno visto che nella Fifa c’era qualcosa di losco”. 

La resurrezione di Maradona, dai fischi alla rinascita. Corrado Sannucci il 29 aprile 2020 su La Repubblica. Il secondo scudetto del Napoli arriva a sorpresa: per la prima volta i tifosi avevano contestato il proprio idolo. Ma nel momento in cui è finito sotto accusa Diego ha dimostrato di essere indispensabile. Va bene la maturità, la città che sa vincere, e tutte le vecchie ragioni per spiegare la calma che c'è intorno a questo nuovo scudetto, ma certo alla base di tutto c'è la sorpresa, cosicché anche l'ultrà, ignaro di questa retorica dell'antiretorica, non ha ancora fatto in tempo ad accendere i mortaretti. Quello che ha fatto da guida a questa flemma sembra così essere stato il serioso distacco con il quale Maradona ha parlato alla fine della gara di Bologna, quando ha precisato come questo scudetto sia diverso e in qualche maniera forse inferiore a quell'altro. Strana reazione per un uomo e un giocatore che ha fatto dell'impulsività, dell'emotività alleata ai capricci, la forza del suo personaggio e anche la simpatia che emana. Ora questo silenzio pesa sulla festa, così come sulla vita della squadra hanno pesato le vacanze a pescare dorados, le nozze a novembre, le assenze dal ritiro, il mal di schiena che torna periodicamente. Sulle sue bizze e sulle malattie di Careca si è avvitata quest'anno la stagione del Napoli, nell'attesa che i due Grandi guarissero e restituissero a Bigon, che a lungo ha atteso, una parte delle meraviglie che avevano dato a Bianchi. Questo silenzio, questa morte dell'entusiasmo, spiegano anche quale stagione abbia vissuto Maradona, da una parte sempre più insofferente, dall'altra sempre più disciplinato. Ma questa convivenza degli estremi ha rotto qualche meccanismo nel suo rapporto con la città e la società. "Questo non è lo scudetto dei tifosi, è lo scudetto della squadra. Solo a Bologna ho rivisto i tifosi, al San Paolo spesso è un'altra cosa. Troppe le polemiche e non mi piace che a pagare poi siano solo i giocatori". Una stagione in testa per venticinque giornate e poi la delusione del sorpasso, i fischi per troppo amore, come dicevano i tifosi. E' successo semplicemente che quest'anno il pubblico ha cominciato a contestare il suo idolo, per la prima volta a Maradona è venuto qualche dubbio, di non essere immortale, perfetto o qualcosa del genere. "Mah, chissà, forse è stata colpa mia e di Ferlaino" ammette ora, ora che tiene a ribadire come il suo rapporto con il presidente sia solo quello tra un presidente e un giocatore qualsiasi. Eppure, paradossalmente, è stata la ferita dei fischi, l'orrendo 3,5 in pagella che qualcuno gli affibbiò al termine della partita di Udine, è stata la sfiducia e lo scherno per la prima volta affioranti nei quartieri a smuovere il campione, che sa usare sempre l'orgoglio come una cura dimagrante. Nel momento in cui era sotto accusa ha dimostrato di essere indispensabile; e ha dimostrato di essere indispensabile anche per dire che qui non sta più volentieri, anche se in maniera più sottile di quando denunciò di essere minacciato da un complotto, non si sa se della camorra o del semplice popolo. "Quando sono tornato ho detto: o così o niente. Non so se "così" è bastato. Nessuno può pretendere di cambiare la mia vita. Ma a modo mio io fatto il mio dovere". E il suo dovere è stato quello di vincere un campionato in un mese e mezzo, da quando ha deciso di alzare i suoi voti in pagella e ha ripreso la strada dell'Istituto di Medicina dello Sport per curarsi e ha ritrovato i gol su punizione e altri ancora, fino ad arrivare al suo record, per ora, di sedici gol. "Dopo le due sconfitte di San Siro mi venne rabbia, ma solo con il pareggio a Lecce ho temuto di non farcela". A questa resurrezione del genio si è unito solo in ultimo Careca, anche lui pellegrino da Dal Monte, impegnato negli strani calcoli tra potenza e lunghezza della sua muscolatura, che fanno il paio con il suo carattere nel quale precisione e musoneria convivono. Careca è un altro che in questa festa non sorride, infastidito com'è da sempre dall'improvvisazione locale alla quale vorrebbe contrapporre maggior professionismo, ma al termine, finalmente, di quel brutto sogno cominciato quando il Milan gli sfilò da sotto gli occhi lo scudetto di due anni fa. Ma la squadra è stata sempre con i suoi campioni, anche quando questi, alla fine, l'hanno ridotta al porteur che sventola in aria la ballerina per tutto il palcoscenico. La forza del Napoli è stata quella di restare in alto con Zola e Mauro, di resistere anche quando tutto sembrava finito, anche quando contro il Milan, a febbraio, non aveva passato che una volta la metà campo. La squadra ha resistito, sulla fatica di Alemao e Crippa, ha aspettato e sperato nei suoi Geni e a Bologna si è rivista la squadra che può dare la palla al Tridente e poi contare i gol. "L'altra volta arrivammo distrutti al traguardo, quest'anno siamo molto più freschi. Abbiamo corso molto proprio nelle ultime gare. Sapevamo di stare meglio del Milan e questa consapevolezza non ci ha mai fatto temere per lo spareggio contro il Milan. E' uno scudetto questo che nonostante le assenze e le stanchezze di Maradona e Careca non riesce a distribuire i meriti sugli altri, così che tutto torna in un boomerang a loro, fino a far ricordare il tacco per Francini o sciccherie del genere. Tutto il resto sembra essere opera di uomini senza qualità, di gregari che portano la borraccia e prendono in testa la monetina. A gestire il tutto un antieroe, Bigon, che ha saputo accontentare tutti e ora prende, oltre i complimenti, la riconferma da Maradona. Merita di restare per come ha gestito i nuovi arrivati. Non era facile, ma con il suo modo di fare ha messo d'accordo tutti, grandi e piccoli. Non è stato abile solo con me, ma anche con Corradini". Ma questo scudetto non è solo una firma sul contratto di Bigon ma anche un cemento per la squadra, valeriana sui malumori diffusi. "Cambieremo? Chissà. Vorrei restassero tutti". Grandi e Piccoli ancora alleati, a disagio non sono solo Maradona e Careca, ma anche altri, da Fusi a Carnevale. I tifosi facciano festa anche a loro, se gli riesce; di sicuro, Maradona aspetta che vadano in pellegrinaggio da lui. Nella strana calma di questi giorni starà rimuginando chissà quali altre evasioni. (24 aprile 1990)

Mauro e il romanzo scudetto: "Io, Diego e una Napoli che mi è entrata nel cuore". Luigi Panella il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Il fantasista, in azzurro nell'estate del 1989, ripercorre una stagione pazzesca, tra polemiche, imprese, aneddoti e trionfo finale. ''Uno scudetto come quello in una stagione come quella, tra voci, sussurri e polemiche di ogni tipo. Solo a Napoli poteva essere vinto un campionato del genere''. Massimo Mauro sfoglia le pagine di uno dei più grandi romanzi popolari del calcio italiano, quello del secondo scudetto del Napoli. Una realtà in cui si trova catapultato nell'estate del 1989, dopo quattro anni alla Juventus.

Mauro, ci spiega il suo trasferimento al Napoli?

"Sono arrabbiatissimo con Boniperti che ha puntato su Zavarov e chiedo la cessione. Io in quella Juve non mi ritengo inferiore a nessuno. Zoff (l'allenatore, ndr) stravede per me, ma decido di andar via. All'ultimo giorno del mercato lo stesso Boniperti cerca di farmi cambiae ideao, ma ormai ho deciso".

Dall'altra parte c'è Moggi che la vuole fortemente.

''Mi tranquillizza. Vieni, al Napoli per te c'è spazio. Dico sì, mentre la Juve insiste con Zavarov. Per carità, un buon giocatore, ma in un contesto esterno alla Dinamo Kiev un pesce fuor d'acqua''.

Lascia Zoff a Torino, trova Bigon. Con gli allenatori è fortunato.

''Fortunato a dir poco. Bigon è un uomo intelligentissimo, gestisce con pacatezza una situazione subito complicata''.

Già, perché Maradona vuole andare al Marsiglia di Bernard Tapie, Ferlaino fa avanti e indietro con la parola, è rottura.

''Mi rendo subito conto di quanto la mia vita calcistica sia cambiata. Alla Juve devi pensare solo a giocare, a Napoli questa è la seconda cosa. Prima c'è da mettere insieme il pranzo con la cena''.

Addirittura il pranzo con la cena...

''E' una metafora che rende l'idea. Ore e ore di confronto, discussioni infinite per affrontare i tanti problemi. La partita poco ci manca che sia un dettaglio''.

Maradona in effetti tarda a presentarsi, ma la squadra parte bene. A Verona lei fa un gran gol ed è artefice di una vittoria pesante.

''E gioco anche con la numero 10... Vincere e segnare nello stadio dove l'anno prima era arrivata una sconfitta letale per lo scudetto mi fa entrare subito nel cuore dei tifosi''.

E finalmente arriva il giorno. Napoli-Fiorentina 0-2 al 45': esce Mauro, entra Maradona, finisce 3-2...

''E mica stavamo sotto per colpa mia (ride, ndr). Fa due gol Roberto Baggio. Poi con Diego la musica cambia, ma non è una novità. E' un'altra vittoria di svolta''.

Maradona, Platini alla Juve, Zico all'Udinese. Tutti suoi compagni di squadra. E' come se un attore che ha una macchina del tempo reciti accanto a Greta Garbo, Anna Magnani e Meryl Streep. Un po' di timore riverenziale è inevitabile?

''Invece no, nessun timore. Devi tenere la testa alta e vedere tutto. E poi giocare con i fuoriclasse è più facile di quello che sembra''.

E il Maradona dei rapporti umani vale quello che gioca...

''Un fuoriclasse sia in campo che fuori. Mai sentita una parola fuori posto, una mezza protesta per una giocata sbagliata di un compagno. Tanta roba per quello che a mio avviso è il più grande giocatore di tutti i tempi. Ma anche gli avversari, per fermarlo lo riempivano di botte, ma al tempo stesso lo rispettavano''.

Torniamo al campionato. Il girone d'andata va alla grande, le milanesi cadono al San Paolo. In coppa invece la squadra fa fatica. Qualificazioni sofferte con Sporting Lisbona e Wettingen, poi il tracollo contro il Werder Brema.

''Non c'era spazio per la coppa. Come ho detto, la settimana ci serviva per parlare, non per giocare al calcio''.

E contro il Wettingen un nuovo caso Maradona. Non si allena in settimana e non viene convocato. Tocca ancora a lei trascinare la squadra.

''Gli svizzeri vanno avanti, sbagliano un sacco di occasioni. Pareggiamo, poi mi procuro il rigore del sorpasso, ma senza Diego nessuno lo vuole tirare. Manca un quarto d'ora e quel pallone è un macigno. Alla fine mi prendo la responsabilità e non sbaglio''.

Rivedendo le immagini, un rigore inesistente...

''Confermo, mi sono buttato. Però un leggero tocco c'era. Insomma è uno di quei rigori che non esistono ma che oggi il Var assegna in quantità industriali...''.

Tra l'altro l'undici iniziale di quella gara è tutto italiano.

''Un dato che mi dà lo spunto per esaltare l'altro segreto. Va bene Diego, Careca, Alemao. Ma raramente ho visto un gruppo di italiani così forte e compatto. Dal povero Giuliani a Crippa, a De Napoli, Baroni, Francini, Fusi, Carnevale, il primo Zola''.

Archiviate le coppe, la prima parte del 1990 è difficile. Il Milan vi travolge, poi vi sorpassa dopo la sconfitta con l'Inter. Poi anche la squadra di Sacchi perde con Juve e Inter, ma non riuscite a rispondere pareggiando a Lecce e perdendo a Genova con la Samp. Siete rassegnati?

''No, nessuna rassegnazione. In fondo dietro al Milan ci stiamo poco, e sempre senza un distacco importante. Piuttosto in quella fase siamo preoccupati per Diego. Verso la metà di marzo inizia a fare la preparazione per i mondiali per conto suo, arriviamo al centro di allenamento e lui fa il tapis roulant con il suo preparatore personale Signorini. Non lavoriamo insieme, ma la domenica arriva, gioca alla grandissima e ci fa vincere...''.

Per l'aggancio però ci vuole la monetina in testa ad Alemao a Bergamo...

''Io sono quello più vicino quando Alemao viene colpito. Lui è un leone e vuole restare in campo ma il massaggiatore Carmando gli dice di restare per terra per prendersi lo 0-2 a tavolino''.

Una furbata da scugnizzo...

''No, una regola sbagliata che però in quegli anni penalizzava o favoriva a turno un po' tutte le squadre. E poi a chi dice che lo scudetto lo abbiamo vinto con la monetina replico che quell'episodio ci ha fatto guadagnare un punto. Noi però abbiamo chiuso avanti di due, quindi...''.

Già perché il Milan cade nella fatal Verona.

''Una sorpresa non prevista. Quel giorno noi prendiamo il largo a Bologna giocando una partita fantastica. Bigon mi lascia in panchina ma pazienza, mi godo la coreografia dei napoletani arrivati in Emilia. Una cosa da brividi''.

Uno spareggio evitato in extremis.

"Fossimo andati ad un terzo Milan-Napoli avremmo perso. O forse no, magari van Basten aveva già litigato con Sacchi. Ma la storia non si fa con i se e i ma".

Con la Lazio all'ultima giornata è festa.

''Si, il giorno meno sofferto della stagione. Quello che ricordo con più piacere è il venerdì che precede la partita. Vespa e casco, vado da solo a Forcella e respiro l'atmosfera di festa popolare. Indimenticabile''.

E' quello il punto più alto della sua vicenda a Napoli. Ormai è uno della città, al suo 30esimo compleanno viene anche Pino Daniele.

''Lo invito e lui, reduce da un intervento per mettere un bypass, mi chiede di poter portare la chitarra e tornare a suonare. Quasi non ci credo, chiamo amici musicisti ed organizzo in giardino una mini orchestra per cantare le canzoni di Pino. La voce si sparge e davanti al cancello di casa mia, in zona Posillipo, si raduna una folla enorme, tipo concerto''.

E come finisce?

"La stradina è abbastanza stretta, si crea un ingorgo incredibile. Tutto è talmente bloccato che sono costretto a chiamare i vigili. Ma Napoli si porta nel cuore anche per queste cose''.

Il caso Alemao, cento lire per un affare da cento miliardi. Antonio Corbo il 29 aprile 2020 su La Repubblica. L'8 aprile 1990 una monetina colpisce Alemao durante Atalanta-Napoli e trasforma il pareggio degli azzurri sul campo in una vittoria a tavolino. La rabbia del brasiliano: "Non sono bugiardo, non ho finto". I dubbi sulla frase del massaggiatore Carmando: "Buttati a terra!". La difesa di Luciano Moggi: "Dovevano curarlo in piedi?". E la tesi balistica: è stata usata una fionda. Otto grammi, valore cento lire. Una moneta ormai vecchia, presto fuori corso, s'infila in un affare da cento miliardi. Milan e Napoli ne fatturano cinquanta l'anno. Da ieri si giocano lo scudetto su tre sentenze, inaugurando il più celere rito dei processi nel calcio. L'esigenza di un verdetto che anticipi la fine del campionato (29 aprile, fra tre domeniche) ha spinto il presidente federale Matarrese ad abbreviare i tempi, per procedimenti di illecito sportivo e per le infrazioni connesse allo svolgimento delle gare di serie A e B da domenica 8 aprile. Per Atalanta-Napoli, quindi. Ventiquattro ore per annunciare il reclamo con un telegramma, 48 per presentarlo. Già domani la sentenza del giudice sportivo, a Milano. Lunedì quella della disciplinare. Il 18 aprile terza ed ultima: sarà emessa dalla commissione federale d'appello. Mancheranno undici giorni alla fine del campionato. Lanciata forse da una fionda, una moneta da cento lire ha colpito il ventinovenne centrocampista brasiliano Alemao. Dimesso poche ore prima dall'ospedale di Bergamo, in viaggio da Milano a Napoli, ieri il giocatore ormai guarito accusava: "Sono ferito, ma dentro. Sono offeso. Non ho mai pensato di ricorrere ad una farsa per modificare il pareggio nella vittoria a tavolino per la mia squadra. Non sono bugiardo, non ho finto". Un giornalista ha insistito. L' ha provocato, ricordandogli che molti sportivi italiani considerano il giallo di Bergamo solo una commedia. Ed Alemao d' impeto: "Voi dite che il Brasile fa parte del Terzo mondo. A Bergamo, allora io vi dico che ho visto il quarto...." "Dalla curva arrivavano sul campo monetine, e tante. Se le avessi raccolte, sarei diventato ricchissimo", è l' ironica denuncia di Giuliani. Il sorriso dei sospetti ha irritato Ferlaino. "Nessuno del Napoli faccia commenti, ora. Contano i fatti, e sono questi: un giocatore colpito, la ferita accertata, l'arbitro che ha visto, le diagnosi scritte che sono diverse dalle dichiarazioni che leggo". Ma il massaggiatore, Salvatore Carmando, ha alimentato i dubbi con le sue urla, registrate dalla tv. "Buttati a terra!". Il direttore generale, Moggi, ha reagito: "La più elementare norma nel soccorso, è far sdraiare il ferito. Dovevano curare Alemao in piedi?". Moggi tenta di spiegare anche perché Alemao avrebbe chiesto di continuare a giocare, come si è intuito in tv, prima di essere inchiodato a terra dal massaggiatore. "Anche un pugile suonato vuole continuare. E' una prova in più dello stato confusionale. Ma ormai sono rassegnato, barzellette chissà quante dovrò sentirne ancora, per questi due punti sacrosanti che ci spettano. Dimostreremo semmai anche sul campo di essere più forti del Milan". Alemao, arrivato senza bende né cerotti, ma ferito dentro, racconta: "Ho sentito un colpo alla testa, un dolore forte, mi sono toccato il capo, ho visto le dita sporche di sangue. Agnolin, l'arbitro, e Maradona, i primi a soccorrerlo. Agnolin ha visto tutto. Anche il sangue? Ha visto tutto insiste Alemao, anche una piccola ferita. Sì, volevo continuare a giocare, poi non ho retto. Credetemi. Maradona ha raccolto la moneta, a pochi metri. L'ha consegnata all' arbitro". Ma il Napoli domenica sera temeva che Alemao fosse stato colpito da un accendino. Solo ieri, un esperto di balistica si è proposto per dimostrare che anche una moneta di otto grammi, lanciata da lontano, può abbattere un calciatore peraltro provato da ottantuno minuti di gioco. La moneta, come si è visto in tv, è rimbalzata lontano, è schizzata via. Immaginate che violenza.... C'è chi ha pensato quindi ad una fionda. Decisivo sarà il referto di Agnolin. Ma il Napoli punta su altre due testimonianze: l'ufficio inchieste (Giampaolo Tosel, magistrato di Udine) e un medico federale, inviato a Bergamo per l' antidoping, e subito interpellato da Moggi. Al pronto soccorso Alemao faceva rilevare trauma cranico con breve perdita di conoscenza. Negativi gli esami di ieri, radiografie e Tac. Oggi Alemao li ripeterà a Villa del Sole, domani tornerà ad allenarsi. "Ora sto meglio, ma nell'ospedale di Bergamo, per tutta la notte, ho avuto gli incubi. Anche quello di non essere creduto e giocarmi la reputazione". (10 aprile 1990)

Elogio di Bigon l'italianista. Gianni Brera il 29 aprile 2020 su La Repubblica. Così Gianni Brera rese omaggio ad Alberto Bigon, il tecnico del secondo scudetto: "Un allenatore che ha parlato di sé unicamente a obiettivo raggiunto". Napoli ha decretato il trionfo ai suoi campioni. La festa si profilava così caotica e delirante che la squadra si è salvata sul mare. Gli osservatori attenti hanno notato che alle celebrazioni pubbliche hanno preso parte con inaudito trasporto anche le donne. Il fenomeno è nuovo e lascia intravvedere sviluppi inquietanti: per esempio, che il grandioso San Paolo non debba bastare più dopo i mondiali. Altri, compresi e intrigati di sociologia, limitano la portata psicologica dell'evento calcistico, destinato a lasciare poche ceneri in un organismo irreparabilmente malato: la parentesi festosa sarebbe dunque un sollievo ingannevole, un labile nepente destinato a rincrudire i contrasti fra il sogno di grandeur sportiva e la realtà economica. Da questa, comunque, esulerebbe il calcio con felice prepotenza: ed io personalmente penso che solo il cattivo gusto può indurre certa gente a così sgradevoli distinzioni. La portata sociale del calcio non è solo pretesto di baraonde campanilistiche. I paragoni con il Carnevale di Rio sono del tutto arbitrari. Laggiù ci si abbandona all'orgia per tradizione; qui si festeggia un evento che onora comunque la città, anzi la Polis, e con quella il sentimento che la anima, la cultura che la distingue. Gli stessi incidenti sono un richiamo utile alla moderazione. Che un ragazzo si accoppi in moto non è fatto da ascrivere alla gioia dissennata bensì al costume, che troppo s'informa agli eccessi del motorismo. Prima ancora che la conquista del secondo scudetto diventasse realtà noi ci eravamo affidati all' entusiasmo invocando che salissero in alto le bandiere e i canti per il Napoli campione d' Italia. E' una formula retorica alla quale siamo ricorsi da molti anni, celebrando vittorie di squadre e di singoli atleti. L'enfasi è nel ritmo (in alto le bandiere e i canti), la retorica nell'uso ripetitivo. Il tutto è plausibile penso io per la sincerità degli accenti. Non valgono infatti lusinghe a smuovere gli humores del vecchio cronista, cocciutamente fedele alle sue convinzioni critico-tecniche. Per lui il Napoli aveva già vinto lo scudetto quando aveva assunto un italianista convinto come Bigon: in pratica, veniva continuata senza impennate e dirizzoni di sorta la scuola di Bianchi, al quale era accaduto di compiere il primo miracolo in terra napoletana. Conservare la condizione atletica al canto dolce e ingannatore delle sirene è impresa memorabile. Bianchi vi è riuscito con redine tesa e muso duro. Ha avuto pericolose frizioni con i grandi attori che stavano alla ribalta. E' stato inflessibile al punto da farsi sospendere a divinis: e da buon pragmatico ha preteso che gli venisse pagato fin l'ultimo centesimo previsto dal contratto: trattandosi di un miliardo, ha anche sopportato senza battere ciglio che si dicessero di lui cose poco gradevoli. Dal canto loro, i dirigenti napoletani hanno pagato pro bono pacis, salvo far dire a uno di loro che per la prima volta la squadra non era scoppiata a primavera. Era senza dubbio un cattiveria: ma intanto rendeva omaggio a Bigon, il cui lavoro non aveva mai preoccupato per mancanza di linearità e di chiarezza. Presi gli uomini (e quali), Bigon si era messo umilmente al loro fianco senza impettire mai. Quando ha visto gonfiarsi altri toraci, ha atteso che il respiro tornasse normale prima di accennare minimamente alle proprie necessità di lavoro, alle esigenze della squadra, ai vantaggi di tutti. Maradona aveva fatto follie da primadonna astuta, non dissennata come si temeva: Re Puma intendeva semplicemente arrivare ai mondiali e allo scudetto nella forma migliore. I cerberi più incattiviti si sono dovuti convincere che il genio non s'inventa. L'ultimo recital meritava un altro paio di golletti, ma forse avrebbe tolto suspence all'attesa dei napoletani... Bigon ha parlato di sé unicamente a obiettivo raggiunto. Bravissimi loro ha detto e forse anch'io. Molto spirito in eccellente misura. Bigon ha vinto il suo primo scudetto e il secondo del Napoli quando ha dovuto reggere con i soli italiani allo sprint iniziale delle protagoniste più attese. Il Milan pareva avviato a travolgere tutti. In novembre aveva 6 punti di ritardo! Per colmare quel distacco si è stroncato. Lo aveva previsto con noi un solo milanista: il parmense Gheddafi. Ho un suo documento del 5 marzo 1990. Tutti gli altri stavano affogando, com'è avvenuto, nell'ottimismo. Il Napoli non ha mai incantato se non in alcuni momenti di vena, presenti tutti gli assi foresti e di casa. Il merito di Bigon è proprio di aver saputo prescindere dalle esaltazioni estetiche (le quali non danno punti). In casa non ha mai perso; ha concesso un punto alla sola impuntigliata Samp; tutte le altre hanno lasciato le cuoia al San Paolo. In totale ha perso 4 volte contro le 7 (un po' troppe, via!) del principale avversario, il Milan. A lungo Bigon si è dovuto inventare un libero lasciando il minimo spazio agli avversari. Del portiere, che è buono, si ha la civetteria di ammettere che forse verrà sostituito (è capitato anche al suo precedessore). I buoni difensori scarseggiano lontano da San Siro, dove due difese mondiali vengono diversamente protette e impiegate (da Sacchi e da Trap). Fuori Milano si è indotti a cercare dalle parti di Genova (Samp) e ancora di Napoli. Stupisce tuttavia che qualcuno, sopraffatto forse dalla fama dei vicini, desideri lasciare il Napoli neo-campione: o forse, chissà?, è trapelata qualche voce sui possibili sostituti. Quello che sta tramando quel briccone di Moggi, confortato dall'apparente semplicità di Ferlaino (furbissimo, invece), ancora non è dato sapere: ma le voci corrono sempre, e qualcuno può pure ascoltarle (come Fusi e Carnevale). Re Puma ha già rinnovato il contratto con Bigon: segno che non si batte più per Bilardo, come pareva facesse un certo anno. Ora Bigon seguirà i mondiali augurandosi che l' evento non incida troppo sulle tossine dei suoi. L'egoismo è sacro quando riguarda la patria e il pane. Il nostro calcio ha bisogno di ingegni liberi e nuovi, così fuori come dentro i campi di gioco. L' azzurro del Napoli è auspicio irresistibile. La sua solare allegria esige ottimismo. Grazie, Napoli. (1 maggio 1990)

Un comunista ha tolto lo scudetto a Berlusconi. Beniamino Placido il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Osvaldo Bagnoli non poteva allenare il Milan per le sue simpatie politiche, spiegò Silvio Berlusconi a Gianni Brera. Dopo la sconfitta nella fatal Verona, il presidente rossonero interviene in tv al Processo del lunedì. Il racconto imperdibile di Beniamino Placido. Lunedì sera avrei voluto trovarmi anch'io al Processo del lunedì. Avevo una cosa da dire. Non mi capita spesso. Le cose che potrei voler dire io le sanno già, e le ripetono senza stancarsi gli ospiti consueti del Processo del lunedì (RaiTre). Per sovrammercato, lo fanno com'io non saprei. Con faccia serissima. Mai un sorriso, uno scherzo, una presa in giro. E dire che il calcio è un gioco. Nella trasmissione di Biscardi è sempre e soltanto un dramma. Un melodramma, una Cavalleria Rusticana: con soprani, tenori, baritoni; odi feroci; tradimenti congiure complotti e passioni scatenate. Lunedì sera si è parlato molto di congiura. Quella congiura che sarebbe stata ordita in alto loco ai danni del Milan. Che domenica difatti ha praticamente perso lo scudetto a Verona, dove è stato sconfitto inopinatamente dalla locale squadra. Quindi grande amarezza da parte dei tifosi e dei dirigenti milanisti. Cesare Lanza, direttore de La Notte ha parlato di uno scudetto della vergogna. Silvano Ramaccioni, team manager del Milan (baritono, conosciuto in arte come Ramaccion de' Ramaccioni) ha parlato di disgusto. Di fronte a questa mostruosa, misteriosa cospirazione degli eventi. Meno male ha aggiunto che di fronte allo scudetto esteriore, ufficiale che il Napoli ha quasi vinto, c'è lo scudetto interiore che ci ha assegnato generosamente il nostro Presidente (dove si vede che Ramaccion de' Ramaccioni è un appassionato lettore di Sant' Agostino: In interiore homine habitat veritas). Il presidente Berlusconi si è fatto vivo per telefono, dopo lunga lunghissima attesa, a mezzanotte scoccata, per dire che no. Non di congiura aveva parlato lui, ma di cultura dell'invidia. Il Milan è stato troppo invidiato e malvoluto per i suoi successi. Può darsi. Tuttavia, a tutte le ragioni proposte per spiegare la drammatica svolta del campionato, avrei potuto, voluto, e forse dovuto aggiungerne un'altra. Le ragioni addotte vanno dal severo comportamento dell'arbitro Lo Bello: che ha espulso prima l'allenatore Sacchi, poi tre giocatori del Milan, alle evidenti responsabilità del numero 17, indicate con mano ferma dai giornali di lunedì mattina. Proprio diciassette anni fa accadde la stessa cosa, sullo stesso campo veronese, ai danni dello stesso Milan. E il primo goal del Verona, quello di Sotomayor, è stato segnato proprio al diciassettesimo minuto del secondo tempo. Avrei voluto, potuto e forse dovuto portare un documento. Una pagina di questo giornale. La pagina 26 de la Repubblica in data 23 marzo. Dove c' è L'accademia di Brera. Quel giorno un lettore chiede al nostro Brera: "Ma perché Berlusconi non ha voluto e non vuole prendere per allenatore del Milan il bravissimo Bagnoli, tanto più bravo e più capace di Sacchi?" Risposta di Gianni Brera: una risposta sorprendente; tanto da indurre a ritagliare e conservare quella pagina di giornale come documento di costume. O, direbbe il cavalier Berlusconi, di cultura. "Ma certo, ma il lettore ha ragione", dice Brera: "Anch'io sono arrivato un giorno a proporre Bagnoli al Cavalier Berlusconi, il quale pari pari mi rispose che no, non voleva al Milan un comunista!". Ecco una risposta come dire? poco moderna. Certo non saremo noi ad insegnare la modernità al cavalier Berlusconi, che ha il radiotelefono in macchina e si sposta quando può in elicottero: quindi è modernissimo. Qui si tratta di quell' altra modernità di fondo che consiste semplicemente nel distinguere. Quand'eravamo bambini tifavamo tranquillamente (e appassionatamente) per Gino Bartali, anche se era terziario francescano. Mentre alcuni protervi compagni di scuola ci volevano imporre di tifare per il ciclista Vito Ortelli, che era un compagno. Ma sentite che razza di ragionamento. Ora si dà il caso che Osvaldo Bagnoli sia l' allenatore udite, udite proprio di quel Verona che ha battuto il Milan domenica scorsa. E volete che questo Bagnoli non abbia infiammato di sacro sdegno i suoi giocatori, domenica scorsa, prima che scendessero in campo contro il grande Milan? Molte partite è ben noto si risolvono nello spogliatoio: sulla base di una parola giusta, detta al momento giusto: dall' allenatore giusto. Il Milan ha perso lo scudetto, probabilmente. Ma deve ancora disputare la finale della Coppa dei Campioni. Quel giorno, che è prossimo, noi tiferemo per i rossoneri. Perché sono bravissimi, perché giocano benissimo, perché avrebbero meritato anche lo scudetto esteriore: oltre a quello interiore che ha assegnato loro, generosamente, Ramaccion de' Ramaccioni. Senza starci a chiedere se sono, politicamente parlando, socialdemocratici, liberali o craxiani: o se il loro team-manager Ramaccioni non è per caso della Lega lombardo-veneta. Di loro, questa è l' ultima cosa che ci interessa. Siamo moderni noialtri che non abbiamo il radiotelefono nell' automobile proprio per questo. (25 aprile 1990) 

Nino Materi per “il Giornale” il 19 maggio 2020. «Il» Verona (inteso come società Hellas Football Club) ha forse dimenticato Claudio Garella, ma «la» Verona (intesa come tifoseria) non ha mai smesso di sfogliare le gesta del suo portiere con la «k» finale: Garellik.

Unico. Irripetibile. Come lo scudetto conquistato dalla città di Romeo e Giulietta nel 1985, pegno d' amore per collezionisti di emozioni. Figurine belle e brutte. Garella ne ha raccolte tante. Chissà se ha completato l' album dei sentimenti. Garellik osserva il calendario. Non ha voglia di brindare. O forse sì. Ci sarebbero le occasioni addirittura per un triplice cin cin. Per lui, questo di maggio, è un mese da incorniciare: domenica 10 maggio, anniversario dello scudetto vinto con Napoli nel 1987; martedì 12 maggio, celebrazione dello scudetto conquistato col Verona 35 anni fa; sabato 16 maggio, il suo 65esimo compleanno.

Ricordi. Custoditi gelosamente, «ma che nulla hanno a che fare col calcio-business e senz' anima di oggi». Adesso meglio godersi la serenità degli affetti più cari. Nella tranquillità della provincia piemontese, dove ha scelto di trasferirsi da quando il suo vecchio mondo ha preso a orbitare in un universo estraneo. Per Garella un ritorno al passato: nato a Torino, il 16 maggio 1955, cresciuto col «giaguaro» Castellini a fargli da chioccia tra i granata. La prima occasione presa al volo: trasferimento nella Capitale, sponda Lazio. Ma ci arriveremo. Iniziamo dall' uomo. «Preparato, onesto, fedele alla parola data - così ce lo descrive Leonardo Tortorelli, appassionato presidente della polisportiva «Barracuda» di Torino, club che Garella ha allenato per varie stagioni -. Grazie a lui abbiamo ottenuto una promozione e le sue conoscenze sono state fondamentale per richiamare sui nostri giovani l' attenzione di osservatori di serie A. Claudio ora conduce un' esistenza riservata, ma sono sicuro che sarebbe pronto a rimettersi in gioco». Il profumo dell' erba è inebriante per tutti. Figuriamoci per un portiere. Anche se c' è chi ti volta le spalle. È capitato a tanti. Capiterà ancora. Sensazione dura da metabolizzare. Garella è restio a parlarne. Così non resta che l' amarcord. C' era una volta, il calcio. «Claudio era eccezionale - narra Osvaldo Bagnoli, il mister del gloria veronese -. Parava ogni pallone, con qualsiasi parte del corpo. I giornalisti ne esaltavano le imprese. Io una volta sbottai: Ma basta con questo Garella!. Ma lo feci non per mancare di rispetto a Claudio, ma per mettere tutta la squadra sul suo stesso piano». Fatto sta che Garella interveniva perfino in rovesciata, o con il «lato b»: una specie di Higuita, ma scevro da profili clowneschi. Perché Claudio è sempre stato un tipo serio, dentro e fuori il campo. Con la schiena dritta. «Oggi nei suoi discorsi c' è un velo di malinconia», testimoniano i pochi che lo frequentano. Ma basta un niente per risvegliare le zone di luce. Come il bagliore esaltante di quel 12 maggio di 35 anni, fa quando il Verona venne incoronato sul trono della serie A e Claudio mostrò ai suoi critici (Gianni Brera in primis) quanto fossero infondati i loro giudizi. Quell' anno Garella fu quasi imbattibile. Garellik si rivede nello specchietto retrovisore e il riflesso gli piace: «Ero un portiere controcorrente, diverso dai portieri belli da vedere, ma non meno efficace di loro. Usando i piedi ho interpretato il ruolo in maniera moderna». Vladimiro Caminiti scriveva che «sembrava un panettiere, un pasticciere». Invece Garella brillava nel campionato delle stelle: «I campioni più famosi erano tutti in Italia. Zico, Platini, Falcao, Junior, Rumenigge, Socrates... Ma il numero uno rimaneva lui, Maradona. Sognavo di giocare col più grande, e ci sono riuscito. Allenarsi con lui era uno show. A Genova, durante la seduta di rifinitura pre-partita lo sfidai, Diego non voleva più smettere di battere punizioni. Il resto della squadra era ormai sul pullman, ma lui continuava a stare in campo». Garella, capace di fare autocritica e ammettere gli errori: «Il modo in cui ruppi col mister Ottavio Bianchi fu sbagliato, e sbagliai anche il 10 settembre '89, quando commisi un fallaccio su Borgonovo del Milan. Berlusconi si arrabbiò, aveva ragione». Camorra a Napoli? Doping? «Non so neanche cosa siano. Se avessi visto qualcosa non l' avrei mai accettata». Eccolo, il Garella tutto d' un pezzo, il Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento dell' ipocrisia. Per questo ogni mattina può guardarsi allo specchio. A testa alta. Garella conosce bene l' ambiente del football. Ha imparato, a proprie spese, che la correttezza non sempre è apprezzata. Forse per questo non è rimasto nel, cosiddetto, «giro che conta». Dopo il corso federale a Coverciano, avrebbe le carte in regola per fare il direttore sportivo o l' allenatore. Ma troppi presidenti preferiscono circondarsi di yes man con la testa girevole, pronti a voltarsi dall' altra parte fingendo di non vedere e non sentire. Insomma, l'opposto di Garella. «Dopo scudetto e Coppa Italia, col Napoli avremmo potuto fare il bis l' anno successivo - dice il portiere -.Invece perdemmo il campionato sul filo di lana. Ma il Milan di Sacchi lo meritò». Garella capisce che deve fare le valigie. Un addio doloroso con negli occhi due fermo immagine di segno opposto: «La parata più bella, contro il Milan: palla smanacciata sul palo su colpo di testa di Hateley. Il gol più amaro: quello di Butragueño nella gara di ritorno contro il Real Madrid che ci eliminò dalla Coppa dei Campioni. Nel primo tempo facemmo una partita strepitosa, il Real sembrava una squadretta». Ma Garella non ha rimpianti. È stato infatti tra i protagonisti dell' apoteosi partenopea: «Un' atmosfera favolosa, ben simboleggiata dallo striscione dedicato ai defunti appeso dai tifosi sul muro del cimitero nel giorno dello scudetto: 'Uagliò, cosa vi siete perso!. Geniale. Idem per la risposta dei... defunti: 'Uagliò, ma chi ve l' ha detto che ce lo siamo perso?». L' altra impresa memorabile Garella l' aveva compiuta due anni prima a Verona: «Bagnoli credeva in noi, l' intera squadra lo seguiva. Senza bisogno di tante parole. Eravamo un gruppo di amici. La sera si usciva insieme. Senza prime donne. Anche se a Pietro Fanna piaceva interpretare e questo ruolo. E noi glielo lasciavamo fare...». Di quella alchimia perfetta Garella fu un elemento essenziale. Alla faccia dei detrattori tanto al chilo: «Chi era a corto di argomenti tirava fuori la storia delle garellate (copyright, Beppe Viola) o di "paperella". La verità è che alla Lazio ero arrivato troppo giovane. Caratterialmente non ero ancora corazzato per pressioni di quel tipo». Senza contare il peso dell' eredità di Felice Pulici, portiere-icona e beniamino dei tifosi biancocelesti. «Quando mi cedettero in B alla Sampdoria giurai al direttore sportivo della Lazio: tornerò in A e ci resterò a lungo». Promessa mantenuta. Quattro stagioni alla grande difendendo la porta dei blucerchiati, poi il periodo d' oro di Verona. La convocazione in Nazionale sarebbe stato un giusto premio, ma Garella non aveva santi in paradiso. Due fuoriclasse come Diego Maradona e Gianni Agnelli si accorsero però delle sue parate «sgraziate» (stesso aggettivo usato per il portiere dell' Olanda, Jan Jongbloed). Lui, intanto, è diventato Garellik: «Il soprannome me lo mise un giornalista del quotidiano L' Arena di Verona, ispirandosi ai colpi di clamorosi di Diabolik». Gianni Mura lo battezzò invece «Compare Orso», aggiungendo: «capace però di volare come Batman». «Ma il complimento più bello - ammette - lo ricevetti dall' Avvocato che, col suo umorismo, coniò una definizione passata agli annali: Garella è il miglior portiere del mondo. Senza mani, però. Si riferiva alla mia capacità di saper parare anche con i piedi. Aver meritato una battuta da Gianni Agnelli è importante, significa aver lasciato un segno nel mondo del calcio». Ma anche Maradona ed Italo Allodi lo stimavano, tanto da caldeggiare il suo acquisto al Napoli di Ferlaino. Era al top della forma, avrebbe meritato una convocazione in Nazionale. Dopo Napoli per Garella iniziò il crepuscolo degli dei: due anni nell' Udinese (con una promozione dalla B alla A) e uno ad Avellino, con l' infortunio e l' addio al calcio a 35 anni. Da allora promesse, delusioni. Inevitabili per gente come lui, non avvezza ai compromessi. Eppure il richiamo del campo è rimasto sempre suadente, come il canto delle sirene per Ulisse. A lui interessava allenare una squadra, e chi se ne frega se era solo una squadra di dilettanti. Lo ricordano con affetto i ragazzi del Barracuda, società di prima categoria piemontese dal nome feroce ma dal cuore tenero; tanto diverso dagli squali del calcio professionistico. Predatori da cui Garella si è sempre tenuto alla larga. Continuerà a farlo. Guardandosi ogni mattina allo specchio. A testa alta. Auguri, mitico Garellik.

Riti, stadio e sofferenza: quell'anno mi innamorai del Napoli e non lo lasciai più. Nicola Apicella il 28 aprile 2020. Gli occhi del tifoso raccontano la stagione del secondo scudetto, dalla partita col Pisa in Coppa Italia fino al fatidico 29 aprile con il gol di Baroni urlato a squarciagola dal mitico radiocronista locale Antonio Fontana. Pensandoci bene diventai tifoso del Napoli proprio in quegli anni. Il primo scudetto, quello del maggio '87, mi colse per così dire impreparato. Avevo 12 anni, un'età in cui allora, almeno per me, il calcio era fatto solo delle infinite partite che si giocavano in strada, con due pietre a fare da pali e una traversa immaginaria. Tre anni dopo fu tutta un'altra storia, sarà stata l'età, oppure semplicemente il fatto che nel frattempo lo svezzamento si era compiuto, andai infatti per la prima volta allo stadio. In questi casi c'è sempre un prima e un dopo. Nulla di eccezionale, un semplice Napoli-Pisa di coppa Italia se la memoria non mi inganna (con Maradona assente e io che mi affannavo a cercarlo in tribuna col binocolo), però da quel momento io e il Napoli non ci siamo più lasciati. Come si dice, nella vita si può cambiare casa, auto, moglie, ma non la squadra del cuore. C'è un momento in cui la scegli e quella resterà per sempre. Quando il Napoli vinse il suo secondo (e ahimè finora ultimo) scudetto, avevo da poco compiuto 15 anni, come detto ero stato allo stadio giusto un paio di volte perché convincere mio padre, da sempre poco tenero nei confronti di quelli che definiva "22 sfaticati in mutande", non era esercizio facile. Per fortuna a mettere una buona parola ci pensava mamma, napoletana di San Giovanni a Teduccio e molto più tifosa di papà. Ricordo benissimo quel 29 aprile, giorno di Napoli-Lazio, e ricordo tutti gli episodi, i preparativi, che hanno accompagnato quella settimana. Non stavo nella pelle, non vedevo l'ora che arrivasse domenica. Si respirava l'attesa per qualcosa di importante, bastava vedere il numero di bandiere che tappezzavano la città crescere di giorno in giorno. Con Felice, un mio compagno di classe, avevamo i nostri riti e guai a saltarli: il pagellone del lunedì, i commenti alle trasmissioni viste sulle tv locali e la cronaca scritta di come sarebbe andata (secondo noi) la partita della domenica successiva. E poi la nostra agenda, che ancora conservo, ricca di ritagli di giornali, figurine, disegni. Per Napoli-Lazio decidemmo di fare le cose in grande, una cintura con i volti dei giocatori utilizzando le figurine Panini, un cartellone gigante con sopra incollate le foto di Maradona e i titoli fatti con i ritagli di giornale, un bandierone trasformato in mantello. Il sabato prima di Napoli-Lazio mio padre mi mandò al solito bar del centro a giocare la schedina, le solite due colonne, 1200 lire. Ora, voi sapete cos'era la 'macchia' in una schedina? Il risultato a sorpresa, quello che avrebbe fatto saltare il banco e reso ricchi i 13 e in parte pure i 12. Ecco, quella volta mia padre decise che la 'macchia' era la vittoria della Lazio a Napoli. Ora, immaginate con quanta preoccupazione ho giocato quella schedina. Per fortuna mio padre non fece né 13 e neanche 12. Arrivò la domenica accompagnata da tutti i suoi riti. La messa delle 10, i dolci, il saluto a mio nonno e poi il pranzo, la domenica non si scappava, menò fisso: ragù e carne con insalata. E poi la partita, vissuta rigorosamente in strada, la radio e un pallone. La nostra voce non era Ameri e neanche Ciotti. La nostra voce era Antonio Fontana. Il vero tifoso del Napoli non può non aver sentito almeno una volta il suo 'Gol del Napoli, gol del Napoli'. Successe anche quel giorno, la punizione di Maradona, Rubén Sosa che non rispetta la barriera, poi Diego pennella al centro e Baroni, professione stopper, sale in cielo e la mette all'incrocio dei pali dove Fiori non ci arriva. Il boato che uscì dalla radio e l'urlo che arrivò dai palazzi attorno fu impressionante, ricordo quelle trombette che poi ti lasciavano il dito freddissimo, le bandiere, gli striscioni da balcone a balcone. Il Napoli era campione d'Italia e a me non sembrava vero.

Da ilnapolista.it il 29 Aprile 2020. Il Corriere dello Sport, con Antonio Giordano, intervista Ottavio Bianchi. Nato a Brescia, vive a Bergamo, vive in prima persona l’emergenza sanitaria nella regione più colpita dal virus, la Lombardia.

«Una vita che non è più vita. Rinchiuso dentro casa senza avere un orizzonte, in giornate che sono tutte eguali e tutte piatte, aspettando il bollettino serale dei Tg che fanno la conta dei morti».

Con l’incertezza più totale circa il futuro in assenza di informazioni sui vaccini. Con un incubo, quello di sentire squillare il telefono.

«Il telefono adesso è un tormento. Hai paura che ti chiamino per dirti che un parente o un amico sia scomparso. Ho davanti agli occhi, ogni notte, le immagini delle bare portate sui camion militari. È la scena più dolorosa a cui abbia assistito. Ci siamo ritrovati dentro a questo orribile film, però scoprendo che era la realtà a cui siamo costretti. Vorremmo il conforto della scienza ma spesso i virologi sono in contrasto tra di loro. C’è fumo nelle teorie e psicologicamente si fa sempre più dura. Non trovi che dei cretini, l’uno il prolungamento dell’altro. E a volte ti accordi anche che qualcuno di questi signori riesce persino a dare dimostrazione di comicità involontaria».

Non torneremo più alla normalità, secondo lui.

«Muteremo i nostri rapporti sociali, a meno che non trovino un rimedio scientifico, quindi medicinali che fronteggino il virus. Questa è una piaga che ci porteremo appresso, anzi, dentro».

Ripensando al passato dice: «Io non mi sono fatto mancare niente, ho trascorso talmente tanti giorni negli Ospedali che per riassumerli lei avrebbe bisogno di una pagina intera. Ho conosciuto la terapia intensiva, mi hanno tirato fuori per i pochi capelli che avevo. Ho giocato sul dolore, per parecchio».

In questo momento, confessa, non riesce a pensare al calcio.

«In queste ore non riesco a concentrarmi né sul calcio né su altro. Credo sia indispensabile prestare attenzione alla vita sociale, che ha la priorità assoluta. Se diamo un’occhiata intorno a noi, ci accorgiamo che se ne sono andati amici, conoscenti, un vicino di casa. E bisogna organizzarsi per combattere il virus nel modo più appropriato ma anche uscire da questa forma di depressione che può colpire chiunque. So che l’inattività di quello che è stato e rimane il mio mondo colpisce figure a cui sono legato – i magazzinieri, i massaggiatori, ad esempio, gente che mi ha viziato e verso i quali ho sempre provato affetto. So che ci sono società di serie C che faranno fatica a riprendere. Ho fatto la gavetta, ho attraversato il calcio, ne conosco le difficoltà. Ma aspetto che passi la nottata, come dicono a Napoli, dove dentro ad una frase c’è spesso la filosofia dell’esistenza. Le conosco tutte, perché lì c’è la parte più forte della mia storia personale».

Cagliari campione d'Italia, storia di uno scudetto diventato epopea. Il 12 aprile di 50 anni fa il tricolore arrivò per la prima volta in Sardegna. Scopigno in panchina, Riva in attacco, una difesa di ferro. Più passa il tempo e più si ha il senso epico di quell'impresa, un'altra storia così probabilmente non la vedremo più. Fabrizio Bocca il 12 aprile 2020 su La Repubblica. Furono anni e momenti straordinari quelli. Mentre il Cagliari di Gigi Riva vinceva lo scudetto, la Hit Parade della primavera 1970 dava al primo posto Simon and Garfunkel con "Bridge Over Troubled Water", davanti ai Beatles con "Let it be", ultimo album dei ragazzi di Liverpool: appena il 10 aprile McCartney aveva abbandonato il gruppo, decretandone la fine. Mentre l'Apollo 13 s'avviava verso la Luna senza allunarvi mai per poi rientrare sulla Terra dopo un viaggio drammatico e l'astronave a pezzi, allo Stadio Amsicora - cronaca in diretta di "The Voice" Sandro Ciotti - era l'apoteosi del Cagliari e di Gigi Riva contro il Bari. Ampsicora, con la p, era stato un antico eroe della sarditudine, un ribelle resistente all'invasione romana. Se oggi i ragazzi ne ricordano vagamente il nome, è perché lo associano allo stadio del trionfo rossoblu. A Cagliari, tra l'Amsicora, il Sant'Elia e la Sardegna Arena dal 2015 corre il Viale dei Campioni d'Italia 1969/70. Un viale basta per la storia, a Torino sarebbe impossibile trovare tante strade quanti gli scudetti della Juve. Più passa il tempo e più si ha il senso epico di quell'impresa, rassegnandoci contemporaneamente all'idea che un'altra storia così probabilmente non la vedremo più. 12 aprile 1970, 50 anni fa. E' vero che lo scudetto del Cagliari ha segnato un'epoca, ma quel football consentiva ancora le grandi imprese. Anche se l'Inter era quella di Mazzola e Suarez, il Milan quello di Rocco e Rivera e la Juve di Anastasi e Furino. L'anno precedente lo scudetto lo aveva vinto per la seconda volta nella sua storia  la Fiorentina di Bruno Pesaola. Quattro anni dopo lo avrebbe vinto invece per la prima volta la Lazio di Chinaglia. Erano tempi eroici e forse anche più giusti, il Cagliari era una squadra fortissima e di scudetti avrebbe potuto anche vincerne altri: Gigi Riva non a caso era alla sua terza stagione da mattatore capocannoniere. Quando arrivò a Cagliari ne ebbe un'impressione funerea, pochissime luci, la pista di Elmas buia, il grande stagno che introduceva alla città. Di quel Cagliari tutti ricordano il filosofo Manlio Scopigno, pochissimi quelli che quel Cagliari hanno costruito. Sandokan Silvestri, ex giocatore del Milan ma anche ottimo allenatore, aveva visto più volte Riva, fino a convincersene definitivamente durante un raduno della Nazionale di Serie C a Coverciano e di fatto convincendo il presidente Arrica, abilissimo uomo mercato, a darsi da fare per l'acquisto. Fu Sandokan a curare la fragile psiche del campione nascente, intrattenendosi regolarmente a cena con lui al refettorio dei giovani del Cagliari. Silvestri se ne è andato nel 2002, Arrica nel 2011: dolori infiniti per Gigi. La Sardegna da allora è il suo guscio. Ma non vinse solo per Riva quello scudetto il Cagliari. Anzi. Riva aveva già vinto due volte la classifica cannonieri, ma il Cagliari non aveva vinto lo scudetto. Vinse anche e soprattutto per una delle più straordinarie difese mai viste, con Albertosi in porta e Cera libero (dopo l'infortunio di Tomasini) dietro Martiradonna, Niccolai e Zignoli. 11 gol presi in 30 giornate: 0,37 a ogni partita, un record eccezionale. Gigi Riva raccontava sempre: "A quei tempi, a inizio partita, i difensori col tacco tiravano un solco parallelo all'area di rigore e dicevano all'attaccante: se lo oltrepassi ti tronco". E infatti Gigi ci avrebbe poi rimesso gambe e carriera. Sinceramente non ho mai creduto alla storia che i carabinieri avessero approfittato dell'Amsicora strapieno all'inverosimile per lo scudetto del Cagliari, per arrestare un po' di pregiudicati e latitanti. Né tantomeno che si fossero fatti convincere da un paio di loro ad andare a farsi firmare autografi durante la festa della squadra, prima di essere tradotti in carcere. Ma anche questo ci dà ormai la dimensione della leggenda. Nessuno scudetto italiano è mai arrivato a tali livelli, diventando epopea. Una conquista sociale prima ancora che sportiva. Una delle canzoni più belle scritte sopra l'impresa  di Scopingno & C è "Quando Gigi Riva tornerà" di Piero Marras. "Tornerà la voglia di sognare quando Gigi Riva tornerà. Crescerà la solidarietà, ci sarà un po' più di umanità quando Gigi Riva tornerà". Quello scudetto si porta dietro una grande felicità ma anche un'infinita malinconia. Fra le mille cose che scrisse Brera di quell'impresa: "Il Cagliari è la primissima squadra vittoriosa nell'area dello scirocco..." Cagliari è all'altezza di Taranto, non fu solo l'isola, ma anche il meridione che si faceva avanti. Il vento del sud che arrivò a scompigliare l'Italia intera.

Scudetto Cagliari: 50 anni fa all’Amsicora afferrai il calzettone di Gigi Riva! Davanti a me c’era Nené che si stava spogliando per raggiungere l’abbraccio dei compagni: mi guarda sorridente ricacciando la maglietta sul borsone e mi dice...Pietro Porcella l'11 Aprile 2020 su La Voce di New York. Il 12 aprile 1970, con due giornate di anticipo, il Cagliari diventa campione d'Italia: ecco il ricordo di chi allora bambino, riuscì a intrufolarsi negli spogliatoi dello stadio Amsicora dove il campione dei campioni Gigi Riva stava celebrando lo scudetto con i compagni di quella indimenticabile squadra che fece sognare tutta la Sardegna e i sardi sparsi nel mondo...

Era una Domenica mattina di primavera, con l’aria frizzantina quando uscii da casa mia in Via Cagna 11 a cento metri dallo stadio Amsicora. Avevo 11 anni. Avevo messo le scarpe bianche Superga. Di gomma, alte, telate, le usavo per il basket, ma anche per andare a messa o allo stadio. I tubolari a striscia rosso-blù erano i miei calzettoni, per calzoncini avevo messo quelli eleganti, corti, blú con le tasche e il risvoltino sopra al ginocchio. La maglietta ovviamente era rossa, quella col colletto ben stirato da mamma.  Dopo un bel caffellatte pieno di pane duro, prima della messa delle 11 a San Pio X, volevo già fare un giro esplorativo, subito li, in Piazza Amsicora perché c’era già movimento. I venditori autorizzati iniziavano ad allestire. Li  in Piazza Amsicora  la Domenica in cui giocava il Cagliari era tutta un’altra storia. Lì c’erano i tavolini e le bandiere, i cuscinetti imbottiti rosso-blù dove poggiare le natiche sul freddo cemento o sul legno bagnato, li  si faceva la sosta per comprare i semini salati, i ceci e le altre cose da sgranocchiare durante le partite del Cagliari. E quando andava bene, quindi quasi sempre in quel secondo lustro degli anni sessanta, dopo la partita del Cagliari Nonno o Papà  ci invitavano sempre con la solita frase “Mi sa’ che ci  scappa anche il gelatino al bar di Gaviano”. Il fermento era palpabile già verso le 10. Dai paesi iniziavano ad arrivare le macchine dei tifosi. Quella del 12 Aprile 1970 era una Domenica specialissima. Tutto profumava di festa. Come se fosse il tuo compleanno e il giorno di Natale. Di più, molto di più: il Cagliari poteva diventare campione d’Italia! Se batteva il Bari e la Juve non vinceva a Roma con la Lazio saremo diventati matematicamente Campioni d’Italia con due giornate di anticipo, capito? Campioni d’Italia,  con due giornate d’anticipo! Il sogno si stava per realizzare per noi sardi in Sardegna e per quelli in tutto il mondo che seguivano quel magnifico Cagliari. Ma era il sogno anche di tutti i ‘continentali’ che avevano iniziato a tifare Cagliari perché conquistati da quella squadra ‘simpatia’ guidata da quel gran filosofo chiamato Manlio Scopigno e trascinata dal più grande attaccante di tutti i tempi della nazionale italiana, Gigi Riva. Io mi pregustavo la grande festa e non vedevo l’ora, come tutte le Domeniche da un lustro a quella parte, di andare all’Amsicora, in tribuna laterale, entrando tenuto per mano da papà. Era tradizione per noi maschietti tutte le Domeniche nella quali il Cagliari giocava in casa. Si andava all’Amsicora in cricca: fratelli, zii e cugini sotto la direzione de Nonnu Porcella e la sua cerchia di amici. Io in genere ero incaricato di portare la busta di arance sanguigne di Villacidro e Gonnosfanadiga che poi mangiavamo durante la partita alternandole ai semini di zucca che nonno ci comprava fuori dallo stadio, la’ sotto la tribuna alberata. h.2,25 Gli altoparlanti dell’Amsicora, gracchianti, squillavano le formazioni: “Formazione Cagliari: Albertosi, Martiradonna, Zignoli, Cera, Niccolai, Poli, Domenghini Nene’ Gori, Greatti, Rivaaaaa….Allenatore: Manlio Scopigno. Il boato entrava nelle orecchie. Lo stesso che a metà primo tempo riempì lo stadio quando segnò  GiggiRRiva di testa! A pochi minuti dalla fine le notizie dalle radio confermavano che la Juve stava perdendo a Roma con la Lazio. Io mi preparavo all’invasione di campo. Dovevo arrivare in prima fila per essere poi in testa all’invasione. Finalmente ci arrivai, mancavano sei minuti alla fine ed ero appiccicato alla rete di confine. Gori, Gori gool, 2 a 0, è fatta ! Ne approfittai per scalare la rete e piazzarmi in cima al paletto che la teneva. Triplice fischio dell’arbitro. Salto giù e inizia la corsa pazza gioiosa sul prato dell’Amsicora. Mi fermo un attimo sulla metà campo per strappare un pezzetto di erba dell’Amsicora che conserverò tra i miei cimeli… e poi continuo a correre felice, estasiato come se fossi in contropiede a inseguire i giocatori che  rientravano festanti verso gli spogliatoi cercando di non essere svestiti dal pubblico in delirio. Ma non volevo fermarmi e mi diressi anche io verso il sottopasso. C’era però un cordone di carabinieri in tenuta nera con la fascia bianca che chiudeva il passaggio e faceva da protezione a giocatori, giornalisti, arbitro, segnalinee  e dirigenti autorizzati a scendere negli spogliatoi per la festa. “Chissenefrega, me la tento” pensai. Mi tuffai basso sotto le braccia di due carabinieri che non potevano mollare la presa per acciuffarmi, col rischio di spezzare il cordone tra la folla che pressava. Non mi agguantano, mi rialzo e scendo giù dal sottopassaggio facendo tre scalini alla volta e dirigendomi verso quello spogliatoio del Cagliari che ben conoscevo perché andavo sempre a prendere gli autografi dopo gli allenamenti. Davanti agli spogliatoi c’era un capannello ululante di dirigenti, politici, giornalisti, fotografi, amici dei giocatori che pressavano per entrare e festeggiare anche loro quell’incredibile scudetto. Ero schiacciato accanto a un omone sbraitante. Era Walter Chiari, l’attore famoso, amico di Domenghini, che come si apre una porta laterale il massaggiatore lo tira dentro…. con me attaccato alla tasca della sua giacchetta. Incredibile, ero anch’io dentro gli spogliatoi con Riva, Gori, Domenghini già seminudi sotto la doccia con una bottiglia di champagne…Davanti a me c’era Nené che si stava spogliando per raggiungere l’abbraccio dei compagni. “Nené , Nené….la maglietta… “ gli urlai. Lui mi guarda sorridente ricacciando la maglietta sul borsone e mi risponde: “Questa la tengo io per ricordo. Guarda li, il calzettone di Gigi Riva”  indicando un calzettone fradicio sul pavimento. Lo afferrai al volo prima di essere cacciato via di mala maniera . Uscii esultante dalla porta in ferro di Via dei Salinieri straripante di gente, urlando ingenuamente “Il calzettone di Gigi Rivaaaa!”. Subito due-tre mani lo afferrarono cercando di strapparmelo. Dovetti morderle furioso per far staccare la presa e col cuore in gola scappai verso casa per poter nascondere il mio cimelio prezioso. Entrai in camera mia, presi la valigetta degli autografi e vi aggiunsi il ciuffetto di erbetta dell’Amsicora, poi mi sdraiai sul letto sognante, infilando sulla gamba sinistra quel calzettone di GiggiRriva che mi arrivava fin sopra il ginocchio. Mamma entrò in camera per assicurarsi fossi rientrato e fosse tutto a posto. Sapeva già tutto anche se non era una sportiva. Mi vide sdraiato con quel calzettone sporco indossato con gioia. Mi sorrise accarezzandomi e allungando la mano come per sfilarmelo: “ Dai, dammi quà che te lo lavo…” ”Maaa…no, lasciamelo, lasciamelo così c’è il sudore dello scudetto”. Era stato uno scudetto unico e speciale per Cagliari, per la Sardegna, per i sardi nel mondo, per tutti gli amanti, in Italia e all’estero, di quella grande squadra-simpatia di provincia. Una squadra con campioni e operai che brillava per unità, armonia e sportività. La prima che aveva vinto il titolo italiano contro le grandi potenze delle città metropolitane. E lo aveva fatto con la sola forza d’animo dei suoi giocatori, dei suoi dirigenti e l’entusiasmo del suo popolo. Su populu sardu.

Da Albertosi a Riva, le leggende dello scudetto del Cagliari. Rosa non molto ampia ed un gruppo di titolari ben definito, una politica in linea con le abitudini e le esigenze dell'epoca. Ma anche chi fu chiamato in causa per poche partite, contribuì in maniera determinante al trionfo rossoblù del 1970. Luigi Panella il 12 aprile 2020 su La Repubblica.

Enrico Albertosi - Il classico portiere guascone, da sigaretta sempre in bocca, pronto a sfidare la sorte come gli attaccanti avversari. Per tornare ad un dualismo dell'epoca, l'esatto opposto del suo grande rivale in Nazionale Dino Zoff. Grande classe, l'IFFHS lo ha inserito tra i più forti portieri del XX secolo: il merito è anche dell'esperienza al Cagliari, dove chiude la stagione dello scudetto con appena 11 gol al passivo. Personaggio da traguardo storico: il Cagliari, il 4-3 all'Azteca in Italia-Germania 1970, lo scudetto della stella con il Milan, dove approda dopo aver lasciato la Sardegna. Fa il commentatore televisivo al Processo del lunedì, viene squalificato per il calcioscomesse, torna in C2 con l'Elpidiense in C2 (due stagioni) fino a 45 anni. Nel 2004, la vita appesa a un filo: durante una gara amatoriale di trotto viene venne colpito da una grave forma di tachicardia ventricolare. Alcuni giorni di coma, poi si risveglia senza complicazioni, come se niente fosse...

Mario Martiradonna - Una tipologia di marcatore abbastanza in voga negli anni 60/70, non statuario ma arcigno, per usare un termine un po' desueto ma molto in voga nell'epoca, sempre pronto a mordere la caviglie dell'avversario. Un Berti Vogts in salsa cagliaritana.  Al Cagliari dal 1962, vi trascorre 11 anni e chiude lì con il grande calcio. Poi, oltre ad alcune attività commerciali, si dedica all'allenamento di squadre giovanili del club. E' scomparso nel 2011. 

Giulio Zignoli - Nel settembre 2010 è stato il primo dei protagonisti dello scudetto ad andarsene. Per i compagni il "pretino", per la faccia da ragazzo perbene, da chierichetto. Una aspetto che celava doti agonistiche importanti. Sembra che in tutta la sua esperienza al Cagliari, con Scopigno abbia scambiato al massimo un paio di battute. Ma in campo godeva della fiducia del tecnico, che ne apprezzava la doti di fluidificante sulla fascia sinistra. Dopo lo scudetto passa al Milan, dove viene spodestato da un emergente in quel ruolo come Aldo Maldera, Chiude a Seregno in C nel '77. In seguito è stato anche imprenditore di successo.

Pierluigi Cera - Tatticamente qualche anno più avanti di quel 1970. La sua interpretazione del ruolo di libero è rivoluzionaria: primo costruttore di gioco, una sorta di regista difensivo. Lascia il segno nelle squadre in cui gioca, ma le tradizionali potenti del calcio italiano (la Juve e le milanesi) lo ignorano. In 22 anni di calcio veste 3 maglie. Oltre al Cagliari, Verona e Cesena. In Romagna contribuisce ad una impresa per certi aspetti superiore (visto il livello complessivo della squadra) a quella compiuta in Sardegna: la qualificazione alla Coppa Uefa. Proprio a Cesena ricopre varie ruoli dirigenziali, tra cui quello di direttore sportivo, fino al 2000.

Comunardo Niccolai - Nome atipico, datogli dal padre antifascista in onore della Comune socialista di Parigi del 1871. Fama ancora più atipica: 're dell'autogol'. Ne fa sei nella sua carriera di stopper: neanche troppe (Riccardo Ferri e Franco Baresi hanno fatto 'meglio' con 8), ma tutte splendide. Quella a Torino con la Juve (2-2 nella gara chiave per lo scudetto) la più famosa. Il capolavoro sarebbe stato a Catanzaro nella stagione 71/72: pensa che il gioco sia fermo e scaglia un destro all'incrocio dei pali. Brugnera para, e sul rigore seguente i calabresi comunque pareggiano. Chiusa la carriera a Prato nel '78  dopo una sosta a Perugia, fa l'allenatore: nel biennio 1993-1994 guida la nazionale A femminile. Attualmente è osservatore per la nazionale azzurra.

Giuseppe Tomasini - E' uno dei lumbard che una volta arrivato a Cagliari non se ne è più andato. Chiusa la carriera nel 1977, lavora un anno come vice di Lauro Toneatto, ma nel calcio tranne qualche esperienza dirigenziale (direttore sportivo del Sant'Elena Quartu, squadra storica sarda all'epoca militante in Eccellenza) non ci rimane. Rileva un distributore di benzina, in cui gestisce anche un bar e un officina. Libero più tradizionale rispetto a Cera, ma anche di qualità, nella stagione dello scudetto riesce a giocare solamente 17 partite, tradito da un infortunio che gli fa perdere anche la convocazione ai Mondiali del Messico.

Angelo Domenghini - E' uno di quelli arrivati al Cagliari per 'vincere' lo scudetto. Nell'estate '69 infatti entra nell'affare che porta Boninsegna all'Inter. Infaticabile, dotato di istinto del gol, anche se al Cagliari, chiamato ad agire in un ruolo di supporto a Riva e Gori, ha una media realizzativa inferiore rispetto alla sua esperienza milanese. Di lui di ricordano anche i graffi in Nazionale, come il destro che raggiunge la Jugoslavia regalando ad una Italia quasi sconfitta la finale bis (poi vinta) agli Europei del 1968 o un tiro beffardo che beffa il portiere svedese Hellstrom ai Mondiali del 1970. A fine carriera fa l'allenatore (Torres, Sambenedettese e Novara tra le squadre allenate) e fino al 2012 lavora all'Inter come osservatore.

Olinto de Carvalho ''Nenè'' - Per descriverlo come giocatore basta cercare in rete una azione che anticipa di quasi tre anni lo scudetto. Stadio Olimpico, 3 dicembre 1967, Roma-Cagliari 2-3: prende palla nella sua area, cavalca irresistibilmente per tutto il campo, resiste a tentativi spietati di placcaggio, entra nell'area giallorossa ed offre a Riva l'assist per il più comodo dei gol. Tecnico e velocissimo: Santos e Juventus le sue squadre prima di arrivare al Cagliari. Poi allena la Primavera della Fiorentina e del Cagliari, gli allievi nazionali della Juventus e altre squadre del settore giovanile ancora del Cagliari (giovanissimi). Personaggio inimitabile, con le sue stravaganze e le sue superstizioni, per un periodo va anche in tv (con la Gialappa's a Mai dire Mondiali).  Resta a vivere sull'isola, dove muore nel 2016.

Sergio Gori - Faccia da attore pasoliniano, attaccante. Nell'anno scudetto deve svolgere il ruolo più facile ed al tempo stesso più difficile: fare la spalla a Gigi Riva dopo che per parecchio tempo ci era riuscito - ed alla grande - Roberto Boninsegna. È comunque uno che i gol li fa sempre e gli scudetti li vince sempre. Appartiene ad un club non tanto ampio: è tra i cinque calciatori italiani ad aver conquistato il tricolore con tre società differenti: Inter, Cagliari e Juventus. A carriera finita si dedica al mondo della ristorazione.

Ricciotti Greatti:  Nove stagioni in rossoblù dove chiude la propria carriera nel '72. Il suo talento calcistico è quasi scritto nel luogo di nascita, nel Friuli, Basiliano. Il quasi è quella r mancante. Il tasso tecnico molto elevato di cui è dotato è decisivo nella sua carriera, quando gradualmente arretra la sua posizione in campo diventando un regista classico, molto attento anche alla fase difensiva. Il faro di quel Cagliari insomma, con tanto di filotto record di presenze (145 consecutive) il 1964 e il 1969. Finita la carriera non resta nel mondo del calcio ma si dedica esclusivamente, con successo, alla sua attività in campo assicurativo.

Gigi Riva - Raramente una squadra, una regione, un popolo, si sono identificati in un singolo giocatore come il Cagliari con Gigi Riva. Una carriera da record legata alla Sardegna ed alla Nazionale, della quale è il miglior marcatore della storia. Dovendo scegliere una foto che lo rappresenti, la scelta va sulla acrobazia impossibile con la quale nel gennaio del 1970 segna a Vicenza battendo il portiere dei veneti - nonché ex cagliaritano - Pietro Pianta. Una immagine emblematica, simile nella spettacolarità dell'esecuzione ad un altro gol magico e spesso ricordato, quello di Johan Cruyff in un Barcellona-Atletico Madrid. Riva Cagliari non la lascerà più: fonda nel 1976 una scuola calcio (la prima in Sardegna) che porta il suo nome. Nel 1986-87 è per pochi mesi anche presidente del club, lasciando poi la carica Lucio Cordeddu. Nel 1990 va in FIGC al seguito della nazionale, prima come dirigente accompagnatore e infine come team manager, ruolo che ha ricoperto fino al maggio 2013. Il 18 dicembre 2019 viene nominato presidente onorario del Cagliari dal patron rossoblù Tommaso Giulini. In occasione del campionato del mondo 1978 in Argentina è anche seconda voce nelle partite della nazionale italiana trasmesse da Radio Rai.

Manlio Scopigno - L'allenatore filosofo, uomo dai mille interessi. Sentendo parlare praticamente tutti i suoi ex giocatori, la frase ricorrente è quasi sempre la stessa: "E' stato un allenatore avanti coi tempi''. La stagione dello scudetto la vede per 5 mesi dalla tribuna, complice una squalifica dopo un Palermo-Cagliari nel quale apostrofa l'arbitro con frasi decisamente poco gentili. Ma anche in quella circostanza sdrammatizza con una battuta: "Dalla tribuna si vede meglio...". E' scomparso nel ’93.

Gli altri protagonisti - Il portiere di riserva, Adriano Reginato: spodestato da Albertosi ma capace, quando era titolare, del record di imbattibilità iniziale del campionato di serie A con ben 712'. Eraldo Mancin, la riserva di Zignoli, gioca 8 partite nell'anno dello scudetto. Nella stagione successiva, fatto raro per un terzino, segna una tripletta nella gara contro il Verona. E' scomparso nel 2016. Cesare Poli: tuttofare, eclettico, gioca terzino, mediano, libero, persino stopper e colleziona 11 presenze. Mario Brugnera: arrivato dalla Fiorentina, colleziona 19 presenze nella stagione magica, sarà la bandiera del Cagliari nel ciclo del dopo scudetto. Molto dotato, ad un giornalista sorpreso del fatto che lo portasse in panchina, Scopigno rispose: "Ha il culo stretto, così stiamo tutti più comodi...". Corrado Nastasio, gioca poco (2 presenze) ma corre tanto, al punto tale da non accorgersi della linea di fondo. Scopigno pensò bene di metterci un cartello che recitava 'il campo è finito...'. Moriano Tampucci, nessuna presenza nella stagione scudetto, è scomparso nel 2013. Una figura che racchiude la poetica, ed in un certo senso la malinconia, di quello che ha meno chance di tutti di giocare: il terzo portiere.

Cera: "Fumavamo quasi tutti, ma era un gruppo imbattibile". Il libero del Cagliari dello scudetto intervistato da Gianni Mura: "Non c'era nessun sardo in squadra, ma la spinta dei tifosi divenne un motivo di orgoglio per noi. Scopigno non amava i filtri, capiva di calcio e ti dava fiducia. E il campionato potevamo vincerlo anche l'anno prima, ma..." Gianni Mura il 12 aprile 2020 su La Repubblica. Pierluigi Cera, Piero per amici e compagni di squadra, comincia col 9 sulla schiena. Centravanti arretrato, alla Hidegkuti. Sul campo dei ricordi gli tocca il 6, un 9 rovesciato, perché è stato, nel Cagliari-scudetto e al mondiale messicano del '70, il primo libero di costruzione e a lui più tardi avrebbero dichiarato di essersi ispirati Scirea e Tricella. "Cosa che mi ha fatto piacere. Ma tutto è nato in modo casuale: s'è fatto male seriamente Tomasini, il nostro libero, e Scopigno m'ha chiesto se ma la sentivo di scalare indietro. Se faccio il libero, lo faccio a modo mio, ho risposto. E l'ho fatto a modo mio. Lui ovviamente era d'accordo. Tenga presente che nel Cagliari scudetto eravamo 17 in tutto: gli undici titolari, due portieri, Reginato e Tampucci, un terzino, Mancin, un mediano, Poli, un jolly, Brugnera, e un attaccante, Nastasio. Non c'era molta scelta. Nenè ha fatto il mediano al posto mio e Brugnera è entrato al suo posto, più avanti".

È vero che prima di una partita Scopigno le disse che, da libero, doveva marcare più di tutti il vostro stopper, cioè Niccolai?

"È vero, ma poi vorrei fare una difesa di Niccolai".

Va bene, la farà. Prima vorrei controllare la veridicità di un episodio. È vero che dopo il 2-2 di Riva su rigore all'82', in casa della Juve, lei chiede a Scopigno quanto manca e lui risponde: quanto manca a che?

"Non è vero. Anche perché molti dimenticano che vincemmo lo scudetto con Scopigno squalificato per cinque mesi, quindi non in panchina. Accadde a Palermo, la nostra prima sconfitta con l'ultima in classifica. Lui era infastidito perché dal pubblico continuavano a sputargli addosso, cercava di richiamare l'attenzione del guardalinee, che però non se lo filava. Finché Scopigno gli disse dove poteva mettersi la bandierina ".

Sembrano tanti, cinque mesi.

"Forse disse anche dell'altro. Si era svegliato male, anzi l'aveva svegliato il massaggiatore perché in camera sua non c'era. Doveva aver bevuto qualche bicchiere in più e si era buttato a dormire in una stanza a caso. Ricordo che la terna arbitrale era veneta e uno dei tre mi disse sull'aereo: Piero, mi sa che il mister per un po' ve lo siete giocato. Ma io pensavo a due-tre domeniche. Oggi cinque mesi è tanto se li danno a chi vende le partite. E oggi, ma anche ieri, su una squalifica così pesante ci sarebbero interrogazioni parlamentari. Ma stiamo parlando del '70, il Cagliari era una simpatica novità ma non una potenza a livello mediatico. Prima che me lo chieda, è verissimo l'episodio di Scopigno ad Asiago. Passata mezzanotte entra in una camera dov'eravamo in otto a giocare a carte sui letti e a fumare, più qualche bottiglia che non avrebbe dovuto esserci. C'ero anch'io, la camera era piena di un fumo che sembrava nebbia. Silvestri ci avrebbe ammazzato, pensai, mentre Scopigno proporrà una forte multa. Macché. Disturbo se fumo? disse. E poi, con occhiata circolare: però è l'ultima. In mezzora eravamo tutti a nanna e la domenica dopo vincemmo 3-0".

Ma fumavate tutti, al Cagliari?

"Tutti tutti no. Nené e Greatti non fumavano. Greatti era l'unico che viaggiava a riso in bianco e filetto. Si curava come un certosino. Un giorno Scopigno lo cacciò dall'allenamento perché tirando il gruppo correva troppo veloce".

Riesce a riassumere Scopigno in poche parole?

"Me ne basta una: grande. In anticipo sui tempi: non sopportava i ritiri. Capiva di calcio e di calciatori. Dava fiducia. Non urlava, anzi bisbigliava, ma sapeva farsi rispettare. È vero che ci allenavamo poco, rispetto agli squadroni del nord, ma si teneva conto del clima di Cagliari".

E in quei cinque mesi di squalifica?

"Ho un dispiacere. Il Guerino uscì con questo titolo: "Scopigno squalificato, Cera sarà l'allenatore". Dispiacere per Ugo Conti, il vice di Scopa, tra di noi lo chiamavamo Scopa. Gran brava persona, Conti. È vero che per il mio modo di giocare, a centrocampo e da libero, ero di quelli che sono definiti allenatori in campo. È vero che Scopigno preparava bene la partita e poi diceva: se qualcosa non funziona, vedete un po' voi. Ma questo lo facevano tantissimi allenatori, tutti quelli che non si prendevano per Dio in terra. Fiducia è la parola chiave. Avremmo potuto vincere anche l'anno prima lo scudetto, eravamo campioni d'inverno, ma ne parlavamo come se la faccenda riguardasse un'altra squadra, non il Cagliari. E forse giocavamo anche meglio a calcio, l'anno prima ".

Come ci è arrivato, a Cagliari?

"Controvoglia. Allora il Cagliari faceva due gare consecutive in casa e due in trasferta. Era come star sempre in ritiro. Io in Veneto avevo la famiglia, la morosa. Bonazzi, il presidente del Verona, mi aveva detto che mi volevano 12 squadre di A. Speravo di finire più vicino a Verona. I problemi maggiori, nel mio calcio, erano casalinghi. Più che gli avversari, dovevo dribblare mio padre Ferruccio, classe 1900, uomo all'antica. A Legnago dirigeva una banca, la filiale della Mutua Popolare. In tutta la vita non ha mai messo piede in uno stadio. Io, quarto di otto figli, ho cominciato a calciare nei campetti lungo l'Adige, poi in una squadretta, l'Olimpia. Da cui il Verona mi ha prelevato pagando un milione e mezzo. Non per vantarmi, ma la media di spesa per un ragazzo a quei tempi era di centomila lire al massimo. A me, minorenne, insomma alla famiglia spetterebbe il 12% di quella cifra, ma mio padre blocca tutto dicendo che i soldi si devono guadagnare lavorando, non tirando calci a un pallone".

Poi le cose migliorano?

"No, peggiorano. Vado al Verona. Un giorno mio padre mi convoca in ufficio, faceva così anche con gli altri figli. Ha l'Arena sulla scrivania. Comincio a capire. La domenica ero stato espulso, la notizia è in un titolo. Mio padre, faccia scura, dice che così gettavo discredito sul buon nome della famiglia e dovevo chiudere col calcio".

Scherzava?

"Non scherzava e me la sono vista brutta. Per fortuna è intervenuto il professor Valerio, vicepreside della scuola e anche sindaco della banca, che l'ha un po' ammorbidito. Tra l'altro non meritavo quell'espulsione. Campo pesante, giocavamo col Novara. Zeno interviene in scivolata e mi sbrega un braccio. Allora c'erano i chiodi sotto le scarpe, non i tacchetti. Io da terra chiudo la mano a pugno e gli mostro il braccio come per dire "guarda cos'hai fatto". Non lo sfioro nemmeno ma l'arbitro, Varazzani di Parma, ricordo bene, mi manda fuori "per l'intenzione". E poi manda fuori anche Zeno. Ricordo bene anche l'esordio in A, a 17 anni, ospitando il Milan di Liedholm, Schiaffino, Maldini, Buffon: 2-0 per loro. Come ricordo la prima fascia da capitano. Avevo 22 anni e compagni ultratrentenni. Ricordo, ancora, certi viaggi allucinanti: da Catanzaro a Verona in treno, senza neanche fare la doccia, e arrivare giusto in tempo per la scuola. Oppure occasioni perse: si giocava una domenica a Palermo e quella dopo a Messina. I miei compagni se ne stavano beati una settimana a Mondello e una a Taormina, io su e giù dagli aerei, guai a perdere un giorno di lezioni. Ragioneria l'ho finita, era la condizione per continuare a giocare a calcio. Quando avevo 16 anni erano venuti a casa due dirigenti della Juve, garantendo un collegio serio, attenzione agli studi, ma mio padre aveva risposto picche: quando mio figlio avrà il pezzo di carta farà quello che vuole, ma prima no".

Adesso possiamo parlare di Niccolai e di Scopigno che dice: tutto potevo aspettarmi meno che vederlo in mondovisione.

"Niccolai l'avevo chiamato Agonia, camminava ciondoloni e sembrava avesse sempre male da qualche parte. Era un bel marcatore, si esaltava coi centravanti più famosi. Lo difendo perché è un amico e perché si parla solo delle sue autoreti. Alcune clamorose, è vero. Una per anticipare De Paoli, perfetta incornata nel sette. Un'altra a Bologna, dribblando mezza difesa nostra e toccando in porta. La più incredibile, ma non figura a suo carico, a Catanzaro. Campo mezzo allagato, pieno di gobbe. Quasi alla fine, Niccolai interviene per spazzare via il pallone da fuori area, con l'idea di spedirlo in tribuna. E centra il nostro sette. Brugnera para, Lo Bello non vede ma il guardalinee sì: rigore. Più di me, per Niccolai parlano i numeri. Vincemmo lo scudetto segnando 32 gol, 21 di Riva, e incassandone appena 11, tra cui due autoreti e un rigore. È ancora un record, ed è anche merito di Agonia ".

Cagliari-scudetto, nessun sardo in squadra e tutta l'isola addosso. Non vi pesava?

"Era un orgoglio, non un peso. Eravamo professionisti, non mercenari. Il calore, l'enorme affetto il giorno della partita. Per il resto, in Sardegna c'è bella gente, discreta, che non rompe le scatole, un po' sulle sue ma quando decide di aprirsi ti dà tutto. L'Amsicora oggi non sarebbe omologato. La tribuna d'onore erano quattro gradoni di cemento coi numerini pitturati. Una sola curva, tutta in tubi Innocenti. Ma a mezzogiorno lo stadio era già pieno, ed era un tifo civile. Non come a Milano e a Torino, dove ci accoglievano a pietrate sul pullman e per tutta la partita ci urlavano banditi e pecorai. Io che non ci volevo andare sono felice di aver fatto qualcosa per quell'isola, e non è un caso se otto del gruppo-scudetto sono rimasti a vivere a Cagliari a fine carriera".

Lei come ha rotto col Cagliari?

"È il Cagliari che ha rotto con me. Andavo molto d'accordo col presidente Marras, dirigente correttissimo e bravissimo. Gli è subentrata una cordata. Alle 21 dell'ultimo giorno di mercato ho saputo che mi avevano venduto al Cesena. Il primo anno me lo sono goduto: ambiente simpatico, e poi volevo dimostrare di non essere finito. Pensavo di retrocedere e quindi di smettere, invece siamo arrivati undicesimi. Idem l'anno dopo. E l'anno dopo arriviamo in Coppa Uefa. Ho smesso a 37 anni, poi ho fatto il ds fino al 2000. Valorizzando Rizzitelli e Bianchi e dicendone quattro, una mattina, ad Arrigo Sacchi che allenava la Primavera. Aveva spostato l'allenamento, previsto nel pomeriggio, per via dell'importanza di non so che partita. Che sia la prima e l'ultima volta, gli ho detto, prima viene la scuola e poi le partite".

Uno psicologo troverebbe un riverbero paterno, nell'episodio. Ma a lei, come a tutti quelli che erano a Mexico '70, chiedo se col Brasile poteva finire diversamente.

"Secondo me no, era il Brasile più forte di tutti i tempi. Ma mi lasci fare un passo indietro. Quando sento che il 4-3 coi tedeschi è stato votato miglior partita del secolo, penso che siamo messi proprio male. Una partitaccia. Migliori supplemen-tari, al massimo. Col Brasile, non sono stati quelli ad appesantirci. Ridicolo affermarlo, abbiamo avuto cinque giorni per recuperare. Il modo di giocare, semmai, favoriva i brasiliani. A differenza di noi, rincorse di 50 metri, spendevano meno energie. Sull'1-1 era scritto che chi segnava il 2-1 avrebbe vinto. Mi spiace solo che il 2-1 fosse evitabile, considero eccessivo il 4-1 ma loro erano più forti".

Si diverte ancora col pallone?

"Sì, quando gioco coi nipotini o quando guardo la Roma. Totti lo conosciamo, e un suo passaggio di prima è merce pregiata, ma chi mi incanta è Pjanic. Fa dei numeri in mezzo a tre avversari, in un metro quadrato, che non vedevo da un pezzo. È come avesse due mani al posto dei piedi. La Juve riempie meno gli occhi ma è sempre una brutta bestia da affrontare. Conte non vincerà mai l'oscar della simpatia, ma come allenatore-martello tanto di cappello".

(L'intervista è stata pubblicata originariamente su Repubblica del 14 marzo 2014)

Manlio Scopigno, il filosofo in panchina che amava i libri e l'arte e detestava. Riva: "Le squadre erano una via di mezzo tra collegio e caserma. Lui ci ha dato la libertà". Boninsegna: "L'ho visto arrabbiarsi solo quando a tavola si prendevano in giro i camerieri". Gianni Mura il 21 marzo 2020 su La Repubblica. Qui finisce il campo. Era un cartello che Manlio Scopigno aveva fatto piantare dal magazziniere ad uso e consumo di Nastasio, un attaccante del Cagliari piccolo e velocissimo che tendeva a crossare in ritardo. Qui finisce anche la carrellata sul campo dei ricordi: una squadra dall'1 all'11 deve avere un allenatore e ho scelto Scopigno. Non lo posso intervistare, perché è morto, ma mi sembrava giusto tornare a parlarne, chiedere di raccontarlo a quelli che l'hanno conosciuto. Sono andato a Roma dalle donne della sua vita, tutte e due laureate e docenti. Angela, la moglie, di Lettere. Francesca Romana, la figlia, di letteratura inglese. Hanno espresso il desiderio di non essere virgolettate, come si dice in gergo, e lo rispetto. Me ne hanno parlato come di una persona schiva, che lasciava il calcio fuori casa e che, con l'eccezione della prima esperienza vicentina, non portava la famiglia sul posto di lavoro. Viveva in albergo. Allenatore friulano, s'è letto spesso. Ma di friulano non aveva nulla, se non il luogo di nascita: Paularo, alta Carnia, 20 novembre 1925. C'era di servizio il padre, guardia forestale, radici in Umbria, che presto fu trasferito a Rieti. Lì Scopigno inizia a giocare a pallone, in C e in B, poi passa alla Salernitana e infine, fortemente voluto da Monzeglio, al Napoli in A. Monzeglio, terzino campione del mondo e istruttore a tennis dei figli di Mussolini, teneva una rubrica sul "Calcio illustrato" e paragonò Scopigno a Maroso. Intanto Scopigno s'era iscritto alla Sapienza di Roma, Pedagogia. Per questo fu poi chiamato il Filosofo (il primo fu Nevio Furegon, corrispondente della Gazzetta da Vicenza). A quei tempi già era una rarità un calciatore con la licenza media, una vera mosca bianca chi frequentava l'università. C'è chi se lo ricorda, a Salerno, elegante come un lord inglese e già buon pokerista. Elegante anche sul campo, gambe sottili, bella corsa e buon piede, non un terzinaccio. Nel Napoli gioca una sola partita. Due versioni, una di minoranza: si infortuna in un tackle con Sivori. Una più accreditata (anche dalla moglie): esordisce in Napoli-Como 7-1, segna il quinto gol, primo e ultimo della sua promettente carriera perché poi gli saltano i legamenti del ginocchio destro, e addio. Col pallone vanno alla deriva anche gli studi. Indeciso se arrivare alla tesi o rimanere in qualche modo nel calcio, rimane nel calcio. Ricomincia da Rieti, come allenatoregiocatore in serie D, poi solo allenatore: a Todi, ancora a Rieti, a Ortona. L'ascensore per la serie A passa da Coverciano: frequentando il corso-allenatori conosce Roberto Lerici, detto il Frate per i modi garbati, italianista convinto, molto stimato da Gianni Brera. Lerici lo vuole come secondo a Vicenza. Due anni da vice e, quando Lerici è esonerato, Scopigno viene fu promosso dal presidente Maltauro, consigliato in questo senso da Lerici stesso e dal capitano, Savoini.

Sugli anni a Vicenza, dove allenò a due riprese, ho ascoltato Sergio Campana.

«L'allenatore più intelligente e controcorrente che abbia avuto. Nei ritiri studiavo per laurearmi in Legge e un allenatore, Andreoli, mi aveva invitato a non studiare seduto a un tavolo perché mi sarei guastato i muscoli. E i miei compagni che giocano a carte per ore seduti a un tavolo? Obiettai. E lui, deciso: è diverso, altre fasce muscolari. Scopigno mi dava del lei, solo a me in tutto il Lanerossi. Già a Vicenza concedeva libertà, mai un controllo telefonico notturno. Pensi quant'era in anticipo sui tempi. Distribuiva a tutti un questionario: con chi divideresti volentieri la camera in ritiro? con quale compagno andresti in ferie? A chi confideresti un problema extracalcistico? Al più votato affidava la fascia da capitano. Conosceva il gioco degli avversari. A Genova, con la Samp, sapeva che mi avrebbe marcato Vincenzi. Mi disse di partire alto, e arretrare progressivamente, e a Puja centrocampista disse di partire basso e avanzare progressivamente. Vincemmo 2-0 con due gol di Puja, loro non capivano chi dovesse marcarlo. Degli avversari sapeva tutto, prendeva appunti su un quaderno. Tatticamente, spostò a terzino Savoini, che era ala sinistra. Si ricorda Savoini, quello che poi scoprì Roberto Baggio? Era anche uno psicologo, Scopigno. Agli inizi Vinicio era triste, non segnava neanche in allenamento. Allora Scopigno disse a Savoini, che del posto era sicuro, di marcare Vinicio più blandamente. Viniciò cominciò a segnare in allenamento, ma poi, col morale alto, anche in partita».

Salvezza raggiunta, settimo, sesto, undicesimo. Così Scopigno in quel Vicenza che sarebbe rimasto in serie A per 21 anni filati. Poi il grande salto, a Bologna. Grande perché da poco il Bologna aveva vinto lo scudetto e perché quella panchina era stata occupata da Fulvio Bernardini. Breve, perché durò sei partite in tutto. Ricorda Adalberto Bortolotti, allora a Stadio: «Con la stampa bolognese aveva legato bene, si tirava tardi insieme, col presidente Goldoni no. Sembrava che Scopigno non vedesse l'ora di essere sollevato dall'incarico. Incominciò a lamentarsi del campo («infame, non ci torneremo più») di Modigliana, dopo un'amichevole. Modigliana era il feudo di un potente politico Dc amico di Goldoni. A Goldoni venne il sospetto che Scopigno fosse comunista, e prese male anche una visita di cortesia che Scopigno fece a Bernardini. Poi ci fu l'onda di Modena, per dirla con Goldoni, cioè l'onta, il Bologna eliminato dal Modena in Coppa Italia. E l'esonero arrivò. Anni dopo, a chi gli chiese se sarebbe tornato volentieri ad allenare a Bologna, Scopigno rispose: «Sì, ma alla guida di un cacciabombardiere».

A Cagliari, partito Silvestri per andare al Milan, lo vuole Andrea Arrica, un dirigente che quelli di oggi li sgranocchierebbe col primo caffè. Gli piaceva il gioco del Vicenza, una provinciale come il Cagliari, in fondo. Alla fine, miglior difesa (17 reti) e sesto posto. Con la stessa difesa, 38 reti al passivo l'anno dopo, con Puricelli. Già, perché Scopigno era stato licenziato. Motivi da chiarire, anche qui due versioni: il Cagliari impegnato in un propagandistico torneo Usa, è invitato a cena nella residenza dell'ambasciatore italiano a Chicago. Le due versioni: Scopigno ha fatto pipì contro una siepe, nel giardino. No, Scopigno l'ha fatta in un cassetto della scrivania dell'ambasciatore.

«Buona la prima», commenta Pierluigi Cera, «ma è stato solo un pretesto. Tra Scopigno e il presidente Rocca non era mai corso buon sangue». Brera scrisse sul Guerino: «Scopigno ha trovato il solito diplomatico minore che ha ritenuto offesa l'Italia nella sua dimessa maestà di funzionario. Quante volte dovremmo allora trovare offeso il nostro Paese dalla stronzaggine di certi diplomatici minori?». Per Scopigno, un anno a spasso, ma verosimilmente stipendiato da Moratti, che lo voleva all'Inter al posto di Herrera, così come da anni voleva l'interista Riva, ma Herrera preferiva Pascutti. In quegli anni sull'isola c'erano forti investimenti: la Saras di Moratti, la Sir di Rovelli. Via Rocca, diventò presidente Corrias, anche presidente della Regione, Arrica sempre presente, Scopigno torna ed è secondo il primo anno, primo nel ‘70, alla faccia della squalifica di sei mesi. Oltre a quello che aveva detto in campo, a Palermo, si era presentato in salastampa esclamando: «Terra, mare, cielo e Toselli». Per i primi tre quarti, era lo slogan della Fiat. Il quarto era l'arbitro. Sdrammatizzò anche la squalifica: «Un allenatore in panchina serve a poco, dalla tribuna si vede meglio».

Dice Roberto Boninsegna: «Sapeva sempre sdrammatizzare. L'ho visto arrabbiato solo quando a tavola qualcuno faceva il coglione con i camerieri o, più facile, con le cameriere. Ragazzi, imparate a rispettare la gente che lavora, diceva, e non volava più una mosca».

Dice Comunardo Niccolai: «Mi ricordo una domenica a Milano. Si mangiano le solite cose del pre-partita, poi Albertosi e Riva si accendono una sigaretta. Scopigno: chi vi ha dato il permesso? Riva: di solito facciamo così. Scopigno: di solito ma oggi no. O spegnete la sigaretta o andate su, fate la valigia e tornate a Cagliari. L'hanno spenta. Scopigno era in anticipo sui tempi, vedi ritiri aboliti. Ogni allenamento lo concordava col medico, il dottor Frongia. Col clima mediterraneo, diceva che venti minuti tirati a Cagliari valevano due ore a Vicenza. Preparava la partita parlando separatamente con difensori, centrocampisti e attaccanti. Una novità. E la battuta su Niccolai in mondovisione, se l'ha detta, credo l'abbia detta con affetto».

Dice Giuseppe Tomasini: Il libero, che in Messico non andò perché toccato duro da Benetti: «Aveva capito tutto del clima. Partivamo piano, magari subito eliminati in Coppa Italia, ma poi era tutto un crescere. Sapeva gestire i big ma anche gli altri. Aveva capito che i lunghi ritiri non uniscono ma incattiviscono. Parlava pochissimo, ma chiaro. Era di un'intelligenza tattica, ma anche umana, che sembrava di un altro pianeta. Come sembrava fantascienza lo scudetto. Bravo Scopigno ad abbassare la tensione, che pure era tanta perché sapevamo di rappresentare tutta l'isola».

Dice Gigi Riva: «Le squadre allora erano una via di mezzo tra il collegio e la caserma. Lui ci ha dato la libertà, e insieme la responsabilità. Lui ci ha dato fiducia, ma guai a sgarrare: finivi sulla lista nera, e a fine campionato andavi altrove. Ma non era solo battute, Scopigno. Il primo anno, mi vide col muso in aeroporto e mi disse: se hai bisogno, io ci sono. Come lui, mai trovato nessuno».

Curiosamente, Scopigno aveva messo d'accordo i giornalisti italianisti e quelli offensivisti. Esaltava gli attaccanti ma le sue squadre incassavano pochi gol (solo 11 il Cagliari- scudetto, resta un record). Perché parlava poco, e bisbigliando, ma non diceva cose banali. Gualtiero Zanetti lo riassunse così: «Ai ritiri crederebbe, ma non potendoli sopportare li elimina. Lo chiamano il filosofo, ma è uno degli uomini più pratici che si conosca. Fa tutto in funzione di ciò che gli va a genio e i calciatori finiscono per ragionare come lui. Non sopporta e fa trasferire gli insinceri, i maleducati, gli ignoranti, i vocianti, i piagnoni e i prepotenti».

Posso aggiungere che detestava ogni forma di retorica e anche l'esibizione del potere. Gli piaceva il cinema neorealista, era appassionato d'arte contemporanea e amico di Corrado Cagli. Leggeva moltissimo. Amava, riamato, Luciano Bianciardi, un altro che si distrusse bevendo e fumando oltre misura. Quando Scopigno smise, era già tardi. Dopo Cagliari, Roma (lanciò Di Bartolomei) e ancora Vicenza, finché il suo amico dottor Malaman non lo mandò in pensione nel 1976. Da pensionato, scrisse per anni un'arguta rubrica sul Giorno (Senza filtro, autoironicamente si chiamava). Dopo due infarti, fatale un aneurisma. Morì il 25 settembre 1993. Del grande calcio, ai funerali a Rieti c'erano solo Cera e Riva. Nessun minuto di silenzio sui campi, nemmeno a Cagliari. Dal gennaio ‘94 la tribuna-stampa del Sant'Elia è intitolata a Scopigno e dal 2005 a lui e a suo fratello Loris, pure calciatore e dirigente del Coni, lo stadio di Rieti, dove si svolge un torneo internazionale per Allievi. Nel 2002 è uscito l'unico libro su Scopigno, «Un filosofo in panchina»scritto da Giulio Giusti. E adesso che il Campo dei ricordi chiude, par di sentire una voce dal fondo, anzi un bisbiglio: «Ancora ‘ste vecchie fregnacce, ma non avete niente di meglio da scrivere?». No. (Articolo del 2014 della serie "Il campo dei ricordi")

Cagliari, il vicepresidente Usai: "Io, figlio dello scudetto. Fu il riscatto di un popolo". Parla il dirigente rossoblù: "Sono stato concepito in piena euforia da tricolore, nascendo dieci mesi dopo quel trionfo storico". Una vittoria non solo sportiva: "Da allora la Sardegna non fu più la stessa". Matteo Pinci il 12 aprile 2020 su La Repubblica. Sarebbe stato bello rivederli tutti in campo, con la maglia del Cagliari addosso, per festeggiare quel giorno storico di cinquant'anni fa. La pandemia da Covid 19 ha cancellato quello e decine di altri eventi organizzati dalla società. Ma il mezzo secolo dello scudetto del Cagliari non passerà senza celebrazioni.

Il riscatto di un'isola. Sono trascorsi cinquant'anni dal giorno del trionfo di Gigi Riva e di Manlio Scopigno, soprattutto della squadra che rappresenta non solo una città, ma un'isola. "Azzarderei addirittura un popolo", sottolinea con soddisfazione Fedele Usai, vicepresidente del club sardo. Un manager di successo, amministratore delegato di Condé Nast Italia, uno dei maggiori gruppi editoriali al mondo, che a Milano lavora ma in Sardegna è nato: "Sono un figlio dello scudetto. Sono stato concepito in piena euforia da scudetto, nascendo dieci mesi dopo quel trionfo storico". E che ha avuto un peso storico: "Ha portato sulle spalle il riscatto di un'isola. La Sardegna non era quella della Costa Smeralda, se ha iniziato a esistere nel mondo è anche grazie a quello scudetto". Un successo costruito da sardi non di nascita ma per scelta. Come Gigi Riva, ormai adottato dalla città, tanti suoi ex compagni hanno fatto la stessa scelta. "Otto giocatori di quella squadra anche dopo la fine della carriera sono rimasti a vivere a Cagliari. E poi c'era Scopigno, un mix tra Herrera e Mourinho, uno dei tecnici più sottovalutati della storia".

Le iniziative del club. La ricorrenza è stata mutilata dall'emergenza sanitaria che ha impedito lo svolgimento di tante iniziative, tra cui una partita tra vecchie glorie che avrebbe riportato in campo alcune leggende di quella squadra. Ma la società ha saputo ripensarle, inventando altro: i protagonisti di quel 12 aprile manderanno racconti video, una clip mostrerà tutti i gol della squadra in quel 1969/70, ma la società ha anche invitato i tifosi di tutto il mondo ad esporre bandiere rossoblù alle finestre e a fotografarle. Poi, dalla mattina, partirà una cronaca virtuale del giorno. "Sui social racconteremo quella giornata come se stesse succedendo in tempo reale, dal prepartita alla cronaca dell'incontro contro il Bari che assegnò lo scudetto, fino al dopo partita, con la famosa frase di Scopigno, che alla Domenica Sportiva, quando gli domandano come si sente l'allenatore che ha portato lo scudetto al Cagliari risponde: come uno che ha sonno".

Lo stemma, una vela in cui soffiare. Anche lui per questa annata aveva "aspettative diverse, sognavamo giorni densi di celebrazioni, abbiamo dovuto rivederle". Persino la maglia speciale per il centenario è stata quasi una comparsa: indossata due volte appena, ma fortemente legata alla tradizione, con una croce rossoblù ispirata al simbolo della città, numeri che sembrano scritti col pennarello "ispirata alle numerazioni del passato" e persino un nuovo stemma societario, che come specifica fedele Usai "sembra una vela, perché tutti quest'anno dovevamo soffiare insieme in quella vela. Avevamo aspettative altissime per questa stagione, doveva essere l'inizio di un percorso e la società in estate aveva speso perché così fosse. A un certo punto le aspettative si erano alzate anche oltre i nostri obiettivi". E il Cagliari di oggi ricorda un po' la squadra mitica del '69/70: "Ha molti sardi per scelta - riconosce Usai - da Nainggolan a Daniele Conti, tornato nella dirigenza, fino al presidente Giulini, che sardo non è ma ha scelto il Cagliari come Riva per un fatto di cuore. E si è circondato di dirigenti legati alla squadra, come Carlo Catte, Mario Passetti, Stefano Melis, tutti sardi. Ora nel Cda c'è anche Nicola Riva, il figlio del Mito. E di quello scudetto indimenticabile.

Sebastiano Vernazza per la Gazzetta dello Sport il 13 aprile 2020. La storia infinita del Cagliari '70, raccolta in un gran bel libro di Luca Telese, Cuori rossoblù . Ci siamo accostati alla lettura con un pregiudizio - sarà il solito libro intimista di un tifoso illustre - e abbiamo finito per divorare le 304 pagine in un colpo solo. Telese ha scavato in profondità, ha raccolto le testimonianze dirette di chi c' era e c' è ancora, ha sfogliato intere raccolte dei giornali dell' epoca, e ha estratto particolari inediti. Molto ruota attorno a Gigi Riva, è naturale, ma ci sono vicende collaterali che stordiscono, come le vicissitudini dell' attaccante di riserva Corrado Nastasio, colpito da una impressionante serie di sventure.

Telese, lei oggi compie 50 anni: è nato a Cagliari il 10 aprile 1970, il venerdì precedente la domenica dello scudetto.

«Figlio di madre sarda e padre napoletano, mia mamma voleva che nascessi a Cagliari: il 10 aprile ebbe il parto cesareo, la addormentarono e ritornò in sé la domenica verso sera. Quando si ridestò dal torpore vide degli striscioni, sentì i medici e gli infermieri urlare di gioia. Nel torpore pensava che fosse per la mia nascita, le spiegarono che era per il Cagliari».

Che cosa significa ancora oggi lo scudetto del 1970?

«È una magnifica storia italiana, forse l' ultima sulla scia del boom economico, nel '70 già finito. A dicembre del '69 c' era stata la strage di piazza Fontana, una frattura decisiva. Il Cagliari del 1970 rappresenta forse il colpo di coda del secondo dopoguerra, di un' Italia che nel fare non si poneva problemi. Faceva e basta».

Dal suo libro si evince che quel Cagliari poggiava su solidissime basi economiche.

«Ai tempi non si poteva dire, ma il Cagliari apparteneva per il 51 per cento alla Sir di Nino Rovelli, imprenditore lombardo con un impianto petrolchimico a Porto Torres, nel nord della Sardegna. Il resto dell' azionariato in buona parte, diciamo al 30 per cento, era controllato dalla Saras, che faceva riferimento ad Angelo Moratti, presidente dell' Inter. La Saras aveva e ha ancora una raffineria a Sarroch, vicino a Cagliari».

Rovelli e Moratti, la Sir e la Saras, comprarono il Cagliari e la Brill Cagliari basket per accattivarsi le simpatie dei sardi e sopire le proteste per i danni ambientali delle loro imprese?

«Può sembrare così, in realtà non ne avevano bisogno. Me lo ha spiegato Giorgio Poidomani (ex amministratore del Fatto Quotidiano, ndr ), all' epoca giovane manager della Sir: "Noi garantivamo talmente tanto lavoro che non avevamo la necessità di tenere buoni i sardi". Credo che lo facessero per sponsorizzare la Sardegna in Italia e nel mondo. Il Cagliari e la Brill erano investimenti vetrina».

In tutto questo, quale era il ruolo di Andrea Arrica, vicepresidente e deus ex machina del Cagliari?

«Uomo d' affari abilissimo, Arrica era il collettore di tutti gli interessi in gioco, teneva insieme industria, politica, amministrazione: la Sir e la Sarras, la Regione Sardegna e il Credito industriale sardo. Non a caso Arrica nominò Efisio Corrias presidente del club. Corrias era un ex carabiniere, uomo politico democristiano, ex presidente della Regione. Ad ogni modo Riva non venne mai venduto alle società del nord perché così decise la Sir, non perché Arrica resistesse di suo alle offerte. Sir e Saras erano due potenze».

E la squadra?

«Una magnifica sporca dozzina, una formazione western, allevata in cattività da Manlio Scopigno. L' allenatore se li era andati a cercare uno per uno i suoi pirati, li voleva arrabbiati. Molti erano scarti di grandi club, per esempio Nené ex della Juve, Albertosi ex della Fiorentina, Bobo Gori ex dell' Inter. Tanti avevano alle spalle anni di drammi o di miserie».

Per esempio?

«Riva stesso, che da ragazzo perse il padre, la madre e una sorella: una tragedia. A Gigi rimase soltanto Fausta, l' altra sorella (scomparsa di recente, ndr ). Oppure Zignoli, il terzino sinistro, mandato in seminario dai suoi perché lì potesse mangiare, studiare. O ancora Tomasini, il libero, spedito in fabbrica a 14 anni perché il papà si ritrovò invalido. E Mancin, l' altro terzino, che non conobbe mai il papà, in fuga dalla famiglia quando lui era ancora piccolo. E Greatti, cresciuto in collegio come Riva e con l' infanzia segnata da un brutto incidente».

Tutte cose che cementano.

«Quello spogliatoio era un blocco unico e lo dimostra il fatto che nel dopo si sono sempre aiutati gli uni con gli altri, come insegna la vicenda di Nené, caduto in povertà e assistito fino all' ultimo dai vecchi compagni.

In quel calcio non si guadagnavano somme enormi, il premio scudetto fu di 17 milioni di lire.

Qualcuno ci comprò un paio di appartamenti o una tabaccheria. Era gente che sapeva tenere la giusta distanza dalla vanagloria. Quando qualche sconosciuto entrava nel bar di Mancin (morto nel 2016, ndr ) e chiedeva chi fosse quel calciatore nelle foto appese al muro, lui rispondeva: "Mio fratello"».

Felice Pulici, a volo d'angelo per difendere la Lazio contro tutto e tutti. Vincenzo Cerracchio su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Per il portiere del primo scudetto una vita intera con i colori biancocelesti addosso e nell'anima. “La Lazio non è una squadra di calcio. La Lazio ti entra dentro, ti cattura, è lei che ti sceglie, e come i giovani figli di Sparta attrae a sé solo chi è disposto a soffrire, perché quando c’è la Lazio di mezzo non c’è mai nulla di facile. Non so a quanti giocatori sia capitato di diventare papà e vincere uno scudetto nello stesso giorno. Non so a quanti portieri sia capitato di incassare cinque gol in una partita eppure essere ingaggiati a fine campionato proprio dalla squadra più blasonata che glieli aveva segnati. Non so a quanti sportivi sia capitato di rispondere con una prestazione da 10 in pagella al dolore più grande della propria vita, la perdita imminente e ineluttabile di un “padre”. Non so a quanti uomini sia capitato di iniziare da operaio, studiare da geometra e diventare avvocato. Che è cosa diversa da nascere povero e arricchirsi strada facendo, quello capita e capita spesso. Significa avere dentro dell’altro, puntare su se stessi, credere in alti valori e vivere ogni attimo della propria vita e del proprio lavoro con gli stessi slanci di generosità, la stessa adrenalinica partecipazione. Non  vi racconterò  nel dettaglio di chi sia stato Felice Pulici per la Lazio. Un campione d’Italia tra i pali prima e dietro la scrivania poi. Non c’è tifoso che non ne conosca le gesta in campo, non foss’altro per le immagini salienti e indelebili della cavalcata strepitosa del ’74 . Ricorderò solo che nella stagione precedente subì solo 16 reti in 30 partite, record ormai imbattibile nel calcio dei super-attacchi e del Var che li protegge. Merito condiviso con una difesa di ferro e un impenetrabile centrocampo. E che resta poi l’essenza di tanti siparietti successivi con Oddi e Wilson: “Non ci fossi stato io…”, diceva; “Senza di noi sai i gol che avresti preso!”, la risposta. Era lui il capitano nella partita emblematica della stagione trionfale della banda Maestrelli: quel Lazio-Verona senza intervallo, maglie biancocelesti rimaste in campo invece di rifugiarsi negli spogliatoi, ad aspettare a pié fermo chi aveva osato sfidarle chiudendo il primo tempo in vantaggio all’Olimpico, quasi una lesa maestà. Lui concentrato tra i pali nel brusio di sorpresa, nel destino sospeso. Uno dei tanti eventi singolari, uno dei mille aneddoti che ancora accompagnano vividi quei nove mesi esaltanti. Il più gettonato la corsa di Felice verso il Santo Spirito al fischio finale di Lazio-Foggia:  mentre la Roma laziale impazzisce di tricolore, Pulici sta cercando in giro per l’ospedale le sue scarpe che l’emozionato magazziniere Esposito, detto “Pisello”, ha infilato per sbaglio tra la roba di Gigi Martini, portato d’urgenza dallo stadio in sala raggi per una clavicola malconcia e che ha due numeri di piede di meno. E Felice ha fretta di riprendersele, le sue scarpe, e di arrivare subito a Fiumicino per volare a Milano dove gli è appena nato il secondogenito, Gabriele. Il dottor Ziaco, il medico sociale vero alter ego dell’allenatore Maestrelli, scambierà quella visita “interessata” in ospedale per un encomiabile gesto di solidarietà verso il compagno malconcio. Ci hanno riso per anni, i reduci. La scheda tecnica dice di Pulici Felice Mosè (sì, un nome spensierato e uno biblico) che fu il prototipo del portiere moderno, chiuso in nazionale da scelte geopolitiche e da colleghi eccelsi come Superdino Zoff e Castellini “il giaguaro”, due modi opposti di interpretare il ruolo che lui invece racchiudeva.  La parata più bella un volo che sembrava infinito fino all’incrocio dei pali e oltre a difendere il gol di Giordano in un derby vincente del ’76. Finito con una dedica strozzata dal pianto negli spogliatoi: non riuscì a dirlo proprio quel nome, Tommaso Maestrelli. Era il 28 novembre, il “maestro” sarebbe spirato quattro giorni dopo. Pulici continuerà a pagare ogni volta con il groppo alla gola il ricordo del suo allenatore, o di Cecco, o del Frusta, o di Giorgio, di quella trafila infinita di compagni strappati prematuramente alla vita. Non vi racconterò del come e del perché fu costretto a lasciare la Lazio, del come e perché poi vi ritornò a chiudervi la carriera da dodicesimo. Ci vorrebbero pagine e pagine di una storia che lui non amava raccontare. Troppe amarezze. Proverò piuttosto a dirvi cosa sia stata la Lazio per Felice Pulici. Un’amica dolcissima, l’amica del cuore, l’amica di una vita, l’amica segretamente amata nonostante i capricci, gli sbuffi, le sbandate, i tradimenti, le scenate, le rotture unilaterali che lo allontanarono a intermittenza, prima da calciatore e poi da dirigente. Una vecchia amica che oggi compie 120 anni. C’è una frase molto significativa che gli appartiene e che la famiglia ha voluto fosse per sempre impressa nell’immaginetta distribuita al suo toccante funerale: “La Lazio non è una squadra di calcio. La Lazio ti entra dentro, ti cattura, è lei che ti sceglie, e come i giovani figli di Sparta attrae a sé solo chi è disposto a soffrire, perché quando c’è la Lazio di mezzo non c’è mai nulla di facile”. Quel giorno, ai titoli di coda, nella solita chiesa gremita come fosse San Pietro, la Lazio capì perché “aveva scelto” Felice, catapultandolo giù dal profondo Nord, un milanese che si è fatto romano, incredibile a dirsi. Per questa amica, dicevo, Felice ha combattuto con le armi più efficaci. Mani nude e gambe potenti da giocatore, voce tonante da dirigente. Quello di cui ti fidi, quello che ti difende. Nessuno meglio di lui ha cavalcato la polemica, contro chiunque sporcasse la Lazio. Con i giornalisti cui, maniacalmente preciso com’era, non ha mai fatto passare una sbavatura. Ma era così esigente prima di tutto con se stesso, da farsi assolvere ampiamente, sempre stimare se non amare. In un libro che ho scritto sulla Lazio avevo ricordato come nel 2001 da dirigente avesse pagato lui per tutti nella vicenda del “passaporto falso” di Juan Sebastian Veron con qualche mese di inibizione. Per non farmela passare liscia, aveva perfino messo il post-it giallo alla pagina: “Ti sei dimenticato però un particolare – quasi mi aggredì appena mi vide - Che sono stato assolto in tribunale per non aver commesso il fatto...". Aveva ragione, ovviamente. Teneva alla propria integrità morale. Ma in realtà per me era scontato, quella notazione era solo il passaggio di un discorso più ampio, perché volevo sottolineare che Felice ha sempre pagato di tasca sua, perfino letteralmente quando Chinaglia, da presidente, era oberato di debiti e non sapeva a quale santo votarsi. Ha sempre pagato lui il conto per eccesso d'amore. E quella volta, finito il rimbrotto, mi regalò una sua foto con dedica, perché il rancore non faceva per lui. Una Lazio amica e a volte ingrata, ho scritto. Non un’amante: della serie “ha tradito la famiglia per il lavoro”. Raccontano che la signora Paola, sua moglie, appena partorito Gabriele si vide dunque portare in dono da Felice la maglietta nera col numero 1, ancora intrisa del sudore e del sogno degli ottantamila dell’Olimpico. E che la gettò a terra. E che quella maglietta sparì per anni in fondo a un cassetto. Ma lui era Felice solo accanto a lei, a Michela, a Raffaella, le due figlie, le donne della sua vita. Anche se è vero, a un’altra famiglia è davvero appartenuto, cominciava per Pulici e finiva per…Maestrelli. Per chi è laziale una filastrocca diventata mantra.

Di padre in figlio, Manservisi e la Lazio del '74: "Una vera gabbia di matti, ma eravamo i più forti". Simone Manservisi su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Pier Paolo Manservisi (uccellino) intervistato dal figlio Simone: "Quando hai indossato anche solo una volta la maglia biancoceleste diventi laziale per forza. È una cosa che non saprei spiegare". Quanto ha influenzato la mia vita la Lazio, pur non essendo tifoso? La risposta sarà chiara dopo questa chiacchierata con mio padre che ha vestito i colori biancocelesti nel periodo più leggendario della società, culminato con lo scudetto del 1974. Evento che ovviamente ha influenzato anche la sua, di vita. Pier Paolo Manservisi, detto "uccellino", arrivò a Roma nell’estate del 1970 proveniente dal Napoli. La stagione precedente, nel marzo di quello stesso anno, aveva colpito la fantasia del vulcanico mister argentino Lorenzo nel ruolo di punta, in un Napoli–Lazio in cui era andato in gol pareggiando il vantaggio laziale; don Juan riuscì ad averlo alla sua corte, immaginandolo come la spalla ideale per l’astro nascente del calcio italiano: Giorgio Chinaglia. Fu un grande equivoco, Pier Paolo non era una punta. A Napoli giocava sì in attacco, ma svariava a desta e a sinistra, un ruolo spesso faticoso e portato all’altruismo. Mentre a Pisa era stato un’ala pura, che aveva contribuito con gol e assist alla storica promozione in Serie A dei toscani nel 1968.

Papà, cosa mi racconti del primo impatto con la Lazio?

“Una gabbia di matti! Questo pensai quando arrivai a Roma. A conti fatti è stata proprio quella 'follia' a far entrare la Lazio nel mito. Tra l’altro quell’anno era una follia annacquata rispetto a quando tornai nella stagione 1972/73 dopo essere stato nuovamente in prestito al Napoli nel 1971/72. La storia dello spogliatoio diviso in clan, delle risse e delle pistole è ormai nota anche ai ragazzini di oggi per cui non tedierò né te né i lettori rispolverandola. Ma la Lazio che arrivò allo scudetto era davvero una gabbia di matti”.

Il tuo primo anno è stato un calvario. Come mai?

“Lorenzo mi credeva una punta pura, che non sono mai stato. Mi prese presto in antipatia, non risparmiando frecciate velenose nei miei confronti alla tv e sui giornali. Un giorno rischiammo persino di venire alle mani dopo che durante la partitella d’allenamento gli avevo sentito dire a Nanni di entrarmi duro sulle caviglie. Per fortuna che i miei compagni mi fermarono e quelle due grandi persone che erano Lovati e Lenzini arginarono il più possibile una situazione irrimediabilmente compromessa”.

Quell’anno retrocedeste in Serie B. Eravate così scarsi?

“Avevamo una squadra potenzialmente forte, ma il mister, con le sue cabale, teorie e paranoie andò in confusione. Il risultato fu un campionato pessimo, con la conseguente retrocessione: arrivammo penultimi dietro al solo Catania. Giocai poco in campionato, una decina di partite, ma una volta esonerato Lorenzo a fine annata, con Lovati in panchina e Maestrelli supervisore, già acquistato dalla Lazio ma ancora sotto contratto con il Foggia, diedi un importante contributo per la conquista della Coppa delle Alpi”.

Chinaglia, Manservisi e GarlaschelliIn quel finale di campionato si potrebbe leggere l’inizio della resurrezione che portò il tricolore in casa laziale?

“Direi proprio di sì. Dopo la notte buia comincia a sorgere il sole. Dopo il tramonto arriva l’alba… In Coppa delle Alpi avevamo mostrato un gioco spettacolare, lasciando gli amanti del calcio increduli per essere retrocessi con una squadra così. Maestrelli era arrivato, ma nessuno avrebbe scommesso una lira sul fatto che lo scudetto sarebbe giunto da lì a tre anni”.

Iniziasti il campionato 1971/72 sotto la guida di Maestrelli, poi ti venne proposto di tornare a Napoli.

“Proposto non è la parola giusta. All’epoca i giocatori non avevano molto spazio per contrattare, praticamente non avevano voce in capitolo per quanto riguarda il mercato. Giocai un paio di partite in Serie B e a novembre mi rimandarono a Napoli, con grande piacere debbo dire, perché all’ombra del Vesuvio ero stato molto bene e poi rimanevo in Serie A”.

Ma eri di proprietà della Lazio, che a fine stagione era tornata nella massima serie, e Maestrelli ti rivolle in squadra.

“Ricordo che per un infortunio saltai parte del precampionato, che per noi fu abbastanza travagliato e deludente. Chinaglia mugugnava, il gioco non era granché e la Coppa Italia fu un disastro, sconfitti anche da formazioni di Serie B. La panchina di Maestrelli era continuamente in bilico. La 'gabbia di matti' poi era esplosa, con la suddivisione in clan, i pistoleri, le bizze di Long John. Si respirava un autolesionismo che non faceva presagire nulla di buono.”

Invece inizia il campionato e…

“E che campionato! Ero guarito dai miei acciacchi e il mister mi promosse titolare trovando la mia collocazione sulla fascia sinistra del campo, col compito di coprire le soventi incursioni avanzate del terzino Martini. Era un gioco 'oscuro' per quanto mi riguarda, ma estremamente redditizio per la squadra che in poco tempo assunse una fisionomia ben definita, evidenziando un grande carattere e un gioco che molti definirono innovativo. Diventammo una squadra temibile. La 'Lazietta' degli anni precedenti era ormai un ricordo. Vincemmo entrambi i derby, inanellammo una serie record di vittorie viaggiando a vele spiegate, con una difesa che a fine anno risultò la più impenetrabile”.

21 aprile 1973. Cosa ti ricorda?

“Eh, cosa mi ricorda… La mia partita più memorabile, Lazio–Milan all’Olimpico. Maestrelli ebbe il lampo di genio di mettermi in marcatura fissa su Rivera, dopo che per una settimana mi aveva provato in allenamento in marcatura su Chinaglia: non gli avevo fatto toccare palla, facendolo imbestialire! Così il giorno del big match, sabato vigilia di Pasqua, il 'Golden Boy' si ritrovò a sorpresa il sottoscritto letteralmente appiccicato addosso. Lo annullai. Vincemmo 2 a 1 una partita epica e agganciammo proprio i rossoneri in vetta alla classifica”.

Forse per la prima volta dalla sua nascita la Lazio sogna in grande. Il traguardo sembra a un passo quando mancano poche giornate al termine del campionato. Cosa si inceppa a quel punto?

“Non si inceppa nulla. Eravamo arrivati a fine corsa in riserva per avere dato tantissimo; alla stanchezza, oltre ad episodi sfortunati, si aggiunsero acciacchi e infortuni importanti. Arrivammo comunque a giocarci lo scudetto fino al novantesimo minuto dell’ultima partita”.

La Fatal Verona...

“Quel finale di campionato è sicuramente uno dei capitoli più incredibili della storia del calcio. Il Milan era primo e andò a perdere a Verona contro una squadra che non aveva più niente da giocarsi, la Juve dietro di un punto vinse a Roma una partita 'sospetta', mentre noi, appaiati alla Juve in classifica, perdemmo all’ultimo minuto contro un Napoli che ci aveva giurato vendetta dopo il 3 a 0 subito all’Olimpico all’andata. Lo scudetto andò alla Juventus e noi finimmo terzi dopo che eravamo stati ad un passo dal giocarci un insperato spareggio”.

Pensi che ci fu del marcio?

“Vennero avviate indagini ma non portarono a niente. Diciamo così: di sicuro non tutti agirono secondo i principi più alti dello sport in quei giorni”.

Ed eccoci al 1973/74. Raccontami l’anno dello scudetto.

“La squadra aveva già un’ossatura robusta, quindi la società non investì molto sul mercato. Avevamo tutti una grande fame e voglia di rivincita. Io iniziai da titolare come la stagione precedente ma intanto era esploso il grande talento di D’Amico che mi prese presto il posto. Accettai la cosa con serenità e con l’umiltà che mi contraddistingue, giocando spesso con l’Under 23 e cercando di farmi trovare sempre pronto all’occorrenza. Per alcuni fatti che non sto qui a raccontare si incrinò il rapporto con Maestrelli e, nonostante la vittoria finale, furono mesi deludenti quegli ultimi vissuti alla Lazio. Giocai quattro partite in campionato, l’ultima nel vittorioso 2 a 0 all’Olimpico con il Cesena al ritorno. A fine stagione chiusi il mio rapporto con la società trasferendomi in Serie C a Mantova, dove allenava il mio amico ed ex laziale Rino Marchesi. Dopo due anni smisi i panni del calciatore professionista e tornai all’amato paesello, Castello d’Argile, con te e tua sorella piccini, pronto a rimboccarmi le maniche per affrontare una nuova vita lontana dal brusio spesso assordante di un calcio che cominciava allora ad avere i primi sintomi di quella malattia che lo sta uccidendo: il business”.

Hai giocato in diverse squadre e so che simpatizzi per tutte, ma ti senti laziale?

“Quando hai indossato anche solo una volta la maglia biancoceleste lo diventi per forza. È una cosa che non saprei spiegare”.

Hai qualche rimpianto?

“Guarda, ho sempre dato il massimo e cercato di essere una persona corretta con tutti. Ho avuto diverse delusioni sia dal punto di vista sportivo che personale, ma non ho nessun rimpianto. C’è però una cosa che, se ripenso a quel passato, mi fa sorridere con un misto di ironia e rammarico: la Lazio del 1972/73 arrivò terza con 43 punti, mentre quella del 1973/74 con gli stessi punti arrivò prima. Certo, D’Amico era il giocatore giusto per innescare quella macchina da gol che era Chinaglia, ma la Lazio del ’73 esprimeva, a detta di chi di calcio se ne intende, un gioco migliore di quella del ’74. Ecco, pensando a questi particolari si potrebbe rimpiangere qualcosa, ma ho imparato da molto tempo a guardare al presente senza inutili nostalgie. Il destino è un fiume che segue il suo corso, per non farlo straripare bisogna vivere secondo la propria natura”.

Grazie papà per questo racconto e grazie per tutto quello che mi hai insegnato: l’onestà, l’integrità, l’orgoglio di non doversi mai inginocchiare davanti a niente e a nessuno. Hai fatto parte di una squadra leggendaria contribuendo in modo molto più concreto di quanto dicano le statistiche o le presenze sul campo. Io sono cresciuto con il mito tuo e di quegli uomini: Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico. E poi Facco, Polentes, Franzoni, Mazzola, Governato, Marchesi, Sulfaro e tutti quelli che hanno reso l’alba un tricolore. Un ragazzino che cresce con una “favola” simile non può non farsi rapire per sempre. E così, la risposta alla domanda iniziale penso sia evidente. E' vero, non tifo perché non mi piace il mondo del calcio, a parte quello dei bambini che alleno per aiutarli a inseguire sogni e a diventare uomini, e perché la mia libertà di pensiero mi porta lontano da qualsiasi appartenenza di massa. Ma se dovessi fare una radiografia al mio cuore, scoprirei che è molto più biancoceleste di quanto creda.

Simone Manservisi è autore di Sull’orlo di un dirupo, Far West Lazio, Di padre in figlio e di L’alba dello scudetto (in uscita ad aprile per Ultra Edizioni).

"Luna Park Tor di Quinto", un campo di allenamento diventato leggenda. Franco Recanatesi su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Parte dal 1965 il racconto di un calcio irripetibile vissuto in un rettangolo verde che ha fatto la storia della Lazio. I bidelli erano i massaggiatori, i magazzinieri e la lavandaia. Armando Esposito, detto "pisello" per la piccola statura, romano di borgata, massaggiatore di anime oltre che di muscoli. La “sora” Gina lavava, stirava, cuciva: le divise erano tre e sempre quelle per un'intera stagione.Il giardiniere Francesco, un mago del campo da gioco che si ferì giocando con una delle tante pistole che allora giravano nello spogliatoio

UN TERZO della storia della Lazio ha avuto come teatro il Centro sportivo di Tor di Quinto. E di quei 37 anni, dieci li ho vissuti anch'io, quasi quotidianamente, la recinzione che giustamente si chiamava allora Campo Tor di Quinto (il titolo di "Centro Sportivo" lo avrebbe acquisito soltanto nel 1977). Giovane cronista appena assunto dal Corriere dello sport, quando Antonio Ghirelli mi assegnò al notiziario della Lazio mi sembrò di volare. E volai smarmittando con la mia Cinquecento. Era il 1965. Non pensavo - nessuno poteva pensare - che quel luogo un po' desolato a Nord di Roma, ai margini di un quartiere tristemente noto per l'amore a pagamento, avrebbe condotto me nel cuore di una favola e spalancato alla Lazio le porte della gloria. Il Campo Tor di Quinto non aveva nulla di paragonabile al quartier generale delle squadre d'alta quota. Costruito in previsione delle Olimpiadi del '60, in realtà la Lazio vi si allenava già due anni prima, da quando, cioè, un incendio aveva distrutto il vecchio impianto della Rondinella. Offriva l'essenziale: un solo campo di calcio, spogliatoi, magazzino, lavanderia, un piccolo appartamento, un ufficio. A me, però, quando per la prima volta varcai il cancello in ferro battuto che si apriva e si chiudeva a spinta, sembrò una reggia. La società era stata appena salvata dal fallimento grazie ad un imprenditore-tifoso, Gian Chiaron Casoni, il quale, nominato commissario, convinse i giocatori ad accettare la spalmatura degli arretrati, consegnando pochi mesi dopo la patata bollente a Umberto Lenzini, palazzinaro venuto dal Texas. Alla guida di una squadra che vivacchiava nella media-bassa classifica della serie A, c'era un toscanaccio in carne di 43 anni, Umberto Mannocci: livornese, bestemmiatore ma simpatico, senza peli sulla lingua. Rimase in sella per tre campionati. I giocatori gli volevano bene. Al mio arrivo non trovai grandi campioni, ma alcuni elementi di valore come i difensori Gasperi e Pagni, i centrocampisti Governato e Carosi, gli attaccanti Rozzoni e D'Amato. E il turco Can Bartù. Mannocci e Bartù andavano d'amore e d'accordo, perché i simili si fiutano e si accoppiano: entrambi con il gusto di "cazzeggiare", spiritosi, dissacratori, senza angosce. Mi fiutarono e mi accolsero, rendendo più facile il mio debutto. Questo fu l'inizio del campo Tor di Quinto, futuro "Centro Sportivo Maestrelli", della mia avventura nel giornalismo, di una società e una squadra che dondolando fra Serie A e B avrebbe messo in mostra una serie di personaggi da commedia. Il Tor di Quinto non è mai stato un college rigoroso, ma una scuola un po' alla buona, di quelle dove anche i maestri si consentono qualche smarronata, gli scolari tirano i cartoccetti con le cerbottane e i bidelli gli tengono bordone. Il prototipo di allenatore folle e geniale è stato Juan Carlos Lorenzo, approdato a più riprese al comando della truppa biancoazzurra. Argentino impomatato come un tanghero, superstizioso più di cento napoletani, estroso stratega del pallone. Per dire: a 32 anni, mezz'ala nel Nancy, già partecipava (e primeggiava) al corso allenatori di Walter Winterbottom. A Tor di Quinto s'inventò Alberto Mari, piccola ala destra, in marcatura su Suarez per battere l'Inter di Herrera, costrinse il terzino Filisetti a correre dietro una gallina per acquistare velocità e Chinaglia a ore di battimuro col pallone per ammorbidire il tocco. "Long John" è stata la sua grande scommessa: lo volle a tutti i costi, arrivò grasso come un'oca e sgraziato, lo mise a dieta, lasciava il campo di Tor di Quinto al tramonto e quando tutti pensavano ad un acquisto bidone, Lorenzo pronosticava: "Diventerà uno dei centravanti più forti d'Europa". Stringemmo una vera amicizia, cenavamo spesso insieme, facevamo il mercato da casa sua. Mi spiace che sia rimasto celebre soprattutto per le maglie bruciate dopo una sconfitta, l'ossessione del numero 8 (la stanza in albergo, i due anelli del pullman, l'orario, il calendario) e delle spie (ne vedeva ovunque). Provai una stretta al cuore quando Nanni Gilardoni, dirigente storico e il più grande tifoso laziale, lo cacciò da Tor di Quinto avendo saputo dell'alto tradimento: sì, senza informare nessuno, don Juan aveva firmato per la Roma. Il tanghero si era lasciato abbindolare, la storia sulla sponda giallorossa finì presto e male. Purtroppo non fu, allora, abbastanza sospettoso. Chiese scusa, tornò alla Lazio quattro anni dopo per riportarla subito in A. Parlavo dei bidelli. Certo, i bidelli di Tor di Quinto erano i massaggiatori, i magazzinieri, la lavandaia. Tra i primi il mio amicone divenne subito Armando Esposito, detto "pisello" per la piccola statura. Romano di borgata, ex cagnaccio bomber dei campionati dilettanti, ex dipendente dell'Enel. Aveva una parola di conforto per tutti, massaggiatore di anime oltre che di muscoli. Se un giocatore doveva rimanere fuori s'inventava un infortunio: "Nun poi gioca', te faresti male". Se due giocatori litigavano li faceva incontrare a sorpresa. Ci fu un momento in cui fra Gigi Martini e Luciano Re Cecconi - sì, proprio i due inseparabili gemellini della banda Maestrelli - cadde il gelo. Armandino li invitò, all'insaputa l'uno dell'altro, ad una battuta di caccia: i due si abbracciarono e partirono canna in spalla. Poi c'era "Pelè". Ribattezzato "Pelè", perchè in realtà si chiamava Trasatti Giovanni, ma era basso, rotondo e goffo, immagine di contrasto con il campionissimo brasiliano. Custode di maglie, palloni e segreti. Di poche parole e grande discrezione. Viveva in una casetta accanto agli spogliatoi con moglie e due bambini. Da quanto tempo non si è mai saputo, da come si muoveva sembrava da sempre, come Mowgli o Tarzan (meglio Baloo). La "sora" Gina lavava, stirava, cuciva. Allora non c'era lo sperpero di maglie come oggi, le divise erano tre e sempre quelle per una stagione, per gli allenamenti forse un paio. E sul bucato steso alle spalle degli spogliatoi erano ben visibili i rammendi di Gina. Della piccola comunità di Tor di Quinto faceva parte, infine, il giardiniere Francesco, un mago del campo da gioco, a tenuta di ogni intemperia. Tanto abile nel conservare il manto verde quanto inesperto nel maneggiare le armi. Trovò una pistola che Sergio Petrelli dimenticò nello spogliatoio. Chiamò Pelè: "Facciamo una gara di tiro? Comincio io". Ma al primo tiro si spappolò un dito.

Di armi ne ho viste tante girare a Tor di Quinto, che negli anni 70 conobbe la sua apoteosi con l'avvento della squadra più pazza del mondo. Un luna park per noi giornalisti - ma non solo - che avevamo accesso libero agli spogliatoi (oggi, che per intervistare un giocatore devi avere l'ok di società, uffici stampa, procuratori, sponsor e quant'altri, pare fantagiornalismo) e persino al campo: ricordo una sfida all'ultimo rigore con Bob Lovati - vinta, ebbene sì -  e la partecipazione ad una partitella che un'entrata di Polentes ridusse a pochi minuti. Il pubblico - ingresso sempre consentito - andava in delirio per il confronto senza esclusione di colpi di metà settimana fra la squadra di Chinaglia e quella di Martini. Ho visto di tutto a Tor di Quinto nell'era Maestrelli. Ho visto Martini e Re Cecconi scendere sul campo col paracadute. Ho visto Chinaglia abbattere un muro del magazzino con il fucile "uguale a quello con cui hanno sparato a Kennedy". Ho visto l'autista Alfredo Recchia cercare disperatamente il pullman che Wilson gli nascondeva. Ho visto i gemelli Maurizio e Massimo Maestrelli rotolare sul tappeto verde del giardiniere Francesco come se giocassero nel giardino di casa. Ho visto nascere il più singolare degli scudetti in un'isola felice chiamata Tor di Quinto. L'isola (dal 1977 "Centro sportivo Tommaso Maestrelli"), dove Eugenio Fascetti avrebbe poi creato, nella memorabile stagione 86/87, il miracolo della "Lazio -9" e dove sarebbe cominciato a germogliare anche il secondo titolo, poiché a piantare il seme del tricolore di Eriksson fu, nel 1990, Dino Zoff, accolto da 6.000 tifosi al suo primo allenamento. Cinque anni dopo, il vecchio centro di Tor di Quinto ha chiuso per sempre la propria gloriosa esistenza. Al suo posto è sorta la caserma dei Carabinieri "Salvo D'Acquisto". Del luna-park Tor di Quinto sono rimasti il campo da gioco e il busto bronzeo di Maestrelli. Ma per la Lazio e per chi accanto alla Lazio ha vissuto quegli anni, rimane un irripetibile pezzo di storia.

Marco Beltrami per calcio.fanpage.it il 3 febbraio 2020. Quando parla spesso e volentieri fa discutere. Ancora una volta Zdenek Zeman ha conquistato la scena per alcune dichiarazioni sopra le righe. Intervenuto in occasione della premiazione per la Panchina d'Oro, il tecnico boemo ha parlato così del calcio femminile: "È questione di cultura se le donne erano indietro nel calcio? Anche, di solito le donne in Italia sono in cucina". L'esperto mister è intervenuto anche sulle polemiche post Juventus-Fiorentina, schierandosi a sorpresa dalla parte dei bianconeri: "I due rigori si potevano dare". Zdenek Zeman in occasione della sua ultima intervista, è stato stuzzicato sul momento fortunato del calcio femminile. L'allenatore boemo ha risposto in maniera a dir poco sorprendente: "Il calcio femminile è in grande sviluppo in Italia, anche per la partecipazione ai mondiali, speriamo vada sempre più avanti. Perché sta esplodendo solo ora? Penso che in Italia abbia tanti problemi già il calcio maschile. Serie B e Serie C hanno grossi problemi, le donne di solito venivano sempre dietro nel calcio: vedremo se riusciranno a fare un altro passo avanti. Questione di cultura? Anche, di solito le donne in Italia sono in cucina". Stuzzicato sulla gravità delle sue dichiarazioni, Zeman ha chiosato così: "Non so se è grave. Certo è che i maschi devono mangiare". L'allenatore boemo ha parlato anche della Juventus, e in particolare delle polemiche post-match contro la Fiorentina. Zeman non sembra d'accordo con lo sfogo di Commisso, sugli episodi arbitrali pro-bianconeri: "L'arbitraggio di Juve-Fiorentina? Ho visto anche la partita, sono due rigori che si possono dare: arbitri e VAR hanno deciso che sono rigori. Ci sono state tante altre cose in passato, era tutto un comprare. Questi si potevano dare e li hanno dati. Chi sta al VAR è sempre arbitro. Vanno trovate situazioni chiare, ce ne sono alcune che non lo sono né al VAR né all’arbitro. E lì decide l’arbitro, come è sempre successo. Juventus squadra più forte del campionato? Non credo che dipenda dalle mie valutazioni. Penso che tutti abbiano dichiarato che la Juve è più forte, poi le partite vanno giocate". In chiusura anche una battuta sulle romane, sue ex squadre: "Lazio da scudetto? Io l’ho vista nel derby, ha fatto male male. Non ha visto la partita. Però se nelle altre non perde mai, vuol dire che ha qualità. Prima non riusciva a essere competitiva in tutte le partite, oggi sì. Fonseca uomo giusto per la Roma? Può essere tutto. La Roma è particolare, in più con la società attuale è difficile lavorare. Io ci ho lavorato ai tempi di Sensi, era tutta un’altra cosa.

Zemanlandia, da Signori a Rambaudi un modello unico di gioco all'attacco. Enrico Sisto su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Sfrontata e bellissima, la squadra disegnata dal tecnico boemo rivoluzionò il modo di interpretare le partite: "Il calcio è sempre lo stesso - diceva l'allenatore boemo - sia in una piccola che in una grande città il campo ha sempre le stesse misure e la preparazione è sempre la stessa”. L’intuizione di Cragnotti conteneva in sé il germe della follia: trasformare la Lazio in “Zemanlandia”. Che voleva dire caricare su di un imprecisato numero di Tir baracca e burattini dalla lontana Foggia: le montagne russe, la ruota, l’autoscontro, i palchi della Donna Cannone e di Ursus, le bancarelle del tiro a segno, senza lasciare appiedato nessuno, neppure i rivenditori di popcorn e zucchero filato. Si leggeva Foggia, ma ad un certo punto si cominciò a scrivere Lazio. Il parco cambiava casa. Zeman a Roma, Flaiano ci sarebbe andato a nozze. Un altro marziano a Roma. Come poteva andare? Malissimo in teoria. E invece l’innesto del luna park che portava i giocatori non soltanto a segnare ma in certi casi addirittura a finire direttamente col pallone dentro la porta funzionò, trasformando per sempre il calcio italiano. Metamorfosi iniziata in rossonero però, laggiù dove sembrava impossibile esportare ad un più alto livello tanta sfrontata bellezza. La carovana stravagante arrivò a Roma nell’estate del 1994. La regola del parco gioco era semplice, tre numeri (4-3-3) e un massimo incalcolabile di talento e sfrontatezza uniti come lo erano Bonnie & Clyde, Stanlio & Ollio, Ric & Gian. Se non ci fosse stata la sfrontatezza sarebbe stato un talento come ce ne sono tanti. E invece. I rischi divennero subito tradizione. Il pubblico era estasiato e non si preoccupava di sapere se quella meraviglia fosse solo frutto di grandi scelte tattiche (forse addirittura esistenziali) e non anche il risultato di una spaventosa mole di lavoro in allenamento, di “wash out”, di gradoni. Insomma di sacrifici. Nell’era del 4-4-2 di Sacchi, di colpo, arrivava uno schiaffone modernista, un vento di cambiamento. Era come avvistare e poi sbarcare in una nuova terra in cui la legge non era più difendersi perché dietro c’erano Baresi, Galli, Maldini, Tassotti, ma attaccare continuamente e per di più con una predisposizione così maniacale al “bello” che il “redditizio”, ossia la sua diretta conseguenza, paradossalmente finiva in una specie di paradisiaco secondo piano. Zeman portò con sé i più significativi interpreti del suo vangelo: Signori e Rambaudi. Baiano finì alla Fiorentina. Di Biagio restò ancora un anno in Puglia e poi si sarebbe ricongiunto con Zeman alla Roma. Alla Lazio Zeman sgretolò il mito di Gascoigne, il calciatore e la persona meno indicati per entrare in quegli schemi, splendidi ma anche costosi. Zeman era convinto di riuscire: “Il calcio è sempre lo stesso, sia in una piccola che in una grande città, il campo ha sempre le stesse misure e la preparazione è sempre la stessa”. La storia in parte gli avrebbe poi dato torto. Ma dopo. La Lazio di Zeman era una macchina. Con Boksic, Winter, Di Matteo, eseguiva uno spartito che si apriva a soluzione armoniche esaltando ogni membro dell’orchestra, in cui tutti, per incanto, diventavano maestri. La Lazio battè il Foggia 7-1, senza pietà, la Fiorentina 8-2, travolse Inter, Milan, Juve. In quel primo girone d’andata, “Zemanlandia” fu fermata, per un peccato di presunzione, dalla Roma di Mazzone (0-3). Zeman parlava poco e fumava molto. Ricorderete. La Lazio finì seconda appaiata al Parma dietro la Juventus, staccata di 10 punti. Ovviamente era il miglior risultato dopo lo scudetto del ’74.  L’anno dopo sembrava destino che la Lazio andasse ancora più su e la vittoria sulla Juve (uno storico 4-0) faceva quasi toccare con mano il sogno, benché fossimo appena all’inizio della stagione. Zeman giocava il miglior calcio possibile. Nessuno aveva mai visto niente di simile, tanto che quel modello sembrava appartenere un po’ a tutti, che tutti potessero e dovessero goderne. La Lazio tuttavia ebbe una serie di intoppi: qualche giocatore rifiatò e Marchegiani si ruppe i legamenti. Come ogni cosa preziosa, la storia della seconda “Zemanlandia” (la terza con la Roma) durò meno del previsto. Nemmeno troppo velatamente, alcuni giocatori e molta della dirigenza accusavano il tecnico di esagerare con la durezza, etica e fisica. Più lui chiedeva, meno facevano. Un giorno, a Tenerife per la Coppa Uefa, Zeman abbandonò l’allenamento. Forse a malincuore, forse no, Cragnotti lo esonerò il 27 gennaio del ’97, dopo la sconfitta interna col Bologna. Erano nati intanto Nesta e Nedved. E i germi del futuro scudetto stavano lì, in quell’addio forzato del maestro.

Zeman, quando accendere le emozioni a volte è più importante che alzare coppe. Marco Lodoli su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Nei nostri occhi e nella memoria abbiamo ancora la sua Lazio, e quelle domeniche strepitose in cui ogni malinconia veniva dimenticata grazie alla bellezza del gioco. La Lazio di Zeman fu la gioia di chiunque ama il calcio, sembrò davvero di tornare nel cortile dove giocavamo da bambini: tutti avanti e gol a valanghe, senza stare a badare troppo alla difesa. Zemanlandia fu la riconquista del piacere del gioco, cercando di fare almeno una rete più degli avversari. E questa giostra scintillante avveniva sotto lo sguardo sornione e affumicato di quel boemo di poche parole, capace di trasformare una squadra prudente in una nave pirata sempre all’assalto. Abitava vicino a casa mia, Zeman, a volte lo incrociavo la sera e avrei voluto ringraziarlo per quanto ci faceva divertire, ma la sua maschera impassibile mi metteva soggezione e non gli dissi mai niente. Era la Lazio di Beppe Signori, “segna sempre lui”, piccolo torello dal sinistro incrociato ed esplosivo che mi ricordava le rasoiate di Giggiriva. A centrocampo giocavano Winter, Di Matteo e Fuser, nessun campione, ma tutti e tre intelligenti e capaci di ribaltare il gioco in un attimo. Un anno arrivammo secondi e un anno terzi, senza mai davvero avvicinarci alla vetta del campionato, ma in fondo non era importante il piazzamento finale, quello che contava davvero era l’energia sposata alla geometria, corsa e righello, entusiasmo e schemi che sembravano derivare dal volo preciso degli uccelli. Dietro a tutto ciò c’erano i famosi gradoni, allenamenti sfiancanti, ripetute violente, sudore e sudore: e in campo questa immensa fatica si trasformava in leggerezza, il piombo diventava oro, il sudore produceva un profumo inebriante. Zeman è stato spesso rimproverato di non aver mai vinto nulla, addirittura di essere un perdente cronico: ma accendere le emozioni a volte è più importante che alzare coppe, e quella Lazio emozionava come un film d’avventura di corsari e mari verdi, rischiosi, allegri. Poi, si sa, Zeman finì alla Roma, ma la gratitudine per il fumante boemo non si è mai capovolta in risentimento e inimicizia. Nei nostri occhi e nella memoria abbiamo ancora la sua Lazio, e quelle domeniche strepitose in cui ogni malinconia veniva dimenticata grazie alla bellezza del gioco, a quelle folate offensive che sembravano vento che scompiglia, che trascina, che porta via lontano da ogni tristezza.

La Lazio in una stanza: quei pomeriggi biancocelesti di Beppe Signori con Giuliano Fiorini. Valentina De Salvo su La Repubblica 29 dicembre 2019. Gli incontri a Bologna di due giocatori entrati nella storia e nei cuori laziali. L'attacante scoperto da Zeman ("io giocavo a pallone, lui mi ha insegnato a giocare a calcio") ha vinto tre volte la classifica cannonieri e con la Lazio ha segnato 129 gol. Un intero popolo in piazza per impedirne la cessione. La Lazio in una stanza. Quando Beppe Signori andava a trovare Giuliano Fiorini nella sua ricevitoria dietro la stazione di Bologna (cioè quasi tutti i giorni dopo l'allenamento) c'era sempre il momento lazialità. Alla fine degli anni Novanta, la storia di Signori, 127 gol in campionato con la maglia biancazzurra (tre volte capocannoniere), la marcia dei cinquemila per evitare che venisse ceduto al Parma per 27 miliardi nel 1995, i cori sull'aria di Rumore di Raffaella Carrà (o l'infinito "E segna sempre lui, e segna sempre lui: si chiama Beppe Signori..."), e quella di Fiorini, una rete favolosa contro il Vicenza, il 21 giugno 1987, che aveva evitato la dannazione della serie C a meno di dieci minuti dalla fine. Stavano sempre insieme dopo le sei del pomeriggio: la gente lo sapeva e passava per un saluto, una foto, una firma, per due saluti, due foto, due firme. Beppe Signori è diventato campione alla Lazio e non l'ha mai dimenticato: ancora oggi fa tweet per ricordarlo. Signori oggi ha 51 anni, è sempre un bergamasco che amava Madonna (il fantasista anni Ottanta), che deve tanto a Zeman ("prima giocavo a pallone, lui mi ha insegnato a giocare a calcio"), e che - in mezzo alle tempeste della vita- ogni tanto non può fare a meno di raccontare di quel tifoso laziale che s'incatenò per lui. Perché Cragnotti non vendesse la sua maglia numero 11. "Mi è sembrato di vedere Signori, Signori..."

Fascetti e la Lazio dei 'meno 9': "Quell'impresa vale come uno scudetto". Luigi Bolognini su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Uno degli allenatori più amati dai laziali racconta la salvezza nel campionato di serie B del 1986/87: la squadra evitò il baratro della C solo dopo la drammatica vittoria all'ultimo respiro con il Vicenza e poi con gli spareggi di Napoli. "Ancora adesso quando vado a Roma vengo trattato come un re e a 81 anni di età mi emoziono come allora". Ci sono scudetti che negli albi d'oro non risultano come tali, ma che come tali sono sentiti dai tifosi e anche dagli sportivi neutrali. E possono essere di due tipi. Una vittoria leggendaria sfumata all'ultimo, tipo il Torino che fece 50 punti (su 60 disponibili) e perse il campionato perché la Juventus ne fece 51, la cosiddetta vittoria morale. Oppure una sconfitta annunciatissima che viene evitata, meglio se con modalità epiche e tormentate. Ed è ovviamente il nostro caso, quello della Lazio che nel 1986-87 si salvò dalla retrocessione in C malgrado una penalizzazione di 9 punti, e quando la vittoria ne valeva due: per recuperarla adesso bastano - si fa per dire - tre vittorie, ai tempi eliminavi il segno negativo solo dopo almeno cinque partite. Un risultato che i tifosi biancazzurri considerano né più né meno che uno scudetto, molto simile ai due vinti davvero, merito di una squadra che mescolava campioni (Fiorini, Caso), giovani (Gregucci, Pin) e gregari che si seppero trasformare (Podavini). Ma il nome che tutti associano a questa salvezza è dell'unico che in campo non è mai entrato, se non per esultare, e che per il resto stava seduto - benché mica troppo - in panchina, Eugenio Fascetti. "Tuttora quando vado a Roma vengo trattato dai laziali come un re, forse anche oltre i miei meriti, e a 81 anni di età e oltre 30 di distanza da quei tempi mi emoziono come allora. Se ancor oggi quella squadra gode di un alone di simpatia straordinario tra i tifosi, vuol dire che abbiamo realizzato qualcosa di speciale. Eppure non ci accorgemmo subito dell'importanza dell'impresa, può sembrare incredibile. Forse fu la tensione continua di un anno lunghissimo, pieno di imprevisti. D'altronde nel calcio se non reggi la tensione, cambi mestiere". Primo imprevisto fu, ovviamente, la retrocessione in Serie C per uno scandalo di calcioscommesse, il Totonero 2, tramutata dopo qualche giorno in 9 punti di penalizzazione in serie B, dove la Lazio era già precipitata l'anno precedente. Per salvare la baracca, e la squadra, il presidente Gianmarco Calleri, appena diventato il nuovo padrone dopo i disastri della gestione Chinaglia, ebbe l'idea giusta: Fascetti. Amatissimo dalla tifoseria laziale ancor prima di arrivare per quel che aveva appena combinato: portare il Lecce già retrocesso a battere 3-2 la Roma all'Olimpico, facendole perdere lo scudetto. Allori su cui il tecnico toscano non si cullò per nulla, anzi. "Io sarei rimasto anche con la squadra in serie C. Ma alla notizia della penalizzazione radunai i giocatori sul campo del ritiro, a Gubbio, e gli dissi poche parole: "Chi vuole resti. Chi non se la sente può andar via subito. Ma chi resta combatte fino alla fine". Nessuno chiese la cessione, e c'era gente di spessore. E lì capii che con quel gruppo avrei potuto lavorare bene". Gruppo nel quale spiccava Giuliano Fiorini, attaccante a cui la morte prematura ha dato solo l'ultima pennellata di leggenda, leader tecnico e umano: "Era un trascinatore, il vero capo dello spogliatoio assieme a Mimmo Caso, uno di quelli che giocava anche quando era in condizioni così così - spiega Fascetti -. Noi allenatori siamo bravi quando abbiamo giocatori bravi". E Fiorini una mattina andò in sede e telefonò ai suoi compagni uno a uno per convincerli a rimanere alla Lazio. Non era necessario, come visto, ma spiega molto del tipo. Messa così sembrerebbe che stiamo parlando di una cavalcata trionfale. Invece fu un anno difficile, o meglio zeppo di alti e bassi: "Iniziammo coi bassi - sospira Fascetti - uno 0-0 a Parma e alla seconda giornata sconfitta 0-1 all'Olimpico con il Messina. Vincemmo la prima volta solo alla quarta giornata, 2-1 al Bologna, e andammo in attivo solo all'ottava giornata, con un 3-0 al Bari". Otto giornate perse su 38 sono un'enormità, ma a quel punto la Lazio si mise a viaggiare con un ritmo da testa della classifica. Anzi, alla giornata numero 28 Fiorini piegò il Cesena e la Lazio si trovò con 25 punti, che assieme ai 9 della penalizzazione ne facevano 34 effettivi, quelli della capolista Cremonese. "L'entusiasmo dei tifosi c'era sempre stato, avevamo più di 35mia spettatori a partita all'Olimpico, numeri incredibili per la B, ma in quel momento la situazione iniziò a essere difficile da gestire. Per questo avvertii che non eravamo ancora salvi. Anche perché era così. E infatti passammo momenti brutti: tre pareggi di fila, poi due sconfitte consecutive". Fino a uno 0-3 alla penultima giornata contro il Pisa che sostanzialmente mandò i toscani in serie A (assieme a Pescara e Cesena), e buttò la Lazio sul bordo dell'abisso. Restava una partita, in casa con il Vicenza, uno spareggio salvezza. Se la Lazio avesse perso sarebbe stata in C, probabilmente anche pareggiando, solo una vittoria avrebbe portato agli spareggi. Morale, il 21 giugno 1987 all'Olimpico arrivarono in 62mila - almeno ufficialmente, poi vai a sapere quanti furono i portoghesi - e il muro di suono fu continuo, assordante, sembrava quasi sospingere fisicamente, trasportare sull'onda i giocatori. Eppure. Eppure la palla non entrava. "Quello fu l'unico momento di tutta la stagione in cui ebbi dubbi: il portiere Dal Bianco stava facendo la partita della vita, parando qualunque cosa. Lì, sì, temetti che finisse male, anche quando espulsero un vicentino. Non eravamo lucidi, l'angoscia iniziava a farsi sentire". Fino all'82' quando Podavini - "che era un terzino solo di carta, in pratica un attaccante, cosi come Magnocavallo sull'altra fascia" - non tentò un tiro decisamente sballato, che sarebbe finito addirittura in fallo laterale se non avesse incocciato nell'area piccola su Fiorini che, spalle alla porta, controllò a seguire, si girò e segnò in spaccata. "Ci fu un boato che probabilmente non sentirò mai più, una scossa sismica quasi, e capii che era fatta. Non solo per quella partita, ma anche per gli spareggi, dentro di me in quel momento capii che sarebbero stati quasi una formalità". Non fu proprio così: la prima partita del gironcino a tre, giocato al San Paolo di Napoli, fu una sconfitta 1-0 col Taranto. Ma ce n'era un'altra, col Campobasso, bastava vincere quella per restare in B. Anzi, più che bastava era semplicemente fondamentale. Proprio come col Vicenza. Eppure, sì, la vittoria fu più rilassante, stavolta, anche se sempre 1-0. Però segnato prima, e forse per questo con meno pressioni addosso. Era il 51' quando su un morbido e un po' sbilenco cross d'esterno sinistro di Piscedda Poli inzuccò. E fu il trionfo definitivo. La C evitata e la A che arrivò l'anno dopo, quasi in automatico: "Non fu neanche necessario giocare bene, e infatti giocammo male, soprattutto con Galderisi che segnò un solo gol quando ne aspettavamo una quindicina. Ma fu una promozione di inerzia, in qualche modo, dopo quella salvezza. D'altronde senza la penalizzazione saremmo andati in A già nel 1987: eravamo una squadra forte, e senza ruoli, nel senso che tutti facevano tutto, un calcio modernissimo". Il bello, si fa per dire, è che l'Eugenio quella A non la assaporò: per contrasti con la società strappò un contratto ancora di due anni. "A me rubare non piace: non avevo un buon rapporto col socio di Calleri, preferii andarmene così". E forse anche per questo addio da signore, Fascetti è tuttora venerato dai laziali. "Perché sanno che quella salvezza è stata la chiave di volta di tutto, il momento dell'inizio della rinascita. La Lazio era retrocessa dalla A, era passata dalla gestione di Chinaglia, se fossimo finiti in C sarebbe stata la rovina definitiva e senza ritorno. Da Calleri a Cragnotti fino a Lotito: non sarebbe stato possibile niente di quello che è venuto e che penso verrà in futuro. Per cui sì, quella salvezza fu come uno scudetto. Il mio scudetto con la Lazio".

Bruno Giordano, la vita sulle montagne russe del figlio di Trastevere. Giancarlo Governi su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Maradona disse di lui che era il più sudamericano di tutti i giocatori italiani. Crujiff, che fu il suo modello, rimase stupito dei numeri del giovane Giordano. Non avrei mai scritto un libro su un calciatore se non avessi trovato alcune cose che mi accumunavano a Bruno Giordano: Trastevere, la stessa scuola elementare, i luoghi, le piazze dove avevamo giocato a pallone, il Fontanone del Gianicolo e il barcone del Ciriola sul Tevere dove avevamo fatto il bagno, l’oratorio della parrocchia che ci ha tolto dalla strada e ci ha indirizzato verso la via dell’onestà e del bene. In un’epoca, soprattutto la sua, dove la droga si portava via tanti ragazzi. Bruno è più esattamente un figlio di Trastevere. Chi vede la Trastevere di oggi trasformata in un mangificio, in una sorta di movida permanente, non può capire che cosa era questo straordinario quartiere quando ero ragazzo io e quando lo era Bruno. E poi Bruno ed io siamo due dei tanti figli di Trastevere “che hanno passato ponte”, che si sono fatti onore in campi diversi, come Alberto Sordi, come Claudio Villa. Insomma mi sono reso conto che raccontando la sua Roma e la sua Trastevere raccontavo anche la mia Roma e la mia Trastevere. E quindi la prima persona mi è venuta spontanea. Nella introduzione al libro ho citato Flaubert che disse “Madame Bovary c’est moi!”, e io sono stato Bruno Giordano durante la stesura del libro. Lo sono stato mettendo a sua disposizione la mia sensibilità, la mia capacità narrativa e anche la mia cultura. Di Bruno ho raccontato le gioie e i trionfi ma anche i grandi dolori che hanno segnato la sua carriera e la sua vita, “Una vita sulle montagne russe”, così si intitola il libro. Tra le discese vertiginose, ce ne sono due che Bruno non ha superato e che non riuscirà a superare per il resto della sua vita: sono gli otto giorni a Regina Coeli e la morte della mamma, la sua prima tifosa, proprio alla vigilia del suo trionfo a Napoli. La rabbia per essere incarcerato innocente, lo divora sempre, la sola colpa che lui ammette è quella di essersi girato dall’altra parte, pensando “tu sei una persona onesta, fai il tuo dovere e quindi la cosa non ti riguarda. Tu sei l’ultimo arrivato, hai un avvenire glorioso davanti a te, pensa alla tua carriera”. Giordano fu il precursore del centravanti moderno. Potente ma allo stesso tempo elegante, fisico e al contempo di tocco raffinato, egoista ma capace di dialogare con l’intera squadra, non facilmente paragonabile a giocatori attuali, che non posseggono la sua tecnica sopraffina. Maradona disse di lui che era il più sudamericano di tutti i giocatori italiani. Crujiff, che fu il suo modello, rimase stupito dei numeri del giovane Giordano. Aveva conquistato la Nazionale, quando si abbatté su di lui la storia del calcio scommesse. Era uno dei giocatori più pagati, i club più prestigiosi se lo disputavano. Il Milan stava preparando un trio di attacco con Giordano al centro e accanto due campioni come Falcao e Zico. Bearzot alla vigilia dell’Europeo disse: “Che squadra faccio senza due giovani campioni come Giordano e Rossi”. Se non ci fosse stata la pesantissima squalifica, Giordano avrebbe giocato il Mondiale del 1982 e sarebbe stato campione del mondo. I gol di Bruno non erano mai banali e alcuni sono passati addirittura alla storia del calcio, come il secondo gol alla Juventus di una partita vinta per tre a zero. Bruno fece passare la palla sopra la testa del difensore Morini, la raccolse senza farle toccare terra e con un altro sombrero, come lo chiamano ora, la fece passare sopra la testa di Zoff, che lo applaudì prima di raccogliere “la palla nel sacco”, come raccontavano i cronisti dell’epoca, mentre crollava lo stadio…. I romanisti non potranno mai dimenticare il primo gol di Giordano al derby, che tirò dalla linea di fondo. Bruno dava del tu al pallone e da lui potevamo aspettarci qualsiasi cosa. I laziali lo amano e lui ama la Lazio, il cruccio dei tifosi storici, e un po’ anche di Bruno, è di aver assaporato il trionfo con un’altra squadra, il Napoli di Maradona che lo volle accanto a sé a tutti i costi. Lo chiamò e gli disse: era ora che arrivassi, l’anno scorso senza di te eravamo arrivati settimi, ora con te vinceremo lo scudetto. E scudetto fu! Il legame con la Lazio rimase sempre forte, fino all’ultimo istante della carriera. Bruno ricorda molto bene l’ultima volta che ha affrontato la Lazio sul campo: è stato ad Ascoli, alla fine della carriera. All’ultima giornata di campionato la Lazio aveva bisogno di un punto per non tornare nel baratro della retrocessione e la partita si stava concludendo sul pareggio. “Quando, non so come – racconta - mi ritrovo solo davanti al portiere laziale Fiori. Si dice che quando uno sta per morire, in pochi secondi riavvolge il nastro della vita, di cui rivede tutti i momenti salienti. Io in quel secondo mi sono rivisto Flacco Flamini al provino, ho visto Guenza, Paolo Carosi, ho visto la palla entrare in rete a Genova nel mio primo gol in serie A, ho visto Tommaso e poi Cecco, ho visto i giorni terribili della squalifica, mi sono visto insieme a Manfredonia che in chiesa giuriamo di riportare la Lazio in serie A, mi sono rivisto sul campo di Pisa che deposito per due volte la palla in rete con la gamba infortunata ancora debole… ho visto il Sor Umberto Lenzini gioire e piangere… ho visto le facce dei tifosi… ho visto… ho visto e, anziché tirare in porta come avevo fatto tante volte, ho passato la palla al portiere laziale. Avevo saldato ancora una volta tutti i debiti con il mio passato.” Laziale per sempre.

Franco Pasqualetti per leggo.it il 17 gennaio 2020. Gli occhi sono sempre quelli. Il cuore pure. E guardandolo giocare anche i piedi sono gli stessi che hanno fatto sognare per anni i tifosi laziali. Bruno Giordano gioca d'attacco: «Lazio mia credici. Fino alla fine».

In che senso?

«Ci sono delle stagioni in cui tutto può succedere. E questa mi sembra quella giusta per osare. La Lazio sta giocando un gran calcio e le avversarie, eccezion fatta per la Juve, stentano. Per questo dico: ragazzi carica».

Vede in questa squadra quella in cui giocava lei?

«Non si possono fare certi paragoni. È un altro calcio, un altro mondo, un altro rapporto con lo sport. Noi abbiamo fatto un'epoca, ora ci pensino i ragazzi di mister Inzaghi».

A proposito, le piace l'allenatore?

«Moltissimo, sta dando un'impronta forte e un'identità di gioco. E in più ha un grandissimo Ciro Immobile».

Quest'anno appena la tocca la butta dentro...

«Non è solo da quest'anno. Ciro è veramente forte. Ha classe e potenza e il sangue freddo del bomber di razza».

Va bene non fare paragoni, però la sua Lazio viene presa a modello anche dalle generazioni attuali. Prendiamo l'esempio della maglia storica...

«Quella era una squadra con gli attributi e i tifosi la portano nel cuore perché sapevano che da noi avevano tutto. Cuore, corsa, sudore, ardore, amore, fede».

Giordano, sembra stia parlando di una bella donna...

«La Lazio è di più».

Cos'è la Lazio per lei?

«È la vita, è casa mia, è il sogno che porto dentro da quando avevo tredici anni, quando feci il mio primo provino a Tor di Quinto».

Se lo ricorda quel giorno?

«E come potrei scordarlo?»

Ci racconti...

«Io andavo ancora a scuola, giocavo a calcio per passione e, nell'incoscienza dei miei tredici anni, quasi non osavo pensare che quella che era la mia passione sarebbe diventata un giorno il mio lavoro, la mia professione. Anzi, quelle rare volte che mi capitava di pensare al mio avvenire, mi vedevo tappezziere come mio padre. Un giorno da don Pizzi, al Don Orione, arrivò un osservatore della Lazio di cui ignoro il nome e che non ho mai conosciuto. A me dissero soltanto che era lì per veder giocare la mia squadra. Alla fine della partita diede tre nomi a don Pizzi: il mio e quello di due miei compagni di squadra, Galgani e Modesto. Noi convocati per un provino a Tor di Quinto, al campo della Lazio».

E poi?

«Il parroco ci disse Mi raccomando portate gli scarpini con i tacchetti, perchè li c'è il campo d'erba, un campo vero, e voi siete abituati a giocare in campacci. Capirai e chi ce l'aveva gli scarpini da calcio. Costavano 18 mila lire, una cifra folle per la mia famiglia».

E come fece?

«Il parroco me ne diede un paio che qualche fedele aveva lasciato per i poveri. Io li portai a casa e li lucidai tutta la notte».

Come le scarpette di Cenerentola...

«Magari! Io portavo 38, quelli erano 40. Avevano i tacchetti di legno ma erano tutti mezzi rotti. Diedi più culate quel giorno che in tutta la mia vita ma alla fine giocai una gran partita e mi presero».

L'accompagnò sua madre?

«Si, facemmo un viaggio della speranza da Trastevere a Tor di Quinto, 4 mezzi diversi dell'Atac e un chilometro a piedi. Quando andai da lei dopo la doccia dicendole che ero diventato un giocatore della Lazio la sua risposta fu laconica: Ma se stavi sempre per terra. Mentre eravamo sull'autobus io ero euforico, lei mi guardava sorridendo, ma prima di scendere mi disse: vediamo stasera che dice tuo padre».

Cosa le disse?

«Ragazzì, fai la tua scelta ma diventa il più forte di tutti».

Da lì è iniziato un amore con i colori biancocelesti.

«Sì un amore grande, grandissimo che mi ha accompagnato negli anni».

Oggi in che Lazio vorrebbe giocare Giordano?

«In quella del 74, con Giorgio Chinaglia».

Una squadra tosta eh...

«Quella è la Lazio. Io con quella maglia sul petto non ho mai avuto paura».

E oggi Giordano che uomo è?

«Un uomo di sport che vive per il calcio e la sua Lazio».

Gioca ancora?

«Con gli amici mi tengo in forma».

Anche in spiaggia ad Ansedonia, nonostante qualche fallo di troppo...

«(Ride, ndr) L'agonismo fa parte del gioco».

Lo sa bene il mio ginocchio destro...

«Se uno non ha il fisico meglio lasciare stare, no? (ride, ndr)».

Un sogno?

«Nella mia vita li ho realizzati quasi tutti, allenare un giorno la Lazio sarebbe il coronamento di una vita vissuta con due soli colori nel cuore: il bianco e il celeste».

Le lasciamo l'ultima battuta per un messaggio a questa squadra...

«Andiamo a vincere».

Gascoigne, genio e fragilità: dal passaggio di "Gazza" alla Lazio nacque la Premier League. Angelo Carotenuto su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Il Tottenham che lo lasciava partire, nel '92 era il solo club inglese quotato in Borsa. Le squadre inglesi si domandano: perché siamo costretti all'estero i nostri migliori giocatori? Nel giro di un anno, le 22 squadre della First Division affiliate alla federazione firmarono una mezza scissione per la gestione autonoma dei diritti tv: nasceva così la ricchissima Premier League. Se di Paul Gascoigne ci fermiamo a ricordare gli aneddoti - e chi non ne ha uno - i suoi eccessi, quella sua vita svitata così in contrasto con il rigore per esempio di un Dino Zoff, rischiamo di perderci il resto, il senso del suo arrivo a Roma e i riflessi che ancora oggi viviamo. Gascoigne alla Lazio ebbe una conseguenza cittadina, una nazionale e una globale. Dentro le mura urbane Gascoigne metteva fine alla supremazia della Roma di Viola, della sua prosperità austera e fiera sui conti della Lazio affogati nei debiti, sugli alberghi che sfrattavano la squadra per i conti non pagati, sull’immagine macchiata dal calcioscommesse dieci anni prima. Era una Lazio rivoltata dal passo da formica di Calleri, gli ingaggi contenuti, un'amministrazione oculata molto simile a quella odierna di Lotito: una società disposta a vendere Di Canio per far quadrare i conti ma già proiettata verso la mutazione genetica che avrebbe prodotto di lì a poco l'inizio dell'era Cragnotti. Quando Calleri e il suo ds Regalia si presentarono a Londra per definire l’affare, nella primavera del 1991, Paul Gascoigne era il migliore degli stranieri non ancora giunti in Italia. Lunga sarebbe stata l’attesa, prima di abbracciarlo davvero nell’estate del 92, la folla, la ressa, i fotografi, una vetrata in frantumi. Ma che fosse la Lazio a prenderlo, e non la Juventus che lo aveva seguito a lungo, spinse il Sun a mandare un fotografo nella sede del Tottenham e la BBC a mettere in piedi un collegamento al volo. Nei 23 campionati dal 1969 al 1991 la Serie A aveva distribuito i suoi scudetti a 11 squadre diverse. Per cinque di loro era stato il primo, per sei di loro sarebbe stato l’ultimo. Dal 1992 fino a oggi la Serie A è stata sostanzialmente il terreno di una tripartizione fra Inter Juventus e Milan, con l’eccezione delle due romane negli anni a ridosso del Giubileo. Eppure, in campo nazionale, Gascoigne alla Lazio fu la scintilla che incoraggiò la classe media a essere competitiva. Il Parma di Tanzi. La Fiorentina di Cecchi Gori. Erano gli anni in cui il campionato cominciava avendo per favorite “le sette sorelle”. Ma se possibile, Gascoigne alla Lazio ha prodotto una conseguenza ancora superiore su scala globale. Il Tottenham che lo lasciava partire, era in quel momento il solo club inglese quotato in Borsa, sebbene con un deficit di 23 milioni di sterline. È questo il momento in cui le squadre inglesi si domandano: perché siamo costretti a vendere in Italia, in Spagna o in Francia i nostri migliori giocatori? Nel giro di un anno, le 22 squadre della First Division affiliate alla federazione firmarono una mezza scissione per la gestione autonoma dei diritti tv, facendo nascere così la ricchissima Premier League, oggi inattaccabile nel suo primato di NBA del calcio. Gascoigne fu il sacrificio che scosse l’Inghilterra per spingerla a rinascere. Non era un calciatore come gli altri. Giocava un calcio fuori dalla contemporaneità del suo paese. Robson aveva impostato la felice nazionale del Mondiale '90 su un’idea di isolamento dalla new age progressista che ruotava intorno alla triade composta da Rinus Michels (Europeo 88 con l’Olanda), Valery Lobanovski (Urss e Dinano Kiev), Arrigo Sacchi (Milan 89 e 90). Gascoigne era il suo lusso e la sua copertura. Era l’unica cosa di cui andare fieri agli occhi dell’Europa, nel pieno della messa al bando dei club dalle Coppe dopo la tragedia dell’Heysel. Niente aveva di affascinante l’Inghilterra agli occhi degli stranieri, se non Gascoigne, condannato perciò a essere molto più che se stesso. È stato un genio intermittente perché non si può portare un tale peso sulle spalle ogni giorno per tutti i giorni. E allora ecco Gazza che piange, si ubriaca, mette una pancia di plastica finta sotto la maglietta, stringe la mano all’arbitro e nel palmo nasconde una pompetta che fa una pernacchia. Gascoigne era la maschera che vendeva al Sun in esclusiva la sua vita privata, le orge, gli scherzi, le birre, le limousine, le freccette, il video delle sue imprese a 9 sterline e 99, come al discount. Aveva al seguito i suoi cameraman e la sua produzione. Come Maradona. Proprio Maradona da Siviglia diceva: “Può essere per la Lazio quello che io sono stato per il Napoli”. La maschera lo ha schiacciato. Picchiava sua moglie Sheryl, e quando Sheryl iniziò a mostrare in pubblico i lividi, per poi denunciarlo nella sua autobiografia, Gazza non ebbe niente di meglio da dirle che se non le stava bene poteva cambiarsi il cognome. Sorrideva Gascoigne, sorrideva sempre, triste come sono i clown, fino a diventare troppo presto un uomo sul conto del quale si possono solo raccontare aneddoti. In genere succede con chi non c’è più.

Da leggo.it il 2 giugno 2020. «A Italia 90 giocai a tennis all'una di notte prima della semifinale. Robson era furioso». A raccontare una delle sue innumerevoli intemperanze è Paul Gascoigne, ex giocatore della Lazio, talento e sregolatezza, in una intervista al britannico Daily Mail. Raccontando la sua esperienza nella Coppa del mondo disputata in Italia, dove l'Inghilterra chiuse quarta alle spalle dell'Italia e dopo aver perso la semifinale con la Germania ai calci di rigore, 'Gazzà spiega il suo stato d'animo. «Mi sentivo in vacanza. Mi sono sentito così tutto il tempo. Il mio più bel ricordo di Italia 90 è l'eccitazione che provai salendo sull'aereo. Il calcio non mi ha mai preoccupato. Non mi importava contro chi stessimo giocando, sapevo che avremmo potuto batterli in ogni caso. Ero molto fiducioso, non mi importava nulla della tattica, di chi fosse il loro miglior giocatore o chi mi avrebbe segnato. Tutto quello che mi interessava era vincere quelle partite». Gascoigne racconta poi la rabbia del ct Bobby Robson. «Certo, giocare a tennis all'una del mattino prima della semifinale non è stata una grande idea. Ero in campo, sentivo questa voce burbera che gridava "Gazza, Gazza! Dov'è Gazza?!". Ho pensato "cazzo, adesso sono nei guai"». In ritiro Robson bussava alla porta e in camera c'era il compagno Chris Waddle. «Gazza, dov'è? Sta dormendo, boss. Dormire? Dormire?! Mi hanno detto che ha giocato a tennis nelle ultime due ore».

Paolo Di Canio, da ragazzo della Nord a simbolo controverso della Lazio. Stefano Fiori. I gol nel derby, le battute su Totti, il ritorno in biancoceleste voluto da Lotito e quella folle corsa a sfidare la Curva Sud. Come vent'anni prima. Ma anche discutibili gesti politici.. “Totti? Fa bene a non invitarmi a cena. Anche perché, se io gli parlo di Medio Oriente, lui pensa sia una zona del campo”. Con il derby in calendario il 6 gennaio, il clima natalizio fatica a prendere piede nella Capitale. Soprattutto perché, a scandire la lunga attesa di quell’Epifania, ci pensano i botta e risposta tra Paolo Di Canio e Francesco Totti. Il primo pungola il secondo, che a sua volta risponde per poi essere pizzicato di nuovo: nel passaggio di consegne tra il 2004 e il 2005, Lazio-Roma si sta giocando con settimane di anticipo rispetto al fischio d’inizio. La variante, rispetto alle precedenti stracittadine, è troppo dirompente per non provocare effetti: dopo un’Odissea di 14 anni, Di Canio è tornato a casa. Ha salutato Roma appena 22enne, il talento del Quarticciolo scoperto da un maestro di calcio come Volfango Patarca (che avrebbe poi scovato anche Nesta e Di Vaio). Come primo “decreto” da neo presidente, Claudio Lotito ha riportato alla Lazio il figliol prodigo, ultras biancoceleste ancora prima che calciatore. A 36 anni, Di Canio è tornato con un obiettivo in una tasca e con un sogno nell’altra. Il primo, aiutare la sua Lazio ancora scombussolata dopo aver sfiorato il fallimento: i fasti cragnottiani di poche stagioni prima sembrano lontani anni luce, Lotito ha assemblato la sua squadra in fretta e furia (i famosi nove acquisti in un giorno) e una guida carismatica come il vecchio Paolo è imprescindibile. Per quanto riguarda il sogno, il derby è l’occasione giusta: segnare di nuovo alla Roma, magari proprio sotto la curva giallorossa, a distanza di sedici anni dalla prima volta. Il 15 gennaio 1989, il gioiellino del vivaio biancoceleste aveva deviato la sua corsa dopo aver battuto Tancredi. Una sterzata quasi impercettibile, per esultare sotto la Sud col dito alzato, come Chinaglia più di un decennio prima. Di Canio sotto la Curva Sud, dopo il goal nel derby del 1989Adesso che Di Canio indossa di nuovo la maglia biancoceleste, tra i tifosi laziali è tutto un darsi di gomito: “Pensa se, dopo tutti ‘st’anni, je risegna ancora…”. Col passare delle atipiche giornate natalizie, durante le quali il vecchio pisano Giuseppe Papadopulo ha sostituito in panchina Mimmo Caso, le frecciate di Di Canio a Totti hanno tramutato la speranza biancoceleste in convinzione: dopo tutto il trambusto sollevato, Paolo non potrà sbagliare l’appuntamento con la storia. Con la sua storia personale, soprattutto. Quello che per molti, in città, rappresenta un totem intoccabile – il numero 10, il capitano, l’ottavo re di Roma –, per Di Canio è un semplice tifoso giallorosso. Magari bravo coi piedi, ma pur sempre romanista e quindi da sfottere, stuzzicare, mettere alla berlina prima di batterlo in campo. E in campo, in quel 6 gennaio 2005, dopo 29 minuti di un derby nervoso, ruvido per gli interventi in campo e per le intemperanze sugli spalti, a servire la palla perfetta a Di Canio ci pensa Fabio Liverani. Un altro piedi-buoni nato a Roma, ma cresciuto con simpatie calcistiche opposte. Roba del passato, Liverani adesso veste biancoceleste e ha un solo compito: lanciare nel modo migliore il compagno di squadra. E lo fa con un passaggio telecomandato, che il numero 9 laziale spinge in porta al volo. La seconda parte del gol, quella dell’esultanza, è un copione già scritto che va solo portato in scena: Di Canio corre verso la Sud, si ferma davanti ai cartelloni pubblicitari e apre le braccia. Il significato è chiaro: “Eccomi, sono tornato e vi ho segnato di nuovo”. Di Canio e i giocatori della Roma nel derby del 2005Di Canio dopo il goal nel derby del 2005I giocatori della Roma non la prendono benissimo, Cufrè e Dellas su tutti, e le polemiche incendiano un dopo partita rovente. Anche per quel suo gesto a fine partita, il saluto romano sotto la Nord, di cui anni più tardi lo stesso autore si sarebbe pubblicamente pentito. Per vincere il derby, alla Lazio non basta quel gol: dopo il pareggio di Cassano, il brasiliano Cesar e Tommaso Rocchi regalano il 3-1 a una squadra in piena emergenza. Basta ricordare la coppia difensiva di quella partita, la meteora Talamonti e un centrocampista come Giannichedda. È la Lazio dei gemelli Filippini, Antonio ed Emanuele caricati a molla da Di Canio, e dello stesso Rocchi: alla vigilia della partita, il futuro capitano e oggi allenatore degli Under 15 biancocelesti ha trascorso la notte a Formello a vedere Braveheart insieme a Di Canio. Il William Wallace scozzese sullo schermo, quello laziale nel letto accanto.

Premiata ditta Eriksson & Mancini, la coppia di registi che ha reso straordinaria la Lazio. Cosimo Cito su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Insieme alla Samp, indivisibili in biancoceleste: otto stagioni e uno scudetto conquistato nel 2000. Il tecnico svedese sulla classe e l'intelligenza del numero 10, costruì una Lazio tra le più forti di tutti i tempi: "Lui vedeva cose che gli altri non vedevano. Insieme parlavamo sempre e solo di calcio. Allenava già, quando ancora era calciatore". Svengo e Mancio si conobbero un giorno d'estate a Bogliasco. Era il 1992, il 17 luglio. Un gran caldo di metà estate, al centro sportivo Gloriano Mugnaini. Di quella volta, anni dopo, Sven-Göran Eriksson dirà: "Ho capito subito il genio di Mancini". Due mesi prima quella Sampdoria aveva perso la Coppa dei Campioni all'ultimo tiro e all'ultimo minuto dei supplementari. Vialli, già promesso alla Juve, aveva lasciato il blucerchiato con il dolore addosso dei tanti errori contro il Barcellona e Mancini aveva provato a prolungare da solo l'epopea dell'ultima Thule genovese. Era impossibile ma Eriksson, conosciuto in Italia per aver perso uno scudetto a Roma contro il Lecce e una finale di Coppa col Benfica contro il Milan, provò a imporre le sue idee: gioco veloce, moderno, incentrato però sull'estro del più classico dei numeri 10, il Mancio nel pieno della maturità, a 28 anni. Settimo posto subito, poi arrivarono una Coppa Italia e un terzo posto. Non tanto, non poco, a Genova. Durò cinque anni, ma non finì. La coppia si trasferì alla Lazio. Anno 1997: "Andai da Cragnotti - raccontò Eriksson - e gli dissi che per lo scudetto avrebbe dovuto prendere almeno tre uomini, tutti dalla Samp: Mancini, Mihajlovic, Veron". Cragnotti gli prese solo Mancini, strappandolo a Moratti. A 33 anni, intatti talento e tenuta atletica, Mancio arretrò di qualche passo. Più che altro, Mancini divenne allenatore in campo di quella Lazio che vinceva i derby (4 su 4 il primo anno), ma che non riusciva a scrollarsi di dosso gli anni zemaniani, spettacolo e voragini, piazzamenti tanti, risultati pochi, a parte i derby, appunto. Eriksson era il normalizzatore, la logica costruita a Torsby, la duttilità svedese al posto dell'ortodossia, l'etica per l'epica. La Lazio di Svengo non giocava due partite di seguito nello stesso modo, il modulo cambiava e cambiavano gli uomini. Ma prima di trovare una vocazione italiana, una legittimazione in campionato, pur con una Coppa Italia strappata a viva forza al Milan, nel '98, con uno dei rarissimi gol di Alessandro Nesta, la Lazio conquistò una consistenza europea. Sarà la Coppa delle Coppe del 1999 il primo dei grandi capolavori biancocelesti di Svengo. Con Mihajlovic, finalmente, e Mancini, naturalmente, la serata di Birmingham contro il Maiorca certificò l'ingresso della Lazio in una nuova dimensione. Mancini giostrava dietro Vieri e Salas, in un centrocampo irripetibile con Almeyda, Stankovic e Nedved. 2-1, con gol decisivo del ceco, bellissimo, dopo il primo vantaggio realizzato da Vieri. Eriksson regalò l'applauso del Villa Park a Mancini, che uscì al 90' per Couto. Indivisibili, Svengo e Mancio, da quel giorno a Bogliasco, fino allo scudetto, nel primo anno del Millennio, 20 anni fa, 100 dopo la nascita dell'Aquila biancoceleste. L'ultima stagione da calciatore di Mancini, con 20 partite di campionato, è senza gol. A 36 anni, mentre a Perugia una pioggia biblica premiava gli sforzi a distanza della Lazio, Mancini pensava già all'addio. "Se avessi continuato a giocare, non avrei fatto altro che peggiorare. Ma nel rapporto con Eriksson non cambierà nulla, solo che non potrà più contare su di me in campo". Vent'anni da quei giorni finiti in fondo a una porta al Curi, una giornata che era iniziata con un funerale al calcio italiano, ucciso dai molti favori alla Juventus, e terminata con Eriksson e Mancini che si stringevano in fondo alla sera del 14 maggio. Il secondo scudetto della Lazio, 26 anni dopo il primo, era nato, a pensarci, molti anni prima a Bogliasco, dentro i cori degli ultrà Tito Cucchiaroni, con altri colori addosso e, intorno, una città deserta. Si lasceranno andare un anno dopo, Eriksson andrà a Londra, Mancini per un po' a Leicester, ancora da calciatore, e poi di nuovo in Italia, a Firenze, allenatore stavolta per davvero. "Mancio?" ha detto Eriksson, qualche tempo fa, "l'ho sopportato nove anni, ma lui vedeva cose che gli altri non vedevano. Insieme parlavamo sempre e solo di calcio. Allenava già, quando ancora era calciatore".

Da goal.com il 28 aprile 2020. Alessandro Nesta si è guadagnato un posto tra i migliori difensori italiani di ogni tempo. Diventato giovanissimo un pilastro della Lazio, con il Milan poi si è consacrato ad altissimi livelli vincendo tutto ciò che si più vincere.

Nesta oggi allena il Frosinone in Serie B, ma in una diretta Instagram con l’ex compagno di squadra e di Nazionale, Christian Vieri, ha ammesso che è stato traumatico l’addio al calcio giocato.

“Io sono stato malissimo, dopo sei mesi sono andato in crisi, mia moglie non ce la faceva più. Dopo due anni mi chiama Materazzi per andare in India, ho preparato subito la valigia. Ora allenando ho il modo di sfogarmi, però giocare è giocare. Siamo allenatori, ma nasciamo giocatori. Se giochi fai solo ciò che ti piace, se alleni devi spendere energie anche per tante altre cose, ma comunque è bellissimo. A Frosinone ho una squadra forte, speriamo adesso di ripartire per provare ad andare in Serie A”.

Nesta è sempre stato tifoso della Lazio, ma nel 2002 ha dovuto lasciarla quando era in enormi difficoltà finanziarie per trasferirsi al Milan.

“Giocare per tutta la carriera alla Lazio? All’epoca non sarei mai andato via, ma poi per quello che sono riuscito a fare al Milan mi è andata alla grande. Ricordo che due anni prima giocammo una partita con il Real Madrid e Hierro mi disse Devi venire al Real, ma io gli dissi No, sono alla Lazio. Il Milan mi ha permesso di impormi a grandi livelli. Gli anni alla Lazio sono stati bellissimi, ma l’ultimo è stato durissimo. Ero il capitano ed anche ero nel consiglio di amministrazione e andavo alle riunioni per vedere il bilancio, ma non ci capivo nulla. Era diventato tutto troppo stressante, i compagni mi chiedevano degli stipendi ed io invidiavo gli stranieri perché vivevano la cosa per distacco. Il Milan è stata una liberazione, mi ha dato la possibilità di pensare solo al calcio”.

Nesta è stato tra i protagonisti della spedizione a Germania 2006, ma il suo Mondiale è finito presto a causa di un infortunio.

“Quel Mondiale non lo sento mio al 100%. Ho avuto la fortuna di giocare in grandi squadre e di vincere, ma quando l’ho fatto ho sempre giocato le partite vere, quindi sento di più altre vittorie. Al mondiale ho fatto due partite, quelle vere, quelle più emozionanti sono sono state le ultime contro Germania e Francia”.

L’attuale tecnico del Frosinone, ha ammesso che farebbe volentieri un’esperienza all’estero.

“Ho già allenato a Miami, sono stati anni stupendi. Avevo i cubani che erano scappati da Cuba, i provini erano uno spettacolo: pagavano 150 dollari per farsi vedere, venivano giocatori con la pancia e anche sessantenni. Lì in un anno e mezzo si fa lo stadio e si inizia, è tutto un altro mondo rispetto all’Italia dove è tutto più difficile”.

Tra tanti trionfi, anche qualche cocente delusione da calciatore.

“Le partite che hanno lasciato il ricordo più brutto sono tre: un derby nel quale feci danni e da romano questa cosa ti fa soffrire. La finale di Euro 2000 contro la Francia mi ha tolto il sonno per mesi e poi c’è ovviamente la sconfitta di Istanbul. Eravamo avanti 3-0, sono sicuro che domattina quando mi alzerò ci penserò ancora”.

Dino Zoff, allenatore, presidente e uomo record: nessuno come lui sulla panchina della Lazio. Silvio Governi su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Ancora oggi l'ex portiere dell'Italia campione del mondo nell'82 detiene il primato di presenze da allenatore biancoceleste: 202 alla guida della squadra. "È il 90°, perdiamo 3 a 2. Punizione per noi. Decido di andare nell'area italiana. Arriva il cross e vedo che il pallone viene verso di me. Lo colpisco proprio bene, al centro della fronte, con forza, verso la porta avversaria. Per noi è gol. La torcida scatta in piedi, è fatta. Ma vedo gli italiani urlare e protestare. Poi, da terra, riemerge il portiere col pallone in mano che urla 'No! No!' . L'arbitro gli dà ragione. Non era gol, lo ammetto. Cinque centimetri più in là, solo cinque, e avremmo pareggiato e la nostra generazione avrebbe avuto una vita diversa. Invece fu sconfitta: non solo quel giorno ma per sempre (...) Cinque centimetri e tutto sarebbe cambiato". A ricordare quel giorno è José Oscar Bernardi, meglio conosciuto, più semplicemente, come Oscar. E quel portiere che fermando la palla sulla linea di porta, come un Dio onnipotente, cambiò la vita di tante persone, si chiamava e si chiama Dino Zoff. Forse è questa, nell'immaginario collettivo, la fotografia fissata nel tempo che meglio lo racconta. E in quella parata in cui, per un attimo, la palla sembra inesorabilmente andare oltre la linea di porta prima di essere bloccata, ci siamo tutti noi che amiamo il Calcio anche solo per una notte, uniti e racchiusi in quelle dita che arrestano una sfera prima che percorra altri cinque centimetri. Una mano capace, con quella parata, di fermare il tempo per sempre. Da quel momento nulla fu più come prima. Non lo fu per noi italiani vincitori e trionfanti e non lo fu per i brasiliani disperati e sconfitti. Due popoli uniti nel destino da un solo uomo, da un unico gesto che ha elargito gioia e disperazione, paradiso e inferno, vita e morte. Si dice che nell'esistenza di ogni Uomo ci siano momenti irripetibili che sono degli spartiacque, dei veri e propri sliding doors che fanno la differenza, cambiando la direzione della propria vita e, senza dubbio, questo è uno di quelli che ha dato alla carriera sportiva di Dino Zoff, un alone di leggenda. Perché che altro è se non un mito, un eroe silenzioso? Già, silenzioso come solo pochi sanno esserlo. Un silenzio eloquente che dice tutto, capace di arrivare dove mille parole non potrebbero mai. Zoff, pur essendo stato l'anti divo e la cosa più lontana da un eroe o da un prode combattente, è stato definito SuperDino, quasi un eroe suo malgrado. E il suo essere un uomo timido, schivo, un po' freddo, probabilmente gli derivava da quella terra, il Friuli, dove è nato e cresciuto. I suoi genitori erano persone semplici, degli agricoltori che si spaccavano la schiena nei campi. Per cui, il giovane Dino, conobbe fin da bambino, il concetto del guadagnarsi e sudarsi il pane. Certo, come tutti gli adolescenti di ogni generazione sognava di diventare un astronauta o un grande calciatore, ma i suoi sogni, le sue aspirazioni, senza tante frenesie, avevano delle radici solide ben piantate a terra, perché bastava guardare la vita umile di suo padre e sua madre per non fare troppi voli con la testa. Forse fu per questo che scelse di fare il portiere. In fin dei conti, la figura del portiere rispecchiava quel suo carattere discreto, riservato, mite, taciturno. È un ruolo che gli assomiglia, dicevano tutti. Chi sceglie di fare il portiere sa di avere delle grandi responsabilità nell'esito di una partita. E Dino non è mai stato il tipo che si sottrae alle responsabilità. Qualcuno ha parlato della solitudine dei numeri primi che potrebbe spiegare perfettamente la condizione in cui vive l'estremo difensore e che accomuna i "numeri uno". E quella solitudine è la stessa di un mito del ciclismo, il Campionissimo Fausto Coppi che Dino ha sempre ammirato. La solitudine di quando scalava le montagne con la sola forza delle proprie gambe simili a quelle di un airone, lasciando un indicibile e quieto vuoto dietro di sé. Ogni mattina, quando era solo un ragazzo, inforcava la sua bicicletta pensando al suo mito e andava a lavorare in un'officina. Aggiustava le auto per portare i soldi a casa e gli riusciva piuttosto bene. Chissà, forse se non avesse fatto il portiere sarebbe diventato un grande ciclista come il suo Fausto. Una cosa è certa, Dino Zoff era un predestinato. Fare il portiere è quello che Dino ha sempre sognato fin da quando aveva cinque anni. Racconta, infatti, che i grandi lo facevano giocare con lui perché ci sapeva fare, anche se non aveva un fisico prestante come dovrebbe avere un portiere che si rispetti. Sua nonna l'obbligava a mangiare otto uova al giorno per crescere forte e robusto. E siccome era molto timido, ogni tanto lo schernivano tirandogli sempre dal lato in cui c'era più fango. "Perché c'era tanto fango, dove giocavamo noi", racconta Dino con una punta di orgoglio come a voler sottolineare che ora tutto è cambiato e che quasi non ci si sporca più nenache nei campetti di periferia. E mentre andava a bottega, come si usava dire allora, riusciva a trovare anche il tempo di allenarsi e farsi prendere nella sua prima squadra giovanile, quella del suo piccolo paese, la Marianese. Prima di esordire in serie A a soli diciannove anni con la maglia dell'Udinese, prendendo ben cinque goal dalla Fiorentina, ci fu anche il tempo di essere scartato in un provino nel '58 da un certo Meazza e dagli osservatori di Inter e Juve. Che scherzo del destino! Troppo gracilino, avranno pensato, non può ricoprire quel ruolo. Le uova della nonna non hanno funzionato, avrà invece pensato lui. Ma Dino non si abbatte e dopo quattro stagioni al Mantova, alla mezzanotte dell'ultimo giorno di mercato, viene acquistato dal Napoli. Evidentemente era scritto che Dino sarebbe diventato un grande calciatore. Certo, con l'accostamento di due opposti, il suo modo di essere così chiuso, riservato, riflessivo, accanto alla tifoseria partenopea, da sempre molto calda, partecipe e chiassosa, sembrava si fosse creato un perfetto e curioso ossimoro. All'età di trenta anni arriva la consacrazione. Qualcuno si accorge di quel portiere che dà sicurezza alla squadra, molto diverso da quelli che amano il gesto spettacolare a uso e consumo delle platee urlanti. "Alla teatralità del tuffo ad angelo cercavo di supplire con il piazzamento. Non come certi esteti che amano più la foto della parata", raccontò un giorno Dino. E quel qualcuno si chiamava, a quell'epoca, la Vecchia Signora. E anche questo, ineluttabilmente, era scritto da qualche parte. La Juventus lo acquistò e lui, seppur non più giovanissimo, ebbe la possibilità di giocare con calciatori che si chiamavano Bettega, Altafini e Capello, solo per citarne alcuni. Rimase alla Juventus per undici stagioni, finendo la sua carriera. Con la maglia bianconera vinse quasi tutto (tranne la Coppa dei Campioni, perdendo due finali) e quell'uomo taciturno, un po' introverso e chiuso come ce ne sono tanti su al nord, divenne leggenda. E fu così che, come ogni leggenda che si rispetti, iniziò a inanellare un record dopo l'altro. Dino Zoff fu colui che rimase imbattuto con la Nazionale per 1.142 minuti. In campionato, stagione '72-'73, non prese goal per ben 903'. Un record rimasto imbattuto per dieci lunghi anni. Unico giocatore italiano ad aver vinto con la Nazionale sia un Europeo che un Mondiale. Vincitore più anziano del Campionato del Mondo, 40 primavere sulle spalle. Per lungo tempo è stato il giocatore con più presenze in serie A, 570, e in Nazionale, 112. In undici stagioni alla Juve non ha mai saltato una sola partita di campionato. Proprio come un Super-eroe, un Highlander, uno di quelli che, quando non ci saranno più ci chiederemo, con una certa aria stupita: ma non era immortale? Il 2 giugno del 1983, quando un'altra vecchia signora, la Repubblica Italiana, compì 37 anni, poco meno del Dino nazionale che ne aveva 41, il calcio giocato vide il suo addio. Ricordando quel giorno, è famosa la sua frase: "Smetto perché non posso parare anche l'età". Insomma, fu così che, quell'uomo divenuto leggenda, quello che fermò la palla sulla linea di porta prima che la oltrepassasse di altri cinque centimetri che sarebbero stati fatali, quello raffigurato su di un froncobollo commemorativo mentre alza la Coppa del Mondo al cielo, quello che giocò a carte in aereo con il presidente più amato dagli italiani, Sandro Pertini, diventando un'icona, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo iniziando a vivere la sua seconda vita sportiva come allenatore, un bel giorno, era il 1990, approda alla S.S. Lazio. Fu Calleri prima e Cragnotti poi ad affidargli la panchina. Al terzo anno riuscì, dopo quindici lunghi anni, a riportare la Lazio in Europa. Grazie anche al George Best laziale, l'incredibile e amato Paul Gascoigne che Zoff definì genio e disperazione. "Sembrava un jazzista, aveva un talento sconfinato, unito a un'ansia di autodistruzione. Un grandissimo artista che ha disperso la sua arte". Dal '94 al '98 ricoprì perfino la carica presidenziale. Evidentemente anche questo era parte di un destino che ha legato la prima squadra della capitale ad un uomo leggendario. Nel 2001, dopo aver guidato, l'anno prima, la Nazionale italiana portandola in finale agli Europei e perdendo con la Francia grazie a un maledetto golden goal di Trezeguet, ritorna alla Lazio, ormai diventata casa sua, subentrando al dimissionario Eriksson. Fin qui la cronaca. Ma SuperDino, ha voluto lasciare un segno anche dalle nostre parti, diventando, con 202 panchine, l'allenatore con il maggior numero di presenze in competizioni ufficiali alla guida della Lazio. E ci piace pensare che in quella parata ormai memorabile sulla linea di porta, in quella iconica partita a carte in aereo, ma soprattutto in quella carezza a Bearzot dopo il trionfo al Mondiale contro la Germania, ci sia un po' di ognuno di noi laziali, quella parte mite, garbata, gentile e signorile come è lui, il nostro SuperDino, l'eroe silenzioso che, con quella parata consegnata alla storia sembrava dire a tutto il mondo: "No, non è entrata, l'ho parata io... perché oggi, signori, si fa la Storia". Grazie Dino, per aver indossato, seppur idealmente, i colori della nostra amata Lazio.

"Lulic '71" e la Coppa Italia del 2013: la Lazio vince la finale delle finali. Stefano Fiori su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Al settantunesimo minuto della finalissima contro la Roma, il goal del bosniaco che decide il derby più importante di sempre. Un giorno indimenticabile per ogni tifoso biancoceleste. Il 26 maggio 2013 comincia il 9 settembre 2011. Al 79’ di un Milan-Lazio spettacolare, un 2-2 firmato da Klose, Cissé, Ibrahimovic e Cassano. A undici minuti dalla fine, Edy Reja fa esordire in Serie A un 25enne pressoché sconosciuto. E che non impatta benissimo con il campionato italiano: un pallone controllato maldestramente, quando il campo è ormai finito, fa dubitare in molti sulle qualità intraviste in lui dal ds Tare. Quel ragazzotto si chiama Senad Lulic, è nato in Bosnia-Erzegovina ed è cresciuto calcisticamente in Svizzera. Nessun tifoso laziale, in quel 9 settembre 2011, avrebbe mai puntato un centesimo sul fatto che, 625 giorni più tardi, sarebbe stato proprio lui a decidere il derby più pesante della storia del calcio capitolino. Pesante in tutte le accezioni possibili: il primo a mettere un trofeo in palio, con allegata la qualificazione all’Europa League successiva. Pesante soprattutto per l’attesa, infinita, smisurata e inedita, anche per i veterani che di stracittadine storiche ne avevano vissute in abbondanza. Già l’approdo a quella finale era stato un travaglio per entrambe le sponde del Tevere: la Lazio aveva eliminato la Juventus in semifinale il 29 gennaio, la Roma avrebbe fatto lo stesso con l’Inter solamente il 17 aprile. Quasi tre mesi di limbo, in cui tanti – su entrambe le sponde del Tevere – speravano che l’imponderabile potesse essere evitato: sfidare in un duello secco, senz’appello, i rivali di un’eternità. Gli stessi che, il 27 maggio 2013, saresti stato “costretto” a rivedere a casa, al bar, in ufficio, in officina, all’edicola. O, in maniera ancora più sfibrante, in campo per il solito calcetto settimanale, pronti a esibire la maglia dei vincitori e mimare l’azione del gol decisivo. In quel 17 aprile, però, la Roma avrebbe espugnato San Siro: l’imponderabile era ufficialmente realtà. Lungo il percorso della Lazio in quella Coppa Italia, di eventi romanzeschi ne erano già accaduti numerosi: il pareggio al 95’ di Ciani agli ottavi contro il Siena e i rigori parati dalla meteora Carrizo, ma soprattutto l’inzuccata di Floccari al minuto 93 nella semifinale di ritorno contro la Juve di Antonio Conte. Già questo sarebbe bastato per ricordare quell’edizione come una cavalcata rocambolesca ed epica. Invece no, il fato si era riservato l’ultimo, clamoroso colpo di scena: dopo quasi 84 anni dalla prima stracittadina (8 dicembre 1929), biancocelesti e giallorossi si sarebbero contesi un trofeo. Per la squadra di Vladimir Petkovic, altro nome sconosciuto pescato in Svizzera dalla Lazio, la Coppa Italia avrebbe rappresentato già di per sé la rivincita per un campionato anomalo: sorprendentemente seconda fino alla 21ª giornata, la formazione biancoceleste era poi scivolata fino al settimo posto, fuori dalla zona europea. Impossibile fallire l’appuntamento con la finale, figuriamoci contro la Roma. Da qui l’idea di blindare la squadra lontano dall’ansia ingestibile della Capitale: tutti in ritiro a Norcia, è l’ordine di Lotito. E con un mental coach come “braccio destro” di Petkovic, che aiutasse i calciatori a focalizzarsi sull’obiettivo senza lasciarsi travolgere dalle aspettative. Di là, una Roma che aveva creduto in un nuovo sogno Zeman e che invece si avvicinava all’appuntamento più importante con un traghettatore in panchina – Aurelio Andreazzoli, che del boemo era stato collaboratore tecnico – e affidandosi in tutto e per tutto ai due simboli Totti e De Rossi. In casa Lazio, le speranze erano riposte in Klose, la stella della squadra. Ma anche in Hernanes e Candreva, pilastri insostituibili del centrocampo. O, perché no, in capitan Mauri, che Petkovic avrebbe deciso di inserire solamente nel secondo tempo. Proprio quella si sarebbe rivelata la mossa più azzeccata della sua carriera. È il minuto 71, quando Mauri serve sul lato destro dell’area Candreva, arrivato alla Lazio “scontando” la nomea di tifoso romanista ma poi amatissimo dalla piazza biancoceleste. Il centrocampista di Tor de’ Cenci alza la testa e scarica un cross deviato da Lobont: il tocco del portiere giallorosso manda fuori tempo Marquinhos, ma non lui, quel ragazzotto timido e un po’ impacciato di San Siro. Quell’esterno di piede destro, che però gioca a sinistra e si è ormai fatto apprezzare anche nel campionato italiano. Ma che nessuno avrebbe mai immaginato lì, in quel momento, su quella zolla esatta del terreno dell’Olimpico. Il calcio al pallone è sbilenco, la postura quasi innaturale: la deviazione di Lobont ha sbilanciato anche lui, non tanto però da impedirgli di mandare il pallone in porta. Le ore 19:27 del 26 maggio 2013 consegnano Senad Lulic alla storia del calcio biancoceleste e capitolino. Insieme a lui, anche un numero: il 71, il minuto del suo gol, che diventa il simbolo della vittoria laziale. La delusione di Francesco Totti al termine della finaleDa quel giorno, per i tifosi laziali, l’accoppiata “Lulic 71” è una frase di senso compiuto anche in assenza del verbo. Ed è il contenitore di tutti gli altri sfottò coniati alla velocità della luce: la Coppa Italia si trasforma nella “coppanfaccia” tutt’attaccato, “Non c’è rivincita” e “Quanno ve passa” le carte da giocare per zittire ogni tentativo di replica romanista. E pazienza se la sbornia per quella vittoria avrebbe poi condizionato la stagione successiva, con Petkovic esonerato e la Lazio fuori dall’Europa. Oppure se la nuova Roma di Rudi Garcia avrebbe poi vinto il primo derby post-26 maggio: per il popolo laziale, tutti episodi contingenti, interlocutori e minuscoli di fronte all’aver alzato un trofeo davanti agli eterni rivali. E tutto grazie a Lulic e al suo destro, lo stesso che, lo scorso 22 dicembre, ha segnato alla Juventus in Supercoppa. Da Lulic 71 a Lulic 73, appena due minuti dopo. Ma questa è un’altra storia.

Salas, un matador nella Lazio che trionfa in Europa e batte lo United degli "invincibili". Gianluca Cutrì su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Del centravanti cileno il gol che decide la Supercoppa Europea contro il Manchester United. E' il 1999 quando la Lazio conquista la sfida con gli inglesi dopo aver trionfato nella Coppa delle Coppe tre mesi prima. E Ferguson disse: "Abbiamo perso contro la squadra più forte del mondo". Un conto è parlare dei tori, un altro è entrare nell'arena, solo lì potrai capire se sei preda o 'Matador', se la paura di un avversario pesante ed assetato di sangue ti paralizzerà, ti bloccherà le gambe, oppure ti renderà fulmineo e spietato nel colpire. Quella sera di agosto del 1999 allo Stadio Louis II di Monaco la Lazio incrociò quella che era all’epoca la squadra più quotata in Europa e che infatti aveva appena vinto la Champions League oltre al proprio campionato ed alla coppa di lega. Il Manchester degli invincibili. Lo fece sfoggiando una partita accorta e di grande intensità, lo fece opponendo ad una formazione istintivamente sbilanciata in avanti una compattezza ed una maturità tattica che obbligò Sir Alex Ferguson a dichiarare a fine partita: "Abbiamo perso contro la squadra più forte del mondo". Lo fece giocando con furbizia e consapevolezza della forza di chi aveva di fronte, lo fece giocando come il 'gatto con il toro'. Eriksson decise infatti di mandare in campo una squadra compatta con il solo Simone Inzaghi come attaccante di ruolo per fronteggiare la formazione inglese che invece si schiera con tre punte. Il 4-5-1 laziale è un modulo classico per quell’undici e certamente il più testato dal mister che decide di conseguenza di presentarlo anche per affrontare il grande United. Marchegiani, Negro, Nesta, Mihajlovic, Pancaro, Nedved, Almeyda, Veron, Stankovic, Inzaghi, Mancini, una squadra orfana di Vieri ceduto in estate all’Inter, un gruppo che rispetto alla finale di Coppa delle Coppe vinta con il Maiorca appena tre mesi prima si ritrova ad affrontare gli inglesi senza il suo centravanti ma con una consapevolezza diversa rispetto a quella partita. La finale di coppa delle coppe si rivelò per i biancocelesti un vero e proprio spartiacque tra la “lazietta” degli anni ottanta e lo squadrone che vincerà la supercoppa europea e l’anno successivo il suo secondo scudetto. La notte del Villa park certificò la crescita di quel gruppo che riuscì dove fino ad allora nessuna delle Lazio precedenti era mai arrivata; vincere un trofeo europeo e soprattutto farlo esprimendo una forza mentale da grandissima squadra. Vinse riuscendo ad eliminare in soli tre giorni le tossine e le inevitabili sensazioni negative che la perdita di uno scudetto praticamente vinto le aveva lasciato. Contro il Maiorca la Lazio ebbe la forza di contrastare quello che sembrava un destino avverso e di poggiare le basi per la grande squadra che si presentò di fronte al Manchester United con quelle certezze che fino ad allora erano mancate ai biancocelesti. La prima azione è dei rossi all’undicesimo quando Marchegiani è bravo ad anticipare Sheringham, due minuti dopo Mihajlovic su punizione spaventa Van Der Gouw. Al 18’ Stam colpisce Simone Inzaghi al volto con una gomitata che lo costringerà da lì a poco a chiedere il cambio. L’uomo del destino come spesso accade entra in campo casualmente, subentrando ad un compagno infortunato, è il 23’ del primo tempo e la partita sarà decisa da lui dopo 12 minuti esatti. Pancaro lancia per Mancini che al limite dell’area e spalle alla porta non può fare altro che poggiare di testa verso il centro dove, all’interno della lunetta Marcelo Salas si ingobbisce innaturalmente per controllare il pallone di petto e prepararlo per il tiro. Il cileno è colpevolmente marcato largo dai suoi avversari diretti che gli concedono quel metro abbondante che gli permetterà di impattare la sfera di esterno sinistro prima che la stessa ricada in terra. Il tocco non è forte ma la rapidità d’esecuzione è tale che il portiere pur intuendo e toccando la palla non potrà far altro che andarla a raccogliere in fondo alla rete. Lo United accusa il colpo e chiude il primo tempo senza riuscire ad impensierire la squadra capitolina che anche nella ripresa gestisce con ordine e sapienza tattica la partita sfiorando il raddoppio in almeno un paio d’occasioni con Mancini e lo stesso Salas. Un'azione di gioco di Lazio-Manchester United, finale di Supercoppa EuropeaFerguson nel secondo tempo opera due cambi che ai più sembreranno quantomeno singolari. Escono Stam e Beckham ed entrano al loro posto Curtis e Cruijff. Due tra i migliori sostituiti da due riserve, provando a bissare la rimonta centrata contro il Bayern di Monaco tre mesi prima quando i subentrati contribuirono a ribaltare una partita che a pochi minuti dalla fine sembrava segnata. Stavolta la mossa della disperazione non genera i frutti sperati e la partita si conclude con la Lazio meritatamente vincente e con il grande Manchester “Matato” da Salas, un piccolo gatto sornione che quasi spariva al fianco dei giganti della difesa Inglese. Quella straordinaria sera è avvolta da un alone di magia per ogni tifoso della Lazio, accompagnata da una meravigliosa melodia di Lucio Dalla:

Si muove la città

Con le piazze e i giardini e la gente nei bar

Galleggia e se ne va

Anche senza corrente camminerà

Ma questa sera vola

Le sue vele sulle case sono mille lenzuola

È la notte dei miracoli fai attenzione

Qualcuno nei vicoli di Roma

Ha scritto una canzone

Lontano una luce diventa sempre più grande

Nella notte che sta per finire

E la nave che fa ritorno

Per portarci a dormire.

Buonanotte Lazio e benvenuta tra i grandi.

Re Cecconi, favola triste di un calciatore che sembrava impossibile da fermare. Massimiliano Governi su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Quella domenica ci ritrovammo all’Olimpico con un collega della Rai di mio padre e suo figlio. Era il campionato '72-'73, la quarta o quinta partita in casa del girone di ritorno, poteva essere marzo o al massimo aprile. Avevo dieci anni compiuti. Il figlio del collega della Rai, qualche anno in meno. Durante il tragitto in macchina per andare allo stadio fui avvertito che non avremmo visto la partita da soli, e mi innervosii. Ero abituato a sedermi da sempre nello stesso posto, accanto a mio padre, a concentrarmi, senza distrazioni. E invece ricordo quella partita come un vero inferno, a tal punto che non sono sicuro nemmeno con chi giocammo, se contro l’Atalanta o la Sampdoria. Il ragazzino si chiamava Gianni Molina, suo padre Marcello, era un collaboratore esterno dell’azienda e si occupava di programmi radiofonici jazz. Per Gianni era la prima volta allo stadio, non aveva mai visto una partita in Tv in vita sua, né tantomeno aveva giocato una sola volta a calcio. Abitava ai Parioli, “a Via Eleonora Duse 47”, così mi disse lui, quando si presentò. Il padre era un signore molto serio, la giacca e la cravatta sotto il cappotto, si era portato un cuscino turchese e l’aveva sistemato sul seggiolino; aveva un posto fisso nel settore dei Grandi Invalidi, ma stavolta, d’accordo con la moglie, per non impressionare suo figlio, decise di assistere alla partita con noi, poco più su, tribuna Monte Mario centrale. “Gianni è un tipo sensibile, da grande vuole fare lo scrittore, e lì sotto ci sono tutte persone mutilate dalla guerra” disse l’uomo a mio padre. “Hanno i moncherini al posto delle mani e dei piedi”, aggiunse Gianni. La partita cominciò e il ragazzino partì subito con le sue domande strambe. “Quello che ha centrato l’alberello ha fatto goal?” Il padre quindi gli spiegò con pazienza che nessuno aveva fatto goal, e che quello non era un albero, ma la bandierina del calcio d’angolo. “I giocatori devono infilare quella sfera nel rettangolo di legno sul prato. Lo vedi quel rettangolo?” Allungò il dito verso la porta avversaria, ma lui guardava per aria. Provò a orientare con la mano la sua nuca, verso il basso, però lui restava rigido con il collo e così l’uomo ci rinunciò e si mise a seguire la partita. I tifosi intorno a noi intanto gridavano cose orribili, frasi violentissime e minacciose, dalle due curve partivano colpi, scoppi di petardi, fumogeni neri. Lui si era rattrappito, con la testa incassata tra le spalle, forse aveva freddo o era intimorito. Il padre se ne accorse e intervenne: “Guarda Giannino, quell’omino nero è l’arbitro, colui che garantisce il rispetto del regolamento e convalida il risultato finale”. Per un po’ il ragazzino si calmò e la piantò di tormentarci, la Lazio fece anche un gol e lui fu l’unico a rimanere seduto, a non esultare. Il padre in piedi e con le braccia alzate gli urlò che aveva segnato la nostra ala di riserva, “il Sivori di Messina”. Ma lui non si scompose. Finché non adocchiò uno dei compagni di squadra che stava saltando e festeggiando la rete, il biondo, quello con il numero otto sulla maglia, finora gli era sfuggito. “Chi è quello lì, papà? È un calciatore bellissimo!” esclamò, e il padre disse che era una delle più forti mezze ali italiane, uno che correva per tutta la partita fino a sputare l’anima e a farsi scoppiare la milza. “Non è che muore?” chiese dopo qualche istante Gianni e l’uomo, concentrato su una pericolosa azione nella nostra area di rigore, lo liquidò in fretta: “No, non muore, stai buono, Giannino”. Poi i nostri avversari pareggiarono e dalle curve ripartì il finimondo: botti, spari, colonne di fumo scuro. Gianni ora fissava intenso il campo e a un certo punto vidi che tirava suo padre per la manica del cappotto: “Qualcuno forse potrebbe ucciderlo?” disse con un tono di voce preoccupato, ma stavolta l’uomo infastidito non gli rispose, decidendo di ignorarlo. Allora lui si voltò verso di me, e mi ripeté la stessa folle domanda. Non sapevo che fare, non ne potevo davvero più. Gli spiegai che quella non era una guerra, e non si trattava di uccidere nemici o cose simili, che alla fine dell’incontro non ci sarebbero stati morti, al limite qualche ferito, per dei falli di gioco, tutto lì. Lui mi ascoltò attentamente, poi mi informò che suo padre era stato colpito da una scheggia di granata a mano al gluteo destro, o sinistro, non ricordava. Annuii, e tentai di concentrarmi sul campo, ma tempo qualche minuto e lui tornò alla carica: “Ehi bambino. Quindi mi assicuri che non gli sparano?” Non riuscii a trattenermi e lo agguantai per il bavero del loden blu con gli alamari e gli sussurrai nell’orecchio: “Senti, cretino, nessuno sparerà mai a quell’uomo biondo, il nostro numero otto, smettila di dire queste scemenze e fammi godere il resto della partita, va bene?”, e lui allora sembrò tranquillizzarsi, la smise di rompere con quelle assurdità e si azzittì, prese a guardare le nuvole sfrangiate o alcuni punti indefiniti nel cielo.

Nota. Il biondo, il nostro numero otto, Luciano Re Cecconi, in quella domenica di marzo (la partita era Lazio-Atalanta, ho controllato), segnò il gol della vittoria con un tiro da venti metri. Gianni Molina ricordo che non esultò nemmeno in quel caso, ma per il resto del tempo che mancava (circa 24 minuti, ho controllato anche questo), continuò sereno a osservare il cielo o non so che con il capo reclinato all’indietro.

In viaggio con Franco Nanni, ricordi di una Lazio romantica e vincente. Gianluca Cutrì su La Repubblica l'8 gennaio 2020. Da Roma a Milano e ritorno per una partita tra vecchie glorie giocata come fosse ancora il campionato del '74. Arrivo in macchina e lo vedo. E' appoggiato ad un muro della stazione e sfoglia velocemente il Corriere dello Sport. Ci incontriamo per la prima volta ma lo riconosco immediatamente. Parcheggio, scendo e cammino nella sua direzione, non mi conosce, sono a circa quindici metri da lui quando alza lo sguardo verso di me che continuo ad andargli incontro deciso. Mi guarda, io gli sorrido e capisce. "Ma non si doveva partire alle nove?" chiede con il suo inconfondibile toscano romanizzato. Ho in mano il cellulare, guardo l’ora, sono le otto e quarantasette. Il viso è rude e abbronzato, sicuramente passa ancora diverso tempo sul campo, la stretta di mano è decisa, l’abbigliamento non ricercato, è evidente che non bada molto alla forma, almeno in questo ci somigliamo. Lui è Franco Nanni, classe ’48, campione d’Italia 1974, centrocampista titolare di una delle squadre più folli che calcarono i campi della serie A. Un manipolo di pazzi che riuscì nell’impresa di buttare il cuore, lo stomaco e le sue mille contraddizioni oltre l’ostacolo. Un mediamo abbastanza tecnico per gli standard del tempo, Nanni iniziò nelle giovanili della Juventus come esterno e successivamente venne prelevato dalla Lazio dove restò sei anni. Rimase nel cuore e negli occhi della gente laziale per la sua tigna e per un gol decisivo in un derby, vinto appunto uno a zero, dove calciando da lunga distanza mise la palla decisiva all’incrocio dei pali. Partiamo da Roma destinazione Milano dove parteciperemo a una festa-raduno in cui troveremo calciatori della Lazio di diversi periodi storici.  Questa è la settima edizione ma sia io che lui andiamo per la prima volta. E’ un tipo molto loquace e questa è una piacevole sorpresa, non dovremo chiedergli niente, non sarà necessario, a breve diventerà un fiume in piena ed io resterò rapito dai suoi racconti di vecchie ed epiche partite, alcune delle quali impresse in maniera indelebile nei miei ricordi di bambino e altre lette o sentite raccontare da mio padre. Viaggiamo in tre, in macchina con noi c’è anche Maria Paola Felici, speaker radiofonica e grande laziale. Nanni racconta e noi lo ascoltiamo assetati: i retroscena delle partite decisive, i rapporti con gli altri calciatori, i momenti incancellabili delle vittorie, i volti, le immagini, le voci distanti ma sempre presenti. Storie raccontate decine di volte, stralci di una parte di vita indimenticabile, momenti che lo hanno consacrato insieme agli altri “ragazzi” nella leggenda, che lo hanno reso immortale nell’immaginario di noi laziali DOC, foto lontane ma mai sbiadite, mai completamente dimenticate, foto messe in un cassetto che periodicamente pretende di essere riaperto. Franco non si sofferma soltanto sui racconti del campionato 73-74, quello vinto, i suoi demoni lo obbligano a raccontarci la sconfitta più cocente della sua carriera da calciatore. Evidentemente ancora non riesce a metabolizzarla nonostante siano passati più di quarant’anni e nonostante l’anno successivo quella squadra vinse il primo storico scudetto della sua storia. Siamo ormai all’altezza di Bologna ed Il cassetto che Franco Nanni ci invita a condividere con lui è quello relativo alla stagione 1972-1973. Un anno iniziato con l’obiettivo salvezza ma che poi incredibilmente si trasforma in un campionato giocato oltre ogni aspettativa, tanto che prima dell’ultima giornata la classifica mostra il Milan primo a 44 punti con la Juventus ed appunto la Lazio a seguire con 43 punti. Dopo un preambolo introduttivo la voce di Nanni diventa in qualche modo più profonda ed i suoi continui intercalare molto più vividi e dettagliati: “All’ultima il Milan avrebbe giocato in casa di un Verona senza stimoli, i rossoneri chiesero invano di poter posticipare la gara visto che il mercoledì precedente avevano giocato e vinto una combattuta finale di Coppa delle Coppe contro il Leeds. La Juventus sarebbe scesa in campo all’olimpico contro una Roma che chiaramente non aveva nessuna intenzione di farci un favore mentre noi eravamo attesi da una complicata trasferta in casa di un Napoli che aveva ancora il dente avvelenato a causa della partita d’andata che si era conclusa con un acceso diverbio tra Giorgio e Vavassori”. Nanni era seduto da solo al centro del sedile posteriore, Paola era voltata verso di lui, io lo guardavo dallo specchietto. “Che tipo di diverbio?” Chiese Paola.  Franco alzò gli occhi al cielo, credo che personalmente non condividesse: “E che tipo di diverbio? L’aveva preso a pugni”. Poi continuò: “ Venimmo accolti al San Paolo da bande di scalmanati che lanciò di tutto contro il nostro pullman, rompendo i vetri e ferendo anche il nostro autista. Eravamo un gruppo tosto e questo invece di intimorirci ci caricò ulteriormente.  In realtà eravamo pronti alla battaglia ma non pensavamo ci si presentasse l’occasione vincere la guerra.  Ricordo che prima dell’inizio delle gare nessuno di noi aveva molte aspettative riguardo l’esito della partita di Verona, invece alla fine del primo tempo ci trovammo proprio nella situazione che non avevamo neanche osato sperare. Vantaggio per tre a uno del Verona sul Milan e di uno a zero della Roma sulla Juventus, questi i risultati alla fine dei primi quarantacinque minuti, la nostra è una gara molto cattiva e nervosa che si chiude senza gol”. I ricordi riaffiorano, Franco ha una naturale predisposizione al racconto che il suo parlare schietto rende diretto e avvincente: “Ricordo che rientrammo negli spogliatoi abbastanza confusi, il primo tempo era stato duro ma la speranza era un toccasana per le nostre energie. Eravamo primi a pari punti con il Milan e vincendo li avremmo addirittura scavalcati e se la Juventus non avesse ribaltato la gara dell’olimpico…  Purtroppo non eravamo abituati a gestire situazioni del genere. La carica agonistica e l’adrenalina ci rendevano furiosi ma poco lucidi. Maestrelli faceva quello che poteva ma il nostro era uno spogliatoio a dir poco controverso, molto portato al fare cazzate.  Così che Wilson, uno dei più esperti, visti i risultati decise all’insaputa di Maestrelli di andare a parlare con i suoi ex compagni per cercare un accordo per ammorbidirli. Infatti si recò nello spogliatoio a parlare con il suo vecchio amico Juliano, che gli rivelò quello che avevamo previsto: “Spiacenti, siete arrivati secondi: qualcun altro ha già pensato a prometterci un premio se vi battiamo“. Giorgio come sempre tentò di caricarci: “ Non serve, nel secondo tempo gli rompiamo il c…“.  Era bravo a raccontare, le sue pause erano sceniche e le frasi ad effetto sicuramente un copione ormai imparato a memoria. A quel punto abbassò gli occhi solo per un’istante, oltre il quale proseguì: “Ma purtroppo non servì a niente. Come sempre la vecchia signora si era mossa in anticipo forte delle proprie amicizie e possibilità economiche, in seguito venimmo a sapere che oltre al Napoli aveva per così dire 'incentivato' anche il Verona e la Roma. Nel secondo tempo, mentre noi ci azzannavamo contro una squadra motivata, si concretizzò la 'minestra'. il Milan perse, la Juventus segnò due gol ad una Roma consenziente e noi venimmo battuti a pochi minuti dalla fine da un gol del giovane Damiani.  Quando l’arbitro fischiò la fine tutto lo stadio San Paolo urlava 'JUVE-JUVE' ”.  Giorgio era imbestialito e come sempre cadde nella provocazione rispondendo a chi lo fischiava mostrando il gesto delle corna”. Lo guardo e noto ancora che quando parla di alcuni atteggiamenti di “Giorgio” lo fa con un certo fastidio, infilandosi le labbra in bocca. “Del dopo partita ricordo poco, ero distrutto, tornai nello spogliatoio dove scaricai la tensione in un rabbioso pianto liberatorio.  Giorgio mi vide e mi ammonì: Non piangere, non dargli questa soddisfazione. Vedrai che un giorno ci vendicheremo, giuro che lo faremo". Stavolta no, stavolta ne parla sorridendo. “Alzai lo sguardo e lo guardai, era sconfitto ma incazzato come me. Aveva ragione lui, ci avevano ferito ma reso più forti e l’anno dopo lo avremmo dimostrato". Proprio a Napoli, nel 1974, la Lazio avrebbe strappato un 3-3 epico determinante per la conquista dello scudetto, con una tripletta di Chinaglia che trasformò i fischi del San Paolo in applausi a scena aperta. Gli occhi si accendono mentre racconta quest’epilogo, aver fatto parte di quella squadra è stato l’orgoglio della sua vita. Un gruppo di perdenti che non accettano la loro sorte ed hanno la tigna di sovvertirla anche solo per una volta. Il tifoso laziale li ha amati proprio perché si riconosceva pienamente in essi. Per entrambi è stata la prima, agognatissima volta e come tutte le prime volte non si scorderà mai. Giungiamo a Milano nel primo pomeriggio, una rapida sortita in albergo e poi ci dirigiamo al circolo sportivo dove si svolgerà l’evento. Il programma prevede un triangolare di calciotto nel tardo pomeriggio e successivamente una cena-rimpatriata. Appena arrivati Nanni incontra alcuni dei suoi vecchi compagni. Sono ragazzi di oltre sessant’anni che in alcuni casi non si vedono da tempo, magari distanti per spirito, carattere, tipo di vita condotta. Uomini diversi ma che hanno vissuto insieme un grande sogno e soprattutto che hanno combattuto insieme le stesse battaglie, che hanno lottato fianco al fianco per vincerle. Questo li terrà inevitabilmente uniti per sempre, è una cosa che appare lampante vedendoli abbracciarsi ed in seguito ascoltandoli raccontarsi i ricordi in comune o rinfacciarsi dopo quarant’anni una palla non data o un passaggio sbagliato. Sono bellissimi, un omaggio al romanticismo, un inno alla vita, il tempo di conoscerli e mi allontano, voglio lasciarli soli, mi sento decisamente di troppo. Finiti i convenevoli ci iniziamo a cambiare, Nanni è vicino a me ed inizia a farsi stranamente silenzioso, mi renderò conto da lì a poco che è entrato in clima partita e che non importa se l’incontro di cui parliamo è un’amichevole rimpatriata tra vecchie glorie, per lui è sempre e comunque una partita da giocare al meglio e possibilmente da vincere. Questa è la cosa che mi colpisce maggiormente di questo vecchio leone, non ammettere distrazioni o cali di tensione, mai. Nelle due piccole gare da trenta minuti che disputiamo riesce ad incazzarsi ed a pretendere il massimo anche da chi come me ha la soglia di quel “massimo” veramente bassa. E’ in una sorta di trance agonistica da cui non riesce a sottrarsi e che me lo rende se possibile ancora più simpatico. In campo riemerge tutta quella “rabbia” che nella vita di tutti i giorni non può esprimere, indossando i suoi scarpini torna a riempirsi di vitalità fino ad immaginare di esser tornato quello di un tempo, lo guardo e capisco tante cose. Ricordo quei momenti come un sogno, corro a vuoto per un ora toccando pochissimi palloni, la differenza tecnica e tattica è enorme ed evidente, all’inizio cercano di non farmelo pesare e mi passano anche qualche pallone, quando invece la partita entra nel vivo divento un fantasma, uno spettatore in campo; mi sento stupido ma felice. Intorno alle nove inizia la cena e le chiacchere con i ragazzi che hanno indossato la nostra maglia nei diversi periodi storici. Ogni volto mi ricorda una partita, ogni nome rievoca un pomeriggio allo stadio, ogni stretta di mano è una goccia che contribuisce ad alimentare la mia lazialità. Tornando in albergo Nanni mi chiede: "Partiamo presto domattina? Vorrei essere a Roma nel primo pomeriggio". Ho degli impegni anch’io: "Va benissimo, ci vediamo alle sette e trenta?". "Non esageriamo, va bene anche alle otto". Sorride. Per me è perfetto, la chiudo lì: "Ok, alle otto". La mattina esco dalla mia stanza per fare colazione alle sette e trenta, lui è seduto nella hall con la sua borsa, mi vede e mi comunica: "Sono qui da mezz’ora, ho già fatto colazione". Ieri mi avrebbe spiazzato, oggi neanche tanto: "Mangio una cosa, aspettiamo Paola e partiamo". "Fate con comodo" risponde. Iniziato il viaggio di ritorno ci rendiamo conto che l’ex calciatore è rimasto alla festa della sera prima e che in macchina con noi è salito l’uomo Nanni. Concreto, vero, disilluso ma ancora pieno di entusiasmo quando parla degli adolescenti che allena e che soprattutto tenta di formare caratterialmente, quando si rammarica per alcuni di loro che hanno buttato il loro talento, quando si incazza ancora per un derby giovanissimi perso anni prima, quando ci confessa la sua voglia di allenare e la certezza di poter dare ancora tanto, quando nonostante la malinconia lascia trasparire la sua voglia di non arrendersi mai. Siamo quasi arrivati quando ci confessa che gli piacerebbe scrivere un libro: "Se sapessi farlo - dice ironico - lo intitolerei: Franco Nanni, l’antiromanista". Mi volto e lo guardo, parla seriamente.

Sergio Cragnotti, dai colpi di mercato a Piazza Affari: "Così ho portato la Lazio sul tetto del mondo". Giulio Cardone su La Repubblica l'8 gennaio 2020. “Zoff era il nostro simbolo, rappresentava i valori di questa società. Vieri? Una mattina mi chiamò il direttore generale dell'Atletico Madrid, mi raggiunse con l'elicottero a Porto Santo Stefano e alle 20 dello stesso giorno era tutto fatto. Il mio amico Franco Sensi non la prese bene...La delusione più grande? Il mancato acquisto di Ronaldo. E Batistuta voleva la Lazio". Sergio Cragnotti è nato lo stesso giorno e mese della Lazio, il 9 gennaio. Forse era scritto che dovesse diventare il presidente più vincente della storia biancoceleste, con 7 trofei in quasi 11 anni, dal febbraio '92 al gennaio 2003. Rilevò il club da Gianmarco Calleri e da lì iniziò un'avventura che lui definisce “un lungo film emozionante e bellissimo, con tanti colpi di scena”.

Presidente, fu una trattativa complicata quella con Calleri per comprare la Lazio?

“No, fu una cosa improvvisata, sorprendente, mica studiata per chissà quanto tempo. Io all'epoca sul calcio ero agnostico, avevo altri progetti, fu mio fratello Giovanni, super tifoso laziale, a convincermi: fu la sua passione ad accelerare l'operazione”.

E subito si presentò con un certo Gascoigne.

“Al di là del suo talento, l'acquisto di Gazza rappresentò per la Lazio un salto di qualità dal punto di vista del marketing. Per la prima volta la maglia biancoceleste era presente negli store delle squadre inglesi, a partire dal Manchester United. Era la più venduta. Gascoigne rese la Lazio famosa nel mondo”.

Però gestirlo non fu proprio agevole.

“In effetti.... Un episodio lo sintetizza bene: dopo le vacanze estive, il nostro team manager Manzini andò a prenderlo all'aeroporto di Fiumicino, solo che non lo vedeva e allora preoccupatissimo chiamò Zoff: 'L'aereo è atterrato ma lui non c'è'. All'improvviso notò un tipo alquanto in carne seduto come un viaggiatore qualsiasi: era Gazza, diventato rotondo come una palla. Irriconoscibile. Arrivammo a inventarci dei bonus per farlo dimagrire: si pesava ogni settimana, e se aveva perso un chilo o due scattava il premio. Cose così, insomma”.

Ma sul campo era uno spettacolo...

“Ricordo quel gol di testa nel derby del campionato '92-'93: perdevamo 1-0, lui segnò nel finale l'1-1. Era eccezionale in tutto. Mi diverte ancora oggi pensare al rapporto tra Gascoigne e Zeman, personaggi opposti. Ma nessuno sapeva confortarlo come Zoff, nei suoi momenti di depressione. Gli piangeva sulla spalla: Mister, tu sei un grande e io no... ”.

A proposito di Zoff: con lei è stato allenatore, presidente, tutto.

“Era il simbolo della Lazio, rappresentava i valori di questa società. Io lo vedevo come figura di riferimento nella Fifa, doveva fare quella carriera lì, diventare un grande dirigente internazionale. Aveva l'immagine e la competenza adatte. Però lui preferiva il campo, mi diceva sempre che aveva bisogno di sentire il terreno di gioco sotto i piedi. Non era ambizioso, lo considero un limite per lui, ma il suo contributo nella Lazio è stato fondamentale”.

Dall'estate '92 al gennaio '98, quando andò via, Beppe Signori fu l'idolo dei tifosi laziali.

“Con lui iniziò l'escalation della mia Lazio verso i vertici del calcio italiano. Con Zeman formava un'accoppiata vincente. Fu un grande acquisto, diventò tre volte capocannoniere, segnava sempre. Mi dispiace che la sua storia con la Lazio sia finita male: ci furono delle incomprensioni con Mancini ed Eriksson e decise di andarsene. Il giorno della cessione, lasciò la sede di via Novaro da un'uscita secondaria, nascosto sotto una coperta nei sedili posteriori di un'auto: assurdo. Per quello che ha dato alla Lazio, meritava ben altro addio”.

In precedenza, nel giugno del '95, ci fu una sollevazione popolare perché lei aveva osato venderlo al Parma.

“Sì, l'operazione era conclusa ma successe un putiferio, migliaia di tifosi in strada, ho dovuto rinunciare. A Roma la piazza ha sempre tentato di condizionare le scelte della società. D'altronde va considerato che la tifoseria laziale era reduce da anni difficili, voleva godersi il campione e non era pronta per capire la mia strategia delle plusvalenze. Ora non si parla d'altro e le realizzano tutti i club, ma allora erano una novità assoluta. Cedendo grandi giocatori, io con le plusvalenze avevo un vantaggio sia dal punto di vista economico, del bilancio, sia da quello tecnico, per migliorare la squadra: perché poi i soldi venivano investiti per acquistare altri grandi giocatori. Come nel caso di Vieri...”.

Uno dei suoi colpi più importanti, nell'estate del '98.

“Allora le trattative non duravano sei mesi come adesso, con gli intermediari e il resto. Una mattina mi chiamò il direttore generale dell'Atletico Madrid, Miguel Angel Gil, il figlio del presidente, mi disse che avevano bisogno di vendere Vieri: 'Lo dico a te per primo: sei interessato?'. Io ero in vacanza, dissi di sì, mi raggiunse subito con l'elicottero a Porto Santo Stefano, trattammo sul mio yacht (il 'Florence', omaggio alla moglie Flora, ndr) e alle 20 dello stesso giorno era tutto fatto (per 50 miliardi di lire, più 7 netti all'anno all'attaccante, ndr). Il mio amico Franco Sensi non la prese bene...”.

Già, quella sera gli rovinò la presentazione della Roma all'Olimpico.

“Mi chiamò il giorno dopo con la voce affranta: 'Sergio, questa non me la dovevi proprio fare'. Ma non l'avevo assolutamente fatto apposta: non potevo immaginare che la notizia si sarebbe diffusa con quella velocità, pensavo sarebbe rimasta segreta fino al giorno dopo”.

Che duelli di mercato con la Roma, ai suoi tempi: su Stankovic vinse lei, Batistuta invece finì in giallorosso.

“Il centravanti della Fiorentina voleva venire da noi, era un pallino del ds Governato. Ma Sensi offrì una cifra altissima (70 miliardi di lire, ndr) e poi quell'anno vinse lo scudetto. Perché nel calcio funziona così: i grandi obiettivi si raggiungono solo con i grandi giocatori, altro che storie”.

Torniamo a Vieri. Appena un anno dopo il suo arrivo, fu ceduto all'Inter.

“Moratti mi offrì 90 miliardi. Alla trattativa partecipò Mancini (l'attuale ct azzurro visse l'estate '99 da dirigente, ndr), che mi diceva di chiederne 100: a me sembravano già tanti 90, mi vergognavo, chiudemmo a quella cifra. Settanta miliardi cash più Simeone valutato 20. Ma aveva ragione Roberto: Moratti sarebbe tranquillamente arrivato a 100”.

La delusione più cocente sul mercato?

“Ronaldo il Fenomeno. Io lavoravo da anni in Brasile, conoscevo tutto e tutti, per tanti mesi – quella volta sì – portammo avanti la trattativa con i procuratori: il fuoriclasse era praticamente preso quando arrivò Moratti e convinse Barcellona e agenti con cifre impossibili da contrastare. Peccato”.

Boksic invece, anni prima, lo soffiò alla concorrenza.

“Era l'estate del '93: io e Bendoni andammo da Tapie, presidente del Marsiglia, che era a Cala di Volpe e ci ospitò sul suo lussuosissimo yacht a 4 alberi. Chiudemmo l'affare in poche ore. Anche Alen era un personaggio difficile da gestire. Ricorda la notte di Dortmund?”.

Dica.

“Era la stagione '94-'95, stavamo giocando i quarti di Coppa Uefa con il Borussia. E lui a un certo punto uscì improvvisamente dal campo per andare al bagno. Tempo dopo, Signori mi raccontò che quella sera, prima della gara, Boksic gli aveva detto qualcosa tipo: 'Non mi va di giocare, non è serata'. Un'altra volta si arrabbiò pochi minuti prima di una partita perché sosteneva che la maglietta fosse troppo stretta. Era fatto così, Alen. Ma io lo amavo perdutamente: a Napoli vinse una partita da solo, una prestazione pazzesca. E in un contrasto ruppe il naso a Ferrara, uno tosto”.

Ciro Ferrara, altro giocatore che poteva diventare della Lazio.

“Sì, nel '94 stavamo per chiudere con gli agenti quando Zeman ci disse di bloccare tutto. Non era adatto al suo gioco a zona, scelse Chamot che aveva allenato a Foggia”.

Nell'estate '97, la svolta Eriksson-Mancini.

“Il ds Governato in realtà come allenatore voleva Ancelotti. Lo chiamammo, ma ci disse che lui, ex giallorosso, non si sentiva di passare dall'altra parte del Tevere, lo avrebbe vissuto come un tradimento. Allora puntammo su Eriksson e fu la nostra fortuna. Lui e Mancini cambiarono quella mentalità fatalista, molto provinciale, che c'era nella Lazio fino a quel momento. Sembrava che la scaramanzia contasse più del lavoro. Eriksson portò tutto il suo staff, tutti molto preparati e professionali. Comprammo mezza Sampdoria perché poi arrivarono Lombardo, Mihajlovic, Veron. Avevano una mentalità vincente che fece la differenza. Al di là delle doti tattiche, Sven era soprattutto un grande psicologo: aveva un rapporto speciale con i giocatori, sapeva capirli e parlare con loro anche nei momenti difficili”.

E Mancini?

“Decisivo nello spogliatoio, leader nato e persona molto intelligente. Quando smise di giocare, decise subito di diventare il vice di Eriksson. Non avevo dubbi sulla sua carriera di grande allenatore”.

Così nel 2000 arrivò lo scudetto.

“Ma lo avremmo meritato già l'anno prima: il titolo '98-'99 ci fu scippato dal Milan, fummo clamorosamente penalizzati dagli arbitri. Un furto, proprio. Che poi vincere all'epoca era davvero complicato: c'erano le sette sorelle, sette squadre fortissime. Ora invece ci sono solo Juve e Inter, anzi fino all'anno scorso soltanto la Juve...”.

Quella Lazio era prima nel ranking Fifa.

“Lo disse Ferguson: ho perso contro la squadra più forte del mondo. La vittoria della Supercoppa europea a Montecarlo, proprio contro il suo Manchester United, fu il momento più alto della mia gestione. Un'emozione indimenticabile. Tra l'altro tanti di quella squadra sono diventati bravi allenatori, compreso Simone Inzaghi che sta lavorando benissimo nella Lazio di oggi”.

La delusione più grande, invece?

“Quella Lazio doveva fare meglio in Champions League. Aveva ragione Eriksson: dopo lo scudetto, mi disse che la squadra andava cambiata tutta. Questione di motivazioni. I calciatori non affrontarono quella competizione con la giusta fame”.

Tra i campioni dello scudetto, perse Nesta e poi Nedved.

“Avrebbero potuto restare entrambi. Ad Alessandro avevo aumentato lo stipendio a 6,5 miliardi di lire, solo che Berlusconi quando voleva una cosa se la prendeva. Come Moratti. E Pavel dopo che avevamo trovato l'accordo con la Juve ci disse che non si vedeva con un'altra maglia. Piangeva. Allora gli facemmo firmare il rinnovo e lui contento regalò pure la penna a mio figlio Massimo. A quel punto chiesi a Moggi di strappare il modulo federale che sanciva la cessione. Poi il manager Raiola fece cambiare idea a Nedved e così Moggi, che quel modulo invece di strapparlo lo aveva conservato, se lo portò alla Juve. Un altro film, pure quello”.

E lei acquistò Mendieta per 90 miliardi, non proprio un affare.

“Vero, però all'epoca lo spagnolo era stato nominato per due stagioni di fila miglior centrocampista della Champions. Semplicemente, non si adattò al calcio italiano: può succedere. Certo quel Valencia era chiacchierato...”.

Per concludere, la sua Lazio fu la prima società quotata in Borsa.

“Sì, dal 6 maggio '98. Ho anticipato l'evoluzione naturale dei principali club di calcio, che ormai sono degli asset patrimoniali da valorizzare per soddisfare le aspettative degli azionisti. Il risultato economico conta più di quello sportivo. La Premier in questo comanda da anni: non a caso, il 10% del City è stato venduto per 500 milioni di dollari e il club vale 5 miliardi. E in Italia, il segreto del successo della Juve è soprattutto lo stadio di proprietà...”.

Cragnotti, il presidente che provò a cambiare il calcio e quello della finanza correndo troppo in fretta. Valerio Berruti su La Repubblica l'8 gennaio 2020. La Lazio fu la prima squadra a essere quotata in borsa, di lui il giovane Gardini amava dire: "Se hai una cosa da vendere e vuoi farti pagare bene, chiama Cragnotti, lui sa come si fa a spuntare il prezzo migliore". Il solke batteva forte. Via di Porta Pinciana era quasi vuota, nonostante fossero i primi giorni dell’anno 2004. E’ lì che incontro Sergio Cragnotti. Sta uscendo da un portone alla fine della strada. Non lo vedo da tempo ma il volto non è più così abbronzato. La faccia è stanca. Ci salutiamo con i soliti convenevoli ma capisco subito che niente è più come prima. Nell’aria aleggia la parola “arresto”, mai pronunciata, però. Gli dico che “se l’è sempre cavata e anche stavolta…”. “No, stavolta no”, dice, “Berrù stavolta è diverso…”. Aveva ragione ancora una volta. Un mese dopo, l’11 febbraio, l’arresto arriva. Per lui e per una buona parte della famiglia (figlio e genero, per l’esattezza). L’accusa è quella di bancarotta fraudolenta. Sergio Cragnotti secondo il gip è un soggetto di "elevata pericolosità" per il quale l'arresto è "l'unica misura adeguata alla salvaguardia delle esigenze cautelari, qualunque altra misura sarebbe inidonea ad evitare il diretto controllo delle società estere e la possibilità che continui ad utilizzarle per reiterare condotte delittuose". Eppure, spiazzando un po’ tutti, sembra che la sua prima risposta sia stata “Ma a cosa servono?”.  Finisce nel modo peggiore la carriera per molti versi straordinaria dell’ex patron della Lazio e della Cirio. Di un uomo che ha provato a cambiare il mondo del calcio e quello della finanza correndo troppo in fretta e con metodi non sempre trasparenti. Era il metodo Cragnotti: prendere o lasciare. Per lui è stato sempre così. Quello che è riuscito a fare con la Lazio rimarrà scolpito nella storia del club che ha appena compiuto 120 anni. Una storia piena di colpi di scena di un ragazzo romano che ha cominciato presto a correre in un mondo di macerie come quello del crack Ferruzzi. Un manager che piaceva al vecchio Serafino ma anche al giovane Raul Gardini. Che spesso diceva: "Se hai una cosa da vendere e vuoi farti pagare bene, chiama Cragnotti, lui sa come si fa a spuntare il prezzo migliore". E lui il prezzo migliore l’ha sempre spuntato anche nel calcio. Comprare a poco, rivendere a molto. Era l’uomo delle plusvalenze. Era il patron della Lazio stellare, soprattutto dello scudetto del 2000. Cifra tonda, 100 anni di Lazio da festeggiare con il tricolore sulla maglia. “Il calcio è l'affare più globale del mondo, in un'epoca di globalizzazione e di trionfo del tempo libero – ci disse subito dopo la vittoria - Quale altra merce viene comprata dallo scaffale da tre miliardi di consumatori. Nemmeno la Coca Cola. I diritti televisivi sono esplosi con la tv a pagamento, ma siamo al principio. Gli stiamo facendo dei prezzi promozionali. E poi ci sono i diritti su Internet, sull'Umts. Pensi a quanti si vedranno la partita sul telefonino, fra pochi anni. Tre miliardi che possono diventare quattro o cinque, sfondando su nuovi mercati, in Oriente e negli Usa". Parole che fanno capire quanto vedeva lontano. Caratteristica che l’ha accompagnato quasi sempre. Quando lo vedevi allo stadio o a Formello dove andava sempre più spesso. Guardava i suoi ragazzi, parlava tanto con Eriksson. A volte lanciava qualche provocazione tanto per ottenere delle reazioni. Giusto per capire lo spirito dei giocatori. Poi, tornava subito a pensare al mercato: a chi vendere e chi comprare”. Il suo vero mestiere che ha reso possibile “il miracolo Lazio”. Facendola diventare la squadra dei record. Anzi come diceva ironicamente ma non troppo “La squadra più forte del mondo”. La prima ad essere quotata in Borsa (seguita subito dopo da Roma e Juventus) con 650 miliardi di capitalizzazione, 110 spesi per l'acquisto di Crespo dal Parma. Una rivincita per chi era sempre stato considerato come il parvenu della finanza ma che invece ha saputo guardare sempre oltre. “Io ho portato per primo il calcio al mercato – disse in un’intervista a Repubblica subito dopo la conquista dello scudetto -  Che poi è il mio mestiere, dare la giusta valutazione alle cose". Prima del secondo crollo sognava pure l’impossibile. Ovvero valorizzare Roma, “La mia città, la capitale più bella che nessuno riesce a rendere più vivibile e capitale del turismo mondiale". Scherzando, ma mica tanto diceva “A me basterebbe che vendesse a noi e alla Roma l’Olimpico. Potremmo trasformarlo in uno stadio modernissimo, con ristoranti, negozi, parchi giochi per bambini...". Tutto vero, caro presidente ma purtroppo in 20 anni non è cambiato nulla. Ma chissà, dato che il 2020 è un’altra cifra tonda. Che c’è un altro anniversario (120 anni di Lazio) da festeggiare magari cambia qualcosa. O qualcosa si può aggiungere, magari soltanto sulla maglia…

Da today.it il 25 novembre 2020. Repubblica racconta oggi in un articolo a firma di Carlo Bonini e Marco Mensurati una strana storia di calciomercato che coinvolge l'A.S. Roma, il giocatore Ante Coric e Giuseppe Cionci, rappresentante "della società Cornersport Management Srl" secondo un'informativa della Guardia di Finanza. Coric è stato acquistato dalla società giallorossa nel giugno 2018 e, secondo l'indagine della procura di Roma e di quella di Zagabria citata dal quotidiano, il suo acquisto, costato 8 milioni di euro, era "legato alla facilitazione del progetto dello stadio da parte della Regione". Nell'articolo si racconta di come il giocatore non abbia risposto alle promesse che lo dipingevano come il nuovo Modric, ma il punto importante è che nella primavera del 2019 si presenta a Trigoria proprio Cionci per chiedere 500mila euro di commissione in aggiunta al cachet (circa 500 mila) che aveva già percepito per aver facilitato l'acquisto di Coric. Il Ceo appena nominato da Pallotta e futuro Ceo della Roma dei Friedkin, Guido Fienga, consiglia all’uomo di scordarsi quel denaro non previsto dal contratto. Ma soprattutto, raccontano Bonini e Mensurati, Cionci è uomo della politica: è stato direttore generale de L'Ora di Palermo ed editore di Cinque Giorni, quotidiano free press ostile alla giunta Alemanno. Ed è amico di lunga data di Nicola Zingaretti oltre che architetto della sua lista civica del 2008. Di lui parla anche Salvatore Buzzi nei verbali dell'inchiesta "mondo di Mezzo: "È l'uomo dei soldi di Zingaretti". Il 18 settembre 2019 alla porta della Roma bussano due ufficiali della Guardia di Finanza con in mano un ordine di esibizione documenti della procura di Roma. Il documento che i due finanzieri devono notificare è — si legge — «In esecuzione dell’ordine europeo di indagine numero Kn-Us-2/15 della procura della Repubblica, ufficio per la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata di Zagabria». Lo notificano — si legge — all’allora vicepresidente della Roma, Mauro Baldissoni, cui vengono chiesti tutti gli «atti e i documenti afferenti l’acquisto e il trasferimento del calciatore Ante Coric dal club Gnk Dinamo Zagreb al club As Roma per il quale è stato concluso il trasferimento in data 10 maggio 2018, firmato dall’avv. Baldissoni e Igor Kodzoman e Tomislav Svetina». A Baldissoni viene chiesto anche di indicare se la Roma si fosse avvalsa, al tempo della trattativa, di un intermediario per l’operazione — e, nel caso, di chi. Baldissoni indica il nome di Giuseppe Cionci. Secondo l'indagine degli 8 milioni di euro pagati per il giocatore alla società di appartenenza se ne sono fermati due: gli altri sono stati spacchettati in due tranche. La prima è andata a Dubai e da lì è tornata a Zagabria. L'altra è stata inviata a Cipro e da lì è tornata in Italia. Ci sono due ipotesi investigative: la prima è quella di un'operazione di riciclaggio; la seconda riguarda Cionci come intermediario anche per lo stadio della Roma. Ma nell'inchiesta, avvertono gli autori nelle ultime righe, al momento non risultano reati ipotizzati né persone indagate.

Crac scongiurato, dieci finali e la sfida alle convenzioni del calcio: la Lazio del "vulcanico" Lotito. Giulio Cardone su La Repubblica l'8 gennaio 2020. “Il mio è stato un risanamento economico, sportivo e morale. Oggi la Lazio ha un patrimonio immobiliare di 200 milioni e un patrimonio giocatori per 600”. Il secondo presidente più vincente della storia laziale è in carica da una torrida giornata del 2004. Era il 19 luglio e da allora nulla è stato più come prima. Vulcanica: è l'aggettivo più utilizzato per definire la gestione di Claudio Lotito, 62enne imprenditore romano spesso trattato dai media come una macchietta e invece capace di sistemare i conti della Lazio e nello stesso tempo portarla a conquistare trofei, a frequentare di nuovo posti di rilievo nel calcio italiano. Una specie di miracolo, considerando da dov'era partito, dai debiti per 550 milioni, compreso quello con il Fisco spalmato in 23 anni: ogni primavera, la Lazio deve versare all'Erario 6 milioni, il costo di un buon difensore. In 15 anni vissuti pericolosamente ma soprattutto intensamente, con lui non si è annoiato nessuno: né i giornalisti per le idee, le polemiche, le gaffe, le metafore ardite (“A Inzaghi ho consegnato una Ferrari”, tra le più note), né allenatori e giocatori che tiene costantemente sotto pressione, con un'alternanza frenetica di bastone e carota (ormai ha l'abitudine di tenere a rapporto la squadra alla vigilia delle partite, nel modernissimo centro sportivo di Formello di cui va orgoglioso e recentemente ristrutturato), né i tifosi con cui il rapporto di amore-odio è tra i più sociologicamente interessanti della storia dello sport italiano. Adora i consensi, Lotito, ma nonostante i risultati positivi e a volte sorprendenti è stato (usiamo il passato prossimo perché adesso, grazie alle vittorie, la situazione è decisamente migliorata) tra i presidenti più contestati di sempre. Le sue guerre con gli ultras lo costringono tuttora a vivere sotto scorta, lui però soffre soprattutto quando non avverte l'amore del tifoso normale. Non a caso, la rivoluzione societaria più profonda la ordinò dopo una manifestazione “contro” a Piazza Santi Apostoli in un altro giorno di luglio, quello del 2016: tra la folla (5000 persone) che protestava, anche donne e bambini. Ferito e amareggiato, il presidente decise la svolta. Nei giorni successivi inserì nei quadri dirigenziali Angelo Peruzzi, ex portiere amato dai laziali, chiamato a fare da raccordo tra società e squadra, e il giornalista Arturo Diaconale, diventato portavoce dello stesso Lotito. Ma la gestione – è il segreto del successo, alla fine – resta a conduzione familiare, diciamo così: struttura snella, poche persone e fidate, dal direttore sportivo Tare al responsabile della comunicazione De Martino (direttore di radio, canale tv e rivista del club), più appunto Peruzzi e Diaconale. Dalla scorsa primavera ha affidato la sicurezza al Prefetto Nicolò D'Angelo, suo amico ed ex questore di Roma, il supercommissario famoso - tra l'altro - per aver contribuito a smantellare la Banda della Magliana. Igli Tare e Simone Inzaghi sono le sue grandi intuizioni. All'inizio come ds scelse Walter Sabatini, competente di calcio come pochi al mondo, che lo affiancò in anni complicati. Il primo mercato, agosto 2004, divenne leggenda, con 9 acquisti nell'ultimo giorno di trattative. Un record. Tra tanti carneadi, c'era anche Tommaso Rocchi, che poi sarebbe diventato il capitano della Lazio e oggi è tra gli allenatori del settore giovanile, con un futuro quasi scritto alla guida della prima squadra. Quell'estate, spinto dalla volontà popolare da cui raramente in 15 anni e mezzo si è fatto condizionare (per esempio nel riscatto di Zarate, nel 2009), ingaggiò Paolo Di Canio. L'ex talento del Quarticciolo gli regalò un derby incredibile, il 6 gennaio 2005 contro la favoritissima Roma di Totti e Cassano, ma procurò pure tanti guai a livello di immagine internazionale, con il famoso saluto romano sotto la Curva Nord (“La cosa di cui mi pento di più”, rivelò poi Di Canio nel 2017). Tuttora Lotito è impegnato in una dura battaglia per strappare una volta per tutte etichette politiche dal glorioso nome della Lazio, amata trasversalmente da 120 anni da persone di idee diverse ma unite dalla passione per i colori biancocelesti. Oltre al Daspo, il presidente è pronto perfino a chiedere il risarcimento danni ai “tifosi” che dovessero macchiarsi di comportamenti razzisti e fascisti. “Il mio – sottolinea compiaciuto - è stato un risanamento economico, sportivo e morale. Oggi la Lazio ha un patrimonio immobiliare di 200 milioni e un patrimonio giocatori per 600”. È il suo scudetto. Poi ci sono - tra Coppa Italia e Supercoppa - i 6 trofei e le 10 finali raggiunte negli ultimi 10 anni. Un record invidiabile, considerando che il fatturato della Lazio, ora sui 150 milioni, è molto lontano da quello delle tradizionali big del Nord. Lotito ha saputo compensare con le idee il gap economico. Sul mercato la spesa più pesante, a parte i 24 milioni complessivi per Zarate, sono i 16 più 3 di bonus per Correa, nell'estate 2018. Tra i colpi più apprezzati, “Mito” Klose a parametro zero nel 2011. Fu il centravanti della finale del 26 maggio 2013, quando la Lazio vinse la Coppa Italia nel derby capitolino più importante della storia. Adesso Lotito spera di centrare la qualificazione ai gironi di Champions, traguardo tagliato solo nel 2007 (nel 2015 perse il preliminare contro il Bayer Leverkusen), puntando sui “Fab Four”, cioè Immobile, Correa, Milinkovic e Luis Alberto. In tutto sono costati 45 milioni, come il solo Bernardeschi. Significativa come e più di una brillante operazione di mercato, l'idea dell'aquila Olympia portata a Formello dal 2010: prima delle gare, il rito del volo del simbolo della Lazio è apprezzatissimo da adulti e soprattutto bambini. È piaciuta alla gente biancoceleste anche la recente apertura di uno store proprio al centro di Roma, nei pressi di Piazza di Spagna. Tra i sogni, lo “Stadio delle Aquile” che Lotito vorrebbe realizzare sui terreni di proprietà della famiglia della moglie, Cristina Mezzaroma, sulla via Tiberina. E poi lasciare la Lazio al figlio Enrico. Spesso controversi i rapporti con gli allenatori, da Caso a Papadopulo, da Delio Rossi a Petkovic (dal trionfo del 26 maggio al pessimo finale in tribunale, dopo la nomina a ct della nazionale svizzera), da Pioli (terzo posto nel 2015) a Reja (due Champions sfiorate), dal “guru” Bielsa (ingaggiato nel luglio 2016, non allenò mai la Lazio perché si dimise prima di cominciare) alla grande idea Simone Inzaghi, che si era formato in panchina proprio nelle giovanili biancocelesti. Nell'estate rovente per il caso Bielsa, con la piazza in ebollizione, Lotito decise di puntare sull'ex centravanti, che in realtà era destinato alla Salernitana, l'altro club di sua proprietà. Invece il presidente gli affidò la Lazio, avviando un altro capitolo appassionante della storia biancoceleste. Un aggettivo per sintetizzare il loro rapporto? Vulcanico, ovviamente.

Giulio Cardone per “la Repubblica” il 7 gennaio 2020. Compleanno con record. Giovedì la Lazio festeggia 120 anni di storia. La squadra, terza, a Brescia ha centrato la nona vittoria di fila, eguagliando quella di Eriksson. Claudio Lotito ha passato il Capodanno con la Supercoppa conquistata a Riad, sesto trofeo della sua gestione. E Ciro Immobile è in fuga nella classifica cannonieri.

Presidente Lotito, Immobile è il simbolo di questa Lazio?

«Da un punto di vista emotivo, sicuramente. È un figlio del popolo, rappresenta tutti gli spaccati della società e suscita empatia per il suo comportamento, l' ironia, la disponibilità. Con lui ho un rapporto personale bellissimo, di grande affetto. Ero convinto, come Tare, che avrebbe fatto cose importanti, ma nessuno le poteva pronosticare. Era un giocatore che nella precedente società soffriva e che, messo nelle condizioni giuste, in un ambiente familiare, è rifiorito ed è esploso. La Lazio è una grande famiglia di cui io sono il padre: non faccio preferenze tra i miei figli, decanto le qualità di ognuno, grazie alle quali si ottiene la qualità totale del gruppo».

Una qualità e un difetto di Simone Inzaghi.

«È un grande conoscitore di calcio e lavora h24, riuscendo a coinvolgere emotivamente i giocatori, è un grande trascinatore. Come tutti quelli che si muovono su un palcoscenico che richiede una crescita, poi avvenuta, non parlerei di difetti ma di considerazioni: esternamente possono sembrare errori, in realtà non lo sono, rappresentano un momento legato alla crescita che porta poi a fortificare ancora di più la persona».

Igli Tare è l' uomo che ha costruito questa Lazio. Perché lo scelse come direttore sportivo?

«Tare è un ragazzo molto determinato, conosce cinque lingue, è instancabile, un perfezionista. La mia scelta è risultata giusta. Lui non aveva l' esperienza ma aveva appunto le potenzialità, di questo ne ero convinto ed è stato dimostrato anche dai fatti. Oggi è uno dei migliori in circolazione, ha l' approccio di una persona perbene, equilibrata e attaccata alla società. Ci lega anche un grande affetto, un ulteriore valore aggiunto per raggiungere i risultati».

Perché decise di comprare la Lazio, il 19 luglio 2004?

«Capii da subito l' importanza e la responsabilità di acquisire la gestione di una squadra che, oltre ad essere da sempre quella del cuore, rappresentava il patrimonio storico sportivo e l' anima di tantissimi tifosi.Un grande onore, un' emozione forte».

Il primo problema fu il debito con il Fisco, che spalmò in 23 anni grazie al cosiddetto "Decreto salvacalcio".

«La Lazio fatturava 84 milioni, ne perdeva 86,5 e aveva 550 milioni di debiti. Oggi ha un bilancio tra i migliori in Italia e all' estero, e ha vinto più di tutti dopo la Juve. Questo rappresenta il vanto e l' orgoglio del sottoscritto e del popolo laziale».

Raccontano che comprò nove giocatori in un giorno di mercato.

«Era il mio battesimo, il mercato chiudeva e pochi giorni dopo c' era la Supercoppa contro il Milan. Tra quei 9 ce n'erano alcuni di grande valore, come Rocchi. Molte operazioni riuscii a chiuderle in prestito con diritto di riscatto, un'innovazione per l' epoca».

Come convinse Klose nel 2011?

«Klose rappresentava un giocatore di grande talento. Non era stato messo in condizione di esprimere le sue doti, è stato trascurato dallo staff tecnico della squadra precedente sul solo presupposto anagrafico, senza tener conto delle sue qualità fisiche e mentali. Noi, anche grazie a Tare, lo abbiamo messo nella condizione di esprimersi e raggiungere grandi risultati, è diventato addirittura il cannoniere più prolifico nella storia dei Mondiali».

L' acquisto a cui è più legato?

«Ci sono tanti colpi di mercato che andrebbero ricordati. Quello che ha fatto e sta facendo la storia del club anche nel mondo è sicuramente Milinkovic, per le quotazioni che sono state date».

L' operazione di cui si è pentito?

«Il riscatto di Zarate a 22 milioni è una mossa che non rifarei. Ero all' inizio della mia presidenza, dovevo fare investimenti e dare segnali di crescita di qualità tecnica e sportiva. Per quel che si è rivelato dal punto di vista comportamentale è stata una scelta forse non molto oculata. Oggi valutiamo, oltre alle potenzialità atletiche e agonistiche, anche la moralità dei giocatori e la compatibilità economico-finanziaria».

Chi l' ha delusa di più?

«È una domanda che andrebbe collocata all' epoca in cui le persone svolgevano le loro attività, col senno di poi è facile rispondere. Forse uno da cui mi sarei aspettato molto di più era proprio Zarate: non ha prodotto i risultati su cui puntavamo».

Due anni fa la Lazio perse il quarto posto contro l'Inter all' ultima giornata: rigore causato da De Vrij, che aveva già firmato per i nerazzurri.

«Fu una partita decisa da alcuni comportamenti di giocatori che in qualche maniera ne hanno, volontariamente o involontariamente, segnato il risultato».

Qual è la coppa a cui è più legato?

«La Supercoppa 2009 in Cina contro l' Inter di Mourinho, che poi avrebbe fatto il Triplete: il risultato sembrava scontato e invece ce l' abbiamo fatta. Poi, certo, le due vittorie sulla Juventus, due anni fa e adesso a Riad. Il risultato dimostra che lo spirito di gruppo alla fine prevale su qualsiasi organizzazione. Non basta la certezza della qualità, la ferocia agonistica è altrettanto importante».

Eppure la sua esultanza più celebre è quella del 26 maggio 2013, la Coppa Italia nel derby.

«Una partita epica con un risultato che rimarrà negli annali. Irripetibile. Una squadra sulla carta più debole ma che riuscì nell' impresa e che mandò letteralmente in delirio il popolo laziale. Fu il preludio per aprire un nuovo ciclo».

Lei vuole portare in tribunale e chiedere i danni agli ultrà responsabili di comportamenti discriminatori, come accaduto a Brescia. Se potesse scegliere fra vincere uno scudetto e avere una tifoseria unita?

«La parte sana dei laziali ha preso coscienza delle sue responsabilità e del proprio ruolo. Oggi, è sotto gli occhi di tutti, c' è una tifoseria responsabile e di qualità che contrasta e fa soccombere quella sparuta minoranza che usa il calcio per altri fini e che ancora oggi mette in pericolo la mia incolumità. Comunque, sceglierei sicuramente il traguardo sportivo».

È vero che per l'aquila Olympia non bada a spese?

«In un momento di grande difficoltà di identità, bisognava creare un punto di riferimento nel processo di attaccamento alla società. L'aquila è il simbolo del club ed era il miglior modo per identificarsi nel mondo biancoceleste: ne rappresenta la fierezza, l' orgoglio e la libertà di decidere del proprio destino. Farla volare sullo stadio prima delle partite ha un costo non razionale, che di fronte alla gioia e all' empatia con i tifosi passa in secondo piano».

La sua gestione in tre aggettivi.

«Sicuramente innovatrice. Ma direi anche vulcanica e vincente».

La più grande soddisfazione e la più grande delusione?

«La più grande delusione la ebbi all' inizio, quando constatai che, nonostante mi impegnassi per dare il massimo, venivo continuamente contestato. La soddisfazione poi è stata vedere come tutte queste persone si siano dovute ricredere alla luce dei risultati raggiunti. La miglior risposta alla delusione».

Dove vuole portare la Lazio?

«Mi auguro possa raggiungere altri traguardi sportivi in Italia e all' estero. Essere il punto di riferimento della politica sportiva per difendere i valori fondanti della società civile. Diventare l' esempio per educare i giovani. Portare il sorriso e la voglia di combattere anche a quelle persone che devono superare degli ostacoli nella vita quotidiana».

Claudio Lotito, l'uomo che volle farsi "Lotutto". Vita e segreti dell'uomo che ha risanato i conti traballanti della Lazio riportandola vicino alla testa del campionato. Francesco Bonazzi il 31 dicembre 2019 su Panorama. Il 15 giugno del 1987, quando Steve Wilhite, un informatico dell’Ohio, inventò la Gif (Graphics interchange format), non poteva certo sapere che in Italia avevamo un uomo che era già un formato grafico animato, pronto alla diffusione virale. Claudio Lotito, il presidente della Lazio, è la Gif di se stesso. Quando parla gesticola in modo compulsivo come l’italiano delle barzellette, anche se al posto di «Mamma mia» ama dire a ripetizione cose come «illo tempore», «erga omnes» ed «effetto prodromico». Una sequenza tipo di Lotito Gif prevede le mani ben aperte che convergono verso il petto nel classico segno del «ci penso io»; poi le mani che tornano verso il pubblico e si allargano tipo Cristo pantocratore; infine, di nuovo giunte ma puntate verso l’uditorio come a dire «Ma stiamo scherzando?». E c’è anche una variante non meno seriale, con i due indici puntati verso il cielo, che utilizza quando vuole essere ascoltato con le orecchie bene aperte. Vuole essere ascoltato e ne ha diritto, perché ora che la sua squadra è in zona scudetto, con i bilanci in ordine e una tifoseria quasi completamente ripulita da nazi e spacciatori, va riconosciuto che ci sa fare. E anche il soprannome «Lotirchio» è ingeneroso. In quindici anni, la sua Lazio è la squadra che ha vinto di più dopo la Juventus (tre Coppe Italia e due Supercoppe) e ha triplicato il valore di Borsa. Per capire il personaggio si deve partire da un aneddoto. Nel 2001, al ministero dell’Economia torna Giulio Tremonti e nei primissimi giorni di lavoro in Via XX Settembre a un suo stretto collaboratore capita un episodio bizzarro. Non fa a tempo a prendere possesso del proprio ufficio che vede lampeggiare il telefono, alza la cornetta e dall’altra parte una voce dice: «Salve, so’ Lotito, quello delle pulizie». Il giovanotto risponde: «Forse ha sbagliato numero». Ma dall’altra parte insistono: «No, no, non ho sbagliato. Volevo che dicesse al ministro che a noi ci interessa Vincenzo Fortunato come capo di Gabinetto, grazie». Non era uno scherzo. Aveva l’appalto delle pulizie al Tesoro e in altri ministeri, oltre che della Regione Lazio e di vari enti pubblici. I suoi amici di An, da Francesco Storace, allora presidente della Regione Lazio, a Gianfranco Fini, che era vicepremier, erano sulle poltrone giuste. Quanto a Fortunato, ovviamente finì dove voleva Lotito. Ma c’è molto del futuro presidente della Lazio anche in quel «noi», dietro al quale non si nascondevano certo né una loggia massonica (è cattolicissimo, gira con il rosario in tasca), né una lobby, né un partito (nel 2018 si è candidato per Forza Italia al Senato, ma ha fallito di un soffio il seggio). Il plurale maiestatis, come direbbe lui, indica Lotito, Lotito e ancora Lotito. Non a caso è detto anche «Lotutto» per una certa bulimia, che lo ha portato a comprarsi anche la Salernitana insieme al cognato Marco Mezzaroma (il Sor Claudio ha sposato sua sorella Cristina, dinastia di palazzinari). Perché «Lotitochefacose» è così: se gli dai un uditorio, com’è successo mercoledì 18 dicembre, quando ha voluto incontrare i corrispondenti stranieri all’Associazione Stampa estera per spiegare che la Lazio non ha più una tifoseria fascista e razzista, ha parlato a raffica e già che c’era ha anche concesso un paio di lezioncine di giornalismo. Sventolando lo status di «collega» al grido di «Ho il tesserino in tasca, so’ ggiornalista dal 1978!» (ora risulta iscritto sull’albo dei pubblicisti dal 26 luglio 2004, ndr), ha spiegato che «quando si scrive non bisogna fa’ i processi» e ha tessuto l’elogio dei «capiservizio di una volta, che te controllavano tutto». Poi, si è congedato con una simpatica profezia: «I giornali tra cinque anni non conteranno più nulla». Ma ha anche regalato una battuta definitiva sui saluti romani allo stadio: «Che posso mettere un poliziotto per tifoso a vedere se alza il braccio, abbassa il braccio, rialza il braccio? Facciamo lo stadio con 18 mila tifosi e 18 mila poliziotti? È solo fariseismo». Del resto, Lotito ha parlato con i fatti: ha portato la squadra ad Auschwitz, ha affrontato i fan delle svastiche a muso duro, beccandosi contestazioni e insulti di ogni tipo e 15 anni ininterrotti di scorta armata. E se in curva vanno spesso i cosiddetti avanzi di galera, lui invece è a tutti gli effetti definibile un avanzo di parrocchia. Anzi, di oratorio. Cita «Nostro Signore Gesù» in continuazione e al sabato pomeriggio, nel centro di Formello, fa dire la messa per i giocatori. Figlio di un dirigente di polizia e di una casalinga, il futuro presidente biancoazzurro, classe 1957, è cresciuto nel Reatino, studiando sodo e prendendosi una laurea in pedagogia alla Sapienza con il massimo dei voti. Nonostante la statura non lo aiutasse, da ragazzo ha giocato in porta. Poi, appesi i guanti, è passato dalla Virtus Amatrice all’amatriciana. Pranzare con lui è un’esperienza forte. È stato visto ingurgitare i bucatini direttamente dalla pirofila, con la forchetta in una mano e il cellulare nell’altra (pare ne abbia quattro) in una versione 2.0 di Aldo Fabrizi. Ed è solo quando lo s’incontra all’opera in una delle trattorie del centro storico che si comprende l’esatto significato del verbo «attovagliarsi». Celebre, una foto che lo ritrae alle prese con una cofana di pasta e Andrea Agnelli, abituato alla noia trattenuta delle colazioni di lavoro alla Country house del circolo del golf della Mandria, che lo guarda divertito. Vent’anni dopo Lotito delle pulizie, capace di superare una serie di guai giudiziari tra assoluzioni, archiviazioni e prescrizioni, viene intercettato (al ristorante, ovvio) con l’amico giudice Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, mentre si discute di nomine, inchieste e Csm. E nel giugno di quest’anno, decide di salvare Alitalia e presenta un’offerta ai commissari. Che c’entra lui? Boh, ma Lotutto è così. Dev’essere al centro di ogni cosa, come quando è all’Olimpico e la tribuna d’onore diventa la passerella delle sue conoscenze altolocate, tra politici, attrici, generali dei carabinieri e gli immancabili prelati. Avere un ministro o dei vip tra le seggioline della Monte Mario non equivale ad avere chissà quale potere, ma per Lotito è una gratificazione sociale, che lo ripaga anche delle tante amarezze riservategli da una tifoseria che non l’ha mai amato. E che pure dovrebbe essergli grata perché ha salvato la società, ha il bilancio in utile, paga con puntualità svizzera le rate del decreto spalma-debiti con cui Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi salvarono la Lazio. Era il 2005, centinaia di tifosi assediarono gli uffici del ministero delle Finanze all’Eur, ma non è vero che fu fatta una grande forzatura. Prima di firmare l’accordo con Lotito, ci fu una lunga notte di consulti all’Avvocatura generale dello Stato e solo dopo fu dato il via libera. La Lazio doveva versare 140 milioni al fisco e se l’avessero fatta fallire non sarebbero stati recuperati gli 80 milioni che Lotito ha versato e verserà fino al 2023. Adesso la società, che 15 anni fa fatturava 84 milioni (perdendone 86) e soffocava sotto il peso di 550 milioni di debiti, ha chiuso il 2017-2018 in utile di 38 milioni su 120 di fatturato. E anche se quest’anno è sotto di 13 milioni, il parco giocatori è valutato 600 milioni e gli immobili ne valgono altri 200. Storace ha raccontato come Lotito comprò la Lazio nel luglio 2004: «La Banca di Roma chiese alla Regione se veramente Lotito vantasse dei crediti verso la stessa. Noi rispondemmo di sì, perché così era. E con quei crediti comprò la Lazio che era destinata al fallimento». L’ex governatore è un noto tifoso giallorosso e al pari di un altro compagno di fede romanista come l’avvocato Carlo Taormina si è fatto scappar detto quello che mormoravano un po’ tutti nel vecchio giro di Giulio Andreotti e Cesare Geronzi quando Lotito si fece consegnare la Lazio: «Ma come, non era della Roma?». Lui ha sempre smentito e pare che l’equivoco si sia creato solo perché chiedeva i biglietti per la tribuna vip da dare poi a chissà chi. Essere laziale, o apparirlo soltanto? Che cosa sia sostanza e che cosa sia apparenza, del resto, il pedagogo Lotito lo sa bene. Ama citare Immanuel Kant, con la sua distinzione tra noumeno e fenomeno, accusando la società di oggi di «basarsi sulle apparenze». Lui non è tipo da Instagram ed è proprio quello che tutti vediamo. La prova che una Gif animata può insegnare qualcosa. Per esempio, come non svenarsi con una squadra di calcio e farla anche giocare bene. 

Paolo Ziliani per “il Fatto Quotidiano” il 31 dicembre 2019. Se alla fine degli anni 80 nella Serie A italiana giocavano due Maradona, Diego Armando e Hugo Hernán, una ragione perché il primo giocasse nel Napoli (2 scudetti e una Coppa Uefa vinti) e il secondo nell' Ascoli, evidentemente c' era: quello buono aveva scelto il club ambizioso e importante, quello scarso, peraltro raccomandato dal fratello buono, quel che passava il convento. Come diceva il presidente Massimino buonanima: "C' è chi può e chi non può: io può". Appunto. A spiegazione del preambolo, la notizia del giorno è che nel disastrato carrozzone del pallone italico dopo Thomas Di Benedetto e James Pallotta (Roma), Joe Tacopina e Joey Saputo (Bologna) e dopo Rocco Commisso (Fiorentina), è in arrivo un bastimento carico di nuovi ricchi amerikani guidato dal 54enne Dan Friedkin, nessuna origine italiana, proprietario del "Friedkin Group" (dodici società impegnate nell' intrattenimento, nell'ospitalità, nell' automobilismo e altro ancora: un impero da 4,3 miliardi di dollari), in procinto di acquistare la Roma di James Pallotta per una cifra, si dice, pari a 790 milioni di euro, 270 dei quali da defalcare a copertura dell' indebitamento. La domanda che i tifosi della Roma si pongono è: c' è la speranza che il Nuovo Americano assomigli un po' agli americani veri, quelli ad esempio, che da una quindicina di anni hanno preso le redini di alcuni importanti club inglesi portandoli a cogliere successi ragguardevoli per non dire sensazionali? Sono passati otto anni da quando (era il settembre 2011) Di Benedetto acquistò la Roma e sette da quando (era l' agosto 2012) Pallotta subentrò a Di Benedetto. Ebbene, non un solo trofeo è arrivato ad arricchire la bacheca del club che fu di Viola e di Sensi, i presidenti capaci di vincere uno scudetto; il tutto mentre sull' altra sponda del Tevere l'italianissima Lazio dell' italianissimo Lotito portava a casa due Coppe Italia e due Supercoppe italiane e mentre gli altri amerikani d' Italia erano alle prese con rognose gatte da pelare; vedi il Bologna di Tacopina e Saputo risalito dagli inferi della Serie B e la Fiorentina di Commisso subito di fronte allo spauracchio di una retrocessione, al primo anno dopo Della Valle, costretta gettare a mare Montella e ad affidarsi, Iddìo la protegga, a Beppe Iachini. Il sangue italiano che scorre nelle vene di Rocco Commisso, nato a Marina di Gioiosa Ionica, in Calabria, nel lontano 1949, o in quelle di James Pallotta, papà di Teramo e mamma di Canosa, o ancora in quelle di Joey Saputo, figlio di siciliani di Montelepre, fa molto Libro Cuore; ma se alla lunga i successi non arrivano, specie se ti chiami Roma, il minimo che possa succedere è sentirti urlare da uno stadio intero "Pallotta go home": tornatene a casa, e qualcuno dia anche a noi un Lotito qualunque, pure più coatto, che di quando in quando ci regali però una gioia. In Inghilterra, al timone dell' Arsenal - che pure attraversa oggi uno dei momenti più opachi della sua storia - c'è dal 2008 Stanley Kroenke, titolare della "Kroenke Sports Enterteinement" (impero da 8,5 miliardi di dollari) che negli ultimi dodici anni ha regalato ai tifosi 6 trofei: 3 Community Shield e 3 Coppe di Inghilterra: una coppa ogni due anni, mica noccioline. Un altro mitico club che da qualche tempo recita da nobile decaduto è il Manchester United; che la famiglia Glazer (gioiellieri, americani d' origine lituana) acquistò nel 2005 e che, sembra incredibile, non è mai entrata nel cuore dei tifosi a dispetto delle 5 Premier League vinte in 14 anni più una Champions League, un mondiale per club, svariate coppe nazionali. Lo United è tutt' oggi terzo nella classifica dei più club ricchi del mondo dietro a Real e Barça dopo essere stato a lungo primo. E poi il Liverpool, che John William Henry di Quincy, Illinois, proprietario dei mitici Red Sox di baseball e soprattutto della John W. Company (investimenti), rilevò nel 2010 dagli odiatissimi (dai tifosi) Tom Hicks e George Gillet. Dopo due anni ecco la Coppa di Lega, poi il Liverpool sfiora il titolo nel 2014 con Rodgers e alla fine, investendo forte su Klopp, fa il botto: Champions, Coppa del mondo e Supercoppa Uefa nel 2019, e per quanto riguarda il 2020, titolo Premier già in bacheca. Dopo 30 anni esatti d' attesa. Grazie agli americani. Quelli veri, però; non quelli che scelgono il Belpaese.

Friedkin prende la Roma. Perché i magnati americani sono attratti dai nostri club. Tobia De Stefano su Libero Quotidiano il 31 Dicembre 2019. Metà 2017: il Milan, la squadra italiana che con Juve e Inter ha il maggior appeal internazionale, viene acquistato da Yonghong Li per 740 milioni di euro (520 più 220 di debiti). Tralasciando il particolare che quei soldi, lo sconosciuto uomo d' affari cinese non li ha mai versati, già allora si discuteva e non poco sull' enormità della cifra: "Il Milan è stato strapagato", dicevano gli analisti del mondo del pallone. Sono passati due anni e mezzo, siamo a cavallo tra il 2019 e 2020, e la Roma, club che per storia (basta guardare i trofei vinti) e sostenitori in giro per il mondo (che poi sono quelli che ti garantiscono le entrate di merchandising e diritti tv) non è neanche paragonabile al club rossonero, starebbe per passare da un americano (Pallotta) a un altro (Friedkin) per circa 820 milioni di euro, oltre un imminente aumento di capitale da 150 milioni. Cos'è successo? Perché un club al quale fino a qualche anno fa veniva assegnato un valore che nelle stime più ottimistiche non superava i 400 milioni oggi è venduto a più del doppio? La prima cosa da chiarire è che non si tratta di un episodio isolato. Secondo quello che risulta a Libero la cifra choc che il magnate texano (Friedkin) è pronto a versare nelle casse del presidente made in Boston (Pallotta) è frutto di una valutazione accurata sulle potenzialità di sviluppo del calcio italiano, non solo all' interno dei confini domestici, ma soprattutto in giro per il mondo. La costruzione dei nuovi impianti sportivi - vedi soprattutto Roma e Milano - infatti dovrebbe imprimere un' accelerazione ai ricavi per la vendita dei biglietti (come percentuali di riempimento siamo intorno al 60% contro il 96% dell'Inghilterrra) per gli eventi da stadio e il merchandising. Diversi uomini d' affari americani guardano con interesse al Rinascimento del calcio italiano e sono convinti che soprattutto dal punto di vista dei diritti tv da rivendere all' estero (con gli Usa in pole position) ci siano grandissimi margini di crescita. Basta essere in grado di negoziarli, cosa che fino a questo momento non è stata fatta. I numeri dicono che stiamo migliorando - nel triennio 2018-2021 siamo arrivati a quota 371 milioni, il doppio rispetto al triennio precedente - ma che siamo lontani anni luce dai 1.573 miliardi incassati dai club di Premier tra il 2016 e il 2019. C'è ciccia, basta andare a prendersela. L' ha capito Rocco Commisso che con la sua Mediacom si è assicurato la Fiorentina, l' avevano intuito Thomas Ricketts e il fondo York Capital che avevano guardato con grande interesse rispettivamente al Milan il primo e alla Samp e al Palermo il secondo e ora sembra sia la volta di Dan Friedkin che è a un passo dalla Roma. Altra evidenza, il binomio calcio-città turistica attira e non poco i magnati americani: l' avvocato Joe Tacopina, per dire, è il patron del Venezia. Basta mettere insieme gli indizi per capire quale sarà la prossima preda degli uomini d' affari made in Usa. Tobia De Stefano

Daniele Sparisci per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2019. Le mani sul volante o sulla cloche di un aereo. Gli occhi sui conti e lo sguardo dietro alla telecamera, nel mondo di Daniel Friedkin convivono bilanci e sceneggiature. Dalle convention con i concessionari di automobili alle lezioni di cinema «private» con Ridley Scott, l' autore di «Blade Runner» e «Il Gladiatore», film tanto amato dai romanisti. Due mesi fa nel presentare la sua prima opera da regista («Lyrebird»), Dan per prima cosa ha ringraziato il maestro: «Eravamo su un set, Ridley è stato un mentore. Mi ha preso per un braccio: "Vuoi dirigere? Fallo e basta, avanti"». Il cinema, passione di famiglia. Il papà Thomas pilotava l' elicottero di «Tuono Blu», al figlio ha lasciato l' impero delle concessionarie Toyota (fu Carrol Shelby, la versione americana di Enzo Ferrari, a convincerlo che sarebbe stato un buon affare importare le vetturette giapponesi a fine anni '60) e il desiderio di bucare il grande schermo. Prima come stuntman: è uno dei più grandi collezionisti di vecchi aerei militari, ha la licenza di volo acrobatico (attraverso la sua fondazione recupera anche relitti negli oceani); poi come produttore: Palma d' oro a Cannes per «The Square», «Tutti i soldi del mondo» sul rapimento dell' erede dei Getty in Italia (la leggenda vuole che Friedkin si sia innamorato di Roma durante i sopralluoghi), e ancora «The Mule» di Clint Eastwood. I soldi arrivano dal core-business, le quattro ruote: circa il 13% delle Toyota vendute ogni anno negli Usa (è il secondo marchio, dopo General Motors) esce dai rivenditori della sua «Gulf States Toyota» che ha le licenze commerciali esclusive per cinque Stati americani. Il giro d' affari è in crescita: 9,2 miliardi di dollari di ricavi nel 2018. Il suo patrimonio personale, secondo Forbes,è di 4,2. Cinquantaquattro anni, quattro figli, atletico e ambizioso, ha allagato gli interessi a hotel di lusso e golf club. In prima fila sul parquet della sua Houston per seguire gli amati Rockets, ha provato ad acquistarli, invano. Ma è rimasto come sponsor dell' Arena indoor e della squadra, e chissà che cosa porterà di quell'esperienza a Roma.

Antonio Barillà per “la Stampa” il 30 dicembre 2019. Un patrimonio da 4,2 miliardi di dollari. Interessi nel grande commercio automobilistico, nella cinematografia e nel turismo. Dan Friedkin, 54 anni, nuovo proprietario della Roma, occupa, secondo Forbes, il 503° posto tra gli uomini più ricchi del mondo. Epicentro del suo impero economico - dodici società controllate dalla holding di famiglia, 5.600 dipendenti - è la Gulf States Toyota, licenziataria esclusiva della vendita delle auto giapponesi in centocinquanta concessionarie di Arkansas, Oklahoma, Louisiana, Mississippi e Texas. Produzione e regia Fondata nel 1967 dal padre Thomas Hoyt, deceduto nel 2017, l' attività di distribuzione è stata sviluppata dopo il suo ingresso in società, una volta conseguiti la laurea alla Georgetown University di Washington e il master in Business Administration alla Rice University. Friedkin ha inoltre investito nella Auberge Resorts, catena di hotel di lusso ubicati anche in Europa e Centramerica, e in uno studio di produzione, la Imperative Entertainment con sede a Santa Monica, che ha realizzato "The Square", film svedese vincitore della Palma d' Oro a Cannes nel 2017, la pellicola "All the money of the world" sul rapimento di Paul Getty jr - ambientata in Italia: alcune scene sono state girate a Roma - e "The Mule" con Clint Eastwood. La passione per il cinema lo ha anche portato a cimentarsi dietro la macchina da presa: il 31 agosto è stato presentato in anteprima al Telluride Film Festival il suo primo film da regista, "Lyrebird", realizzato in collaborazione con Ridley Scott. Oltre che film per l' industria cinematografica, la Imperative Entertainment si occupa di produzioni televisive e di realizzazione di documentari. Sposato con Debra e padre di quattro figli, nato a San Diego in California ma residente a Houston in Texas, Friedkin è molto ammirato per la sua attività filantropica e per l' attenzione all' ambiente: le donazioni effettuate attraverso la fondazione che porta il suo nome ammontano a 396 milioni di dollari, ultimamente si sta occupando di attività volte a preservare la flora e la fauna della Tanzania, terra dove cura l' organizzazione di safari di lusso. La sua più grande passione, ereditata da papà che era stato pilota, è l' aviazione: possiede la più grande collezione di vecchi aerei da guerra degli States ed ha ottenuto a sua volta una licenza da pilota che gli ha permesso di prendere parte alla formazione dei voli acrobatici dell' Air Force. Per comprendere difficoltà e prestigio, basti pensare che hanno potuto farlo solo altri nove piloti civili. Ama anche il golf ed è socio di maggioranza di Congaree in Ridgeland, circolo a cui è iscritto anche James Pallotta. Texano a tutto campo Innamorato del basket, Friedkin tifa per gli Houston Rockets di cui è partner commerciale: due anni fa ha tentato anche l' acquisto della franchigia di Nba, ma la trattativa con l' allora proprietario Leslie Alexander non andò a buon fine. Adesso ha scelto il calcio e la Serie A, accendendo i sogni della Roma e dei suoi tifosi. La gestione diretta del club potrebbe essere affidata al figlio trentenne Ryan, attualmente a Los Angeles, laureato alla Southern Methodist University e direttore del Friedkin Group, impegnato in particolare nella produzione cinematografica.

Chi è Dan Friedkin, l’imprenditore interessato alla Roma. Stefan Valente il 30/12/2019 su Notizie.it. È uno dei profili che attira più attenzioni nell’ultimo periodo soprattutto nel settore calcistico, ma chi è davvero Dan Friedkin, l’imprenditore americano pronto a rilevare la Roma? E’ colui che sta conducendo la trattativa con James Pallotta, ha 54 anni e proviene dal Texas.

Chi è Dan Friedkin. Tante passioni per il tycoon texano, dalle auto al cinema passando per lo sport. Nel 2017 fu ad un passo dal prelevare gli Houston Rockets, club che milita nell’Nba, ora è pronto ad investire in Italia nel mondo calcistico. A seguito della morte del padre, Dan Friedkin è divenuto il titolare dell’azienda di famiglia attiva nel settore automobilistico, nel turismo e nell’entertainment. Il gruppo Friedkin (di cui è presidente e Ceo) ha investito nei resort di lusso della Auberge, produce e sviluppi film e programma televisivi, possiede diritti di esclusiva per quel che concerne la vendita di Toyota in 5 Stati americani attraverso 150 concessionarie tra Houston, Mississipi, Oklahoma, Arkansas e Louisiana. Nel corse dell’ultimo esercizio finanziario, la vendita di auto giapponesi ha fatturato ben 9 miliardi di dollari. Ora la trattativa con James Pallotta per provare a prelevare la Roma, uno dei club calcistici più seguiti in Italia e potenziale fonte di nuovi ricavi e sponsorship. Secondo quanto emerso dalla rivista Forbes, Dan Friedkin avrebbe un patrimonio netto che aggira sui 4,1 miliardi di dollari.

Lo stato della trattativa. Su esplicita richiesta della Consob, la società As Roma ha annunciato (attraverso una nota ufficiale) lo stato avanzato della trattativa tra Dan Friedkin e James Pallotta: “Non è stato ancora formalizzato alcun accordo definitivo per la cessione e che qualsiasi operazione con il Gruppo Friedkin è subordinata al completamento con esito positivo delle attività di due diligence legale sul Gruppo AS Roma. Su richiesta di Consob, con riferimento ad alcune notizie apparse recentemente sugli organi di stampa in relazione ad una possibile operazione che vede interessati As Roma S.p.A. ed il Gruppo Friedkin, As Roma SPV LLC, società che detiene il controllo indiretto di AS ROMA S.p.A., tramite la sua controllata NEEP ROMA HOLDING S.p.A., informa il Mercato che sono in corso negoziazioni tra il Gruppo Friedkin e AS ROMA SPV LLC in merito ad una potenziale operazione che interessa NEEP ROMA HOLDING S.p.A. e le sue società controllate, inclusa A.S. Roma S.p.A. In caso di perfezionamento di accordi definitivi aventi ad oggetto il trasferimento delle partecipazioni detenute in A.S. Roma S.p.A., AS ROMA SPV LLC fornirà adeguata informativa al Mercato nei termini di legge“.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 7 agosto 2020. «Non vediamo l'ora di chiudere l'acquisto il prima possibile e di immergerci nella famiglia dell'AS Roma» dice Dan Friedkin a commento dell'accordo appena firmato. La famiglia avrà un ruolo centrale nell'amministrazione della Roma, e all'interno della famiglia Friedkin il volto di prima linea nella gestione degli affari calcistici sarà quella del figlio Ryan, sulla falsariga di quanto accade all'Inter con Zhang Junior. Tra i quattro figli dell'imprenditore texano, Ryan sembra il più allineato con gli affari di famiglia, e il più coinvolto nella gestione degli interessi del gruppo, nonostante la giovane età di trent' anni. Ha una laurea in amministrazione aziendale con specializzazione in marketing, e ha fatto pratica nel settore della private equity ad Austin, sempre in Texas. Ma è nel mondo del cinema che le strade dei due si sono incrociate con quella del fondatore dell'azienda familiare: Thomas Friedkin, scomparso solo tre anni fa. Il nonno di Ryan aveva iniziato a vendere auto già cinquant' anni fa seguendo una passione per le corse che lo divorava fin da giovane, ma allo stesso tempo calcava le scene di alcuni film ad Hollywood nella veste di pilota delle vetture che si muovevano sul set. I titoli di coda del fantascientifico: Il gatto venuto dallo spazio, firmato dalla Disney, e di Police Academy 4, rivelano la sua invisibile partecipazione. Il figlio Dan è andato ben oltre, e ha fatto del cinema una parte rilevante della sua attività imprenditoriale, con Ryan suo braccio destro nell'impresa. Dan ha fondato la 30 West, l'azienda familiare che investe nel campo dei media; Ryan è stato negli ultimi anni il responsabile della Imperative Entertainment dalla sua base di Santa Monica. Insieme i due hanno prodotto film di grande successo commerciale, come The Mule con Clint Eastwood (175 milioni di dollari di incassi) e altri di rilevanza critica, come lo svedese The Square, vincitore della Palma d'Oro a Cannes, e sono riusciti ad entrare nel pacchetto di 200 milioni di dollari di finanziamento che la Apple ha garantito al prossimo film di Martin Scorsese con Bob De Niro e Leo Di Caprio che vedrà la luce nel 2021. La loro casa di distribuzione Neon ha avuto anche la fortuna di importare negli Stati Uniti il film Parasite, vincitore dell'ultimo Oscar come migliore pellicola dell'anno, e di incassare un altro Oscar con I Tonya, la storia della rivalità tra le pattinatrici olimpiche Tonia Harding e Nancy Kerrigan che degenerò nella violenza di un assalto a colpi di spranga sulle ginocchia della povera Kerrigan. Tali exploit fanno perdonare avventure meno entusiasmanti, come il fiasco di All the Money in The World, la rievocazione del sequestro Getty con la regia di Ridley Scott funestata dall'abbandono forzato dell'attore protagonista Kevin Spacey, e il finanziamento di Ben is Back con Julia Roberts, passato al botteghino senza lasciare traccia. Alle spalle di tanta capacità finanziaria c'è la Gulf State Toyota: una corazzata di 158 concessionarie in cinque stati nel sud degli Usa, il cui fatturato annuo è raddoppiato negli ultimi dieci anni a quota 11 miliardi, con 300.000 auto vendute nel 2019. Il settore è in profonda crisi da febbraio per via dell'epidemia del nuovo coronavirus, e le difficoltà hanno agito da molla per accelerare la diversificazione già in atto. La 30 West ha acquisito a febbraio una quota minoritaria ma di peso della britannica Altitude Media Group, produttrice di film interessanti, come il documentario su Maradona. Lo stesso Dan si è lanciato nella sua prima regia con The Last Vermeer, storia del mercante d'arte olandese Van van Meegeren che riuscì a vendere quadri falsi ai capi nazisti. Il film ha debuttato in un paio di festival l'anno scorso, ma l'uscita in sala è ora sospesa per via del lockdown da virus. Tutti questi precedenti aggiungono attesa per l'arrivo di Ryan Friedkin a Roma. Il giovane rampollo giunge sulla scena di una Cinecittà rinvigorita dall'apertura di Netflix nella capitale italiana, e con il possesso di AS Roma, una società che negli Usa è considerata ampiamente sotto utilizzata finora dal punto di vista dell'immagine.

Luciano Moggi per “Libero quotidiano” il 3 aprile 2020. Sarà vero? Non lo so, ma ci credo! Sono nato in un piccolo paese, Monticiano, vicino a Siena, dove studiavo con i sacrifici di lavoro di mio padre che voleva fare di me una persona erudita, diversa da lui, costretto come era a faticare lavorando al bosco per mantenere la sua famiglia. Avevo 18 anni. Una notte mi parlò in sogno una voce lontana, confusa da un fruscio che sembrava vento, lasciandomi perplesso soprattutto al mio risveglio quando cercai di ripassare quanto avevo sentito in sogno, senza riuscire tra l' altro a capire chi mi avesse parlato. Nel momento pensai trattarsi di un compagno di gioco che conosceva la mia passione per il calcio. Non tenni comunque conto di quelle parole perchè le ritenevo facenti parte dei desideri che spesso la propria mente elabora dormendo: «Sei nato povero per cui avrai capito cosa significa la povertà. La tua passione per il calcio non sarà esaudita come calciatore, avrai però fama mediatica, e anche ricchezza. Ma ricchezza e fama ti travolgeranno e capirai allora cosa significa il calore della famiglia rispetto alle luci della ribalta. Gli amici più cari ti volteranno le spalle, sarai anche tradito, avrai processi, e sarai messo all' indice da chi prima ti esaltava. Qualcuno ti sarà comunque vicino per proteggerti dalla cattiveria altrui e alla fine, tra i malvagi ,ci sarà chi confesserà la sua malafede». Questo il sogno, queste le parole. Ai sogni si può credere e non credere, eppure quel sogno aveva rivelato in anticipo il percorso della mia vita lavorativa che forse una mano superiore aveva disegnato per me. Quella stessa mano che volle anche farmi capire che qualcuno mi avrebbe dato la forza e il coraggio necessari. Nel 2004 ricevetti una lettera da una signora di Palermo che mi chiedeva di potermi parlare. Di queste lettere ne ricevevo tante, che evadeva direttamente la mia segretaria. Questa invece stranamente me la tenni personalmente e andando a giocare a Palermo invitai la signora a venirmi a trovare.

IL PASTORE Mi si presentò una vecchia signora che mi disse di essere arrivata a me, tramite i figli, ai quali aveva rivelato il sogno da lei fatto e il mio nome che le era stato menzionato appunto nel sogno. Non sapeva addirittura che genere di lavoro facessi, sentiva solo il bisogno di rivelarmi quanto aveva sognato. Questo il suo racconto: «Mi apparve un gregge di pecore con dietro un pastore. All' improvviso mi comparve Padre Pio che mi disse "vedi quel pastore è Luciano Moggi, digli che gli voglio tanto bene"». Rimasi di sasso a questa rivelazione, ringraziai la signora, e la mia mente tornò a ritroso a quel sogno, quando avevo appena 18 anni. Fu in quel momento che dentro di me, come una scossa, nacque quella carica emotiva che in seguito mi ha portato a dimostrare a tutto e tutti la mia innocenza. Senza paura di niente e di nessuno. Neppure di coloro che hanno infierito su di me calcando la mano su reati "a consumazione anticipata", non suffragati dai fatti e con gli arbitri tutti assolti. Per potermi così collocare nel tritacarne del sentimento popolare con l' aiuto di certi media, nel mezzo del tifo calcistico che, a seconda del colore di appartenenza, non risparmia nessuno, ancorché innocente. Amici lettori spero vorrete scusarmi se per una volta non scrivo di sport, sentivo però il bisogno di manifestarmi a voi per come veramente sono. L' ho fatto in questo triste periodo di coronavirus perchè la nostra Italia che è attualmente pervasa di buonismo, con la paura che ci affratella, chissà che non ci sia chi abbia voglia di redimersi preso dalla paura del virus e soprattutto con il timore di poter essere sottoposto al giudizio finale di un Essere Superiore. Qualcuno mi suggerisce Palamara, il terribile PM del processo GEA,(finito senza condanne) di cui il rimpianto presidente della Repubblica Cossiga ebbe in largo anticipo ad elencare tutte le negatività, oggi venute alla luce. Se ciò avvenisse si potrebbe veramente ipotizzare una profezia quel sogno dei miei 18 anni. E vorrebbe anche significare che i sogni non sempre sono solo divagazioni notturne e desideri spesso non appagati di ognuno di noi.

Luciano Moggi per “Libero quotidiano” il 31 dicembre 2019. Viaggiando in treno, qualche giorno fa, mentre ero assorto ad osservare le bellezze della campagna che scorrevano veloci davanti ai miei occhi, contemporaneamente e quasi inconsciamente la mente riavvolgeva la pellicola di accadimenti passati, riportandomi con il pensiero ai momenti belli della mia carriera. Mi sono rivisto osservatore della Juventus alla ricerca di giovani talenti: tra i tanti le mie perle Causio, Scirea, Gentile, Paolo Rossi, Tardelli e Chiellini. Poi mi è tornato alla mente il Napoli di Corrado Ferlaino, il grande presidente delle vittorie napoletane in Italia e all'estero. Mi sono rivisto ragazzotto di belle speranze, felice per la chiamata di cotanto dirigente a gestire quella squadra che mi intrigava perché ritenevo potesse darmi la possibilità di emergere. Era il sogno di un giovane che diventava realtà: poter entrare nel mondo del calcio che contava, avere addirittura alle dipendenze il miglior giocatore al mondo: Diego Maradona. Non potevo chiedere di più dalla vita. Per questo non finirò mai di ringraziare "l'Ingegnere" per avermi dato questa opportunità che divenne poi un mio vanto, perché riuscimmo a vincere uno scudetto, una Coppa Uefa, una Coppa Italia ed una Supercoppa. A quei tempi la città era sempre in festa e i tifosi erano tanto orgogliosi della propria squadra, da appendere uno striscione, attorno al cimitero comunale, che chiamava in causa i defunti: «Che vi siete persi». Ero e sono rimasto affezionato a Corrado Ferlaino, prototipo del presidente perfetto: importante nel Palazzo, conoscitore di calcio come pochi, nonché attento osservatore dei giocatori che avremmo dovuto acquistare. Quasi una spalla per un direttore. Come tutti gli anni, anche questa volta la consuetudine di farsi gli auguri ci ha portato a sedere allo stesso tavolo nel rinomato ristorante «Mimi alla Ferrovia» a Napoli. Ed è qui che abbiamo fatto un ripasso sui nostri comuni trascorsi calcistici. E ovviamente non potevano mancare le mie domande.

Presidente, quando nel 1987 mi ha chiamato a dirigere il Napoli sapeva che ero in trattativa per tornare alla Roma di Viola?

«Certamente lo sapevo e per questo ho accelerato i tempi per non perdere l'occasione».

Come faceva ad avere tanta fiducia in un giovane come il sottoscritto che, fino ad allora, non aveva mai militato in squadre di primo piano?

«L'intuito, ma soprattutto la descrizione che Allodi mi fece di lei quale grande scopritore di talenti oltre che ottimo dirigente di azienda».

Si è mai pentito di avermi assunto nonostante i contrasti iniziali? Come quando alcuni giocatori fecero un comunicato contro l'allenatore Bianchi che lei, per questo, voleva esonerare mentre io ero del parere opposto: di cacciare, cioè, i rivoltosi?

«Assolutamente no perché le sue decisioni fecero poi il bene del Napoli tant'è che io, dopo attenta riflessione, sposai in pieno il suo modo di vedere».

Ricorda la partita con l'Atalanta, la moneta piovuta in testa ad Alemao dagli spalti, il ricovero del giocatore all' ospedale di Bergamo causa il forte dolore che accusava, la mia telefonata a lei che, scaramanticamente, aveva lasciato lo stadio alla fine del primo tempo? Ricorda la mia raccomandazione di andarlo a trovare in ospedale?

«Ricordo tutto, ma soprattutto lo stato di agitazione in cui versava il giocatore, tant' è che, alle domande dei giornalisti sullo stato di salute di Ricardo, risposi che non mi aveva riconosciuto!».

E quando Bigon, prima della gara con il Genoa, si rifiutò di parlare con la squadra per non aver ricevuto il prolungamento del contratto?

«Lei andò negli spogliatoi a dire al mister di parlare perché altrimenti se ne poteva andare in tribuna a vedere la partita, e ricordo anche che Bigon ascoltò il suo suggerimento perché diede subito le istruzioni ai giocatori».

E quella volta che Maradona non partì con la squadra per Mosca dove andavamo ad incontrare lo Spartak per gli ottavi di Champions?

«Visto il freddo e la neve di quel giorno, decidemmo di punirlo mandandolo in panchina ed evitandogli così la tribuna dove c' erano le poltrone riscaldate!».

Ferlaino, torniamo ai giorni nostri e parliamo del Napoli di adesso. Cosa ne pensa di tutto ciò che sta succedendo?

«Ritengo che De Laurentiis abbia fatto un buon lavoro, portando il club nell' elite del calcio italiano».

I giocatori però si sono rifiutati di andare in ritiro...

«Una mancanza di rispetto nei confronti della società. Con noi certamente non sarebbe successo, Bigon docet».

Carlo Ancelotti, alla fine, è stato esonerato.

«Secondo me fu preso per tamponare la partenza di Sarri, che aveva fatto molto bene, quasi un ombrello, senza però tener conto delle caratteristiche dei giocatori che gli venivano messi a disposizione. Occorreva un grande nome per evitare le critiche e De Laurentiis, da buon politico, lo individuò proprio in Ancelotti».

Maurizio Nicita per gazzetta.it il 20 febbraio 2020. Il deposito delle sentenze che rigettano la ricusazione dell’arbitro prescelto dal Napoli per la questione lodi arbitrali e multe, ha fatto emergere alcuni particolari dell’ormai famosa notte del 5 novembre scorso, quando la squadra ha rifiutato di andare in ritiro. Sei sono i provvedimenti del giudice Arduino Buttafoco, uno per ognuno dei giocatori ricorrenti: Insigne, Lozano, Manolas, Mertens, Milik e Zielinski. Ricapitolando nella sentenza le posizioni, emerge la ricostruzione della società riguardo all’accaduto: "Terminata la gara fra Napoli e Salisburgo, i calciatori, in persona del capitano della squadra (Insigne, n.d.r.), avevano comunicato la loro indisponibilità a pernottare presso la sede del ritiro (...) dopo detta comunicazione, aveva avuto luogo una accesa discussione durante la quale il direttore sportivo (Giuntoli, ndr) aveva fatto presente che i giocatori si stavano rendendo responsabili di una grave e inaccettabile violazione contrattuale (...) Gran parte dei calciatori aveva inveito contro la società e il capitano aveva intimato al vice presidente (Edoardo De Laurentiis, n.d.r.) di allontanarsi dallo spogliatoio, rivolgendogli alcune parole".

UNA MINACCIA CHE PESA—   Dopo oltre 100 giorni nulla è stato ricomposto e le parti continuano a restare distanti e non solo per quegli oltre 2 milioni di multe che complessivamente il Napoli ha richiesto di far pagare. Perché fra le righe della questione arbitrale sulle sanzioni, previste dal regolamento federale, c’è l’accusa più grave, come scritto a chiare lettere: "Risultavano violate anche le clausole della scrittura specificativa (sui diritti di immagine, n.d.r.) depositata contestualmente al contratto e costituente parte integrante dello stesso.

I calciatori avevano inteso compiere, in maniera premeditata, un’azione clamorosa di ammutinamento nei confronti della società e massimamente lesiva dell’immagine di quest’ultima". La spada di Damocle della causa civile per danni - vale almeno un quarto dell’ingaggio annuale - resta sulla testa di ogni giocatore. Hai voglia a dire che non pesa sul campo, così come pure sui rinnovi contrattuali.

Carlo Ancelotti: «Premier League, un altro mondo: qui il calcio è felicità». Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Beppe Severgnini. Tra Goodison Park e il fiume Mersey ci sono due miglia. Tra la tana dell’Everton — e Anfield, la casa del Liverpool — e i vecchi magazzini sul porto (warehouses), la via più diretta passa tra case popolari basse e scure, pub con le sbarre alle finestre (The Crown Vaults, The Queens Arms), sportelli per prestiti (Pay as U Go Car Finance), depositi di legname, chiese riconvertite per l’arrampicata sportiva (Clip ‘n Climb! Awesome Walls). Non credo che Carlo Ancelotti abbia mai percorso, a piedi, questa strada. Ma, dopo aver passato con lui un po’ di tempo (una conversazione, una cena, un allenamento, una partita), ho capito che ha capito: Liverpool è una città di tristezza e dolcezza. Per questo ha prodotto calcio e musica sensazionali. La permanenza nell’Unione Europea, nel secondo porto dell’impero britannico, è passata come un alito di vento. I ricordi, i rimpianti e l’orgoglio resistono, invece. Anche l’umorismo scouse, un incrocio tra humour britannico e risata irlandese. Ancelotti mi spiega che, in quanto allenatore dell’Everton (the Blues), non può guidare un’automobile rossa: quello è il colore degli avversari del Liverpool (the Reds). Il cameriere del ristorante interviene: «Ronald Koeman (ex allenatore dell’Everton, ndr) ha postato una foto con l’albero di Natale sullo sfondo. Aveva addobbi e palline rosse, è successo un putiferio». Viva l’infantilismo del calcio: è un segno di salute. Viva la combinazione di tecnologia, finanza e artigianato della Premier League. A Finch Farm, il centro di allenamento dell’Everton FC, ho visto quanti dati vengono raccolti su ogni giocata e ogni giocatore. Ma i campi — salvo tre o quattro, a Londra — sono classici, colorati, semplici, accessibili. Pieni di cori, canzoni, sospiri collettivi; del rumore perfetto del piede sul pallone. A Goodison Park ho sentito applaudire la formazione avversaria del Crystal Palace. «C’è felicità dentro gli stadi inglesi», ha detto Ancelotti in conferenza-stampa. Ma i colleghi britannici, che non conoscono il rancore di tanti stadi italiani, non hanno colto la poesia dell’affermazione. Carlo Ancelotti è un allenatore calmo e ha calmato la squadra, che ha ripreso a girare. Settimo posto in classifica, una sconfitta con il City in Premier League. Solo il Liverpool ha fatto più punti dell’Everton, da quando è arrivato l’italiano. In dicembre, poche settimane prima di Brexit (31 gennaio).

Le dirò: non sembra che da dieci giorni il Regno Unito sia fuori dall’Unione europea. Non qui a Liverpool, almeno.

«Già, non se ne accorge nessuno. Lavoro con tanti inglesi, non me ne hanno mai parlato. Neppure il giorno in cui sono finalmente usciti. Forse perché non danno troppa importanza alla cosa...».

O forse sono stanchi di discuterne: vanno avanti da quattro anni, in Inghilterra. Neanche i suoi giocatori parlano di Brexit?

«No, assolutamente no. E poi, nel calcio, quali potrebbero essere le conseguenze? Limitare il numero degli stranieri in Premier League? Io non credo che l’Inghilterra voglia fare passi indietro. Qui sono consapevoli del potenziale del calcio inglese nel mondo: con i diritti guadagnano quattro volte la serie A. Uscire dalle competizioni europee? Impensabile. Per forza di cose dovranno trovare un accordo. Prima politico, poi sportivo».

E Liverpool? La gloria di questa città precede l’Unione Europea, risale al tempo in cui i commerci puntavano verso l’America e il resto del mondo.

«Sono qui da poco, ma ho l’impressione che sia una città in evoluzione, vedo tante costruzioni nuove... È vero che ci sono anche zone con molti problemi, anche intorno allo stadio: disoccupazione, solitudine, alcol. E suicidi: 114, l’anno scorso. L’Everton sta facendo tanto, tutti i giocatori sono coinvolti. Quattordici programmi per aiutare 146mila persone, 5 milioni di sterline l’anno».

Liverpool le piace?

«È una città informale. Non è grande, la gente è amichevole. Mi trovo bene perché non amo le città formali. Londra e Parigi offrono più scelta per le cose da fare, certo. Ma a Liverpool, come a Madrid, non devi metterti elegante per uscire a cena».

Ogni volta che incontro un allenatore italiano in Inghilterra — Vialli, Zola, Ranieri, oggi lei — ho l’impressione che si senta, come dire, sollevato.

«Beh, hanno ragione! (ride). Se uno è abituato al calcio italiano, trova un altro mondo. Non parlo dell’intensità del gioco, non è quello che fa la differenza. Qui c’è un ambiente diverso. In Inghilterra non si viene offesi, per esempio. L’insulto è fastidioso. In alcuni stadi italiani hai l’impressione che la gente ti odi, magari perché hai cambiato squadra. Un tipo si mette dietro la panchina e ti vomita addosso insulti per 90 minuti. Qui, è impensabile».

La differenza principale tra Everton e Liverpool?

«Rivalità sportiva al cento per cento. Come a Milano tra Milan e Inter. Nessun odio. Nessuna vera differenza geografica, sociale, politica o religiosa tra le tifoserie».

Rapporti con Jurgen Klopp, allenatore dei rivali del Liverpool?

«Ottimi, ci conoscevamo già. Lo stesso con Mourinho. Ci mandiamo messaggi».

Ho conosciuto suo figlio Davide, che lavora con lei. Eravate insieme anche a Napoli, a Parigi, a Monaco, a Madrid. Com’è lavorare con un figlio trentenne?

«Com’è? È bello. Davide è un allenatore con un patentino Uefa A: in Italia, non avrebbe l’età minima, chissà poi perché. Il rapporto tra noi è professionale, ma certamente mio figlio mi dice cose che nessun altro mi dice: anche sulle cazzate che faccio. Il rapporto interpersonale va benissimo. Ma all’esterno questo condiziona molto. Lui porta un peso».

Perché è andato ad allenare il Napoli, perché è venuto via in quel modo, perché dopo poche ore era già accasato con l’Everton?

«Sono andato a Napoli perché, dopo nove anni all’estero, avevo voglia di tornare in Italia e Napoli mi sembrava una piazza interessante… Diciamo che non è finita bene, ma è stata una buona esperienza. Vivere a Napoli è una delle più belle cose che possano capitare. Poi un po’ per i risultati, un po’ per altre difficoltà, si è chiuso il rapporto. Io vengo esonerato il 12 dicembre, l’Everton ha mandato via l’allenatore ai primi di dicembre, le cose si sono combinate. Coincidenze. De Laurentiis ha detto: “Ho pensato di cambiare”, io gli ho detto “Sei sicuro?”, lui mi ha detto “Sì”, allora io ho detto: “Ok, allora cerco un’altra squadra”. Non avevo voglia di star fermo e farmi pagare senza lavorare. Allenare in Inghilterra è affascinante, e la società dell’Everton è ambiziosa».

Come fa un allenatore a capire che presto verrà esonerato?

«Lo annusi, lo annusi... Nel calcio i segreti non esistono, si sa tutto di tutti. A Napoli si annusava... e che devi fare? Devi prendere atto».

Cosa le ha dato fastidio di questa vicenda?

«Mi dà fastidio che, quando le cose non vanno bene, mi dicano “Ah, bisogna usare la frusta, sei troppo buono, sei troppo gentile e accomodante coi giocatori!”. Ma dico: i dirigenti al mondo non conoscono come alleno? Non mi puoi prendere e poi dirmi di cambiare il mio modo non solo di allenare: il mio modo di essere. Perché io sono così, e così sono arrivati i successi. Se tu mi dici “Devi usare la frusta!”, è sbagliato, è sbagliato».

È successo solo a Napoli...?

«Ma no, è successo anche al Chelsea, è successo al Paris Saint-Germain... Ho vinto tanto, lo so, ma i momenti difficili ci sono stati dappertutto. Anche al Milan ci sono stati dei passaggi difficilissimi. Però superati. Ecco: forse il Milan è stato l’unico posto dove non mi hanno detto: “Usa la frusta!”. Perché mi conoscevano».

A proposito di Milan. Un’opinione sul derby da una gloria rossonera che da ragazzo tifava Inter? Qual è stata la squadra più britannica?

«Grande Milan nel primo tempo, grande reazione Inter nel secondo tempo. Di britannico c’era l’atmosfera fantastica di San Siro».

Non è che voi dell’Everton ci portate via Vecino, vero? Ricordi che adesso lei allena i blu, non più i rossi.

«Vecino? Tranquilli, resta dov’è».

Il figlio di Pelè: "O Rei non lascia mai casa, è depresso". Pelé, 79 anni. In un'intervista Edinho svela lo stato di salute del padre, che non può più camminare: "Questo problema ha fatto di lui un recluso". La Repubblica il 10 febbraio 2020. E' stato il simbolo della fisicità nel calcio, oltre che della bellezza e del senso del gol. Ma ora Edson Arantes do Nascimento detto Pelé sta soffrendo. Non esce più di casa e sta sfiorando la depressione per il problema di deambulazione che non gli permette più di camminare. A svelarlo in un'intervista a GloboEsporte.com Edinho, il figlio di O Rei che giocò in passato come portiere. Pelè, che il 23 ottobre compirà 80 anni, sta pagando non solo i problemi legati all'età, ma anche le conseguenze di un intervento all'anca. "È fragile sul fronte della mobilità dopo un trapianto di anca e una riabilitazione non adeguata" ha raccontato Edinho secondo l'anticipazione dell'intervista. "Questo problema finisce per provocare una certa depressione. Lui è O Rei, è sempre stato una figura così imponente, e oggi non può più camminare bene. Questo lo intimidisce, lo imbarazza. Ma in generale, a parte quello, sta bene, considerata l'età e tutto". "Certo" ha proseguito il figlio, "mio padre non può camminare normalmente, lo fa solo con l'aiuto di un deambulator. È persino migliorato un pò rispetto a qualche tempo fa, quando ha dovuto usare la sedia a rotelle, ma ha ancora molte difficoltà a camminare. Per questo non vuole uscire, farsi vedere, praticamente non lascia mai casa, vive quasi da recluso". Pelè ha vinto, unico al mondo, il campionato mondiale in tre edizioni: 1958, 1962 e 1970. Secondo la Fifa è stato il Calciatore del Secolo, titolo assegnato nel 1999, lo stesso anno in cui il Cio lo nominò Atleta del Secolo. Oltre ai tre mondiali, al Brasile ha portato 77 gol in 92 partite, score mai avvicinato ad altri campionati. Ancora alle Olimpiadi di Londra 2012 era apparso nella cerimonia di chiusura nella parte dedicata ai futuri organizzatori di Rio 2016. Negli ultimi anni i problemi di salute svelati adesso dal figlio.

Emiliano Guanella per “la Stampa” il 23 ottobre 2020. Non lo avrebbe mai immaginato il grande drammaturgo Nelson Rodrigues, che il suo articolo «La monarchia del calcio» scritto nel 1958 per elogiare un attaccante diciasettenne dai piedi meravigliosi avrebbe dato a Pelé, che oggi di anni ne fa ottanta, il miglior soprannome e allo stesso tempo la cifra esatta del suo rapporto con i brasiliani. Da allora Edson Arantes do Nacimento è "O Rei" e la nobiltà lo ha reso, in fondo, anche inarrivabile. È ancora molto amato, intendiamoci, ma senza il pathos dell' altro grande mito sportivo del Brasile, Ayrton Senna. Pelé è stato un eroe soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, quando ha portato a casa tre titoli mondiali, col tempo la sua corona ha perso brillo. Oggi il Brasile lo celebra con stima e riconoscimento, ma senza grande passione; vuoi perché di anni ne sono passati tanti, vuoi per il suo carattere troppo "diplomatico", sempre lontano dalle polemiche e bizzarrie che aiutano la costruzione dei miti popolari, al di là delle gesta sportive. Eroe della classe media Pelé, nato povero e nero, è diventato un eroe della classe media; Ayrton, famiglia ricca e bianca, ha saputo invece conquistare tutti, dai grattacieli di San Paolo alle ultime favelas del Nord Est. Oggi il Re si festeggia con una mostra al Museo del Futebol e delle proiezioni di film e partite presso la sede del Santos, diversi i programmi speciali in televisione. A causa della pandemia si è barricato da sei mesi nella sua villa di Guaruja, sul litorale paulista. Il manager Joe Fraga ha declinato centinaia di richieste d' interviste, facendogli registrare un messaggio urbi et orbi. «Ringrazio Dio per avermi permesso di arrivare a questo traguardo lucido e, tutto sommato, in salute. E ringrazio tutti quelli che si ricordano di me in questa data». Molti gli acciacchi negli ultimi anni; l' operazione nel 2013 per una protesi all' anca che non è andata benissimo, due ernie al disco, un intervento d' urgenza per calcoli renali. Ad inizio anno il figlio Edinho, che gli ha dato non pochi problemi in passato, ha detto che era depresso. Lui l' ha subito corretto: «Ho alti e bassi, come tutti, ma affronto la vita con un sorriso». Sorriso che ha sempre esibito davanti alle telecamere, anche quando non si trovava a suo agio. Ha stretto la mano ai generali della dittatura e ai presidenti in democrazia, è stato ministro dello sport con Fernando Cardoso, ha abbracciato con discrezione Lula da Silva e ultimamente ha preferito non incontrare Jair Bolsonaro. Lontano dalla politica Per anni ha sostenuto che «il calcio e la politica non si devono mischiare»; non ha preso parte alla campagna di Socrates per la fine del regime, né alle manifestazioni recenti del movimento nero. Geloso del suo primato, ha sempre snobbato i potenziali eredi, da Zico a Romario, da Ronaldo a Neymar,che oggi è a "sole" 13 reti dal suo record di gol nella Seleção. Le sue giornate sono scandite dalle sessioni di fisioterapia con la figlia Flavia, qualche messaggio via skype per gli sponsor e molto calcio in poltrona; pure il cafezinho al bar con i vecchi compagni del Santos è stato sospeso. Per il compleanno ha registrato la canzone «Acredite no veio», col duo messicano Rodrigo e Gabriela. Il video è un cartone animato e il testo, molto ironico, ha un ritornello che dice «dai retta al vecchietto, figlio mio, che è ancora forte e farà vincere la sua squadra». Come dire: saranno pure ottant' anni, ma il Re sono sempre io.

Gigi Garanzini per “la Stampa” il 23 ottobre 2020. Era il 29 giugno del '58 quando dai teleschermi in bianco e nero sbucò all' improvviso un fenomeno mai visto prima. E nemmeno immaginato. Formidabile quel Brasile di Garrincha e Didi, di Zito e dei due Santos, che schiantò in finale la Svezia di Liedholm padrona di casa. Ma fu l' apparizione del diciassettenne Pelè ad incantare il mondo: e a spostare più in là la percezione di fuoriclasse che sino ad allora ci era stata raccontata, o tramandata. La prima metà del secolo aveva regalato i Leonidas e i Pedernera, i Sindelar e i Meazza, la seconda si era aperta nel segno di Puskas, Schiaffino e Di Stefano. Quel giorno si capì una volta per tutte che era nata la pietra di paragone definitiva. Fidiamoci una volta di più di Gioanbrerafucarlo, del superiore talento nel consegnare ai posteri i suoi ritratti d' autore. «Ce ne vogliono molti di assi che conoscete per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione». A distanza di tanti anni dall' affresco del maestro, e avendo negli occhi le magie dei successori, veri o presunti, che si sono nel frattempo succeduti in un calcio sempre più freneticamente veloce, aggiungerei una parola, una qualità suprema che racchiudeva e raccordava tutte le altre, così mirabilmente catalogate. Armonia. Non si è più visto, e chissà se mai si rivedrà, un campione armonico come Pelè. La perfezione del suo movimento naturale nella corsa, nel governo del pallone, nella battuta, nello stacco. Una gioia assoluta per l' occhio, che anche nel football reclama la sua parte: e insieme, la ricerca istintiva di una colonna sonora adeguata, così che anche l' orecchio potesse avere la sua. Forse Mozart, ma del migliore, dove l' armonia è sublime quanto essenziale. Perché Pelè, questo è poco ma sicuro, di gesti tecnici o atletici che fossero non ne ha mai sprecati. Andava semmai per sottrazione, perché proprio quell' inarrivabile semplicità del gesto, dei gesti, era la cifra definitiva della sua grandezza. Nessuno ha segnato quanto lui nella storia del calcio. Eppure, per paradossale che sia, il parametro non è questo. Semmai quella volta di Bogotà, con la maglia del Santos, quando fu per una volta espulso: e per calmare i tifosi colombiani inferociti fu necessario richiamare in campo lui e mandare a casa l' arbitro. Buon compleanno, fenomeno.

Piero Mei per “il Messaggero” il 22 ottobre 2020. Pelè compie 80 anni. Almeno per le scartoffie dei burocrati, pure se digitalizzate. E' nato il 23 ottobre 1940, ma l' impiegato scrisse 21, perché era duro d' orecchie o perché gli riusciva meglio scrivere l' 1 in bella calligrafia. Non capì neppure il nome: il papà lo voleva chiamare Edison pensando che si fosse accesa una lampadina sul mondo, ma quello borbottò qualcosa e scrisse Edson. Pazienza, lo avrebbe portato per pochi anni. Poi sarebbe diventato Pelè. Pelè compie 80 anni ma non per il popolo del calcio: un supereroe non ha età. Ce l' hanno, forse, Superman o Batman per non dirne che due? «Ringrazio Dio di essere arrivato a questo punto in buona salute e lucido e spero che quando sarà mi accolga come fanno in tutto il mondo» ha detto Pelè. Ha anche aggiunto, un po' blasfemo ma probabilmente veritiero, «sono più conosciuto di Gesù». Per generazioni Pelè è il calcio.

IL CONFRONTO. Se la batte con Maradona, Napoli permettendo. C'è chi gli accosta o mette davanti Di Stefano o Cruyjff, i contemporanei sussurrano a mezza bocca Messi o Cristiano Ronaldo. Ma vuoi mettere tre mondiali vinti, il primo a 18 anni e il terzo a trenta? Vuoi mettere 1281 gol in 1363 partite? Su questi numeri gli statistici s' azzuffano per qualche unità in più o in meno, ma conta poco o nulla. Perché i numeri non si addicono a Pelè. Perfino qualche santone della panchina di quelli fissati con gli schemi e guai a non rispettarli, non riuscirebbe a mortificarlo assegnandoli un ruolo: il suo ruolo era quello di essere Pelè. Quando in nazionale ha giocato a fianco a Garrincha ha sempre vinto: quaranta volte di seguito. A Burgnich, il terzino degli azzurri di Italia-Germania 4-3, cui toccò l' atroce e sublime destino di marcarlo (eufemismo) la volta dopo nella finale, forse è sempre comparso nei sogni e negli incubi: volava. Ha detto Burgnich: abbiamo visto arrivare il pallone, siamo saltati insieme, quando ho messo di nuovo i piedi a terra l' ho visto che era ancora lassù; volava, come se non fosse di carne e d' ossa come ogni uomo. Da farsi venire un complesso. Forse come quello che avrà tormentato per tutta la vita il figlio di Pelè che coraggiosamente volle fare il calciatore, ma per non reggere il confronto si mise tra i pali. Tutt' altra vita. Del resto anche Pelè cominciò fra i pali, da piccolo: il papà, detto Dondinho, s' allenava allenandolo, anche nel corridoio di casa. Gol di papà, Para Pilè faceva il piccolo, che voleva dire Bilè come il portiere che giocava di solito con Dondinho: non sapeva dire la b il ragazzino. Di lì venne Pelè oppure glielo affibbiò un qualche compagnuccio con intenzioni bulle? Le leggende si rincorrono. Jorge Amado ha scritto una favola su un portiere Bula Bula di cui la palla s' era innamorata e gli finiva sempre fra le braccia, pure quando a scagliarla era Pelè: ma, per l' appunto, è una favola. Bula Bula non esiste. La vita reale ha sempre proposto altro: fosse un colpo di testa o una rovesciata, fosse un dribbling o un passo doppio, tutto il repertorio del carnevale del calcio. Pelè, Pelè urlava tutto lo stadio quando con la maglia eterna del suo Santos andò sul dischetto del rigore guardando il portiere Andrada del Vasco da Gama, per tirare quello che sarebbe stato il suo gol numero 1000, cifra alla quale nessuno era mai arrivato prima di lui, novembre 1969. Pelè guardò Andrada che forse abbassò lo sguardo o forse no. Pelè fece gol: lui segnava, nel mondo che pure non era ancora tutto in diretta i ragazzi sognavano.

Gianni Brera e la classe di Pelé: "Quel gol è la poesia più bella". Gianni Brera su La Repubblica il 22 ottobre 2020. Dolce, chiara è la notte e senza vento. Pronunciate le comunissime parole di questo che è fra gli endecasibili di più limpida trasparenza. Continuate: e cheta sovr'ai tetti e dentro gli orti... È mia nonna che parla affacciandosi nottetempo alla finestra. Mia nonna analfabeta e grande. Posa la luna e di lontan rivela - serena ogni montagna. Sapete che è Giacomino: ha il Parnaso fra le scapole, e i coglioni dicono che è gobbo. Bene: adesso guardate Pelé. Dolcechiaré: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto e senza vento: ricade ammansita sull'erba: un piedino prensile l'accarezza mentre l'altro spinge: echetasovraitetti: accorreva un avversario: si è coricato come un birillo: tettiposalà: avanza un altro: piroetta; lalùna: ecco un compagno smarcato: oppure, ecco una nuova battuta di dribbling: si corica il secondo birillo: o magari no, questa volta il birillo non si corica e vince il tackle: Pelé ha sbagliato il dribbling: capita: anch'io ho dimenticato: sovr'ai tetti e dentro gli orti. Ripetizione: posalalunedì lontàn e rivèla: ora parte Pelé in progressivo. Serenognì montàgna. Correndo, senza sforzo apparente, ha fissato i bulloni in terra ed ha scaricato fulmineo la pedata: ha mirato, si è visto: mentre correva ha mirato e battuto a rete. Serenognì montàgna. Punto. Gol. Mi dico di non aver mai visto nulla di simile. Gli dedico epinici. Mi esalto e lo esalto. L'ho veduto far questo: coricare tre birilli e battere di sinistro sul portiere: palla che schizza verso il fondo: prima che esca, continuando la corsa, Pelé compie un gran balzo e ricade col sinistro sulla palla: la colpisce a volo, in modo che s'infila tesa e bassa in diagonale. O Gòngora ti cheta, ch'io non son poeta. Se avete capito "dolce chiara è la nottesenzavento" non ho bisogno di proseguire. Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l'iniziativa dell'attacco e, scattando a fior d' erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull'altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelé. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione.

Tarcisio Burgnich, la Roccia che saltò con Pelé, e l'intervista d'archivio realizzata da Gianni Mura: "Non feci in tempo ad arrivare che... " Gianni Mura su La Repubblica il 22 ottobre 2020. Grinta e umiltà, i trionfi con l'Inter di Herrera e i 3 Mondiali giocati in azzurro: dal campetto di Ruda alle sfide impossibili con O Rei nella finale del 1970:''Ero su Rivelino, ma Valcareggi cambiò la marcatura". Il difensore friulano si racconta e giudica i campioni contemporanei: "Noi eravamo sul campo un'ora prima. Oggi si allenano come se timbrassero il cartellino". In tre ore di conversazione con Tarcisio Burgnich, detto Roccia, è inevitabile toccare l'argomento-difensori. E, in sottordine, del vivaio friulano che fu. Ma prima devo controllare un episodio: è vero che il Catania, cui serviva un difensore, convocò per un provino lui e Bruno Pizzul e preferì Pizzul? "È vero, ma non me la presi più di tanto perché poi andai alla Juve". Fu Armando Picchi a chiamarlo Roccia. In una partita con la Spal arrivarono a contendersi il pallone Novelli, un'ala veloce, e Burgnich. Novelli rimbalzò a tre metri e rimase a terra come l'avesse investito un camion. "Ti capisco, sei andato a sbattere contro una roccia", andò a consolarlo Picchi, che era un ex. Burgnich nasce centrocampista e nelle giovanili dell'Udinese gli cambiano ruolo. Come tutti, aveva cominciato sul campetto del paese, Ruda. Il padre, Ermenegildo, lavorava alla Snia, a Torviscosa. Aveva fatto la guerra del '15-18 con la divisa degli austriaci ("era in Marina, a Grado"). "Da bambino tenevo al Toro. Dopo Superga, in classe piangevo e i compagni mi prendevano in giro. Tra noi giocavamo il derby della Mole, le milanesi erano un realtà lontanissima. Facevamo il pallone riempiendo di fieno secco le calze di nylon, erano passati gli americani. Oppure palleggiavamo con le pallette da cricket che lasciavano gli inglesi. Per vedere un pallone veroce n'è voluto".

Anche gli avversari (da Pulici a Riva) hanno riconosciuto a Burgnich grande lealtà, unità alla grinta. Eppure si pensa a quegli anni, moviola zero o quasi, come a una specie di Far West.

"Lo dice chi non li ha visti. I nostri allenatori ci esortavano a essere corretti, specie in area di rigore. Bisogna dire che gli arbitri erano meno permissivi, ai miei tempi. E poi, giocando addosso all'uomo, non potevi fargli molto male. Roba minima, spintine, calcettini, ma senza rincorsa. Oggi vedo falli molto più violenti: piedi a martello, entrate a forbice in scivolata, gomitate al viso. Ora parlo da difensore: ho visto gialli e rossi assurdi, è impossibile saltare stando sull'attenti o con le mani dietro la schiena. Alzare le braccia fa parte del saltare. È la gomitata premeditata, la carognata è da punire, non il salto e le braccia aperte. Una domenica a San Siro con una gomitata Riva mi ha buttato giù due incisivi e un premolare. Appena ho potuto gli ho reso il fallaccio, e poi mi sono scusato. Non ho mai avuto problemi con gli avversari. Se parliamo di Riva, di Boninsegna, di Pascutti, è tutta gente che oggi segnerebbe 40 gol a campionato. Gigi era forte e tecnico, Bobo furbo e coraggioso, Ezio una faina, se te lo scordavi un attimo faceva gol".

Burgnich in qualche modo è legato a due fotografie: Pelé in elevazione segna di testa, Pascutti in tuffo segna di testa a mezzo metro da terra.

"Più bravo Pascutti, su quel pallone ero in anticipo io, forse l'ho anche toccato con la mano. Lui non so come ha fatto, mi è quasi sbucato da sotto la pancia. Pelé va su benissimo, ma si vede che io salto storto perché sto recuperando la posizione dopo che Valcareggi ha stabilito di cambiare marcatura: io su Pelé e Bertini su Rivelino. In Messico era grandissimo Brasile, secondo solo a quello del '58. Dopo il 4-3 coi tedeschi ho passato tre giorni a letto, per recuperare. In fondo, abbiamo tenuto il pari fino a 20' dalla fine. Loro avevano sempre giocato a quote più basse, sui 1500, noi sempre oltre i 2000, anche questo forse ha fatto la differenza".

Lei ha giocato tre mondiali: perché in Messico bene, in Inghilterra e in Germania no?

"Semplice. Per colpa nostra. In Messico eravamo un gruppo vero, unito. Le altre volte c'erano i clan. Milan e Inter in Inghilterra, più una spruzzata di Bologna. Le polemiche tra Rivera e Picchi moltiplicate dalla stampa. Un giorno, prima delle convocazioni, ero andato in camera di Fabbri, caldeggiando l'impiego di Picchi. Mi disse che non poteva, sarebbe stato come cedere a una parte della critica. Prima di ogni gara Fabbri parlava per un'ora prospettando le peggiori eventualità. Io con la Corea non ho giocato, ma ricordo bene cosa disse negli spogliatoi: ragazzi, se perdiamo ci tocca andare tutti a vivere nel Ghana. E via di questo passo, togliendo serenità. Ci siamo tirati su in fretta, vincendo gli europei nel '68 e arrivando secondi in Messico. Ma nel '74 ci siamo ricascati. In Germania era Sud contro Nord, ha cominciato Juliano, ha proseguito Chinaglia. Io con la Polonia sono uscito sullo 0-0, Szarmach mi ha spinto mentre difendevo un pallone a fondocampo, mi si sono piantati i tacchetti, distorsione al ginocchio. Al posto mio è entrato Wilson e dopo 5' Szarmach ha fatto l'1-0. Ma comunque non saremmo andati lontani. Non eravamo una squadra vera".

Veniamo al vivaio friulano. Una volta c'erano friulani in tutte le squadre, anche se qualcuno li chiamava razzapiave. Ora sono spariti. Ha una sua teoria?

"L'ho maturata allenando. Molti che arrivano al calcio sono ragazzi dotati di una sfrontatezza che in Friuli è meno diffusa. Allenamento alle 10, ben che andasse arrivavano alle 9.59. Noi, campioni d'Italia e del mondo, eravamo sul campo un'ora prima. A fare il torello o anche a raccontarci barzellette, ma guai a tardare cinque minuti. Idem dopo l'allenamento, nessuno andava via come se dovesse timbrare il cartellino. E tenga conto che a massacrarci erano i ritiri. Col Mago, in campionato, dal venerdì sera al lunedì mattina, e poi di nuovo dal martedì al giovedì se c'era una Coppa. Qualcuno dei miei giocatori m'ha detto: mister, in allenamento ai vostri tempi non facevate un cazzo. Bene, ho detto, allora vi farò fare la metà di quello che facevamo ai nostri tempi. Li ho stesi".

Come si diventa grandi difensori?

"Sostanzialmente bisogna essere umili. E poi sempre concentrati. L'attaccante è un ruolo di fantasia, il difensore no. Ti tocca sempre la seconda mossa, ti muovi in base a come si muove l'avversario. Lui vuole fare, tu impedirgli di fare. Uno dei miei primi allenatori, Comuzzi a Udine, mi diceva: con un occhio e mezzo guarda l'uomo, con l'altro mezzo occhio il pallone. Oggi il massimo nel mondo è Thiago Silva. Non gli manca nulla. Ha corsa, fisico, visione di gioco, tecnica, tiro. Io ero un difensore umile e veloce, me la sono cavata anche contro Gento. Chi ha messo più in difficoltà è stato Dzajic nel '68. Alla prima partita, poi gli ho preso le misure".

E i nostri difensori attuali?

"A me l'unico che piace davvero è Barzagli. Mi ricorda i nostri tempi, è un bel difensore all'antica. Non è velocissimo, ma compensa col mestiere e l'attenzione. Bonucci è più bravo tecnicamente, ma gli piace specchiarsi e ogni tanto fa quelle che ai miei tempi si chiamavano maldinate. Non me ne voglia il buon Cesare. Chiellini non mi piace: eccessivo sia quando le dà che quando le prende, troppi interventi in scivolata, generoso, non discuto, ma con tendenza a distrarsi. Ranocchia lo seguivo già quando giocava nell'Arezzo. Tecnicamente valido. Di testa più forte nell'area avversaria che nella sua, un po' com'era Facchetti. Sullo scatto breve non c'è. Ma, sui difensori in generale, non è tutta colpa loro, credo che manchino gli allenamenti specifici, e si capisce dalle ammucchiate in area: gente che si tira, si abbraccia, si prende a pugni, ci vorrebbero cinque rigori a partita per fargli cambiare musica, ma non vedo in giro l'arbitro capace di fischiarli ".

Le piace il codice etico di Prandelli?

"Sì. Per me è un richiamo a cosa significa essere calciatori professionisti. Ma a me piacerebbe che ci fosse anche un codice estetico. A volte vedo una sfilata di ragazzi che non sai se vanno a giocare a pallone o a una trasmissione di Maria De Filippi. Le creste, i tatuaggi dappertutto, gli anellini, gli orecchini, le scarpe rosse, gialle, lilla, verdi, azzurre. Più di questo spettacolo, mi fa tristezza un bambino di otto anni pettinato come Balotelli ".

Cosa pensa di Balotelli?

"Che ha un tesoro nei piedi e lo sta buttando via. E sa di chi è la colpa? Dei primi allenatori che ha avuto da ragazzo. Ai primi segni di bullismo, bastava che lo lasciassero due partite in tribuna e avrebbe capito. Invece a loro serviva per vincere le partite, e sorvolavano su tutto. Questo è il risultato. Balotelli è un grande giocatore in potenza ma non un campione. Gli manca la continuità, la sintonia con i compagni. Un campione non è a sprazzi, un campione c'è sempre. Messi è un campione. Di quelli che potrebbero insegnare calcio. Rivera è cresciuto all'ombra di Schiaffino, Boninsegna ha imparato da Meazza a calciare i rigori, Paolo Rossi andava a studiare le finte di Hamrin, Vieri pensava a Moro e a Ghezzi. Un Roby Baggio, invece di metterlo dietro a una scrivania, non era più utile sul campo, a mostrare come si tirano punizioni e rigori ai ragazzini?".

Cosa guarda volentieri in tv?

"In Italia, solo la Juve. Spesso l'ho contata con tutti i giocatori nella sua metà campo. I primi difensori sono Tevez e Llorente. Se non giocasse così, la Juve perderebbe più partite. Conte lo sa, e per questo gioca così. Sono belli i tempi di esecuzione delle singole fasi, l'armonia dei movimenti delle linee, la partecipazione di tutti. Detto questo, oggi si gioca molto più chiusi, con difese a 5 ma dichiarate a 3. Molte squadre fanno un vero catenaccio ma guai a definirlo così. Se io ripenso alla grande Inter, c'erano solo tre difensori puri, ovviamente non conto Facchetti. Povero Giacinto, quante camere abbiamo condiviso. Era una gara a chi parlava di meno. Avevamo tanta roba da leggere, io libri di storia, lui romanzi. Buonanotte Tarci, 'notte Cipe, alle 22.30 si spegneva la luce. Molti infortuni non dipendono oggi solo dal gioco duro, ma dal fatto che molti non rispettano i tempi di recupero".

Che ricordo ha di Herrera?

"Una persona perbene. Era stato povero, molto povero, e ci esortava a non buttare via i soldi. Aveva la mania dei ritiri, multava chi giocava a carte, un po' di biliardo lo tollerava, ma col suo arrivo è stato come salire su un'astronave del futuro. Aveva istituito per i giocatori dei corsi d'inglese, cinquant'anni fa, e anche di yoga, che lui praticava tutti i giorni. La soddisfazione più grande è la vittoria sul Real a Vienna. Abbiamo sconfitto i nostri idoli, le nostre figurine".

E quanto vi ha fruttato?

"Molto meno del milione di euro che il Psg avrebbe promesso ai suoi: quattro milioni di lire".

Ha rimpianti?

"No. Quando l'Inter mi ha giudicato troppo vecchio, mi ha mandato a Napoli e a Napoli, con la zona di Vinicio, mi sono proprio divertito. Non c'erano grandissimi nomi, ma eravamo uniti e per un pelo non abbiamo vinto lo scudetto, nel '75. Quando sono partito da Udine per Torino, non pensavo che dal calcio avrei avuto tutto quello che ho avuto. Da giocatore. Da allenatore, mi chiamavano squadre costruite un po' alla carlona, sempre nella parte destra della classifica, a volte con un piede nella serie inferiore. Ragionamento dei presidenti: se andiamo in B è colpa di Burgnich. Era più colpa loro, ma non importa. Se mi giro indietro, sono felice".

Articolo della serie "Il campo dei ricordi" del 2014

Le notti romane del divo Pelé, e quel rigore parato da Ginulfi. Luigi Panella su La Repubblica il 22 ottobre 2020. O Rei e il Santos vennero spesso nella Capitale tra il 1961 e il 1972, e l'accoglienza fu sempre da star. Tre vittorie brasiliane, quattro portieri. Ma solo a uno, romanista e romanissimo, il fuoriclasse non fece mai gol: "Tempo dopo venni a sapere che chiese di me, mi voleva portare in Brasile". Quel fascino particolare di Roma: suadente, arrogante, irresistibilmente seduttivo. Molte star del cinema americano vi trovarono una seconda vita. Era la Hollywood sul Tevere degli anni cinquanta, dei kolossal che gli americani venivano a girare a costi stracciati. Divi di tutti i tipi, accolti con un entusiasmo popolare degno di un capo di stato: attori, attrici, ma anche star dello sport. ''Pelé a Roma: 1961, 1967, 1972'', è un romanzo in tre atti. Tre partite spalmate nel tempo: la prima con il fuoriclasse acerbo ammirato al mondiale in Svezia, l'ultima con l'uomo carico di gloria, appagato ma non imbolsito, che sta dando l'addio alla nazionale dopo essersi preso per sempre la Coppa Rimet in Messico. Il 3 marzo del 1972, Pelé non deve dimostrare più niente a nessuno. Il Santos invece non riesce più a dimostrare lo splendore di un tempo. Lo stesso 10 sta regalando le ultime stagioni al club paulista prima di esportare il calcio negli Usa con l'esperimento precursore del fantacalcio dei Cosmos. Quel giorno che bussa alla primavera Pelé ha già vinto tutto, e da tempo il suo gol numero 1000 è diventato un quadro nella storia. È planetario, è il piede di Neil Armstrong sulla luna, è il gancio sinistro di Joe Frazier alla mascella ed alle certezze di Muhammad Ali. Lo ha segnato su rigore, in un Santos-Vasco da Gama del 1969, mentre tutto il mondo era dietro la porta di Andrada, il portiere della squadra carioca. Anche se Pelé gli avesse tirato addosso, lui si sarebbe scansato. Non avrebbe interrotto il corso di una storia che, sia pure come attore non protagonista, stava celebrando anche lui. Rigore per il Santos. Anche il 3 marzo del 1972. Roma-Santos atto III, sono passati 36 minuti. I tempi di Coppa dei Campioni sono ancora lontani, i tifosi romanisti sono fermi alla Coppa delle Fiere vinta nel 1961 e ad una monetina beffarda che li ha privati della finale della Coppa delle Coppe del 1970 dopo una infinita trilogia di sfide con il Gornik Zabrze. A Roma c'è tanta voglia di calcio stellare, sono in 70mila sugli spalti: quasi tutti paganti. Il quasi lo scrive l'allora presidente Anzalone: a partita iniziata da pochissimo, ai cancelli è ressa selvaggia. Lui dà l'ordine di aprirli per evitare una tragedia. In tribuna c'è un altro sudamericano illustre, ma del Santos gliene frega poco. È un argentino dallo sguardo impenetrabile: Carlos Monzon a Roma torna spesso per allenarsi con Mario Romersi, pugile del rione Monti. Sta preparando la difesa della corona mondiale dei medi strappata a Nino Benvenuti: il mese successivo, al Palazzo dello Sport, Denny Moyer gli resisterà 5 round. Rigore per il Santos. Pelé ne ha tirati una infinità fino a quel momento. Tutti gol, tranne tre: con il Corinthians nel '59, con il Guarani nel '67 e con il Municipal de Lima l'anno seguente. Tira e un ragazzo del quartiere San Lorenzo, romanissimo e romanista, Alberto Ginulfi, lo para. "Fa una finta a destra e tira a sinistra, rasoterra: paro in tuffo, con una sola mano'', ci racconta il portiere. Poi il Santos vince 2-0: segnano Oberdan ed Edu, ma non lui. ''Mi diede la sua maglia, la custodisco gelosamente. Il giorno dopo quel rigore l'ho anche incontrato, fui invitato ad un rinfresco all'ambasciata brasiliana''. Ma di incontro ce n'era stato un'altro, nell' estate del 1967, al Flaminio. Dopo 42 minuti Pelé si presenta davanti al portiere, pallonetto, gol. Già, però il portiere è Pierluigi Pizzaballa, l'uomo senza volto, almeno nelle figurine Panini visto che è passato alla storia come introvabile. Nella ripresa entra Ginulfi, Pelè va al tiro più volte, ma niente. ''Gli ho parato tutto, tanto che un po' di tempo dopo un famoso mediatore brasiliano, l'uomo che aveva portato in Italia Jair, disse che Pelé aveva chiesto di me. Quando gli fu risposto che ero solo una riserva, domandò se non fosse il caso di portarmi al Santos...". A distanza di tanti anni Ginulfi, che come allenartore dei portieri e osservatore del Napoli si è goduto le prodezze di Maradona, non cade nel più scontato dei giochini: "Il più forte? Ogni fuoriclasse caratterizza la sua epoca. Diciamo che Messi è molto simile a Maradona, mentre una punta come Pelé, visto che lui ha arretrato la posizione solo sul finire della carriera, non c'è più stata. Scattava da fermo e ti lasciava sul posto, e poi aveva uno stacco di testa come pochi pur non essendo altissimo. Sembrava un giocatore di basket che fa il terzo tempo, capace di colpire di testa restando per aria mezz'ora...". Andò decisamente peggio a Panetti e Labella, che si alternarono in porta nel giugno del 1961, Pelé atto I. Era la Roma del 'vecchio' Schiaffino e di Chiggia (sì, proprio di due uruguaiani del Maracanazo del 1950 che aveva fatto piangere il Brasile), del gladiatore Losi, del potente Lojacono, di Piedone Manfredini. Eppure fu 0-5, doppietta del giovanissimo O Rei. Tre anni prima aveva stupito il mondo insieme ad un ragazzo dal dribbling impossibile, anche lui in qualche modo stregato dal fascino di Roma. Nel 1970 Garrincha venne in Italia al seguito della sua donna (una show girl dell'epoca) e sponsorizzato da un consorzio di caffè. Per lui non si riempì lo stadio Olimpico, ma l'amore per il pallone era rimasto immutato. Giocava con tutti: nei parchi, nelle strade, lo fece anche con una squadra dilettantistica, il Sacrofano. Solo così provava sollievo e scacciava per qualche ora i demoni dell'alcol che stavano distruggendo la sua anima.

·        Quelli che…la Palla a Volo.

Da “la Gazzetta dello Sport” il 28 ottobre 2020. Esattamente 30 anni fa, il 28 ottobre del 1990 nell' immenso palasport di Rio de Janeiro (il Maracanazinho) l' Italia di Velasco battendo 3-1 Cuba in finale si laureava, per la prima volta, campione del Mondo. Un successo che poi venne ripetuto nel 1994 e nel 1998. Un ciclo leggendario che portò la Federazione Internazionale a incoronare quel gruppo Squadra del Secolo. Dieci di quei campioni sono poi diventati allenatori, anche se oggi Cantagalli e Martinelli hanno altre professioni.

Luca Pasini per “la Gazzetta dello Sport” il 28 ottobre 2020. L' eco dei tifosi del Maracanazinho di Rio de Janeiro ronza ancora nelle orecchie, anche senza accendere il pc per guardare su Youtube le immagini sbiadite ed epiche di quelle partite, che oggi - 30 anni fa - portarono all' Italia il primo titolo mondiale in assoluto. La battaglia in semifinale contro il Brasile padrone di casa, davanti a 27 mila (il numero preciso non verrà mai conosciuto) torceador e poi, appunto il 28 ottobre 1990, la vittoria contro la bestia nera, Cuba, in finale. Con la schiacciata conclusiva di Lorenzo Bernardi che proiettava l' Italia nella leggenda e in una festa alcolica a base di caipirinha. «Cosa è rimasto di quel successo?- spiega Julio Velasco, ct di quella Italia e uomo simbolo di quel cambiamento - Tanto. Tantissimo. Nel 1978 il Paese aveva scoperto la pallavolo per la prima volta con l' argento al Mondiale di Roma, ma come diceva il tecnico di allora, Carmelo Pittera, "2+2 deve fare 5 perché l' Italia possa arrivare in finale". Solo una volta ogni tanto poteva accadere che l' Italia si inserisse fra le migliori del mondo. Con le vittorie dell' Europeo '89 e poi ancora di più del 1990 l' Italia maturò la consapevolezza di poter essere una nuova potenza della pallavolo internazionale. Cosa che poi in effetti successe. Ma il grande cambiamento si ebbe per i giocatori, per gli allenatori. In quegli anni molti tecnici arrivavano dall' estero. Oggi gli allenatori italiani sono diventati famosi in tutto il mondo e sono molto richiesti. Allora non era così. Senza nominare i grandi cambiamenti che si registrarono nelle società, nella Lega, nell' organizzazione dei club in contemporanea a quelle vittorie». Ma c' è molto di più. «Era passato un concetto differente. Che il grande lavoro, l' impegno, la determinazione, oltre al valore dei singoli, potesse fare la differenza. Il metodo di lavoro in palestra, la quantità di ore che facevamo in quegli anni portò il grande mutamento». Anche culturale. Non è un caso che il soprannome Generazione di Fenomeni (coniato per quella squadra nel 1994 da Jacopo Volpi mentre raccontava sulla Rai il secondo successo iridato) venne cambiato dagli stessi protagonisti (pare che il copyright di quella definizione sia di Andrea Gardini) che raccontava come quella squadra era diventata la numero 1 al mondo proprio attraverso le ore di lavoro in palestra, le sfide in famiglia e l' abnegazione al sacrificio. Con oltre 50 partite giocate nell' estate del '90. Con queste premesse non è difficile comprendere come di quella squadra composta di 12 atleti, ben 10 abbiano intrapreso (a diversi livelli) la carriera di allenatore. Alcuni di loro sono poi arrivati al vertice mondiale (in 3 allenano oggi in Superlega, Bernardi, De Giorgi Giani e uno nella Plusliga polacca, Anastasi). «Questa è una cosa che mi rende molto felice - racconta ancora Velasco che dopo un altro giro del mondo è tornato alla Federazione italiana ed è il d.t. delle Nazionali giovanili maschili -. Che tanti di quei ragazzi, oggi uomini, siano diventati allenatori e portino avanti a modo loro quei valori. I due che non hanno scelto questa carriera sono rimasti a tutti gli effetti in questo mondo e sono diventati divulgatori della pallavolo. Andrea Lucchetta con la sua attività legata al volley dei più piccoli e come commentatore sulle reti Rai. Andrea Zorzi commentatore e giornalista in questi anni hanno raccontato e spiegato la pallavolo». Contribuendo a spargere i semi di quei concetti che erano la base della cultura di quella Italia e dello stesso Velasco. Assieme alle schiacciate e alle difese dei vari Tofoli e Gardini su internet si trovano decine di video che raccontano la "filosofia" di quella squadra. A cominciare dalla lotta alla "cultura degli alibi" e al principio che "in campo non si molla mai". «Sono particolarmente orgoglioso di avere contribuito a distruggere una mentalità, tipicamente italiana, che ancora oggi, non solo nello sport, trova tanti adepti - continua Julio Velasco -. Quella appunto della cultura degli alibi. Trovare sempre una giustificazione o una scusa per quello che non si riesce a fare. Sono molto contento che quei valori oggi continuino a girare nella pallavolo grazie anche a quel gruppo. E non parlo, appunto, solo degli alibi, ma di molto altro. Dal non mollare mai, al rispetto degli avversari. Pur vincendo tanto quella squadra non è mai stata arrogante con chi era dall' altra parte della rete. E soprattutto ha saputo perdere. Dignitosa nelle vittorie quanto nelle sconfitte, anche quando furono molto dolorose, come all' Olimpiade (prima quella del 1992 e poi ancora quella del 1996 terminata con l' argento, ndr)». Mai quel gruppo, anche molti anni dopo, ha tradito l' ideale e lo spirito di squadra. Conflitti e problemi restarono chiusi (forse per sempre?) nello spogliatoio. «Credo che quello spirito potrebbe essere molto utile ai tempi che stiamo attraversando. L' obiettivo comunque che aveva il gruppo era il bene supremo da difendere. Non era necessario essere tutti amici, andare fuori assieme la sera. Ma alla base c' erano il rispetto. Il singolo arrivava dopo. Quell' ideale comune che si trova in tanti esempi nel mondo dello sport italiano (io all' epoca parlavo degli Abbagnale o di Maenza, ma dopo di noi ce ne sono stati tanti altri). Lo sport può essere fonte di ispirazione in questo periodo di pandemia. In Italia spesso denigriamo quello che abbiamo come se fosse il male assoluto, senza renderci conto che all' estero c' è chi sta anche molto peggio di noi. E lo "spirito di squadra" è un bene fondamentale per provare uscire da questa crisi...».

"I miei primi 50 anni da innamorato del volley. Ora sogno la Nazionale". L'ex campione adesso coach a Modena si confida. "Mi commuovo con l'Inno...". E si candida a ct. Elia Pagnoni, Martedì 21/04/2020 su Il Giornale. Un curriculum per cui servirebbe un'edizione straordinaria, una bacheca infinita piena di scudetti, coppe, ori e trofei, un passato e un presente al centro della pallavolo italiana, un nome e un cognome che sono storia e leggenda di questo sport. Andrea Giani soffia sulle 50 candeline, guardando al passato ma soprattutto al futuro del volley che si prepara già alla difficile sfida della ripartenza nella prossima stagione, dopo che questa è finita nel buco nero del coronavirus. Cinque scudetti, distribuiti tra Parma e Modena, cinque coppe Italia, due coppe dei Campioni con Modena, un'altra decina di coppe internazionali, e poi tre Mondiali e quattro Europei con la Nazionale degli anni d'oro oltre a due medaglie d'argento e una di bronzo alle Olimpiadi che in mezzo a tanta gloria suonano più come rimpianti che come trionfi. E adesso la festa per i 50 anni da celebrare rigorosamente in casa, in un'atmosfera che non avrebbe mai immaginato...

«Una situazione stranissima, che ti fa scoprire cose mai fatte. Per esempio le serie tv, la televisione in genere, perché quando sei impegnato con la pallavolo dalla mattina alla sera non hai tempo per guardarla».

La pallavolo ha annullato tutti i campionati con un po' di polemiche tra lega e federazione. Lei è d'accordo con questa decisione?

«Lo stop era obbligato, ma sulla ripartenza si poteva ragionare. Certo, non sarebbe stato logico giocare i playoff senza finire la regular season. Forse, se si potesse ripartire a fine maggio, ci sarebbe anche stato il tempo per fare tutto, ma i problemi organizzativi non sarebbero stati pochi. A questo punto giusto concentrarci sulla prossima stagione».

E il volley italiano rischia di ripartire più povero, anche di giocatori.

«Sicuramente non ripartiremo con i budget attuali. Il calcio può far conto sui diritti tv, noi dobbiamo pensare ad altre risorse. E nella prossima stagione non sappiamo se e quanto potremo far conto sul pubblico: per una società come Modena il botteghino rappresenta gran parte degli introiti, senza i tifosi sarà difficile onorare i contratti. Bisognerà trovare accordi con i giocatori...»

Con il rischio che qualcuno vada all'estero e che nessuno arrivi in Italia.

«Sì, possibile. Però non è nemmeno detto. Oggi chi può permettersi di pagare i giocatori come li pagavamo noi fino alla chiusura? Germania e Francia sono paesi ricchi ma non hanno campionati forti. La Russia ha già chiuso tutti i roster e al massimo avrà un paio di posti liberi per gli stranieri. E la Cina farà il campionato? Insomma non vedo molte possibilità per andarsene via».

Facciamo un bel passo indietro: come ha fatto un napoletano ad appassionarsi alla pallavolo?

«Ma io sono napoletano solo di nascita, perché è la città di mia mamma. In realtà noi abitavamo a Sabaudia e sono cresciuto lì, dove mio papà faceva canottaggio (capovoga dell'otto azzurro a Tokyo '64, ndr) e dove anch'io feci questo sport da ragazzino. Ma a Sabaudia c'era anche una squadra di volley di A2 e io scoprii questo sport».

Da Sabaudia a Parma per il salto di qualità.

«Si erano stupiti che un ragazzino di 14 anni giocasse già nel campionato di A2. Mi chiamarono per un provino e andai a Parma, la grande Maxicono. Partii dalla squadra di serie C allenata da Montali, ma l'anno dopo ero già in serie A e in Champions. Parma è stata la squadra dei miei primi grandi successi, quella che mi ha portato in Nazionale. Undici anni meravigliosi».

E quando Parma chiude passa ai rivali storici di Modena.

«Era la squadra in cui mi sentivo più rappresentato, quella che avevo sempre ammirato, per i derby che avevamo giocato, per come la città viveva la sua squadra. E così è diventata la mia squadra, quella in cui lavoro tuttora».

Parma, Modena, ma soprattutto Nazionale. Lei è stato uno dei cardini della grande Italia di Velasco.

«Un ciclo straordinario. Abbiamo vinto tutto, ci è sfuggito incredibilmente solo l'oro olimpico. L'unica cosa che abbiamo sempre inseguito e mai raccolto».

Delle due finali perse, quale rimpiange di più?

«Sicuramente quella di Atlanta, nel '96, in cui avevamo più chance, perché eravamo forti tanto quanto l'Olanda. Ad Atene, otto anni dopo, il Brasile effettivamente aveva qualcosa più di noi. Oggi se rivedo a freddo le statistiche me ne rendo conto: nel 2002 avevamo già perso con loro nei quarti del Mondiale e da allora in poi li avevamo battuti poche volte. Qualcosa vorrà dire».

La partita indimenticabile della sua carriera?

«Domanda difficile. Dovrei dire tutte le finali perché per arrivare a giocarle passi attraverso sacrifici e sogni. Per importanza dovrei dire il primo scudetto, il primo Mondiale e la prima finale olimpica, insomma tutte le prime volte, quelle che segnano il percorso di un atleta».

Come tecnico, invece, i suoi capolavori per ora sono gli incredibili argenti europei da ct della Slovenia prima e della Germania poi.

«Sì, in contesti diversi, ma frutto della stessa programmazione. In tornei brevi, di sei sette partite, se arrivi in grandi condizioni puoi fare risultato anche se le differenze tecniche in campo sono grandine».

Slovenia, Germania, resta solo la panchina dell'Italia...

«Beh, allenare la squadra del tuo Paese è l'obbiettivo di ogni tecnico, soprattutto per chi, come me, ha vinto tanto con quella maglia. Io poi mi sono trovato nella situazione stranissima di affrontare l'Italia, battendola sia con la Germania, sia soprattutto con la Slovenia nella semifinale del 2015. E quando senti che il tuo inno suona per la squadra che hai di fronte ti trovi in una situazione di conflitto esagerata, non nego che qualche lacrima ti scappa. È un'emozione stranissima. Poi per fortuna si gioca e passa tutto».

Che giocatore è stato Andrea Giani?

«Un giocatore molto utile per gli allenatori, perché mi cambiavano ruolo spesso per poter avere sempre squadre vincenti. E io mi sono sempre adattato, con un po' di fortuna e tanto sacrificio».

L'allenatore a cui deve di più?

«Ho la fortuna di avere avuto dei grandi: Giulio Velasco, ma anche Bebeto e Montali all'inizio della mia carriera».

Da ragazzo aveva un idolo?

«Sì, Andrea Lucchetta».

La più bella soddisfazione che le resta dopo quasi 40 anni di pallavolo?

«Il fatto di essere comunque e sempre rimasto me stesso. Con il mio carattere e il mio modo di essere. Con il mio modo di vivere e la possibilità di divertirmi».

La pallavolo la diverte ancora?

«Un casino».

Dagospia il 30 aprile 2020. Volley, corna e amicizia. Le due star della Italvolley femminile Maurizia Cacciatori e Francesca Piccinini si raccontano a #CasaSkySport tra avventure sportive e confidenze sentimentali. La Cacciatori ricorda quella volta che entrambe furono tradite dai rispettivi fidanzati. “Partimmo per Sharm e il primo giorno Francesca si fece male scivolando in piscina. Siamo fantozziane…. La Piccinini, che era tornata in campo per provare a raggiungere l’oro olimpico ai Giochi di Tokyo, apprezza l’accostamento a Buffon e non molla: “Lo slittamento di un anno ha un po' rovinato il sogno olimpico, peccato perché cominciavo a pensarci”. Velasco ha bocciato lo studio del Politecnico che considera la pallavolo come sport più pericoloso per il contagio da coronavirus: “Assurdo…”

Da sport.sky.it il 30 aprile 2020. Ospiti a Casa Sky Sport due leggende del volley azzurro, Maurizia Cacciatori e Francesca Piccinini. Inizialmente non poteva mancare un pensiero per Bergamo, città con cui sia Cacciatori che Piccinini hanno vinto tanto: "Bergamo e i bergamaschi sono nel mio cuore - ha detto Maurizia -. Ho vissuto in quelle strade che si sono viste al telegiornale, mi fa effetto vederla così. E' una città con carattere, che mi ha dato tantissimo a livello umano. Abbiamo vinto tanto, ma oltre a scudetti e Champions quello che è rimasto è il legame affettivo". Stesso amore per Francesca: "E' una città che mi ha dato tanto, ma penso che si risolleverà presto perché a Bergamo si dice “mola mia” e così sarà".

Cacciatori: "Bisogna ripartire, ma in sicurezza". Maurizia Cacciatori elogia Francesca, compagna di mille battaglie in Nazionale: "Piccinini era già grande quando era giovane. Siamo diverse, ma è stata una grande giocatrice, molto fredda nei momenti decisivi". Poi una confidenza: "Io nasco schiacciatrice, mi piaceva molto quel ruolo, mi sentivo alla grande. Poi l'allenatore mi spostò a palleggiatrice, perché non crescevo molto. All'inizio ero disperata, poi però ammetto che è stato il mio ruolo ideale". Cacciatori non ha rimpianti del campo: "Ho voluto smettere prima per reinventarmi, entrando nel mondo della comunicazione e ho avuto due bambini. La vita dell'atleta è molto impegnativa, ora volevo una nuova sfida". Sulla ripartenza dello sport post coronavirus: "Vorrei rivedere in campo tutti, dagli sport individuali a quelli di squadra - ha detto Maurizia -. Ma è una grande responsabilità, perché c'è bisogno di serenità. Sulla salute non si scherza, bisogna ripartire in sicurezza. Peccato per il rinvio olimpico, ci saremmo divertiti con la nostra Nazionale di volley...". Poi un aneddoto su Julio Velasco: "Ci chiese di imparare l'inglese perché viaggiando molto era essenziale, ma non eravamo molto convinte. Diciamo che ci facevamo vedere che lo sapevamo parlare, ma non andavamo oltre 'the cat is on the table'".

Piccinini: "Il rinvio di Tokyo ha rovinato il sogno olimpico". Francesca Piccinini è tornata in campo con Busto Arsizio dopo uno stop a 40 anni: "Avevo deciso di smettere al 100%, ma dopo sei mesi nel mio cuore ho sentito che dovevo tornare. Ci ho provato per l'Olimpiade, quella è stata la scintilla. Il mio fisico regge, anche se all'inizio degli allenamenti è tragico. La differenza di età con le compagne non è semplice, abbiamo vite differenti, ma d'altra parte ho il doppio dell'età. Quando sono rientrata e ho aperto la porta dello spogliatoio ho visto facce non molto contente, ma poi si sono sciolte tutte". Ecco come vede il suo futuro Piccinini: "Olimpiade? Nel 2022 - ride -. Lo slittamento di un anno ha un po' rovinato il sogno olimpico, peccato perché cominciavo a pensarci. No, adesso voglio solo stare bene e giocare, non penso ad altro. La salute, mai come questo momento, è prioritaria. Mi piacerebbe scrivere un libro e trasmettere quanto fatto come atleta alle giovani. Praticare un altro sport? Il tennis mi piace molto". Poi un paragone con Gigi Buffon: "E' un grandissimo, siamo cresciuti insieme e anche adesso non molliamo". Uno studio del Politecnico di Milano ha decretato il volley come sport più pericoloso per il contagio da coronavirus: "Mi sembra assurdo, penso ci siano sport più 'contagiosi' come quelli di lotta o la pallacanestro, la penso come Velasco che si è detto indignato". Francesca è stata comunque contenta della scelta di fermare il volley: "Allenarsi con la paura non aiuta, è stato giusto fermarsi e apprezzo le scelte fatte, speriamo si possa tornare presto alla normalità". Il tecnico preferito? "Massimo Barbolini è stato uno di quelli che è riuscito a tirare fuori il meglio di me, ma da tutti si prende qualcosa".

Lorenzo Nicolao per corriere.it il 17 gennaio 2020. Nostalgia canaglia. Aveva commentato in tv le ex colleghe della Nazionale femminile durante gli Europei della scorsa estate, prima di allenarsi a Milano con le promesse del Club Italia Crai che potrebbero esserle figlie. A settembre sembrava sicura del proprio addio al volley giocato, ma Francesca Piccinini, 41enne da una settimana, è riuscita a sorprendere tutti ancora una volta. La divina vuole continuare a vivere di sfide e, in fondo, non aveva chiuso la porta a nessuno. Nel suo stile di schiacciatrice, ha scelto di cogliere l’opportunità al volo e coltivare il sogno delle Olimpiadi di Tokyo, un’attrazione fatale e un desiderio più volte espresso con lo sguardo di chi un piano sembrava averlo già in mente. La storica maglia numero 12 è già pronta e la squadra prossima ad annunciarla dopo una trattativa lampo sarà Busto Arsizio, seconda nella classifica di A1 dopo 14 giornate e principale inseguitrice della capolista Imoco Conegliano, il club campione del mondo e casa di tante azzurre. Il clamoroso ritorno è stato annunciato alla squadra dallo stesso presidente Giuseppe Pirola, dopo la netta vittoria contro Firenze. Un rinforzo per le biancorosse e uno stimolo importante per la campionessa che vuole riprendersi anche la maglia della Nazionale. Decima casacca nella massima serie, quella delle Farfalle sarà la sede ideale per ritrovare condizione e continuità. Domenica, in trasferta contro Reale Mutua Chieri, Francesca Piccinini potrebbe già essere a disposizione di coach Stefano Lavarini. A Busto ad accoglierla ci saranno le straniere terribili Britt Herbots (20 anni), Haleigh Washington (24) e Karsta Lowe (26), una concorrenza giovane con la quale non poter sfigurare. Nel frattempo tutto il roster è pronto e crescere con l’esperienza della campionessa, mentre la palleggiatrice azzurra Alessia Orro sarà chiamata a servirle le palle migliori. La fuoriclasse toscana di Massa aveva esordito proprio con il club della sua città 28 anni fa in serie D, ma oltre due decenni nel volley professionistico non sembrano essere bastati per scrivere la parola fine alla sua storia agonistica. Non sette Champions League (l’ultima a maggio con Novara), non cinque scudetti, non il Mondiale 2002 né gli Europei 2009. Mancano pochi mesi alle Olimpiadi di Tokyo e una come lei guarda alla convocazione come l’ennesimo coronamento di un sogno infinito. Perché, e non è un dettaglio, quella medaglia olimpica finora le è sempre sfuggita e una giocatrice con la grinta e il palmarès di Piccinini vuole e deve necessariamente provarci ancora una volta.

DAVIDE GONDOLA per Libero Quotidiano il 17 gennaio 2020. A una signora non si chiede l' età. Mai. E a maggior ragione non si chiede, e non ti viene manco l' idea di chiederla se la vedi ancora piacente, elegante, viva. Figuriamoci se quindi è il caso di questionare sull' età di signore dello sport, di donne che ancora vogliono esserci per fare bene e vincere, non per fare mero atto di presenza. Non servono trattati sociologici, sondaggi, statistiche per sapere che per motivi assolutamente ancestrali la capacità di resistenza e resilienza dell' ex cosiddetto "sesso debole" (ma quando mai) e ancora più nello specifico delle madri, la forza fisica e mentale è superiore a quella maschile. nessuna paura del buio Sofferenza, sacrifici e lavoro per arrivare a una gioia: le donne lo sanno. Se allora due come Francesca Piccinini e Federica Pellegrini dicono ok, voglio ancora giocare, voglio ancora nuotare, voglio ancora vincere è perché volere è potere. Non è paura del buio di un riflettore spento, non è problema di carte di credito o peterpanesca esigenza di non diventare grandi mai. La regina del volley azzurro fa retromarcia rispetto all' annunciato ritiro ad anni 41; la Divina avrà 32 anni, nei giorni della prossima Olimpiade di Tokyo, il doppio di quando si presentò stupendo tutta Italia e il mondo ad Atene 2004: e quindi? Tutto può succedere, su un parquet o in una piscina, ma certamente con soggetti così va escluso il rischio revival, o quello del patetico, il Sunset è un indirizzo sconosciuto. Entrambe, nelle rispettive discipline, sono delle senior: ma la tassa da pagare all' anagrafe è storicamente inferiore, per una campionessa, se unita a un talento che non può essersi smarrito insieme ai calendari. La storia dello sport al femminile dice questo, molto più di quanto sia successo in maniera recente nel campo maschile: nel tramonto di giganti come Michael Schumacher nella sua seconda esperienza in Formula 1, o di Valentino Rossi e Gigi Buffon in questi anni più recenti si è notata e si nota anche l' ombra lunga, non solo l' affascinante luce. Esempi di longevità vincente, invece, se ne trovano in Josefa Idem, argento olimpico da 40enne neo mamma e ancora quattro anni dopo a Pechino 2008; su Valentina Vezzali e Giovanna Trillini, monumenti nazionali della scherma, non è nemmeno il caso di riassumere. Martina Navratilova ha vinto nel doppio misto gli US Open di Tennis nel 2006: il piccolo particolare è che aveva 50 anni, e a 38 anni, prima del suo primo stop all' attività, era stata finalista di Wimbledon. Questa età, pari pari, è oggi di Serena Williams, che ha appena vinto ad Auckland il suo 73° titolo in un torneo ATP dopo tre anni di digiuno durante i quali, a proposito, è diventata madre. Proprio come Tania Cagnotto, che messa al mondo la nuova generazione di una famiglia fenomenale, è tornata insieme alla sua gemella di trampolino, Francesca Dellapé, con l' identica motivazione, l' identico traguardo: esserci, a Tokyo e non solo, ed esserci da protagoniste. Quello che è certo è che quando si sono ripresentate insieme dopo tre anni di stop, si sono piazzate seconde ai campionati nazionali: e a marzo, cercheranno il pass olimpico, con l' ampia possibilità di riuscire nell' impresa. Ci credono loro, ci crede Francesca Piccinini che oggi pomeriggio partecipa al primo allenamento con la squadra di Busto Arsizio che l' ha ripresa a bordo, SuperFede non ha bisogno nemmeno di crederci perché al di là delle prudenze dialettiche, delle frasi di circostanza è già oltre il 2020 fissato e già intimamente cancellato come capolinea. Si viaggia verso il solito traguardo, che è la competizione, la vittoria, in tutte le sue forme. Le forme senza età di una grande, stupenda donna.

·        Quelli che…il Basket.

Yao Ming, così nacque in Cina il virus del basket. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 5 ottobre 2020. Cominciò per caso. Era il 1956. Tian Fuhal, allenatore e talent scout di basket, camminava in un mercato di Shanghai, città che allora, nella Cina di Mao, non era la New York di oggi ma un formicaio di biciclette, uomini e donne. Non pensava, come Socrate al mercato di Atene, “che bello! Quante cose di cui non ho bisogno”: Tian Fuhal aveva bisogno di tutto. D’improvviso vide “qualcosa” di cui aveva estremamente bisogno: un uomo che sopravanzava della testa e anche di più tutti gli altri, un cinese alto più di due metri. Sgattaiolò sgomitando tra la folla, lo raggiunse. “Quanti anni hai?”. “Trentaquattro”. “Vuoi giocare a basket?”. “Mai fatto, alla mia età penso che cominciare sia difficile” sorrise l’uomo che si chiamava Yao Xueming. “Hai figli?”. “Quattro”. “Alti come te?”. “Non lo so ancora, il più grande ha quattro anni”. Tian Fuhal era un tipo previdente: mandò qualcuno a vedere i quattro bambini. Il più grande si chiamava Yao Zhiyuan. Le “autorità” lo tennero d’occhio: cresceva a dismisura, gli insegnarono il basket. Arrivò a 2,08 metri e nella nazionale di pallacanestro della Cina. Conobbe Fang Fengdi, anche lei nazionale cinese di basket. Era alta più di un metro e novanta. Se si innamorarono o invece furono l’oggetto di un esperimento di ingegneria genetica come è stato poi raccontato dagli americani quando “i comunisti mangiavano i bambini” non è dato sapere. Si sa che si sposarono ed ebbero un figlio che nacque il 12 settembre 1980 al reparto maternità dell’ospedale numero 6 di Shanghai. Pesava più di cinque chili ed era lungo più di 60 centimetri. Lo chiamarono Ming, Yao Ming. Sarebbe cresciuto fino a 2,29 metri e sarebbe divenuto “l’eroe dei due mondi” del parquet, dalla Cina agli Stati Uniti, uno dei cestisti più alti dell’Nba, a due centimetri dal record detenuto in comproprietà, a quota 2,31, dal sudanese Manute Bol e dal rumeno Gheorghe Muresan. La parità, secondo i più pignoli della misura, non renderebbe giustizia al rumeno per una questione di millimetri, meno della famosa “questione di centimetri” che rese nullo il celebre gol di Turone con il quale la Roma avrebbe tolto uno scudetto alla Juve. Prima di arrivare lassù, Yao Ming toccò altre vette: alle elementari era già più alto delle maestre. A 9 anni era un metro e sessantacinque e portava 41 di piede. In casa Yao non sapevano come fare, i soldi non bastavano mai per seguire con vestiti e scarpe la crescita di Ming: scadevano di settimana in settimana. E, quanto al cibo, di certo quello che fornivano a scuola, che era uguale per i bambini di tutte le misure, per lui era meno che sufficiente e forse andava pure mirata da qualche nutrizionista una dieta che abbondasse in calcio, elemento chimico indispensabile alla tenuta delle ossa del “pachiderma”. Fu questo a rendere fragile lo scheletro di Ming, un gigante dai piedi d’argilla. Il “piccolo” Yao Ming fu avviato a uno di quegli Istituti dello Sport dove si cominciavano a fabbricare campioni in serie e di tantissimi sport da quando, essendo la Cina tornata nel consesso delle nazioni sportive per la riammissione nel Comitato Internazionale Olimpico, dal quale era stata espulsa per rappresaglia occidentale quando Mao prese il potere e i nazionalisti si ritirarono nell’isola di Taiwan, il conto delle medaglie olimpiche era considerato un biglietto da visita della grandezza di un Paese. La Cina tornò ai Giochi Olimpici dopo quasi mezzo secolo di assenza, a Los Angeles 1984 e fu la prima volta della nuova Cina. Per il “piccolo” Ming dovettero costruire un letto su misura. A Yao Ming quello sport non piaceva: “Il basket mi annoiava: ho continuato per rispetto nei confronti dei miei genitori” ha confessato una volta. A 13 anni era alto due metri e le proiezioni degli studiosi antropometrici lo previdero a 2,23 metri quando fosse arrivato il picco dello sviluppo. Si sbagliarono per difetto. L’anno dopo Yao Ming venne arruolato nella squadra junior degli Shanghai Sharks, gli squali di Shanghai. Cominciò a mettere in colonna numeri da calcolatrice ed a farsi notare nel suo sconfinato Paese. A 18 anni entrò in prima squadra. A 20 era a Sydney, alle Olimpiadi: la sua Nazionale si classificò decima, avendo in squadra anche Wang Zhizhi, con cui più tardi, insieme con Mengke Bateer, l’unico cinese ad aver vinto l’anello dell’Nba fin qui, avrebbe costituito “The Great Wall Walking”, la Grande Muraglia che cammina. Tornò senza medaglie ma con una ben fornita collezione di spille e distintivi che era riuscito a recuperare tra gli atleti del Villaggio e il dono di questo tesoretto gli servì ad aprire una breccia nel cuore di Ye Li, cestista e nazionale anche lei, a sua misura essendo alta 1,90. Anni dopo l’avrebbe sposata. Oltre a Ye Li, Ming conquistò anche lo scudetto cinese del basket ed oltre che su di lei fece breccia anche nel cuore (e nel portafogli) dell’Nba. Cosa meglio di un gigante cinese per andare alla conquista di quel grande mercato che stava per aprirsi in Cina e per allargare gli orizzonti del più professionale e professionistico fra gli sport? Si formò una task force di agenti, avvocati, commercialisti: bisognava convincere Yao Ming, la squadra di Shanghai, la Cba, cioè la Federazione di basket cinese, e il Governo di Pechino. Ogni convinzione in più costò percentuali da sottrarre all’ingaggio del gigante. L’ultima condizione fu: dovrà essere la prima scelta al draft del 2002, quando le franchigie Usa ingaggiano nuovi campioni. Gli Houston Rockets, che erano i contraenti americani, vinsero il diritto alla prima scelta (la cosiddetta “pallina d’oro”: avevano l’8,9 per cento di probabilità ma i sorteggi talvolta vanno bene…). Yao Ming arrivò nel Texas. Stentò ad ambientarsi tanto che alla prima partita segnò… zero punti. Charles Barkley, ex giocatore e ora commentatore, scommise in diretta tv con Kenny Smith che avrebbe “baciato il suo culo” (ass) se mai Yao Ming avesse segnato più di 19 punti. Dopo qualche partita Ming ne fece 20. Barkley si salvò: “ass” vuol dire anche asino, ne comprò uno, lo regalò a Smith e lo baciò. Come compromesso, lo baciò sulla natica. L’asino apprezzò: non scalciò. Yao Ming continuò nell’Nba, molti punti e “zero tituli”, però alla votazione per l’All Star Game prendeva più voti di Shaquille O’Neal: Chinatown si mobilitava. Ma non solo quella. Ebbe parecchi infortuni, specie ai piedoni. E fu costretto al ritiro a 33 anni.

Da il Giornale il 16 giugno 2020. Anche se si è ritirato dal basket nel 2003, Michael Jordan resta l'uomo dei record. Non solo nello sport. Secondo la classifica stilata da Forbes, Jordan è lo sportivo più ricco al mondo, con un patrimonio stimato di 2,1 miliardi di dollari (circa 1,866 miliardi di euro) che ne fanno in assoluto il 1001 uomo più ricco del globo. Solo una piccola parte di questo super patrimonio deriva dall'esperienza cestistica: i maggiori introiti arrivano dai suoi sponsor privati e dal rendimento dei Charlotte Hornets, la squadra Nba di cui detiene il 70% delle azioni. Solo nell'ultimo anno l'ex campione, con la sua industria personale, ha guadagnato oltre 300 milioni, 145 dai suoi accordi con la Nike. Durante la sua carriera, Jordan guadagnò solo 94 milioni mentre le sponsorizzazioni sono una miniera d'oro. Fra i brand di cui è stato ed è tuttora testimonial, oltre a Nike, ci sono marche note in tutto il mondo come Coca-Cola, McDonalds, Chevrolet, Upper Deck, Hanes, Weathies, Gatorade. Jordan è sempre stato notoriamente anche molto abile nel gestire con prudenza il suo enorme patrimonio, tanto non solo da non scalfirlo ma da aumentarlo di anno in anno.

Da aroundthegame.com  il 16 giugno 2020. Un celebre proverbio cinese ci ricorda come per costruire un impero siano necessari più di cento anni, ma che per distruggerlo possa bastare un solo giorno. Nel caso in questione, il giorno è il 14 giugno 1998, il momento esatto in cui inizia la caduta dell’ultimo grande impero della pallacanestro statunitense, che ha cambiato volto alla NBA e al basket mondiale: la dinastia dei Chicago Bulls. L’impatto della franchigia di Windy City nell’immaginario collettivo è incalcolabile e va di pari passo con l’ascesa della figura extra terrestre del lider maximo, Michael Jordan. È inutile girarci attorno: MJ ha portato il marketing nel basket, trasformando la NBA nello spettacolo scintillante di cui vediamo i frutti ancora oggi. La sua immagine ha trasceso i confini del rettangolo di gioco, fungendo da definitivo boost per la globalizzazione della Lega, rendendo i Bulls un marchio globale, che vive ancora di rendita per il suo glorioso passato: nel 2018 sono ancora nella top 10 del merchandising tra le squadre, nonché il secondo pubblico della NBA - nel momento in cui si scrive, oltre 20mila spettatori a partita, a fronte del terzultimo record della Lega. Da allora si attende ancora la definitiva rinascita di questa franchigia, i cui motivi dell’insuccesso sono vari e da ricercare sia in scelte maldestre e inefficaci dei propri front office, nonché a direzioni tecniche poco lucide e, ovviamente, una buona dose di sfortuna. Ci sono stati momenti, negli ultimi due decenni, in cui sembrava che il sole potesse finalmente tornare a splendere nell’Illinois: ma sono rimasti nient’altro che lampi, che hanno reso ancor più cocenti le insoddisfazioni seguenti. Il tutto, come detto, parte dalla sirena di Gara 6 delle Finals del 1998, anche se in realtà il processo è già partito nella testa di Michael Jordan durante la stagione regolare. Se è vero che il potere logora chi non ce l’ha, è altrettanto vero il contrario e il Jordan di fine millennio ne è la dimostrazione: la pressione per restare al massimo livello, contro tutto e tutti, l’obbligo di autoalimentare quel senso di sfida continuo non può non estenuare, persino un entità semi-mitologica come His Airness. Molte persone vicino a lui sanno che non ha nessuna intenzione di tornare a giocare: ecco perché quella posa plastica, statuaria, dopo The Shot al Delta Center di Salt Lake City. La stagione che incombe è quella del lockout, il freeze della stagione regolare che sembra quasi un segno del destino, di come la Lega abbia bisogno di tempo per acclimatarsi a un cambio epocale come il nuovo addio di Michael. La rifondazione dei Bulls parte in modo piuttosto brusco con l’addio di MJ alle competizioni, la pausa di riflessione di Phil Jackson, le trade di Scottie Pippen, Longley e Steve Kerr e l’addio del Verme nella free agency. I nuovi Chicago targati Tim Floyd hanno nel solo Toni Kukoc l’unico legame col proprio passato. È un anno interlocutorio, quello del lockout, dove tutti devono prendere confidenza con una nuova realtà, e nonostante i risultati poco soddisfacenti - record 13/37 - una cosa che non cambia e fa ben sperare è l’aspetto ambientale: il pubblico continua a gremire lo United Center e anche questa stagione ridotta si chiude con un completo sold out. Sold out che continua anche la stagione successiva, chiusa con un pessimo record di 17/65, nonostante i due rookie scelti al draft 1999 - Elton Brand alla numero 1, Ron Artest alla numero 16 - abbiano mostrato segnali incoraggianti per il futuro. Soprattutto Brand fa alzare più di un sopracciglio con la sua stagione da oltre 20 punti e 10 rimbalzi di media - 19° rookie nella storia NBA a farlo - chiusa col titolo di ROTY, condiviso con Steve Francis. L’offseason del 2000 è un primo snodo cruciale nel destino dei Bulls. Ogni ricostruzione deve necessariamente passare dalla firma di un grande nome, da attrarre durante la free agency e attorno al quale ricostruire una reputazione di squadra e, possibilmente, un nucleo vincente. Quell’estate sono diversi i big destinati alla scadenza di contratto: Tim Duncan, l’emergente McGrady, l'ottimo Eddie Jones e il sogno bagnato del GM Jerry Krause, Grant Hill. Il piano della dirigenza sarebbe assicurarsi almeno due di questi top player, purtroppo per i Bulls non succederà mai. La storia la conosciamo: Duncan resta in Texas, Jones sceglie Miami e agli Orlando Magic riesce il colpo sperato dai Bulls, con la doppia firma di McGrady e Hill. A quel punto Chicago non ha molta scelta: non resta che affidarsi al Draft, processo ben più lungo e rischioso, che sommato alla fretta di una ricostruzione rapida porta a una serie di scelte piuttosto azzardate, che il tempo ha condannato senza pietà. Il nuovo Draft porta in squadra Marcus Fizer, fortemente voluto da Tim Floyd che l’ha reclutato nel suo ultimo anno in Iowa, e Jamal Crawford. A loro si aggiungono, dalla free agency, Ron Mercer e Brad Miller, consegnando a Floyd il roster più giovane di tutta la NBA. Il risultato è sportivamente drammatico: record stagionale di 15/67, peggior record e peggior attacco della Lega con meno di 88 punti segnati a partita. Le uniche note liete sono le conferme di Brand e Artest e il buon apporto dato da Mercer, che viaggia a quasi 20 di media a uscita. L’estate successiva la dirigenza decide di cambiare tutto: i tre migliori giocatori della squadra vengono sacrificati - Brand ai Clippers, Artest e Mercer a Indiana - per reinvestire su due 18enni usciti dall'high school - Tyson Chandler e Eddy Curry - consegnando le chiavi della squadra a Jalen Rose, in arrivo dai Pacers. La mancanza di esperienza degli anni precedenti resta il principale problema. La domanda che sorge spontanea è: perché rinunciare a giocatori in visibile crescita, ancora giovani, per ripartire da zero con due appena maggiorenni?

Nell’idea di Krause, perché Rose è il top player che serve ai Bulls per fare il salto di qualità. “Siamo convinti che Jalen sia un all-around player, in grado di coprire 3 ruoli in attacco e in difesa. È un grande passatore, altruista, ha tanti punti nelle mani ed è al picco della carriera. La sua versatilità e la sua leadership cambieranno volto alla squadra”.

Parole al miele che spingono Rose a rispondere con grande sicurezza. “Sono davvero entusiasta, questa è una grande opportunità. Chiunque sognerebbe di essere al mio posto: avere l’opportunità di essere il leader di una squadra, aiutarla a tornare a livelli da titolo”. Qualche anno prima, durante la campagna d’oro degli uomini di Phil Jackson, Krause si era lasciato andare a un’affermazione che poco era piaciuta a MJ: “Sono le organizzazioni che vincono i titoli, non i giocatori”.

In effetti in questi nuovi Bulls sembrano mancare entrambe le cose. A natale il record dice 4/21, Floyd saluta tutti e a fine stagione Chicago è ancora la peggior squadra della NBA, ex aequo con i Golden State Warriors. Anche la stagione seguente è un fallimento colossale, con Rose che dimostra di non poter essere il leader in grado di cambiare le sorti della franchigia.

Ecco un altro snodo fondamentale: in aprile Jerry Krause si dimette dal suo ruolo di GM, ufficialmente per motivi di salute legati alla sua obesità, un cambio di rotta arrivato fin troppo tardi, che porta nel ruolo di GM un eroe locale, decisivo nelle Finals di dieci anni prima: John Paxson. “Questa franchigia significa molto per me, sono davvero orgoglioso di questo incarico e voglio fare di tutto per aiutare i Bulls a tornare ai livelli che meritano”. Dopo il licenziamento di Cartwritght, subentrato a Floyd, Paxson affida la guida della squadra a Scott Skiles che da subito imprime un impronta forte sul gioco del suo limitatissimo roster. È anche la stagione in cui gli infortuni, particolarmente devastanti e occorsi nei momenti meno indicati, cominciano a diventare una sfortunata costante nelle vicende dei Bulls del dopo Jordan. Nel 2002, subito dopo la scelta di Yao Ming, dal Draft arriva Jay Williams, che si presenta in Illinois col curriculum del possibile nuovo Messia: campione NCAA, giocatore dell’anno, maglia ritirata dall’università di Duke. Dopo una prima stagione incoraggiante, in una notte d’estate del 2003, Williams è vittima di un incidente motociclistico. L’esito è devastante: lesione a un nervo della gamba, frattura del bacino e tre diverse lesioni ai legamenti del ginocchio sinistro, incluso il tanto temuto ACL. La sua carriera professionistica finisce quel giorno esatto. Nonostante questa ed altre avversità, la cura Skiles funziona e la stagione 2004-2005 è la prima vincente dal 1998 e i Bulls tornano ai Playoffs. Liberatisi di J-Rose e del pesante contratto di Donyell Marshall, la squadra ruota attorno al giovane Kirk Hinrich, responsabilizzato dall’addio di Jay Williams, e con lui, finalmente, un'interessante batteria di rookie affidabili: Ben Gordon - primo giocatore di sempre a vincere il Sixth Man Award al primo anno - la coppia da Duke Luol Deng/Chris Duhon e Andrés Nocioni, fresco di vittoria alle Olimpiadi con la sua Argentina. L’idea di cultura che Paxson e Skiles speravano di creare ha fatto breccia: gioco di squadra, difesa e aggressività sono entrate nel DNA dei nuovi Bulls, che quantomeno hanno di nuovo un'identità precisa. Purtroppo la sfortuna non gli abbandona: Eddy Curry, che ha appena concluso la sua miglior stagione, da capocannoniere della squadra e leader della Lega per percentuale dal campo, viene fermato dai medici per un problema cardiaco, proprio prima della palla a due del primo turno di Playoffs contro i Wizards. La guida di Skiles porta a tre partecipazioni consecutive ai Playoffs, ma la stagione 2007-2008 parte male e alla vigilia di Natale Paxson lo solleva dall’incarico, con la squadra che procede mestamente fino a fine stagione, senza partecipare alla offseason.

Il destino sembra finalmente avere un occhio di riguardo nei confronti dei Bulls nell’estate del 2008. Contro ogni probabilità, i Bulls strappano la prima scelta alla lottery per il Draft di giugno. Il che significa poter portare allo United Center Derrick Rose, il ragazzo nato e cresciuto a Englewood, nel South Side di Chicago, un figliol prodigo che sembra avere i numeri per essere la superstar attorno al quale costruire una squadra in grado di tornare a competere per il titolo. L’entusiasmo generato dalla sua scelta è prorompente ed entusiasmante, proprio come la sua clamorosa ascesa nella Lega: Rookie of The Year al primo anno (esordio ai Playoffs da 36 punti, come lui solo Abdul-Jabbar), All Star Game al secondo anno, titolo di MVP al terzo anno, il più giovane nella storia della NBA. Il 2011 è l’anno in cui i Bulls tornano in finale di Conference per la prima volta dopo più di 10 anni, salvo venire sconfitti dall’armata dei Miami Heat dei Big Three; è anche l’anno in cui coach Tom Thibodeau - sbarcato in Illinois dopo il titolo vinto ai Celtics come specialista difensivo - vince il premio di allenatore dell’anno. Prima di Natale, il contratto di Rose viene esteso per 5 anni al massimo consentito ai Bulls - quasi 100 milioni di dollari - e Chicago si affaccia ai Playoffs con grande fiducia.

Gara 1 contro i Sixers. A un minuto dalla fine, i Bulls hanno la vittoria in pugno ma Rose è ancora in campo. Tenta la penetrazione, con il suo solito arresto di potenza, ma questa volta qualcosa non va: si accascia a terra, si tiene il ginocchio sinistro, si contorce per il dolore. ACL: ancora quella maledetta sigla, che mina per sempre la carriera di un campione semplicemente devastante, che da quell’infortunio ha inanellato problemi su problemi, non tornando mai neanche lontanamente il giocatore che fu nei primi tre anni nella Lega. Non mancano le critiche a Thibodeau, noto per spremere particolarmente i suoi titolari, accusato di aver fatto giocare molto più del necessario Rose e aver portato il suo fisico troppo vicino al limite - critiche che onestamente lasciano il tempo che trovano. La questione Rose è una tragedia sportiva, che come tutte le tragedie spacca un ambiente in cui tutto sembrava filare liscio: Thibodeau, alla fine della stagione 2015, viene licenziato. In estate, la squadra viene affidata all’esordiente Fred Hoiberg - qualche annata non indimenticabile da giocatore proprio nei Bulls dal 1999 al 2003 - che viene dall’esperienza sulla panchina di Iowa State, proprio come fu per il successore di Phil Jackson, Tim Floyd. Purtroppo per lui, i loro destini saranno molto simili. Nonostante una buona annata 2016/2017, in cui i Bulls guidati da Rondo e Jimmy Butler mettono paura ai Celtics, il 3 dicembre scorso l’esperienza a Windy City di Hoiberg è finita; la squadra è stata momentaneamente affidata al burrascoso assistente Jim Boylen, che non sembra aver cominciato col piede giusto, tra ammutinamento dei giocatori, allenamenti punitivi, e la più pesante sconfitta della storia della franchigia in quel di Boston. “Quello che abbiamo fatto oggi è attuare un cambiamento e ricostruire il nostro roster. Lo faremo partendo da questi giocatori giovani, che crediamo essere perfetti per il sistema caro al nostro coach Fred Hoiberg”. Queste erano state le parole di Paxson dopo la trade che aveva portato Jimmy Butler in Minnesota, in cambio del nucleo attualmente in forza sulle rive del lago Michigan - Zach LaVine, Kris Dunn e Lauri Markkanen. Sembrano le tanto, tristemente note parole di Krause: il sistema prima dei giocatori. Ancora una volta i Bulls sono senza una guida, non sembrano avere le idee chiare su come usciranno da questo periodo difficile e i pochi asset a loro disposizione non garantiscono un futuro roseo. “So che tutti vogliono risultati a breve termine, ma noi stiamo cercando di costruire le basi per dei successi futuri, crediamo molto in questi giovani ragazzi.”

Sostiene il GM Gar Forman, che come Paxson sembra brancolare nella confusione più totale. Tornare a sperare nel Draft è molto pericoloso, la storia recente della squadra insegna. Nonostante il potenziale spazio salariale, sarà molto difficile per i Bulls attrarre free agent rilevanti negli anni a venire, data l’incertezza che regna sovrana. Quello su cui questa franchigia può ancora sperare, senza tirare troppo la corda, è il blasone - come una grande squadra del calcio europeo - e il fattore ambientale, come detto uno dei più favorevoli dell’intera NBA. Ma anche la pazienza dei tifosi dei Bulls avrà un limite. Perché guardare nostalgicamente vecchie VHS o clip su YouTube non può più bastare.

Michael Jordan e l’Italia: quella che volta che giocò a Trieste nel 1985 (e ruppe un tabellone schiacciando). Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Flavio Vanetti. L’anno prima Michael Jordan aveva vinto il titolo olimpico con gli Usa, dopo aver concluso la sua avventura a North Carolina. Poi in autunno era entrato nella Nba, scelto dai Chicago Bulls, e nelle more di una squadra che non era ancora lo squadrone che avremmo conosciuto più avanti aveva dimostrato che con lui il basket aveva trovato una nuova divinità. In parole povere: MJ nell’estate 1985 era già, fondamentalmente, una stella. E l’Italia ebbe modo di averlo per una manciata di giorni grazie a un tour organizzato dalla Nike, che si era già lanciata in una promozione su scala planetaria del nuovo fuoriclasse. Lunedì 26 agosto, palasport di Trieste. Michael va in campo con la maglia della Stefanel in un’amichevole contro la Juve Caserta. La squadra giuliana era allenata da Santi Puglisi, alla prima esperienza da head coach in serie A, quella campana da Boscia Tanjevic, ovvero colui che giusto un anno dopo sarebbe approdato proprio sulla panchina della formazione quella sera avversaria. Originariamente l’accordo era che Air avrebbe disputato un tempo con Trieste e uno con Caserta. Invece alla fine scelse di giocare tutto l’incontro con la maglia Stefanel, che ovviamente aveva il numero 23 (è un oggetto di culto per chi adesso la possiede): la partita finì 113-112 per Trieste, Jordan segnò 41 punti. Ma l’immagine indimenticabile è un’altra, ovvero quella di un balzo fenomenale concluso da una schiacciata «Tomahawk» con cui il giovane asso mandò in frantumi il tabellone: sarebbe stato l’unico fracassato da Michael nella sua carriera e questo accadde anche perché all’epoca la Legabasket, pur avendo fatto adottare ai club il cerchio sganciabile, non aveva ritenuto di introdurre vetri più solidi o infrangibili. Tutti tennero il fiato: la miriade di cocci travolse Pietro Generali e soprattutto l’uruguaiano Tato Lopez, che riportò la lacerazione dei tendini di una mano. Jordan non si fece nulla e fu un mezzo miracolo. Lo fu anche per l’assicurazione che aveva accettato di tutelarlo nel viaggio italiano: copertura da 15 miliardi delle vecchie lire. Per la cronaca, a memoria della Tomahawk, Jordan e la Nike realizzarono in autunno un’edizione limitata della celeberrima Air Jordan 1 chiamata «Shattered backboard». Colori: il bianco, il nero e l’arancione della Stefanel Trieste con la chicca della tomaia in pelle verniciata e «stropicciata» che dovrebbe richiamare i vetri del tabellone spaccato. Ancora oggi, nelle sue edizioni retro e modificate nelle combinazioni dei tre colori la Shattered Backboard è quotatissima presso i collezionisti. A parte quella schiacciata — della quale ci sono ancora le immagini su Youtube — è curioso ricordare altri momenti dell’incontro ravvicinato tra l’Italia e «His Airness». Jordan si spostò fondamentalmente in elicottero e il giorno stesso del suo arrivo a Malpensa fu portato in Valtellina, a Caspoggio e a Bormio. In quest’ultima località partecipò a un’esibizione, cinque contro cinque, alla quale presero parte, tra gli altri, Mike D’Antoni, Roberto Premier e Oscar Schmidt. Nell’avvicinamento a Trieste ci fu pure una tappa veneziana, con cena alla rinomatissima Colomba, e una mancata partita di golf — era già una sua passione — perché il campo del Lido quel giorno era chiuso. La stampa aveva annunciato in pompa magna il suo avvento e Dan Peterson sulla Gazzetta dello Sport aveva ricordato la famosa frase di Julius Erving, la cui spettacolarità Jordan aveva preso a modello: «Sicuri che quel ragazzo sia del nostro pianeta?». Sempre la «rosea» sguinzagliò alle costole del giovane campione la prima firma dell’epoca della rubrica basket, Enrico Campana. Michael fu affabile e disponibile e dopo una frase di prammatica («Sento che l’Italia mi regalerà qualcosa che a casa mia non ho ancora provato») disse una cosa molto chiara su di sé: «Voglio diventare il migliore nel mio sport. L’unica cosa che non sopporto è la gelosia: purtroppo questo è il sentimento che molti compagni a Chicago nutrono nei miei confronti». Come abbiamo visto, Air l’ha ben raccontato nelle puntate iniziali di «The Last Dance», la serie di Espn e Netflix che ha raccontato l’epopea di Jordan e dei Chicago Bulls che, radicalmente cambiati da quelli che il giovane Michael raccontava in que i giorni, vinsero sei titoli in otto anni.

Favio Vanetti per corriere.it il 22 maggio 2020. L’anno prima Michael Jordan aveva vinto il titolo olimpico con gli Usa, dopo aver concluso la sua avventura a North Carolina. Poi in autunno era entrato nella Nba, scelto dai Chicago Bulls, e nelle more di una squadra che non era ancora lo squadrone che avremmo conosciuto più avanti aveva dimostrato che con lui il basket aveva trovato una nuova divinità. In parole povere: MJ nell’estate 1985 era già, fondamentalmente, una stella. E l’Italia ebbe modo di averlo per una manciata di giorni grazie a un tour organizzato dalla Nike, che si era già lanciata in una promozione su scala planetaria del nuovo fuoriclasse. Lunedì 26 agosto, palasport di Trieste. Michael va in campo con la maglia della Stefanel in un’amichevole contro la Juve Caserta. La squadra giuliana era allenata da Santi Puglisi, alla prima esperienza da head coach in serie A, quella campana da Boscia Tanjevic, ovvero colui che giusto un anno dopo sarebbe approdato proprio sulla panchina della formazione quella sera avversaria. Originariamente l’accordo era che Air avrebbe disputato un tempo con Trieste e uno con Caserta. Invece alla fine scelse di giocare tutto l’incontro con la maglia Stefanel, che ovviamente aveva il numero 23 (è un oggetto di culto per chi adesso la possiede): la partita finì 113-112 per Trieste, Jordan segnò 41 punti. Ma l’immagine indimenticabile è un’altra, ovvero quella di un balzo fenomenale concluso da una schiacciata «Tomahawk» con cui il giovane asso mandò in frantumi il tabellone: sarebbe stato l’unico fracassato da Michael nella sua carriera e questo accadde anche perché all’epoca la Legabasket, pur avendo fatto adottare ai club il cerchio sganciabile, non aveva ritenuto di introdurre vetri più solidi o infrangibili. Tutti tennero il fiato: la miriade di cocci travolse Pietro Generali e soprattutto l’uruguaiano Tato Lopez, che riportò la lacerazione dei tendini di una mano. Jordan non si fece nulla e fu un mezzo miracolo. Lo fu anche per l’assicurazione che aveva accettato di tutelarlo nel viaggio italiano: copertura da 15 miliardi delle vecchie lire. Per la cronaca, a memoria della Tomahawk, Jordan e la Nike realizzarono in autunno un’edizione limitata della celeberrima Air Jordan 1 chiamata «Shattered backboard». Colori: il bianco, il nero e l’arancione della Stefanel Trieste con la chicca della tomaia in pelle verniciata e «stropicciata» che dovrebbe richiamare i vetri del tabellone spaccato. Ancora oggi, nelle sue edizioni retro e modificate nelle combinazioni dei tre colori la Shattered Backboard è quotatissima presso i collezionisti. A parte quella schiacciata — della quale ci sono ancora le immagini su Youtube — è curioso ricordare altri momenti dell’incontro ravvicinato tra l’Italia e «His Airness». Jordan si spostò fondamentalmente in elicottero e il giorno stesso del suo arrivo a Malpensa fu portato in Valtellina, a Caspoggio e a Bormio. In quest’ultima località partecipò a un’esibizione, cinque contro cinque, alla quale presero parte, tra gli altri, Mike D’Antoni, Roberto Premier e Oscar Schmidt. Nell’avvicinamento a Trieste ci fu pure una tappa veneziana, con cena alla rinomatissima Colomba, e una mancata partita di golf — era già una sua passione — perché il campo del Lido quel giorno era chiuso. La stampa aveva annunciato in pompa magna il suo avvento e Dan Peterson sulla Gazzetta dello Sport aveva ricordato la famosa frase di Julius Erving, la cui spettacolarità Jordan aveva preso a modello: «Sicuri che quel ragazzo sia del nostro pianeta?».

Mike D’Antoni: «Nel 1990 rifiutai di allenare Milano, perché non potevo dare ordini a McAdoo e Meneghin». Pubblicato domenica, 17 maggio 2020 su Corriere.it da Flavio Vanetti. La battuta è sempre pronta: «A causa della mia età avrò limitazioni non appena si ripartirà? Macché, e non ne avrà nemmeno Popovich, che è più vecchio di me». Sessantanove anni compiuti l’8 maggio, Mike D’Antoni scalpita come tutta la Nba che aspetta la ripresa della stagione interrotta a marzo. Le modalità del restart restano fluide. Ma lo scenario speciale: una formula condensata e una sede unica, forse il Disney World di Orlando o un hotel di Las Vegas. Poco importa a Mike: in qualunque modo e ovunque si giochi, è convinto di portare al successo gli Houston Rockets e una filosofia cestistica che secondo i critici rasenta l’utopia. Mike, entro metà giugno dovrebbe esserci la fatidica data…

«La Nba valuta varie opzioni, non possiamo che attendere. Ma sarà il virus a spiegarci quando si potrà riprendere». Si prospetta un format «sprint».

Meglio o peggio?

«L’essenziale è che si segua un criterio equo». Serve un segreto nella ripartenza? «Reattività: sarà uno sforzo più mentale che tecnico».

A febbraio ha ribaltato i Rockets, rinunciando a un uomo d’area, Clint Capela, per accentuare lo «small ball» con quintetti piccoli. Rivoluzione necessaria?

«È lo schema che ci dà le maggiori chance: la proprietà concorda. Mi spiace per Capela, ma la squadra va meglio così: delusioni del passato mi hanno insegnato ad abbandonare certe convenzioni».

Chi non la ama dice che D’Antoni non vincerà mai.

«Come hanno vinto i Golden State in questi anni? Usando alla grande i piccoli. Non vedo tanti Jabbar in giro e in compenso ci sono lunghi come Giannis Antetokounmpo che giocano da esterni». D’Antoni è troppo innamorato di un’idea?

«Non m’importa se ho i piccoli o i grandi: nel basket conta prima di tutto l’abilità. Questa soluzione, che ai Phoenix Suns ha funzionato, mi riporta poi al periodo di Milano».

Avanti con i ricordi.

«Era il terzo anno da coach. Misi Pittis in quintetto come “numero 4”, Antonio Davis era l’unico lungo. Fu la mossa che mi salvò dal licenziamento: avevamo perso 6 volte di fila, da quel giorno vincemmo 21 partite e ci ritrovammo terzi: purtroppo, però, Davis si ruppe una mano nei playoff... La lezione fu comunque chiara: i piccoli sanno fare più cose. Avevo Djordjevic, ma non rendeva per colpa mia: con quella svolta ho aiutato lui e… me stesso».

Sempre a proposito di Olimpia: di recente ha confessato che non se la sentì di allenare alcuni ex compagni, così McAdoo e Meneghin se ne andarono.

«Nell’estate 1990 sapevo che non sarei rimasto: fisicamente ero distrutto; mi pagavano sempre, ma come giocatore è come se avessi smesso nel 1988. Arrivò una telefonata: Dan Peterson lasciava, mi offrivano di sostituirlo. Ecco, per me sarebbe stato impossibile dare ordini agli amici».

Milano non è mai stata granché spettacolare. D’Antoni, nella Nba e a Houston in particolare, cerca il suo personale «show time»?.

«L’Olimpia non sempre offriva un bel basket, ma come grinta non aveva pari. Houston ha un volto diverso e io devo valorizzarne il talento».

Da giocatore era un duro difensore, mentre a Houston punta su uomini di statistica come Harden e Westbrook. Non è strano?

«No. Ho i due migliori attaccanti nell’uno contro uno, devo sfruttarli. Ma siamo anche una squadra che lavora per crescere. Non difendiamo? Fesserie».

I patiti di basket, orfani degli incontri, si consolano con «The last dance», la serie tv su Jordan. Provocazione: il 2020 segnerà «the last dance» di D’Antoni nella Nba?«In questo lavoro non si sa mai, ma conto di andare avanti. Però ora bado solo al finale di stagione e a creare le condizioni per la riconferma».

Il maledetto 2020 ci ha pure portato via Kobe Bryant. Quando l’ha allenato ai Lakers, i vostri rapporti alla fine si sono guastati.

«Non penso a quello ma alla tragedia di Kobe. Non serbo rancore: preferisco ricordare che, entrando nella Nba, aveva scelto il numero 8 in mio onore. Mi piace rivederlo bambino a Reggio Emilia e rammento che a Los Angeles ci parlavamo in italiano». Tempo fa lei disse: «Non sono mai stato un numero 1, nella Nba». È sempre di quell’idea?

«Qui devo ancora provare di saper vincere. Ma non mi angoscio: tanti illustri colleghi non ci sono riusciti».

Zero rimpianti, quindi?

«No, quelli ci sono. Ma le decisioni che prendi sono pensate per il meglio. Purtroppo non sempre le azzecchi: se fosse così, di mestiere farei il mago». 

Dagospia il 16 aprile 2020. “Ho tifato contro l’Italbasket agli Europei del ‘99”. Il genio ribelle della pallacanestro italiana, Gianmarco Pozzecco, si racconta senza ipocrisie a #CasaSkySport e torna sulla esclusione dalla squadra che salì sul tetto d’Europa. ”Tanjevic aveva una sua idea per la Nazionale con Meneghin e Basile ed essere la terza scelta non mi andava. Ho voluto sempre vivere le cose da protagonista nello sport a costo di ritrovarmi escluso. A costo di ritrovarsi all’Aquafan di Riccione con Guido Bagatta a vedere la finale: "L'esperienza peggiore della vita...". Il "Poz" ha metabolizzato il taglio. "Tanjevic fu molto diretto e mi disse: 'Per me non sei un giocatore di livello europeo'. Oggi da allenatore condivido la scelta del coach. E poi l’argento olimpico vinto ad Atene nel 2004 è un derivato da quell’esperienza negativa. Senza quell’esclusione, seguita poi da quella agli Europei di Svezia 2003, non avrei mai trovato gli stimoli giusti…”

Il coach triestino della Dinamo Sassari racconta la sua quarantena ("Se dovessi prendere il coronavirus, rischierei di non farcela vista l'età"), si entusiasma per il libro “L’ultimo rigore di Faruk” del giornalista Gigi Riva e affonda il colpo contro la cultura sportiva “becera” del nostro Paese focalizzata sul risultato: “Ci sono tanti aspetti che dovremo imparare a prendere in considerazione al pari del risultato finale. Abbiamo due sportivi in Italia, De Rossi e Totti, che ce li invidiano all’estero. Hanno fatto una scelta romantica vestendo sempre la stessa maglia. Ho un grandissimo rispetto per loro”.

De Rossi ha detto che studierà da allenatore e nel suo percorso andrà ad assistere a un allenamento di Pozzecco: “Mi ha fatto piacere ma ancora di più mi piace la motivazione che ha dato. Daniele apprezza il rapporto che ho creato con i miei giocatori”. Top of the “Poz”. Purtroppo o per fortuna giocatori con una personalità bizzarra come la mia in giro non ce ne sono, il mondo dello sport ormai non consente più di averne. Ibrahimovic? Un giocatore di personalità. Mi auguro che resti al Milan. Uno come lui può essere destabilizzante, ma nel momento in cui il gruppo lo accetta diventa un idillio”.

Come sarà il basket dopo lo stop? "Se la pallacanestro andrà in crisi di budget, si farà di necessità virtù. Sarà l’occasione per vedere sul parquet più italiani. Allenare a Trieste in futuro? “Non mi passa per la testa perché non voglio tornare a vivere a con i miei, preferisco continuare a fare il mona in giro per il mondo…"

Francesco Persili per Dagospia il 3 ottobre 2020. “Chissà quanti di voi mi hanno visto all’Hollywood con due bicchieri in mano e la sigaretta in bocca. Nella mia vita ho bevuto? Sempre e solo quando pensavo che non condizionasse un match. E chi mi crede un fottuto pippatore mi fa incazzare. La mia droga è sempre stata fare il culo a tutti sul parquet”. Quante cazzate abbiamo letto su Gianmarco Pozzecco, genio “immarcabile” del basket italiano. Etichettato come una testa matta, è stato sbattuto, complice una pigra definizione dell’ex ct dell’Italbasket "Boscia" Tanjevic, nella ridotta dei “farfalloni”. Ci voleva questa autobiografia (“Clamoroso”) scritta con il giallista Filippo Venturi e pubblicata da Mondadori, per restituire il vivere inimitabile dell’ex play di Varese, oggi coach della Dinamo Sassari. Non un marziano dello sport come Jordan, Kobe, Rossi, Bolt, Phelps, Lewis, Schumi, Moses, ma un agonista che rifiuta la cultura dell’alibi e tiene botta in mezzo a una moltitudine di battaglie perse. Dalla palestrina della Trissino della sua Trieste ai palazzetti più illuminati dell’Europa dei canestri, la "mosca atomica" ci ha sempre dato dentro. Era il più piccolo della classe ma lo prendevano per pazzo o per cretino perché voleva a tutti i costi diventare un giocatore di basket. “Nei frangenti più duri, quando tutto sembra andare storto, se molli, molli per sempre. Se invece resisti, l’energia che accumuli è la tua riserva nascosta, quella in grado di fare la differenza e regalarti il tuo momento di meritata gloria”. Quell’anello di ferro arancione era la sua unica meta. Sudore e divertimento. “La pallacanestro è la donna della mia vita e ogni canestro è come un orgasmo”. Ogni canestro moltiplica l’orgasmo. Una notte con Samantha De Grenet, quattro anni con Maurizia Cacciatori e un’orgia un po’ fantozziana con Michael Ray Richardson e Ricky Brown: “Sembravo un piccolo putto tra i bronzi di Riace. La nera mi stracciò un bocchino epico. Tra tutto, compreso rivestirmi, accendere la tv e iniziare a guardare Starsky &Hutch c’avrò messo 18 secondi netti. Vidi tutta la puntata mentre quelli continuavano a scopare come cani…”. Botte di vita e colpi proibiti sotto canestro, patenti ritirate, legamenti che saltano e contropiede a 360 all’ora, sempre in pick &roll con il destino, il Poz a Varese vince il più incredibile degli scudetti e trova un fratello: Andrea Meneghin. “Eravamo giovani, affiatati, con la stessa voglia di fare i coglioni, di non prendere sul serio se stessi e le cose della vita”. Un esempio? La zingarata degna di “Amici miei” alla festa del cardinal Martini al Palalido di Milano. “C’è la crème della crème della Lombardia, ministri, porporati, Zanetti, Maldini. Ci mettono in uno stanzino. A un certo punto quattro chierichetti depositano una specie di catafalco con un quadro coperto e se ne vanno. Meneghin, curioso come una comare di condominio, alza il telo fino a scoprire una gigantografia del cardinale. Senza aprir bocca, Andrea disegna con un Uniposca un “cannone” gigante in bocca a Martini. Poi la serata prosegue, il cardinale fa il suo ingresso trionfale, arriva il quadro, il velo si scopre, applausi, risate e... “Non so cosa sia successo dopo. Noi eravamo già in fuga verso Varese”. Il Poz sente di avere “denominatori comuni” con Totti: “Lui era il Re di Roma e io il Duca di ‘sta minchia ma entrambi siamo stati profeti in patria perché Varese era la mia patria. Nello sport non conta solo vincere ma ciò che ci fa emozionare sono le passioni, gli amori, l’attaccamento alla maglia, l’identificazione…” Una visione romantica e assoluta. La stessa che si ritrova nell’intervista a caldo dopo il tricolore vinto con Varese. “C’era il mio essere selvatico, l’essere me stesso, ce l’avevo fatta, a modo mio”. My way. “Dicevano che con me non si vince. Conosco il disco, adesso suono il mio. Ho vinto, e da protagonista. Sono un pagliaccio, ma sono il pagliaccio numero uno”. Top of the Poz.

MARCO IMARISIO per il Corriere della Sera il 30 ottobre 2020. «Se giochi con i Lego a cinque anni, va bene. Se lo fai a cinquanta, hai qualche problema, oppure sei un pirla. Come dicono quelli che hanno studiato, tertium non datur ...». Per il suo quarantottesimo compleanno, si è regalato due espulsioni in tre partite, l'ennesimo cazziatone da parte del presidente della squadra che allena, e «Clamoroso», una autobiografia così sincera nel mettersi in piazza con tanto di sbruffonerie e fragilità annesse che la sua fidanzata Tanya non gli ha parlato per giorni a causa del racconto, talvolta esplicito, delle passate avventure. Gianmarco Pozzecco non sarà mai per tutti. Non ci sarà mai unanimità di giudizio sul suo conto. Sulla sua storia, persino sulle sue doti, a cominciare dall'equilibrio mentale. Con il giocatore che è stato il volto dell'ultima età dell'oro del nostro basket, l'unico a uscire dalla ristretta cerchia di noi malati dello sport più bello del mondo, diventando personaggio televisivo, volto noto, protagonista di vita mondana e di relazioni con fidanzate più o meno famose, ci saranno sempre due partiti. Ancora oggi, quando il diretto interessato ha più volte dato segni intermittenti di maturità, permane la divisione tra chi continua a considerarlo un mezzo matto esaltato, sempre sul filo della crisi di nervi, una specie di Balotelli che ce l'ha fatta, e chi invece lo ritiene una persona di talento forse solo troppo sincera, al limite dell'autolesionismo.

«Ah, intervisti Pozzecco? È ancora così matto oppure è cambiato?»

Pozzecco, vuole rispondere lei?

«Ci provo. Tutte e due le cose. Ho fatto un sacco di cose stupide, spesso mi sono fatto male da solo. Un certo tipo di vita non mi appartiene più, ma è un passato che non rinnego. Sono stato un cretino? Io sono anche quel cretino che ero. Non è che sei sempre lo stesso, ognuno di noi contiene cose belle e brutte, errori. E prima di giudicare, forse bisognerebbe sempre conoscere, e sforzarsi di capire gli altri, i loro sbagli, i loro eccessi, la vita che hanno avuto».

Da dove viene questa sua perpetua necessità di dimostrare qualcosa al mondo?

«Mi guardi. Lei è molto più alto di me. Arrivo appena a un metro e ottanta. Sono sempre stato il più piccolo delle scuole che frequentavo con scarso profitto, forse perché ero scemo. Ero un tappo che voleva solo giocare allo sport dei giganti, più scemo di così...».

Era solo una questione di altezza?

«Una sera di tanti anni fa. Casa mia a Trieste. Siamo seduti a tavola in terrazza, per pranzo. Ho 13 anni, e devo scegliere se giocare a pallacanestro in C1 nella squadra allenata dal mio papà, come mio fratello maggiore e più alto, oppure giocare a calcio in terza categoria con il Chiarbola. Io avevo già deciso. Basket, tutta la vita, anzi voglio che il basket diventi la mia vita. C'è solo da aspettare che papà torni a casa, e glielo dirò, facendolo felice. Almeno così immaginavo».

Non fu così che andò?

«Avevo le farfalle nello stomaco, non vedevo l'ora. Lui si sedette e non disse nulla. Io aspettavo il momento in cui mi avrebbe rivolto la parola, lo pregustavo, ma niente, non mi filava. Arrivati al caffè, quasi con nonchalance, si gira verso di me e mi dice: "Allora siamo d'accordo, vai a giocare a calcio, no?". Fu come ricevere un pugno da Mike Tyson. Ko tecnico».

Lei cosa rispose?

«Che obbedivo. Che avrei giocato a calcio. Poi mi alzai da tavola e tornai nella mia stanza, a piangere. E poi feci di testa mia, per la prima di una serie infinite di volte».

Non credo di poter sopravvivere a un'altra storia padre-figlio, c'è già stato Agassi con il suo «Open»...

«Per carità, quel libro non sono neppure riuscito a finirlo, l'ho mollato a pagina 200...».

E perché?

«Agassi ripete a ogni pagina quanto gli faccia schifo il tennis. Abbiamo capito, va bene, peccato per te. Io invece ho amato e amo il basket con ogni mia molecola. Mi ha insegnato a vivere. A gestire la pressione, a stare in gruppo, a tollerare l'errore del compagno. Il basket ha definito quello che sono».

Non le dà fastidio che qualcuno ancora la consideri un pirla?

«Cosa posso farci? Essere discriminato, in ogni senso, è stata la costante della mia vita. Lo so, c'è gente convinta che io sia stato semplicemente un donnaiolo discotecaro, arrivato a certi livelli solo grazie a un po' di talento e tanta fortuna».

Un farfallone, come disse Boscia Tanjevic quando la tagliò dalla Nazionale che nel 1999 poi vinse l'oro agli Europei?

«Ecco, grazie per averlo ricordato... D'accordo, ci sono state tante domeniche che ho fatto l'alba con un drink in mano. Ho preso sbronze omeriche e da ubriaco ero capace di fumare due pacchetti di Marlboro in poche ore. Ma gli altri giorni della settimana? Ero in palestra, a farmi il c... e non c'è nessuno che possa dire che non abbia sempre dato l'anima in campo».

Il giocatore e coach Pozzecco si sente vittima del personaggio che ha costruito?

«No, per nulla. Il basket mi ha concesso una vita incredibile, e me la sono goduta. Ne ho fatte di tutti i colori, in campo e fuori. E nel libro non ne nascondo mezza. Sa perché?»

Per far capire quanto era fuori di testa?

«Anche quello, ok. Ma ho scritto il libro anche per un'altra ragione più importante: vorrei far capire che il giudizio sulle persone non può mai essere definitivo. Che cambiamo tutti, ogni giorno. Non è sempre bianco o nero, non che sei cretino per sempre o cretino mai. Siamo tante cose tutte insieme, ognuno di noi».

La ferisce essere ricordato da qualcuno più per i flirt con Samantha De Grenet o Maurizia Cacciatori che per le vittorie?

«L'unica cosa che mi fa male è quando sento qualcuno dire che ero un cocainomane. Io non mi sono mai drogato nella mia vita. Mai. Ero pazzo? La gente veniva al palazzetto apposta per vedere me, sapeva che mi sarei inventato qualcosa».

Il rapporto difficile con gli allenatori nasce quel giorno a tavola con suo padre?

«No, per carità. Nella mia prima stagione in A2, l'allenatore di allora mi gridò davanti al resto della squadra: "Ma tuo padre, quella sera, invece di andare con tua madre, non poteva farsi una..."».

È ancora vivo?

«Credo di sì. Lo attaccai al muro, e imparò a rispettarmi. Ma il mondo dello sport è ancora pieno di gente così, che umilia l'adolescente sentendosi chissà chi, tirandogli i capelli, insultandolo, con la scusa che è per tirare fuori il meglio da lui. Non è così che si insegna a un giocatore. Non sei un buon coach, sei solo un uomo vile e frustrato».

Quale è stato il suo miglior allenatore?

«Charlie Recalcati, per distacco. Una persona eccezionale.

Un uomo che cercava di capire chi aveva davanti, che non ti guardava mai dall'alto».

Non ha avuto problemi anche con lui?

«Qualcuno, superato. All'inizio pensavo addirittura che avesse vinto il suo primo scudetto, a Varese, solo per merito mio, di noi giocatori. Poi lui ne ha vinti a decine, e io sono rimasto a uno. Quindi mi sbagliavo, come sempre. Si impara».

Perché a un certo punto, sul finire dalla carriera da giocatore, lei rinuncia alla televisione, alle serate al Billionaire, alla mondanità?

«Ancora prima di incontrare Tanya, la donna che mi ha cambiato, ho realizzato che non ero felice per via della fama e della celebrità che mi dava il basket. Ero felice perche giocavo a basket. Quando si avvicina la linea d'ombra, il cambio di stagione, con la fine di quella vita, lo spogliatoio, l'adrenalina, il cameratismo, le lacrime di gioia o di rabbia, ecco, è allora che vedi chiaro e capisci quello che conta davvero».

Rimpianti?

«Un po'. Anzi, molto. Essere un personaggio non ha reso la mia vita speciale. Giocare a basket, inseguire la mia passione, è l'unica cosa che mi manca. È un vuoto che può essere colmato solo da un figlio. Lo vorrei tanto».

E se poi le dice che non gli piace il basket?

«Faccio come Erode. No, seriamente. L'unica cosa che ho imparato è che per vivere bene bisogna avere un desiderio, una passione forte. Non metterò un pallone a spicchi in mano a mio figlio, e non ho necessità che segua le mie orme. Mi dispiacerebbe solo vederlo senza un sogno da inseguire, senza qualcosa che lo illumini, che sia leggere o suonare una chitarra. O giocare a basket...».

Come ha fatto un «farfallone» casinista a sfiorare da coach uno scudetto a Sassari vincendo 22 gare consecutive, che credo sia un record?

«Ho avuto culo. Davvero. Una cosa che mi fa impazzire in Italia, è l'importanza che si dà all'allenatore, e non parlo solo di basket. Ce ne sono di due tipi: quelli che pensano di avere la ricetta per far vincere i giocatori, e quelli che invece pensano che siano sempre i giocatori a farti vincere. E se appartieni alla seconda categoria, ti prendi anche un po' meno sul serio, che non fa mai male».

Ma quindi Pozzecco è davvero diventato un vecchio saggio?

«Beh, sono stato Peter Pan per molto tempo, ma fortunatamente oggi non gioco più con il Lego. Anche se l'altra sera mentre guardavo la televisione sono finito su una specie di Masterchef del Lego». Ha cambiato canale? «Sono rimasto sveglio fino all'alba a guardarlo».

·        Quelli che…Il Rugby.

Da corrieredellosport.it il 12 maggio 2020. "E' tempo che l'Italia venga buttata fuori dal Sei Nazioni. A beneficio della reputazione del torneo e, paradossalmente, dell'Italia". Comincia così un lungo editoriale dell'autorevole quotidiano inglese 'The Times' in cui, nonostante gli accordi presi fino al 2024, si mette in dubbio la presenza degli azzurri nel torneo 'ovale' più antico del mondo. "In 20 stagioni più un'altra tronca - scrive il 'Times' - l'Italia ha ottenuto 12 vittorie in 103 partite, a una media di una ogni quasi nove match. Inoltre l'Italia quest'anno non è stata capace di segnare un singolo punto contro Galles e Scozia, perdendo 42-0 a Cardiff e 17-0 a Roma: è un chiaro segnale che il torneo ha bisogno di un sostanziale ribaltone". Viene poi ricordato che l'unica altra nazionale ad aver ottenuto il privilegio di sfidare i team britannici e irlandese è stata la Francia: "entrarono nel 1910 e prima di essere esclusi nel 1931 per l'estrema violenza nel gioco e perché a livello di club pagavano i giocatori, avevano fatto 12 vittorie in 17 edizioni della competizione: la media era quindi di un successo ogni cinque partite, superiore a quella di ora degli italiani. Poi la Francia ha avuto bisogno di tempo, ma a metà degli anni '50 è emersa come potenza, vincendo dei titoli. Ha dovuto attendere il 1968 per fare il Grande Slam, ma ne è valsa la pena. I Bleus hanno aggiunto brio e originalità al gioco del rugby".

"Livello troppo alto per l'Italia". La teoria di questo editoriale è che all'Italia simili progressi sembrano preclusi ("l'Italia non mostra il minimo segnale che possa diventare la Francia del 21/o secolo"), e quindi farebbe meglio a tornare a misurarsi "in una competizione in cui siano favoriti, e non in una dove vengono sovrastati e battuti pesantemente. Romania e Georgia rappresentano il livello di competitività dei loro standard". Dopo aver definito "un vecchio clichè", il fatto che sia molto più bello passare un "lungo fine settimana a Roma anziché a Bucarest o a Tbilisi", e auspicato che si torni al Cinque Nazioni, viene ribadito che "espellere gentilmente l'Italia sarebbe un bene per il torneo, per la reputazione dello sport e dell'Italia stessa".

·         Quelli che…i Motori. 

Imola, la Formula 1 torna a casa. Storia unica tra drammi e tradimenti. Senna e Ratzenberger. Ma anche la vittoria di Schumacher nel giorno della morte della madre. E De Angelis: unico italiano 1° su questa pista. Umberto Zapelloni, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Imola per chi ha una certa età è un pozzo di ricordi. Belli e brutti. Dolci e tragici. Un posto che entra di diritto nel cuore degli appassionati anche se da 14 anni non compariva più sul calendario di un campionato che è andato a cercare piste assurde in posti assurdi dove la passione che si respira in riva al Santerno non potrebbero averla neppure pagandola a peso d'oro. Imola è il gran premio dei tortellini e dello squacquerone, del lambrusco che sostituisce la coca cola anche nelle lattine (sigh!). Lo hanno chiamato il piccolo Nürburgring, poi lo hanno dedicato a Enzo e Dino Ferrari. Disegnato e costruito nel 1952, il circuito di Imola è entrato nel calendario dalla porta principale: Gran premio d'Italia 1980, l'unico corso lontano da Monza. Poi per un colpo di genio che solo da queste parti possono avere, si è trasformato nel Gran premio di San Marino e per 26 anni è rimasto in calendario segnando per sempre la storia di questo sport nel maledetto weekend del primo maggio 1994. La statua di Ayrton è lì, sempre circondata dai fiori, nel parco delle Acque Minerali non lontano dal punto dove la sua anima è volata in cielo. I suoi occhi, la sua voce, il suo spirito sono custoditi nel museo accanto all'ingresso dove in giorni normali vi consiglierei di andare. Pensi ad Ayrton e ti viene il magone, ma non dimentichi Ratzenberger che un giorno prima e pochi metri più in là, aveva imboccato la stessa via di fuga dalla vita. Il dolore per Ayrton si trasforma in gioia malinconica andando indietro fino al 1985, il giorno di Elio De Angelis e dell'unica vittoria italiana su questa pista. In un giorno in cui tutti (Senna, Johansson) o quasi, rimasero senza benzina e Prost che aveva tagliato il traguardo per primo fu squalificato, De Angelis, compagno di Senna nella Lotus nera firmata John Player Special, si prese la coppa un anno prima di andarsene anche lui. Gioia malinconica. Ci pensi su un po' e trovi che Imola è intrisa di ricordi agrodolci. Ad un nome che qui ha segnato un'epoca, scritto una storia, c'è sempre collegato qualcosa di triste. Prendete i tradimenti. Clamorosi. Quello del 1982 di Pironi a Gilles e quello del 1989 di Prost a Senna. Il 25 aprile 1982 ci sono soltanto 14 monoposto al via per colpa dello sciopero dei team Foca schierati contro la federazione per la squalifica di Piquet e Rosberg in Brasile. Le due Ferrari però bastano e avanzano. A dare spettacolo ci pensano Pironi e Villeneuve. Sorpassi e controsorpassi però portano alla rottura di un patto non scritto e soprattutto di un'amicizia. Ah se ci fosse stato l'ingegner Forghieri ai box Ma a quei tempi bastava la comunione di un figlio per avere un permesso. In fin dei conti la gara era vinta in partenza con Alboreto terzo e lontano. Pironi e Gilles non si parlarono più e tutti sappiamo come è andata a finire quindici giorni dopo. Il 23 aprile 1989, mentre gli angeli della Cea salvano Berger dalle fiamme del Tamburello, Senna e Prost litigano sullo schieramento di partenza mentre attendono il secondo via dopo la sospensione. Anche in questo caso colpa di un patto non rispettato. L'amicizia che c'era tra Gilles e Didier non c'era mai stata tra loro. Ma il rispetto sì. Da quel momento fu solo guerra. Con sportellate e carognate. Almeno fino a Imola 1994. A quel messaggio via radio di Ayrton al pensionato Prost: «Alain mi manchi». Non avranno più tempo di dirselo di persona. Tristezza per favore vai via. Le sette vittorie di Michael (più una di Ralf) trasformano Imola nel paradiso degli Schumacher. Ma anche qui c'è un velo di malinconia, una tuta con un lutto al braccio. Perché nel 2003 Michael perde la mamma al mattino, poi vince per lei e guarda il cielo triste dal podio rimasto senza champagne come in quel maledetto primo maggio. La sera prima dopo la pole era volato a casa con Ralf a darle un ultimo bacio. Tenero e spietato. Proprio come Imola.

Da ilnapolista.it il 17 giugno 2020. Tuttosport riprende l’intervista di Nigel Mansell al Daily Mail. Ai miei tempi avere 180 gare alle spalle ed essere ancora vivo significava già aver avuto una grande carriera a prescindere dai risultati. Adesso in macchina si suda appena e quando i piloti scendono dalle vetture sembrano appena usciti dal parrucchiere. In passato diversi piloti di estremo talento rimanevano infortunati dopo un incidente senza la possibilità di tornare a correre. Oggi i giovani possono commettere errori gravissimi senza conseguenze. Le persone morivano regolarmente in pista e questo poteva seriamente influenzare la tua psiche. Di Villeneuve ero amico, non dimenticherò mai la tragedia a Zolder: ero nell’abitacolo, l’ho visto volare per aria fuori dalla Ferrari e poi atterrare sulla recinzione. Pensai subito che le sue possibilità erano praticamente nulle: è stata la cosa più scioccante cui abbia mai assistito. Ero arrabbiato allora e lo sono ancora. A Imola nel 94 la morte di Roland Ratzenberger e Ayrton Senna in quel terribile fine settimana, fu una catastrofe per il motorsport e lo cambiò per sempre. Nel bene e nel male, perché ha sterilizzato i circuiti di tutto il mondo. Per me è stato un terribile errore. La Formula 1 era uno sport incredibile che premiava se guidavi bene e penalizzava se lo facevi male. Ora è cambiato oltre ogni immaginazione. È molto difficile fare dei paragoni tra le diverse epoche, ma credo che Hamilton avrebbe brillato anche in circostanze diverse da quelle che lo hanno visto impegnato dal 2007 in poi. Come Schumacher ha avuto la fortuna di avere a disposizione vetture di alto livello e molto probabilmente passerà alla storia come il pilota inglese più illustre. Non vedo ragioni per cui non possa vincere ancora un settimo o un ottavo titolo, deve solo man tenere i piedi per terra e continuare a fare quello che ha fatto. Per lui il numero uno di tutti i tempi resta Juan Manuel Fangio.

Cesare Arcolini Mauro Giacon per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. «Via, la strada è lunga». Sono le parole di Alex Zanardi all' inizio della tappa del giro d' Italia per beneficenza dove avrebbe avuto l' incidente con la handbike. Eppure la strada verso casa si avvicina. Ieri dall' ospedale San Raffaele di Milano è stato trasferito al reparto di neurochirurgia dell'ospedale di Padova, qualche chilometro appena da Noventa padovana, dove abita con la moglie Daniela Manni e il figlio Niccolò.

LA SITUAZIONE. «Il paziente - si legge in una nota del S. Raffaele - ha raggiunto una condizione fisica e neurologica di generale stabilità che ha consentito il trasferimento ad altra struttura ospedaliera dotata di tutte le specialità cliniche necessarie e il conseguente avvicinamento al domicilio familiare». Ora il percorso è comunicare e interagire. Zanardi era arrivato al San Raffaele il 24 luglio scorso, con una grave instabilità neurologica. Ma, aggiunge l' ospedale, «ha affrontato dapprima un periodo di rianimazione intensiva, quindi un percorso chirurgico, in primo luogo per risolvere le complicanze tardive dovute al trauma primitivo e in seguito per la ricostruzione facciale e cranica. Negli ultimi due mesi ha potuto intraprendere anche un percorso di riabilitazione fisica e cognitiva. Ad Alex e alla sua famiglia - conclude la nota - tutto l' ospedale augura un futuro di progressivo miglioramento clinico». Nella villa di via De Gasperi a Noventa Padovana non ci sono né il figlio Niccolò né la moglie di Alex Zanardi, Daniela Manni. Telefonicamente è allora Niccolò a tranquillizzare tutti gli sportivi che amano Alex per il suo coraggio ancor prima che per le sue vittorie. «Siamo felici che papà sia stato trasferito all' ospedale di Padova. I medici ci hanno dato segnali confortanti sulle sue condizioni di salute, ma come sempre abbiamo fatto dall' incidente in poi, preferiamo sia io che mia madre mantenere un profilo basso. Saremo felici solo quando Alex potrà tornare a casa». Sull' affetto che tutta l' Italia e i cittadini di Noventa, dove l' ex pilota di Formula 1 da ormai diversi anni ha stabilito la sua residenza, gli ha tributato in questi mesi, ha proseguito: «Siamo emozionati per questo e sono certo che anche papà senta il calore della gente. Ripeto, siamo in un momento in cui è impossibile fare proclami. È stato un periodo difficilissimo. Canteremo vittoria soltanto quando potrà tornare a casa». L' emergenza Covid-19 non consente al momento ai familiari di avvicinare Alex, ma il figlio Niccolò ha concluso: «Lui sa che gli siamo vicini e che lo amiamo. Si è rialzato tante volte, ci auguriamo che lo faccia anche questa volta». Era il 19 giugno quando Zanardi è finito contro un camion in una curva. Era partito da Brolio, in val d' Orcia. Ricoverato in gravissime condizioni è stato sottoposto a quattro interventi. I primi tre al Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena. Con la terza operazione, cinque ore, il 6 luglio, i medici gli hanno ricostruito minuziosamente il volto. Il 21 luglio è stato dimesso per andare nel centro lecchese di neuro-riabilitazione di Villa Beretta, dove lo attendeva un lungo periodo di recupero. Ma dopo tre giorni, per una febbre causata da un' infezione, le sue condizioni si sono aggravate. Dopo la corsa al San Raffaele, l'ultimo intervento, tra il 26 e il 27 luglio, quando il professor Pietro Mortini ha dovuto ridurre le complicanze tardive dovute al trauma cranico. Null' altro trapela sulle attuali condizioni del pilota, vincitore di due campionati Cart (97 e 98) negli Stati Uniti, con più stagioni in Formula 1 e quattro medaglie d' oro ai giochi paralimpici. Il 15 settembre del 2001, durante una gara in Formula Cart al Lausitzring, Zanardi ha avuto il drammatico incidente che gli è costato l' amputazione delle gambe. Da lì è cominciata la seconda parte della sua carriera, quella che gli ha dato, oltre agli allori, l' affetto degli sportivi e non solo. Ora l' ultima sfida nell' ospedale a due passi da casa.

La discesa, il camion, l'impatto: così Zanardi è finito a terra. Il compagno di squadra ha raccontato l'incidente: "Ho sentito un grande rumore...". E la Procura apre un'inchiesta. Marco Gentile, Venerdì 19/06/2020 su Il Giornale. Alex Zanardi è stato vittima di un gravissimo incidente e ora desta in condizioni critiche all'ospedale dove è stato trasportato con l'elisoccorso. Lo sfortunato pilota bolognese ha perso il controllo della sua handbike, in curva, ed ha invaso l'altra corsia dove stava sopraggiungendo un camion che l'ha travolto a tutta velocità.

La passione per la handbike. A raccontare la dinamica dell'incidente ci ha pensato, ai microfoni di Radio Capital, Mario Valentini commissario tecnico della nazionale di Paraciclismo che ha ammesso come sia stato purtroppo Alex ad invadere la corsia: "Era una giornata di sole, tutti contenti, eravamo a 20 km da Montalcino, ci aspettavano tutti... non ha sbagliato l'autotreno, ha sbagliato Alex, ha imbarcato", questo il laconico e triste commento di Valentini. "Quello percorso è un rettilineo lungo, in discesa, al 4%, dicono che si sia imbarcato e abbia preso un autotreno sul montante davanti. L'autotreno si è spostato di un metro ma l'ha preso uguale. Non c'ero, ero staccato, il commento del ct della nazionale di Paraciclismo che ha svelato come per Zanardi fosse una giornata felice: "Era allegro, come sempre. Sulla salita gli ho fatto vedere l'aranciata, mi ha urlato dammene un po'! Si scherzava". Valentini ha infine concluso il suo intervento spiegando come per lui Zanardi fosse vigile dopo il terribile impatto: "Dall'incidente ai soccorsi sono passati venti minuti, ma c'è voluto molto per metterlo su, lo assisteva la moglie. Ma dopo l'incidente parlava. Sull'ambulanza non lo so".

La testimonianze chiave. La testimonianza del suo compagno di staffetta Paolo Bianchini, che stava accompagnando Zanardi insieme all’ex professionista Bennati e un gruppo di altri corridori amatoriali, ha raccontato quanto successo in strada: "Io ero davanti a lui, ho sentito un grande rumore, mi sono girato e l'ho visto lì ribaltato". Il racconto di Bianchini entra poi sempre di più nel dettaglio: "Sono tornato indietro ed ho visto una cosa che non avrei mai voluto vedere", il commento del suo compagno con gli occhi gonfi di lacrime. "Errore suo? No, solo la sfortuna maledetta che quando ci si mette...", il commento amaro di Bianchini che ha poi concluso "Ci siamo incrociati con gli sguardi durante la gara e mi ha guardato ed era carichissimo. Mi aveva anche detto "Paolo, quando sono con te sono i giorni più belli della mia vita", la chiusura del suo compagno e amico che non è poi riuscito a trattenere le lacrime per la grandissima tristezza.

La Procura apre un'inchiesta. La Procura di Siena ha deciso di aprire un fascicolo sull'incidente in cui è rimasto coinvolto oggi pomeriggio Alex Zanardi anche per accertare eventuali responsabilità dell'organizzazione della manifestazione. Il sostituto procuratore Serena Menicucci ha svolto un sopralluogo dov'è avvenuto l'incidente, a Pienza. I carabinieri hanno acquisito un video amatoriale che avrebbe ripreso il momento in cui l'handbike di Zanardi si è scontrato con il camion che proveniva dalla direzione opposta. I militari dell'Arma stanno eseguendo anche verifiche sulle modalità organizzative della manifestazione a cui stava partecipando lo sfortunato campione paralimpico.

Marco Bonarrigo, Marco Gasperetti per corriere.it il 20 giugno 2020. C’è tutta Italia davanti al Policlinico di Siena, idealmente, ma con la stessa emozione della moglie Daniela, del figlio Niccolò e degli amici che da venerdì sono nelle sale di attesa di quell’ospedale, vicini ad Alex Zanardi, campione capace di rinascere dopo un incidente tremendo e di diventare simbolo dell’ottimismo, del coraggio e della forza di volontà.

La gara. Alex di nuovo vittima di un terribile incidente a 19 anni dallo schianto in cui perse entrambe le gambe. Scenario del dramma, la provinciale 146 del Senese nel tratto che da Pienza scivola a tornanti dolci verso San Quirico d’Orcia e Montalcino in una delle zone più belle e celebrate d’Italia. Erano passate da poco le 17 quando, su un tratto di leggera discesa, a una velocità tra i 45 e i 50 chilometri all’ora, il fuoriclasse paralimpico (che partecipava a una staffetta di beneficenza da lui stesso promossa) ha spinto al limite la sua handbike all’entrata di una curva. Artista delle auto, Alex lo è sempre stato anche in bici con una capacità di pennellare le curve senza pari spingendo al massimo, calcolando rischi e pericoli. Ma venerdì qualcosa è andato storto. Zanardi ha perso il controllo del mezzo che si è capovolto due volte e l’ha proiettato contro un grosso furgone che veniva in senso opposto. «Il casco è saltato — ha spiegato Mario Valentini, commissario tecnico della Nazionale di paraciclismo che seguiva Zanardi in furgone — e Alex ha agganciato il predellino del furgone battendo la testa: purtroppo ha commesso un’imprudenza». Paolo Bianchini, titolare dell’azienda vinicola Ciacci-Piccolomini, dove si sarebbe conclusa la tappa, era proprio dietro Zanardi: «L’ho affiancato con la macchina — racconta — e un minuto prima dell’incidente mi ha detto di essere l’uomo più felice del mondo per poter pedalare in quel paradiso. Poi ho sentito un botto, lo stridore terribile di una lunga strisciata. Alex era a terra, respirava ancora. Sua moglie è scesa di corsa e si è gettata su di lui». Le condizioni di Zanardi sono subito apparse gravissime al personale del 118, arrivato dopo una quindicina di minuti. L’ex pilota di Formula 1 è stato stabilizzato e spostato di poche centinaia di metri per permettere l’atterraggio dell’elisoccorso. Trasportato al Policlinico le Scotte di Siena, Zanardi è stato sottoposto a un «intervento chirurgico alla testa» ha spiegato Giovanni Bova, direttore dell’unità di urgenza. L’operazione è iniziata alle 19 e si è conclusa intorno alle 22. La prognosi resta riservatissima. Nell’ultimo bollettino i medici hanno scritto che l’atleta è stato sottoposto a «un intervento neurochirurgico e maxillo-facciale a causa del grave trauma cranico riportato» e che «il paziente è stato poi trasferito in terapia intensiva, in prognosi riservata». E infine che purtroppo «le sue condizioni di salute restano gravissime». Le condizioni, sabato mattina, restano stabili. Il prossimo bollettino medico dell’azienda sanitaria senese è atteso intorno alle 10. «È un uomo forte, ha una fibra eccezionale», dicevano gli amici di Alex davanti all’ospedale e qualcuno di loro aveva le lacrime agli occhi. Come tutta Italia. Istituzioni comprese. «Mai ti sei arreso e con la tua straordinaria forza d’animo hai superato mille difficoltà. Forza Alex Zanardi, non mollare. Tutta l’Italia lotta con te», ha scritto il premier Giuseppe Conte, sul proprio account di Twitter. E poco dopo a fare il tifo è stato il ministro degli esteri Luigi Di Maio: «Ci hai dimostrato di saper vincere anche le sfide impossibili. Campione non mollare, sei l’orgoglio di un’intera Nazione!». Al quale ha fatto eco, su Facebook, il ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora: «Forza Alex non mollare!». La solidarietà ha anche unito i colori della politica. Incoraggiante il messaggio di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia: «Alex Zanardi in ospedale dopo un grave incidente: forza campione, siamo tutti con te», ha scritto. Messaggi anche dall’olimpionica Federica Pellegrini.

La prima ricostruzione. La staffetta paralimpica «Obiettivo 3» era un’idea di Zanardi, che aveva raggiunto a Firenze gli equipaggi provenienti da tre punti diversi d’Italia. La manifestazione era del tutto non competitiva e ai partecipanti era richiesto di rispettare il Codice della Strada. I carabinieri della compagnia di Montepulciano fanno sapere che il convoglio era scortato informalmente da un equipaggio della polizia municipale di Pienza. Zanardi e alcuni partecipanti (cicloturisti che avevano aderito al progetto) sarebbero però stati staccati dal resto del gruppo.

Giorgio Terruzzi per corriere.it il 20 giugno 2020. Era convinto, eravamo convinti proprio tutti che ogni conto fosse saldato. Sette arresti cardiaci, estrema unzione impartita, gambe amputate dopo quell’incidente al Lausitzring del 15 settembre 2001 che fa male ancora adesso. Aveva in corpo meno di un litro di sangue. Abbastanza per farne tesoro, per farlo scorrere, trasformarlo in una benzina solo sua. Alessandro Zanardi: così sempre. Una forza della natura, uno spettacolo di umanità. Battuto? Ma va là. Vispo e pronto, poche ore dopo essere uscito dal coma, da una operazione che avrebbe rivoltato la sua vita, a studiare le protesi, a immaginare come fare, come continuare a camminare, a correre, a gustare ogni attimo di vita perché vivere, come ripete sempre, è una meraviglia. Fatica: sempre. Con un coach formidabile al suo fianco. Daniela, sua moglie, tanto tosta quanto riservata, una compagna di vita decisiva, razionale, ironica. Capace di mostrargli il bello e il verso di ogni salita. Forse, la sua energia viene proprio dalle sofferenze. Da ciò che la fatica, appunto, restituisce. Perse la sorella Cristina, vittima di un incidente stradale; nel 1993, quando passò alla Lotus dopo due anni grami in F1 andò a sbattere all’uscita dell’Eau Rouge, Spa, con una violenza spaventosa. Si riprese in fretta ovviamente, disposto a guidare di nuovo e a sorridere di se stesso con i capillari degli occhi saltati. Uno sguardo, una espressione da film dell’orrore. Perse il posto perché anche nelle corse, se inciampi, è difficile che qualcuno ti aspetti. Il fatto è che Zanardi, fermarlo non puoi, non sa proprio come fare. Reagisce, tira dritto. Andò in America, trovò il modo, il ritmo, il solito cuore. Un sorpasso al «Cavatappi» di Laguna Seca, da esordiente nel 1996 che è un poster definitivo, fa il paio con quello di Valentino, stesso posto. Un guizzo dell’azzardo sublime. Come Gilles e Arnoux a Digione, 1979; come Senna e Mansell in Spagna, 1991. Due titoli filati di Formula Indy (1997 e’98) e un rientro in F1 amarissimo, dentro un 1999 annodato in casa Williams. Fu un errore tornare dove non aveva funzionato; era carico di nuovo quando decise quel bis da campionato Cart del 2001 che gli costò un incontro ravvicinato con la morte. Ne uscì con una voglia di vivere strepitosa. Forza di braccia, forza mentale. Handbike. Il bilancio gronda medaglie olimpiche e mondiali. Soprattutto ha offerto a migliaia di ragazzi e ragazze feriti un bellissimo esempio, un invito irresistibile a non rinunciare. Parla Alex, e sa farlo. Mostra. Dimostra. Lavora, sta ore nel suo capanno officina, fa e disfa con le protesi, senza protesi, senza metterla giù dura un solo istante. E quando ti incontra, si alza in piedi, come se gli costasse zero, come fa una persona che conosce il valore del rispetto. Per se stessi e, dunque, per ogni essere umano. Sì, una persona preziosa. Per chi ogni giorno trascura il valore di una opportunità scontata. Per chi pensa di aver perduto ogni piccola, preziosa, opportunità.

Claudio Arrigoni per corriere.it il 20 giugno 2020. È da sempre vicino ad Alex. Un passo indietro. Senza riflettori. Ma pensare ad Alex senza di lei non è possibile. Daniela è molto più che una moglie per Alex Zanardi. C’era quando lui si è risvegliato dopo l’incidente in Germania, senza gambe e con una vita diversa. Fu lei a raccontargli tutto, con dolcezza ma senza nascondere nulla. Alex ascoltò e poi le chiese: «Ma posso ancora morire?» Lei lo guardò con un sorriso: «No». Lui ricambiò: «Allora saremo capaci di affrontare anche tutto questo. Insieme». Perché questa era la parola giusta per definire la loro vita. E il loro amore. Daniela era lì, dietro di lui, quando è avven avvenuto anche questo incidente.

Io penso positivo. Nelle parole di Paolo Bianchini, titolare dell’azienda vinicola Ciacci-Piccolomini, che si trovava proprio dietro Zanardi: «L’ho affiancato con la macchina — racconta — e un minuto prima dell’incidente mi ha detto di essere l’uomo più felice del mondo per poter pedalare in quel paradiso. Poi ho sentito un botto, lo stridore terribile di una lunga strisciata. Alex era a terra, respirava ancora. Sua moglie è scesa di corsa e si è gettata su di lui». Chi l’ha vista subito dopo ha capito la sua disperazione, la paura, confidata agli amici. «Ma non lo lascio solo», ha detto Daniela. Dopo l’operazione gli è vicino con la mamma di Alex e il figlio Niccolò. Si sono conosciuti quando lui correva in formula Cart e sposati nel 1996. Un amore passato attraverso i momenti difficili di una vita da ricostruire. Fra le case in Veneto e in Maremma hanno vissuto i momenti belli delle vittorie e delle cadute. A chi le dice: «Però bel marito che ti sei scelta». Risponde con ironia e saggezza: «Hai ragione, ma a lui è andata meglio».Alex lo sa. Tutte le volte che ha cercato il suo sguardo nei momenti difficili. Gli ha dato forza. Come ora. Ancora una volta, come sempre, insieme.

Zanardi, la moglie Daniela sempre presente: ''Non lo lascio solo''. La moglie Daniela è sempre accanto al suo Alex. Una coppia che ha già vissuto momenti drammatici, sempre superati con la forza del loro amore. Antonio Prisco, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. ''Non lo lascio solo'' Daniela Zanardi è sempre stata vicino al marito Alex nei momenti più difficili, e anche in queste ore drammatiche non lo ha abbandonato un istante. Mentre l'affetto di tutta Italia si stringe intorno ad Alex Zanardi, rimasto coinvolto in un terribile incidente nel Senese durante una delle tappe della staffetta di Obiettivo tricolore, con atleti paralimpici in handbike, la moglie Daniela vive momenti difficilissimi. Chi l'ha vista subito dopo ha capito la sua disperazione, la paura, confidata agli amici. ''Ma non lo lascio solo'', ha assicurato. Non ama i riflettori Daniela, che dopo l’operazione è sempre lì con la mamma di Alex e il figlio Niccolò. Al momento, infatti, la famiglia non ha ancora proferito parole in merito a quanto accaduto al campione. I due sono legatissimi ormai da anni, tanto che lui più volte ha dichiarato di essere ''un uomo davvero fortunato'' per averla al suo fianco. Lei è sempre stata vicina ad Alex, un passo indietro e lontana dai riflettori. E nella drammaticità di queste ore ricorre il dejavù di aver già vissuto questo momento, esattamente 19 anni fa, quando il marito rimase coinvolto nel terribile incidente di Berlino, che gli causò l’amputazione delle gambe. Spesso e volentieri Alex racconta quei momenti, e il leit motiv è sempre lo stesso: la voce della sua adorata moglie. ''Non appena sono uscito dal coma farmacologico – le sue parole in quell’occasione riferite all’incidente sul circuito di Lausitzring – e ho aperto gli occhi, ho sentito la voce di mia moglie Daniela che mi raccontava di quanto mi era accaduto e dell’amputazione delle gambe, ma che al tempo stesso annunciava che i medici erano ottimisti e che con buona probabilità avrei potuto tornare a camminare con delle protesi''. Alex ascoltò e poi le chiese: ''Ma posso ancora morire?''. Lei lo guardò con un sorriso: ''No''. Lui ricambiò: ''Allora saremo capaci di affrontare anche tutto questo. Insieme''. Alex e Daniela sono innamoratissimi. La coppia si è sposata dal 1996 e mai hanno conosciuto un momento di crisi, nemmeno nei momenti più drammatici. Il loro primo incontro risale a quando Zanardi correva anche in Kart e in F3. Un amore passato attraverso i momenti difficili di una vita da ricostruire. Fra le case in Veneto e in Maremma hanno vissuto i momenti belli delle vittorie e delle cadute. A chi le ha sempre detto: ''Però bel marito che ti sei scelta''. Risponde con ironia: ''Hai ragione, ma a lui è andata meglio''. Alex lo sa e tutte le volte che ha cercato il suo sguardo nei momenti difficili gli ha dato forza. Come ora ancora una volta, pronti ad affrontare l'ennesima sfida impossibile che la vita gli ha messo di fronte. Sempre insieme.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2020. Racconta il neurochirugo Giuseppe Oliveri, 66 anni, milanese, da 17 anni a Siena dove è direttore del reparto di Neurochirurgia del Policlinico «Le Scotte», che ha sempre apprezzato Alex Zanardi per la volontà, il coraggio, la voglia di vivere e per gli straordinari risultati sportivi. Ma quando venerdì se lo è trovato di fronte sulla lettiga ha cancellato ogni emozione: quell'uomo dalla testa devastata e dal respiro lento non era più un campione, ma un paziente simile a tutti gli altri da salvare ad ogni costo. «Come ho sempre fatto in 40 anni di professione».

L'operazione è riuscita?

«Tecnicamente sì, ma ci vorranno giorni prima di capire se Zanardi ha subito danni neurologici».

Ci racconti quelle tre ore in sala operatoria.

«Ero in reparto, mi hanno avvertito alle 18. Il paziente era atterrato con l'elisoccorso, era stato stabilizzato ed erano stati eseguiti i primi esami, tra i quali la Tac. L'ho guardato e ho deciso di operarlo immediatamente».

Perché così tanta fretta?

«Aveva traumi gravissimi alla testa, sanguinava molto, c'era un'emorragia in corso e in questi casi l'intervento deve essere immediato. Il sangue che fuoriesce aumenta la pressione del cranio e se non si ferma può determinare danni permanenti. È arrivato in ospedale con un trauma cranico facciale importante, con due ossa frontali fratturate e con affondamento delle stesse. L'incidente gli aveva provocato un fracasso facciale, cioè la rottura di tutte le ossa del volto».

Quali sono le condizioni?

«È grave».

Quanto grave?

«Può anche morire. Però lui ha un fisico allenato, è forte e questo aiuta. È in coma farmacologico. Per usare un termine non tecnico gli abbiamo addormentato il cervello per mantenerlo a riposo. Ma la situazione è incerta, imprevedibile. I miglioramenti sono lenti e ci vogliono giorni, ma allo stesso tempo i peggioramenti possono essere repentini».

È ottimista?

«Non serve a niente essere ottimisti o pessimisti. Non possiamo valutare in questo momento gli eventuali danni neurologici che l'emorragia può avere provocato».

Lei ha detto che Zanardi è un malato che «vale la pena curare» e questa frase ha provocato polemiche sdegnate sui social...

«Intendevo dire che le sue condizioni non sono irreversibili. Zanardi può farcela, ma la prognosi per ora non può essere sciolta. Lo valuteremo nel tempo, quando si sveglierà».

Marco Bonarrigo per corriere.it il 20 giugno 2020. Cosa ci faceva lì un camion? La domanda ronza nella testa di tutti da venerdì sera: da quando, cioè, si è diffusa la notizia dell’incidente nel quale è rimasto coinvolto Alessandro Zanardi, con la sua handbike. Cosa ci faceva un camion, lì — e per «lì» intendiamo la strada provinciale 146 nei pressi di Pienza, nel Senese, verso San Quirico d’Orcia — mentre passava una staffetta benefica? Proviamo a capire.

L’inchiesta. Partiamo da un punto fermo: su quanto avvenuto venerdì pomeriggio è in corso un’inchiesta della Procura di Siena. L’ipotesi di reato è quella di «lesioni gravi o gravissime da incidente stradale». Tre gli elementi noti, al momento:

1. L’autista del camion contro il quale si è schiantato Zanardi è stato iscritto al registro degli indagati, e il suo automezzo è stato sequestrato: per entrambe le decisioni si tratta, ha spiegato il procuratore, di un «atto dovuto». L’autista ha già rilasciato dichiarazioni spontanee ai carabinieri della compagnia di Montepulciano. Il 44enne è stato sottoposto all’alcoltest e al prelievo per la ricerca di sostanze stupefacenti: entrambi gli esami hanno dato risultati negativi;

2. Esiste un video ritenuto importante, girato da un giornalista freelance, sull’incidente;

3. Ci si sta concentrando sulle modalità di svolgimento della manifestazione cui Zanardi prendeva parte: sono in corso gli interrogatori degli organizzatori della staffetta: e non si può escludere che gli inquirenti iscrivano altre persone nel registro degli indagati.

La «gara» non era una gara. L’avevano chiamata «staffetta», era patrocinata e promossa dalla Federazione Ciclistica Italiana. Aveva partenza, percorso, tempi di passaggio e arrivo codificati, come se si trattasse di una corsa ciclistica, sia pure non agonistica. Ma «Obbiettivo Tricolore» — così si chiama la manifestazione nel corso della quale venerdì è stato investito Zanardi — non aveva alcuna connotazione giuridica di gara e nemmeno di manifestazione cicloturistica. «Alex e i suoi compagni di pedalata — spiega Roberto Sgalla, già direttore di tutte le specialità della Polizia e tra i massimi esperti di sicurezza in bici — erano semplici ciclisti in escursione individuale soggetti al totale rispetto del codice della strada: dovevano mantenersi sulla destra, restare in fila indiana, non superare la linea di mezzeria o tenere comportamenti pericolosi».

Il sindaco di Pienza e la Questura dicono di non sapere nulla. «Non abbiamo mai ricevuto comunicazione ufficiale di eventi o manifestazioni sportive sul nostro territorio — ha sottolineato il sindaco di Pienza Manolo Garosi — ci era stato comunicato solamente via Facebook che si sarebbe tenuto un saluto istituzionale in piazza. Ma poi ci hanno anche successivamente comunicato sempre, tramite Fb, l’annullamento per motivi di ritardo sulla tabella di marcia della manifestazione». A quanto risulta, né la questura di Siena né il comando provinciale dei Carabinieri erano stati informati in alcun modo della manifestazione.

Estratto dell'articolo di Alessandro Di Maria per repubblica.it il 21 giugno 2020. (…)  Secondo il racconto di chi era presente, Zanardi viaggiava con altri sei o sette atleti lungo la strada provinciale 146 ed era l'unico con l'handbike (gli altri avevano biciclette o carrozzine olimpiche). Era in testa con altri due atleti e stava percorrendo un tratto di leggera discesa. Prima di una curva ha perso il controllo del suo mezzo e ha invaso l'altra corsia. Il camion ha cercato di scansarlo, ma il campione bolognese è comunque finito prima contro lo scalino utilizzato dall'autista per salire e poi contro il cassone che trasporta la ruota di scorta. Il suo casco è andato in frantumi.

Le indagini. La procura e i carabinieri sono al lavoro per ricostruire la dinamica dell'incidente, anche attraverso le immagini di un video amatoriale che avrebbe ripreso la scena. Resta da capire soprattutto cosa ha causato l'improvviso cambio di direzione del mezzo su cui viaggiava l'atleta paralimpico. "Non ha sbagliato l'autotreno, ha sbagliato lui, si è imbarcato", spiegava ieri sera, distrutto dal dolore, il suo ct Mario Valentini. I carabinieri hanno sequestrato il camion. Mentre il 44enne senese che era alla guida, risultato negativo ai test per l'alcol e gli stupefacenti, è iscritto nel registro degli indagati per lesioni gravissime. "E' un atto dovuto" ha spiegato il procuratore capo Salvatore Vitello.

La versione del camionista. "Se lo è trovato quasi di fronte all'uscita della curva e meno male che è riuscito a dare una sterzata e a buttarsi verso il limite della corsia. Così l'impatto è stato sul fianco altrimenti sarebbe stato un urto frontale con conseguenze ancora più deleterie". Ricostruisce così la dinamica dell'incidente che ha coinvolto Alex Zanardi, il difensore dell'autista del camion, l'avvocato Massimiliano Arcioni di Grosseto. In tarda mattinata sono stati ascoltati gli organizzatori della staffetta sportiva Obiettivo Tricolore. Al centro delle indagini ci sarebbero anche i permessi per lo svolgimento dell'iniziativa, organizzata dalla società sportiva di cui Zanardi è fondatore.

I messaggi sui social: "Coraggio campione". L'incidente di Zanardi è stato uno shock per il mondo dello sport e per tutta l'Italia. Tantissimi i messaggi di incoraggiamento arrivati al campione bolognese, da quello del premier Giuseppe Conte fino alle tante persone che lo vedono come un modello. "Lo porterei su Marte per dire agli alieni cos'è un uomo", ha detto di lui il cantautore Roberto Vecchioni. Tantissimi i post dei fan del campione, diventato simbolo di vitalità e della capacità di reagire dopo il primo grave incidente. Ma tanti anche i messaggi di incitamento di personaggi pubblici e famosi. "Non credere in Dio e pregarlo lo stesso", è il tweet dello scrittore Sandro Veronesi. "Prego che Alex Zanardi ci sorprenda ancora una volta con una delle sue imprese, con la sua capacità di vincere ogni sfida, con il suo amore per la vita. Alex Zanardi sa quanto bene c'è intorno a lui. Coraggio campione", scrive Mario Calabresi. "Forza Alex Zanardi esempio di chi non smette mai di lottare. Combatti e vinci ancora!", twitta Ezio Greggio su Twitter. "Un grande abbraccio simbolico a Alex Zanardi per l'incidente che lo ha coinvolto. Non ci siamo mai conosciuti ma lo ritengo davvero un esempio di forza, generosità e positività per tutti. Forza", scrive Alessandro Gassmann. "Non fa' cazzate, tieni duro campione", è l'incoraggiamento in romanesco di Chef Rubio. Gene Gnocchi manda un messaggio positivo: "Alex non solo ce la fa. Ma torna ancora a spiegarci quanto è bello, in ogni modo, vivere".  Gli auguri arrivano anche dalla Polizia, che scrive su Twitter: "Con le tue sfide impossibili sei sempre stato un esempio di vita e un mito per tutti noi. Tutta l'Italia è con te, continua a stupirci. Forza Alex".

Alessia Marani e Francesca Monzone per “il Messaggero” il 21 giugno 2020. Un video e un supertestimone parlano di una imprudenza che potrebbe essere costata cara ad Alex Zanardi, il campione paralimpico, ex pilota di Formula 1 finito in Rianimazione a Siena, gravissimo, dopo lo scontro con un camion sulla provinciale 146 tra Pienza e San Quirico d'Orcia. È un ciclista di Sinalunga che correva al suo fianco venerdì pomeriggio proprio quando si è verificato l'impatto, a confermare quanto già registrato in una ripresa effettuata da un cameraman freelance appassionato di corse e circuiti enogastronomici che seguiva i due atleti a bordo di una Golf cabriolet a breve distanza. Si tratta di immagini, poco meno di un minuto di riprese che scagionerebbero il camionista da gravi responsabilità, già acquisite dalla Procura per mano dei carabinieri e subito messe agli atti. L'uomo avrebbe raccontato che Zanardi stava effettuando dei video con il telefonino, mentre si trovavano sulla strada che da Pienza va verso San Quirico nella Val d'Orcia. «Voleva riprendere il panorama mentre correva». In base alla testimonianza, l'atleta azzurro non si sarebbe accorto di avere invaso la corsia opposta. Chi procedeva alle sue spalle avrebbe detto che Zanardi si sarebbe trovato con il camion di fronte e che, nel tentativo di frenare o sterzare, avrebbe perso il controllo dal suo mezzo. In pratica, la handbike (un velocipede adattato per i disabili che al posto dei pedali ha delle manovelle spinte a braccia) si sarebbe imbarcata, sbandando più volte, per poi andare a urtare prima sulla fiancata dell'autoarticolato, poi una seconda volta contro il parafango di una ruota. A quel punto si sarebbe sfilato il casco e il corpo dell'ex pilota, dove aver battuto con la testa in modo violento contro un triangolo metallico posto sul parafango, sarebbe volato a terra, battendo ancora il capo sull'asfalto.  «Ho visto Alex planare sopra di me, schiantarsi sulla strada e poi atterrare fino a rotolare in una cunetta, sembrava come una lancia schizzata via dopo avere rimbalzato sull'oggetto colpito», ha raccontato il testimone di Sinalunga al gruppo di amici. Dopo avere trascorso una prima notte insonne, già oggi si recherà in caserma per rendere spontanee dichiarazioni. Il cameraman segue il ciclista di Sinalunga su una bici tradizionale e Zanardi che è davanti a loro sulla handbike. Che il pilota potesse essere distratto appare già dalla prima curva, dolce, che degrada verso sinistra. L'obiettivo della videocamera inquadra chiaramente Alex che oltrepassa la linea di mezzeria, per poi riprendere il controllo delle manovelle e riaddrizzarsi. In quel momento il pilota non corre reali pericoli perché dall'altra parte non arriva nessuno. Qualche secondo dopo, però, nella curva successiva che si snoda verso destra, accade l'irreparabile. Zanardi, questa volta, sembra tagliare la curva ancora più decisamente, ma sul lato opposto sopraggiunge il camion con rimorchio guidato da Marco C., 44 anni. Zanardi non riesce a riprendere il controllo, la handbike non ha servosterzo, una distrazione, un momento di buio possono essere fatali. Forse Alex prova a frenare, ma a quel punto la bici speciale, per l'attrito, sbanda paurosamente e finisce per schiantarsi sulla fiancata. Rimbalza, ma carambola con la testa sul pesante triangolo d'acciaio sopra il parafango. La scena è terribile. Il casco schizza via insanguinato. Il camion si ferma, l'autista è disperato. Secondo una prima ricostruzione degli investigatori il mezzo pesante procedeva correttamente nel suo senso di marcia e non andava a velocità sostenuta. Andava piano anche Alex Zanardi che seguiva l'auto di uno degli organizzatori che avrebbe detto di non viaggiare a più di 50 chilometri, quindi il campione azzurra marciava ancora più piano. La voglia di riprendere quel panorama di estrema bellezza in un giorno di festa e spensieratezza con gli amici di sempre e i nuovi, lo avrebbe tradito.

Cristiano Pellegrini per “la Stampa” il 21 giugno 2020. La moglie Daniela non lo lascia un attimo. Alex è nel letto. In coma farmacologico. Operazione superata. Quadro «stabile». Ma grave da un punto di vista neurologico. E potrebbero esserci lesioni alla vista. Presto per dire quanto serie. Di nuovo in bilico, Zanardi la leggenda delle Paralimpiadi (definizione della Cnn), in terapia intensiva all'ospedale Le Scotte di Siena. Sopravvive a un incidente drammatico, un altro: vola dalla sella della sua handbike e si schianta contro la staffa di un camion in transito. Come sia potuto accadere è l'enigma in mano alla magistratura: un evento simile, in transito sulle strade della Toscana da cartolina, senza un cordone di sicurezza. Nel pomeriggio i medici sospendono i bollettini sanitari perché le condizioni sono stabili, ma aggiornano le informazioni: «Le condizioni continuano a essere stabili dal punto di vista ventilatorio e i parametri metabolici sono stabili - ribadisce il professor Sabino Scolletta, direttore del reparto di terapia intensiva - Il quadro clinico generale è tutto sommato buono ma c'è la gravità del quadro neurologico che andrà valutato nella prossima settimana». Un quadro che, ripetono i medici, preoccupa per le conseguenze che potrà avere sulle funzioni cerebrali. E alla vista perché lesioni oculari potrebbero essere già presente e dovrà essere valutata nei prossimi giorni. «Dire di essere ottimista o non ottimista non serve a niente. Serve solo curarlo», ribadisce il neurochirurgo Giuseppe Oliveri che lo ha operato. «Zanardi è un malato che vale la pena di curare, ne sono assolutamente convinto. Poi la prognosi su come sarà domani, fra una settimana, fra 15 giorni non la so. Il quadro neurologico in questo momento non lo valutiamo. Lo vedremo a distanza, quando si sveglierà, se si sveglia. Comunque sono fiducioso». Malgrado i gravi traumi anche facciali. Del resto l'incidente è stato devastante. E la procura vuole arrivare a individuare responsabilità. In particolare sull'organizzazione del servizio di scorta degli atleti che stavano effettuando la staffetta "Obiettivo tricolore" voluta proprio dal team di Zanardi. «Non abbiamo mai ricevuto comunicazione ufficiale di eventi o manifestazioni sportive sul nostro territorio», sostiene Manolo Garosi, il sindaco (ascoltato dai carabinieri) di Pienza, territorio nel quale è avvenuto l'incidente. «Ci era stato comunicato - prosegue - solo via Facebook che si sarebbe tenuto un saluto istituzionale in piazza. Poi ci hanno comunicato sempre su Fb l'annullamento di questo momento per motivi di ritardo sulla tabella di marcia». Sono in corso interrogatori degli organizzatori della staffetta nella caserma del comando provinciale dei carabinieri di Siena. Da ricostruire un punto su tutti: quello dei permessi per lo svolgimento dell'iniziativa, organizzata dalla società sportiva Obiettivo 3 di cui Zanardi è il fondatore. Agli inquirenti toccherà capire se per una staffetta, che non è manifestazione sportiva, servisse comunque un servizio di sicurezza tale da impedire eventuali punti di contatto con altri mezzi in transito. O se, addirittura, il tracciato scelto dovesse essere chiuso al traffico. Per ora sul registro degli indagati (per lesioni gravissime colpose) c'è l'autista del camion. «Se lo è trovato quasi di fronte all'uscita della curva ed è riuscito a dare una sterzata e a buttarsi verso il limitare della corsia. Così l'impatto è stato sul fianco altrimenti sarebbe stato frontale con conseguenze ancora più deleterie» dice l'avvocato dell'autista. Devastato per quanto accaduto.

Alex Zanardi, la denuncia del sindaco di Pienza: "Non sapevamo nulla della manifestazione". Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. “Non abbiamo mai ricevuto comunicazione ufficiale di eventi o manifestazioni sportive sul nostro territorio”. Lo ha dichiarato Manolo Garosi, il sindaco di Pienza, in merito all’iniziativa che è costata un bruttissimo incidente ad Alex Zanardi, ricoverato in coma farmacologico dopo un intervento neurochirurgico all’ospedale di Siena. È stata aperta un’inchiesta e sono in corso gli interrogatori con gli organizzatori della staffetta, patrocinata e promossa dalla Federazione ciclistica italiana. Come evidenziato dal Corriere della Sera, l’evento aveva partenza, percorso, tempi di passaggio e arrivi codificati, come una vera corsa, ma non aveva alcuna connotazione giuridica di gara e nemmeno di manifestazione cicloturistica. Erano semplici ciclisti soggetti al rispetto del codice della strada. “Doveva essere un saluto istituzionale in piazza”, ha svelato il sindaco di Pienza: a quanto pare né la questura né il comando provinciale dei carabinieri erano stati informati della manifestazione. Tra l’altro il gruppetto di Zanardi era accompagnato da uno o più mezzi dei vigili urbani: il Corsera l’ha definita una “scorta a titolo di cortesia e ospitalità” verso un atleta illustre che però non aveva alcuna autorità per regolare il traffico. La strada provinciale 146 - sulla quale è avvenuto l’incidente - era aperta e si camminava normalmente nei due sensi di marcia. Per maggiore tutela gli organizzatori avrebbero dovuto richiedere alla Federciclismo l’autorizzazione a svolgere una manifestazione autorizzata, ma è qui che sta l’inghippo: la richiesta sarebbe stata respinta perché fino al prossimo primo agosto nessun evento ciclistico può svolgersi sul territorio italiano. 

Da gazzetta.it il 21 giugno 2020. Alex Zanardi stringeva le mani sui manubri dell’handbike mentre percorreva in discesa la strada vicino a Pienza (Siena) dove il 19 giugno ha avuto l’incidente contro un camion durante la staffetta a tappe Obiettivo Tricolore. È quanto risulta dai video acquisiti nell’ambito dell'inchiesta della Procura di Siena sulla vicenda. Da alcuni filmati già in possesso degli investigatori, e già visionati, risulterebbe quindi che Zanardi avesse il controllo della sua handbike, dopo che si era sparsa la voce che stesse usando il telefonino. In ogni caso, i carabinieri hanno sequestrato il cellulare di Alex. Secondo quanto appreso il telefono è a disposizione degli investigatori per eventuali verifiche. Sequestrata anche l’handbike su cui viaggiava Zanardi: il mezzo potrebbe essere sottoposto a esami tecnici per ricostruire la dinamica dell’impatto col camion, in particolare per definire i punti di urto tra i due veicoli.

(LaPresse il 21 giugno 2020) - "Alex ha trascorso una notte in condizioni di stabilità cardiocircolatoria, respiratoria e metabolica. Le funzioni d'organo sono adeguate. Resta intubato sedato ventilato meccanicamente, ma è ben adattato al ventilatore meccanico e gli scambi gassosi sono soddisfacenti. Le condizioni cardiocircolatorie anche quelle sono stabili e adeguate". Lo ha detto Sabino Scolletta, direttore del dipartimento emergenza urgenza del policlinico Le Scotte di Siena, dove Alex Zanardi è ricoverato dopo un grave incidente in handbike. "Il neuromonitoraggio che mettiamo in atto in questi casi ha mostrato una certa stabilità, anche se questo dato va preso con cautela perché il quadro neurologico è quello che resta naturalmente grave", ha spiegato. "In linea generale le condizioni cliniche sono stabili. Siamo piuttosto soddisfatti anche se naturalmente questo non ci consente di escludere possibili evoluzioni o complicanze", ha sottolineato. "Pertanto il quadro e le condizioni cliniche portano a una prognosi riservata. Resterà così alcuni giorni ed in settimana decideremo se iniziare a sospendere la sedazione per valutarlo. Lo teniamo sedato per tenerlo stabile. Nei prossimi giorni, probabilmente tra domani o dopodomani - ha aggiunto - decideremo il da farsi. E' una decisione collegiale, non del singolo. Tutto dipenderà dalla stabilità delle condizioni cliniche". "E’ sempre sedato, intubato e ventilato meccanicamente". E' quanto si legge nell'ultimo bollettino medico diffuso dall'Azienda ospedaliero-universitaria Senese sulle condizioni dell'atleta Alex Zanardi, ricoverato al policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena dal 19 giugno a seguito di un incidente stradale.

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 21 giugno 2020. (...) 

Cos’è successo, Marco?

«L’ho visto con i miei occhi sbandare e cadere. Ha come perso il controllo del mezzo. Prima ha invaso un po’ la mia corsia, poi è caduto a terra sbattendo la spalla sinistra. È stato un secondo, le ruote della sua handbike erano per aria. Ho provato ad allargarmi sulla destra rischiando di andare fuori strada, ma se non l’avessi fatto sarebbe stato un frontale. Con la coda dell’occhio l’ho visto sparire, ho temuto che fosse finito sotto le ruote».

A che velocità stava andando?

«Io non più di 30 chilometri all’ora. Il camion era a pieno carico, stavo trasportando cereali da consegnare al Consorzio Agrario di Sinalunga, e la strada, nella mia direzione, era leggermente in salita». (...) 

C’era qualche segnalazione?

«No, zero. Un chilometro prima ho notato una macchina parcheggiata lungo il ciglio della strada, credo fosse della provinciale, con una donna al posto di guida. Non stava segnalando niente. Poi, dopo alcune curve, ho visto arrivare la colonna dei ciclisti, preceduta di pochi metri dall’auto della municipale. Era come se la stesse scortando facendo da apripista, ma non aveva lampeggianti e nessuno sventolava bandierine per avvertire del passaggio, come ho visto fare durante le gare. Comunque, ripeto, io andavo a trenta all’ora ed ero nella mia corsia». (...) 

Il suo camion è molto grosso e ha un rimorchio. Poteva circolare in quel tratto?

«Sì, non ci sono divieti per i tir. Del resto passano tutti di lì, è una via molto trafficata».

Si sente di dire qualcosa alla famiglia di Zanardi?

«Sono distrutto dal dolore, ma neanche immagino quello che possano provare in queste ore la moglie e il figlio di Alex. Mi dispiace tantissimo. Appena avrò modo, voglio parlare con loro. Lo farò, ma non attraverso il giornale».

Alessia Marani per “il Messaggero” il 22 giugno 2020. Il dato positivo è che più passa il tempo e le condizioni restano stabili, e questo fa ben sperare». Il professore Sabino Scolletta, direttore della Terapia Intensiva dell'ospedale di Siena dove Alex Zanardi è ricoverato da venerdì dopo l'impatto con un camion tra Pienza e San Quirico d'Orcia a bordo della sua handbike, lascia uno sprazzo di ottimismo dopo avere letto il bollettino quotidiano: le funzioni vitali dell'atleta azzurro sono buone, i parametri cardiorespiratori in linea, «ma il quadro neurologico permane grave e in condizioni tali di incertezza, non si può escludere una ricaduta». Oggi l'équipe che segue Zanardi comincerà a valutare quando abbassare la sedazione, «ma ci vorrà ancora qualche giorno». Mentre l'Italia e il mondo dello sport e del ciclismo restano con il fiato sospeso per le sorti dell'ex pilota di Formula 1 a cui furono amputate le gambe dopo un incidente sulle piste tedesche nel 2001, la Procura di Siena prosegue nelle indagini sull'organizzazione e il livello di sicurezza dell'evento Obiettivo Tricolore, un tour dell'Italia a tappe per sostenere lo sport dei disabili e lanciare un messaggio di ripartenza dopo il lockdown. La pm Serena Menicucci vuole capire come mai non vi fosse un cordone di protezione attorno al gruppetto di ciclisti, soprattutto, perché la strada non fosse stata interdetta al traffico, circostanza che ha permesso lo scontro tra la handbike e l'autoarticolato che procedeva in senso contrario, alla cui guida c'era Marco C., 44 anni della provincia di Siena. Al momento è lui l'unico iscritto nel registro degli indagati per il reato di lesioni colpose gravissime, ma potrebbero aggiungersi altri nominativi nel caso fosse riscontrato il nesso di causalità con la omessa chiusura della strada e l'incidente. Il sostituto procuratore ha già sentito la cognata di Alex Zanardi, Barbara Manni, manager del team di Obiettivo 3, che pubblicizza l'evento sul proprio sito internet, e poi Mario Valentini, ct della Nazionale paralimpica di ciclismo, che venerdì era al seguito di Zanardi. Ad essere ascoltato come persona informata sui fatti è stato anche Alessandro Cresti, il ciclista paralimpico di Sinalunga che fa parte dei giovani seguiti da Zanardi, arrivato in bicicletta qualche secondo dopo l'incidente. Il dubbio è: era un evento goliardico o una gara? Le competizioni, fra l'altro, sono sospese per via dell'emergenza Covid. «La pm mi ha chiesto perché la strada non fosse chiusa - spiega Valentini - le ho risposto semplicemente perché nessuna misura del genere è prevista, nemmeno nel caso di gare amatoriali o dilettantistiche. E questa non era una gara, ma una semplice passeggiata di gruppo, tra amici, per sensibilizzare allo sport dei disabili. Ma anche fosse stata chiesta una autorizzazione per un evento sportivo, ripeto, in nessun caso viene interdetto il traffico, al massimo solo rallentato. Il magistrato mi ha portato l'esempio del Giro d'Italia, ma il Giro è il Giro, nulla di comparabile, le ho risposto». Permessi alla Questura non erano stati richiesti e la staffetta in apertura della Municipale di Pienza, sarebbe da considerarsi a titolo di cortesia. Per chiarire tutti i dubbi (l'evento aveva incassato anche il patrocinio di Federciclismo e Comitato paralimpico italiano) presto potrebbe essere sentita la stessa Daniela Manni, moglie di Zanardi. Questa mattina, intanto, gli inquirenti hanno convocato il supertestimone, ciclista 65enne di Sinalunga, che era nel gruppetto di Zanardi. L'uomo ha raccontato di avere visto l'ex pilota girare delle immagini con il telefonino mentre era sulla handbike. «Fino al rettilineo che precedeva la curva Zanardi ha girato dei video con il suo telefonino, stava riprendendo noi atleti che eravamo con lui», spiega. Il rettilineo finisce 800 metri, un chilometro prima della curva fatidica, in discesa. Alex Maestrini, un videomaker che seguiva sulla sua Golf Cabrio il gruppo e che ha filmato l'incidente (il video è agli atti dell'inchiesta), ha affermato che «Zanardi non teneva il cellulare in mano al momento dello schianto». Ricorda che «dopo aver affrontato una salita pedalando con le mani, al momento della discesa ha preso il telefonino e fatto alcune riprese a bassa velocità, poi lo ha riposto e ha continuato fino all'incidente». Cosa è successo allora? La testimonianza del 65enne, però, non era stata subito messa a verbale e per questo è stato convocato in caserma. Dopodiché gli inquirenti hanno intenzione di tornare, già in giornata, sul posto dell'incidente per una ricostruzione in diretta. Sia il cellulare che la handbike di Zanardi (oltre al camion contro cui ha impattato) sono stati sequestrati per essere sottoposti a perizia. Le analisi dei filmati nel telefono chiarirà il giallo.

Zanardi, parla il compagno di squadra: “Era una tranquilla pedalata”. Notizie.it il 23/06/2020. Un compagno di squadra di Alex Zanardi partecipante alla staffetta racconta la sua opinione in merito all'incidente che ha visto coinvolto l'atleta. “Una tranquilla pedalata”: così Enrico Fabianelli descrive quella staffetta non competitiva durante la quale Alex Zanardi è rimasto coinvolto nel tragico incidente che lo ha condotto in terapia intensiva a un passo dalla morte. Il 36enne compagno di squadra dell’atleta paralimpico è ancora sconcertato da quanto accaduto e ritiene probabile che in futuro anche gare non competitive come questa andranno messe in sicurezza per proteggere l’incolumità di chi vi partecipa. Nel parlare con i giornalisti Fabianelli, affetto da sclerosi multipla dal 2010 e ciclista dal 2005, racconta il suo punto di vista sulla corsa a cui partecipavano lui e Zanardi: “Noi vedevamo la staffetta come una tranquilla pedalata tra amici e dunque non c’era necessità di chiudere la strada. […] Queste cose purtroppo succedono, è la fatalità. Forse in futuro però le strade andranno chiuse comunque”. Fabianelli ha poi specificato come la gara stessa per la sua natura non competitiva non necessitasse di autorizzazioni: “La staffetta Obiettivo Tricolore non è una corsa e per questo non necessitava di autorizzazioni. La strada non andava chiusa e io non ho fatto trapelare nessun dubbio sull’organizzazione come insinuato da più parti. Obiettivo Tricolore, ripeto, non è una gara e sta andando avanti per dare un segnale di forza ad Alex Zanardi, che tiene tantissimo a questa staffetta”.

Le parole dell’autista del camion. Rimane sconvolto da quanto accaduto anche l’autotrasportatore 44enne Marco Ciacci, alla guida del camion contro cui si è scontrato Zanardi, che ai microfoni di Sienanews racconta: “Sono giorni difficili, non riesco a dormire, passo le mie giornate a pensare a quel momento. Forse quel giorno sarebbe stato meglio restare a casa, non mi sarei mai voluto trovare in quella strada. Adesso non rimane che sperare, non mi sento una vittima ma spero un giorno di poter riabbracciare Alex Zanardi”.

Marco Gasperetti per corriere.it il 22 giugno 2020. Le ultime sequenze di quel video, girato ad alta risoluzione con una telecamera professionale, Alessandro Maestrini, 51 anni, giornalista di Perugia, non ha ancora avuto il coraggio di rivederle e forse non lo farà per molto tempo. «Ci sono le urla di Alex, lì dentro, terribili, strazianti, sconnesse e poi soffocate — dice ancora commosso —, una scena che mai avrei voluto vedere in vita mia, nonostante il lavoro che faccio da anni». Il filmato è stato sequestrato dalla Procura di Siena. È un elemento prezioso per stabilire la dinamica dell’incidente nel quale Zanardi è rimasto coinvolto e ci sono elementi, particolari e oggetti che gli investigatori ritengono decisivi. Tra questi anche l’iPhone 11 di colore rosso di Alex che gli investigatori hanno sequestrato.

Zanardi lo teneva in mano durante l’incidente?

«Assolutamente no. Lo smartphone di Zanardi era nel suo alloggiamento di sicurezza sulla bici e lui stava guidando regolarmente con due mani. Non faceva alcun video, non aveva il telefonino in mano. Poi, dopo una curva, ha perso il controllo dell’handbike e si è scontrato contro il camion che arrivava lentamente sulla carreggiata opposta. Ma non stava usando lo smartphone in quel momento, ne ho la piena certezza».

Aveva utilizzato il telefonino prima?

«Sì, alcuni minuti prima, ma in assoluta sicurezza e a una velocità molto ridotta».

Come l’aveva usato?

«Come una videocamera. Aveva girato un breve filmato riprendendo il panorama. A un certo punto ha inquadrato se stesso e ha pronunciato anche alcune parole, che non ho sentito. Il tutto sarà durato meno di un minuto e, lo ripeto, è avvenuto in sicurezza».

E poi?

«Poi lo aveva riposto nell’alloggiamento di sicurezza, dove diverso tempo dopo l’impatto continuava a squillare ed è stato preso dai carabinieri, e aveva continuato a guidare con entrambe le mani».

Lei è sicuro di questo particolare?

«Nessun dubbio. L’ho visto e me lo ricordo perfettamente. Inoltre lo testimoniano anche le immagini del video che ho girato e che adesso sono nelle mani dei magistrati».

Qualcuno aveva il compito di controllare il traffico?

«La strada non era chiusa al traffico. La comitiva dei ciclista era preceduta da un’auto della polizia locale. A bordo ho visto una persona che faceva cenno con il braccio di rallentare ai veicoli che arrivavano dal senso opposto».

In che posizione si trovava lei quando ha ripreso lo scontro?

«Stavo seguendo Zanardi sui sedili posteriori della golf bianca decapottabile di mia moglie Liliana. Alla guida c’era un’altra persona e io ero concentrato sulle riprese. Stavo realizzando un servizio nel quale, oltre a un’intervista ad Alex che avrei dovuto fare una volta terminata la tappa, avevo deciso di inserire un po’ di immagini del tour in una delle zone più belle della Toscana».

E involontariamente ha filmato l’incidente...

«Sì, una cosa raccapricciante. Quando ho iniziato la ripresa Zanardi era con la sua handbike dietro la nostra automobile. A un certo punto ha accelerato, ci ha sorpassato sulla destra. Poi è iniziata una lieve discesa, con una serie di tornanti. Alex ha perso il controllo dopo una curva a destra e si è scontrato con il camion. L’autista non aveva alcuna responsabilità, stava procedendo lentamente nella sua corsia, non poteva evitare l’impatto».

Ha notato qualcosa di strano mentre riprendeva con la telecamera?

«Nei momenti in cui Zanardi ha perso il controllo del mezzo la ruota sinistra ha fatto un movimento anomalo e l’handbike ha proseguito dritta. Poi si è ribaltata sul lato sinistro e si è schiantata contro l’autoarticolato. Mi sembra di ricordare che abbia centrato il cerchione della ruota sinistra del camion, ma di questo particolare non sono sicuro perché non ho rivisto il video. Una parte della scena però è coperta dal passaggio di un ciclista con la maglia e i pantaloncini bianchi».

Poi che cosa è accaduto?

«Mi sono fermato con l’auto, incredulo. Ho sentito le urla di dolore di Zanardi, poi quelle disperate della moglie che lo stava seguendo su un furgone. Per qualche istante non sono riuscito bene a capire che cosa fosse successo, non potevo concepire che fosse accaduta questa cosa a Zanardi. Infine ho provato a concentrarmi per chiamare i soccorsi. Ho preso lo smartphone è ho telefonato al 118. Ma qualcuno me lo ha strappato di mano».

Chi era?

«Un medico. Era sconvolto. Con il mio telefono ha urlato al 118 di far partire un’ambulanza immediatamente perché non c’era un minuto da perdere. “Sono un medico, ho soccorso il ferito, questo muore, questo muore” ha gridato e io sono rabbrividito».

I soccorsi sono arrivati tempestivamente?

«Sì, credo siano passati dieci minuti e in quelle strade così strette e tortuose sono pochi, anche se sembravano non passare mai».

E che cosa ha visto?

«La gente della comitiva era disperata, c’era chi piangeva, c’era chi cercava di soccorrere Alex. Qualcuno raccontava di aver visto il volto di Zanardi devastato, altri sotto choc descrivevano la scena con particolari raccapriccianti».

Il testimone dell’incidente di Zanardi: “Le urla strazianti di Alex”. Notizie.it il il 22/06/2020. Alessandro Maestrini era sul luogo dell'incidente avvenuto ad Alex Zanardi e ne è stato testimone diretto: i suoi ricordi. Rompe il silenzio Alessandro Maestrini, il giornalista testimone dell’incidente occorso ad Alex Zanardi venerdì 19 giugno. Era presente sul posto quando è avvenuto il terribile impatto. Ma il video-maker, autore del video in possesso adesso alla Procura di Siena, non ha alcun dubbio: il camionista non ha colpe. Quei concitati momenti li ricordo benissimo Maestrini che al Corriere della Sera racconta: “Quando ho iniziato la ripresa Zanardi era con la sua handbike dietro la nostra automobile. A un certo punto ha accelerato, ci ha sorpassato sulla destra. Poi è iniziata una lieve discesa, con una serie di tornanti. Alex ha perso il controllo dopo una curva a destra e si è scontrato con il camion. L’autista non aveva alcuna responsabilità, stava procedendo lentamente nella sua corsia, non poteva evitare l’impatto”.

Incidente Zanardi, il racconto del testimone. Ma quello che mai dimenticherà Alessandro Maestrini, testimone dell’incidente occorso a Zanardi, sono le urla del campione bolognese. “Ci sono le urla di Alex, lì dentro, terribili, strazianti, sconnesse e poi soffocate, una scena che mai avrei voluto vedere in vita mia, nonostante il lavoro che faccio da anni”. Inoltre, come evidenzia il testimone oculare, Alex Zanardi in quel momento non aveva in mano il cellulare: “Nessun dubbio. L’ho visto e me lo ricordo perfettamente. Inoltre lo testimoniano anche le immagini del video che ho girato e che adesso sono nelle mani dei magistrati”. Ciò che ricorda, Alessandro Maestrini, è il movimento anomalo della handbike di Zanardi: “Nei momenti in cui Zanardi ha perso il controllo del mezzo la ruota sinistra ha fatto un movimento anomalo e l’handbike ha proseguito dritta. Poi si è ribaltata sul lato sinistro e si è schiantata contro l’autoarticolato. Mi sembra di ricordare che abbia centrato il cerchione della ruota sinistra del camion, ma di questo particolare non sono sicuro perché non ho rivisto il video”.

Alex Zanardi, il video poco prima della partenza: smartphone, spazzati via tutti i dubbi? Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. In un video, se ancora ce ne fosse bisogno, l'ennesima smentita: no, Alex Zanardi non aveva in mano lo smartphone nel momento dell'incidente. Non si tratta del video del drammatico schianto, ma di immagini di Tele Idea, girate nel comune di Sinalunga prima della partenza, in cui si vede Zanardi che ripone il cellulare in una tasca ancor prima di partire. Insomma, ennesima conferma al fatto che la ricostruzione circa "l'errore fatale" fosse sbagliata, sbagliatissima. Anche la procura lo aveva confermato: "A noi non risulta che Zanardi avesse in mano il cellulare al momento dell'incidente", ha spiegato il procuratore della Repubblica di Siena, Salvatore Vitiello.

Zanardi, tragico sospetto dalla procura sull'incidente: "Ha ceduto", una sfortuna inimmaginabile? Alex Zanardi, indiscrezione dalla Procura: "La ruota ha ceduto?", l'ultimo tragico sospetto sull'incidente. Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Potrebbe non essere stata solo colpa di Alex Zanardi. Gli inquirenti che stanno indagando sulla dinamica del drammatico incidente in handbike che venerdì pomeriggio ha ridotto in fin di vita l'ex pilota di F1 e campione paralimpico sulla Statale Piensa-San Quirico in val d'Orcia (Siena) secondo Repubblica potrebbero aver individuato anche nelle fessurazioni della strada e nel cedimento della ruota sinistra del mezzo di Zanardi le concause, insieme all'alta velocità dell'atleta 53enne, dello schiantro frontale contro un mezzo pesante che procedeva in senso opposto. Per ora è stata esclusa la "distrazione" di Zanardi (aveva sì scattato foto con il telefonino, ma qualche minuto prima dello scontro), che al contrario aveva entrambe le mani sulla sua handbike quando ne ha perso il controllo. Nel video di un giornalista freeelance, seive Repubblica, "si vede la ruota posteriore sinistra fare un movimento anomalo prima del ribaltamento, come uno scuotimento", Ora il mezzo sarà oggetto di perizia con particolare attenzione ai freni. Sulla velocità di Zanardi e del gruppo della staffetta, che alle 16 era atteso a San Quirico ma aveva ancora 30 km da percorrere,  è mistero: il limite della statale è di 60km, Zanardi sicuramente non l'aveva raggiunto ma l'andatura, spiegano i testimoni, era comunque "tirata". 

Cristiano Pellegrini per “la Stampa” il 22 giugno 2020. Due le direttrici su cui si muove la procura di Siena: la dinamica con cui Alex Zanardi ha perso il controllo della sua handbike scontrandosi con il camion che proveniva in senso opposto; e l’eventualità che la staffetta tricolore si possa essere trasformata, per un eccesso di confidenza e agonismo, in una gara di gruppo senza autorizzazioni su strada e a traffico aperto. A supportare questa ipotesi, c’è una frase: «Perché si sono messi a correre, non era una gara». Questo avrebbero sentito urlare alcune persone presenti negli attimi successivi all’incidente, tra i ciclisti che sopraggiungevano. La grande staffetta di Obiettivo 3 avrebbe dovuto raccontare da nord al sud dell’Italia il messaggio di rinascita dopo il Covid-19 attraverso lo sport. Una passerella con oltre 50 atleti paralimpici che dal 12 al 28 giugno dovevano essere i protagonisti di un evento a tappe per l’Italia. Organizzata da Obiettivo 3, il progetto ideato proprio da Zanardi per avviare all’attività sportiva soggetti con disabilità, e patrocinata dalla Federazione ciclistica italiana e dal Comitato italiano paralimpico, nell’idea dei promotori il viaggio doveva essere una “staffetta” con tappe, arrivi e partenze a orari prestabiliti ma senza obbligo di autorizzazioni, invio di comunicazioni di passaggi e richieste di “scorte” alle autorità di polizia locali. Anche perché, proprio per l’emergenza sanitaria in corso, le gare ciclistiche sono vietate fino all’1 agosto e viceversa un’eventuale richiesta di autorizzazione per lo svolgimento di una gara ciclistica sarebbe stata rigettata. Per il codice della strada «i ciclisti - qualora non siano autorizzati a svolgere una gara - devono procedere su unica fila in tutti i casi in cui le condizioni della circolazione lo richiedano e, comunque, mai affiancati in numero superiore a due; quando circolano fuori dai centri abitati devono sempre procedere su unica fila». Tutt’altro da quel che le immagini delle tappe emiliane e toscane sembrerebbero mostrare in questi giorni. La forza del messaggio di solidarietà e la presenza di Zanardi sono state così travolgenti da coinvolgere professionisti della bicicletta, atleti, macchine e furgoni al seguito di quella che anche gli organizzatori stessi hanno più volte definito una vera e propria carovana. Senza magari rendersi conto, al netto della bontà dell’iniziativa, delle conseguenze che un movimento simile avrebbe potuto avere su strade a traffico aperto e prive di un servizio di scorta organizzato. Su questi punti come sulle comunicazioni inviate ai Comuni, il sostituto procuratore Serena Menicucci, con gli interrogatori di questi giorni, sta provando a fare chiarezza per capire eventuali mancanze nella gestione della staffetta. Il Comune di Pienza con il sindaco Manolo Garosi ha ribadito di «non aver ricevuto alcuna comunicazione ufficiale del passaggio di manifestazioni sportive». Parole che troverebbero riscontro in comunicazioni inviate tramite messaggi privati alle pagine Facebook dei Comuni dove gli atleti “locali” preannunciavano, in modo informale, l’arrivo della staffetta con la richiesta di “una foto e un saluto” per documentare il passaggio e a cui faceva seguito, una volta ricevuto il via libera dei Comuni l’invio del materiale di comunicazione, media kit e comunicato stampa per promuovere l’evento. Gli accertamenti stabiliranno se eventuali altre comunicazioni “ufficiali” sono state fatte pervenire agli uffici protocollo delle amministrazioni.

Alessandro Di Maria e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 22 giugno 2020. La velocità eccessiva. Un cedimento della ruota sinistra. Fessurazioni dell'asfalto. Potrebbe essere tra queste tre ipotesi la causa dello sbandamento del mezzo guidato da Alex Zanardi, al chilometro 39 della statale da Pienza a San Quirico. Poco prima di una curva a destra che il campione non ha fatto in tempo a percorrere. Della dinamica dell'incidente di venerdì, filmato da un giornalista freelance, rimane solo questo da capire: perché Zanardi, che aveva le due mani sul manubrio (aveva usato il cellulare per scattare foto qualche minuto prima, ma poi l'aveva rimesso nel portaoggetti), abbia perso il controllo della sua handbike finendo nella corsia opposta dove stava arrivando il camion. La perizia e il gruppo in ritardo Nel video, agli atti dell'indagine dei carabinieri di Siena coordinata dalla procura guidata da Salvatore Vitiello, si vede la ruota posteriore sinistra fare un movimento anomalo prima del ribaltamento. «Come uno scuotimento», lo ha descritto a Repubblica Alessandro Maestrini, che ha fatto le riprese. L'handbike è sotto sequestro e sarà oggetto di una perizia tecnica, che dovrà verificare: il funzionamento, con attenzione ai freni; in che punti ha urtato la fiancata del tir; la tenuta della ruota sinistra. La velocità può essere stata un fattore cruciale. Su quella statale, di competenza dell'Anas, il limite è di 60 all'ora. Zanardi andava sicuramente più piano, ma quanto? Sia il camionista sia una partecipante alla staffetta hanno avuto l'impressione che il passo del gruppo fosse "tirato". Erano in ritardo sulla tabella di marcia: alle 16 erano attesi a San Quirico, ma a quell'ora avevano appena lasciato Sinalunga, a una trentina di chilometri. Il gruppo, quindi, potrebbe aver deciso di accelerare per recuperare. I carabinieri stanno cercando di stabilire la velocità di Alex confrontando i dispositivi elettronici indossati dagli altri ciclisti. È un fatto anche che nel punto dello sbandamento, intuibile dai segni del rilievo tecnico fatto dagli agenti, il manto stradale non sia in perfette condizioni e mostri fenditure dovute all'usura. Quanto queste possano aver provocato, o accentuato, lo sbilanciamento di Zanardi, però, è difficile da valutare. Le misure anti Covid Sull'altra questione al vaglio degli inquirenti, ossia se la staffetta Obiettivo Tricolore, che in alcune tappe ha visto la partecipazione spontanea di 30-40 ciclisti, dovesse essere autorizzata, ha un'idea precisa Roberto Sgalla, ex capo della Stradale e ora responsabile della Commissione direttori di corsa e sicurezza della Federciclismo. «Per una manifestazione non agonistica non c'è bisogno di chiedere i permessi all'ente proprietario della strada o alla prefettura. Né bisogna avvisare la questura, a meno che lungo il tragitto siano previste riunioni in luogo pubblico. Le fermate nelle piazze per un brindisi o un saluto non mi sembra possano essere definite tali». Rimane il dubbio se Obiettivo Tricolore, che aveva avuto il patrocinio di Federciclismo, possa aver violato le disposizioni anti Covid. La federazione ha sospeso ogni tipo di corsa, anche non agonistica, fino al 30 giugno. È permesso allenarsi in gruppo, mantenendo20 metri in fila tra un ciclista e l'altro. «Non era neanche un allenamento, ma una biciclettata tra amici», ripetono gli organizzatori. Il tempo delle decisioni Le condizioni di Alex - sedato, intubato e ventilato - restano stabili. «Più passa il tempo, più c'è speranza di un recupero», spiega il professor Sabino Scolletta, del policlinico Le Scotte. Il sindaco di Siena, Luigi De Mossi, per la seconda volta ha fatto visita ai familiari di Alex. «La moglie mi ha detto di essere contenta del lavoro dei medici - ha detto sibillino, uscendo dall'ospedale - ma allo stesso tempo in famiglia si pongono delle domande sulle scelte importanti da fare o non fare in futuro. Le scelte che faranno saranno le loro, nessuno si può permettere di ipotizzare o suggerire. Sono decisioni importanti, complesse e che riguardano un affetto principale».

Le condizioni di Zanardi: nuovo bollettino alle 12. Notizie.it il 23/06/2020. In attesa del nuovo bollettino medico, per il 23 giugno, sulle condizioni di salute di Alex Zanardi. Quali sono gli ultimi aggiornamenti su Zanardi? Per scoprirlo bisogna attendere il bollettino del 23 giugno delle ore 12. Continuano a preoccupare le condizioni di salute di Alex Zanardi che si trova ricoverato al Policlinico ‘Le Scotte’ di Siena dopo il grave incidente subito venerdì 19 giugno. In seguito al delicato intervento alla testa, infatti, il campione bolognese si trova ricoverato in terapia intensiva ed è sedato. Proprio in merito alla sedazione c’è dibattito tra i medici sul momento più opportuno per ridurla. Il campione bolognese si trova in coma farmacologico ed è intubato. I familiari – come rivelato in una recente intervista a La Repubblica – non sanno se e come si sveglierà. A parlare, a nome della famiglia, è la cognata Barbara Manni: “Non sappiamo come ce lo ridaranno. Alex lotta e noi con lui. Se i parametri vitali non si complicheranno allora potremo dire di avere una speranza in più, un’alta possibilità che ce la faccia. Dipende da come si risveglierà”.

Zanardi, il bollettino alle 12. In attesa del bollettino delle ore 12 del 23 giugno, a parlare del caso Zanardi è stato un suo grande amico: il medico Claudio Costa. Messaggi di speranza da parte di quest’ultimo che, addirittura, ha ammesso come sia convinto che il campione paralimpico sarebbe capace di prepararsi per Tokyo 2021. Intanto, però, la situazione è molto delicata tant’è che non si esclude la necessità di un ulteriore intervento chirurgico. Ciò dipenderà soprattutto dalla stabilità del quadro clinico. Non resta che attendere il bollettino medico, delle ore 12, in programma per il 23 giugno, per avere novità sulle condizioni di Zanardi.

Cos’è la frattura affondata. Notizie.it il 22 giugno 2020. Tra i traumi riportati da Alex Zanardi nell'incidente avvenuto il 19 giugno vi è anche una frattura affondata delle ossa del frontale. Tra i numerosi traumi riportati da Alex Zanardi a seguito dell’incidente in handbike avvenuto lo scorso 19 giugno vi sono anche un fracasso facciale e una frattura affondata delle ossa del frontale. Quest’ultima è un particolare tipo di frattura chiusa per la quale risulta necessario l’intervento chirurgico, attualmente effettuato su Zanardi presso il policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena dov’è stato trasportato in elisoccorso immediatamente dopo l’incidente. Come già accennato, le fratture affondate sono una particolare tipologia di fratture chiuse, cioè di fratture che non comportano la lacerazione della cute soprastante l’osso danneggiato, nel caso di Zanardi l’osso del frontale. L’osso del frontale, meglio noto come osso frontale o osso coronale, è un osso piatto facente parte della zona anteriore della scatola cranica. Esso è composto da una porzione verticale chiamata squama, corrispondente alla fronte, e da una cosiddetta parte orbitale, posizionata inferoposteriormente e che costituisce il tetto della cavità nasale e della cavità orbitale. L’ossificazione del frontale è di tipo membranoso e in caso di frattura chiusa (o affondata come nel caso di Zanardi) si rende necessaria l’opzione chirurgica al fine di ridurre il trauma subito, oltre a una terapia di tipo conservativo per il controllo del dolore.

I commenti dei medici sul caso Zanardi. Ai microfoni dei giornalisti, il neurochirurgo Giuseppe Oliveri non si è esposto nel definire nel dettaglio la situazione clinica di Zanardi, pur rimanendo comunque grave: “Al momento le condizioni sono gravi ma stabili, lui è arrivato da noi con questo trauma cranio-facciale importante, con un fracasso facciale e una frattura affondata delle ossa del frontale. È stato operato per "rattoppare". Al momento tutti i numeri sono buoni, ovviamente neurologicamente non è valutabile, pur rimanendo la situazione grave”.

Come sta Zanardi? Il medico Costa: “Non corre i rischi di Schumacher”. Notizie.it il 23/06/2020. Per Claudio Costa, amico e medico di Zanardi, non ci sono dubbi: "Si riprenderà, la sua anima reagisce". È passata un’altra notte per Alex Zanardi e in tantissimi continuano a chiedersi "come sta Alex"? Dopo il grave incidente subito nella giornata del 19 giugno, il campione bolognese si trova sedato in terapia intensiva per i traumi riportati, soprattutto a livello neuronale. Per Alex Zanardi non si tratta del primo grave incidente. Nel 2001 perse l’uso di entrambe le gambe mentre correva con i suoi Kart. E a curarlo, all’epoca, ci fu Claudio Costa. Il medico, diventato successivamente anche amico di Zanardi, racconta a Il Messaggero: “Io sono ottimista e questa volta trascendo talmente tanto da pensare che potrebbe anche andare alle Olimpiadi di Tokyo. In questo momento drammatico mi conceda questo sogno”.

Come sta Zanardi oggi. Secondo quanto evidenziato da Claudio Costa, il quadro clinico di Zanardi è molto grave: “Come testimonia il fatto che sia stato sottoposto a un intervento neurochirurgico di tre ore. Premesso che l’equipe della Terapia intensiva del policlinico senese è composta da medici di grande valore, quello che mi tranquillizza di più è che ho avuto la sensazione che in Alessandro qualcosa si stesse già muovendo”. Ne è certo, insomma, Costa che spiega ancora come: “Il cavaliere invincibile avesse iniziato la sua battaglia da guerriero. Così come si è ricostruito dalle macerie di Berlino, dove la morte gli ha rapito mezzo corpo, a Siena ha già cominciato la sua partita per la rinascita. Credo che ce la possa fare, ma questa è un’informazione che le do con la forma di un mio sogno”. E a chi fa paragoni con il caso Schumacher, il medico Costa risponde netto: “È un’analogia comprensibile. Ma da quello che mi risulta, dati anche i parametri del cervello, credo che i medici di Siena siano abbastanza tranquilli sulle condizioni della materia cerebrale”. Anche se Claudio Costa sottolinea: “Mi auguro sia un quadro clinico meno grave. Poi, quando sarà il momento di svegliarlo, si vedrà quali sono le condizioni di questo cervello che, ripeto, a me sembra che tutto sommato abbia reagito molto molto bene”.

Ora parla il chirurgo di Zanardi "Schumi? Perché è caso diverso". Giuseppe Oliveri, chirurgo che ha operato Zanardi, ha fatto un parallelismo tra la situazione di Alex e quella di Schumacher: "Lesioni meno gravi rispetto a quelle di Michael ma dobbiamo ancora aspettare". Marco Gentile, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Più passano le ore e più Alex Zanardi si conferma un vero e proprio guerriero: un'amante della vita che sta lottando ancora una volta, come 19 anni fa, per non lasciare la moglie Daniela, il figlio Niccolò e tutti i suoi affetti. Il 53enne bolognese ha già superato la terza notte in ospedale nonostante i danni importantissimi subiti a seguito del grave incidente di venerdì pomeriggio quando con la sua handbike ha invaso la corsia opposta dove transitava un camion che non ha potuto evitare l'impatto con l'ex pilota di Formula Uno.

Alex come Schumi? Zanardi è stato subito trasferito in ospedale con l'elisoccorso con i medici de Le Scotte che hanno subito parlato di danni importanti: "Il percorso non sarà breve, avremo bisogno di tempo per valutare Zanardi nelle prossime settimane". Giuseppe Oliveri, direttore dell'Uoc Neourochirurgica che ha operato d'urgenza lo sfortunato Alex, ai microfoni della Gazzetta dello Sport, ha fatto un parallelismo tra l'incidente occorso all'hanbiker e quello subito dal fuoriclasse di Formula Uno Michael Schumacher: "Danno grave come quello di Schumacher? I danni assonali sembrerebbero scongiurati. Il danno assonale diffuso è un danno molto esteso a tutta la corteccia cerebrale, da cui difficilmente uno torna alle sue funzioni cognitive e motorie normali". Oliveri è poi entrato nello specifico parlando delle lesioni subite dal 53enne bolognese: "In lesioni di questo tipo sicuramente bisognerà attendere alcuni giorni. Una settimana, forse due. Parliamo di un malato fragile perché ha subìto un trauma cranico importante, bisogna usare estrema cautela. La cosa peggiore è farsi prendere dall’ansia, anticipando i tempi. Non va bene". Il chirurgo che ha operato Zanardi ha poi parlato delle lesioni cerebrali: "Il cervello è un organo mobile all’interno di una scatola rigida, un trauma di questo tipo può danneggiare anche aree distanti dal luogo d’impatto. Il punto di impatto non conta. Conta quanto è stato esteso il danno all’interno della scatola cranica". Oliveri ha poi concluso la sua intervista preferendo non dare false speranze a nessuno circa le sorti di Zanardi che sta però dimostrando una forza immensa: "Alex tornerà quello di prima? Troppo presto per dirlo. Per ora il fatto che il paziente sia stabile è la prima buona notizia. Il massimo a cui ora si può ambire. il fatto che si tratti di un atleta e che dunque goda di condizioni generali ottimali, induce all’ottimismo".

 Alex Zanardi, l'ipotesi peggiore: non svegliarsi più, parla il professore. Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. "Il momento più delicato per Alex Zanardi deve ancora arrivare. É quello del risveglio. Che potrebbe non arrivare mai". La terribile ipotesi è quella di Francesco Di Meco, direttore del Dipartimento di neurochirurgia dell'ospedale Carlo Besta di Milano nonché Ordinario di neurochirurgia all'università Statale di Milano. "Di fracassi facciali ne non visti diversi nella mia carriera, ma si va dal trauma lieve a quello molto complesso che richiede interventi di chirurgia ricostruttivi. Gli esami diagnostici più sofisticati non sempre riescono a rilevare i cosiddetti microdanni. Anche perché il viso può essere ricostruito, ma certe parti profonde del cervello non si possono toccare, nessun chirurgo può intervenire", spiega il medico in una intervista al Giornale. Il medico parla del momento in cui si capisce la gravità dell'incidente. "É l'evoluzione clinica che stabilisce la gravità del trauma. Si capirà quando proveranno ad alleggerirlo dai farmaci che attualmente lo tengono addormentato: se tende a risvegliarsi autonomamente significa che migliora. Se non si risveglia potrebbe essersi prodotto un danno molto importante e potenzialmente permanente nelle parti più profonde del tronco encefalico".

Perché in TV si commemora Zanardi mentre lui è ancora vivo? Notizie.it il 22/06/2020.  L'incidente di Alex Zanardi ha riportato in auge un brutto vezzo tutto italiano: la tv manda già in onda servizi commemorativi. Ma lui è vivo. Da venerdì sera i servizi Tv delle principali reti mediatiche italiane sono concentrati tutti su Alex Zanardi. Il campione bolognese, vittima di un terribile incidente in provincia di Siena che lo ha costretto – per la seconda volta nella sua vita -, a finire sotto i ferri, è diventato protagonista dell’agenda-setting mediatica italiana. E tutte le trasmissioni si sono focalizzate con servizi "strappalacrime": dei veri e propri coccodrilli che, di solito, vengono mandati in onda quando il soggetto viene a mancare. Nel caso specifico di Alex Zanardi, però, i toni melodrammatici e i servizi di ‘ricordo’ sono già andati in onda più e più volte. Basta prendere in esame le aperture dei singoli telegiornali degli ultimi tre giorni: i primi servizi non sono più dedicati al Coronavirus, bensì all’incidente del campione paraolimpionico.

Perché la Tv piange Alex Zanardi? Testimonianze di amici, di persone che con lui hanno lavorato, frasi al passato. Un perenne collegamento direttamente dal Policlinico di Siena. La ricerca della notizia emozionale che possa far ricordare Zanardi. Ma Alex, in realtà, è ancora vivo. Certo, non è nelle migliori condizioni di salute: è attaccato a una macchina per la ventilazione, è in coma farmacologico e, finché non si ridurranno le dosi, sarà difficile poter comprendere quali siano i danni subiti a livello neuronale. Zanardi lotta come ha sempre fatto in vita sua, come ha già dovuto fare in passato. Con l’affetto della moglie Daniela e del figlio Niccolò. Perché lo sport gli ha sempre insegnato a lottare e non piangersi addosso. Come, invece, sta facendo la televisione in questi giorni con continui servizi che parlano al passato. Alex Zanardi è vivo e lotta per restare tra noi.

"Ha perso il padre, quando discutevamo...". Un Zanardi inedito, la confessione del ct. Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Da undici anni lo segue come sportivo e come uomo. Mario Valentini è il ct della nazionale di paraciclismo e con Alex Zanardi ha un legame fortissimo. Il giorno del tragico incidente a Pienza, nel senese, era dietro di lui. “Ho avuto la fortuna di non vederlo. Ho avuto la fortuna di non vederlo”. Ad askanews il commosso ricordo: “Undici anni che sta con me, ha la stessa età di mio figlio. Con tutti i ragazzi ho un rapporto con le famiglie; sono sempre convinto, in tanti anni, che i rapporti con le famiglie di un atleta rendono. Se ci sono problemi l’atleta non rende. Con Zanardi c’era un rapporto familiare. Era sempre vivo, è sempre vivo. Speriamo. Quando la gente gli chiedeva una foto, lui rispondeva: sono qui per questo. Queste sono le cose di quest’uomo. È arrivato che non sapeva fare niente, nemmeno gonfiare una gomma. E poi invece si è documentato, si è appropriato di tutto”. “Considerando il fisico che ha, la volontà che ha. Sono convinto che tornerà tra di noi, come ritornerà non lo so. Ma sono convinto che ritorna tra di noi. Questo è l’augurio”. “Tutto il mondo prega per lui. Abbiamo avuto telefonate, mail, da tutto il mondo, anche dagli avversari. Nel mondo del paraciclismo ci sono più amicizie. Non pensavo avesse tanta popolarità”. “Lui dava speranza, diceva che bisogna lottare. Anche la manifestazione l’ha fatta per i ragazzi che non hanno possibilità”. “È un figlio. Lui il papà lo ha perso giovane e quando discutevamo, mi diceva: sei come mio padre. E a me questa cosa inorgogliva. Adesso come responsabile della Nazionale, posso dire solo una parola: grazie Zana!

Alex Zanardi, la madre Anna: quando perse una figlia piccola in un incidente stradale. Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Un tragico destino, quello di Alex Zanardi, colpito ancora una volta da un gravissimo incidente: lotta tra la vita e la morte, potrebbe perdere la vista, il suo quadro neurologico desta grosse preoccupazioni. Al suo fianco, all'Ospedale Santa Maria Alle Scotte di Siena, la moglie Daniela. Ma anche la madre, Anna, è andato a visitarlo. E il Corriere della Sera, in un drammatico articolo, definisce la signora "la più fragile di questa catena", ossia della catena di familiari che si stringono al fianco del campione nel momento più duro. Già, perché il Corsera ricorda che Anna "ha perso anche il marito, lei che ha perso una figlia bambina in un incidente stradale". Già, un tragico precedente nel passato della madre di Alex Zanardi, che è già sopravvissuta a una figlia drammaticamente scomparsa in giovane età in un incidente. La signora, dopo la visita, è tornata a Bologna, "dove attende il momento di poter parlare con suo figlio", chiosa il quotidiano di via Solferino.

Incidente Zanardi, i compagni di squadra continueranno la staffetta. Notizie.it il 21/06/2020. Mentre Zanardi rimane ricoverato in seguito all'incidente, i suoi compagni di squadra hanno deciso di proseguire la gara a staffetta come previsto. A 48 ore dal tragico incidente in cui Alex Zanardi è rimasto coinvolto venerdì 19 giugno e che lo vede ancora ricoverato in ospedale, i suoi compagni di squadra hanno deciso di proseguire la gara a staffetta di handbike “obiettivo tricolore”, continuando il percorso fino al traguardo di Santa Maria di Leuca anche in onore dell’atleta bolognese. La gara era stata organizzata da Zanardi stesso proprio per lanciare un messaggio positivo per la ripartenza del Paese nel periodo post coronavirus. I due compagni di squadra di Zanardi, Alessandro Cresti e Tiziano Monti, hanno deciso dunque di proseguire la gara a staffetta “Obiettivo tricolore” in nome di Zanardi, che al momento rimane ricoverato in coma farmacologico nel reparto di terapia intensiva del policlinico Le Scotte di Siena. La società ha tuttavia fatto sapere che la scelta di proseguire il percorso della gara a staffetta è stata presa a totale descrizione dei singoli corridori. A confermare la decisione dei corridori anche una nota apparsa sul sito di Obiettivo 3 e firmata dalla moglie di Zanardi, Daniela Manni: “Dopo l’incidente che ha coinvolto Alex, i suoi compagni di staffetta hanno deciso di proseguire il percorso verso la tappa finale di Santa Maria di Leuca”. Nel comunicato sono stati inoltre aggiunti i commenti proprio della moglie Daniela e del figlio Niccolò, che ringraziano i compagni di squadra di Zanardi: “Per la voglia di non mollare in un momento così difficile. Il viaggio continua per Alex”.

Alex Zanardi, Giusy Versace a Stasera Italia: “Sono in apnea da ieri, lui direbbe che i suoi angeli custodi…” Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. “Sono in apnea da ieri perché lui è immenso ed è un grande punto di riferimento”. Così Giusy Versace su Alex Zanardi, in coma farmacologico dopo l’intervento neurochirurgico necessario a causa del terribile incidente con un camion. “È uno di quelli che la vita la prende a morsi - ha continuato la parlamentare di Fi a Stasera Italia - riesce sempre a trovare lo spunto e la chiave ironica per reagire. Lui direbbe che in questo periodo dà molto da lavorare ai suoi angeli custodi. Ricordo tante cose che abbiamo condiviso insieme, tanti eventi sportivi e legati alla solidarietà. Abbiamo lanciato tante iniziative per raccogliere fondi e aiutare ragazzi con disabilità ad avvicinarsi allo sport”. 

Dj Aniceto: “Zanardi se l’è cercata”, poi si scusa: “Ho detto una stronzata”. Notizie.it il 20/06/2020. Dopo aver affermato che Zanardi "se l'è cercata", Dj Aniceto si è detto mortificato e ha chiesto scusa per aver scritto un post d'impeto. Mentre tanti volti dei mondi più disparati, da Morandi a Conte, hanno espresso la loro vicinanza ad Alex Zanardi, rimasto coinvolto in un grave incidente stradale, c’è anche chi ha affermato che “se l’è cercata“: si tratta di Dj Aniceto che sul suo profilo Twitter ha fatto leva sul fatto che quella a cui stava partecipando l’ex pilota di Formula 1 non era una gara sportiva. Su questo elemento sta già indagando la Procura di Siena per accertare eventuali responsabilità degli organizzatori, ma nulla giustifica un intervento come il suo in un momento tanto delicato per Zanardi, ricoverato in coma farmacologico in terapia intensiva. Tanto che il suo post ha attirato moltissime critiche da parte degli utenti che lo hanno spinto a fare un mea culpa e a scusarsi. “Ho capito che ho fatto una grande stronzata scrivere quel tweet, chiedo davvero scusa a tutti. Sono veramente dispiaciuto, me ne sono subito pentito“, ha dichiarato all’Adnkronos. Ha poi tentato di cancellarlo ma invano perché moltissimi lo avevano già fotografato ed è diventato in breve tempo virale. Definendosi una persona che lancia spesso provocazioni, ha affermato di essersi arrabbiato pensando al fatto che “quest’uomo va sempre oltre ogni limite e mi sono chiesto il perché“. E così, “siccome sono un cretino che fa le cose d’impeto, ho scritto questa cosa davvero brutta“. Affermando di essere un grande ammiratore di Alex e di non vedere l’ora di sapere che si salverà, lo ha definito come un genio che aiuta i disabili. E di cui avrebbe dovuto rispettare il desiderio di essere uno sportivo fino in fondo. 

Da repubblica.it il 22 giugno 2020. I mea culpa spesso non bastano. "Ho capito che ho fatto una grande str... a scrivere quel tweet, chiedo davvero scusa a tutti. Sono veramente dispiaciuto, me ne sono subito pentito, ho cercato di cancellarlo, ma è stato inutile, purtroppo ho visto che molti lo avevano già fotografato". E' un avvilito Dj Aniceto quello che affida le sue scuse all'Adnkronos per il tweet - infelice e subito rimosso- su Alex Zanardi. "Se l'è cercata", aveva postato ieri sera il rapper, scatenando le ire degli utenti e dei suoi followers, indignati per la scarsa sensibilità dimostrata con le sue parole. "Io sono una persona che lancia spesso provocazioni, perché è un modo per attirare l'attenzione su alcuni concetti - spiega Aniceto - e siccome lì per lì mi sono arrabbiato, pensando che si trattasse di una gara amatoriale, ho pensato a quest'uomo che va sempre oltre ogni limite e mi sono chiesto il perché. Ma siccome sono un cretino, uno che fa le cose d'impeto, ho scritto questa str...., una cosa davvero brutta". Il dj, impegnato da sempre nel sociale, ci tiene ad aggiungere: "Sono un grandissimo ammiratore di Alex, ho un grande dolore, non vedo l'ora di sapere che si salverà. Mi sono reso conto di avere scritto una cosa brutta, devo imparare a scrivere le cose prima sul computer e poi sui social". E conclude: "Alex non se lo merita. E' un genio, aiuta i disabili. Dovevo rispettare il suo desidero di essere uno sportivo fino in fondo, sono mortificato. Non mi dovevo permettere. Già in passato dj Aniceto aveva dovuto chiedere scusa: lo aveva fatto nei confronti di Nadia Toffa, dopo la morte, nei confronti della quale si era scagliato in un video. Toffa aveva pubblicato un libro in cui cercava di trovare l'aspetto positivo di essere malata di cancro. Dj Aniceto, avendo perso la sorella per un tumore, si è sentito quasi "offeso" dal libro e ha registrato un video di dura critica nei confronti della ex iena.

Fabio Tonacci per la Repubblica il 23 giugno 2020. «Era una nuvola di frammenti. In aria volavano pezzi di non so che cosa, forse era il casco di Alex, forse parti della sua handbike, forse anche...». Le parole di Marcello Bartolozzi si fermano sul ciglio dell'orrore. Il fiato si spezza a metà frase, come se una spina lo avesse punto tra le costole. Lui era lì. In sella alla sua bicicletta ha visto tutto. Tutto quello che sperava di non vedere mai. Al chilometro 39 della statale che collega Pienza a San Quirico d'Orcia seguiva Zanardi a quattro metri di distanza. Ha visto il camion apparire sull'altra corsia e ha visto il campione sbandare e cadere. «È successo nel tempo di un lampo, forse Alex si è spaventato». Poi la nuvola di frammenti, rimasta impressa nei suoi occhi di testimone oculare. Il più vicino alla scena dell'incidente, il più provato dal ricordo, il più attendibile. Marcello Bartolozzi ha 66 anni. Vive a Sinalunga, dove la staffetta Obiettivo Tricolore ha fatto tappa venerdì scorso, prima di proseguire verso Pienza. Di professione è architetto e nel 2014 si è candidato alle primarie del Pd del suo paese. La vera passione, però, non è la politica ma la bicicletta. L'anno scorso a Brno, in Cecoslovacchia, ha vinto il titolo over 65 nella categoria olimpica di "Cross Country". Altri trofei li ha conquistati in Austria e in Slovenia tra il 2009 e il 2017. Ieri mattina è stato sentito come testimone dagli inquirenti di Siena. Lo incontriamo mentre entra di fretta nel suo studio professionale a Sinalunga. Non ha voglia di interviste, accelera il passo, scuote la testa. Poi però decide di rispondere. E di raccontare.

Stavate andando troppo forte?

«Ma no. Andavamo a quaranta chilometri all'ora. Su una strada in leggera discesa è una velocità normalissima».

Allora come ha fatto Zanardi a sbandare?

«Non l'ho ancora capito. Prima di quella dannata curva a destra, Alex si trovava vicino alla linea di mezzeria della strada. Vedendo il camion arrivare forse si è impaurito. L'ho visto sterzare a destra per cercare di allontanarsi dalla mezzeria e riportarsi al centro della nostra corsia».

Poi che è successo?

«La ruota sinistra della sua handbike si è sollevata da terra. A quel punto, per recuperare l'assetto ed evitare di ribaltarsi, ha dato una controsterzata a sinistra. È una mossa da pilota, quale lui è. Da lì in avanti, però, non è più riuscito a controllare il mezzo ed è caduto, urtando sulla fiancata del tir».

L'asfalto nel punto immediatamente precedente alla sbandata non è in perfette condizioni, ci sono delle crepe. Può aver inciso?

«Di solito quando l'asfalto è così tiene di più, non avevamo un problema di grip».

E se una delle ruote della handbike si fosse infilata proprio in una fessurazione? 

«Quello potrebbe creare una certa instabilità, sì. Però non lo so, non mi sono accorto delle crepe». 

Quindi Alex si è spaventato dall'arrivo del camion?

«Può essere una spiegazione. Ma è anche vero che è un fuoriclasse, famoso proprio per come riesce a controllare le traiettorie in curva. Se non è stato lo spavento, allora la handbike ha avuto un cedimento strutturale. Non vedo altre cause plausibili».

Com' eravate posizionati in quel tratto di strada?

«Bennati (Daniele, ex ciclista professionista amico di Zanardi, ndr) era più avanti, insieme a un altro ragazzo di cui non ricordo il nome. Ci avevano staccato, quindi non si sono accorti di nulla. Alex era preceduto da Paolo Bianchini e dietro c'ero io. Quando ha sbattuto contro il camion è stato sbalzato sul lato opposto della strada: ho rischiato di investirlo con la bicicletta, ma ce l'ho fatta ad evitarlo. Bianchini ha sentito il frastuono ed è tornato indietro».

Dopo l'impatto Alex era cosciente?

«Secondo me no, non parlava. Ma mi potrei sbagliare, ero sotto shock».

L'hanno sentito urlare. «Eravamo noi che urlavamo! C'erano molte macchine ferme, io urlavo disperato: 'C'è un medico? Qualcuno lo aiuti!'. Altri chiamavano il 118. E grazie a Dio un medico l'ho trovato. Era lì per caso, in una delle macchine, e ha prestato i primi soccorsi».

C'è chi ritiene che la vostra staffetta andasse organizzata avvertendo le autorità e con un servizio di scorta.

«È una polemica che trovo ridicola. Non era una gara, era un'escursione. Come ha fatto Jovanotti o come ho fatto anch' io quando sono stato all'estero. Ho girato tutto il mondo in bicicletta».

Zanardi è un personaggio popolare il cui nome aveva richiamato, in alcuni tratti, una trentina di ciclisti. E la procura sta indagando.

«Ripeto: non era una gara. Per quelle amatoriali, e alcune anche professionistiche, non è neanche prevista la chiusura del traffico. La chiusura del traffico che io sappia si fa solo sulla maratona delle Dolomiti».

Ha parlato con Alex prima di quella curva?

«Sì, ci siamo fatti un filmino dopo aver lasciato Pienza. "Siamo rimasti solo noi, ci stiamo dirigendo a San Quirico", dicevamo così così. Eravamo felici».

Marco Gasperetti per corriere.it il 24 giugno 2020. Il tempo stava per scadere. Dieci minuti appena, forse qualcosa di più, e Alex Zanardi non ce l'avrebbe fatta, sarebbe morto. Certamente molto meno della «golden hour», il limite di tempo massimo per salvare la vita di una persona nella chirurgia di emergenza. La salvezza à arrivata dal cielo. Su quell'elicottero, il «Pegaso 2», c'era Robusto Biagioni, medico di emergenza e responsabile del 118 della zona di Grosseto. Quarant' anni di professione di cui trenta di medicina di emergenza ed elisoccorso. Biagioni racconta quel venerdì doppiamente nero perché Zanardi non era solo un paziente. «Lo avevo incontrato più volte, una persona eccezionale - ricorda ancora con commozione -. Veniva a trovare gli amici del 118. Ci diceva che facevamo un lavoro straordinario. Me lo sono trovato davanti in quelle condizioni ed è stato duro mantenere calma e distacco indispensabili perché un medico riesca ad agire nel modo migliore. Poi, quando finalmente lo abbiamo stabilizzato e trasportato al Policlinico Le Scotte, mi sono emozionato. Ero emotivamente provato».

Ci racconta i momenti più delicati di quel venerdì nero?

«Siamo decollati da Grosseto alle 16.56. A bordo eravamo in sei: due piloti, un tecnico, un operatore del Soccorso alpino, un infermiere e io».

Quanto è durato il vostro volo?

«Siamo atterrati a Pienza alle 17.20. L'operatore del Soccorso alpino è stato utilissimo. Siamo atterrati in un campo e abbiamo dovuto attraversare un piccolo bosco, molto fitto, e l'esperto ci guidava spezzando i rami sul nostro cammino e trovando la giusta direzione».

Correvate?

«Passo svelto. Troppo pericoloso correre in quella situazione con gli zaini e gli strumenti medici. Se si cade ci si può fare male e rendere vano il soccorso».

Quanto avete impiegato ad arrivare sul luogo dell'incidente?

«Non più di quattro, o cinque minuti al massimo. Alex Zanardi era sul bordo della strada supino. Lo stava assistendo Cristina La Cava, la dottoressa dell'ambulanza che aveva già iniziato, per fortuna, a fare quanto necessario in quelle condizioni per stabilizzarlo».

In che condizioni era Zanardi?

«Gravissime, purtroppo. In quelle condizioni poteva resistere pochi minuti soltanto. La mia collega lo aveva trovato in uno stato comatoso, con momenti di agitazione. Muoveva le braccia in modo sconnesso, urlava. Il volto era devastato dalle tante fratture. Ma quello che ci preoccupava di più in quel momento era la lesione, molto grave, che dall'occhio destro si allungava su tutta la faccia. Poi aveva altre lesioni alla testa».

Aveva mai visto una situazione così grave?

«Sono intervenuto su casi persino peggiori e a volte si sono risolti positivamente anche contro le nostre previsioni. Ecco perché sono convinto che ci siano buone speranze che Alex ce la possa fare, considerato anche che è un atleta e ha una voglia di vivere e una grinta incredibili».

Qual è stata l'operazione decisiva che ha salvato la vita a Zanardi nella prima fase dell'incidente?

«Certamente il passaggio della cannula tubo fino alla trachea per consentirgli la respirazione artificiale. Non è stato facile perché il volto era devastato dalle fratture. Poi siamo passati alla seconda fase».

Quale?

«Quella del bendaggio di tutta la parte superiore del volto, della testa e la stabilizzazione delle varie fratture che abbiamo riscontrato».

E poi?

«Siamo decollati alle 17.47 e atterrati al Policlinico di Siena alle 18.35, dove ci stavano già aspettando ed erano pronti per iniziare l'intervento chirurgico».

Soccorritore di Zanardi: “10 minuti di ritardo e non ce l’avrebbe fatta”. Notizie.it il 24/06/2020. Dopo l'incidente di Zanardi, il soccorritore arrivato sul posto ha commentato: "Condizioni gravissime, ma ho visto casi peggiori che si sono risolti". Continuano i messaggi di vicinanza e incoraggiamento ad Alex e alla sua famiglia. Un vero campione dall’animo buono, esempio di grinta e voglia di vivere. Ai dolci messaggi da parte del figlio, segue la preghiera di Papa Francesco. Dopo l’incidente, le condizioni di Zanardi appaiono gravi, ma il quadro clinico è stabile, tanto da valutare il risveglio: a parlare è anche il soccorritore intervenuto sul posto per salvare il campione di paraciclismo. Intervistato dal Corriere della Sera, Robusto Biagioni, medico dell’elisoccorso intervenuto per salvare Zanardi, ha raccontato cosa ha vissuto in quegli attimi e quali fossero le reali condizioni del campione. Il dottor Biagioni, medico di emergenza e responsabile del 118 della zona di Grosseto, vanta una carriera lunga quarant’anni, di cui trenta di medicina di emergenza ed elisoccorso. Il medico conosceva Zanardi: “Lo avevo incontrato più volte”, ha spiegato. Ha parlato di lui definendolo “una persona eccezionale”. Quindi ha aggiunto: “Veniva a trovare gli amici del 118. Ci diceva che facevamo un lavoro straordinario“. Nell’intervista non ha nascosto la commozione né le inevitabili debolezze di un uomo che si trova davanti una persona sofferente, prima ancora che un grande campione di fama nazionale. “Me lo sono trovato davanti in quelle condizioni ed è stato duro mantenere calma e distacco, indispensabili perché un medico riesca ad agire nel modo migliore. Poi, quando finalmente lo abbiamo stabilizzato e trasportato al Policlinico Le Scotte, mi sono emozionato. Ero emotivamente provato“, ha raccontato. Secondo Biagioni, dieci minuti di ritardo sarebbero stati fatali e per Zanardi non ci sarebbe stata alcuna possibilità di salvarsi. Sulle operazioni di emergenza ha spiegato: “Siamo atterrati a Pienza alle 17.20. L’operatore del Soccorso alpino è stato utilissimo. Siamo atterrati in un campo e abbiamo dovuto attraversare un piccolo bosco, molto fitto. L’esperto ci guidava spezzando i rami sul nostro cammino e trovando la giusta direzione”. Biagioni e i colleghi procedevano a “passo svelto”. Infatti, ha precisato: “Troppo pericoloso correre in quella situazione con gli zaini e gli strumenti medici. Se si cade ci si può fare male e rendere vano il soccorso“. Ad arrivare sul luogo dell’incidente hanno impiegato “non più di quattro o cinque minuti al massimo”. Poi ha descritto le condizioni di Alex Zanardi: “Era sul bordo della strada supino. Lo stava assistendo Cristina La Cava, la dottoressa dell’ambulanza che aveva già iniziato, per fortuna, a fare quanto necessario in quelle condizioni per stabilizzarlo. Le sue condizioni erano gravissime, purtroppo. In quelle condizioni poteva resistere pochi minuti soltanto. La mia collega lo aveva trovato in uno stato comatoso, con momenti di agitazione. Muoveva le braccia in modo sconnesso, urlava. Il volto era devastato dalle tante fratture“. In quegli attimi di paura e dolore, a preoccupare maggiormente i medici “era la lesione, molto grave, che dall’occhio destro si allungava su tutta la faccia. Poi aveva altre lesioni alla testa”, ha fatto sapere soccorritore. Nonostante le gravi condizioni in cui Alex versava al momento dell’incidente, i medici hanno permesso al campione di restare in vita grazie al “passaggio della cannula tubo fino alla trachea per consentirgli la respirazione artificiale”. Quindi ha spiegato: “Non è stato facile perché il volto era devastato dalle fratture. Poi siamo passati alla seconda fase, quella del bendaggio di tutta la parte superiore del volto, della testa e la stabilizzazione delle varie fratture che abbiamo riscontrato”. “Siamo decollati alle 17.47 e atterrati al Policlinico di Siena alle 18.35, dove ci stavano già aspettando ed erano pronti per iniziare l’intervento chirurgico”, ha concluso il medico. Robusto Biagioni, tuttavia, ha tenuto a sottolineare: “Sono intervenuto su casi persino peggiori e a volte si sono risolti positivamente anche contro le nostre previsioni”. “Ecco perché sono convinto che ci siano buone speranze che Alex ce la possa fare, considerato anche che è un atleta e ha una voglia di vivere e una grinta incredibili“, ha detto mandando un augurio speciale al campione.

Zanardi, il medico che lo ha soccorso: “Vivo grazie alla moglie”. Notizie.it il 03/07/2020. "La moglie di Zanardi gli ha parlato dopo l'incidente per tenerlo sveglio", così il medico che ha soccorso il campione paralimpico. A poco più di due settimane dall’incidente di Alex Zanardi con la sua handbike, arrivano ulteriori dettagli su quelle ore difficilissime. A fornire un nuovo quadro è Luigi Mastroianni, medico che si trovava per caso sulla statale tra Pienza e San Quirico d’Orcia e che è stato il primo a soccorrere il campione paralimpico dopo l’incidente. In un’intervista a Repubblica il dottore ha detto che Zanardi è vivo grazie alla moglie Daniela Manni, che lo ha tenuto sveglio nei minuti successivi all’incidente. “All’inizio non mi ero accorto che si trattava di Zanardi – ha detto Mastroianni – ero concentrato sulla bruttissima ferita che aveva alla testa. Accanto ad Alex c’era la moglie. E un signore che voleva spostarlo da terra, ma gliel’ho impedito: le persone che subiscono traumi cranici così gravi non devono essere mosse, si rischia di far loro più danno”. “Ho chiesto alla moglie di parlargli – ha aggiunto il medico – per non fargli perdere del tutto i sensi. Se fosse successo, probabilmente ora non sarebbe vivo. E la moglie di Zanardi è stata bravissima: nonostante lo choc, continuava a dirgli: ‘Non ci lasciare, supererai anche questa vedrai, forza Alex, forza”. In effetti, secondo quanto riferito dal medico legale, l’udito è l’ultimo stimolo sensoriale che mantiene lo stato di coscienza. Non mancano manifestazioni d’affetto da parte di tifosi e appassionati, che hanno esposto striscioni nei pressi dell’ospedale senese dove Zanardi è ricoverato, l’ultima testimonianza di affetto più recente è stata quella della Ferrari, che nel prossimo week-end sarà in Austria porterà in pista una livrea speciale con la scritta: “Forza Alex”.

Alex Zanardi, la testimonianza del primo soccorritore: "Se avesse perso i sensi, ora non sarebbe vivo". Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. Alex Zanardi è ricoverato in terapia intensiva all’ospedale di Siena dopo il grave incidente con un camion. Repubblica ha intercettato il primo dottore che ha soccorso l’ex pilota di Formula 1 e ha raccontato quei momenti immediatamente successivi al tremendo impatto: “Casco a pezzi e una ferita bruttissima alla testa”. Lui è Luigi Mastroianni e si trovava su quella strada per caso, essendo in vacanza con la compagna: “All’improvviso tutti i veicoli si sono fermati e ho capito dell’incidente. Ho impedito a un signore di spostarlo da terra, con trauma cranici così gravi le persone non devono essere mosse. Non so chi fosse, forse uno che aveva visto troppe vuole E.R. in televisione e pensava di saper fare il medico”. Poi la testimonianza sulle condizioni molto critiche: “Non parlava e aveva gli occhi socchiusi. Era in stato di semi-incoscienza, quindi ho chiesto alla moglie di parlargli, per non fargli perdere del tutto i sensi. Se fosse successo, probabilmente ora non sarebbe vivo”. 

Il figlio di Alex Zanardi: “Io questa mano non la lascio”. Notizie.it il 24/06/2020. Messaggio commovente quello del figlio di Alex Zanardi, atleta paralimpico che ha subìto un grave incidente durante una staffetta su strada. Il figlio di Alex Zanardi, Niccolò, ha deciso di riattivare il suo profilo Instagram con un post dedicato a suo padre. Dopo quasi cinque anni di inattività, il ragazzo pubblica una bellissima immagine che ritrae l’atleta paralimpico, sorridente, con sotto la didascalia: “Forza papà ti aspetto, torna presto”. Subito il post di Niccolò ha riscosso numerosi like e messaggi di incoraggiamento, i fan di Zanardi e non si stringono alla famiglia nella speranza che esca presto dalla terapia intensiva dell’ospedale Le Scotte di Siena. Dopo il grave incidente che ha avuto luogo durante un tratto della staffetta cui stava partecipando, l’atleta è fortunatamente in condizioni stabili anche se sotto sedazione e ventilazione meccanica. Accanto ad Alex, in ospedale, anche la mamma 84enne Anna che non si è mai voluta allontanare dall’amato figlio e, ovviamente il figlio. Anche la cognata di Alex Zanardi ha dedicato lui parole di incoraggiamento, rilasciando un’intervista per La Repubblica. “Sono ore decisive, non sappiamo come ce lo ridaranno. Alex lotta e noi con lui. Passate le 72 cruciali, se i parametri vitali non si complicheranno allora potremo dire di avere una speranza in più, un’alta possibilità che ce la faccia”, ha detto la manager del team Obiettivo3, “Ci attacchiamo a questo, ma dipende da come si risveglierà. Ci affidiamo ai medici e sogniamo solo di riaverlo presto. Mia sorella va là ma può stare solo due ore. Per me non è solo un cognato, è il 90% della mia vita, un amico, un compagno di lavoro, una persona speciale. La nostra famiglia è distrutta”.

Nuovo messaggio di Niccolò Zanardi a papà Alex su Instagram. Notizie.it il 24/06/2020. Niccolò Zanardi torna a scrivere a papà Alex. Lo fa con un nuovo messaggio su Instagram, dopo il primo della giornata del 23 giugno. Nella notte un altro post con una dedica speciale al campione bolognese le cui condizioni sono ancora gravi ma stabili secondo l’ultimo bollettino. Il figlio Niccolò, nato dall’amore tra Alex e Daniela nel 1998, è al capezzale del padre che si trova ricoverato, in prognosi riservata, al "Le Scotte" di Siena. I familiari possono visitarlo due volte al giorno in virtù dei protocolli anti-Covid. Così, su Instagram, un nuovo messaggio da parte di Niccolò Zanardi, il figlio di Alex. “Io questa mano non la lascio. Dai papà, anche oggi un piccolo passo avanti”, ha scritto il 22enne. Subito tantissimi messaggi di affetto per il giovane e tanti cuori di speranza per il campione bolognese. Per quest’ultimo, quinta notte consecutiva in terapia intensiva mentre alle ore 12 del 24 giugno sarà diramato un nuovo bollettino. Niccolò Zanardi, sempre su Instagram, aveva scritto un altro post di dedica al padre. “Forza, papà, ti aspetto, torna presto”. Anche in quel caso tantissimi messaggi di forza e coraggio per il figlio che si trova a dover combattere, nuovamente, al fianco del papà. Nel 2001 Niccolò aveva solo tre anni e i ricordi, di quei drammatici momenti, non possono essere vividi come quelli odierni.

Zanardi, il figlio Niccolò: ''Forza papà, ti aspetto, torna presto''. Niccolò ha pubblicato una foto ha scritto: ''Forza papà, torna presto''. Il post commovente è stato molto apprezzato sui social: tutti fanno il tifo per Zanardi. Antonio Prisco, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. ''Forza papà, ti aspetto, torna presto''. Niccolò Zanardi, il figlio 22enne del campione rimasto coinvolto nel gravissimo incidente di venerdì scorso in provincia di Siena, ha affidato a Instagram i suoi pensieri e le sue speranze. Niccolò è l'unico figlio di Alex Zanardi e Daniela Manni ed è nato nel 1998, due anni dopo il matrimonio di Alex e Daniela. E' un ragazzo schivo, non appare molto sui social, il suo profilo Instagram è di fatti rimasto inattivo per quasi cinque anni. Oggi però Niccolò è tornato a postare, naturalmente ha pubblicato una foto del papà, una bellissima immagine, si vede Alex sorridente, come si è sempre mostrato in pubblico. Poi l'ha commentata così: "Forza papà ti aspetto, torna presto" seguita da due cuoricini. Subito dopo una pioggia di commenti di incoraggiamento e vicinanza: "Siamo tutti con voi". ''Tuo padre ce la farà'' scrivono gli utenti con commozione e partecipazione. Un legame viscerale quello tra padre e figlio, che ha già superato dolori e sfide quasi impossibili. Quando Alex perse entrambe le gambe, dopo l’incidente di Lausitzring, era il 2001 e Niccolò aveva soltanto tre anni: al momento dell'amputazione degli arti inferiori, fu proprio il papà a raccontargli che la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Il pilota nel corso di un'intervista, svelò la reazione del piccolo a quella notizia: ''Percepiva le protesi come qualcosa che mi rendeva speciale''. E in fondo aveva pienamente ragione: suo padre è davvero una persona speciale.

La speranza di mamma Anna. Di solito un grande uomo ha sempre al suo fianco una grande donna. Nel caso di Alex sono due: la moglie Daniela e la mamma. Sono naturalmente attimi di grande preoccupazione per la signora Anna, che da Castel Maggiore, sta seguendo gli aggiornamenti sulle condizioni di salute del figlio: "Vorrei solo non pensare più a niente, addormentarmi in un sonno sereno, senza brutti sogni, senza incubi. E vorrei risvegliarmi solamente quando si risveglierà Alessandro dal suo sonno", ha spiegato la donna a Il Resto del Carlino. Un tragico dejavù ripensando al tragico incidente di Alex nel 2001, mamma Anna è dunque ripiombata nella paura e nel dolore per il figlio: "Il telefono squilla in continuazione, tutti mi chiedono, ho visto filmati, uno particolarmente bello devo proprio riconoscerlo, che mi ha davvero colpito. Filmati che le televisioni nazionali e non solo stanno dedicando a mio figlio e sono commossa da quanta attenzione, da quanto affetto ci sia attorno ad Alex. Però adesso, in questa dolorosa attesa, voglio cercare solo il silenzio. Non voglio dire altro, non me la sento, non è il momento per dire nulla''. Una condizione difficile che sta condividendo con l'Italia intera.

Le condizioni di Alex. A quattro giorni dall’incidente le condizioni di Zanardi sono stabili: secondo l'ultimo bollettino resta in coma farmacologico e il decorso clinico, anche durante la notte tra lunedì e martedì, è stato regolare. Il quadro neurologico resta invariato nella sua gravità: ''Il paziente rimane sedato, intubato e ventilato meccanicamente. Eventuali riduzioni della sedo-analgesia, per la valutazione dello stato neurologico, verranno prese in considerazione a partire dalla prossima settimana. La prognosi rimane riservata". Il prossimo bollettino medico sarà diramato alle ore 12 di domani, mercoledì 24 giugno.

DANIELE SPARISCI per corriere.it il 23 giugno 2020. «Come sta Alex? Che dicono i medici? Provo a seguire tutto da qui, dal Canada, ma in Italia avrete sicuramente informazioni più aggiornate. Spero che ancora una volta riesca a tirarsi fuori dalle sofferenze. Per me è un uomo speciale, mi ha insegnato molto. Mi ha aiutato tantissimo a superare il peso di quell'incidente con il suo modo di pensare». Al telefono da Montreal risponde Alex Tagliani, il pilota che il 15 settembre 2001 sul circuito del Lausitzring si trovò davanti la monoposto, fuori controllo, di Zanardi, colpendola a oltre 300 all'ora. Figlio di emigrati, parla benissimo la nostra lingua e ancora gareggia nel campionato Nascar locale: «Mio papà è di Brescia, mia madre del Garda. Nonno Calogero era innamorato dei motori, costruiva macchine da corsa e go-kart e correva, l'ultima cronoscalata l'ha fatta a 96 anni».

Parliamo di Alex, del primo incidente.

«Sì. All'inizio non sapevo che cosa fosse successo, avevano portato in ospedale anche me in Germania, erano i giorni subito dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Mancavano 13 giri e c'era una battaglia fra quattro macchine, a quell'epoca le Indy avevano 1.000 cavalli. In una pista ovale ad altissime velocità non puoi incollarti a un'altra macchina per le troppe turbolenze aerodinamiche. La segui un po' all'interno o all'esterno, inoltre l'inclinazione della pista ti fa piegare la testa. Non puoi muoverla, non è come in Formula 1. Ho visto con la coda dell'occhio sinistro la vettura di Alex rientrare nel tracciato molto piano, era finita sull'erba dopo aver slittato in uscita dai box. Ho provato a sterzare a sinistra, ma il colpo è stato talmente forte che ho perso conoscenza».

Poi si è svegliato.

«Avevo un po' di dolori alla schiena, ho chiesto che cosa fosse successo ad Alex ed è arrivata sua moglie Daniela a trovarmi in camera. Mi raccontò dei problemi del marito, fu molto gentile. Il brutto per me è arrivato quando sono uscito dall'ospedale».

Perché?

«Dovevo preparami per la gara successiva in Inghilterra, ma non pensavo ad altro che all'incidente. Mi guardavo allo specchio o vedevo un film, e ci pensavo. Davanti alla tv non sapevo più neanche quale canale avevo messo. Cenavo e quelle immagini non se ne andavano mai. Qualsiasi cosa facessi, dopo cinque minuti, il pensiero tornava. Una sensazione terribile. Volevo smettere di correre».

Addirittura?

«Sì, avevo la testa da un'altra parte ed è molto pericoloso per un pilota. Della corsa in Inghilterra non ricordavo assolutamente nulla, né la posizione finale né le varie fasi. Non mi era mai successo». Alla fine che cosa le ha fatto cambiare idea? «Aver rivisto Alex. Era a Toronto in pit-lane, nel giugno del 2002. È venuto a trovarmi e abbiamo parlato un po'. Mi ha detto: "Sai qual è il vantaggio delle mie nuove gambe? Sono tre centimetri più alto". Era tranquillo, scherzava e raccontava barzellette. Diceva che si dava da fare per tornare a guidare, parlava di comandi al volante. Lì è cambiato tutto anche per me».

Che cosa ha provato in quel momento?

«Mi sono sentito più leggero. Mi ha fatto capire che per lui era un incidente di gara e che anche io avrei potuto prenderlo così. E dopo sono sempre rimasto in contatto con Daniela, le mandavo messaggi per dirle che è una donna speciale, un sostegno incredibile».

Con Alex vi siete rivisti poi?

«Non era facile, io correvo negli Usa e lui in Europa, ma ci scrivevamo mail e messaggi. E ogni tanto quando veniva in America a vedere i suoi amici, è capitato di trascorrere un po' di tempo insieme».

Da chi ha saputo dell'incidente in handbike?

«Da mia zia che vive in Italia: ha mandato un WhatsApp a mia mamma quando la notizia si è diffusa».

Che cosa direbbe adesso ad Alex Zanardi se potesse parlargli?

«Che è speciale con il suo modo di vedere le cose, che mi ha insegnato tanto. Mi ricorderò sempre di quel giorno a Toronto, in quei minuti ho capito che potevo voltare pagina. Con una sola frase Alex mi ha mostrato quanto fosse forte. Per questo motivo non mi sono stupito quando l'ho visto vincere ori alle Olimpiadi, tornare a guidare macchine da corsa. Ha la capacità di far sembrare normali cose straordinarie, spero che riesca a uscirne di nuovo. Per lui e per la sua bellissima famiglia».

Pier Bergonzi per la Gazzetta dello Sport il 24 giugno 2020. Papa Francesco prende carta e penna stilografica e scrive una lettera per Alex Zanardi, che è la carezza di una preghiera. Il Papa ha un debole per l'umanità sofferente, sta seguendo con apprensione la lunga notte del più carismatico campione dello sport italiano (non solo paralimpico) e ha voluto mandargli un messaggio attraverso la Gazzetta dello Sport. «Carissimo Alessandro, la sua storia è un esempio di come riuscire a ripartire dopo uno stop improvviso. Attraverso lo sport ha insegnato a vivere la vita da protagonista, facendo della disabilità una lezione di umanità...», scrive il Papa sulla carta intestata con lo stemma e il motto episcopale scelto da Francesco: «Miserando atque eligendo», la frase che fa riferimento al Vangelo di Matteo e si riferisce alla «chiamata» dell'apostolo evangelista: «Guardò con misericordia e lo scelse...». Bergoglio continua così: «Grazie per aver dato forza a chi l'aveva perduta. In questo momento tanto doloroso le sono vicino, prego per lei e la sua famiglia. Che il Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente». Un messaggio diretto, da Francesco ad Alex, che noi idealmente consegniamo. Merito anche di don Marco Pozza, il prete maratoneta amico del nostro giornale con il quale abbiamo corso la Maratona di New York 2010 (c'era anche Zanardi!) e quella di Milano la primavera successiva. Ieri don Marco era a Santa Marta, la residenza papale, e Francesco, che si alza all'alba, aveva letto con attenzione il bellissimo pezzo del nostro amico cappellano del carcere di Padova che aveva scritto sulla Gazzetta di ieri. «Nessuna pietà per Zanardi - dice l'articolo di don Marco -. Non è mancanza di educazione o strafottenza. È questione di onestà: sin dal primo sguardo che ci siamo scambiati una decina di anni fa, ho capito che il limite era un concetto marchiato a fuoco nel mio corpo e nient' affatto nel suo. Il limite non era vedere un uomo senza gambe che danzava sulla terra, ma essere un uomo che le possiede entrambe e non essere capace si produrre un centesimo dell'energia che lui sprigionava...». Don Marco ha corso le maratone di New York, Venezia e Padova con Zanardi diventandone amico. «Alex ha saputo estrarre dal pozzo nero del dolore il nettare del riscatto e non ha mai voluto indossare la pietà come se fosse un abito cucito su misura...Perché vivere al rimorchio della pietà è la vera sconfitta: una vita amputata, quella sì». «Alex piace a Francesco perché è molto vicino al senso del suo pontificato, perché ha trasformato la disabilità in una grande lezione di umanità - spiega don Marco -. E il Papa cerca sempre di restituire autostima a chi è in difficoltà, a chi si sente ai margini. Perché il vero disabile è chi non ha stima di sé». Il Papa apprezza il cappellano del carcere di Padova, questo quarantenne appassionato di sport, vicentino di Thiene, che avrebbe voluto diventare un professionista di ciclismo. Da ragazzino, don Marco duellava in bici con Pippo Pozzato, ma è stato poi folgorato sulla via della fede. Ha scelto Dio e ora fa il "gregario" di Francesco. Nelle sue omelie, come nei suoi scritti, cita il Piccolo Principe e Muhammad Ali, il Gabbiano Jonathan Livingstone e Mourinho, vanta un tempo sulla maratona intorno alle 2 ore e 40' e appena può si fa un giro in bici. Era lui, in jeans e scarpe da tennis, a portare la croce nell'ultima struggente Via Crucis sotto la pioggia di una Piazza San Pietro lunare (deserta per via dell'emergenza virus). A lui Papa Francesco aveva affidato il testo della Via Crucis pasquale, a lui ha affidato tre interviste che sono diventate altrettanti libri, a lui e a noi della Gazzetta ha affidato questo meraviglioso messaggio di speranza per Zanardi. Ora Alex sa di poter contare su un amico in più: il Papa!

Alex Zanardi, la "visita privata" in ospedale dell'arcivescovo di Siena Paolo Lojudice: "Nei suoi occhi lo sguardo di un leone". Libero Quotidiano il 27 giugno 2020. Lo sguardo di un "lottatore, di un uomo che combatte per la vita". Così l'arcivescovo di Siena, monsignor Paolo Lojudice, racconta in una commuovente intervista a Il Giornale la sua visita ad Alex Zanardi, ricoverato in terapia intensiva all'ospedale Le Scotte di Siena dopo il grave incidente avuto in handbike il 19 giugno nella zona di Pienza (Arezzo). "Alex è una persona di grande levatura, di grande coraggio, e dopo i primi giorni dall'incidente ho chiesto ai medici di potergli fare visita. Ho atteso il momento opportuno, in genere la mattina va a trovarlo il figlio e il pomeriggio la moglie Daniela. Sono potuto restare da solo con lui per qualche minuto, ho recitato una preghiera, ho dato una benedizione e affidato la sua vita alla misericordia di Dio", racconta l'alto prelato. Poi racconta qualche dettaglio sul difficile decorso "le condizioni sono molto critiche, l'urto ha colpito violentemente la testa ma gli altri organi non hanno subito danni. La fortuna, nella disgrazia, è che la testa si sia rotta e non sia scoppiata dall'impatto. Sarebbe morto sul colpo. Alex ha riportato un fortissimo trauma cranico, è già un miracolo che sia vivo". Un gesto, quello di monsignor Lojudice, che arriva pochi giorni dopo la lettera di Papa Francesco affidata alle pagine della Gazzetta dello Sport. "Attraverso lo sport hai insegnato a vivere la vita da protagonisti" ha scritto il Pontefice, "prego per lei e la sua famiglia".

Alex Zanardi di nuovo operato al cervello. L'ex pilota, rimasto gravemente ferito in un incidente con la sua handbike lo scorso 19 giugno, sottoposto a un intervento oggi pomeriggio. "L'operazione è durata due ore e mezzo, la prognosi resta riservata". Fabio Tonacci e Michele Bocci il 29 giugno 2020 su La Repubblica. Nuovo intervento oggi pomeriggio per Alex Zanardi alle Scotte di Siena. L'ex pilota è entrato in sala operatoria per un intervento neurochirurgico nel primo pomeriggio e da poco si è conclusa l'operazione. I medici hanno deciso di portarlo per la seconda volta sotto i ferri dopo i risultati degli esami effettuati nel fine settimana. "Nell'ambito delle valutazioni diagnostico-terapeutiche effettuate dall'équipe che ha in cura l'atleta - si legge nel bollettino emesso dalla struttura sanitaria - è stata effettuata una Tac di controllo. Tale esame diagnostico ha evidenziato un'evoluzione dello stato del paziente che ha reso necessario il ricorso ad un secondo intervento di neurochirurgia. Dopo l'intervento, durato circa 2 ore e mezza, Alex Zanardi è stato nuovamente ricoverato nel reparto di Terapia intensiva dove resta sedato e intubato: le sue condizioni rimangono stabili dal punto di vista cardio-respiratorio e metabolico, gravi dal punto di vista neurologico, la prognosi rimane riservata". A fornire una spiegazione in più è il direttore sanitario Roberto Gusinu: "L'intervento effettuato rappresenta uno step che era stato ipotizzato dall'équipe. I nostri professionisti valuteranno giorno per giorno l'evolversi della situazione, in accordo con la famiglia il prossimo bollettino sarà diramato tra circa 24 ore". Zanardi era stato sottoposto a una prima operazione alla testa la sera stessa dell'incidente, avvenuto il 19 giugno scorso intorno alle 16.50 sulla statale che collega Pienza a San Quirico D'Orcia. Ad operarlo era stato il professor Giuseppe Oliveri. Il campione, durante la staffetta ciclistica Obiettivo Tricolore organizzata dalla sua società sportiva, aveva perso il controllo della handbike ed era andato a sbattere contro la ruota di un camion nell'altra corsia della strada. Un video, girato da un giornalista freelance che era al seguito di Zanardi, pare scagionare completamente l'autista del camion. Sulla dinamica dell'incidente la procura di Siena ha disposto una perizia che dovrà valutare tutte le possibili cause dello sbandamento: l'errore umano, il cedimento strutturale di una ruota della handbike, lo stato non perfetto del manto stradale.

CRISTIANO PELLEGRINI per la Stampa il 30 giugno 2020. Hanno deciso di operarlo di nuovo alla testa. Passati dieci giorni in coma farmacologico, proprio nella settimana in cui dovevano risvegliarlo, i medici del policlinico di Siena, dopo una Tac di controllo effettuata nella giornata di giovedì, hanno deciso di intervenire con un'altra operazione neurochirurgica. La seconda in dieci giorni. E così Alex Zanardi, dopo il primo intervento cui era stato sottoposto il 19 giugno scorso in seguito allo schianto contro un tir nelle vicinanze di Pienza con la sua handbike, ieri è tornato sotto ai ferri; questa volta per altre due ore e mezza. «Un'evoluzione nello stato del paziente tale da dover intervenire» ha spiegato l'ospedale. Le condizioni del campione bolognese rimangono stabili dal punto di vista cardio-respiratorio e metabolico, ma ancora gravi dal punto di vista neurologico. Sempre intubato e ventilato. «L'intervento chirurgico - ha comunque provato a rassicurare il direttore sanitario dell'Aou senese Roberto Gusinu - rappresenta uno step che era stato ipotizzato dall'équipe. I nostri professionisti valuteranno giorno per giorno l'evolversi della situazione». La sensazione è che l'intervento non fosse tra quelli programmati. Il prossimo bollettino, atteso tra circa 24 ore, potrà chiarire meglio cosa sia successo nel decorso post operatorio. Anche perché si tratta di una notizia arrivata all'inizio di quella che i medici avevano lasciato intendere potesse essere la settimana decisiva per procedere con il risveglio dal coma farmacologico, dopo che i dottori avevano chiaramente detto che non c'era nessun altro intervento all'orizzonte. «Dobbiamo lasciare riposare la testa e il corpo in questa fase» avevano spiegato. Dopo l'intervento Zanardi è stato nuovamente ricoverato in terapia intensiva, dove «resta sedato, intubato e ventilato meccanicamente». In attesa del bollettino medico In questi giorni l'ex pilota era stato assistito da un'équipe di anestesisti-rianimatori e neurochirurghi e seguito da un team multidisciplinare, una ventina tra medici e infermieri che si sono alternati al suo capezzale. Quattro giorni fa l'ultimo bollettino medico. «Abbiamo passato la fase emozionale, adesso serve razionalità, per questo abbiamo deciso di sospendere i comunicati stampa» aveva detto l'ospedale. Una decisione presa insieme alla famiglia per alleggerire la pressione sui dottori, che proprio a partire da questa settimana avrebbero dovuto fare valutazioni, giorno per giorno, sui parametri clinici di Zanardi per prendere la decisione di diminuire i dosaggi dei medicinali e interrompere il coma farmacologico. Una scelta che avrebbe coinciso con una prima valutazione sulla presenza o meno di eventuali danni permanenti a livello cerebrale e alla vista

GRAZIELLA MELINA per il Messaggero il 30 giugno 2020. Ancora altri giorni di attesa e ancora tanta ansia per Alex Zanardi. I medici del policlinico Santa Maria alle Scotte, dove il campione paralimpico è ricoverato dallo scorso 19 giugno, ieri lo hanno sottoposto ad un altro intervento chirurgico. La direzione sanitaria dell'Azienda ospedaliero-universitaria Senese ha fatto sapere che i medici che lo stanno seguendo ormai da giorni hanno deciso di intervenire dopo aver osservato gli esiti di una tac. «Tale esame diagnostico - si legge nel bollettino - ha evidenziato un'evoluzione dello stato del paziente che ha reso necessario il ricorso ad un secondo intervento di neurochirurgia». Due ore e mezzo di intervento chirurgico circa, e poi Alex Zanardi è stato nuovamente ricoverato nel reparto di Terapia intensiva dove ora resta sedato e intubato. I medici però non si vogliono ancora sbilanciare. «Le sue condizioni rimangono stabili dal punto di vista cardio-respiratorio e metabolico, gravi dal punto di vista neurologico, la prognosi rimane riservata». Dunque, la situazione clinica sarà continuamente monitorata. «L'intervento effettuato sono state le parole del direttore sanitario Roberto Gusinu rappresenta uno step che era stato ipotizzato dall'équipe. I nostri professionisti valuteranno giorno per giorno l'evolversi della situazione. In accordo con la famiglia il prossimo bollettino sarà diramato tra circa 24 ore». I medici e i familiari hanno quindi deciso di non divulgare altre informazioni. Anche se, forse, un dato reso noto dal bollettino potrebbe lasciare intendere qualche elemento di speranza. «La durata di 2 ore e mezza è piuttosto breve per un intervento di neurochirurgia e quindi non penso si sia trattato di nulla di particolarmente complesso», spiega Paolo Maria Rossini, direttore del dipartimento di Neuroscienze e neuroriabilitazione dell'Ircss San Raffaele Pisana di Roma. Forse, potrebbe trattarsi di «una derivazione per un'iniziale forma di idrocefalo o del drenaggio di una raccolta di sangue che può essere aumentata di volume nei giorni successivi al trauma con possibile compressione sul cervello». Ma si tratta comunque di ipotesi. Da quanto è stato reso noto dall'ospedale, si sa invece che «il trauma è stato sul massiccio facciale con probabili fratture multiple delle ossa della faccia e, forse, della zona frontale e nasale del cranio - aggiunge Rossini -. In queste situazioni può dunque esserci un trauma diretto sui lobi frontali, sui globi oculari e sui nervi». Ma siamo ancora ad un paio di settimane dal trauma «ed è quindi ancora presto per ipotizzare cosa accadrà in futuro. La speranza è che le capacità plastiche del cervello di questo formidabile uomo ed atleta - conclude Rossini - permettano di sostituire in modo significativo le funzioni colpite dalle lesioni prodotte dal trauma». E mentre in ospedale l'attenzione e il monitoraggio sono costanti, continuano in parallelo le indagini della Procura per capire cosa ha causato l'incidente durante la staffetta Obiettivo Tricolore, promossa dalla società sportiva Obiettivo 3. È stato proprio Zanardi ad averla fondata, per supportare e coinvolgere atleti disabili e avviarli allo sport.

Siena, nuovo intervento per Alex Zanardi. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Michele Bocci. Alex Zanardi è stato sottoposto a un nuovo intervento chirurgico al policlinico Le Scotte di Siena. Ad operare l'ex pilota un'équipe multidisciplinare guidata dal primario della chirurgia maxillo-facciale, Paolo Gennaro. L'operazione si è svolta sabato, è durata circa cinque ore ed è consistita in una ricostruzione cranio-facciale. Zanardi è stato poi trasferito di nuovo in terapia intensiva, la prognosi resta riservata. Dopo aver subito un nuovo intervento al cervello due settimane fa, adesso il campione è stato sottoposto a un'operazione sul cranio e sulle ossa del volto per stabilizzare ulteriormente la sua situazione. Anche il nuovo intervento è riuscito ma ci vorrà ancora tempo per valutarne gli effetti. L'incidente che ha coinvolto Alex Zanardi è avvenuto il 19 giugno alle 16.50 sulla strada statale che collega Pienza a San Quirico D'Orcia. Durante la staffetta ciclisitca Obiettivo tricolore, organizzata dalla sua società sportiva, il campione ha perso il controllo della sua handbike ed è andato a sbattere con il volto contro un camion che arrivava nell'altra corsia. Gravissimi i danni riportati da Zanardi, che è stato subito operato in urgenza dal neurochirurgo Giuseppe Oliveri. E' stato poi tenuto in coma farmacologico in terapia intensiva. Il 29 giugno, una nuova operazione sempre al cervello. Dall'ospedale fanno sapere che la nuova operazione  fa parte degli interventi programmati dall’équipe multidisciplinare che ha in cura l’atleta per permettere la prosecuzione del percorso terapeutico. "Le fratture erano complesse", spiega il professor Paolo Gennaro, aggiungendo come "questo abbia richiesto un’accurata programmazione che si è avvalsa di tecnologie computerizzate, digitali e tridimensionali, fatte a misura del paziente. La complessità del caso era piuttosto singolare, anche se si tratta di una tipologia di frattura che nel nostro centro affrontiamo in maniera routinaria".

CLAUDIA GUASCO per il Messaggero il 7 luglio 2020. Terzo intervento in diciotto giorni. Un'operazione «programmata», specificano i medici dell'ospedale di Siena che lo curano dal 19 giugno, quando a bordo della sua handbike Alex Zanardi si è schiantato contro il predellino di un camion a Pienza. Questa doveva essere la settimana del risveglio dal coma, ma già nei giorni scorsi i dottori hanno preferito aspettare: «Il corpo e la testa devono riposare ancora», hanno spiegato. Ieri è stato portato di nuovo in sala operatoria, altra tappa del lungo e difficile cammino per salvare la vita al campione. «Mi manca quel tuo sorriso, ma so che lo rivedrò presto, tutti noi lo rivedremo presto», scrive sui social il figlio Niccolò, che con la mamma Daniela Manni non lo lascia mai solo. Il bollettino diramato dalla direzione sanitaria dell'ospedale Le Scotte di Siena è, come sempre, asettico. Le condizioni di Zanardi non permettono di sbilanciarsi in previsioni, ma solo di affrontare la situazione ora per ora. «Il paziente è stato sottoposto a un nuovo intervento chirurgico, eseguito dai professionisti del maxillo-facciale e della neurochirurgia, volto alla ricostruzione cranio-facciale e alla stabilizzazione delle zone interessate dal trauma riportato in seguito all'incidente del 19 giugno scorso», informano i sanitari. Specificando che «l'operazione effettuata fa parte degli interventi programmati dall'equipe multidisciplinare che ha in cura l'atleta per permettere ogni prosecuzione del percorso terapeutico». Paolo Gennaro, direttore dell'unità di Chirurgia maxillo-facciale, spiega: «Le fratture erano complicate e questo ha richiesto un'accurata programmazione che si è avvalsa di tecnologie computerizzate, digitali e tridimensionali, fatte a misura del paziente. La complessità del caso era piuttosto singolare, anche se si tratta di una tipologia di frattura che nel nostro centro affrontiamo in maniera routinaria». L'intervento è durato circa cinque ore, poi Alex Zanardi è stato portato di nuovo nel reparto di terapia intensiva dove «resta sedato e ventilato meccanicamente: le sue condizioni rimangono stabili dal punto di vista cardio-respiratorio e metabolico, gravi dal punto di vista neurologico, la prognosi rimane riservata», fanno sapere dalle Scotte. Il paziente viene valutato quotidianamente dai medici che lo hanno in cura e sulla base delle condizioni, anche in accordo con la famiglia Zanardi, l'ospedale annuncia che il prossimo bollettino verrà diramato non appena ci saranno significative variazioni del quadro clinico dell'atleta. Il campione lotta in ospedale e in Procura i magistrati lavorano per ricostruire le dinamiche dell'incidente e identificare le eventuali responsabilità. I pm hanno affidato la perizia per ricostruire la dinamica dell'incidente e svolgere accertamenti tecnici sull'handbike: il consulente scelto è l'ingegner Dario Vangi, docente di progettazione meccanica e costruzione di macchine all'Università di Firenze, già perito per l'inchiesta sulla morte di Franco Ballerini durante un rally nel 2010 a Larciano, in provincia di Pistoia, e nell'inchiesta sulla strage di Viareggio. Ha sviluppato un software per l'analisi e la ricostruzione dei tamponamenti e gli urti frontali a bassa velocità, per la determinazione dei principali parametri cinematici e per la correlazione tra urti ed effetti lesivi sugli occupanti. La perizia, oltre alle modalità dello schianto e a un esame delle condizioni del manto stradale, dovrà chiarire se, tra le cause dell'incidente, ci possa essere un guasto o un malfunzionamento dell'handbike di Zanardi. Si tratta di un mezzo speciale: pesa otto chili, è in carbonio, è stato messo a punto nella galleria del vento e l'abitacolo è stato realizzato seguendo le indicazioni dell'ex pilota per garantire la massima aerodinamicità. Al momento l'unico indagato «come atto dovuto», hanno ripetuto più volte i magistrati, è Marco Ciacci, 44 anni, autotrasportatore di Castelnuovo Berardenga, in provincia di Siena. È accusato di lesioni gravissime e ha nominato un proprio consulente, il professore Mattia Strangi, docente di progettazione dei sistemi di trasporto all'Università di Bologna.

Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 22 giugno 2020. Ora dorme. Riposa. Vegliato e protetto dalle persone giuste. Indurlo con i farmaci a un sonno profondo: è l’unico modo per fermarlo. Come quando, la notte, dorme abbracciato alla sua amatissima Daniela, mi raccontava. Dimezzato, ma mai così intero. Alex Zanardi. Riguardatevi la foto nella prima pagina di ieri del “Corriere dello Sport”, concentratevi solo sul volto che spunta sotto il casco, puntate la lente su occhi, naso, bocca, bava e denti. Zanne, più che denti. Non avrete bisogno d’altro per sapere chi è davvero Alex Zanardi. Un uomo deformato dal senso titanico della sfida. Molto lontano dai ritrattini ben confezionati di queste ore, puntualmente spolverati di accattivanti aneddoti e rassicuranti chiose. Tutto nel nome della più dolciastra adulazione. Basta prenderci per i fondelli. Basta con tutto questo incenso. Qui si tratta più di zolfo che di incenso. La grandezza irripetibile e probabilmente innominabile di Alex detto “Zanna” è altrove, in territori molto meno rassicuranti. Ci sono gli uomini che stanno nella misura e dopo, ma molto dopo, ci sono quelli della dismisura. I più virtuosi dei primi possono insegnare, trasmettere valori, diventare maestri di vita, possono contagiare e persino migliorare il mondo, ma non potranno mai togliergli il fiato. Saranno sempre dei tuoi simili. Ti ci puoi specchiare, con un po’ di buona volontà. I secondi puoi solo tentare di raccontarli, o subirli come uno scandalo. Li puoi ammirare, ma non li puoi avvicinare. Scoraggianti per quanto non ti ci puoi immedesimare. Alex Zanardi è uno di loro. Un uomo della dismisura. Ha fatto della sua tragedia un capolavoro. Che è tale soprattutto perché incomprensibile. Nell’opera permanente di una sfida al limite che ha perso il senso del limite. Esemplari così non insegnano nulla se non che, forse, dovrai passare all’inferno e sopravvivere per poi rientrare nel mondo con tutte quelle fiamme addosso, non riconoscibile nemmeno a te stesso. Altro che maestro! La sua lezione, se c’è, non ti aiuta, ti sfonda. A te che ti dichiari arreso per una sciatica. Da quel giorno che un bolide ti è entrato dentro a trecento all’ora, spezzandoti in due come un’ostia sconsacrata. Con i tubi piantati in corpo, Alex si ribella e decide: se da ballerino con tutte le gambe era una schiappa, senza gambe, sulle protesi, non sarà meno leggiadro di Nureyev, su quel moncone che gli resta. Ma è davvero Alex a decidere, quel giorno? È ancora lui dietro quella ribellione luciferina (tornate a guardare i suoin occhi)? O dobbiamo prendere atto di un mistero che ci eccede per quanto ci esclude? Grandioso, di sicuro. Essere Alex Zanardi è impossibile. Proviamo almeno a capirlo. A gettare un occhio nella fornace che sta dietro la facciata di un ragazzo amabile e ironico come pochi (“Oggi sono meno vulnerabile di prima. Se mi succede qualcosa mi basta sostituire un bullone e sono a posto”, mi disse al telefono), disponibile come nessuno. Uno che, arrancando e zompando sul suo moncone, trasforma tutto in una sfida, si avventa su qualunque cosa e la fa meglio di qualunque uomo integrale. Gli danno una trasmissione da condurre? Mai fatto, ma lui è il migliore. Con lui la metafora del bicchiere mezzo pieno o vuoto non ha più senso. Il mezzo vuoto è più pieno del mezzo pieno. Si muore solo da vivi, recitano gli uomini della misura. Si vive solo da morti, rispondono da un oltre molto lontano quelli della dismisura. Alex e già morto una volta (l’estrema unzione e sette arresti cardiaci) e si è fatto beffa della morte. Sopravvisse con un litro di sangue in corpo e i medici che si grattavano increduli la testa. Siamo curiosi, affascinati e anche un po’ atterriti di vedere se anche stavolta tornerà a battere le strade di casa con gli occhi della belva e nel taschino la provvista del suo amato grana intriso nella marmellata d’arancia. Perché Alex è un uomo esagerato. Il resto è conseguenza.

Siena, Alex Zanardi è stato trasferito a un nuovo ospedale per la riabilitazione. Pubblicato martedì, 21 luglio 2020 da La Repubblica.it. Alex Zanardi ha lasciato l'ospedale senese delle Scotte a poco più di un mese dall'incidente di Pienza quando con la sua handbike si è scontrato con un camion. Finita la sedazione, proseguirà le cure in un centro di riabilitazione in Lombardia. Adesso per il campione bolognese si apre il delicato percorso della neuro-riabilitazione in un'altra struttura. Lo ha annunciato oggi l'azienda ospedaliero-universitaria senese nell'ultimo bollettino sulle sue condizioni di salute. In questi giorni è stata completata la fase di sospensione della sedazione, al termine della quale è stata accertata la stabilità dei parametri cardio-respiratori e metabolici e della situazione clinica generale. Elemento che ha consentito il trasferimento in un centro specialistico per il recupero e la riabilitazione funzionale. "I nostri professionisti - ha spiegato il direttore generale dell'azienda ospedaliero-universitaria senese Valtere Giovannini - rimangono a disposizione di questa straordinaria persona e della sua famiglia per le ulteriori fasi di sviluppo clinico, diagnostico e terapeutico, come sempre accade in questi casi". L'atleta, aggiunge il direttore "ha trascorso oltre un mese nel nostro ospedale: è stato sottoposto a tre delicati interventi chirurgici e ha mostrato un percorso di stabilità delle sue condizioni cliniche e dei parametri vitali che ha permesso la riduzione e sospensione della sedazione, e la conseguente possibilità di poter essere trasferito in una struttura per la necessaria neuro-riabilitazione". L'ex pilota di Formula 1 era ricoverato dallo scorso 19 giugno nel reparto Anestesia e Rianimazione dell'ospedale di Siena dove arrivò in condizioni disperate dopo lo scontro a una curva lungo la statale 146 che da Pienza porta a San Quirico d'Orcia, della sua handbike con un camion che viaggiava in direzione opposta. Zanardi stava partecipando a una delle tappe della staffetta di "Obiettivo tricolore", una manifestazione non agonistica.

Elisabetta Rosaspina per il Corriere della Sera il 22 luglio 2020. Niccolò, come sta il papà? Se la speranza ha uno sguardo, in questo momento è negli occhi di Niccolò Zanardi, così simili a quelli del padre. Esce verso le sette di sera dalla porta a vetri scorrevoli del Centro di riabilitazione «Villa Beretta», moderna appendice di una dimora storica ultracentenaria e della chiesetta dedicata a San Francesco d' Assisi e a San Michele Arcangelo che per le prossime settimane o mesi veglierà sul recupero del campione. Jeans al ginocchio e maglietta, Niccolò sorride, pallido, ma quasi allegro: «Papà sta bene, grazie. Insomma un pochino meglio. I medici ci hanno spiegato nei dettagli tutto il percorso che dovrà seguire. Ci danno molte notizie e per fortuna positive. Ma la migliore è che oggi siamo già qui, per la riabilitazione, ed è passato soltanto un mese, un mese esatto dall' incidente».

Si può dire che Alex Zanardi è fuori pericolo?

«Non è più in pericolo di vita, ed è già molto, ma ha davanti a sé un percorso ancora lunghissimo, e lo sappiamo, siamo preparati. Siamo anche contenti perché il suo recupero è stato molto più veloce di quanto ci aspettassimo. Ma non bisognerebbe sorprendersi: questo è papà. È incredibile l' energia di quell' uomo, ha una forza straordinaria».

È cosciente? Interagite con lui?

«Interagire è un' altra cosa.Ma adesso ci sono segnali incoraggianti. Ripeto, ci vorrà ancora molto tempo. A differenza di mia madre, io vorrei dirvi di più sulle sue condizioni. Vorrei rispondere alle domande di tutte le persone che gli vogliono bene e che ci scrivono per avere sue notizie. Ma davvero neanche noi sappiamo come andrà».

Però sente la vostra presenza?

«Sì, questo è importante. Noi gli stiamo sempre accanto. Anche a Siena, del resto, siamo sempre stati lì con lui. Non ho mai perso uno solo dei miei turni al suo fianco in ospedale. Con la mamma abbiamo fatto tutti i giorni la spola, trecento chilometri al giorno tra andata e ritorno».

Gli parlate? Vi ascolta?

«Gli parliamo, certo. Ora che non è più sedato si può.Prima era proprio controindicato. I medici ci spiegavano che stimoli esterni avrebbero interferito con la sedazione. Adesso invece ci dividiamo i compiti: noi diamo gli stimoli affettivi, i medici quelli neurologici».

Con una squadra così, c' è di che essere fiduciosi, vero?

«Papà ce la farà, sono sicuro. Ce la farà anche questa volta. E un giorno ne parleremo. La racconterà a me e la racconterà anche ai miei figli. Sono fiducioso e lo è anche la mamma».

Lei come sta?

«È molto stanca, provata. Però è un po' più tranquilla. Eppoi ci sono io con lei. Ho 21 anni. Quando accadde il primo incidente, a Berlino, non potevo fare nulla per aiutarla, ero molto piccolo. Avevo solo tre anni e infatti non ricordo nulla. Questa volta, invece, tocca a me essere l' adulto di casa».

Bisogna maturare in fretta in momenti come questi.

«Sì, sono davvero dovuto crescere in fretta in questo periodo, ma va bene».

I medici vi hanno detto se il papà recupererà la vista?

«Il problema della vista è il meno per adesso. Quel che conta è sapere se potremo di nuovo riuscire a comunicare con lui. Abbiamo una lunghissima strada davanti, ma finalmente è una strada in discesa».

Non siete soli, c' è tutta Italia che fa il tifo per Alex Zanardi.

«Sì, lo abbiamo visto e sentito. Ogni mio post su Instagram diventa virale. C' è tantissimo affetto attorno a noi e attorno a lui. In questo periodo mi è capitato di riflettere su quanto siamo fortunati per questo. Ma non oso pensare a chi si trova magari in una situazione altrettanto dura e difficile, ma deve affrontarla da solo».

Resterete qui fino a quando il papà è ricoverato?

«Sì, certo. Anzi, adesso scusatemi, ma devo raggiungere mia madre. Mi aspetta per la cena».

Al campione piacerebbe saperli assieme, madre e figlio, a parlare di lui.

Alex Zanardi, la lotta per il risveglio nel silenzio. "Ce la farà, è una tigre". Pubblicato giovedì, 23 luglio 2020 su La Repubblica.it da Polo Berizzi. COSTA MASNAGA (Lecco) – Tra la camera di Alex e la palestra di robotica – uno dei fiori all’occhiello di Villa Beretta insieme alla terapia basata sulla realtà virtuale - c’è di mezzo un doppio piano di scale e tanta speranza. “E’ una tigre, ce la farà e da qui – vedrete - verrà fuori in piedi”, dice Jacopo. Le protesi alle gambe come Zanardi, le stesse braccia possenti e (lui) tatuate; è un tifoso ed è in sala d’aspetto in attesa di una visita di controllo. In fondo, anche se la chiesetta di San Michele, là fuori, invita ad affidarsi alla fede, per la sorte di un atleta non c’è miglior preghiera laica del sostegno dei fan. Magari avrà ragione Jacopo: questo è, deve essere, “il luogo del risveglio”. E infatti agli amici toscani hanno detto così la moglie Daniela e il figlio Niccolò. “I medici lavoreranno per svegliarlo, poi si vedrà”. Daniela e Niccolò arrivano cinque minuti dopo le quattro del pomeriggio: scendono dall’auto, percorrono a passi svelti il viale del parcheggio lungo una fila di ibiscus bianchi e rossi. “Alex sta come avete letto”, fa Daniela Manni (riferendosi all’intervista del figlio al Corriere della Sera), donna della vita di Zanardi, guardiana dell’uomo e del campione. Prima e dopo. La gara più lunga è iniziata, ieri è stato il primo giorno di “allenamento”. “Hanno incominciato a lavorare – raccontano dall’inner circle di Zanardi, il piccolo e affiatatissimo team composto dai familiari e dai professionisti che erano e sono vicini al campione e che dopo il secondo incidente si è come cementato intorno a quell’uomo forte ma ora fragilissimo -. Sarà un allenamento lungo, intenso e doloroso”. Lungo quanto? Certamente mesi. Qualcuno, per non inciampare in eccessi di ottimismo, traccia un perimetro di “almeno un anno”. Ma una cosa è certa: almeno in una prima fase, delle condizioni di Alex Zanardi, di come il suo corpo risponderà agli stimoli ai quali lo sottoporranno i medici, di quanti e quali passi il suo cervello farà dal buio alla luce, se si saprà qualcosa sarà soltanto perché frammenti di notizie, forse, o magari no, filtreranno dalle persone più vicine all’atleta. Quelle emotivamente più esposte dentro questa odissea fatta di sofferenza, angoscia, curiosità mediatica. Dai medici non uscirà nulla. “Non ci saranno bollettini quotidiani, non saranno date informazioni e i medici non rilasceranno interviste”, fa sapere la direzione sanitaria dell’ospedale Valduce di Como. Da cui dipende, formalmente, Villa Beretta. In questa struttura nata nel 1946 grazie a un lascito della signora Teresa Beretta, diventato ospedale vero e proprio tre anni dopo, ha sede l’unità operativa riabilitativa: uno dei venti centri italiani specializzati nella cura di pazienti colpiti da gravi disabilità, soprattutto neurologiche (già si è detto degli altri vip transitati nelle corsie di Costa Masnaga, da Cossiga a Bossi passando dal presentatore Marco Columbro). L’accordo di “riservatezza” sottoscritto dai vertici dell’ospedale comasco per proteggere Zanardi dalla pressione mediatica alza dunque un muro tra la clinica a tre piani (90 posti letto) dove il campione di paraciclismo continuerà il suo recupero dopo l’incidente del 19 giugno a Pienza, e il mondo là fuori. “Papà ce la farà, io e la mamma gli parliamo” – ha detto ieri Niccolò Zanardi. Parole da figlio, parole piene di affetto. Parole che ieri – informalmente –  medici e infermieri hanno commentato tra loro spiegando che se è vero, e lo è, che il corpo di Zanardi restituisce agli stimoli esterni, per esempio alle strette di mano, un primo accenno di feedback, è anche vero che queste reazioni vanno interpretate nella giusta misura: senza correre, insomma. “Iter del risveglio”. Lo chiamano così. E’ il sentiero lungo il quale il personale specializzato di Villa Beretta accompagnerà Zanardi in questi mesi. Da più di dieci giorni il corpo di Alex non è più sedato: si è proceduto gradualmente, come prevede per casi simili il protocollo medico e farmacologico. Lo step successivo, con il trasferimento dal policlinico di Siena a Lecco, è proprio abituare il cervello a riaccendersi e i muscoli a riattivarsi. Quale ruolo può giocare la presenza dei familiari? “Un ruolo importante”, spiega un neurologo che chiede di non comparire per rispetto dei colleghi. “Ma decisivo sarà il lavoro di stimolazione neurologica e fisica. Se il paziente risponde la strada che all’inizio sembra in salita, e lo è, può lentamente posizionarsi su un piano più orizzontale”. Sono tre le ipotesi in campo che possono determinare l’andamento della fase2 nel percorso di ripresa di un paziente come Zanardi. Sono tre scenari. Vanno considerati in ordine graduale. Il primo: il paziente è completamente passivo, i terapisti allenano il muscolo manualmente, lui non si accorge di nulla. Il secondo: si procede con un elettrostimolatore. Il terzo: il paziente è “parzialmente collaborativo”. La risposta a quale sia lo stato attuale di Zanardi, e fin dove ci si possa spingere nel sollecitare il suo corpo, può arrivare solo dall’analisi dell’ultima tac a cui è stato sottoposto. Sulla quale vige ovviamente il massimo riserbo. A Villa Beretta è sera. Daniela e Niccolò hanno già fatto visita a Alex (le visite sono contingentate, una al giorno, concordata con la caposala). Gli ultimi parenti hanno lasciato la struttura e il parcheggio si è svuotato. Un piano della clinica fino al 1 giugno era destinato ai pazienti Covid. Un situazione straordinaria per una struttura che è il vanto di questo paesino di origine medievale, Costa Masnaga, 4mila abitanti nel cuore della Brianza. Poi, a emergenza finita, si è tornati alla normalità. L’arrivo di Zanardi ha riacceso i riflettori. E pure le suggestioni: la sua nuova casa dista appena 17 chilometri dall’autodromo di Monza, la più amata dal campione dopo il Mugello. A Monza Alex avrebbe dovuto tornare in pista l’8 novembre a bordo di una Bmw per la GT3.

Alex Zanardi, il cappellano di Villa Beretta: "E' un uomo d'acciaio e ce la farà". Pubblicato venerdì, 24 luglio 2020 su La Repubblica.it da Paolo Berizzi. "Certo che ce la farà. Scusi, come fa a non farcela uno che ha sbattuto la testa contro un tir ed è ancora vivo?". La sua "parrocchia" è questa clinica che riaccende il cervello e rimette in piedi i malati. "Sono qui da nove anni", dice don Luca Poli. E' il cappellano di Villa Beretta, la nuova casa di Alex Zanardi sulla collina di Costa Masnaga. Ex missionario in Africa, un sacerdote dinamico. Carattere aperto, la battuta sempre pronta.

Padre, ha visto Zanardi?

"Si. L'ho visto in camera in presenza della moglie e del figlio: due persone straordinarie, di un'umanità, di una compostezza e di una forza incredibili".

Prega per Alex?

"Certo. Prego ogni giorno per lui come per tutti i pazienti della nostra struttura. Abbiamo 90 posti letto, di cui, attualmente, 70 occupati. Sa, il Covid ci ha messi a dura prova. Stiamo tornando a essere quello che siamo sempre stati: una clinica completamente riabilitativa".

Come sta l'ex pilota?

"Non sono un medico. Non sta a me dirlo. Ma credo che dopo tutti gli esami del caso si stia iniziando con il lavoro. Ecco, mi piace dire 'incominciamo il lavoro'. Anche se io sono solo il cappellano".

Lei è ottimista?

"Assolutamente sì. E non lo dico soltanto per fede. Zanardi è un uomo d'acciaio. Come si fa a non essere fiduciosi con un uomo che finisce con la testa contro un camion ed è ancora vivo? Noi abbiamo scommesso su di lui, ce la farà".

La sua è la forza della fede.

"Bisogna sempre affidarsi all'ingegnere che ha progettato la nostra testa (Dio, ndr). Che è come il motore dell'auto. Se ci avesse lasciato anche il libretto delle istruzioni, diciamo che sarebbe tutto più facile. Ma affidiamoci".

Questo è un luogo di silenzio e di sofferenza.

"E di grande eccellenza medica. Anche se la vera forza di Villa Beretta non è il medico ma il paziente".

Può spiegare?

"Qui si lavora su se stessi. In silenzio. E' come in montagna, bisogna inerpicarsi su sentieri stretti e che a volte fanno mancare l'aria. E' un cammino lento durante il quale a volte non si intravede nemmeno più la cima. Si va avanti con una lentezza sfiancante. Ma poi il paziente può tornare a vedere oltre, a respirare la vita e a rimettersi in gioco. Cambiato da una ferita che ha lasciato il solco".

La messa a Villa Beretta.

"Una al giorno, alle 16.30".

Daniela e Niccolò Zanardi sono venuti?

"Si. La forza di Alex sono loro. Mai visto una famiglia così unita e così solare".

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2020. La notizia del peggioramento delle condizioni di Zanardi purtroppo non è stata una sorpresa per Robusto Biagioni, il medico d'urgenza dell'elisoccorso che ha stabilizzato Alex subito dopo l'incidente e gli ha salvato la vita. «In questi casi, l'evoluzione clinica procede in un modo che definiamo ondulatorio - spiega -, con riprese che vanno oltre le più ottimistiche aspettative e peggioramenti improvvisi che possono lasciare sconcertati». E allora, «non bisogna esagerare con l'ottimismo ma allo stesso tempo neppure cadere nel peggior pessimismo se Alex ha avuto un aggravamento ed è tornato in terapia intensiva. Passaggi del genere potrebbero accadere ancora per un anno, la letteratura scientifica ce lo insegna». Lo scorso 19 giugno Biagioni, responsabile del 118 della zona di Grosseto, quarant' anni di professione di cui trenta di medicina di emergenza ed elisoccorso, fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell'incidente. E accanto a Zanardi Volò da Pienza sino al Policlinico Le Scotte di Siena, dove i neurochirurghi stavano aspettando il campione paralimpico nella sala operatoria per il primo intervento al cervello. Ma per Biagioni Alex non è stato solo uno dei tanti pazienti di una carriera di dottore d'urgenza pluridecennale. Lo aveva conosciuto a Grosseto e incontrato più volte. Trovarselo davanti in quelle condizioni disperate aveva messo a dura prova la calma e il distacco professionale necessari perché un medico d'emergenza intervenga nel modo migliore. Biagioni ci era riuscito egregiamente, ma dopo il trasporto di Zanardi al Policlinico era scoppiato in lacrime. «I pazienti che hanno subito traumi simili a quello di Alex possono affrontare delle fasi di peggioramento - continua Biagioni -, ma anche avere degli straordinari e repentini miglioramenti, perfino quando sembra che le condizioni respiratorie siano pregiudicate». Insomma, «tutto può accadere e non bisogna mai arrendersi». Secondo il medico toscano la situazione dell'ex pilota di Formula 1 va divisa in due parti. «Quella neurologica può essere valutata solo più avanti - spiega -. Quella degli organi vitali invece può avere continue oscillazioni. C'è un'evoluzione costante dei parametri». Ogni previsione è quindi prematura. «Non è possibile fare un bilancio delle funzioni vitali in una fase così delicata. L'immobilizzazione stessa è un fattore di rischio anche per un soggetto sano, figuriamoci per chi ha subito tre interventi chirurgici come Zanardi. Ogni paziente risponde in modo soggettivo». Ma quanto può durare questa fase ondulatoria? «Anche sei mesi o un anno - risponde Biagioni -, dipende dal paziente e dai danni che ha subito. In questo periodo Zanardi è in pericolo di vita e lo sarà ancora fino a quando le oscillazioni diventeranno più leggere: solo allora la situazione diventerà stabile. Ma questo non significa che il paziente sarà guarito definitivamente». A quel punto ci sarà da esaminare il quadro neurologico. «Sì, quello prescinde dalla situazione clinica di Zanardi e deve essere valutato in seguito», conferma Biagioni. In altre parole ci sono soggetti fuori pericolo di vita che però devono essere poi valutati e assistiti per quanto concerne la riabilitazione neurologica. Come del resto insegna la storia di Michael Schumacher che, dopo anni dall'incidente sugli sci, non è in pericolo di vita ma viene seguito costantemente da un'équipe di riabilitazione. «Questo non significa che Zanardi vada in quella direzione. Ma la sua prognosi, se tutto andrà bene, potrà essere sciolta soltanto fra diversi mesi - conclude Biagioni -. Fino ad allora, Alex continuerà ad affrontare ogni giorno una situazione di rischio estremo».

Alex Zanardi: il medico che lo salvò: "Troppo ottimismo prima". Notizia.it il 25/07/2020. Alex Zanardi è di nuovo in terapia intensiva, il dottor Robusto Biagioni ha dichiarato: "Troppo ottimismo prima, non disperiamo ora". Nella giornata del 24 luglio 2020, Alex Zanardi è stato trasferito presso il San Raffaele a Milano in terapia intensiva. Questo a causa delle sue condizioni dichiarate “instabili”. Una notizia che ha gettato nello sconforto tutti i i fan dell’atleta. Eppure, in un primo momento, le condizioni di Alex sembravano migliorate. Il dottor Robusto Biagioni è il medico d’urgenza dell’elisoccorso, che ha salvato la vita ad Alex. Biagioni ha prestato all’atleta i primi soccorsi dopo l’incidente in handbike. Intervistato al Corriere, ha dichiarato: “Non bisogna esagerare con l’ottimismo ma allo stesso tempo neppure cadere nel peggior pessimismo”. Robusto Biagioni è il medico che ha stabilizzato Alex Zanardi subito dopo l’incidente, salvandogli letteralmente la vita. Sappiamo come la situazione clinica dell’icona azzurra sia ultimamente peggiorata. Il dottor Biagioni, ai microfoni di Corriere.it, ha dichiarato: “In questi casi, l’evoluzione clinica procede in un modo che definiamo ondulatorio. con riprese che vanno oltre le più ottimistiche aspettative e peggioramenti improvvisi che possono lasciare sconcertati”. In seguito: “Non bisogna esagerare con l’ottimismo ma allo stesso tempo neppure cadere nel peggior pessimismo se Alex ha avuto un aggravamento ed è tornato in terapia intensiva. Passaggi del genere potrebbero accadere ancora per un anno, la letteratura scientifica ce lo insegna”. Come sappiamo, Alex Zanardi era stato dimesso dal policlinico Le Scotte di Siena, per essere trasferito a Villa Beretta, per un lento percorso riabilitativo. Una notizia che aveva alimentato l’ottimismo nei confronti del pilota. Zanardi, subito dopo l’incidente in handbike, aveva lottato strenuamente tra la vita e la morte. In seguito, il 24 luglio la doccia fredda: un nuovo trasferimento per Zanardi al San Raffaele nel reparto terapia intensiva, poiché le sue condizioni risultavano di nuovo instabili. Nella struttura lombarda sono stati fatti nuovi accertamenti sull’atleta, nella speranza che i parametri vitali possano tornare stabili.

Da gazzetta.it il 27 luglio 2020. Sabato al San Raffaele di Milano Alex Zanardi è stato sottoposto a un quarto intervento chirurgico, per il trattamento di alcune complicanze tardive dovute al trauma cranico subito il 19 giugno, dopo l’incidente patito con la sua handbike contro un camion lungo la strada tra Pienza e San Quirico d’Orcia (Siena). Questo il comunicato dell’ospedale. “In merito alle condizioni cliniche di Alex Zanardi, l’Ospedale San Raffaele comunica che il giorno successivo al trasferimento presso la Terapia Intensiva Neurochirurgica, diretta dal professor Luigi Beretta, il paziente è stato sottoposto a una delicata procedura neurochirurgica eseguita dal professor Pietro Mortini, direttore dell’Unità Operativa di Neurochirurgia, per il trattamento di alcune complicanze tardive dovute al trauma cranico primitivo. Al momento gli accertamenti clinici e radiologici confermano il buon esito delle suddette cure e le attuali condizioni cliniche del paziente, tuttora ricoverato in Terapia Intensiva Neurochirurgica, appaiono stabili”.

Da ''La Gazzetta dello Sport'' il 27 luglio 2020. Il lavoro di stabilizzazione delle condizioni di Alex Zanardi continua. Dopo la grande paura di venerdì, dopo la notte e la giornata «serene» di sabato, sono queste le parole che riassumono quanto successo ieri al San Raffaele. Il campione paralimpico rimane ricoverato in terapia intensiva neurochirurgica al terzo piano del padiglione B dell' ospedale milanese, lì dove era arrivato venerdì pomeriggio da Villa Beretta di Costa Masnaga (Lecco) dopo che le sue condizioni erano diventate "instabili" per via di un' infezione batterica e di altre complicazioni. I medici della struttura brianzola, dove lo stesso Zanardi era stato trasportato martedì - dopo tre operazioni e più di un mese di ricovero a Siena - per iniziare a pianificare un possibile percorso di riabilitazione, avevano così deciso di trasferirlo in una struttura dotata di terapia intensiva. Le ore al San Raffaele trascorrono senza scossoni quindi, e per il momento va bene così. La famiglia mantiene il massimo riserbo sulle condizioni del campione e così fanno anche i medici. C' è coscienza del fatto che, per quanto la febbre sia passata e il respiro resti autonomo, «un paziente in terapia intensiva è delicato, può avere grandi miglioramenti e peggioramenti intensivi» come ripete da sempre il professor Luigi Beretta, primario del reparto del San Raffaele. Non resta che aspettare.

Il campione è ricoverato al San Raffaele di Milano. Zanardi, la perizia rivela: “Nessun problema da asfalto ed handbike”. Redazione su Il Riformista il 16 Settembre 2020. Nessun problema dal manto stradale e dal funzionamento della handbike di Alex Zanardi in occasione dell’incidente dello scorso 19 giugno. È quello che è emerso dalla consulenza sulla dinamica dell’incidente occorso al campione nel senese, tra Pienza e San Quirico, lungo la provinciale 146. Zanardi si scontrò contro un autocarro. Da quel momento è ancora ricoverato. La perizia quindi non evidenzia nessuna criticità particolare dall’asfalto e dal mezzo sul quale viaggiava Zanardi. Da quanto si apprende, le rotture rilevate sulla handbike sarebbero state causate proprio dall’urto contro il mezzo pesante.

LE CONDIZIONI – Dal 24 luglio il campione paralimpico è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano. Lo scorso 19 agosto l’ospedale faceva sapere che Zanardi “ha risposto con miglioramenti clinici significativi” alle cure intensive alle quali è stato sottoposto in seguito al ricovero. “Per questa ragione – si legge nella nota dell’istituto – attualmente è assistito e trattato con cure semi intensive presso l’Unità Operativa di Neurorianimazione, diretta dal professor Luigi Beretta”. L’ex pilota di Formula 1 era stato trasferito d’urgenza nell’ospedale milanese, dove era stato sottoposto all’ennesimo intervento chirurgico, soltanto due giorni dopo il trasferimento dall’ospedale di Siena alla struttura riabilitativa Villa Beretta nel Lecchese.

Giulia Baldi per "La Stampa" il 19 settembre 2020. Tre mesi fa le condizioni di Alex Zanardi erano «disperanti» ma, 90 giorni dopo, trapelano caute speranze dall'ospedale, «la situazione è buona, ha fatto un recupero importante». Tanto che da qualche settimana, respira da solo e non è neanche più sedato: il 18 agosto è passato dalla terapia intensiva alle cure semi intensive e da lì un lento viaggio che ha come destinazione il recupero. Al campione paralimpico è stata ridotta progressivamente la sedazione, fino alla sospensione completa. E da qualche tempo sta in un punto più riparato della camera dell'Unità Operativa di Neurorianimazione coordinata dal professor Luigi Beretta al San Raffaele di Milano, dove è ricoverato dallo scorso 24 luglio. Può persino ricevere delle visite con un protocollo più disteso. Oltre alla moglie Daniela e al figlio Niccolò, è andato a trovarlo spesso anche Claudio Costa, 79 anni, suo medico sportivo e diventato negli anni un grande amico, «abbiamo un rapporto simbiotico, un legame profondo». Lui è uscito rinfrancato da questi incontri: «Ha iniziato la fisioterapia neurologica che in medicina è quella fase in cui si aspettano le sorprese e i miracoli», e le parole gli danno coraggio: «Ho visto miglioramenti, dà risposte agli stimoli, stringe le dita, gli stanno rieducando la testa. Ha un fisico da fantascienza e una mente straordinaria, lo so che questa volta si parla del cervello, ma sono sicuro che lui saprà inventarsi qualcosa con quello che è rimasto». Dall'entourage del campione trapela pochissimo sulle sue condizioni cliniche. Attualmente Zanardi è stato sottoposto, grazie al team di neuroriabilitatori che opera insieme a quello di neurorianimazione, a una «riabilitazione cognitiva»: in sostanza, «viene sottoposto a stimoli visivi e sonori a cui reagisce con piccoli segnali, perlopiù naturali». Minimi passi avanti che consentono ai medici di essere prudentemente ottimisti rispetto al futuro. Per Costa, una delle fortune di Zanardi è la vicinanza della moglie: «Una donna formidabile, presente e capace di sopportare tutto, una figura chiave, la sua principale fonte di stimoli. Mi fa fatica a dirlo perché di lui ho una considerazione infinita, ma lei è persino più forte». Zanardi, dal 19 giugno, giorno dell'incidente in handbike in Val d'Orcia, è stato sottoposto a quattro interventi. I primi tre al Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, dove è stato ricoverato subito dopo lo scontro con il camion: un intervento d'urgenza alla testa, poi un secondo, il 29 giugno. La terza operazione, di cinque ore, è arrivata il 6 luglio, i medici hanno ricostruito minuziosamente il volto devastato. Il 21 luglio è stato dimesso dal centro senese per essere trasferito nel polo specialistico di Villa Beretta, dove avrebbe dovuto affrontare un lungo periodo di recupero e riabilitazione funzionale. Ma dopo soli tre giorni, per una febbre causata da un'infezione, le sue condizioni sono precipitate. Così, il 24 luglio, la corsa in ambulanza al San Raffaele e altra angoscia, altri esami, risonanze magnetiche, tac e test cognitivi fino all'ultimo intervento, tra il 26 e il 27 luglio, quando per la quarta volta in soli 36 giorni l'équipe del professor Pietro Mortini ha dovuto contrastare «le complicanze tardive dovute al trauma cranico». Altro buio che adesso sembra più penetrabile soprattutto per chi ci ha sempre creduto, come il dottor Costa: «Il giorno dell'incidente ho visto la mamma di Alex e le ho detto: "guarda che questo vive". Era disperata, ma mi è grata per quella speranza». Lui immagina un futuro nello sport per l'amico, e un futuro che inizia domani: «Sarò pazzo, ma di sogni non ce ne sono mai abbastanza e io vedo Alex alle prossime Olimpiadi».

Zanardi, la perizia del camionista: "La handbike viaggiava a 50 km l'ora". Pubblicato mercoledì, 07 ottobre 2020 da Laura Montanarisu La Repubblica.it. La consulenza della procura di Siena e quella del camionista alla stessa conclusione. Non così. La handbike di Alex Zanardi viaggiava sfiorando i 50 chilometri l'ora. E' uno degli elementi emersi dalla perizia della difesa del camionista Marco Ciacci, 44 anni al volante del mezzo pesante che stava risalendo la statale 146 tra San Quirico d'Orcia e Pienza. Il tragico incidente è avvenuto lo scorso 19 giugno quando il campione paralimpico che partecipava a una iniziativa benefica di Obiettivo Tricolore è rimasto ferito gravemente andando a sbattere contro l'autocarro che proveniva in direzione opposta: non c'era nessun problema tecnico alla handbike di Zanardi, concordano sia la perizia della procura sia quella della difesa del camionista, il pilota avrebbe perso il controllo a una curva e non c'è tra le cause nemmeno il cedimento dell'asfalto. La velocità della handbike era dunque entro i limiti consentiti e lo stesso per il camion che procedeva a 39 km l'ora. E' quanto emerge dalle valutazioni collimanti presenti in due consulenze depositate nella cancelleria della Procura della Repubblica di Siena: quella del professor Dario Vangi, consulente del procuratore capo Salvatore Vitello e del pubblico ministero Serena Menicucci, e quella del professore Mattia Strangi, perito di parte per la difesa dell'autotrasportatore di Castelnuovo Berardenga (Siena), al momento indagato per lesioni colpose. Nella dinamica dell'incidente descritta dal professore Mattia Strangi, docente di ricostruzione degli incidenti stradali all'Università di Bologna, Zanardi quando vide il camion proveniente in direzione opposta avrebbe tentato di girare verso destra per allontanarsi dalla parte centrale della carreggiata ma il suo veicolo sarebbe andato in sovrasterzo, cioè avrebbe avuto un principio di testa coda che avrebbe determinato il ribaltamento del mezzo. Zanardi così cade, finendo nella corsia opposta e battendo la testa contro il cerchione anteriore sinistro dell'autotreno.

Zanardi, battaglia di perizie: per la procura perse il controllo a 50 km/h. Per la famiglia scenario diverso. Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2020. Il tragico incidente del 19 giugno scorso nel quale è rimasto ferito gravemente Alex Zanardi, andando a sbattere contro un tir che proveniva in direzione opposta lungo la strada provinciale 146 tra San Quirico d'Orcia e Pienza, in provincia di Siena, sarebbe stato causato dalla perdita di controllo della handbike guidata dall'ex pilota di Formula 1. È quanto emerge, secondo quanto ha appreso l'Adnkronos, dalle valutazioni collimanti presenti in due consulenze depositate nella cancelleria della Procura della Repubblica di Siena: quella del professor Dario Vangi, consulente del procuratore capo Salvatore Vitello e del pubblico ministero Serena Menicucci, e quella del professore Mattia Strangi, perito di parte dell'autista dell'autocarro, Marco Ciacci, 44 anni, trasportatore, residente a Castelnuovo Berardenga (Si), al momento indagato per lesioni colpose. Il tir guidato da Ciacci, hanno evidenziato le due consulenze tecniche di Vangi e Strangi, viaggiava ad una velocità di 38 km all'ora, mentre il velocipede con a bordo Zanardi, che non ha evidenziato guasti meccanici, correva a 50 km all'ora, comunque sotto al limite di velocità massima consentita in quel tratto stradale. Nella dinamica dell'incidente descritta dal professore Mattia Strangi, professore di ricostruzione degli incidenti stradali all'Università di Bologna, Zanardi quando vide il camion proveniente in direzione opposta avrebbe tentato di girare verso destra per allontanarsi dalla parte centrale della carreggiata ma il suo veicolo sarebbe andato in sovrasterzo, cioè avrebbe avuto un principio di testa coda che avrebbe determinato il ribaltamento del mezzo. Zanardi così cadde, finendo nella corsia opposta e battendo la testa contro il cerchione anteriore sinistro dell'autotreno. La consulenza dell'ingegnere Dario Vangi, professore di progettazione meccanica e costruzione di macchine del Dipartimento di ingegneria industriale dell'Università di Firenze, tra i maggiori specialisti in infortunistica stradale, che ha ricevuto l'incarico dalla Procura, sostanzialmente coincide con la ricostruzione offerta da Strangi. C'è poi una terza perizia depositata in Procura, ed è quella della parte offesa, cioè della famiglia di Zanardi, che ha nominato l'ingegnere Giorgio Cavallin di Padova. Secondo quanto si è appreso il perito in questo caso offrirebbe un altro scenario, in cui apparirebbe determinante una presunta invasione della corsia da parte del camion, che invece le altre due consulenze tecniche non avrebbero rilevato. Adesso la parola passa alla Procura senese che dovrà decidere se ordinare nuove indagini sulla base delle consulenze depositate oppure definire il procedimento. In quest'ultimo caso il pm potrebbe chiedere l'archiviazione per l'indagato Ciacci (il procuratore Vitello finora ha sempre parlato di «un atto dovuto») oppure chiedere il rinvio a giudizio per lesioni colpose gravissime. Nel tardo pomeriggio del 19 giugno scorso, dopo l'incidente accaduto mentre stava partecipando alla manifestazione «Obiettivo Tricolore», con altri atleti paralimpici, Zanardi venne trasportato in elicottero al policlinico universitario dello Scotte a Siena dove fu operato e al termine dell'intervento neochirurgico sedato e posto in coma farmacologico. Le sue condizioni furono definite «gravissime» dai medici. Il 29 giugno è stato operato per la seconda volta al cervello. Sempre nell'ospedale senese è stato sottoposto ad un terzo intervento, questa volta di ricostruzione maxillo-facciale per il volto sfigurato dall'impatto con il camion, e otto giorni più tardi a un altro ancora. Il 16 luglio i medici senesi avviarono, in accordo con la famiglia, la progressiva riduzione della sedazione farmacologica di Alex Zanardi, che pochi giorni dopo ha portato alla sua uscita dal coma indotto.per iniziare un percorso di neuroriabilitazione. Il 21 luglio, dimesso dal policlinico di Siena, l'ex pilota di Formula 1, venne trasferito a Villa Beretta, nel Lecchese, un centro specialistico di recupero e riabilitazione funzionale. Pochi giorni dopo, il 24 luglio, Zanardi, è stato trasferito all'ospedale San Raffaele di Milano a causa di «condizioni instabili» e ricoverato nella terapia intensiva neurochirurgica. Il 27 luglio è stato sottoposto al quarto intervento chirurgico, «una delicata procedura neurochirurgica eseguita dal professor Pietro Mortini, direttore dell'Unità operativa di neurochirurgia, per il trattamento di alcune complicanze tardive dovute al trauma cranico primitivo». Lo scorso 19 agosto, dopo un periodo durante il quale è stato sottoposto a cure intensive, Zanardi «ha risposto con miglioramenti clinici significativi», come rese noto l'ospedale San Raffaele di Milano, riferendo che «per questa ragione» il campione era «assistito e trattato con cure semi intensive nell'Unità operativa di Neurorianimazione, diretta dal professor Luigi Beretta». Il 19 settembre i medici del San Raffaele hanno affermato che Zanardi stava «reagendo agli stimoli visivi e sonori». L'ultimo bollettino medico del San Raffaele è del 24 settembre: annunciava l'inizio di «un ulteriore percorso chirurgico volto alla ricostruzione cranio facciale. Un primo intervento è già stato eseguito con successo, alcuni giorni fa, dal professor Mario Bussi ed è già in programmazione per le prossime settimane, un secondo intervento che sarà eseguito dal professor Pietro Mortini».

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 14 ottobre 2020. Ancora un mese, forse qualche giorno in meno. È il tempo che la Procura di Siena si è imposta per analizzare le tre consulenze sull' incidente accaduto il 19 giugno scorso sulle colline senesi ad Alex Zanardi e decidere se ci sono responsabilità. Nell' inchiesta c' è un unico indagato per lesioni colpose, Marco Ciacci, l' autista del Tir (difeso dall' avvocato Massimiliano Arcioni) contro il quale, sulla provinciale 146 tra San Quirico d' Orcia e Pienza, si scontrò dopo essersi ribaltata l' handbike del campione paralimpico. «Non ci sono indiscrezioni, stiamo ancora lavorando» taglia corto il procuratore capo di Siena Salvatore Vitello. In realtà le indiscrezioni sulle indagini ci sono state, eccome. Ieri però sono iniziate a circolare nuove foto e disegni sulla posizione del Tir che avrebbe invaso leggermente la corsia opposta. Sono documenti contenuti nella consulenza del professor Dario Vangi, perito della Procura. Conclusioni che fanno riferimento a un video girato dal videomaker Alessandro Maestrini che su una Golf bianca decapottabile seguiva l' ex campione di Formula 1. Ad invadere di tre centimetri la corsia opposta sarebbe stata la parte posteriore dell' autotreno. È stata questa leggera sovrapposizione a provocare l' incidente? Il perito della Procura lo esclude. «Un secondo prima dell' urto la ruota anteriore della motrice risultava parzialmente sormontare la linea di mezzeria ma senza oltrepassarla -scrive Dario Vangi - mentre le ruote posteriori risultavano a cavallo della linea, oltrepassandola per alcuni centimetri». Ma, secondo il consulente la posizione non avrebbe provocato l' incidente, e la reazione di Alex Zanardi «avvenuta istintivamente dopo l' avvistamento della sagoma del camion» non sarebbe stata provocata da pochi centimetri di sormonto della linea di mezzeria delle ruote del mezzo pesante» e la «turbativa che ha portato Zanardi a sterzare a destra, provocando l' instabilizzazione dell' handbike, può essere stata provocata dalla sagoma del grosso autotreno comparsa dietro la curva a visuale limitata». Una posizione, simile a quella del consulente di parte che assiste la difesa del camionista, ma che non trova d' accordo il legale della famiglia Zanardi, l' avvocato Carlo Covi. «Non commentiamo le indagini - spiega Covi - tuttavia riteniamo che il video che riprende l' incidente dia risposte esaurienti e sul quale, quando sarà pubblico, tutto il mondo si potrà fare un' idea di che cosa è successo». Il legale spiega inoltre che il riserbo mantenuto è in linea con il tentativo «di interpretare la filosofia di Alex Zanardi, che si è sempre distinto per onestà intellettuale e rispetto delle regole». «La battaglia di Zanardi non è quella di vincere o perdere un processo - conclude poi l' avvocato Covi, con riferimento al quadro clinico del campione paralimpico - la sua battaglia è quella di restare vivo».

Dagospia il 21 dicembre 2020. Z come Zanardi: è l’ultima casella dell’alfabeto d’autore con il quale il prossimo numero di 7, eccezionalmente in edicola giovedì 24 e poi per due settimane, prende commiato dal 2020 e guarda alla vita che verrà. Ogni lettera dell’alfabeto è affidata a una grande firma del «Corriere». Interviste, spigolature, ritratti: ritroverete quello che è accaduto a noi e nel mondo, quello che vi ha colpito e commosso. Con uno sguardo già rivolto ai protagonisti del 2021. Da Kamala Harris a Ibrahimovic, dai congiunti a Zoom. Vi anticipiamo un ampio estratto del racconto dedicato da Carlo Verdelli alla missione (im)possibile del grande Alex.

Carlo Verdelli per corriere.it il 21 dicembre 2020.

Il recupero delle funzioni sensoriali. Vedere, vede. Sentire, sente. Parlare ancora no perché gli tengono per precauzione il buco nella trachea ma presto potrebbero chiudergli anche quello, come già hanno fatto con la scatola cranica dopo averla riparata frammento per frammento. E il cervello che ci sta dentro, tornato al sicuro, ha ricominciato a tessere i collegamenti, a recuperare una per una le meravigliose funzioni di cui è capace. Insomma, Alessandro Zanardi è vivo, e lotta come solo lui. Quanto alla faccia, la sua bella faccia appuntita con gli occhi blu, è tornata come prima, più di prima.

Recordman di resurrezioni. L’impresa impossibile sta diventando possibile. Trovando le forze chissà dove, andandole a pescare dentro abissi sconosciuti a noi umani, Sandrino da Bologna, professione pilota, recordman mondiale di resurrezioni, piano piano sta scalando il secondo Everest che gli si è parato davanti all’improvviso, e questa è una delle poche notizie buone di un anno cattivissimo. Il suo primo Everest è già leggenda. Non soltanto uscì vivo da un incidente che lo tagliò letteralmente in due, gambe da una parte e resto del corpo dall’altra, durante una gara automobilistica in Germania (era il 2001, aveva 35 anni), ma diventò addirittura più forte e più campione buttandosi come un pazzo nel mondo delle handbike, le biciclette da spingere a braccia. Quattro ori e due argenti olimpici, un’infilata di titoli, una fama da monumento vivente al non arrendersi mai, il proposito di concedersi una sfida ancora, Tokyo 2021, i primi Giochi dopo il virus. A 54 anni e passa.

Faccia a a faccia con la morte. Poi il fracasso della sua testa che si frantuma nell’impatto con un camion su una strada nella campagna senese, il 19 giugno di questo disgraziato Ventiventi, durante una tappa di una specie di giro d’Italia su due ruote, una cosa tra la beneficenza e la voglia di portare a spasso un po’ di gioia dopo mesi infami. La seconda montagna stregata lo aspetta dietro una curva cieca, maledetta e imprevedibile come la prima. E come la prima lo mette sguardo contro sguardo con la morte.

La sua terza vita. Stavolta è spacciato, le favole non concedono il bis. I primi soccorritori scuotono le teste. Ma il cuore batte ancora, la moglie Daniela si butta sopra il suo Alex come ad impedire all’anima di scappare via. «Stai qui, resta sveglio, sono io, guardami, guardami». Riesce a tenerlo cosciente, nonostante lo strazio di ritrovarselo, una volta ancora, sfregiato dal destino. Ma è proprio da quell’istante, dalla forza straripante di un amore che impedisce al niente di risucchiarlo, che Zanardi riparte per la sua terza vita. Sono in pochi a sperarci in quelle ore, conciato com’è, molto più di là che di qua. Ma passa la prima notte, poi la seconda, la terza. Il figlio Niccolò posta una foto della sua mano sopra la mano bianca e immobile del padre: «Lui è una tigre. Ce la farà».

L’infezione e la ripresa. E la tigre, ancora una volta, per la seconda volta, fa di tutto per non deluderlo, per non smentirlo. Come gli eroi dei fumetti dei bambini che si rialzano dopo ogni botta tremendissima, Zanardi ingaggia con il destino un’altra battaglia feroce e invisibile. Non si arrende neanche quando, dopo gli sforzi ultraterreni dei primi mesi, un’infezione lo riporta alla casella di partenza. Scivoli in parete e ti ritrovi spossato al principio della scalata. Altre operazioni, altri ospedali, il San Raffaele di Milano che ricompone con infinita pazienza e perizia il puzzle di un uomo scollato.

La forza di Daniela. E sopra ogni cura, sopra ogni chirurgo, in cima all’onda dell’affetto popolare che penetrando da sotto le camere di terapia intensiva carezza il corpo esausto del campione di tutti, dietro ogni disperante ricaduta e ogni impercettibile progresso, c’è una donna, Daniela, Manni Daniela in Zanardi, che ha sposato il suo Sandrino nel 1996 e da 24 anni, nella buona e nella più terribile sorte, lo risposa ogni giorno.

Le passioni comuni. Non troverete una sua intervista, una foto posata, un’ospitata in televisione. Lei c’è per lui e per il loro Niccolò, silenziosa, infaticabile, inavvicinabile non per spocchia ma per pudore. Una volta le dissero: «Che bel marito che ti sei trovata!». E lei: «Verissimo, ma a lui è andata meglio». Si erano conosciuti sulle piste di Formula 3. Daniela era manager di un team, bella competitiva, le gare seguite dal muretto. Sandrino, uno che attaccava le macchine ai muri piuttosto che rinunciare a un sorpasso. Stesso sangue, stesse passioni, caratteri simili, grandissimo amore. È grazie a Daniela se Zanardi è nato per la seconda volta, dopo la tragedia tedesca del Lausitzring. È grazie a Daniela se Zanardi è sulla buona strada per mettersi ai blocchi di partenza della sua terza vita. Lui non molla mai, lei non molla mai lui. Insieme, non c’è Everest che li scoraggi, per quanto tagliente. La prima domanda che la signora Daniela ha fatto ai medici dopo l’ultimo schianto non è stata «che ne sarà di lui, come resterà se sopravvive, a che futuro va incontro?». No, la prima e definitiva domanda è stata: «Possiamo salvarlo? E allora fate tutto quello che si deve».

I prossimi passi.  Il 21 novembre, Alex è stato trasferito nel reparto di neurochirurgia di Padova, vicino a casa (la famiglia Zanardi abita a Noventa, 8 chilometri).

Stringe la mano su richiesta.

Se gli chiedono di fare ok, alza il pollice.

Dov’è Daniela? E lui gira appena il capo verso di lei.

Non è certo la vetta ma almeno siamo ai piedi dell’arrampicata, che è già un risultato insperato. Al resto ci penserà la «tigre», un poco alla volta, un centimetro dopo l’altro, a forza di braccia e cuore, fino al traguardo. Il prossimo passo, a cui i medici danno molta importanza, sarà quello di riuscire a tirare fuori la lingua. Non lo vedremo, non ce lo diranno. Ma quando succederà, perché succederà, sembrerà uno sberleffo al dio crudele che dall’Olimpo ha preso così tanto di mira il figlio pilota di una sarta e di un idraulico.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2020. Il giorno stesso in cui tornò a casa senza le gambe, Alex Zanardi volle sfidare suo nipote a nascondino. Prima si infilò nel caminetto. Poi avvicinò due sedie e ci si sdraiò sopra, coprendosi con un plaid. Infine, si mimetizzò dentro il portavivande. La sera, il nipote confidò alla madre: «Da grande voglio guidare una macchina da corsa e non avere le gambe come lo zio». Alex sostiene che, dei tanti complimenti che ha ricevuto, quello rimane per distacco il più bello. Il complimento di un bambino a un uomo che, per rinascere, ha saputo tornare bambino. Zanardi suscita meraviglia in chiunque, però non hai mai fatto pena a nessuno. Forse perché il primo a non avere mai provato commiserazione per sé stesso è lui. Ogni volta che ci incontriamo, mi interroga sulla sua famosa Regola dei Cinque Secondi, tanto che oramai la conosco a memoria: «Quando in una gara ti accorgi di avere dato tutto, ma proprio tutto, tieni duro ancora cinque secondi, perché è lì che gli altri non ce la fanno più». Lui non si limita a declamarla. La applica nelle corse, contro avversari che ormai hanno la metà dei suoi anni. E la applica nella vita, da quando è nato e da quando è rinato, dopo che un incidente lo ha tagliato in due e in un letto d’ospedale tedesco è stato costretto a decidere se pensare alla metà di corpo che gli era rimasta o a quella che aveva perduto. Nessuno più di lui avrebbe diritto di passare il tempo a lamentarsi e a maledire il destino, che per Zanardi ha sempre avuto la forma di una striscia d’asfalto: sua sorella morì in un incidente automobilistico, in un altro Alex lasciò una parte di sé, ed è su una strada in leggera discesa che ieri è andata a sbattere contro un camion quella sua adorabile testa dura. Potrebbe lamentarsi, ma non lo fa. Lo considera uno stupido dispendio di energie. Alla tentazione del vittimismo ha sempre opposto lo scudo dell’autoironia: «Sono così emozionato che mi tremano le gambe» è una delle sue battute preferite e la pronuncia rimanendo serissimo, come i comici veri. Ogni volta che lo si guarda o lo si sente parlare, non si può fare a meno di pensare che tutti, dentro, ci sentiamo simili a come Zanardi è fuori: derubati di qualcosa e costretti a spingere. Solo che lui, dentro, è come noi purtroppo non ci sentiamo quasi mai: completo, sicuro di sé e animato da una passione implacabile per la vita che lo porta a concentrarsi su tutto ciò che fa, e a goderne, come se lo stesse sempre facendo per la prima volta. Se chiudo gli occhi, lo rivedo alla maratona di Venezia trascinare per oltre quaranta chilometri un amico malato di Sla e scendere dalla carrozzina a un metro dal traguardo per sospingerlo in avanti, saltellando sui moncherini come se fossero delle molle. Ha imparato a giocare con tutto ciò che avrebbe potuto farlo disperare. Al David Letterman Show arrivò ad appoggiarsi una tazza di tè sulla protesi per illustrare i vantaggi della sua condizione. E il pubblico americano, che per queste cose va pazzo, gli tributò un’ovazione. Una volta ha detto che non vorrebbe riavere indietro le gambe per paura di non riuscire a essere altrettanto felice, ma io non so se credergli. Quelli come lui coltivano la felicità alla stregua di una vocazione e sanno stare bene con sé stessi in qualunque stato. Alex sarebbe Zanardi anche con le gambe. Senza, è semplicemente più utile a noi, che vorremmo avere il suo stesso sguardo meravigliato sul mondo e la sua stessa ostinata allergia per la parola «limite». Alex Zanardi, detto Zanna, è illimitato: che non significa presuntuoso, ma solo talmente vasto da avere inglobato tutti i confini della natura umana. Roberto Vecchioni gli ha cucito addosso un verso su misura: «Se non posso correre né camminare, imparerò a volare». E anche a giocare a nascondino con la vita, infondendovi la gioiosa serietà di un bambino. La sua canzone preferita è «Don’t stop me now» dei Queen e in chiusura gliela sparo idealmente a pieno volume nelle orecchie. Non fermarti ora, Alex.

Estratto dell'articolo di EMANUELA AUDISIO per la Repubblica il 20 giugno 2020. Ha cambiato l'immagine dell'uomo senza gambe. Quando il futuro sembrava fratturato lui l'ha rimesso in piedi. Ha costretto lo sport a non scartare i corpi amputati, dimezzati, zoppi. Non perché fanno pena, ma perché anche così valgono. E ha detto una frase che dovrebbe stare nelle scuole: «È disabile chi ha poca stima di sé» (...) L'ha sempre dichiarato: «Io sono drogato di sport, di sfide. Anche se c'è da aprire un barattolo che non si apre: per me diventa subito un braccio di ferro con il coperchio». Ha dimostrato che si possono perdere «solo» le gambe, ma resta la testa, il fegato, il cuore. Che lo sport ti rompe il corpo, ti sbatte fuori, ma tu puoi provare a riparare il tuo destino, a tornare intero con la voglia e la fantasia. Anche se hai avuto una vita immensa e dolorosa: Alex ha perso la sorella, morta a 15 anni per un incidente stradale, il padre poco prima di vincere due mondiali di formula Cart (Championship auto racing teams) nel '97 e '98, le gambe a poche gare dalla fine di quella che aveva già deciso essere la sua ultima stagione. Senza parlare dei sette arresti cardiaci, delle 15 operazioni in anestesia totale, durata media di tre ore. Un tipo capace di scherzare sulla fama raggiunta: «Dopo l'incidente sono diventato un personaggio strano, un misto tra Padre Pio e Raffaella Carrà». E anche di cambiare idea: «Quando per la prima volta ho visto quel film, Nato il 4 luglio, con Tom Cruise ridotto su una carrozzella dalla guerra, ho pensato: se succede a me, mi ammazzo» (...)

Estratto dell’intervista di Gino Castaldo per la Repubblica il 20 giugno 2020. Non ci crede, non può crederci, lui che ad Alex Zanardi ha dedicato una delle sue più belle canzoni, Ti insegnerò a volare, appena due anni fa, un brano per cui aveva scomodato addirittura il suo grande amico, il professor Francesco Guccini, che di collaborazioni di solito non ne fa e menché meno in questi ultimi anni: «Quella canzone è stata una piccola rivoluzione» racconta Roberto Vecchioni, sconvolto dalla notizia dell'incidente del campione emiliano, «ha colpito un sacco di gente, anche molti giovani, è pazzesco pensando a quello che è successo, mi fa pensare al destino, sembra quasi il personaggio di Samarcanda, lui che sfidava la morte tutti i giorni va a sbattere contro un veicolo qualsiasi». (...) "L'ho visto come un vero Ulisse, un Odisseo che non si fermava mai, sempre col bisogno di un traguardo da spostare più in là. uno di quegli eroi che rimangono sottopelle, non come i divi alla Celentano o Maradona, lui lo conoscono tutti, non è mai eclatante, ma è amato da tutti. Un eroe silenzioso, di quelli che non fanno rumore. È intelligente e colto anche se nella percezione esterna prevale il lato fisico. È uno di quegli uomini che mi porterei su Marte, per presentare al meglio agli alieni il genere umano».

Carlo Verdelli per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2020. La verità è che Zanardi non è uno di noi. Zanardi è quello che ognuno di noi vorrebbe diventare nel più spericolato e temerario dei sogni. E adesso che per un'altra volta giace a corpo sfigurato sulla sottile linea d'ombra che separa vita e morte, ci aggrappiamo al suo lettino, implorando il destino di non portarcelo via, di lasciarci il nostro sogno impossibile: svegliarci domattina con un po' di Zanardi nel sangue, nel cuore. Appena un po', che Sandrino da Bologna, in arte Alex, è un essere inarrivabile, l'Ufo Robot di quando eravamo bambini, il primo cavaliere di qualsiasi tavola rotonda. A 53 anni e mezzo, uscito indenne anche dal Covid, si era messo in testa un'idea delle sue. L'idea era una staffetta ciclistica a scopo benefico, dal Lago Maggiore a Santa Maria di Leuca, per ricucire da nord a sud un'Italia disunita e disorientata dal virus. Il suo ultimo video, alla partenza della tappa fatale tra Siena e Montalcino, dove mostra un cuore tricolore di panno regalato dai tifosi, è un inno alla gioia e alla speranza: «Solo in Italia accadono certe cose. Grazie, ragazzi, vi voglio bene. E ora via, che la strada è lunga». E mentre spinge con braccia poderose la sua handbike, a metà percorso scambia due parole con Paolo Bianchini, un produttore di vino: «L'ho affiancato con l'auto un minuto prima del botto. Mi ha detto che era l'uomo più felice del mondo perché stava pedalando in un paradiso». Un minuto prima. Un minuto dopo, l'inferno. Il siluro a tre ruote che si ribalta, un camion con rimorchio che arriva nell'altra corsia, la moglie Daniela che si precipita sul corpo del suo Sandrino e fa da scudo per paura che lo schiaccino altre macchine, prima che arrivino i soccorsi. Il resto di queste ore, operazione d'urgenza, coma farmacologico, condizioni gravissime, sembra la ripetizione di uno strazio già visto. Circuito del Lausitzring, tra Dresda e Berlino, 15 settembre 2001, quattro giorni dopo le Torri Gemelle, quattro mesi dopo la morte, sulla stessa pista, di Michele Alboreto. Zanardi è in testa, mancano tredici giri alla fine. All'improvviso la sua Reynard Honda si imbizzarrisce, si gira, si rigira, finisce orizzontale alla pista, disarmata e immobile, la disposizione perfetta per essere tagliata a metà da un altro bolide che le arriva dentro a 320 chilometri all'ora. Dirà Zanardi: «Devo aver realizzato qualcosa solo quando, a un certo punto, dall'abitacolo ho visto che non c'era più la parte davanti della macchina e nemmeno le mie gambe». Amputazione bilaterale. Resta con un litro di sangue, affronta sette arresti cardiaci e quindici interventi chirurgici. Si salva, infila le protesi, ricomincia una seconda vita. Dopo aver corso indiavolato dai go-kart alla Formula 1, continua a darci dentro, stavolta pedalando come un forsennato con le mani. Con l'handbike si regala 4 ori olimpici e 12 mondiali, più un record mostruoso alla maratona di New York (un'ora, 13 minuti e 58 secondi). Una forza bruta. Anzi, una forza buona. Che scaturisce da dove? «Beh, ho pensato alla metà di me rimasta, non a quella che avevo perso». Gli eroi son tutti giovani e belli. Lui non è più giovane da un pezzo, ma è bellissimo, con due clamorosi occhi blu e un sorriso mite che nessuna delle molte folgori che l'hanno bersagliato è riuscita a incenerire, indurire, mutare in ghigno. Resisti anche questa volta, campione. L'hai già fatto quando un incidente stradale si è portato via Cristina, tua sorella in fiore, a quindici anni, e quando tuo padre Dino, idraulico, da cui hai ereditato le mani grandi e la passione per la meccanica e i motori, dopo averti seguito in ogni circuito della Terra, ti ha lasciato poco prima che tu vincessi i due titoli mondiali nella formula Cart (una volta si chiamava Indy). L'hai fatta, l'impresa di resistere, dopo il piovoso sabato tedesco del Lausitzring, per l'amore di un'anima inseparabile come Daniela e per poter riportare tuo figlio Niccolò, allora di tre anni, sulle spalle. Fallo ancora per noi, che a persone come te o come Bebe Vio dovremmo guardare appena ci lamentiamo con dio per ogni niente. Adesso che l'indomabile Zanardi dorme chissà quale sonno nella terapia intensiva del Santa Maria delle Scotte di Siena, devastato da un «fracasso facciale» che spaventa solo a immaginarlo, la speranza è che gli venga in soccorso l'aiuto di pensieri lontani. Fotogrammi del passato che hanno contribuito a farlo diventare quello che è, e che noi, ammirandone la caparbia ribellione alle malesorti, ameremmo essere. L'amico Paolo Barilla, per esempio, che gli è stato vicino nella seconda vita da atleta disabile, gli diceva che era una testa di kaizen, che sembra una presa in giro mascherata, ma è invece l'unione di due parole: «kai», cambiamento, e «zen» miglioramento. Guardare la parte rimasta e lavorare duro per cavarne il meglio, senza restare imprigionati nel fantasma di quel che si è perduto. C'è un'infanzia dolce dietro al carattere d'acciaio di Sandrino, con una madre, Anna, sarta laboriosa, a cui lui dice di somigliare molto. Da piccolo, di notte, sentiva il ticchettio della sua macchina da cucire, camicie su misura, asole fatte a mano; se faticava a prendere sonno, la raggiungeva nella stanza con una coperta, lei gli cantava qualcosa sottovoce, e lui si addormentava rassicurato sul divano. E poi papà Dino, che gli regalò il primo go-kart, da cui tutta questa storia comincia. Una volta, prima di andare a scuola, Sandrino gli chiese: come faccio a far avverare i miei sogni? Lui gli rispose con una piccola perla di saggezza: «Ascoltando, innanzitutto. Se parli tu, non ascolti. E se non ascolti, non impari». Tacendo, Alex deve avere imparato cose preziose della vita. Anche se probabilmente non è la saggezza la caratteristica più spiccata di Zanardi, che anzi era una testa caldissima in pista, uno che ha appiccicato un sacco di macchine ai muri, che aveva solo le marce alte in testa e che si infilava anche in fessure impossibili per tentare un sorpasso. Il pubblico amava il suo ardire, specie gli americani, amava l'italiano che dà spettacolo o che butta via un podio per una botta di sfortuna o una guasconata. Ma non è per questo vincere o perdere in macchina che c'è un'Italia sospesa a trepidare sulle sorti di un ex ragazzo, diventato un'ispirazione per chiunque si trovi davanti un muro, che sia fisico o meno, apparentemente invalicabile. Il motivo di questo sentimento collettivo l'ha spiegato lui stesso quando gli chiedevano che cosa fosse cambiato tra la prima vita che si è costruito e la seconda che si è regalato. «A parte quattordici chili di gambe in meno?». A parte. «Quando correvo vicino ai 400 all'ora sulle piste di tutto il mondo, ero io da solo. Adesso, su quell'handbike, c'è il mio Paese che spinge con me. Sento che la gente mi vuole bene. Anche se in fondo non ho fatto niente di speciale: a un certo momento, ho preso la bicicletta e ho pedalato». Sandrino Zanardi da Bologna, l'uomo che visse due volte. Entrambe col sorriso, nascondendo il pianto. Ti preghiamo: facciamo tre.

Claudio Arrigoni per corriere.it il 21 giugno 2020. Quel giorno è rimasto nella memoria collettiva di tutti. Sliding doors come a volte capitano, ma così certo a pochi. Perché in pochi secondi Alex Zanardi rimase con un solo litro di sangue in corpo e senza entrambe le gambe, maciullate e tagliate. Le speranze dei medici erano molto vicine allo zero. «Mi hanno studiato anche alla Nasa»: Alex quando lo ricorda ci scherza su. Ma era vero. Era il 15 settembre del 2001. Il circuito quello del Lausitzring, in Germania. Alex aveva ripreso a guidare quell’anno nella categoria CART, negli Stati Uniti, dove aveva già corso tra il 1996 e il 1998 (vincendo per due volte il titolo, nel ‘97 e nel ‘98). Era poi tornato in Formula 1: ma l’esperienza con la Williams gli aveva lasciato diverse delusioni, più per mezzi non all’altezza che per demeriti suoi. Così si era preso qualche tempo per fermarsi e riflettere. Ma non riusciva a stare lontano dalle auto. Così aveva deciso di tornare nel campionato americano, nel 2001. Con una scuderia nuova, quella di Mo Nunn. Inesperta, ma motivata. Quel giorno di metà settembre il tempo non era dei migliori. Quattro giorni prima c’era stato l’attacco terroristico alle Torri Gemelle, ma gli organizzatori non fermarono la corsa, come era avvenuto in altre manifestazioni. Vollero che fosse un «American Memorial», come denominarono la gara. Le qualifiche vennero cancellate per la pioggia e si partì nell’ordine di classifica di quel Mondiale, dove Alex non era messo benissimo e quindi prese lo start dalla ventiduesima posizione. Come sempre, questo non lo fermò: una rimonta straordinaria, fino alla testa della gara. Mancavano tredici giri al termine. Alex si ferma per l’ultima sosta. Sta uscendo dai box, perde il controllo della vettura, probabilmente per le condizioni della pista, dove pare ci fosse olio mischiato ad acqua. Stavano arrivando due auto. Quella di Patrick Carpentier riuscì ad evitarlo, ma non ce la fece Alex Tagliani. Un impatto tremendo contro la parte frontale della Reynard Honda di Zanardi. Gambe subito amputate, sangue che colava. L’intervento di Steve Olvey, responsabile medico della Cart, lo bloccò, chiudendo le arterie femorali. Alex fu portato in elicottero all’ospedale di Berlino. Quattro giorni di coma farmacologico, sei settimane di ricovero e quindici operazioni. Si svegliò e trovò accanto la moglie Daniela, sempre al suo fianco ovunque gareggiasse. Fu lei a dirgli subito la verità sulle sue condizioni. Alex le chiese se fosse ancora in pericolo di vita. «No», rispose lei. Lui la guardò con l’amore di sempre: «Allora affronteremo tutto questo». Lo fecero nel migliore dei modi, tanto che poi Alex, quando ricorda quel momento, lo definisce «la più grande opportunità della mia vita».

Alex Zanardi: “I cambiamenti sono sempre difficili da accettare”. Notizie.it il 21/06/2020. Durante il lockdown Alex Zanardi aveva voluto mandare un messaggio di incoraggiamento e speranza. Coinvolto in un incidente stradale durante una gara di beneficenza, in provincia di Siena nel pomeriggio di venerdì 19 giugno, Alex Zanardi è attualmente in coma farmacologico e continua a essere sottoposto a ventilazione meccanica con i parametri vitali costantemente monitorati. Un grave incidente, quello in cui è rimasto coinvolto il campione paralimpico, che il 15 settembre 2001 aveva già dovuto fare i conti con un altro gravissimo incidente con il Cart che gli costò l’amputazione di entrambe le gambe. Alex Zanardi, però, non si è mai arreso e anche durante il lockdown a causa dell’emergenza coronavirus aveva voluto mandare un messaggio di incoraggiamento e speranza. Ambassador di Bmw Italia, nell’ambito della campagna #InsiemePerRipartire, il campione paralimpico attraverso un video messaggio risalente a marzo aveva dichiarato: “Ciao gente, so che è un momento difficile, in cui tutti abbiamo dovuto cambiare di molto le nostre abitudini. E i cambiamenti, soprattutto quelli che ti stravolgono la vita, sono sempre difficili da accettare – io ne so qualcosa”. Per poi aggiungere: “Eppure, è proprio nelle difficoltà che la nostra vera forza si svela e lo spirito con cui tanti italiani stanno affrontando questa sfida è coinvolgente. Io voglio anche credere che questa possa essere l’opportunità capace di renderci persone migliori. Per cui, tenendo le dovute distanze, cerchiamo di rimanere uniti per affrontare assieme questa sfida enorme e buttarcela al più presto alle spalle. Dai che ce la facciamo!”.

Alex Zanardi ricorda il suo dramma: "Supplicai perché mi ripiantassero quel tubo in gola". Alex Zanardi ha voluto motivare i suoi seguaci in questo momento di difficoltà ricordando il momento più difficile della sua vita, quando gli tolsero il respiratore e l'aria sembrava potesse abbandonarlo da un momento all'altro. Francesca Galici, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. Alex Zanardi, il guerriero. L'ex pilota di Formula Uno è un esempio di coraggio, forza e determinazione fin da quando, in un giorno di settembre del 2001 la sua vita è cambiata per sempre. Per gli appassionati di corse è impossibile dimenticare quanto avvenuto nel circuito del Lausitz, quando l'auto di Alex Zanardi venne travolta e tranciata in due sull'anteriore. L'impatto che strappò il muso della sua auto, si portò via anche le sue gambe ma non la passione e la voglia di vivere del grande campione, che dopo aver visto la morte in faccia a causa di quel terribile incontro del destino non ha mai smesso di vivere al meglio ogni suo giorno, motivando gli altri a fare altrettanto. Sopravvivere a un incidente come quello, quando in corpo non resta che un litro di sangue, non è da tutti. Per alcuni si è trattato di un miracolo, per altri della grande forza di volontà del campione che non si è mai arreso. Nonostante la menomazione, Alex Zanardi si è rimesso in piedi, nel verso senso della parola, e ha continuato la sua attività sportiva. Dopo qualche anno è diventato campione di paraciclismo e a pochi mesi da quel terribile incidente si è anche rimesso alla guida dei suoi amati bolidi. L'ironia, ma soprattutto l'autoironia, sono stati fedeli alleati della sua nuova vita, una rinascita che è diventata un esempio motivazionale per milioni di persone. Sono tantissime le sfide che Alex Zanardi ha dovuto affrontare nella sua vita, la maggior parte delle quali, le più difficili, dopo il 15 settembre 2001. Eppure il campione non ha mai perso il sorriso e l'ottimismo, nemmeno nei giorni più complicati. La sua esperienza di vita e il suo irrimediabile ottimismo anche in questo momento difficile sono di ispirazione per tantissime persone, che sui social lo seguono e attingono e piene mani dai suoi consigli e dalle sue riflessioni. Solo pochi giorni fa, sul suo profilo Twitter, Alex Zanardi scriveva: "Forse, la stessa speranza che possa accadere, può farci cogliere nella deviazione obbligata l'opportunità per guidare verso un orizzonte migliore migliore. A me è accaduto." Un messaggio forte, di incoraggiamento nei confronti di chi in questo momento ha troppa paura per cercare di cogliere anche solo un lato positivo di quanto sta accadendo nel pianeta. La conferenza di Giuseppe Conte dello scorso 26 aprile ha gettato nello sconforto milioni di italiani, che illusoriamente si aspettavano un ritorno alla quasi normalità già dal 4 maggio. A tutti loro, a chi purtroppo vede la sua attività crollare a picco e non vede una via di uscita, a chi scalpita per tornare ad abbracciare gli affetti, Alex Zanardi ha voluto rivolgere un pensiero. Il pilota ha voluto ricordare il momento più difficile della sua vita, quella sensazione impossibile da dimenticare quando il respiro sembra abbandonarti, e forse lo sta per fare. Un momento che tantissimi malati di coronavirus purtroppo vivono e che anche lui ha conosciuto dopo l'incidente: "Il momento più difficile della mia vita? Quando a Berlino mi tolsero il respiratore. Il tentativo andava fatto, ma io ricordo le lacrime e lo sforzo per supplicare i dottori che mi ripiantassero quel tubo in gola. I guai di tanti crescono, è vero. Ma per ora, #abbiatepazienza." Una metafora, quella di Alex Zanardi, per spiegare come sia necessario, a volte, fare delle scelte difficili per ripartire, o almeno provarci, e capire se sia già possibile farlo.

Da corriere.it il 28 dicembre 2020. Andrea Dovizioso e Jorge Lorenzo non si sono mai amati fin da quando erano avversari da ragazzini. Non c’era motivo perché questo Natale — il primo in cui entrambi non devono pensare alla prossima stagione (Jorge si è ritirato a fine 2019, Andrea è entrato in sabbatico dopo il recente addio a Ducati) — migliorasse la situazione, che, anzi, è ulteriormente peggiorata. Aveva cominciato, con toni tutto sommato pacati, Andrea Dovizioso in un‘intervista a Dazn: «Non capisco che problema abbia Jorge verso di me: continua ad attaccarmi nelle interviste, anche se negli ultimi due anni è finito sempre dietro di me: dall’alto dei suoi titoli potrebbe forse anche evitare». Tecnicamente, Dovi ha ragione: nei due anni condivisi in Ducati, il 2017 e il 2918 in cui lui è arrivato due volte secondo nel Mondiale dietro Marquez e lo spagnolo 7° e 9°, il bilancio di vittorie è 10-3 per l’italiano, con l’aggravante di alcuni comportamenti non proprio solidali di Jorge in pista quando si trattava di sostenerlo — o perlomeno non ostacolarlo — nella corsa al titolo. Quanto alle opinioni, se quella di Dovi è in fondo soft, quella di Lorenzo è durissima.

«Invidioso dei soldi». Lo spagnolo infatti non l’ha presa bene e il giorno di Santo Stefano ha risposto con durezza via Instagram da Dubai , dove trascorre ormai molta parte del suo tempo fra auto di lusso e gite sui cammelli:«Dovizioso è invidioso di me dai tempi della 250 — ha scritto Jorge — sappiamo entrambi che è un astio che non risale alla Ducati, però quando ho accettato la chiamata della Ducati ho voluto dare un’opportunità al nostro rapporto». Prosegue il Por Fuera: «Nella prima stagione da compagni di squadra in Ducati andavo a complimentarmi con lui sotto il podio, ma in cambio da lui ricevevo solo parole negative, anche dopo un ritiro fortuito dovuto a un guasto meccanico. Capisco che gli abbia fatto male che la Ducati abbia deciso di puntare su un campione (Lorenzo ha vinto 5 titoli mondiali, Dovizioso uno, ndr) e dargli uno stipendio 12 volte superiore al suo, ma la realtà è che l’ho battuto in 250 e in nove anni di MotoGp, compresi quelli in cui guidavamo una Yamaha».

«Non mi piaci». Lorenzo continua con la sua versione dei fatti: «Nel secondo anno in Ducati, appena ho avuto una moto che assecondasse le mie caratteristiche, l’ho battuto ancora, superandolo pure in classifica. Sfortunatamente, un infortunio ha rallentato il mio processo di crescita». La conclusione di Jorge è, come spesso gli accade, sopra le righe: «Quindi, “caro” Andrea, tu sai bene il motivo per cui non mi piaci: non perché mi hai battuto nel primo anno, quello di ambientamento, che era anche una cosa normale, e sai benissimo che se avessi continuato a guidare la Ducati con te come compagno di squadra, ti avrei sconfitto. Buon Natale».

PAOLO LORENZI per il Corriere della Sera il 25 agosto 2020. Non è un acrobata e nemmeno uno stuntman pagato per rischiare la vita. Maverick Viñales è però un pilota che sa cosa comporta correre a velocità proibitive. Istinto e riflessi sono il suo paracadute contri gli incerti del mestiere. Domenica in Austria ha prosciugato tutto il sangue freddo che aveva, ma buttarsi da una moto ingovernabile a 220 orari resta un'impresa. Se c'è un segreto, è un mistero per la gente comune. I piloti di oggi sono atleti perfetti, preparati fisicamente e reattivi come pochi. Cadere fa parte del gioco, ragionare in frazioni di secondo è un talento affinato dall'esperienza. A suon di scivolate imparano a restare calmi anche nei frangenti peggiori. Marquez, per esempio, è un maestro dei recuperi impossibili. Non gli è riuscito a Jerez un mese fa, ma in altre occasioni ha evitato il peggio sfoderando l'agilità di un gatto. Perché i professionisti delle due ruote conoscono il pericolo e sono preparati ad affrontarlo. «Io, comunque, non l'avrei fatto» ha ammesso con ammirazione Giacomo Agostini, il re del motociclismo di un tempo, quando la velocità era inversamente proporzionale al rischio. Forse si correva di meno, ma in circuiti più pericolosi e l'eventualità di lasciarci la pelle era infinitamente più alta. «Restare senza freni è una delle paure più grandi. Maverick è stato bravo e lesto» ha detto Valentino Rossi che in Austria ha patito gli stessi problemi. Nessuno usa la parola fortuna. «In quei momenti non pensi a nulla - ha spiegato lo spagnolo con la naturalezza di chi racconta un fatto qualsiasi -. È puro istinto». La scena rivista mille volte, però, fa sempre impressione. La Yamaha lanciata in pieno rettilineo, lui che prova a frenare e in un attimo intuisce il pericolo, mentre le barriere gli corrono incontro. Il pilota che si butta giù, la moto che prosegue fino a schiantarsi in una nuvola di fumo, le fiamme che lambiscono i detriti. Solo un pilota può comprendere l'essenza del suo gesto. «Maverick è stato un grande, è caduto in un punto tosto, ma credo che tutti avrebbero fatto lo stesso. Può capitare, lo sappiamo» ha raccontato il giorno dopo la sua prima vittoria in Moto 2 Marco Bezzecchi, l'altro eroe, insieme a Celestino Vietti vincitore in Moto3, di una domenica memorabile. «Un episodio simile mi era successo nei test invernali a Jerez. In quarta piena, alla curva numero 5, non ho sentito più i freni e mi sono lanciato». In quel punto c'era un po' d'erba, gli è andata bene. «La competizione ha raggiunto livelli altissimi e bisogna curare ogni dettaglio - continua il romagnolo -. In gara devi sempre mantenere la calma, se ti fai prendere dalla foga sbagli». Ogni scivolata aiuta a crescere. «L'esperienza non si compra» aggiunge. Soprattutto, dicono gli interessati, quando capita di cadere bisogna risalire subito in sella. Abbassare la visiera e lasciare a casa i dubbi. L'istinto è importante, ma se il raziocinio dovesse farsi largo, diventerebbero uguali a tutti gli altri.

 Paolo Lorenzi per corriere.it il 26 agosto 2020. Mettersi nei suoi panni è impossibile. Immaginarsi in sella a un moto senza freni a 220 km orari mette i brividi. Eppure Maverick Vinales domenica scorsa, in Austria, è saltato giù dalla sua Yamaha senza pensarci. L’istinto di chi è preparato a reazioni immediate; la differenza tra salvarsi la vita e schiantarsi contro le barriere. Una miscela di coraggio e riflessi eccezionali. Con un pizzico di fortuna, che aiuta sempre, come la volta prima, sempre in Austria, quando la Ducati di Zarco gli è passata a un nulla dal casco, dalla testa. Solo chi corre a 300 all’ora può spiegarlo.

Come è stato il risveglio il giorno dopo?

«Io dormo sempre abbastanza bene. Perché ormai sono abituato al pericolo. Fa parte della mia vita, ci convivo. Ogni pilota sa che può capitargli una cosa simile».

È più lo spavento per quanto è successo o la rabbia per i punti persi?

«Lo spavento passa subito. La rabbia resta perché avevo l’opportunità di fare punti importanti per il Mondiale».

Come si fa a rimanere così lucidi e reattivi?

«Bisogna restare sempre molto concentrati, in ogni istante. Faccio questo sport fin da bambino e per me col tempo è diventato una cosa naturale. Se vuoi correre al limite serve molta determinazione. Soprattutto nelle qualifiche. Quando si spinge al massimo e ogni fibra del tuo corpo è impegnata all’estremo: fondamentale essere attenti a tutto».

L’allenamento aiuta?

«Vado in palestra, corro in bicicletta, faccio molta attività fisica. Ma stare in sella alla moto è diverso e molto istintivo, proprio perché l’ho sempre fatto. Non c’è un segreto. Viene tutto di conseguenza correndo a 300 all’ora».

L’esperienza insegna?

«Ogni volta che si cade ciò che conta è capirne il motivo. Individuarne la causa, cercarne il senso. E se non ti sei fatto nulla, monti di nuovo in sella e ci provi un’altra volta...».

Ha scoperto perché i freni l’hanno mollato?

«Ho perso una delle pastiglie (l’elemento che preme sul disco freno, ndr). Era troppo consumata ed è saltata via. La settimana prima avevo utilizzato lo stesso impianto senza problemi. Non ho avuto nessuna avvisaglia in prova. Difficile capire come mai l’inconveniente è capitato proprio durante la gara successiva».

Altri piloti hanno utilizzato una nuova pinza freno. Lei no, come mai?

«L’ho montata nelle prove sabato, ma non mi ha convinto. Non frenavo come volevo».

Le era mai capitato di dover saltare giù dalla moto?

«Mi era già successo, ma per altri problemi tecnici. Per esempio al manubrio... Alla fine, saltare giù ti viene spontaneo. Perché in una piccola frazione di secondo sei costretto a reagire».

A voi sembra normale ciò che alla gente comune sembra quasi una follia…

«Il nostro è uno sport pericoloso, negarlo non serve. Abbiamo visto che cosa è successo nella prima gara in Austria (la carambola innescata da Zarco con Morbidelli e le due moto che volavano sfiorando lui e Rossi, ndr). Mi rendo conto dei rischi che affronto, ma correre in moto è la mia vita, la mia passione. Io l’accetto e quindi do sempre il massimo. A tutto gas...».

Ma dopo due episodi del genere con che spirito si torna in sella?

«Sono sincero. Sono motivatissimo, so di poter lottare per il campionato. La testa è già proiettata sulla prossima gara, a Misano ».

Nove piloti raccolti in 27 punti: un Mondiale anomalo.

«In effetti, è un campionato molto diverso. Tante gare di fila, anche due nello stesso circuito. Può succedere di tutto. Repubblica Ceca e Austria erano le due piste peggiori per me. Adesso arrivano quelle che mi piacciono...».

Ma gli episodi stanno pesando. L’infortunio di Marquez, poi quelli di Rins, Crutchlow e Bagnaia, infine il suo incidente. Non si sta esagerando?

«Se ti fai male è difficile recuperare in un campionato così serrato. Ecco perché è importante essere molto concentrati e preparati per dare il massimo. Servono un fisico allenato e molta attenzione. E soprattutto finire le gare».

ANSA il 17 agosto 2020. Spettacolare incidente, che poteva causare una tragedia ma fortunatamente si è risolto senza gravi danni, durante il Gran premio della MotoGp in Austria. Dopo un contatto tra Zarco e Morbidelli le moto dei piloti hanno carambolato più volte, attraversando in volo la pista, proprio sulla traiettoria di Valentino Rossi e Maverick Vinales, sfiorandoli ma senza colpirli. Zarco si è rialzato subito, Morbidelli è stato sottoposto ad una Tac di controllo, ma è uscito dal centro medico del circuito sulle proprie gambe. La gara poi è ripresa ed è stata vinta da Andrea Dovizioso su Ducati. Seconda la Suzuki dello spagnolo Joan Mir, terza un'altra Ducati, quella dell'australiano Jack Miller. San Colombano, patrono dei motociclisti, oggi aleggiava sullo Spielberg. Solo così, e con la tecnologia al servizio dei piloti, si può spiegare il doppio miracolo che ha evitato conseguenze tragiche dopo gli spaventosi incidenti nelle gare di Moto2 e MotoGp, interrotte dalla bandiera rossa. Hafizh Syahrin, 26 anni, decima stagione nel motomondiale, deve la vita ad una buona dose di fortuna, all'abilità dei colleghi che gli sono sfrecciati intorno, riuscendo a schivarlo mentre lui rotolava sull'asfalto del Red bull Ring e, ultimo ma non ultimo, all'airbag che dal 2018 è obbligatorio in tutte le categorie. Nella MotoGp è stata invece una enorme dose di fortuna a far sì che le moto di Johann Zarco e Franco Morbidelli, impazzite dopo un contatto, abbiano solo attraversato le traiettorie di Valentino Rossi e Maverick Vinales, senza toccarli. Soprattutto il primo, che s'è visto sfrecciare a pochi centimetri dal casco i 160 chili della Yamaha di Morbidelli. Il francese è ha riportato una forte escoriazione ad un fianco. L'italiano è stato sottoposto ad una tac. Nessun danno grave, ma resterà 24 ore in osservazione. In Moto2 è stato probabilmente l'airbag inserito nella tuta - capace di gonfiarsi in 15 millisecondi per proteggere schiena e cassa toracica - ad evitare danni peggiori a Syahrin. Involontario innesco della carambola è stato Enea Bastianini, vittima di un highside durante il quarto giro. Il pilota riminese è riuscito ad allontanarsi indenne, mentre la sua Kalex restava pericolosamente a centro pista. Diversi corridori sono stati bravi ad ad evitarla. Non ha potuto fare nulla Syahrin, che si è trovato la visuale coperta fino all'ultimo e l'ha centrata in pieno, a quasi 200 km/h, volando in alto e ricadendo pesantemente al suolo, mentre frammenti dei mezzi coinvolti partivano in tutte le direzioni. Ma l'improvvisa decelerazione aveva già provveduto ad innescare il dispositivo che ha salvato Syahrin, liberano il gas contenuto in una piccola bombola che ha gonfiato la tuta e fatto da scudo al busto. Syahrin è stato subito caricato su un'ambulanza e trasportato al centro medico del circuito. Viste le immagini dell'incidente, è parso un miracolo apprendere che non aveva mai perso conoscenza e rispondeva alle domande dei medici. La tac ai femori ed al bacino ha escluso fratture. Quindi è stato trasferito nel centro traumatologico di Spielberg per ulteriori esami che hanno evidenziato una forte contusione al bacino.

Gli incroci in pista dove si rischia la vita. Il direttore di pista del Mugello: "In caso di caduta la moto torna nel tracciato". Maria Guidotti, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale. «Spesso ci dimentichiamo che questo moto sono dei proiettili lanciati a 300 km orari. Il nostro sport è pericoloso e l'incidente di domenica poteva risultare un disastro. Il fatto che fortunatamente i piloti sono usciti illesi cambia radicalmente lo scenario. Spero che l'accaduto serva per il futuro. Per come stanno le cose adesso, infatti questa è una situazione molto pericolosa», riassume così Valentino Rossi la scampata tragedia di domenica sul circuito austriaco del Red Bull Ring, tornato nel calendario della MotoGP nel 2016. E chi lo conosce come Carlo Pernat addirittura dice: «Non è scontato che continui». Il doppio incidente di domenica, in Moto2 e in MotoGP, riaccende le discussioni sulla pericolosità della pista dello Spielberg, un tracciato storico con ben 51 anni di storia. Come sottolinea il Dottore, infatti, la curva 3 è una delle più pericolose del calendario del Mondiale, perché coincide con il punto più veloce delle pista con le moto che arrivano a toccare i 314 km orari, a cui segue una violenta frenata a 50 km all'ora. «Si tratta di un punto molto pericoloso per la configurazione stessa del tracciato - conferma Antonio Canu, Direttore di pista dell'Autodromo Internazionale del Mugello -, in caso di caduta infatti la traiettoria della moto è destinata a incrociare la pista qualche metro più avanti con la possibilità di colpire i piloti che stanno transitando in quel momento. Spielberg non è l'unico caso, una situazione simile la ritroviamo ad Austin in Texas o la stessa Variante Bassa di Imola, teatro di diversi incidenti in Superbike». Domenica scorsa la pericolosità di quel punto del tracciato è stata ingigantita dall'irruenza di Zarco, che toccando la Yamaha di Franco Morbidelli, ha innescato la carambola. Valentino accusa Zarco d'intenzionalità, anche perché il francese non è nuovo a tentativi di sorpasso in varchi impossibili con brutte conseguenze per i malcapitati (vedi il contatto di Brno due domeniche fa che ha portato alla caduta di Pol Espargaro privandolo del podio). La direzione gara, chiamata in causa dallo stesso Valentino, al momento tace. «Sul momento i piloti non sono stati convocati perché entrambi finiti a terra - spiega ancora Canu -, immagino che avverrà giovedì. Una volta verificata l'intenzionalità della manovra, il panel della race Direction presieduto da Freddie Spencer potrebbe decidere per una penalità a punti (che funziona sullo stile della patente) che va da un avvertimento, al partire dal fondo della griglia, dalla pitlane, fino all'esclusione dalla gara». Domenica la MotoGP replica in Austria. L'auspicio del Doc e di tutto il paddock è che si intervenga presto. Nessuno vuole scomodare nuovamente il santo dei motociclisti.

Zarco: "Io un assassino? Vi dico tutto...". Cosa c'è dietro il botto da paura. Zarco ha respinto le accuse di Morbidelli e Rossi che l'avevano attaccato pesantemente per il brutto incidente avvenuto ieri: "Devo incontrare sia Morbidelli che Valentino, dobbiamo parlare insieme, se Franco lo dice alla tv e non davanti a me..." Marco Gentile, Lunedì 17/08/2020 su Il Giornale. Johann Zarco ha scatenato un putiferio con il suo azzardo in pista ai danni di Franco Morbidelli che ha causato un gravissimo incidente che stava per coinvolgere anche le Yamaha di Valentino Rossi e Maverick Vinales che se la sono vista davvero brutta. Il fuoriclasse di Tavullia e il compagno di squadra spagnolo sono stati sfiorati dalle due moto che sono volate in aria, dopo la collisione, con il Dottore e Morbidelli che a fine gara hanno attaccato pesantemente Zarco per la sua manovra: "Johann è un mezzo assassino", l'accusa di Morbidelli, "Dev'essere sanzionato, è stato il rischio più grande della mia vita", le parole di Rossi.

Zarco si difende. Il francese di Cannes ha provato a giustificare la sua manovra ai microfoni di Sky: "Avevo più motore di lui, ne ho approfittato per passare nel rettilineo e l'ho passato a sinistra. Quando ho frenato ho faticato a tenere la linea e lui è stato sorpreso, ci siamo toccati e siamo volati", la difesa del francese. Zarco ha poi spiegato di aver avuto un primo incontro con Morbidelli e Rossi: "Ho visto Franco, ci siamo abbracciati soprattutto perchè è stata una brutta caduta e non mi ha detto nulla. Devo incontrare sia lui sia Valentino, dobbiamo parlare insieme, se Franco lo dice alla tv e non davanti a me…Non so perché, ma quando ci siamo visti era importante che fosse tutto più o meno a posto, in ogni caso andrò a trovare sia lui che Valentino per un confronto tra noi". Zarco ha poi continuato tenendo la sua linea difensiva: "Gli ho detto che non sono un pazzo che guida la moto, ci siamo parlati in modo onesto e sincero. Sotto la paura si dicono certe cose, anche perché forse provano a sfruttare il momento…c’è stata anche la caduta con Pol Espargarò la scorsa gara…Vedremo, io non sono scemo e so dove andare. Sto ritrovando il ritmo buono poco alla volta, sto lavorando per essere sempre più forte e veloce".

Colpevole o "innocente"? Zarco è stato condannato fin da subito e da quasi tutti per la sua manovra azzardata: "Zarco è sempre in mezzo ai casini", il commento dell'ex pilota Dani Pedrosa oggi collaudatore della Ktm. Michele Pirro sostituto di Bagnaia invece lo difende: "Il suo è stato un errore involontario. Magari ha sbagliato a calcolare la frenata, ma poteva capitare a chiunque". Nella gara precedente, a Brno, il francese era stato sanzionato per un contatto con lo spagnolo Pol Espargaro chissà se anche questa volta verrà sanzionato per quella definita quasi all'unanimità un sorpasso azzardato che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze.

MotoGp, tutti contro Zarco: "Ma non sono un pazzo". Sotto accusa anche il circuito. Il francese, a rischio sanzioni, prova a difendersi. Intanto il Red Bull Ring preoccupa in vista del replay di domenica prossima, Valentino: "E' pericoloso". Massimo Calandri il 17 agosto 2020 su La Repubblica. "Non sono un pazzo e non l'ho fatto apposta, mi dispiace per quanto accaduto". Johann Zarco, il trentenne francese di Cannes dallo sguardo malinconico, l’esistenzialista che al piano suona Brel, Brassens e Paolo Conte, ma che sulla moto si trasforma in un demonio, ha chiesto scusa a Morbidelli e Valentino. Si giustifica, dà appuntamento al gp di domenica prossima sulla stessa pista austriaca, ma rischia una pesante sanzione. E potrebbe compromettere il suo futuro, dopo che si era già assicurato un posto con la Ducati Pramac per il 2021: quel carattere irruento ha lasciato perplessi i vertici di Borgo Panigale, che da questa stagione lo hanno messo sotto contratto. 

L'abbraccio in Clinica Mobile, ma poi... 

Si sono abbracciati sotto gli occhi di Michele Zasa, il responsabile della Clinica Mobile: "E' successo pochi minuti dopo l'incidente, ed è incredibile che non si siano fatti nulla di grave: Johann cercava di giustificarsi, Franco faceva di sì con la testa", racconta il dottore del motomondiale. Poi però 'Franky' Morbidelli ha visto le immagini, quelle immagini: Zarco che gli si mette davanti dopo la curva 2, allarga sempre di più sulla destra e poi frena. A più di 300 all'ora. Il contatto, la Ducati del francese che finisce sulla destra contro l'air-fence, la Yamaha del romano che invece continua per un po' da sola: inizia la drammatica carambola. Mentre il 'Morbido' rotola pericolosamente più volte tra asfalto e ghiaia, la sua M1 si lancia come un meteorite - 157 chili a quella velocità - tra Valentino e Vinales, sfiorando il Doc per pochi centimetri. Un miracolo. "Quello è un mezzo assassino", grida allora Morbidelli, che si rende conto di cosa davvero è accaduto. 

Zarco: "Non l'ho fatto apposta". Zarco, rimasto solo, ha provato a spiegare: "Mi sentivo forte e ho superato Franco sul rettilineo, cercando di rimanere il più possibile a sinistra. Poi ho frenato, ma non sono più riuscito a mantenere la linea. E' stato in quel momento che mi ha toccato. Non me lo aspettavo. Siamo finiti a terra. Giuro, non l'ho fatto apposta". Parole che non hanno convinto molti. 

Tutti contro Johann, sanzione in arrivo? Il francese è stata ascoltato dalla Direzione Gara: sanzione in arrivo? Il paddock è tutto contro di lui: da Aleix Espargarò, pilota dell'Aprilia ("Crea sempre problemi") a Dani Pedrosa ("Tutte le volte c'è di mezzo lui"). Per non parlare di Rossi, sportivamente il padre adottivo di Franco Morbidelli. Furibondo, Valentino è andato a cercarlo di persona: "Anche a me ha detto che non lo ha fatto apposta", racconta, allargando le braccia. Tre anni fa ad Assen, nel giorno della sua ultima vittoria, il Doc se l'era già presa con Johann: "Zarco non è cattivo: semplicemente, non è capace. Non distingue le distanze nella MotoGP". E intanto mostrava il segno del pneumatico del francese sulla sua tuta. 

Il francese: "Colpa della scia, non sono pazzo". Il ducatista dell'Avintia si giustifica: "La mia idea non era certo quella di bloccare Morbidelli. Il fatto è che in MotoGP non è possibile cambiare all'ultima la propria linea, come accade ad esempio in Moto3. La scia della MotoGP ti risucchia in maniera molto netta, è già accaduto in passato anche a Marquez a Phillip Island. Il problema è che le moto hanno iniziato a carambolare: mi sono spaventato anche io, come Rossi". Se l'è cavata con una escoriazione al braccio e un'altra all'anca, il polso destro è dolorante. "Per fortuna non è rotto. L'importante è che Franco e Vale non si siano fatti male, sono subito andato a vedere come stavano". Col pesarese ha parlato per una decina di minuti: "Gli ho detto che non sono un pazzo, e che mi dispiace per quanto accaduto". 

"Un circuito pericoloso". Sotto accusa c'è anche il Red Bull Ring, circuito che lo stesso Valentino definisce "pericoloso" in almeno due o tre punti. In particolare alla curva 3: "Perché l'affronti inserendo la prima, vai molto piano (ieri al momento dell'incidente il Doc viaggiava a 53kmh, ndr), però prendi la direzione opposta ad un tratto dove arrivano a 300 all'ora. Ma qui sta a noi piloti chiedere chiarimenti in Safety Commission". Sulla sinistra della curva 3 c'è un muro inquietante. E dicono che domenica prossima si potrebbe correre sotto la pioggia. 

Massimo Falcioni per gazzetta.it il 23 ottobre 2020. Non è segnato sul calendario, quel 23 ottobre 2011, ma quella data resta impressa nel cuore di tutti. Nove anni fa, per un terribile incidente nella gara MotoGP di Sepang, perdeva la vita a 24 anni Marco Simoncelli, tra i piloti più forti e amati di sempre, campione del mondo in 250 nel 2008. Quel patacca del Sic, corridore di gran talento, giovane di straordinaria umanità e simpatia, ci lasciava così, mentre piroettava in pista come danzasse un liscio della sua Romagna, entrando nella gloria eterna, fra gli immortali. Diobò Sic, però non ce lo dovevi fare questo tuo scherzo, che a te lassù viene ancora da ridere, mentre a noi, quaggiù pro tempore, viene giù sempre una lacrima. E che lacrima! Sì, ha ragione papà Paolo: “Rimpianti zero, solo rabbia”. Alla fine dei funerali di Marco davanti alla chiesa di Coriano di fronte a una folla immensa e commossa il dottor Costa, papà della Clinica Mobile, disse: “Dentro la bara c’è un viso che sta sorridendo. Lui tornerà a casa con tutti voi. È questo il miracolo che ha fatto oggi Marco Simoncelli. Può diventare esattamente quello che avete sempre sognato. Diventa uno di voi nel vostro cuore. E quindi si celebra questa grande vittoria. La vittoria sulla morte di Marco Simoncelli”. Non è retorica. È memoria che non muore. Come restano vivi e aperti gli interrogativi sulla dinamica di quel drammatico incidente, dal tragico epilogo.

LA DINAMICA. La stessa analisi della telemetria non consentì di fare piena luce sulla triste vicenda, per capire cioè se dopo la caduta il rientro al centro e poi alla destra della pista della moto e del pilota è stata la conseguenza di una spinta impressa dall’elettronica (in pratica imprimendo una nuova accelerata e dando così trazione alla ruota posteriore che a sua volta ha spinto la moto all’interno dell’asfalto) o la conseguenza del fatto che Marco abbia tenuto il gas aperto con la moto a terra fin quando è stato investito involontariamente dagli altri due piloti che nulla potevano fare per evitarlo. Fu solo fatalità? Quel maledetto 23 ottobre 2011 a Sepang fu una tragica fatalità a innescare la parabola che tolse la vita al Sic: attribuire la colpa a qualcuno (in particolare a Colin Edwards e a Valentino Rossi) era e resta assurdo.

LA LEZIONE. Sul piano della sicurezza si è lavorato tanto sui circuiti e per le moto è prevalsa la convinzione che l’elettronica potesse aiutare i piloti nel gestire controllo di trazione, potenze e coppie dei motori, aumentando prestazioni e sicurezza. Per decenni, oltre alle piste, le cause degli incidenti più gravi erano tecniche, dovute a grippaggio del motore, blocco del cambio, dei freni ecc. Problemi da anni ormai risolti ma nel frattempo altri ne sono spuntati, legati soprattutto alle potenze dei motori e alle evoluzioni delle gomme. Lo sviluppo dei mezzi è stato formidabile, con il pilota costretto ad adeguarsi, non sempre senza problemi per la sicurezza. Ciò detto, va però ribadito che nel motociclismo da competizione il rischio non è eliminabile ed è anzi una sua componente imprescindibile, uno degli ingredienti del suo fascino. È sempre stato così, fin dalle prime corse degli inizi del secolo scorso. Il motociclismo è anche questo, ardimento, portatore di grande spettacolo che, purtroppo, presenta talvolta il conto più salato. Eliminare completamente i pericoli dalle corse è impossibile perché c’è l’imponderabile. Quell’imponderabile che oggi ci fa ancora piangere Marco Simoncelli e i tanti piloti che hanno pagato con la vita la loro passione per la “febbre” della velocità, la loro voglia di correre verso l’immortalità.

Dagospia il 21 aprile 2020. Da la Zanzara – Radio 24. “Sono rinchiuso in casa a Piazza Alimonda. Meno male che non ho la moglie altrimenti sarei al 41 bis, perché secondo me se sei in casa con la moglie è un 41 bis”. A La Zanzara su Radio 24 inizia così il racconto della reclusione a casa di un grande manager del motomondiale, Carlo Pernat, genovese e già manager di grandi campioni tra cui Valentino Rossi. Tu grande puttaniere e frequentatore di bordelli, come fai in questo periodo?: “Mi sono arrangiato. Nel senso che ho delle mie amiche che mi vengono a trovare. Ci mancherebbe altro. Attenzione, uso l’amuchina, la metto un po' nella vagina, insomma il gel quello che adesso usiamo tutti, qualche goccia. Ho una stecca di bottiglie”. L’amuchina? E perché?: “Non l’amuchina per lavare i pavimenti, non è che  io sia pazzo del tutto. Non brucia, disinfetta e sono convinto che questo possa funzionare”. In che senso?: “Allora, vi racconto. Ho qualche amica che prende un taxi e viene a casa. Sono prostituite sudamericana e qualche orientale. Non scopo, solo cose orali. E prima di leccare prima disinfetto”. Dici che può servire?: “Penso di sì”. Ma perché non scopi?: “Un mio amico diceva, per non metterla sullo scurrile, che la lingua è la cassa di risparmio dell’uccello. E in questo momento bisogna usare questa cassa di risparmio”. Ma il contatto fisico c’è lo stesso: “Ho capito ragazzi, avete ragione. A parte che io il giorno esco con la mascherina come i carcerati, vivo in casa, sono pulito, queste che vengono da me le conosco. Sono anche amiche, oltre che escort. Io ritengo si possa fare. Sto benissimo, anzi, sto sempre meglio”. “Due volte a settimana – racconta - ho bisogno di farlo. Ragazzi, bisogna vivere alla giornata. Il tempo non passa, il tempo arriva. I miei sono bisogni di animale? No, di uomo. Poi non è chi io stia 24 ore a leccare o scopare. Ormai da 71enne ci sto una quarantina di minuti. E’ già un bel colpo, un cunnilingus bilaterale. E comunque leggo due libri alla settimana. Dallo spagnolo all’inglese. Quindi sulla cultura nessuno può dirmi niente. Ma non ci penso nemmeno a togliermi la voglia di scopare. Anzi, secondo me questa mania deve andare ancora avanti, ci mancherebbe altro”. M torniamo all’amuchina. A cosa serve sulla figa?: “Secondo me la sterilizza. In parte la rende inoffensiva con questo virus. E poi ripeto, non le trombo forse perché in quarantena non ho le forze per farlo. So con chi vado comunque”. E le pago? Esatto. Alcune si, altre meno, sono amiche di lunga data. So con chi vado, onestamente”. Non riesco a condannarti per questo, Carlo. Invitare un paio di prostituite ogni settimana a casa: “Oggi hanno una funzione importantissima. Come si dice a Genova, la gente ciocca fuori di testa a stare in casa. Se non si leva il seme ritenuto, come dico io, è un bel casino ragazzi. Io spero che da queste macerie finalmente si riapriranno le case chiuse”.

Albi: "Vi racconto il mio amico Valentino dalle origini al mito". Tebaldi, ad della VR46: "In tenda a 14 anni al Mugello, guru Graziano, Sic e l'Academy". Maria Guidotti, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. «Vale è sempre stato così: trasparente, curioso, appassionato». Alberto Albi Tebaldi, insieme a Uccio è l'amico di Valentino Rossi da una vita, sempre al suo fianco prima ancora che Rossi diventasse The Doctor. «Mi ricordo la prima volta che Vale è venuto con noi al Mugello. Io avevo 24 anni, lui 14. È così che ci siamo conosciuti. Eravamo accampati alla curva Casanosa-Savelli con una tendina in plastica gialla. Quattro giorni di corse, cori e rock and roll. Il Mugello è la quintessenza del Motomondiale, c'è mancato tanto quest'anno, ma abbiamo goduto a vedere la F1, perché siamo appassionati di motori, a 2 e 4 ruote». Poche frasi che descrivono il mondo di Valentino Rossi: la sua Tavullia, gli amici, le corse. Storie di scorribande sulla Panoramica e di sabati pomeriggio passati alla Cava. «Il Guru del gruppo è Graziano (Rossi). Preparava la pista alla Cava per diffondere il suo verbo: allenarsi in moto, meglio se di traverso. Tra i primi ad arrivare è stato il Sic. Vale si allenava sempre con Marco Simoncelli e alla sera si finiva tutti in pizzeria a ridere e scherzare. Dopo la tragedia di Marco, ci siamo detti: facciamo qualcosa per i nostri amici - racconta Albi, oggi Ad della VR46 Racing Non abbiamo pensato ai piloti più veloci al mondo, ma a quelli più vicini, come Morbidelli, che da Roma si era trasferito a Tavullia». Così è nata l'idea dell'Academy, che oggi conta otto piloti e vanta due titoli mondiali in Moto2 con Morbidelli e Bagnaia e due nel Mondiale Jr con Bulega e Foggia. Il palmares dei podi è appeso all'ingresso della VR e viene aggiornato al lunedì, come questa settimana con i risultati di Misano-2 di Vietti Ramus e Bezzecchi. Il modello dell'Academy è unico e irripetibile. Ad un ragazzo non capita di palleggiare con Messi o sfidare Tyson, ancora in attività. «Vale non spiega ai ragazzi, gli trasmette la sua esperienza, allenandosi con loro. Passa 4-5 ore al giorno tutti i giorni con i ragazzi dell'Academy, un programma completo che si occupa dalla preparazione, all'alimentazione, al management». Passione e competizione: un'accoppiata vincente che contribuisce ad alzare il livello di preparazione e mantiene Rossi eternamente giovane. «Vale è il primo a scendere in pista e l'ultimo a togliersi la tuta». Questo fine settimana a Barcellona, Valentino annuncerà il rinnovo del contratto con Yamaha per un anno più uno nel Team Petronas. Una notizia attesa, ma che non smette di sorprendere, considerato che il 9 volte iridato ha debuttato in 125 nel 1996 quando Marquez aveva 3 anni. «Non avevamo fretta perché eravamo già d'accordo. Abbiamo sistemato la squadra che sarà formata da personale del team factory e altro Petronas, comunque estremamente professionale». Ma Vale guarda avanti. «Con due team nelle classi minori, la MotoGP è un sogno per la VR a cui penseremo quando Vale deciderà di smettere in moto». Si parla del 2022 al posto di Avintia. «Le opportunità ci sono sempre nel nostro ambiente», commenta Albi, «e intanto Vale sta cercando di capire come migliorare il suo livello in auto, perché quello sarà il suo futuro. Stiamo definendo un programma interessante, grazie a sponsor come Monster Energy che ci accompagnano da anni». Lo vedremo in GT o forse alla Dakar, come è stato con Fernando Alonso? «Vale ama i cordoli, quindi asfalto». Ma l'arena mista a roccia della Cava prima, e del Ranch oggi, resterà a lungo il parco giochi degli eterni Peter Pan e dove anche il Sic, assicura Albi, si sarebbe divertito.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 30 gennaio 2020. Meglio il mito o la moto? Per noi pedoni dell' esistenza è un' alternativa «quattro verticale» della Settimana enigmistica, per Valentino Rossi è la domanda della vita. Il 16 febbraio il leggendario pilota compie 41 anni, età in cui o impari ad annodarti una cravatta o sembri un nonno dei fiori. Essere ancora lì alla sua età a lottare per una qualifica e per vedere i glutei in piega di ventenni feroci gli fa onore, è la dolce sindrome del vecchio e il mare. Ma ha senso? Incanutire su una MotoGP non è come farlo in un campo di calcio; l'ultimo Francesco Totti il giovedi a Trigoria qualche imbucata la inventava ancora, Zlatan Ibrahimovic , a 38 anni, è in grado da fermo di far girare l' anima del Milan. Valentino no, lui è solo con il cronometro su una spiaggia al tramonto. Dopo avere rinnovato il contratto a Maverick Vinales e avere prenotato il poulain nizzardo Fabio Quartararo, glielo ha fatto capire con ferma gentilezza britannica l' amministratore delegato della Yamaha, Lin Jarvis, misurando le pause e le parole per evitare gaffe. Ancora un anno di corride, poi nel 2021 il tempo scade. «È comprensibile e rispettabile da parte di Yamaha che Valentino Rossi voglia valutare la sua competitività nel 2020 prima di prendere qualsiasi decisione. Abbiamo totale rispetto e fiducia nelle capacità e nella velocità di Valentino per il campionato 2020, ma allo stesso tempo la Yamaha deve anche pianificare il futuro». Il patron del marchio toccato 17 anni fa dal divino soffio di Rossi la prende larga, sembra il nipote premuroso mentre comunica al nonno che non ci sarà più rinnovo della patente. Infatti continua così. «Con sei costruttori di Moto GP, i talenti giovani e veloci sono molto richiesti e quindi il loro mercato inizia prima. È una strana sensazione cominciare una stagione sapendo che Vale non farà parte del team nel 2021, ma Yamaha sarà con lui fornendogli una moto satellite se continuerà. Se decide di ritirarsi continueremo a espandere le nostre collaborazioni extra pista con programmi di formazione dei giovani piloti della Riders Academy e del Yamaha VR46 Master Camp, e con lui come ambasciatore del marchio Yamaha». Gli sta dicendo che lo spazio si è ristretto, che i giovani premono e chiedono spazio anche nel budget, che lui sarà indispensabile nell' Academy (parola tremenda perché prefigura ufficio e targhetta). Insomma la clessidra sta finendo la sabbia e quella cornice appesa al muro attende la sua foto più cool.

Matteo Aglio per “la Stampa” il 7 febbraio 2020. I flash scattano all' unisono e investono Valentino non appena la serranda del box Yamaha si apre. Un rituale che Rossi conosce bene: la tuta immacolata, la moto con i nuovi colori e un sorriso di circostanza. Sembra un normale inizio anno, ma sarà l' ultimo per il Dottore nella squadra in cui ha passato 15 anni della sua carriera: nel 2021 non ci sarà più posto per lui. Viñales e Quartararo saranno il futuro e il Dottore dovrà passare nel team Petronas se vorrà continuare una storia che si sta avvicinando al finale.

Valentino, è stato sorpreso quando Yamaha le ha chiesto di decidere il suo futuro prima ancora dell' inizio della stagione?

«Sinceramente no, ho iniziato a pensare a questa eventualità dallo scorso ottobre. Le prestazioni di Quartararo sono state impressionanti al suo debutto in MotoGp e questo ha cambiato le carte in tavola, altrimenti avrei avuto più tempo per pensare. I risultati in pista fanno la differenza e i miei nel 2019 non sono stati buoni».

Si è sentito tradito?

«Hanno fatto la scelta più logica, Viñales e Quartararo sono stati più veloci di me. Non credo che mi abbiano mancato di rispetto perché non mi hanno lasciato a piedi, ma offerto una moto uguale a quelle ufficiali, solo in un altro team. Due anni fa avevo risposto di sì alla stessa domanda, ero sicuro di volere continuare a correre, questa volta non ero pronto a farlo. La cosa peggiore sarebbe stato rimanere solo per tenere il mio posto e poi scoprire di non essere più competitivo».

Pesano i 41 anni che compirà il 16 febbraio?

«Non sono più giovane, corro da 25 anni e questa vita può diventare molto pesante. Nella MotoGp attuale devi fare sacrifici tutto l' anno, l' 85% del tempo è occupato da allenamenti in moto e in palestra, da pubbliche relazioni, da eventi».

Come si riesce a sopportare?

«Correre è un grande stress per tutti, ma se ti chiami Valentino Rossi lo è ancora di più. Non fraintendetemi, ma per me un gran premio è una rottura continua fatta di impegni, tifosi, non posso neanche camminare per il paddock. L' unica cosa che mi piace è andare in moto».

Semplicemente andare in moto?

«No, correre ed essere competitivo, lottare almeno per il podio. La mia motivazione per continuare nasce dai risultati, senza è meglio smettere. Ora sono padrone del mio destino e del mio futuro, posso decidere».

Quando lo farà?

«Ho tempo, nessuna fretta. Aspetterò di scoprire il mio livello e quando sentirò di essere pronto deciderò. Penso che potrò farlo durante l' estate, ma non voglio fissare una data».

Ritirarsi pur essendo competitivo è un' idea che non la sfiora?

«È una possibilità, sarebbe bello smettere andando ancora molto forte. Però ho paura che la MotoGp e le corse mi mancheranno molto, anzi ne sono sicuro, per questo il mio obiettivo è continuare nel caso fossi competitivo».

Però, per farlo, dovrebbe accettare di andare in seconda squadra.

«Yamaha mi ha garantito lo stesso supporto e la stessa moto che ho ora, quindi si tratterebbe solo di cambiare i colori della carena. Il team Petronas è un' ottima struttura, molto seria, e per me sarebbe importante restare sulla M1. Per un pilota non è mai facile cambiare moto, ancora più per me in questo momento della carriera».

Con la VR46 è già in Moto2 e Moto3, potrebbe entrare in MotoGp.

«L' idea mi piace, ma ci mancano i soldi per farlo (ride). Scherzi a parte, quella che abbiamo è la dimensione giusta per la nostra azienda, in MotoGp tutto diventa più difficile. Meglio affidarsi a Petronas».

Facciamo del fantamercato: chi vorrebbe come compagno di squadra: suo fratello Luca Marini o Lorenzo?

«Ho sentito molto parlare di Jorge in questi giorni e io stesso ho insistito con Yamaha perché diventasse nostro collaudatore, sapevo sarebbe subito tornato veloce sulla M1. Sarebbe bellissimo riunire la squadra Rossi-Lorenzo dopo molti anni, ma il pilota che merita di più quel posto è quello che lo ha già, Franco Morbidelli».

Moto satellite. Un Rossi di serie non si è mai visto. C' è qualcosa di terribile e malinconico in queste frasi perché il Sunset Boulevard è lunghissimo e a senso unico, in fondo a Los Angeles c' è qualcuno che non riceve mai la posta. Nove volte campione del mondo ma l' ultima 11 anni fa, 115 volte primo in gara; 400 milioni di guadagno dal 2000 (calcolo di Forbes); icona pop di un mondo con le basette, il mito di Easy Rider e la bambola gonfiabile sul sedile posteriore. Soprattutto geniale, inarrivabile, gentile simbolo dello sport italiano nel mondo, il numero 46 si trova davanti alla porta d' uscita del Truman Show. Non vuole aprirla, è refrattario, chiede una deroga. Ed è giusto così perché il crepuscolo va assaporato fino a quando non è scesa la notte. Eccolo il Valentino Rossi in difesa, ruolo che non gli è mai piaciuto perché lui ha sempre vinto ruggendo in prima linea o in rimonta. «Per motivi dettati dal mercato dei piloti, Yamaha mi ha chiesto all' inizio dell' anno di prendere una decisione in merito al mio futuro. Coerentemente con quello che ho detto durante l' ultima stagione ho confermato che non volevo affrettare alcuna decisione e avevo bisogno di più tempo. Yamaha ha agito di conseguenza e ha concluso i negoziati in corso. È chiaro che con gli ultimi cambiamenti tecnici e con l' arrivo del mio nuovo capo equipaggio, il mio primo obiettivo è essere competitivo quest' anno e continuare la mia carriera come pilota di Moto GP anche nel 2021».

Non si arrende. È pronto a duellare con la mandria di bufali là fuori e a testare in casa la solidità di Vinales. Poi si vedrà. Potrebbe esserci un posto nella scuderia Petronas (con supporto e ingaggio dalla casa madre), ma oggi il vecchio re non vuole pensare al domani. E allora si aggrappa alla pista, alla malinconia delle traiettorie e all' odore di olio bruciato sotto il naso. «Prima di decidere devo avere risposte che solo la pista e le prime gare possono darmi. Sono contento. Se dovessi decidere di continuare, Yamaha è pronta a supportarmi sotto tutti gli aspetti, dandomi una moto di serie e un contratto. Nei primi test farò del mio meglio per fare un buon lavoro insieme col mio team ed essere pronto per l' inizio della stagione». Il profilo è quello di chi mette su famiglia, il sorriso è vissuto, tutto scorre, tutto sembra così lontano. Anche il sorpasso con minacce di Marc Marquez nel 2015, doveva essere una sentenza e lo è stata. Storie di un tempo scaduto e di un altro mondo, c' era ancora Beppe Grillo con il Movimento 5 stelle. Oggi Rossi può pensare di farsi largo con il genio e il rispetto che si deve ai grandi vecchi, di trovare in una domenica di sole il ruggito potente di Simba. Ma il futuro è di Vinales e Quartararo, i giapponesi glielo hanno detto chiaro. Un tempo Fergus Anderson vinse un mondiale a 45 anni (1954) e Arthur Wheeler un gran premio a 46 (1962). Juan Manuel Fangio portò a casa l' ultimo mondiale di Formula 1 a 46 anni suonati. Ma erano altre ere geologiche, niente a che vedere con la competitività e l' usura nervosa di oggi. Eppure. Perché c' è anche qualcosa di beffardo nei dubbi di Rossi e nelle vellutate parole di Jarvis. Il Venerando è ancora oggi l' uomo che fa la differenza nei contratti e nell' appeal degli sponsor del circo a due ruote. «Vende più moto, più merchandising, più biglietti, più contratti tv lui rispetto a tutti gli altri», ha messo le mani avanti Simon Patterson, guru mediatico delle corse, firma di Motorcycle News. «È nell' interesse di tutti che rimanga». Sport Illustrated ha calcolato che scendendo dal sellino farebbe perdere al mondo della Moto GP un terzo del fatturato. Quando Valentino se ne andrà dai box con il casco in mano piangeranno tutti. E non saranno solo lacrime di nostalgia.

Marco Ciriello per Quattrotretre.it il 31 gennaio 2020. La Yamaha ha detto a Valentino Rossi che c’è un tempo per tutto, come già si evinceva da un mucchio di cose: dai filosofi greci alle canzoni di Battiato, dalle biografie degli altri sportivi a una battuta di Nora Ephron in “Harry ti presento Sally”: «Charlie Chaplin ha fatto figli fino a 73 anni!». «Ma non ce la faceva a tenerli in braccio!». ValeRossi potrà correre anche per altri cinque o dieci anni, ma non sarà mai più lo stesso, anzi, potrà ritrovarsi molto probabilmente da fermo piuttosto che continuando ad inseguirsi. La Yamaha l’ha pre-pensionato come accade a molti in altri ambiti lavorativi, forse senza classe – ma non sappiamo da quando sta provando a fargli capire che dovrebbe scendere dalla moto – e dimenticando le scommesse del pilota italiano negli anni, oltre le vittorie e il come e il quando, ma sappiamo che nello sport non esiste la riconoscenza, esistono solo i momenti di stupore, e ValeRossi è in vantaggio su tutti, ma se vuole conservare quel vantaggio non deve mostrarci la sua normalità. Da Ulisse a James Hunt a George Best, i migliori sono quelli che rinunciano, o perdono anche, o tornano a casa, insomma, quelli che dopo aver vinto un Pallone d’oro lo festeggiano con Miss Mondo e non si mettono a inseguirne altri quattro o cinque o sei, con mammà in cucina che grida e twitta al complotto se il resto dei palloni d’oro non arrivano. Nessuno vuole smettere, andarsene, cambiare vita, uscire dalla pista, dal campo o dalla vasca, lasciare il set, il teatro, i giornali, gli uffici; nessuno si ricorda più della grandezza di Ulisse, appunto, che dice no all’immortalità, cioè alla ripetizione seppure ben retribuita o con gloria; allo stesso tempo queste persone – atleti, registi, giornalisti etc – amano la serialità, il fatto che ci sia una nuova stagione come nelle serie che guardano, macerandosi nelle abitudini, e questi comportamenti portano alla costruzione di una società bambina fatta di vecchi, perché solo i bambini pensano che tutto abbia un seguito. In questi giorni nelle sale italiane c’è un film bruttino, “Figli”, scritto da un bravissimo sceneggiatore, Mattia Torre, che a un certo punto urta contro questa voglia bambina dei nonni che non fanno più i nonni, impedendo ai figli di vivere un tempo degno da padri, invece di logorarsi alla ricerca di una perfezione che non hanno avuto e che cercano di dare finendo col contrarre un debito esistenzial-temporale. La contrazione di questo debito porta alla costruzione di una società bambina per tutti, persino nelle regole adulte, lo spiega bene Bret Easton Ellis nel suo ultimo libro, “Bianco”, finendo per capovolgere le società, azzerando il tempo delle generazioni successive. Lo sport è sempre avanguardia, e non a caso il problema è stato mostrato dagli sportivi, che prima concludevano il loro ciclo, e poi cercavano di passare quello che avevano imparato o di costruire altro, accettando il cambio di ruolo, non inseguendo una giovinezza che né la chirurgia plastica né la tecnologia filmica usata da Martin Scorsese per i suoi amici possono far tornare, anche perché tutto quello che torna è sempre posticcio, rimasticato, già vissuto. Come racconta, e bene, George Saunders. Il tempo che veniva impiegato nella dialettica tra le generazioni: con gli abbandoni, i rimpiazzi e gli insegnamenti, ora è esercizio tirannico in nome del passato e della gloria, e questo “gioco” ha portato a una rottura, una separazione che nel caso di Rossi vediamo prendere forma negli assedi scorretti di Marc Marquez, che sono spinte della specie, spallate temporali date per cattivo carattere e bisogno di uccidere il padre, e, ovviamente, tutti a difendere ValeRossi, che, però, dovrebbe allenare Marquez e non stargli di fianco in curva, secondo il gioco del mondo; se, poi, vogliamo raccontarci l’eternità, e illuderci fino a consumarci, allora è una storia diversa.
Dai colpi di Thiem al gas di Quartararo. I decani sotto attacco non si arrendono. Australia: ko Nadal dopo Federer. Ma lo sport è sempre più «vecchio». Giorgio Coluccia, Sabato 01/02/2020 su Il Giornale. Un campione è per sempre. Anche se il tempo passa per tutti e i giovani sono in agguato. Vogliono fagocitare i vecchi idoli, diventando quelli nuovi. Come l'attacco al potere di Fabio Quartararo, che alla Yamaha ha messo all'uscio Valentino Rossi, o l'exploit di Dominic Thiem agli Australian Open, dove prima ha eliminato il numero uno al mondo Nadal e poi si è preso la finale di domani contro Djokovic. Ma un campione è per sempre perché intere generazioni ne restano innamorate, sulla pietra rimangono scolpiti primati e pagine di storia a dispetto dell'età. I decani per eccellenza valgono il prezzo del biglietto, danno in pasto ai tifosi record e giocate spettacolari come dimostrano esempi viventi del calibro di Federer, Ibrahimovic e LeBron James. Quest'ultimo ha da poco spento 35 candeline, ma si è anche tolto lo sfizio di toccare quota 33.655 punti in Nba e diventare il terzo miglior marcatore di sempre, dietro a Malone e Abdul-Jabbar: uno sceneggiatore spietato ha fatto sì che King James superasse in questa classifica Kobe Bryant proprio qualche ora prima dello schianto in elicottero che si è portato via il Black Mamba. Il cui ultimo messaggio di congratulazioni su Twitter è proprio per LeBron: «Con tanto rispetto, fratello». A 38 anni Ibrahimovic è ancora capace di riempire San Siro, di resuscitare un Milan relegato all'oblio prima della sosta natalizia. A distanza di otto anni, come se il tempo si fosse fermato, è tornato a far gol con la maglia rossonera e ha contagiato anche il gruppo di Pioli, reduce da cinque vittorie e un pareggio dal suo arrivo. Mercoledì prossimo saranno 35 anni per Cristiano Ronaldo, furioso quando Sarri lo toglie dal campo e ancora affamato, ostinato come il primo giorno: a Napoli è andato a segno per l'ottava partita di fila, l'ultimo bianconero a riuscirci fu Trezeguet nel 2005 e CR7 aveva completato il medesimo filotto già nel 2014. Anche qui, il tempo che passa è solo un numero. Il 2020 si è aperto addirittura con un trionfo all'età di 58 anni, ossia il successo di Carlos Sainz alla Dakar. Lo spagnolo ha vinto 4 tappe e poi si è imposto davanti a tutti per la terza volta in carriera nella corsa rallistica, stavolta con la Mini, dopo le vittorie con Volkswagen e Peugeot. L'asticella è destinata ad alzarsi sempre di più. Sono cambiate le metodiche d'allenamento, è aumentata l'aspettativa di vita, ci sono abitudini alimentari differenti e ormai si lavora in modo ossessivo su ogni aspetto. Se un tempo certi infortuni mettevano a rischio la carriera, adesso si recupera sempre più velocemente e i fuoriclasse migliori sono aziende viventi, che restano sulla cresta dell'onda finché ce n'è. Gli Australian Open hanno rilanciato i primati di Federer e Serena Williams, due che mettono assieme 43 Slam in carriera e vantano 38 anni a testa. L'americana ha vinto un torneo negli ultimi quattro decenni, cominciando nel febbraio 1999 all'Open di Francia indoor a Parigi. Non ha ancora smesso. E non è dato sapere quando succederà.

Dagospia il 29 gennaio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Jean Alesi è intervenuto ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'ex pilota della Ferrari ha raccontato: "Gli anni in Ferrari sono indimenticabili. Vedere i tifosi che ancora oggi mi ricordano mi fa sempre molto piacere. Non potrò mai dimenticare la vittoria al Gp del Canada nel 1995. Era il mio compleanno, fu una giornata pazzesca. Per tanti momenti ho sfiorato la vittoria che però non ho portato a casa per vari problemi. Quel Gp negli ultimi giorni avevo una tensione enorme. Cercavo di essere il più dolce possibile con la macchina per arrivare al traguardo".

Sulla Formula 1 di oggi: "Non è vero che è più noiosa, siamo noi che la guardiamo in modo diverso. Siamo un po' tutti più viziati. I piloti sono preparati e allenati, le macchine sono veloci e potenti, la Formula 1 regala sempre grandi battaglie. A me piace". +il 28 gennaio 2020.

Sugli esordi: "La passione per i motori arriva dalla famiglia. Sono cresciuto nel garage di mio padre, carrozziere. Ho sempre avuto la  passione per le macchine e per i motori. Non volevo andare a scuola, preferivo guidare. Ero un po' il monello della famiglia. Sono sempre stato più attirato dal guidare che dall'andare a scuola. La mia famiglia è siciliana, vivevamo tutti sotto allo stesso tetto, mio nonno ogni tanto mi prendeva da parte e mi chiedeva quando avrei messo la testa a posto e sarei andato a lavorare. Io avevo capito che quella del pilota poteva essere una professione. Quando entrai in Formula 1 lui un po' era felice, ma sotto sotto per lui la Formula 1 era solo la Ferrari. Quindi è stato felice solo quando sono entrato in Ferrari. Non c'è più, ci guarda dal cielo, ma sono felice che da vivo mi ha visto guidare la Rossa".

Sulla Ferrari di quegli anni: "Forse non era la più forte ma era sempre la più bella. L'affidabilità non era la sua forza, ma arrivare a Maranello, entrare a Fiorano, guidare sulla pista, è una cosa unica. Quello che vivi in Ferrari non lo vivi in nessun altro posto al mondo. Ho sempre avuto tanta fede, tanto rispetto per quei colori. Il rapporto con Jean Todt? E' sempre stato un grande lavoratore, sbagliai io a mandarlo a quel Paese, ma uscì dal mio cuore, non ho rimpianti".

Sui piloti: "Il migliore di sempre? Dipende dalla generazione delle macchine. Fangio è un eroe. Ai suoi tempi, se facevi un errore eri morto. Ma quello che più ha impressionato era Senna. Aveva un controllo di macchina fuori dal normale. La grinta, lo spettacolo e l'emozione che mi ha dato lui, non me l'ha trasmessa nessun altro. Charles Leclerc? Un fenomeno. Sicuramente a breve sarà campione del mondo".

Da "corriere.it" il 29 novembre 2020. Brutto incidente per Grosjean: auto in fiamme durante il Gp del Bahrein. Il pilota della Haas è riuscito ad uscire salvo dalla sua macchina in fiamme distrutta e quasi esplosa per un impatto contro le barriere subito dopo il via. Per lui bruciature alle mani e alle caviglie oltre a delle sospette fratture alle costole ed è stato portato in ospedale. Tutto comincia appena dopo la partenza che vedeva la Haas del francese scattare dalle retrovie. Si tocca con un’altra vettura quella di Kvjat e finisce dritto contro il guardrail tutta velocità. Nell’impatto la vettura si spezza in due e prende fuoco. Un dramma che in altri tempi avrebbe provocato la morte del pilota. Che non arriva perché Grosjean non perde conoscenza e mantiene la freddezza di togliersi le cinture ed aiutato dal medico di pista riesce a porsi in salvo. Guenteher Steiner, team principal della Haas: «Romain è stato portato in ospedale, sta bene ed è cosciente. Dobbiamo ringraziare la fortuna, il medico della Fia Roberts e tutti i commissari che hanno fatto un lavoro straordinario».

Alessandra Retico per “la Repubblica” il 30 novembre 2020. La fortuna forse esiste, i miracoli per chi ci crede, ma a strappare Romain Grosjean alla morte è stato, in ordine sparso: l'abitacolo della sua macchina, i soccorsi immediati, l' aureola in titanio sopra la testa e la sua, di testa. Mezzo secolo fa, la Formula 1 avrebbe pianto un altro François Cevert, un Helmut Koinigg, un Lorenzo Bandini, un Ronnie Peterson, ragazzi uccisi in incidenti diversi o simili a quello del francese, morti per l' amore della velocità ma non altrettanto amati dal motorsport allora privo della tecnologia e delle norme di sicurezza oggi in pista. Romain, 34 anni, nato a Ginevra, una moglie e un figlio, alla sua terzultima gara in F1 e dopo uno strano messaggio come d' addio durante le qualifiche, si schianta frontalmente a 221 km/h contro il guard rail al primo giro del Gp del Bahrain dopo un contatto con l' Alpha Tauri di Daniil Kvyat. La sua Haas è piena di carburante (110 kg), sfonda le barriere di curva 3 e si spezza in due tra le fiamme, forse accese da una scintilla della parte elettrica del motore: un rogo che non si vedeva da tempo e che a lungo la tv non inquadra, ma che ha riportato all' improvviso indietro a Niki Lauda sul Nürburgring nel '76 o a Gerhard Berger a Imola nell' 89. Invece: il posteriore dell' auto si accascia ai bordi della pista, il muso trapassa le lamiere, ma la cellula di sopravvivenza della scocca made in Italy (Dallara) e l' Halo, l' aureola montata sull' abitacolo delle auto dal 2018 dopo tante polemiche perché ritenuta antiestetica ("infradito" era il miglior complimento), proteggono il pilota dall' impatto. Rimane cosciente, Romain, ha la prontezza di districarsi tra le lamiere, slacciare le cinture di sicurezza e uscire dall' incendio in cui abita per circa 10 secondi. I piloti si allenano con procedure specifiche per questo, sperando che rimangano solo teoria. Trentasei secondi dopo il crash, la gara è sospesa, i marshall aprono gli estintori: la medical car guidata dal pilota sudafricano Van der Merwe e il dottore della Fia, Ian Roberts, soccorrono immediatamente Grosjean che scavalca con le proprie gambe il guard-rail con l' apparente conseguenza del solo piede sinistro privo della scarpa. Gli applausi rimbombano forti dalla pit lane piombata nel terrore del passato. Charles Leclerc, prima di rientrare ai box, chiede col cuore in gola informazioni e forse rivede qualcosa: il suo amico Jules Bianchi morto per le conseguenze dell' incidente in Giappone nel 2014? Romain è invece il sopravvissuto: lo sorreggono, poi lo distendono sulla barella verso il centro medico del circuito dove arriva anche il presidente della Fia, Jean Todt, paladino della sicurezza e fervente promotore dell' Halo. Da lì, in elicottero, verso l' ospedale militare di Manama dove rimane per la notte. I raggi X escludono fratture: ha solo delle bruciature alle mani. "Sto bene. Grazie alla Fia e ai medici. E pensare che qualche anno fa ero contro l' Halo: è la cosa migliore introdotta in F1" dirà in un videomessaggio. Un' ora e 20 di interruzione. Alla ripartenza, altro schianto: la Racing Point di Lance Stroll si capovolge sollevata sempre da Kvyat (il russo prende 10'' di penalità). Safety car. Dopo la quale Sebastian Vettel (poi 13°) si sente aggredito in un sorpasso da Charles Leclerc (10°). Lewis Hamilton, che twitta complimenti alla Fia («ci si dimentica dei rischi che prendiamo»), naviga verso il suo 95° trionfo in regime di safety davanti alle Red Bull di Max Verstappen e Alex Albon. Terzo sarebbe stato Sergio Perez, se il retro della sua Racing Point non fosse finita in fiamme all' ultimo. Fuoco spento nel deserto.

Sebastian Vettel, addio alla Ferrari: un flop da 160 milioni, finale da incubo dopo 6 anni. Cosa c'è dietro la rottura. Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Marilyn Monroe ripeteva che se finisce un amore e nessuno dei due partner soffre vuol dire che l' amore non è mai esistito. La rottura fra Sebastian Vettel e la Ferrari sembra confermarlo. Nessuno ha sofferto: non certo Mattia Binotto, gran capo della scuderia, nè il pilota che tuttavia potrebbe tenere in serbo la vera sorpresa. Un futuro in Mercedes: «Vettel libero è una novità di cui tenere conto» afferma sibillino Toto Wolff, gran capo delle Freecce d' Argento in pista. Tatticismo per tenere sulla corda Hamilton o c' è qualcosa d' altro). Nessun mistero invece a Maranello dove l' addio è glaciale; si è rotta la sintonia. Davvero poco per un' unione che a Maranello è costata 160 milioni. A tanto ammontano stipendi e bonus pagati in sei anni al campione tedesco che doveva far dimenticare Michel Schumacher e riportare il titolo mondiale che manca dal 2007. Rimangono 14 vittorie e due secondi posti nel mondiale. Un piazzamento, come ricordava il Drake, presto dimenticato. Anche la scelta dei tempi dimostra che l' amore era ormai finito. In genere dei rinnovi si parla a settembre a Monza. In questo caso non solo non è stata rispettata la scadenza ma il divorzio è stato annunciato prima ancora che questa assurda stagione, segnata dal Coronavirus, abbia inizio. Chissà con quale animo Vettel correrà un campionato che a maggio non ha ancora un calendario. Se sarà necessario Vettel cederà il passo a Leclerc? Difficile pensarlo.

Il caso di Monza - Come dimenticare cos' era successo a Monza nel 2018 quando Raikkonen, non certo un teppista dei circuiti, partito in pole position dopo aver saputo che la sua carriera in Rosso era finita non aveva dato spazio al compagno ancora in corsa per il mondiale. Alla curva successiva uno sconsiderato sorpasso su Hamilton concluso fuori pista aveva chiuso il gran premio, il mondiale e l' amore tra Vettel e Binotto. Il 2019 è stata solo una formalità vista la superiorità della Mercedes. Non per questo, ai tifosi del Cavallino è stato risparmiato il dolore del duello rusticano che ha messo fuori le due Rosse in Brasile. Ingiustificabile visto che in palio c' era solo il quarto posto. Il prologo di questa incontenibile rivalità c' era stato un mese prima a Monza con la furbata di Leclerc che rompendo gli ordini di scuderia aveva frenato il compagno impedendogli la possibile pole position. L' indomani il "principino" aveva dimostrato classe pura e sangue freddo infinito tenendo dietro per settanta giri le invincibili Mercedes. Il Drake dal cielo guardava soddisfatto. Gli sarà venuto in mente Gilles Villeneuve, il più amato di tutti. A Jarama (Spagna) nel 1981, con una Ferrari potente ma allergica alle cureve (come da tradizione) ne aveva messi in fila cinque vincendo il volata. E invece Vettel? Come dimenticare il Canadà quando non era riuscito a resistere a Hamilton, tagliando una chicane e beccandosi la penalizzazione. Marchionne non ha fatto in tempo a pentirsi della scelta. Ma quanta ha sbagliato Vettel privando la Ferrari dei campionati 2017 e 2018. L' indicente delle due Rosse in partenza a Singapore. La ruotata a Hamilton a Baku in regime di safety car, l' uscita di strada a Hockeneim nel 2018.

Come Ascari - Impulsività che ricordavano Alberto Ascari ultimo campione del mondo italiano (1953). Inarrivabile se partiva in testa. In difficoltà se costretto a remare dietro. Altrettanto Vettel imbattibile con il missile Red Bull costruito da Adrian Newey. Troppo spesso cieco in Ferrari. Ora si parlerà del taglio del compenso come ragione del divorzio (da 30 a 10 milioni l' anno, quanto Leclerc). Degli errori fatti al box costati il posto di "team principal" a Maurizio Arrivabene. Resta il fatto che due pluricampioni del mondo hanno infranto la carriera a Maranello: Fernando Alonso prima e Vettel adesso. Ma non ha importanza. Come diceva il Drake: i piloti passano, la Ferrari resta.

GIORGIO URSICINO per il Messaggero il 16 novembre 2020. Divino. La personalità immensa di Lewis Hamilton si allunga sempre di più sulla Formula 1. Una presenza devastante, quasi soprannaturale. Non ha rivali. Ormai corre solo contro se stesso per cercare di allungare i mille record che ha già messo in cassaforte. A differenza di quanto faceva da giovane, non ama più duellare. Un Re non lo fa. Non è bello. Si muove solitario come un Faraone e, quando sposta il manettino nella posizione hammer time, non guida, ma pennella poesia. Ieri l'apoteosi. Su una pista infida al limite del praticabile, che forse non si era mai vista nel campionato delle monoposto più veloci del mondo, si è andato a prendere la sua settima corona iridata con una lectio magistralis. Ha uguagliato Schumi che sembrava inarrivabile e, quasi certamente, lo staccherà. Per portare a casa il risultato bastava passeggiare fino al traguardo. L'unico avversario che poteva impensierirlo navigava nelle retrovie dopo aver fatto una sagra di testacoda tanto da finire doppiato. Un'umiliazione. Al via, sotto il diluvio, si erano scatenati tutti i rampolli rampanti, giovani di bellissime speranze e tanto talento come Max Verstappen e Charles Leclerc. Vuoi vedere che oggi con il sovrano sazio, e la sua spaziale Freccia Nera non in grado di scaricare a terra il suo enorme potenziale, c'è gloria anche per gli altri? Così via allo spettacolo, con testacoda, controsterzi e uscite sul prato manco fosse il Rally di Montecarlo. Il Maestro guardava disinteressato, navigava in posizione anonima. Non è così che si guida una F1. Non è così che si tratta una Mercedes. Intanto Lewis, come un computer, registrava nel suo casco le infinite varianti del circuito allagato: l'aderenza, le pozze, i rischi di acquaplaning. Poi, al pit stop per il cambio gomme, il cambio marcia: andiamoci a prendere la coppa, a modo mio. Vederlo guidare era una meraviglia: macchina sui binari tanto da sembrare di essere su un tracciato diverso, nessuna sensazione di precarietà, il controllo era assoluto. Gli altri, per andargli dietro, provavano a cambiare di nuovo le gomme, ma non era quello. Lewis continuava con le intermedie diventate slick fino alla bandiera a scacchi. Per gli amanti degli incidenti, una mezza delusione; per i puristi della guida, una vera libidine. Ci sarà un motivo se nelle ultime centinaia di gare ha messo le ruote fuori pista soltanto in Spagna nel 2016 per aver fatto la corrida col compagno Rosberg? E se quest' anno ha vinto 10 gare su 13 (9 volte è partito dalla pole) acciuffando il titolo con tre gare di anticipo? Dopo il traguardo i lacrimoni più che di gioia di emozione. Ha cancellato senza volerlo le imprese dei suoi idoli, da Senna a Schumi che, nel 2013, gli ha lasciato la Stella tedesca per consacrarsi fenomeno. Fermata la Mercedes un po' sporca, ma intatta, nessuno aveva il coraggio di interrompere un momento tanto solenne: il Re Nero solo con se stesso. A rompere gli indugi è stato Vettel che, dall'alto dei suoi 4 mondiali, si è inchinato al pilota più vincente di tutti i tempi, lo ha abbracciato con slancio e referenza, cancellando in un attimo i vecchi rancori. Ha vinto più di tutti, ma soprattutto ha conquistato tutti. Non c'è più nessuno che non riconosce che il principe della velocità sia lui. Un padrone assoluto che ha preso per mano lo sport più globale del pianeta e lo sta portando verso nuovi territori. Mai sgarbato. Mai sopra le righe. È tempo che non si ricordi una sua polemica, una mancanza di rispetto per i colleghi. Ai piedi del podio l'Hamilton pensiero, che non sembra quello di uno sportivo, ma di un politico. Nel giorno della consacrazione, non dà importanza alle imprese sportive: «Ringrazio tutti i ragazzi dei box e quelli in fabbrica, senza il loro lavoro questi risultati non sarebbero stati possibili. Un pensiero anche alla mia famiglia: mi è sempre stata vicino». Poi parla del futuro, con discrezione, senza enfasi. Non un accenno all'ottavo titolo che è quasi scontato: «Il prossimo anno mi piacerebbe essere ancora qui, mi trovo bene, mi diverto ancora. Ho programmi in piedi molto coinvolgenti con la Mercedes che mi piacerebbe molto portare avanti. La lotta alle disuguaglianze e al razzismo, quest' anno abbiamo fatto cose importanti, ma c'è ancora molto da fare. E poi la svolta energetica e la mobilità sostenibile sulla quale è impegnata la nostra Casa. Ci credo molto, mi piacerebbe essere il testimonial, è una sfida appassionante».

F1, storico Hamilton: vince in Germania ed eguaglia il record di 91 successi di Michael Schumacher. Il britannico trionfa nel Gp Eifel davanti a Verstappen e Ricciardo e raggiunge il tedesco. "Mai avrei immaginato che mi sarei avvicinato ai suoi primati". Mick Schumacher gli dona un casco del papà. Bottas costretto al ritiro. Ferrari: settimo Leclerc, undicesimo Vettel. Alessandro Retico l'11 ottobre 2020 su La Repubblica. Lewis Hamilton come Michael Schumacher: 91 successi. Il sei volte campione del mondo eguaglia la leggenda della F1 e lo fa in Germania, sul Nurburgring, dove il tedesco è stato anche il più vincente (5 vittorie). Il britannico con la sua Mercedes riscrive la storia davanti agli occhi del figlio del Kaiser, Mick, 21 anni, che segue la gara dai box dell'Alfa Romeo con la quale avrebbe dovuto esordire al volante nelle prove libere di venerdì, poi annullate per pioggia e nebbia, e poi gli va a consegnare il casco del padre dicendo: "Congratulazioni, è un grande traguardo". Lewis se lo porta sul podio il casco di Schumacher. Era solo una questione di tempo da quando nel 2007 ha colto la sua prima vittoria in Canada (con McLaren). E Hamilton ha colto l'attimo perfetto: dopo aver mancato la pole per poco trovandosi dietro al compagno di squadra, Valtteri Bottas, si riscatta in gara attaccando subito il finlandese, per poi passarlo al momento opportuno, infine approfittando di un errore del suo scudiero che sarà poi costretto al ritiro per un problema all'ibrido del motore (nuovo). "Ho fatto una bella partenza, ho affiancato Valtteri, ho avuto un po' di sottosterzo, ho tenuto duro, ho cercato di gestire le gomme per qualche giro prima di attaccare, mentre Max andava molto veloce. Sono al settimo cielo. Emozionato nel ricevere il casco di Michael, non so cosa dire, sono cresciuto idolatrando Michael, ho giocato a "Michael" nei videogame, ho guardando il suo dominio e mai avrei immaginato che mi sarei avvicinato ai suoi record e me ne sono reso conto solo entrando nella pita lane. E' un grande onore". Nella foresta gelida dell'Eifel, 9 gradi nell'aria e 18 sull'asfalto, la gara in sé, al netto del ritiro a sorpresa di Bottas che mette dubbi sull'affidabilità dei motori Mercedes (peraltro nuovi per entrambi i piloti) e una safety car a 15 giri dal termine che non scompiglia più di tanto la griglia, non offre grandi emozioni. Sul podio, 2°, c'è Max Verstappen con la sua Red Bull che fa anche il giro veloce: "Buona gara, ho cercato di seguire Lewis e una volta che Valtteri è uscito sono rimasto attaccato, ma Lewis era tropo veloce. La pista era molta fredda e le gomme diventano fredde una volta uscite dai box. Siamo secondi ed è il posto che ci meritiamo oggi". E' il terzo posto che fa stappare sorrisi, con Daniel Ricciardo e la Renault 3°, sul podio non saliva dal successo a Monaco nel 2018: l'australiano ora costringerà il team principal Cyril Abiteboul a farsi un tatuaggio: "E' passato parecchio tempo dal mio ultimo podio, mi sembra che sia la mia prima volta sul podio, sono felice, ora vedremo cosa farò fare a Cyril, magari un tatuaggio che riguardi me e la Germania". La Ferrari, dopo l'ottimo 4° posto in qualifica di Charles Leclerc, in gara si rivela la Ferrari di questa stagione: lenta. Per fortuna la safety car nel finale ha risparmiato loro il doppiaggio. Il monegasco chiude 7°: "Abbiamo visto spesso da inizio anno in qualifica che con poca benzina riusciamo a estrarre il massimo, ma poi in gara è un disastro, specie con le soft che si sono rovinate subito. Non le ho volute mettere alla fine vista la fatica che ho fatto all'inizio. Questo è quello che potevamo fare oggi". Sebastian Vettel, 11° al via, è 11° anche sotto il traguardo dopo una gara dove si è anche girato mentre era in lotta con l'Alfa di Giovinazzi: "La partenza non è stata male, poi ci siamo presi troppi rischi, è stato difficile rimontare. Con la safety car c'è stata la possibilità di andare a punti ma non ce l'ho fatta. Il tentativo di sorpasso a Giovinazzi? Guadagnavo solo nell'ultima parte del rettilineo, quando mi stavo avvicinando ho perso la macchina. Gli aggiornamenti hanno aiutato? Non credo sia stato quanto ci aspettassimo".

Giusto Ferronato per gazzetta.it l'11 ottobre 2020. Lewis Hamilton ce l’ha fatta: da oggi è insieme a Michael Schumacher il pilota con più GP vinti in F.1, 91. L’inglese della Mercedes ci è riuscito battendo nel GP dell’Eifel Max Verstappen (Red Bull) e Daniel Ricciardo (Renault). Settimo posto per la Ferrari di Charles Leclerc. Chissà cosa si prova a diventare il più vittorioso di sempre raggiungendo un mito come Schumi, che aveva portato il limite delle vittorie in questo sport a una cifra che per molti era probabilmente irraggiungibile. Lewis avrà tempo per metabolizzare e mettere ordine tra le emozioni. Perché ha raggiunto l’Everest dello sport che sognava di fare da bambino e perché, anche per uno navigato come lui, non dev’essere qualcosa di banale scendere dalla macchina e veder arrivare Mick, il figlio del campionissimo tedesco, col casco del papà in omaggio per lui. Il 21enne che presto esordirà nella massima serie gli ha stretto la mano e gli ha detto “Complimenti, un record meritato”. Lewis è apparso emozionato: “Non so cosa dire, è un grande onore” il ringraziamento di Lewis. Si sapeva che sarebbe arrivato questo record, agguantarlo proprio in Germania, la patria di Schumi, è stato davvero un segno del destino. Ora Lewis ha altre 6 gare per andare oltre, ma il grande giorno è oggi. La gara è stata l’ennesima dimostrazione di forza della Mercedes. Valtteri Bottas ha provato dalla pole a vincere, ma problemi tecnici alla sua macchina hanno spianato la strada a Lewis, che al 13° giro ha preso la testa e non l’ha più mollata. La Red Bull di Max Verstappen ha seguito l’inglese finché ha potuto, perché quando la W11 del 6 volte iridato ha allungato, non c’è mai stata partita. Dietro di loro ha chiuso terzo un grandissimo Daniel Ricciardo, che voleva a tutti i costi chiudere la sua storia con la Renault portando a casa un podio, sfiorato nelle ultime gare. Per l’australiano anche un grande sorpasso all’esterno a Charles Leclerc nella prima parte di gara. La Ferrari ha lottato col monegasco, ma in questo momento la SF1000 non è in grado di fare di più sulla distanza di gara. Sebastian Vettel ha chiuso 11° fuori dalla zona punti dove invece si è infilato Antonio Giovinazzi, ottimo decimo con l’Alfa Romeo.  Bella anche la gara di Sergio Perez con la Racing Point, quarto davanti alla McLaren di Carlos Sainz e all’AlphaTauri di Pierre Gasly. E bravo anche Nico Hulkenberg, che ha sostituito ieri Lance Stroll e senza troppi fronzoli ha portato a casa un bel piazzamento a punti. Ritiro per Lando Norris, appiedato dalla power uniti che aveva sostituito prima del via. La Safety Car entrata per rimuove la sua vettura ha regalato un po’ di pathos negli ultimi 10 giri. Nei quali però le posizioni di test non sono cambiate. Era il grande giorno di Lewis Hamilton e niente ha potuto guastarlo. L’eterno dibattito su chi sia stato il più grande di sempre ha ufficialmente un nuovo iscritto.

Alonso punge Hamilton: "Vince facile perché nessuno gli mette pressione". Fernando Alonso è entrato in tackle su Hamilton ma anche sui suoi rivali: "Lewis è migliorato ancora ma ha ancora dei punti deboli che non sono stati provati. Nessuno lo spinge a dovere su quelli". Marco Gentile, Mercoledì 29/01/2020 su Il Giornale. Lewis Hamilton ha un obiettivo ben preciso quest'anno: vincere il settimo titolo mondiale in Formula Uno eguagliando il grande Michael Schumacher a quota 7. Il fuoriclasse della Mercedes è carico così come il suo compagno di squadra Valterri Bottas e quest'anno sarà cruciale soprattutto per la Ferrari che deve per forza di cose spezzare l'egemonia delle Frecce d'argento che dura da troppi anni sul circuito. Uno che conosce molto bene il 35enne inglese è Fernando Alonso che nel 2007, fresco vincitore di due titoli mondiali con la Renault, passò in McLaren e fu il compagno di squadra di un giovanissimo Lewis. I due si diedero battaglia fino alla fine per conquistare il titolo mondiale che andò poi in tasca a Kimi Raikkonen che beffò entrambi per un solo punto. A fine anno Alonso tornò in Renault per una serie di incomprensioni con il box e con il suo ex compagno a cui ha voluto dedicare una piccola stoccata. Il 38enne di Oviedo ai microfoni di F1 Racing ha spiegato: "Lewis ha alzato il proprio livello negli ultimi due anni, soprattutto l’anno scorso quando la macchina non è stata dominante come prima. Se non può vincere arriva secondo e comunque a breve distanza, mai a 20 secondi, cosa che invece succede al suo compagno Bottas, che quando le cose non vanno finisce quinto o sesto, a un minuto. A Lewis non succede". Dopo i complimenti l'affondo a lui e ai suoi avversari che pare non gli diano abbastanza filo da torcere: "Lewis è migliorato ancora ma ha ancora dei punti deboli che non sono stati provati. Nessuno lo spinge a dovere su quelli. Se si analizzano le stagioni di Lewis c’è un denominatore comune, inizia la stagione lentamente e nessuno ne approfitta, pensiamo che sia l’anno di Bottas, ma non succede. Sarebbe bello gareggiare contro di lui in una vera battaglia. Magari i suoi punti deboli non sono reali e tutto è calcolato, ma sarebbe bello scoprirlo". Alonso ha sempre dimostrato di non avere peli sulla lingua e anche questa volta non ha avuto timore di dare la sua opinione in merito al collega inglese pungendo ancora una volta i suoi rivali diretti: "Quando hai un buon pacchetto e l’altro pilota fa incidenti e tu allunghi in classifica, tutto sembra tranquillo. Ma se il distacco è di uno o 10 punti le cose cambiano, lo stress è diverso, gli errori sono diversi, i messaggi radio sono diversi. Bisogna vedere Hamilton lottare sotto pressione".

"Nero, bullizzato. Per questo guido così". Hamilton rivela: "Da piccolo mi hanno picchiato per il colore della pelle". Umberto Zapelloni, Lunedì 08/06/2020 su Il Giornale. Che Lewis Hamilton non fosse solo il miglior pilota di quest'epoca, lo avevamo capito da tempo. Non si è mai fermato in pista, è sempre andato oltre con le parole, con i pensieri. Una volta per difendere gli animali, l'altra per spiegare perché era diventato vegano. La sua ultima battaglia contro il razzismo è stato fortissima tanto dal permettersi di dire ai suoi colleghi: «Svegliatevi! Dite qualcosa anche voi». E loro lo hanno seguito come si fa solo con un capopopolo. Perché Lewis oggi è questo. Anche questo. Perché abbia così a cuore questa battaglia lo spiega il colore della sua pelle e quella frase detta a Toto Wolff: «Quante volte ti succede di dover riflettere sul fatto che sei bianco? A me capita tutti i giorni». Ma per capire tutti i suoi post Instagram, quei pugni chiusi levati al cielo, mancava un tassello, una confessione. Eccola: «Da piccolo sono stato bullizzato e picchiato per il mio colore della pelle, ho imparato a difendermi con il karate», una rivelazione shock. #Blacklivesmatter è il suo hashtag preferito in questo periodo. Mentre i suoi avversari si sfidano in gare virtuali che sono avvincenti solo per loro, Lewis Hamilton continua con il suo racconto: «Ho letto ogni giorno il più possibile per cercare di sapere tutto il possibile su quello che è successo nella lotta contro il razzismo, questo ha riportato alla memoria tanti dolorosi ricordi della mia gioventù. Memorie intense delle sfide che ho affrontato quando ero bambino, come credo che molti di voi che abbiano sperimentato il razzismo o qualsiasi tipo di discriminazione abbiamo vissuto. Ho parlato così poco delle mie esperienze personali perché mi è stato insegnato a tenermi le cose dentro, non mostrare debolezze, uccidere gli altri con l'amore e poi batterli in pista. Ma lontano dai circuiti sono stato bullizzato, picchiato, e il solo modo per rispondere a questo è stato imparare a difendermi, così ho imparato il karate. Ma gli effetti psicologici negativi non possono essere misurati». «È anche per questo che guido nel modo in cui lo faccio, è molto più profondo di un semplice sport, io sto ancora lottando - spiega Hamilton -. Grazie a Dio avevo mio papà, una figura molto forte. Non tutti hanno questa fortuna, ma dobbiamo restare uniti con coloro che non hanno un eroe al quale affidarsi. Dobbiamo unirci! Mi ero chiesto perché il 2020 sembrasse così sfortunato sin dall'inizio, ma ora sto cominciando a pensare che potrebbe essere l'anno più importante delle nostre vite, dove poter finalmente cominciare a cambiare l'oppressione delle minoranze. Vogliamo solo vivere, avere le stesse possibilità a livello di istruzione, e non aver paura di passeggiare per strada, andare a scuola o in un negozio. Ce lo meritiamo come chiunque altro. L'uguaglianza è fondamentale per il nostro futuro. Non possiamo smettere di portare avanti questa battaglia e io per primo non mollerò mai». Parole dure, chiare, precise. Mohammed Ali ha trovato il suo erede.

Paola De Carolis per corriere.it il 22 giugno 2020. «Chi è peggio, il bullo che ti picchia e ti tormenta o chi si volta dall’alta parte per non vedere?». Inizia con una domanda-provocazione l’intervento con il quale Lewis Hamilton, il pilota di Formula 1 di maggior successo nella storia del Regno Unito, ha dato voce alla rabbia e alla frustrazione che prova nei confronti dei pregiudizi e del razzismo che ancora macchiano la quotidianità britannica e l’ambiente sportivo nel quale lavora. Con un lungo articolo sul Sunday Times, seguito dalla partecipazione a una manifestazione del movimento Black Lives Matter a Hyde Park (testimoniata dalle foto sul suo profilo Instagram), Hamilton, che è tuttora l’unico pilota nero della Formula 1, ha annunciato anche la creazione, assieme alla Royal Academy of Engineering, di un organismo, la «commissione Hamilton», il cui obiettivo sarà di interessare più ragazzi di colore a materie come la matematica, le scienze e la tecnologia e di incrementare la diversità nella Formula 1, che dovrebbe essere «varia e complessa come il mondo in cui viviamo». La morte di George Floyd, scrive Hamilton, gli ha fatto provare un dolore profondo: la brutalità della polizia e il razzismo sistemico che colpiscono le minoranze etniche sono realtà che «tutti i neri conoscono», senza eccezione. Lui stesso, ha sottolineato, è stato costretto a imparare a reagire già da bambino — sulla pista da kart c’era chi gli tirava cose addosso — e la situazione non è migliorata sui circuiti di Formula 1. Nel 2007, in uno dei suoi primi gran premi, c’erano tra il pubblico tifosi con la faccia dipinta di nero. I giornalisti, dice, a lui fanno domande diverse rispetto ai colleghi bianchi. Nel Regno Unito, nonostante i successi da libro dei primati, c’è chi non lo rispetta e non lo ama, chi lo considera altezzoso, chi non lo giudica un vero inglese. Suo padre gli ha fatto presto il discorso che ancora tanti padri neri sono costretti a fare. «Tutto sarà più difficile per te per via del colore della tua pelle. Dovrai lavorare sodo, dovrai lavorare più duro degli altri». È quello che ha fatto, spesso scegliendo anche di tenere la testa bassa e la bocca chiusa. Non più. «Ho visto gente che rispetto che non ha detto nulla» sulla morte di Floyd, ha scritto, e «questo mi ha spezzato il cuore. Per questo sento il dovere di parlare»: perché «quando si rimane neutrali, l’ingiustizia prevale». Diversi piloti di Formula Uno hanno espresso il loro appoggio al movimento di Black Lives Matter in seguito ai commenti di Hamilton sui social. «Essere il primo nero in qualsiasi settore è un tragitto pieno di orgoglio ma solitario», ha sottolineato Hamilton. «All’inizio mi sentivo libero di essere me stesso solo con il casco in testa». Con il successo è arrivata anche la forza di «abbracciare tutte le mie diversità, in modo autentico e aperto», nonché di parlare di temi per lui importanti. «È giunta l’ora di imparare di più, di parlare di più, e — ancor più importante — fare di più. Vincere campionati è meraviglioso, ma voglio essere ricordato per il mio lavoro nel creare una società più uguale. Voglio concentrare la mia energia, la mia influenza e le mie risorse nella creazione di un mondo più inclusivo». Un’impresa che inizia con la scuola e l’istruzione.

Stefano Mancini per lastampa.it l'1 giugno 2020. «So chi siete e vi vedo». E’ durissimo il j’accuse di Lewis Hamilton ai colleghi piloti, alla Formula 1 e all’intera industria dell’auto che tacciono di fronte alla morte di George Floyd, l’afroamericano disarmato ucciso da un poliziotto a Minneapolis. Il sei volte campione del mondo della Mercedes aveva preso posizione contro il razzismo fin dal suo esordio nel mondo dei motori, «uno sport dominato dai bianchi», ma stavolta il tono della sua protesta si estende a coloro che corrono in pista con lui in giro per il mondo, virus permettendo. «Io vedo quelli di voi che stanno zitti, le più grandi star che tacciono di fronte all’ingiustizia - scrive Hamilton su Instagram -. Non un segno da parte di nessuno nella mia industria, che ovviamente è dominata dai bianchi. Io sono ancora l’unico nero qui. Pensavo avreste capito come mai questo succede e avreste detto qualcosa, ma voi non potete stare al nostro fianco. Solo ricordate: io so chi siete e vi vedo...». Floyd, afroamericano di 46 anni, è morto a Minneapolis il 25 maggio dopo che l’agente di polizia Derek Chauvin è rimasto inginocchiato sul suo collo per otto minuti e 46 secondi. L’episodio ha incendiato l’America e spinto le più grandi star dello sport, da Serena Williams a Michael Jordan, a denunciare razzismo e violenze. Hamilton precisa che il suo appoggio va soltanto alla protesta pacifica. Ma aggiunge: «Non ci può essere pace finché i nostri cosiddetti leader non faranno un cambiamento. Non è soltanto l’America, questo è il Regno Unito, la Spagna, l’Italia e tutti gli altri. Il modo in cui le minoranze vengono trattate deve cambiare. Razzismo e odio non nascono nei nostri cuori, ma vengono insegnati». Oltre a Hamilton, sui social è arrivata la presa di posizione contro il razzismo di Daniel Ricciardo, pilota della Renault, cui sono seguiti i messaggi di Charles Leclerc della Ferrari («è nostra responsabilità denunciare il razzismo, non dobbiamo restare silenziosi») e Lando Norris (McLaren).

Umberto Zapelloni per “il Giornale” l'1 giugno 2020. La Williams è in vendita. La fuga dell' ultimo sponsor, la Rokit, ha costretto uno dei team più vincenti nella storia della Formula 1 a mettersi sul mercato. «Abbiamo avviato un processo formale di vendita», recita il comunicato senza specificare se si tratterà di vendita parziale o totale. La Williams ha vinto 9 Mondiali Costruttori e 7 Piloti, ma l' ultimo titolo risale al 1997 con Jacques Villeneuve e l' ultima vittoria in un Gran premio al 2012 quando in Spagna Pastor Maldonado sorprese tutti, probabilmente anche se stesso. Da allora ha collezionato solo figuracce diventando la peggior squadra del campionato, con soli 8 punti nelle ultime due stagioni. Il crollo dell' economia dovuto alla pandemia, il rosso di 14,5 milioni di euro nel bilancio 2019 hanno costretto Frank e sua figlia Claire, che oggi gestisce il team in pista, a lasciare proprio mentre la F1 si appresta a entrare nell' era del budget cap, che Claire avrebbe voluto da anni. La Williams che molla non è una bella notizia, perché la squadra di Grove è sempre stata un esempio, costruita a immagine e somiglianza del suo fondatore, sir Frank che, tetraplegico dal 1986, dopo esser rimasto per sei settimane tra la vita e la morte, non ha mai mollato. Se Alex Zanardi è un eroe moderno, sir Frank Williams non gli va molto lontano anche se lui, che pure era un maratoneta, non ha mai avuto la possibilità di muovere neppure le braccia. Una tortura per un uomo che era follemente innamorato della velocità. «L' ho amata e se sono finito su una sedia a rotelle è proprio per colpa della velocità», ammette. Era in auto quando ebbe l' incidente, stava raggiungendo l' aeroporto di Marsiglia da Le Castellet dove aveva assistito alle prove del team. Si è capottato, come gli è successo decine di volte. Era spregiudicato in pista come negli affari. Si racconta che quando vendeva auto agli italiani spesso si faceva rimandare indietro la vecchia monoposto, ci lavorava su per mesi, cambiava le targhette identificative del telaio e rivendeva come nuova la stessa auto al suo stesso proprietario. Quando è diventato abbastanza forte e ricco da poter saldare tutti i conti, si è trovato alle prese con altri conti da pagare, oltre a quello della sua condizione fisica. La morte di Piers Courage negli anni Settanta e quella di Ayrton Senna nel 1984. Lui che per primo aveva offerto ad Ayrton la possibilità di salire su una Formula 1, lo aveva visto morire su una sua auto, per un problema tecnico. Provò a tenersi tutto dentro anche quella volta. «A casa nostra Ayrton è stato considerato un Dio per lungo tempo racconta Claire in un bel documentario della Bbc -. Papà ne era innamorato. Lo aveva nel cuore, nella testa e voleva assolutamente portarlo in squadra. Alla fine il suo sogno si è avverato, ma è finito nel peggior modo possibile». Sir Frank non ha ancora 80 anni (è nato il 16 aprile 1942), ma non ha più la forza per combattere come un tempo. Ha provato a lasciare tutto alla figlia che ci ha messo l' anima, ma non ha trovato vie d' uscita se non la ricerca di un compratore. E sarà come dire addio alla Formula 1 di un tempo. La più romantica, ma forse anche la più bella.

Da corrieredellosport.it il 26 maggio 2020. Sei anni e mezzo dopo il tragico incidente di Méribel sulle Alpi francesi, le condizioni di Michael Schumacher rimangono ancora avvolte nel mistero. Il sette volte campione del mondo, nella sua casa di Ginevra, continua la sua lotta nella assoluta privacy imposta dalla moglie Corinna e dalla famiglia. Pochissime persone sono ammesse: tra esse ci sono Jean Todt e Felipe Massa.

Riserbo totale. Il quotidiano spagnolo Mundo Deportivo ha fatto un quadro generale delle condizioni del Kaiser. La famiglia del pilota tedesco, icona della Formula 1 e della Ferrari, ha imposto il più totale riserbo e solo in rare occasioni, come per i 50 anni di Schumi lo scorso anno, ha emesso comunicati ufficiali. All’epoca la famiglia dichiarò che "Michael è nelle mani migliori" e chiedendo, ancora una volta, che i fan rispettino la privacy sulla situazione del campione tedesco. La stessa Corinna ha affermato come stia "seguendo la volontà di Michael di mantenere essendo lui, da sempre, particolarmente sensibile alla sfera privata. Michael ha fatto tutto per me. Non dimenticherò mai a chi devo essere grata e questo è mio marito”. L'incidente ha causato gravi lesioni cerebrali per le quali è stato operato due volte che lo hanno costretto a 6 mesi di coma indotto. In questi sei anni e mezzo, le notizie, anche più disparate, intorno a Schumi si son rincorse. Il Daily Mail, uno dei più attivi in merito alla questione del pilota tedesco, ha formulato nel corso del tempo varie ipotesi: dal fatto che l’ex campione della Ferrari non fosse in un letto alla questione finanziaria che è stata definita non semplice poiché le cure mediche stanno esaurendo il tesoro di famiglia. In questo periodo non sono mancate le denunce ad alcuni organi di informazione.

Amici più cari. Una delle poche persone ammesse a veder Schumacher l'attuale presidente della FIA, Jean Todt, grande amico di Schumacher. L'anno scorso, il francese ha fornito notizie rassicuranti sul tedesco, assicurando in un'intervista a Radio MonteCarlo di aver visto il GP di Germania in televisione con Schumacher. "Michael è sempre stato molto riservato. È circondato dall’amore della sua famiglia. Continua a combattere, come è nella sua natura", ha chiarito Todt. L'ultimo dei suoi amici a parlare del Kaiser è stato Felipe Massa che ha affermato come "la situazione di Schumacher non sia facile, è in un momento difficile".

Ipotesi cellule staminali. Nell'ottobre 2019, "Le Parisien" ha riferito che l'ex pilota è stato trasferito all'ospedale europeo Georges Pompidou di Parigi ipotizzando che Schumacher fosse stato trasferito in quell'ospedale per un trattamento di cellule staminali. Inoltre, secondo altre fonti, Schumacher aveva precedentemente effettuato almeno due visite nello stesso centro ospedaliero francese: ipotesi che alimentavano l’idea che Schumacher stesse ricevendo un trattamento specifico.

Tutti i "segreti" sulla salute di Schumacher. Il Mundo Deportivo prova a fare chiarezza sulle condizioni del pilota tedesco dopo il tragico incidente del dicembre 2013 a Méribel. Antonio Prisco, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. Sei anni e mezzo dopo il tragico incidente di Méribel sulle Alpi francesi, le condizioni di Michael Schumacher rimangono ancora avvolte nel mistero. Il sette volte campione del mondo, nella sua casa di Ginevra, continua la sua lotta nell'assoluta privacy imposta dalla moglie Corinna e dalla famiglia. Al momento qualsiasi dettaglio che può essere fornito sull'attuale stato di salute rappresenta soltanto una pura ipotesi o una conclusione dedotta dalle poche dichiarazioni raccolte negli ultimi sei anni. Il quotidiano spagnolo Mundo Deportivo ha fatto un quadro generale delle condizioni del campione tedesco.

Silenzio assoluto. L'incidente ha causato gravi lesioni cerebrali per le quali è stato operato due volte che lo hanno costretto a sei mesi di coma indotto. Sin dall'inizio la famiglia del pilota tedesco ha imposto il più totale riserbo e solo in rare occasioni, come per i 50 anni di Schumi lo scorso anno, ha emesso comunicati ufficiali. All'epoca la famiglia dichiarò che "Michael è nelle mani migliori" e chiedendo, ancora una volta, che i fan rispettino la privacy sulla situazione del campione tedesco. La stessa Corinna aveva affermato come stia "seguendo la volontà di Michael di mantenere essendo lui, da sempre, particolarmente sensibile alla sfera privata. Michael ha fatto tutto per me. Non dimenticherò mai a chi devo essere grata e questo è mio marito''.

Le denunce contro la stampa. Questo silenzio ha però causato l'effetto opposto a quello desiderato. In questo modo tutto ciò che si dice, qualsiasi voce o dichiarazione sul possibile stato di salute di Michael, assume grandissimo impatto in tutto il mondo. Il Daily Mail ha formulato in questi anni diverse ipotesi: dal fatto che l’ex campione della Ferrari non fosse in un letto alla questione finanziaria sempre più difficile visto che le cure mediche stanno esaurendo il tesoro di famiglia. Tuttavia in questi anni non sono mancate le denunce contro gli organi di informazione al fine evitare speculazioni giornalistiche come nel caso del furto delle cartelle cliniche (caso che portò al suicidio del sospettato ndr) o delle foto scattate dell'ex pilota nel letto di casa sua.

La vicinanza degli amici. Pochissime persone sono ammesse a vedere Michael. L'anno scorso Jean Todt, attuale presidente della Fia e grande amico di Schumi, aveva fornito notizie rassicuranti sul tedesco, assicurando in un'intervista a Radio MonteCarlo di aver visto il Gp di Germania in televisione con Schumacher. "Michael è sempre stato molto riservato. È circondato dall’amore della sua famiglia. Continua a combattere, come è nella sua natura", ha chiarito Todt. L'ultimo dei suoi amici a parlare è stato Felipe Massa che pochi giorni fa ha affermato come "la situazione di Schumacher non sia facile, è in un momento difficile".

La cura con cellule staminali. Nell'ottobre 2019, Le Parisien ha riferito che l'ex pilota è stato trasferito all'ospedale europeo Georges Pompidou di Parigi ipotizzando che fosse stato trasferito in quell'ospedale per un trattamento di cellule staminali. Inoltre, secondo altre fonti, il tedesco aveva precedentemente effettuato almeno due visite nello stesso centro ospedaliero francese. L'ipotesi rafforzava la convinzione che Schumacher stesse ricevendo un trattamento specifico. Da allora silenzio assoluto soltanto supposizioni o semplici congetture ma chi lo ha amato davvero e tutto il mondo della Formula Uno non hanno ancora smesso di sperare.

Jean Todt torna a parlare di Schumi: "Molto ben circondato, speriamo migliori..." L'attuale presidente della FIA Jean Todt è tornato a parlare delle condizioni di salute del suo grande amico Schumacher: "Michael è ben circondato e comodamente sistemato". Marco Gentile, Lunedì 16/11/2020 su Il Giornale. Lewis Hamilton ha eguagliato Michael Schumacher con sette titoli mondiali messi in bacheca e l'anno prossimo tenterà il sorpasso al fuoriclasse tedesco della Formula Uno. L'inglese ha ottenuto questo grande record e oggi il presidente della FIA Jean Todt, grande amico di Schumi, ai microfoni della radio francese RTL ha voluto parlare delle condizioni fisiche dello sfortunato ex campione della Ferrari. "Michael sta combattendo e possiamo solo augurare a lui e alla sua famiglia che le cose migliorino", queste le parole ripresa da Lapresse. "Schumi è molto ben circondato e comodamente sistemato", le poche parole di Jean Todt sul suo grande amico e compagno di mille battaglie ai tempi del Cavallino. L'ex team principal della Ferrari ha poi trovato anche il tempo per parlare del giovane figlio Mick che l'anno prossimo correrà con ogni probabilità in Formula Uno: "Probabilmente correrà in Formula 1 il prossimo anno, siamo lieti di avere di nuovo uno Schumacher ai massimi livelli delle corse automobilistiche".

Speranze vive o dura realtà? Jean Todt un paio di settimane fa ai microfoni del quotidiano olandese De Telegraaf aveva confermato di essere tornato a far visita a Michael Schumacher: "Schumi continua a lottare insieme alla sua famiglia e ai suoi medici. Vado a trovarlo regolarmente e guardiamo la TV insieme. Michael è a conoscenza della carriera del figlio? Non ne parlerò, non voglio entrare nei dettagli perché è qualcosa di privato".​ Jean Todt si è sempre mostrato positivo sulle condizioni di salute di Schumi mentre il neurologo svizzero Erich Riederer qualche tempo fa è stato molto più realista e crudo sul tema: "Penso che sia in uno stato vegetativo, il che significa che è sveglio ma non risponde. Respira, il suo cuore batte, probabilmente può sedersi e fare piccoli passi con aiuto, ma non di più. Credo che questo sia il massimo che possa fare. Non credo proprio che possa tornare nelle sue condizioni prima dell'incidente". Tutti i fan di Schumi e gli appassionati di Formula Uno, ma non solo, ormai da anni stanno tenendo il fiato sospeso augurandosi che Michael possa un giorno tornare a mostrarsi al mondo intero. La moglie Corinna è stata molto brava a proteggere il marito dai tanti rumors sulle sue reali condizioni fisiche ma nonostante questo le interpretazioni sullo stato di salute del tedesco sono state molteplici in questi quasi 7 anni.

Schumacher, trafugate foto privatissime della malattia: "In vendita a un milione", gioco al massacro. Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Dal grave incidente sulle piste di scii francesi di 6 anni fa nulla si sa sulle condizioni di Michael Schumacher. Nessuna dichiarazione sullo stato di salute, nessuna foto del campione di Formula 1, impegnato in una lunga riabilitazione. E' la linea decisa dai familiari, in particolare dalla moglie Corinna, che non permette a nessuno di avvicinarsi al marito. Ma quel massimo riserbo sulla salute di Schumacher potrebbe essere spezzato. La bomba che arriva dall'Inghilterra, rilanciata dal tabloid The Mirror, minaccia la privacy della famiglia Schumacher. Alcune foto riservate sarebbero state rubate dall'abitazione svizzera della famiglia Schumacher e poi messe in vendita all'esorbitante cifra di 1.3 milioni di $. La moglie Corinna ha subito sguinzagliato gli avvocati e adito la polizia svizzera, affinché blocchino eventuali compravendite e pubblicazioni. 

Da gazzetta.it il 22 gennaio 2020. Speculazione e accanimento continuano a circondare la vita di Michael Schumacher, da 6 anni alle prese con una dura riabilitazione successiva all'incidente sugli sci, il 29 dicembre 2013 a Meribel (Francia), che lo spedì in un cono d’ombra e mistero sulle sue condizioni. Secondo quanto riportato dal tabloid inglese 'The Mirror' delle foto di Schumi definite macabre, rubate all'interno della sua casa in Svizzera in cui sta svolgendo la riabilitazione, sarebbero state messe in vendita alla cifra di 1 milione di sterline. Per il sette volte campione del mondo di F.1 si tratterebbe di una gravissima violazione della privacy, avvenuta nonostante il rigido e rigoroso protocollo di riservatezza innalzato attorno a lui alle sue condizioni dalla sua famiglia. La moglie di Michael, Corinna, si è subito attivata per difendere la privacy e la sicurezza dell’ex pilota di Ferrari e Mercedes, rivolgendosi ai suoi avvocati e alla polizia svizzera per impedire che queste foto possano essere pubblicate, alimentando così ulteriori speculazioni sulle sue reali condizioni.

NESSUNA NOTIZIA. Lo stato di salute di Schumi resta ignoto: la base di partenza resta il bollettino emesso dall'ospedale di Grenoble nei giorni del primo ricovero, 6 anni fa, che riferisce di un danno assonale diffuso al cervello. Da allora si sono alternate speranze e delusioni, ma nessuna informazione precisa.

LE CELLULE STAMINALI. A settembre Schumacher fu trasportato in gran segreto, con un cordone di protezione degno di un capo di Stato, all'ospedale Georges Pompidou di Parigi per essere sottoposto a un trattamento con delle cellule staminali praticato dal professor Philippe Menasché, per ottenere un'azione "anti-infiammatoria sistemica".

LE TAPPE DELLA VICENDA. Dall'incidente sugli sci, con il campione che urtò violentemente con la testa contro le rocce, le notizie sulle condizioni di Schumacher sono sempre state avvolte dal mistero. Si sa che Schumi ha subito due interventi chirurgici, è stato quattro settimane in coma artificiale e diversi mesi in rianimazione, per lasciare nel giugno 2014 l'ospedale di Grenoble per quello di Vaud a Losanna e poi tornare nella sua casa svizzera a Gland, sulle rive del Lago di Ginevra. La sua villa sontuosa è stata trasformata in un centro di cura ad alta tecnologia, ma pure in un bunker inaccessibile, con selezionatissime visite e la moglie Corinna, con i suoi familiari, pronti a difendere il riserbo totale sullo stato di salute.

CARTELLE RUBATE E SUICIDIO. Vicende oscure e drammatiche hanno contornato la vicenda con speculazioni assortite. Nell'agosto 2014 un uomo sospettato di aver rubato la cartella clinica di Michael Schumacher si è impiccato in cella a Zurigo: l'uomo era un funzionario della Rega, l’ente del trasporto medico elvetico che ha organizzato il trasferimento di Schumacher in ambulanza dalla Francia alla Svizzera, aveva sempre negato ogni addebito. Per la cessione di questo materiale sensibile a diverse testate europee sarebbero stati chiesti 50 mila euro: dopo una denuncia verso ignoti nessuno aveva però pubblicato quanto offerto. Adesso, a distanza di anni, si aggiunge un'altra vicenda oscura. E triste.

Silvia Natella per "leggo.it" il 20 settembre 2020. «Michael Schumacher è sveglio, respira, il suo cuore batte, probabilmente può sedersi e fare piccoli passi con aiuto, ma non di più. Credo che questo sia il massimo che possa fare»: sono le parole del neurologo Erich Riederer a distanza di sette anni dall'incidente sulle piste da sci del campione di Formula Uno. Da allora la sua vita e quella dei suoi familiari è cambiata completamente, ma la moglie Corinna ha mantenuto il più stretto riserbo sulle sue condizioni di salute.

In molti hanno sperato in un recupero. Oggi il professore tedesco annuncia che le sue condizioni di salute sono irreversibili.

«Penso che sia in uno stato vegetativo, il che significa che è sveglio ma non risponde», ha detto in un documentario su Schumacher realizzato da TMC Francia. La sua tesi conferma lo stato vegetativo e non lascia ben sperare i fan che in tutti questi anni si sono aggrappati alle poche notizie sui piccoli miglioramenti. L'ex manager di Schumi, Willi Weber, colpito da ictus nelle scorse settimane, aveva recentemente ammesso: «So che Michael è gravemente ferito, ma sfortunatamente non ho notizie dei suoi progressi. Mi piacerebbe stringergli la mano, magari sapere come sta, ma tutto questo è rifiutato da Corinna. Teme che capisca immediatamente la verità e che riveli tutto al pubblico. Credo fermamente nella guarigione di Michael. Lui è un combattente e utilizzerà tutte le possibilità in suo possibile. Questa non può essere la fine. Prego per lui e sono convinto che prima o poi lo rivedrò».

Schumacher, l'incidente sugli sci. Il 29 dicembre 2013, poco dopo le ore 11, durante una discesa con gli sci in un fuori pista sulle nevi di Méribel in Francia, Michael Schumacher cadde e batte violentemente la testa contro una roccia. Ricoverato d'urgenza al Centro Ospedaliero Universitario di Grenoble, in stato semicomatoso, fu sottoposto a un intervento per grave trauma cranico ed emorragia cerebrale. Il 16 giugno 2014, dopo circa sei mesi, lasciò l'ospedale di Grenoble per iniziare un percorso riabilitativo in una clinica privata. Pochi mesi più tardi fu dimesso dall'ospedale per proseguire la riabilitazione a casa, a Gland.

Michael Schumacher, il neurologo: “È sveglio ma non risponde”. Notizie.it il 19/09/2020. Le parole del neurologo Erich Riederer a distanza di sette anni dall'incidente sulle piste da sci di Michael Schumacher. Il 29 dicembre 2013 Michael Schumacher è rimasto gravemente ferito in seguito ad una caduta sugli sci. Da allora la sua vita e quella dei suoi famigliari è cambiata, con la moglie Corinna che ha sempre mantenuto il massimo riserbo sulle sue condizioni di salute. “Michael Schumacher è sveglio, respira, il suo cuore batte, probabilmente può sedersi e fare piccoli passi con aiuto, ma non di più. Credo che questo sia il massimo che possa fare“, sono queste le parole del neurologo Erich Riederer a distanza di sette anni dall’incidente sulle piste da sci di Michael Schumacher. Nel corso di un documentario sul campione di Formula 1, realizzato da TMC Francia, il neurologo ha dichiarato: “Penso che sia in uno stato vegetativo, il che significa che è sveglio ma non risponde“. Sulle condizioni di salute di Schumacher è intervenuto qualche tempo fa anche l’ex manager di Michael Schumacher, Willi Weber, che a tal proposito ha dichiarato: “So che Michael è gravemente ferito, ma sfortunatamente non ho notizie dei suoi progressi. Mi piacerebbe stringergli la mano, magari sapere come sta, ma tutto questo è rifiutato da Corinna. Teme che capisca immediatamente la verità e che riveli tutto al pubblico. Credo fermamente nella guarigione di Michael. Lui è un combattente e utilizzerà tutte le possibilità in suo possibile. Questa non può essere la fine. Prego per lui e sono convinto che prima o poi lo rivedrò”. Verso la fine del 2019, inoltre, la stampa britannica ha riportato una frase che la moglie Corinna avrebbe detto ad alcuni tifosi del marito. “Le grandi cose iniziano con piccoli passi”. Sempre la moglie del campione di Formula 1, nel corso di un’intervista a ‘Shès Magazinè della Mercedes, ha dichiarato: “Potete stare certi che è nelle migliori mani possibili e che stiamo facendo di tutto per aiutarlo. Vi preghiamo di comprendere che stiamo seguendo le volontà di Michael nel mantenere riservato un argomento così delicato come la sua salute”.

Schumacher compie 51 anni, tutto quello che c’è da sapere: dalle frasi di Corinna al ricovero a Parigi. Il 29 dicembre del 2013 il campione tedesco batteva la testa su una pista da sci di Meribel. Da allora, dopo una serie di operazioni, c’è riserbo sulle sue condizioni. Schumacher compie 51 anni, tutto quello che c’è da sapere: dalle frasi di Corinna al ricovero a Parigi. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 da Redazione Sport su Corriere.it.

Corinna, la moglie di Michael Schumacher, nei giorni scorsi ha dato ai fan un insolito aggiornamento, riferito dal tabloid Mirror. «Le grandi cose iniziano con piccoli passi», avrebbe detto la donna ai tifosi del marito, sulle cui condizioni di salute viene mantenuta una strettissima privacy dalla famiglia. In vista del lancio di una nuova pagina social da parte del fan club di Schumacher, #KeepFightingMichael, «Continua a lottare Michael», Corinna si è espressa parlando di «molte piccole particelle» che «possono formare un grande mosaico».

Il ricovero a Parigi. A luglio uno squarcio di luce dopo che il quotidiano francese Le Parisien ha svelato il suo ricovero all’ospedale Georges Pompidou per una cura sperimentale con le staminali, e l’indiscrezione su un suo stato di coscienza. La famiglia non ha mai voluto spiegare ma, secondo il parere di noti neurologi, il pilota tedesco, tecnicamente fuori dal coma, vive ancora in uno stato semi-vegetativo.

Le domande sulla coscienza e le frasi di Todt. Un anno fa Jean Todt, presidente della Federazione automobilistica internazionale (Fia) ed ex capo di Schumacher in Ferrari, aveva rivelato ai tedeschi della Bild di aver trascorso del tempo con il suo ex pilota in Svizzera, a Gland, nel fine settimana del Gran Premio del Brasile. Per il tabloid, l’incontro è inevitabilmente diventato: «Todt e Schumacher hanno visto insieme il Gp del Brasile», titolo che, a dire il vero, non è mai stato smentito. Allo stesso modo è stato detto che Michael guarda le gare di suo figlio Mick in televisione, dalle rive del Lago di Ginevra.

Il trasferimento a Maiorca. Fino al 20 dicembre 2018 quando un elicottero blu scuro della società svizzera Heli-Alpes atterra nel parco della villa di Maiorca della famiglia Schumacher. È una villa straordinaria, situata sopra un promontorio sul mare che si affaccia sul porticciolo di Port d’Andratx e sulla spiaggia di Cala Llamp. Del resto vale oltre 30 milioni di euro, quanto gli Schumacher l’avrebbero pagata al precedente proprietario, il presidente del Real Madrid Florentino Perez. Su quell’elicottero, il lungo viaggio è cominciato in mattinata in Svizzera e proseguito con uno scalo tecnico in Francia per fare rifornimento, c’è Schumacher, che (come già detto) non vive più attaccato a delle macchine. La rivelazione arriva dalla rivista tedesca Bunte, la portavoce di famiglia Sabine Kehm non risponde al telefono né ai messaggi. Già nell’agosto scorso si era parlato di un possibile trasferimento di Schumi a Maiorca, ma allora la famiglia aveva smentito.

L’incidente e il coma. Il 29 dicembre del 2013, come detto, l’evento che cambierà per sempre la vita di Michael Schumacher. Il pilota tedesco sta scendendo da una pista di sci a Meribel in Francia, quando a un tratto gli sci si impennano contro un sasso nascosto da una spolverata di neve e lui vola quattro metri più in là, picchiando la testa contro un’altra roccia, con una violenza tale da spaccare il casco. Il pilota finisce in coma. Due interventi chirurgici nelle ore successive gli salvano la vita. Ma la vastità e la profondità degli ematomi cerebrali autorizzarono fin dall’ora esperti e non a temere un futuro spaventoso per il pilota, anche se fosse sopravvissuto. Dopo 155 giorni Schumacher però uscirà dal coma. Da allora si rincorrono voci sul suo stato di salute, mai confermate ufficialmente. Michael Schumacher non apparirà più in pubblico.

Una app in cui c’è la sua storia. In silenzio sullo stato reale del più titolato pilota della storia della F1, i suoi parenti sono comunque attivi tramite i social network. «Siamo in contatto con molti fan. La famiglia desidera parlare dell’immagine forte di Michael, piuttosto che di quanto accaduto il 29 dicembre», spiega Sabine Kehm, storica portavoce del campione tedesco nonché punto di riferimento della stampa mondiale dopo l’incidente di Meribel. Ma la leggenda di Schumi continua a essere scritta dalla sua famiglia e dalla Scuderia Ferrari. Tutti i dettagli della sua carriera sono stati raccolti anche in una app. Questa «App ufficiale di Michael Schumacher» è una sorta di «museo virtuale», secondo la Keep Fighting Foundation creata nel 2016 anni fa dalla famiglia.

I primi anni di carriera. Delle sue attuali condizioni di salute, come detto, si sa molto poco, ma sulla sua storia sportiva sono stati scritti libri. Nato a Hurth il 3 gennaio del 1969 Michael Schumacher è il più vincente pilota di F1 di tutti i tempi, con 7 titoli conquistati (2 con la Benetton 1994 e 1995) e 5 consecutivi con la Ferrari (dal 2000 al 2004), oltre ad avere detenuto a lungo un enorme numero di primati nell’ambito dell’automobilismo dal record di pole a quello di giri veloci in gara. La sua carriera inizia prestissimo, già a 4 anni guida il kart sul circuito di Kerpen gestito dal padre. Nel 1984 l’aiuto di un imprenditore tedesco Jurgen Dilk gli permise di cominciare a correre professionalmente e di vincere il titolo junior tedesco prima e quello europeo poi di kart. Da lì, passando per la Formula Ford e la Formula Konig, approdò alla Formula 3 che vinse nel 1990. Partecipò poi anche alla 24 ore di Le Mans nel 1991 giungendo quinto.

Esordio in F1. L’esordio in F1 avvenne nel 1991 al volante della Jordan sostituendo Bertrand Gachot (che era stato arrestato) nel Gran premio del Belgio. Giunse, a sorpresa settimo e attirò l’attenzione di Flavio Briatore, che lo volle alla Benetton. Nel 1992 la sua prima vittoria in F1 proprio con la Benetton in Belgio. Gli anni tra il 1992 e il 1994 furono segnati dalla rivalità con Senna e da diverse vittorie, che permisero al pilota tedesco di giungere quarto in classifica nel 1993.

I primi due titoli mondiali. Nel 1994 e nel 1995 Michael Schumacher conquisto due titoli mondiali consecutivi con la Benetton e divenne famoso in tuto il mondo. Le sue abilità di pilota furono consacrate dal fatto che, a partire dal 1994 la Fia abolì nelle nuove vetture gran parte dell’elettronica fino ad allora impiegata: dalle sospensioni attive, al controllo di trazione ai meccanismi di partenza automatici.

I primi anni con la Ferrari. Nel 1996 Michael Schumacher passò alla Ferrari, scuderia con la quale rimase per 10 anni, fino al primo ritiro e con la quale conquisterà 5 titoli mondiali consecutivi, riportandola al successo in un mondiale piloti dopo oltre 20 anni di digiuno. I primi 3 anni non furono facili. In particolare nel 1997 Schumacher si presentò a Jerez della Frontera con un punto di vantaggio in classifica generale sul suo avversario principale Jacques Villeneuve, che guidava la Williams. Dopo essere scattato meglio e aver condotto la maggior parte della gara in testa, Schumacher accusò problemi sulla sua Ferrari. Villeneuve tentò il sorpasso e Schumacher a questo punto perse la testa e tentò di buttarlo fuori di pista finendo invece per danneggiare la sua vettura e per dover abbandonare la corsa. L’episodio giudicato volontario e di conseguenza scorretto gli costò anche il secondo posto in classifica finale, in quanto la Fia lo escluse dalla classifica piloti, riconoscendogli però i risultati ottenuti durante la stagione. Nel 1998 ci fu sempre un secondo posto per Schumacher dietro ad Hakkinen. Il 1999 fu caratterizzato da un grave incidente a Silverstone in cui si fratturò la gamba destra. Dovette saltare alcune corse e la stagione fu compromessa, anche se poi la Ferrari conquisterà il titolo costruttori.

I 5 anni d’oro con la Rossa. Dal 2000 al 2004 si celebre l’epopea di Schumacher. Cinque titoli consecutivi lo consacrano come il pilota più vincente della storia della F1. Basti pensare che nel 2004, al suo apice, vincerà 13 Gran Premi su 18 in stagione.

Gli ultimi due anni a Maranello. Nel 2005 e 2006 si consumò la fase calante del rapporto di Schumacher con la Ferrari. Nel 2005 ci fu il terzo posto in classifica piloti, che divenne secondo nel 2006 anche se la vittoria anche quell’anno da parte della Renault di Alonso fu netta.

Il primo ritiro. Al temine della stagione 2006 ci fu il primo ritiro della carriera di Schumacher resterà fino al 2009 come superconsulente in Ferrari, svolgendo anche le mansioni di terzo pilota e addetto allo sviluppo della vettura. Il 29 luglio 2009, in seguito all’infortunio di Massa durante le qualificazioni del Gran Premio d’Ungheria, la Ferrari annunciò il ritorno alle corse in Formula 1 di Schumacher. Sarebbe stato il tedesco a correre per le restanti gare della stagione 2009, a partire dal Gran Premio d’Europa a Valencia, al fianco di Räikkönen. L’11 agosto, tuttavia, Schumacher, dopo alcuni test effettuati in pista, comunicò di dover rinunciare all’incarico a causa di alcuni problemi al collo risalenti ad un incidente avvenuto sei mesi prima sul circuito di Cartagena.

Gli anni in Mercedes. Dal 2010 al 2012 Michael Schumacher ritornerà in pista con i colori della rinata scuderia Mercedes. Non furono anni indimenticabili per gli appassionati: non riuscì a vincere nemmeno una gara e chiuse le tre stagioni rispettivamente in nona, ottava e tredicesima posizione in classifica generale. Al termine della stagione 2012 ci fu il secondo e definitivo ritiro dalla F1.

La vita privata. Sposato dal primo agosto 1995 con Corinna Betsch, ha due figli: Gina Maria nata il 20 febbraio 1997, amante dei cavalli come la madre e campionessa nella disciplina del reining (a novembre, a Verona, si è esibita vestita con la tuta del papà, e con il cavallo a rappresentare la Ferrari) e Mick, nato il 22 marzo 1999 anche lui pilota, ora in F2. Vive in Svizzera.

Daniele Sparisci e Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 9 gennaio 2020. Al ritorno da Dresda dove ieri si sono concluse le controanalisi sulle urine prelevate il 3 novembre nel Gp di Malesia a Sepang, né Andrea Iannone né i suoi periti hanno commentato l' esito dell' esame. Fonti del laboratorio confermano che i risultati avrebbero rispettato le previsioni: anche il campione B sarebbe positivo al drostanolone, uno steroide anabolizzante proibito. Antonio De Rensis - legale di Iannone, noto per aver assistito la famiglia Pantani - sta preparando la strategia difensiva. A Iannone un ottimo avvocato e un buon perito di parte servono davvero: solo così il pilota abruzzese potrà schivare una lunga squalifica. Il drostanolone è una sostanza problematica, non è il classico steroide con cui si «tagliano» o inquinano gli integratori ma è il principio attivo di un farmaco contro le recidive tumorali, gettonato tra i body builder perché incrementa la forza senza aumentare il peso. De Rensis assieme al chimico Alberto Salomone dovrà convincere il tribunale della Federazione motociclistica dell' involontarietà dell' assunzione per risparmiare al pilota la sorte dei 26 atleti recentemente trovati positivi alla medesima sostanza: quattro anni di sospensione. Una riduzione di pena rispetto allo standard è infatti possibile solo se l' atleta dimostra che il prodotto si è introdotto nel suo organismo in maniera involontaria. E col drostanolone nessuno c' è ancora riuscito. Lo scorso ottobre la Integrity Unit della Federazione internazionale di atletica ha squalificato per 4 anni la sprinter indiana Sheoran Nimrla («Giustificazioni inconsistenti») così come aveva fatto con la saltatrice americana Payne (che aveva incolpato una fantomatica bevanda) o col velocista siciliano Gaetano Di Franco (secondo ai campionati italiani 2017 sui 100 metri) e ad altri 15 specialisti di corse, salti e lanci. Stessa sorte per il rugbista inglese Michael Lewis e per il pilota di Gt Nick Leventis fra i pochi ad aver confessato di aver assunto un «integratore» fornito dal personal trainer. E l' ipotesi di contaminazione della carne? Possibile su un piano teorico, mai avanzata nelle positività emerse fino ad oggi. Il drostanolone non sarebbe utilizzato tra gli allevatori nemmeno nei paesi in cui l' abuso di steroidi per ingrassare il bestiame non è raro, perché è una molecola molto costosa e non efficace per pompare le bistecche. Chi giudicherà Iannone? In primo grado, il compito spetta alla commissione disciplinare della Federazione motociclistica (Fmi) che dovrà convocare l' atleta recependo tutte le perizie di parte. Contro l' eventuale squalifica è ammesso ricorso al Tas di Losanna sia da parte del pilota che dell' agenzia mondiale antidoping (Wada). La possibilità che Iannone possa prendere parte alla stagione della MotoGp (test a Sepang il 2 febbraio, la prima gara è l' 8 marzo in Qatar) sono limitate. Per la Casa di Noale sarebbe una perdita pesante, la moto 2020 è stata sviluppata in base alle sue indicazioni. In caso di stop il sostituto è la riserva Bradley Smith. L' Aprilia resterà a fianco del suo pilota fino a quando non saranno provate colpevolezza e dolo.

Daniele Sparisci e Marco Bonarrigo per il Corriere della Sera il 7 febbraio 2020. Che la giustizia sportiva abbia regole diverse da quella ordinaria, minori garanzie per l' incolpato e un certo eclettismo nella fase processuale è cosa nota. Ma lo sviluppo del dibattimento contro Andrea Iannone, il pilota dell' Aprilia trovato positivo a uno steroide anabolizzante, esce dagli schemi abituali. Martedì scorso, per quattro ore, Iannone, assistito dall' avvocato Antonio De Rensis, è stato «processato» a Mies, in Svizzera, davanti ai tre saggi della commissione disciplinare della Federazione motociclistica internazionale davanti a cui doveva giustificare il drostanolone rintracciato nelle sue urine in Malesia. A fungere da pubblico ministero, il legale ceco Jan Stovicek. De Rensis: «Stovicek si è presentato da solo, senza periti o consulenti a dispetto di una materia ipertecnica, com' è facile immaginare: si parlava di steroidi, di nanogrammi, di diluizioni. Noi avevamo portato un chimico di grande esperienza, il professor Alberto Salomone, e perizie redatte da due esperti di fama. Lui si è limitato a mostrare venti foto di Andrea in mutande, asserendo che dimostravano chiaramente l' assunzione del drostanolone "a scopi estetici". Quando abbiamo presentato il report con l' analisi del capello, prima ha aggredito verbalmente il nostro consulente e poi si è opposto alla sua acquisizione dicendo che il test non ha validità in ambito processuale. Fortunatamente la Corte l' ha smentito, concedendogli cinque giorni per replicare alle nostre tesi». Jan Stovicek, 47 anni, è un personaggio rampante e poliedrico. Eletto due anni fa membro del board della Federazione mondiale, è vice presidente di quella europea e presidente di quella ceca. Avvocato, ha difeso atleti in processi per doping (tra gli altri il ciclista Roman Kreuziger) davanti a organismi internazionali e al Tas. Svolge un ruolo di pubblico ministero federale pur essendo membro del board (coincidenza di funzioni impensabile altrove) ma è anche consulente-procuratore legale di piloti. È con la sua assistenza (è titolare assieme al fratello Petr dello studio Kds Legal di Praga) che la giovane promessa Filip Salac ha firmato lo scorso anno il suo primo contratto nella Moto3 con lo Snipers Team. Stovicek, che si è opposto al test del capello perché «non riconosciuto dal codice antidoping», nel 2015 ha ottenuto un non luogo a procedere dell' Unione Ciclistica Internazionale nei confronti del ciclista Kreutziger (il cui passaporto ematico destava sospetti) allegando i risultati di un test sulla «macchina della verità» eseguito dall' atleta. Insomma, il tuttofare Stovicek governa il motociclismo, recluta atleti e sostiene l' accusa contro di loro se si comportano male. De Rensis prosegue: «Andrea chiede un processo equo. Vogliamo che le prove siano valutate con attenzione e rispetto, che ci si dia atto che il test del capello dimostra che lui non è assuntore di steroidi e che la tesi della contaminazione alimentare tramite la carne mangiata a Singapore e in Malesia sia valutata con attenzione, non liquidata in due secondi come ha fatto l' accusa». L' 11 febbraio Iannone riceverà le controdeduzioni del procuratore cui avrà cinque giorni (lavorativi) per replicare. A quel punto la giuria potrà decidere se convocare una seconda udienza o pronunciare direttamente il giudizio, appellabile al Tas di Losanna. L' Aprilia attende mentre raccoglie dati in pista, la nuova moto «con le ali» sta suscitando curiosità e interesse fra gli avversari. Chissà se Andrea riuscirà a salirci un giorno.

Da corrieredellosport.it l1 aprile 2020.Andrea Iannone è stato condannato a 18 mesi per la positività al Dostranolone (steroide androgeno esogeno anabolizzante) dalla disciplinare della Federmoto. La squalifica del pilota italiano è iniziata il 17 dicembre 2019 e terminerà il 16 giugno 2021. Iannone era risultato positivo al controllo anti doping al Gp di Malesia del 3 novembre: i giudici, pur riconoscendo che il pilota abruzzese sia stato vittima di una contaminazione alimentare (carne mangiata in un ristorante), contestano al numero 29 dell’Aprilia di non aver visto quali fossero le sostanze proibite e alla scuderia di Nolte di non aver controllato il comportamento del proprio pilota. "Siamo molto soddisfatti che i giudici abbiamo riconosciuto la tesi della contaminazione alimentare, un po' sorpresi per l'entità della squalifica ma siamo sicuri che il Tas ci darà ragione e Andrea tornerà a correre in moto quanto prima". Queste le parole di Antonio De Rensis, avvocato di Andrea Iannone, in merito alla squalifica di 18 mesi del pilota abruzzese. "Andrea ne esce pulito e questa è la cosa più importante -sottolinea De Rensis-. Entro il mese di aprile presenteremo ricorso al Tribunale di Losanna. La giurisprudenza del Tas in merito alle contaminazioni è univoca: gli atleti sono stati tutti assolti, quindi guardiamo al ricorso con grande fiducia. I tempi in cui verrà discusso non li possiamo sapere ma mi auguro siano brevi anche perché riconosciuta la contaminazione si dovranno solo pronunciare sull'entità della squalifica".

·        Quelli che…il Tennis.

Da gazzetta.it il 30 ottobre 2020. Straordinaria impresa di Lorenzo Sonego, che diventa il sesto italiano della storia a battere il numero uno del mondo in carica. All’Atp 500 di Vienna (1.409.510 euro, veloce indoor) il piemontese, numero 42 del mondo, domina Djokovic 6-2 6-1 in 68 minuti e in semifinale affronterà il vincente tra Dimitrov ed Evans. Lollo, grande tifoso del Torino, era entrato in tabellone da lucky loser dopo la sconfitta al turno decisivo delle qualificazioni, ma in questa settimana ha dimostrato di meritarsi la buona sorte. La partita contro Djokovic è stata perfetta, il giusto mix tra la prestazione fantastica dell’allievo di Gipo Arbino e la giornata no del più forte giocatore del mondo, lento e macchinoso. Decisivo il rendimento al servizio di Sonego, che ha vinto l’80% di punti con la prima (8 ace) senza mai dare la possibilità a Nole di diventare aggressivo con la risposta, soprattutto nel primo set. Ma anche negli scambi da fondo ha tenuto, riuscendo spesso a girare attorno alla palla per colpire con il dritto anomalo: alla fine otterrà addirittura 26 vincenti con appena 7 gratuiti. E quando il serbo, sotto 3-1 nel secondo set, proverà a rientrare procurandosi tre palle break, il torinese non si farà sopraffare dall’emozione , respingendone l’assalto. Alla fine avrà annullato tutte le sei palle break concesse: “La partita più straordinaria della mia carriera”. Ora è virtualmente numero 35. L’ultimo italiano a battere un numero uno è stato Fognini con Murray a Roma nel 2017: gli altri sono Barazzutti (Nastase), Panatta (due volte con Connors), Pozzi (Agassi) e Volandri (Federer)

Dagospia il 31 ottobre 2020. Dal profilo Facebook di Andrea Scanzi. Eliminato all’ultimo turno di qualificazioni, viene recuperato come lucky loser. Al primo turno batte Lajovic, al secondo Hurcacz. E già così ha fatto un capolavoro. (Digressione: Sonego è un ottimo giocatore, ma poco appariscente. La prima cosa che noti è che è uguale a Ralph Macchio di Karate Kid e Cobra Kay. Pare un ottimo tennista da 40-60 quando va bene. In un’era di “Italtennis debole” verrebbe celebrato come fenomeno; con Berrettini, Sinner, Fognini e si spera Musetti, Sonego rischia invece - per troppa abbondanza - di passare quasi in secondo piano. Fine digressione) E ora torniamo a Vienna. Ieri trova Djokovic, e ovviamente è chiusissimo nei pronostici. Ma il tennis è strano e Sonego lo maciulla 6/2 6/1. Sangue ovunque. Una mattanza inaudita. Urla, viscere, grand giugnol. Davvero roba da vietare ai minori. Uno dei risultati più clamorosi nella storia recente del tennis. Certo, Djoko non era in firmato deluxe, ma nel secondo set il serbo ha avuto tre palle per il contro break sull’1/2 ed era poi 0/40 sul 4/1 servizio Sonego: sarebbe bastato anche solo un break e Djoko avrebbe potuto vincere: ne ha portati a casa a decine, di incontri così. Invece Sonego ne è sempre uscito. Sempre. Tennis stellare e settimana della vita, in un torneo di livello elevatissimo con 6 top ten e 8 top 12. Oggi Sonego affrontava il britannico Evans. Più “facile” di Djokovic, ma confermarsi dopo un’impresa storica è sempre stata dura per il tennis maschile. La famosa “prova del nove”. Invece Sonego ha nuovamente giocato in maniera allucinante. Dritto incredibile, servizio molto oltre i suoi standard, spavalderia e lucidità totale nelle palle break. Un 6/3 6/4 meraviglioso, nonostante la carognata di Evans che ha chiamato un medical time out unicamente per togliere ritmo a Sonego (vergogna!). Domani il 25enne torinese troverà Rublev. Il Russo con la pettinatura irrisolta è il giocatore più in forma del circuito e in questo momento vale probabilmente la posizione 3 al mondo, giusto dietro Djoko e Rafa. Sonego parte non poco sfavorito, è ovvio, ma finché gioca sulla nuvola magica tutto può essere. Con questo risultato salirà in ogni caso alla posizione 32. È il suo best ranking, frutto di tanto lavoro e di una delle settimane più accecanti, meritorie e felicemente “inspiegabili” nella storia del tennis italiano maschile. Un capolavoro vero. Bravo Lorenzo!

Da tuttosport.com il 31 ottobre 2020. Continua il cammino da sogno di  Lorenzo Sonego nell'Erste Bank Open, ultimo Atp 500 di questo 2020 dotato di un montepremi di 1.409.510 euro, che si sta disputando sul veloce indoor della Wiener Stadthalle di Vienna, in Austria. Il tennista 25enne ha battuto Daniel Evans per 6-3 6-4 nella semifinale di oggi e domani in finale incontrerà il russo Andrej Rublev. L'avventura del tennista torinese nel torneo è una vera e propria favola: dopo essee stato eliminato da Bedene nelle qualificazioni, Sonego è stato ripescato come lucky loser dopo il ritiro di Schwartzman. Poi sono arrivate le vittorie su Lajovic e Hurkacz fino al capolavoro di ieri su Novak Djokovic, sempre senza perdere un set.

Dagospia il 14 novembre 2020. Dal profilo facebook di Andrea Scanzi. È solo il primo di una lunga serie. Questo è un fenomeno assoluto. Già adesso vale i top ten, probabilmente i top 5. Possono fermarlo solo sfighe, infortuni e improvvise sbornie emotive di fronte alla fama (ma non sembra proprio il tipo). Oggi ha sofferto più del dovuto e nel secondo set si è proprio spento, ma Pospisil - che adoro - è giocatore di ottimo livello. E questa sofferenza ha reso Sinner meno “macchin (dunque ancora più tifabile) e la prima vittoria ancora più bella. Magistrale il tiebreak finale. Da domani ne parleranno tutti. La diretta Rai di oggi è emblematica di un cambio di atteggiamento del mondo mainstream. Quelli come me e tanti tra voi, che ripetono da almeno due anni quanto sia “enorme” ‘sto ragazzo, proveranno un po’ di fastidio nei confronti di chi sale adesso sul carro del vincitore. Dettagli: Jannik Sinner è nato fenomeno, si allena da fenomeno ed è atteso (sfighe a parte) da una carriera straordinaria. Godiamocelo, perché di campioni così ne nascono pochi. Meno bello di Musetti, ma enormemente più solido e quindi molto più vincente. Egli non vive: egli divelle. Sia dunque Lode.

Luca Marianantoni per gazzetta.it il 14 novembre 2020. A 19 anni, 2 mesi e 29 giorni Jannik Sinner diventa il più giovane italiano di sempre a conquistare un titolo Atp. L’altoatesino ha battuto il canadese Vasek Pospisil per 6-4 3-6 7-6 (3) vincendo il primo titolo della carriera nel 250 di Sofia. Un successo strameritato per l’altoatesino che non ha certo patito la pressione, ma al contempo ha gestito nel migliore dei modi una partita contro un avversario più esperto e che ha dato del filo da torcere a un Sinner eccezionale. Per l’azzurro un solo momento nero che è coinciso con le fasi finali del secondo set e i primi punti del terzo e decisivo set. L’azzurro ha strappato così a Claudio Pistolesi un record che durava da oltre 30 anni, da quando il 12 aprile 1987 Pistolesi vinse il titolo a Bari a soli 19 anni, 7 mesi e 18 giorni. Sinner parte carico e determinato e conquista subito due palle break, muovendo benissimo Pospisil e affondando con il dritto. Il canadese le cancella con il servizio, ma ne offre una terza a Sinner che però non riesce a concretizzare. Servono sette lunghissimi minuti a Pospisil per tenere un durissimo primo turno di battuta. Di scambi lunghi, neanche l’ombra. Con un paio di prime pesantissime Sinner tiene a 15 il suo primo turno di battuta. L’azzurro è molto reattivo in risposta, mette pressione al suo avversario e ancora una volta il game finisce ai vantaggi. Con un magico dritto lungolinea in contropiede, Sinner cancella la palla game per Pospisil e poi vince il primo scambio lungo del match procurandosi la quarta palla break dell’incontro. L’altoatesino tira fuori tutta l’artiglieria pesante per sfondare e con un dritto anomalo lungolinea conquista il break del 2-1. Un doppio fallo fa tremare Sinner che nel quarto game concede a sua volta la prima palla break del match. La cancella però e poi sale 3-1 aggrappandosi a prime vincenti. Pospisil tiene facile per il 3-2, Sinner apre il sesto game vincendo uno scambio lunghissimo, prima di commettere il secondo doppio fallo del match. Ma anche qui riscatta il doppio errore con una grande prima al centro, tiene, viene costretto ancora ai vantaggi ma chiude per il 4-2 grazie alla risposta di rovescio sotterrata da Pospisil. L’azzurro gestisce benissimo la prima di servizio, poi commette il terzo doppio fallo e con l’errore di dritto concede a Pospisil di arrivare ai vantaggi. Ma con due dritti esplosivi l’azzurro sale 5-3. E sul 5-4 Sinner tiene un game a forza di prime vincenti conquistando un primo set giocato con attenzione e intelligenza.

SECONDO SET—   In apertura di secondo set arriva per Sinner una ghiottissima palla break. E l’azzurro non spreca l’occasione sfondando con un dritto incrociato. Il primo passaggio a vuoto dell’altoatesino arriva nel secondo game in cui sbaglia tre colpi in uscita dal servizio e poi restituisce il break di vantaggio per l’uno pari. Con 8 punti di fila Pospisil si porta avanti 2-1, poi la serie s’interrompe con una prima vincente di Sinner che tiene per il 2 pari, ma poi l’azzurro subisce un secondo parziale negativo e un secondo break che lanciano il canadese avanti 4-2. A tradire è la prima e i primi colpi in uscita dal servizio. Pospisil è padrone del campo e sale agile fino al 5-2. Sinner viaggia ora con le sole luci di posizione, il suo tennis pare spengersi e solo con i denti si arrampica sul 5-3. Ma con due ace conclusivi, Pospisil si porta a casa la seconda frazione per 6-3 e per Sinner è tutto da rifare.

TERZO SET—   Sinner continua a sbagliare molto anche a inizio di terzo set. Ci sono subito due palle break per il canadese, ma Sinner tiene un duro scambio dal fondo annullando la prima e poi con una prima vincente annulla anche la seconda opportunità. Poi si aggrappa al servizio e tiene un game importantissimo dando segnali di rinascita. Sull’uno pari arriva il quarto doppio fallo di Sinner che scivola sotto 15-30, ed è ancora una volta il servizio a tirarlo fuori dai guai per il 2-1. Ogni turno di battuta è decisivo e Sinner tiene bene per il 3-2 con un passante di dritto in recupero da un lob di Pospisil. L’azzurro tiene per il 4-3, ma il canadese non è da meno per il 4 pari. Over rule dell’arbitro nel primo punto del nono gioco che favorisce il nostro Sinner a cui era stata chiamato fuori un colpo vincente. Sinner sale 5-4 mandando Pospisil a servire per rimanere in partita. Sinner arriva a tre punti dalla vittoria, ma il canadese tiene per il 5 pari con la stecca di dritto dell’azzurro. Sinner ci crede, sale 6-5 e Pospisil serve per la seconda volta per rimanere nel match. Il canadese va 30-0, poi commette doppio fallo e manda di poco fuori un dritto per il 30 pari. Con una pregevole volée di dritto Pospisil arriva alla palla che vale il tie break che trasforma con una sbracciata di dritto imprendibile. Il tie break si apre con uno scambio lungo vinto da Sinner, ma due prime di Pospisil rovesciano la situazione. Il rovescio di Sinner vale il 2 pari, la prima a uscire il 3-2. Con una buonissima risposta di rovescio Sinner mette in difficoltà Pospisil e gira campo avanti 4-2 con il primo mini break. Con una seconda lavoratissima Sinner sale 5-3, conserva il mini break e poi chiude un cross di dritto fenomenale per il 6-3 e triplo match point. Gli basta il primo: il rovescio di Pospisil è lungo e Sinner vola in paradiso.

ITALIANI VINCENTI—   Per l’Italia è il 68° titolo Atp di sempre, il primo dal successo di Lorenzo Sonego ad Antalya nel giugno del 2019. Sinner nelle Next Gen Finals dello scorso anno quando a Milano superò in finale l’australiano Alex De Minaur per 4-2 4-1 4-2. Da domani Sinner è numero 37 del mondo. Una scalata vertiginosa se si pensa che l’altoatesino aveva chiuso il 2018 al numero 763 del mondo e il 2019 al numero 78.

Nadal: «Djokovic e le sue imitazioni? Non mi offendo mai. Federer? Uno dei più grandi della storia». Aldo Cazzullo  Il Corriere della Sera l'1 novembre 2020. Rafael Nadal si racconta: dall’infanzia ai trionfi passando per il rapporto con i rivali Djokovic e Federer. «A 19 anni mi dissero che non avrei più giocato. Quella fragilità ora è forza».

MANACOR (Maiorca, Spagna) — «Guardi che io ogni volta me la faccio sotto».

Non ci credo. Tredici vittorie su tredici finali a Parigi. Non è mai successo: nella storia del tennis, nella storia dello sport. Come è potuto accadere?

«Non lo so neppure io. Se è successo a me, può succedere a un altro. Io sono una persona normale. Con le mie incertezze, le mie paure».

Nadal, lei in campo ha paura di perdere?

«Paura di perdere, mai. Però penso sempre di poter perdere. Lo penso tutti i giorni, contro qualsiasi avversario. E questo mi aiuta moltissimo».

Quali sono le sue paure? Dicono: il buio, i cani.

«Queste sono sciocchezze. Ho paura della malattia. Ho paura per le persone cui voglio bene».

Ha paura anche del Covid?

«Non per me. Sono ancora abbastanza giovane, il fisico ancora risponde. Però, se mi infetto, posso infettare persone a rischio. Sono preoccupato per i miei genitori, per la mia famiglia. Per la mia comunità. È il momento più duro nella nostra vita. Per questo è il momento di lottare, per cose molto più importanti di una partita di tennis. Dobbiamo coltivare la fiducia».

Qual è il segreto per resistere?

«Avere sempre un obiettivo nella vita. Una speranza. Un’illusione, se necessario».

Come dobbiamo affrontare la crisi del Covid?

«Con il rispetto. Verso noi stessi, verso i nostri cari, verso gli altri. E poi con la responsabilità. E la logica. Si muore per il virus; ma si può morire anche di fame. Il colpo all’economia è stato durissimo. Bisogna trovare l’equilibrio tra la salute e il lavoro, tra la protezione sanitaria e quella sociale. La sicurezza è fondamentale; ma lo sono anche la libertà e la dignità».

Lei, a differenza di molti suoi colleghi che si sono rifugiati nei paradisi fiscali, paga le tasse in Spagna. È orgoglioso di essere spagnolo?

«Io sono spagnolo. E sono felice di esserlo. Certo, quando arriva il conto del fisco sono un po’ meno felice. Ma ho avuto la buona sorte di nascere in un Paese di molte virtù, che mi ha dato una buona vita».

Però è anche molto legato alla sua isola, Maiorca, e al suo paese, Manacor.

«Mi sento profondamente manacorì, maiorchino, spagnolo ed europeo. E mi sento quattro volte fortunato. Lei conosce Maiorca?».

È la prima volta che ci vengo.

«Venga, andiamo a fare un giro in macchina. Guido io».

(Nadal ha una guida nervosa. Frena all’improvviso. Prende i dossi un po’ troppo forte; poi si scusa).

«Questo è il paese di mia nonna materna, Sant Llorenç. Vede quella rotonda? Lì è straripato il torrente e ha trascinato le auto fino al mare, era tutto distrutto, pareva la guerra civile. Anzi, no, non è quella, è la rotonda dopo!»

(Nadal è sinceramente arrabbiato con se stesso per aver sbagliato rotonda).

Qual è il suo primo ricordo, qui a Maiorca?

«Sono bambino, e sto giocando con il mio papà. Nel corridoio di casa. A pallone, a pallacanestro. A tutto, tranne che a tennis».

Suo zio Miguel Angel fu centrocampista del Barcellona e della nazionale spagnola. Anche lei era un calciatore. Perché ha scelto il tennis?

«Non è stata una scelta. Ero un buon calciatore; ma come tennista ero un po’ più speciale. E poi mi allenava un altro zio, Toni».

Con lei fu durissimo.

«Sì. Era molto esigente; ed è stata la mia fortuna. La tensione, se la sai dominare, è fondamentale».

Ora non la segue più.

«È stata una sua decisione».

È vero che da bambino lei pensava che zio Toni avesse poteri magici?

«Diceva di essere stato campione di qualsiasi sport, di aver vinto il Tour de France a braccia alzate, di aver giocato centravanti nel Milan. Una volta a bordo campo mi assicurò che, se fossi andato in difficoltà, lui avrebbe fatto piovere. Sullo 0 a 3 per il mio avversario cominciò a piovere. Quando recuperai gli dissi: “Zio, ora puoi anche far tornare il sole”».

Lei porta il nome di suo nonno: Rafael Nadal, musicista.

«Direttore d’orchestra. Dopo la guerra civile portò in paese la Nona di Beethoven. Poi diresse Alfredo Kraus, il tenore. Ero legatissimo al nonno. La sua morte fu un dolore terribile».

Come mai lei tifa Real Madrid e non Barcellona?

«Mio padre e tutta la famiglia sono madridisti da sempre. Quando lo zio giocava nel Barça ovviamente tifavamo per lui. Poi però è tornato al Maiorca, e lì ci siamo divisi: qualcuno è rimasto con il Barcellona; altri hanno ritrovato il Madrid».

Lei è amico di Cristiano Ronaldo?

«Amico è una parola molto forte per me. I miei amici sono i ragazzini di Manacor con cui sono cresciuto. Cristiano Ronaldo è un compañero, un collega. L’ho incontrato più volte, lo stimo».

Chi è per lei Federer?

«Roger Federer è uno dei più grandi uomini nella storia dello sport».

Certo, ma per lei?

«Un altro compañero. È stato il mio grande rivale; e questo ha giovato a entrambi, e un poco pure al tennis. Abbiamo diviso un tratto di vita. In alcune cose ci assomigliamo: teniamo alla tranquillità, alla famiglia. In altre siamo diversi».

In cosa?

«Be’, lui è svizzero. Io sono latino. Abbiamo caratteri, culture, modi di vita differenti». (Nel frattempo siamo arrivati da Sa Punta, ristorante di pesce sul mare, dove Nadal sta mangiando come un orco).

È vero che con Federer tutto è cambiato quando lui venne qui nella sua Accademia?

«Non è cambiato nulla, perché i rapporti erano già buoni; altrimenti non sarebbe mai venuto. E io sono andato da lui in Svizzera e in Sud Africa, a giocare per la sua Fondazione».

La gente si chiede il motivo del suo rituale: i due sorsi d’acqua da due bottigliette, le righe da non calpestare… Superstizione?

«No. Non sono superstizioso; altrimenti cambierei rituale a ogni sconfitta. Non sono neanche schiavo della routine: la mia vita cambia di continuo, sempre in giro; e gareggiare è molto diverso dall’allenarsi. Quelli che lei chiama tic sono un modo di mettere ordine nella mia testa, per me che normalmente sono disordinatissimo. Sono la maniera per concentrarmi e zittire le voci di dentro. Per non ascoltare né la voce che mi dice che perderò, né quella, ancora più pericolosa, che mi dice che vincerò».

Ma quando negli spogliatoi indossa la bandana e grida «Vamos!» è lei a mettere paura agli avversari.

«Io non grido negli spogliatoi! Faccio una doccia ghiacciata, ascolto la musica nelle cuffie e, sì, lego la bandana. Ma non mi sono mai permesso di intimidire un avversario».

Una volta discusse con Berdych, che la sconfisse a Madrid scontrandosi con il pubblico. Dopodiché lei ha battuto Berdych diciassette volte di fila. «Se lo meritava… (Nadal ride). Sto scherzando. In realtà con Berdych ora abbiamo un bel rapporto, volevamo anche giocare il doppio insieme. Dicono pure che non vado d’accordo con Kyrgios, ma non è vero. Una volta gli dissi quel che avevo da dirgli, e finì lì. La verità è che coltivare inimicizie mi stanca».

Però non applaude mai un avversario per un bel colpo.

«Qualche volta lo faccio. Di rado. Ma non siamo lì per applaudirci. Quello spetta al pubblico».

Com’è giocare senza?

«Triste. Mancano i colori, le grida, la passione».

Come ha vissuto il lockdown?

«Male. Soprattutto all’inizio è stato difficile: tutto quel tempo chiuso in casa, senza niente da fare, io che sono abituato a muovermi di continuo… almeno mia moglie Marìa Francisca aveva il suo lavoro di ufficio. È direttrice della nostra Fondazione».

Lei sta da tutta la vita con la stessa donna. Quando l’ha conosciuta?

«Ci conosciamo da sempre, da quando eravamo piccoli. Meri è il mio punto di stabilità».

È vero che dietro la sua crisi del 2009 c’era la crisi tra i suoi genitori?

«È vero. Quell’anno si separarono, sia pure solo per un periodo. Io ne ho sofferto moltissimo; perché senza la mia famiglia non avrei fatto nulla».

Lei ha avuto molti infortuni.

«A diciannove anni, avevo appena vinto il primo Roland Garros, mi dissero che non avrei più potuto giocare, per una malformazione al piede sinistro».

Come reagì?

«Il dolore era tale che mi allenavo a colpire la pallina seduto su una sedia in mezzo al campo. Poi sono guarito, grazie a una soletta che cambiava la posizione del piede, ma mi infiammava le ginocchia…».

Come possiamo superare noi tutti questo dolore ben più grave?

«Con una mentalità positiva. Trasformando la fragilità del corpo in forza morale. Prima o poi le cose si metteranno a posto. Dobbiamo attrezzarci per resistere. Perché non c’è altra soluzione che resistere».

È vero che dopo la sconfitta nella finale di Wimbledon 2007 con Federer pianse negli spogliatoi?

«Disperatamente. Per un’ora e mezza. Perché a volte la disillusione è terribile; anche se è solo un incontro di tennis. Ho pianto di dolore quando, nella finale degli Australian Open con Wawrinka nel 2014, mi sono infortunato alla schiena dopo aver vinto il primo set. Ho perso, ma ho portato a termine l’incontro; perché non ci si ritira da una finale Slam».

Altre volte ha pianto di gioia.

«Sono una persona sensibile, emotiva. Vivo lo sport con grande passione».

Di solito si dice che lei abbia meno talento di Federer. Qualcuno però lo nega. Lei cosa ne pensa?

«Cos’è il talento? Ognuno di noi ha il suo talento. A qualcuno viene tutto facile; altri sanno resistere più a lungo sul campo. Lei può avere il talento di scrivere un buon articolo in mezz’ora; ma se un suo collega sa lavorare per sei ore di fila e tirar fuori un articolo ottimo, sarà un giornalista più talentuoso di lei».

Borg, che era Borg, vinse sei finali su sei al Roland Garros; poi però si ritirò a 26 anni. Lei ne ha 34, ha vinto 20 Slam, e ancora continua. Qual è il segreto?

«I tempi sono cambiati, la vita degli atleti si è allungata. C’è emulazione tra noi: se lui ce la fa, perché io no? Poi ci sono altri fattori. La fortuna. L’istinto per la competizione. La tenuta ad alto livello».

Quando si ritirerà?

«Non lo so. Il tennis è un gioco della mente; non è matematica. Quando sarà il momento, lo saprò».

Dopo cosa farà?

«Mi dedicherò ai bambini. La nostra Fondazione aiuta i piccoli che rischiano l’esclusione sociale: provvede al cibo, all’istruzione, allo sport. Poi abbiamo il progetto “Màs que tenis”, venti scuole in Spagna per bambini diversamente abili. E lavoriamo in India, per insegnare ai ragazzi l’inglese e l’informatica».

Come trova l’Italia?

«Mi piace molto, mi rende allegro. Con gli italiani un po’ ci assomigliamo. Certo, ci sono differenze, anche perché siamo due Paesi molto compositi al nostro interno. Ma un italiano del Nord sarà sempre più simile a uno spagnolo del Sud che a un tedesco».

Lei è di destra o di sinistra?

«Non mi faccia parlare di politica».

Neppure di re Juan Carlos?

«Può aver sbagliato; ma ricordiamoci sempre di quel che ha fatto per la Spagna».

Crede in Dio?

«Non lo so, e non me lo chiedo. Per me l’importante è comportarsi bene, aiutare chi ne ha bisogno. Credo nelle brave persone. Se poi Dio esiste, sarà meraviglioso».

Come immagina l’aldilà?

«Non lo immagino».

Perché non getta mai la racchetta?

«Perché da piccolo mi hanno insegnato che non si fa. Sono io che sbaglio; non la racchetta».

Stefano Semeraro per “la Stampa” il 28 ottobre 2020. Jannik Sinner è lo sportivo italiano del momento. Giovane, 19 anni, ma già capace di sfidare senza paura i grandi del tennis, corteggiato da grandi marchi è un modello di semplicità e determinazione. In due anni è passato da sconosciuto a top 50 che batte i migliori e sfida Nadal.

Sinner, come è cambiato?

«Sono sempre lo stesso. E non ho paura di giocare contro nessuno. Se una cosa in campo mi dà fastidio, lo dicevo prima e lo dico adesso. Ma è vero che oggi mi trattano in maniera diversa».

Con Zverev a Colonia vi siete beccati.

«Ogni tanto capita. Poi in quel momento dovevo inventarmi qualcosa per cambiare la partita, magari lui si poteva innervosire. Le partite non si vincono stando in campo e basta, quello che conta in questo sport è la testa. Gli altri vedono i miei risultati, iniziano a conoscermi. E nessuno vuole più perdere contro di me».

Chi sono i colleghi con cui va più d' accordo?

«Tiafoe è uno simpatico, con cui ci si diverte molto, Bautista Agut lo conosco meglio di altri, con Struff mi piace allenarmi. Ma non mi faccio problemi: che dall' altra parte della rete ci sia numero uno del mondo o un ragazzino senza ranking, l'impegno e il rispetto non cambiano. Certo, con Nadal, Federer, Djokovic e Thiem non solo ti alleni, ma impari sempre tanto».

Le aziende la corteggiano, il pubblico la ammira. Unico appunto: in campo è troppo freddo.

«Ma la gente cosa sa di me? Mi osserva quando entro in campo, concentrato al massimo, e pensa: "questo è uno chiuso". Invece chi mi conosce fuori dal campo sa che sono aperto, che parlo di tutto con tutti. In campo me ne sto zitto, ma le assicuro che so divertirmi un casino, perché ci vuole anche quello».

Us Open, Roma, Parigi: dove si è trovato meglio nella "bolla"?

«L' Atp sta facendo il meglio che può. Vuole che giochiamo, ma anche che stiamo bene. Agli Us Open è stata dura. Ho perso al primo turno delle qualificazioni del torneo precedente e sono stato dieci giorni lì, poi ho perso per crampi agli Us Open, e sono rimasto altri dieci giorni. Ma alla fine sono tutte cose che ti rendono più forte».

Abbastanza per sfidare Nadal sul rosso a viso aperto: a Parigi è stato lei a strappargli più game di tutti, persino di Djokovic.

«Quella contro Rafa sulla terra battuta è stata una grande sfida, ho giocato bene nel primo e nel secondo set, nel terzo Rafa ha spinto di più. Ma mi sentivo pronto a giocare contro di lui. Sono andato in campo con l' atteggiamento giusto».

Nel 2019 era lanciatissimo, il lockdown quanto l' ha danneggiato?

«Avevo in programma di fare molti tornei, come l' anno scorso. Da piccolo non ho giocato così tanto, altri ragazzi della mia età hanno fatto molte più partite. Io recupero adesso, ma certe situazioni impari ad affrontarle solo misurandomi tanto ad alto livello».

In che cosa deve migliorare ancora?

«A volte ho troppa fretta di fare il punto. Dovrei migliorare la percentuale con il servizio e variare di più i colpi».

Di cosa invece è soddisfatto?

«Della testa. Quella sta funzionando bene».

Tutti si chiedono: quanto vale davvero Sinner?

«Che dicano pure quello che pensano, tanto non ci bado. Per uno valgo i primi 10, per l' altro non arriverò mai. Non ascolto nessuno dei due».

Il talento però è innegabile.

«Guardi, la cosa migliore che ho non sono i colpi. Anzi, se parliamo di quelli, non credo di avere tanto talento. Il mio vero talento è un altro, e lo devo alla mia famiglia, che mi ha trasmesso il rispetto per il lavoro, e insegnato a dare sempre il massimo. Per questo ogni volta che vado in campo, non importa contro chi, penso sempre: "'io con questo ci vinco"».

Un guerriero.

«Non sciolgo mai, non lascio mai un punto. Con Simon a Colonia ho perso il secondo set 6-0, ma è durato comunque un' ora, e non ho regalato nulla. Così l' altro lo fai pensare, gli fai capire che ci sei, e che piuttosto di mollare sei disposto a morire in campo».

Oggi è numero 43: qual è l' obiettivo da qui a fine anno?

«Il solito: giocare meglio. Provare, provare ancora. Stare lì. Sono tutti tornei fortissimi, ogni partita che riesco a giocare è una cosa buona».

Con i risultati stanno arrivando anche i guadagni: che rapporto ha con i soldi?

«Non ci penso, ma adesso che guadagno un pochettino devo stare attento a quello che faccio. Ho persone che mi consigliano, ma tutto deve partire da me. E io investo su quello che mi interessa: giocare a tennis».

Un regalo se lo sarà fatto.

«Ancora nessuno».

E ai suoi genitori?

«A parte che non li vedo mai Da piccolo, a Natale, mi faceva piacere scartare i regali, come a tutti, ma quella fase l' ho passata. In famiglia a certe cose non ci guardiamo. Se non mi regalano nulla non mi dà fastidio, i miei mi pregano sempre di lasciar perdere. Anche se alla fine un cioccolatino, un segno di affetto, un pensiero da niente lo faccio sempre. Per fargli capire che sono tanto importanti per me».

Chi è Roberta Sinopoli, moglie di Marchisio: star del tennis. Notizie.it l'8/08/2020. Roberta Sinopoli è la moglie dell'ex calciatore Claudio Marchisio, ma è stata anche una star del tennis. Chi è Roberta Sinopoli? La donna è la moglie dell’ex calciatore Claudio Marchisio, ma un tempo è stata una vera star del tennis. Una bellissima donna bionda che non ha aspirazioni verso il mondo dello spettacolo, ma ama tutelare la sua privacy e stare accanto all’uomo che ama. Questo nonostante nel suo passato ci sia una grande passione e un grande talento per il tennis, che ha deciso di mettere da parte. Roberta era una vera amante dello sport ed era una giovane stella del tennis.

Chi è Roberta Sinopoli. Roberta Sinopoli è nata il 15 Novembre 1985 ed è sempre stata una ragazza molto brillante e una grande appassionata di sport. Quando era più giovane era una vera e propria stella del tennis ed era stata selezionata per la Nazionale Under 16. Dopo diversi anni di agonismo, però, ha deciso di mettere via la racchetta e dedicarsi a nuove passioni. Da diverso tempo gestire un ristorante a Torino, dove vive insieme alla sua famiglia. In una discoteca, tanti anni fa, ha conosciuto Claudio Marchisio e con lui ha iniziato una meravigliosa storia d’amore. La donna ha voluto dedicare tutto il suo tempo a fare la mamma. Lei e Claudio, che sono stati rapinati, si sono conosciuti che lei aveva solo 19 anni. Lui era già conosciuto per il suo talento di calciatore, che aveva mostrato nella primavera della Juventus, ma a lei si era presentato come un normale studente universitario. Marchisio l’ha corteggiata per sei lunghi mesi, ma poi lei ha ceduto. I due hanno vissuto e continuano a vivere una storia d’amore davvero stupenda. Si sono sposati nel 2008 e hanno avuto due figli: Davide, nato nel 2009, e. Leonardo, nato nel 2012.

Da ilnapolista.it l'8 giugno 2020. Enrico Becuzzi ha 47 anni, ma 26 anni fa non pensava di arrivarci senza mai vincere una partita che fosse una. Ventisei anni di sconfitte: 270, dice il conto esatto. Solo che Becuzzi non molla: lui vuole vincere un match Atp. Con i complicati giri di calcoli delle classifiche del tennis mondiale, ha un ranking: attualmente è 2189 al mondo. Ma non una vittoria. La storia di questo tennista di Pisa è così “commovente” che la ricorda Marca oggi e nel 2013 finì addirittura sul Wall Street Journal, che gli dedicò un pezzo dal titolo “La leggenda dello sfidante del tennis”. Un profilo sul sito ufficiale dell’Atp ce l’ha, ma la pagina del risultati è uno zero periodico. L’ultima sconfitta risale al 16 dicembre, torneo di Antalya in Turchia, in doppio. In coppia col turco Emir Sendogan vengono sconfitti russi Panin e Zubrov, poi la pendemia, lo stop, e amen. E invece no: Becuzzi, a 47 anni suonati, a smettere non ci pensa proprio. E’ – nemmeno ricamandoci troppo su – una storia di sport nella sua essenza. “Ho iniziato a giocare tardi, quando avevo nove anni, quando mio padre mi ha regalato una racchetta di legno. Mi ha portato davanti a un muro che avevamo a casa per imparare a colpire la palla. Da quel momento mi sono innamorato del tennis. Sono cresciuto guardando i quattro moschettieri degli anni ’80: Lendl, McEnroe, Wilander e Connors. E un genio: Guillermo Vilas”. “Il tennis è la mia passione. Ho anche iniziato a fare tornei tardi, avevo già 21 anni. Mi è stato detto che era già troppo tardi. Non mi importava. Non c’è età per realizzare un sogno”. Una volta c’è andato vicinissimo. “Nel 2003, in un torneo a Sofia, ho quasi vinto la mia prima partita. Il giorno successivo ero là che mi allenavo di più, ancora più forte. Fino a quando avrò la forza e il desiderio, ci proverò. Non voglio arrendermi. Cerco una vittoria, solo una, e poi mi ritiro”.

Da repubblica.it il 20 gennaio 2020. Allontanato dall'Atp, l'Associazione tennisti professionisti, Gianluca Moscarella l'arbitro finito sotto accusa per aver detto a una raccattapalle "sei sexy" durante un torneo a Firenze. Moscarella non potrà più arbitrare tornei Apt tour e Challenger: la notizia è stata anticipata dal sito Tennisitaliano e ripresa da altre testate fra le quali Il Tirreno. La sospensione è a tempo indeterminato, ma il procedimento contro di lui non è ancora concluso. Il giudice di sedia lombardo, considerato fra i primissimi in Italia, paga quanto accaduto il 26 settembre al Tennis Club delle Cascine a Firenze nel corso dell'incontro fra portoghese Pedro Sousa e l'italiano Enrico Dalla Valle. «Sei fantastica, sei molto sexy», le frasi incriminate dette a una ragazzina minorenne che faceva da raccattapalle. A smascherare Moscarella fu una registrazione video, il torneo era in diretta streaming sul web e uno youtuber analizzò le immagini divulgando poi i frame incriminati. Nella stessa giornata l'arbitro è finito sotto accusa per un altro comportamento: l'aver incoraggiato Pedro Sousa a chiudere in fretta la gara perché faceva molto caldo. Attraverso i suoi legali Moscarella fa sapere di non essere stato informato del provvedimento. E in una nota precisa: a proposito "dell'allontanamento dal circuito Atp e della presunta squalifica a vita: al fine di evitare fraintendimenti, occorre tenere distinto il legame lavorativo in essere tra il signor Moscarella ed Atp dalla sua qualifica di arbitro accreditato presso la Federazione Internazionale tennis". La relazione secondo i legali "si fonda su un contratto di collaborazione il quale espressamente prevede il favore di Atp il diritto di recesso unilaterale dal medesimo in qualsiasi momento e anche in assenza di qualsivoglia motivazione". La nota si conclude ricordando che il procedimento è in corso di svolgimento e non è ancora concluso.

GAIA PICCARDI per il Corriere della Sera il 9 giugno 2020. «Il tennis non mi manca. Non mi sto allenando perché non ne vedo il motivo: non ho un obiettivo che mi spinga ad andare in campo ogni giorno. E non ho la sensazione che la ripresa dei tornei sia vicina». Senza uffici stampa alle calcagna, con Mirka nell'altra ala del villone di Lenzerheide e la figliolanza (Mila, Charlene, Leo, Lenny) intrattenuta dal battaglione di tate, libero di esprimersi in una chiacchierata in libertà con l'amico Guga Kuerten sui social, Roger Federer ha lasciato intendere l'idea meravigliosa che ha in testa: considerare chiusa la stagione e ripresentarsi, splendido splendente a otto mesi dal quarantesimo compleanno, nel 2021 in Australia per la 23esima (e ultima?) annata da professionista. Un piano incoraggiato dalla ripresa a rilento dall'intervento del febbraio scorso al ginocchio destro, come confermato da Severin Luthi, amico di una vita e stretto collaboratore del maestro di Basilea: «Il recupero non sta andando come speravamo, procede più lentamente». Cade nel vuoto, così, l'invito per l'esibizione di luglio a Berlino con Thiem, Zverev, Kyrgios e Sinner, un riempitivo a porte chiuse di cui Federer non sente il bisogno: «Non riesco a immaginarmi uno stadio vuoto, proprio non ce la faccio - ha confessato Roger a Kuerten -. Giocare un grande torneo dentro un impianto vuoto spero che non accada mai». E poiché è esattamente questo il futuro che attende il tennis al varco della ripresa di agosto (decisione di Atp e Wta entro metà giugno ma il pessimismo di Micky Lawler, boss del circuito femminile, la dice lunga: «Finché non ci sarà un vaccino per il coronavirus sarà molto difficile tornare a viaggiare e giocare»), ci si chiede perché Federer dovrebbe lasciare il buen retiro in Svizzera per esporsi ai rischi e ai disagi di un circuito imbavagliato dalla pandemia. Le condizioni alle quali la Federtennis americana immagina di mandare in scena l'Open Usa dal 31 agosto al 13 settembre in una New York duramente colpita dal virus, hanno già fatto storcere il naso al n.1 Djokovic e al n.2 Nadal: albergo blindato vicino all'aeroporto, divieto di andare a Manhattan, test ripetuti su tutti i partecipanti, ammissione solo per il giocatore e un accompagnatore. «Un protocollo estremo e impossibile da rispettare - ha fatto sapere il Djoker -, come minimo abbiamo bisogno di coach, preparatore e fisioterapista». «Oggi come oggi non parteciperei» ha commentato da Maiorca lo spagnolo, abituato a viaggiare con un clan che - da solo - riempie una tribuna. E anche Federer, con una moglie, quattro figli e uno staff da rock star, farebbe fatica a spostarsi solo con il trolley. Perché, poi? Che senso avrebbe immolare salute e cartilagini del ginocchio sull'altare di un torneo che rischia di diventare un campionato americano sul cemento se Trump imporrà la quarantena ai giocatori europei? E allora meglio lasciare girare i criceti nella ruota e preservarsi per l'anno olimpico posticipato dalla pandemia, Tokyo 2021, a casa dello sponsor Uniqlo che gli paga le bollette con un assegnuccio da 30 milioni di dollari a stagione, la cerimonia di chiusura è fissata proprio l'8 agosto, giorno del 40esimo compleanno: quale migliore occasione di festeggiare con l'oro individuale (l'unico trofeo che manca alla collezione) al collo. Al Federer dei venti titoli Slam, giunto alla veneranda età in cui Bjorn Borg si era già ritirato da tredici anni, ormai interessano poche preziose pietre miliari più la Laver Cup, una creatura del suo gruppo di management, quest' anno cancellata dalla pandemia. «Non ero mai rimasto fermo più di cinque settimane dall'infortunio del 2016. Dopo aver giocato tanti anni penso che per me sia importante godermi questa pausa. Vedo la ripresa del circuito molto lontana». Abituiamoci alla lunga quaresima: sarà più emozionante rivederlo in campo

I 50 di Agassi. Amato da noi, "odiato" dai big. Mezzo secolo per il tennista che visse tre volte fra Slam, libri e polemiche. Marco Lombardo, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. L'uomo che ha vissuto tre volte compie 50 anni. Andre Agassi è il kid biondo e jeans di Las Vegas, il campione depresso e detestato, l'eroe che ha saputo risorgere e farsi amare. Ha odiato il tennis ma l'ha fatto anche grande, lo ha lasciato in lacrime dopo aver vinto 8 Slam ma non è stato troppo rimpianto. È fuggito dal padre padrone per ritrovarsi nelle braccia di Steffi Graf, quella che anche per lui è la padrona di casa. Ha aperto un college per i ragazzi sfortunati e si è aperto in un libro bellissimo, Open, scritto da un premio Pulitzer, che ha lasciato anche macerie. Perché nessuno gli perdona la confessione di aver preso pasticche, nel 1997, per uscire dal suo momento buio, con una sorella e una mamma malate di tumore e un matrimonio con Brooke Shield andato in frantumi. Oggi Andre Agassi sta vivendo un'altra vita, probabilmente la quarta e la più serena, dopo aver detto quel giorni di Wimbledon 2006 che «ritirarsi è come prepararsi alla morte». Di lui hanno detto quello che leggete di seguito, ma è comunque è arrivato il giorno di dimenticarsi di essere un eroe che divide. E di festeggiare per essere diventato un uomo.

Marcelo Rios (ex n.1 al mondo): «Lo hanno beccato quattro volte, l'Atp lo ha coperto perché era Agassi. E altrimenti il tennis avrebbe fatto una brutta fine».

Roger Federer: «Agassi dice di odiare il tennis, eppure ha giocato per circa 20 anni. Non credo a tutto quello che c'è in quel libro».

Bogdan Obradovich (ex capitano Serbia): «Agassi non ha fatto niente per Djokovic: è stato Novak a fare di lui un coach. Ma non aveva niente da insegnargli».

Mike Agassi (l'odiato padre): «Sono stato un tiranno? Sì. Sono stato duro e severo? Sì. Ma era solo un ragazzino e in garage si è ritrovato 25 macchine, tra Ferrari, Porsche, Corvette. E noi padri non possiamo competere con i soldi».

Pete Sampras (il grande rivale): «Il libro? So che ad Andre piace spingersi al limite in tutto quello che fa. Ma noi due pensavo fossimo al di sopra di certe cose».

Boris Becker: «Ha fatto solo male al tennis. Ha vinto alcuni Slam contro di me e ha barato. Un conto aver bevuto birra o fumato uno spinello. Ma la droga...».

Matteo Berrettini: «Ero molto piccolo quando giocava, ma ho sempre ammirato il suo tennis e il suo modo di vestire fuori dagli schemi».

Ivan Lendl: «Era nient'altro che un taglio di capelli e un dritto».

Da corrieredellosport.it il 26 febbraio 2020. Dopo una vita dedicata al tennis, Maria Sharapova si ritira a 32 anni. La tennista russa ha scritto la storia di questo sport vincendo Wimbledon a 17 anni - solo Martina Hingis lo ha fatto "prima" di lei - e laureandosi numero uno del mondo ad appena 18 anni. Masha lascia con 5 trionfi nei tornei del grande Slam ed è una delle 10 tenniste ad aver completato il Career Grand Slam - aver vinto almeno una volta tutti e 4 gli Slam -, è inoltre la terza giocatrice in attività per numero di titoli vinti in singolare. Il finale della sua carriera è stato rovinato da una squalifica per doping. Sharapova ha scelto il suo profilo Instagram per comunicare la notizia: "Il tennis mi ha mostrato il mondo e mi ha mostrato di che pasta sono fatta. È come mi sono messo alla prova e come ho misurato la mia crescita. E così in qualunque cosa potrei scegliere per il mio prossimo capitolo, la mia prossima montagna, continuerò a spingere. Continuerò ad arrampicare. Continuerò a crescere. Tennis, ti sto dicendo addio".

Gianni Clerici per “la Repubblica” il 29 aprile 2020. Nel rivedere i più di cento articoli dedicati ad Andre Agassi, che oggi compie 50 anni, mi sono reso conto che ne mancano almeno tre per la mia mancanza di professionalità, alla quale ho sempre preferito l' umana correttezza di non scrivere quel che mi appariva troppo intimo. Lo scoop mancato Una delle tre vicende non scritte riguarda una notte a Melbourne in cui, finite le partite, ci permettevamo, io e il mio partner Rino Tommasi, una cena in un piccolissimo ristorante italiano che teneva aperto proprio per noi, cucinandoci una pasta più che accettabile. Quella sera, il padrone, nel chiedermi i risultati della giornata, mi aveva detto: «la cosa più interessante è da vedere di sopra, nel salone. È libero se non per due ospiti. Sono piuttosto conosciuti. Andate su, se volete ottenere uno scoop». Non era un argomento di tennis che scrivevo, non era certo quel che accadeva su un campo, ma mi lasciai prendere dalla curiosità e salii le scale a chiocciola. Quel che vidi era più che inatteso: all' unica tavola ancora occupata sedeva una coppia che consumava un dessert a lume di candela e, sempre con quello scenario insolito, si baciava. Non sapevo niente di quella storia tra i due tennisti che avrebbero potuto ancora vincere i campionati d' Australia. Lì iniziò il dubbio: dovevo scrivere quel che avevo visto oppure no? E, letta una traduzione del mio articolo, si sarebbero offesi? Soprattutto, sarebbero tornati allo stesso ristorante o no? Dissi a Tommasi quel che avevo visto e lui mi rispose «io non lo scriverei, sarebbe giornalismo da sciacalli». Passati pochi mesi, i due si maritavano: Steffi Graf e Andre Agassi. L'autore della biografia Open Era la seconda volta a Wimbledon che venivo invitato dal giornalista americano a prendere il tè. Chiesi al mio amico, Bud Collins, se conoscesse questo J.R. Moehringer. E la risposta fu: «ignoto nello sport, conosciuto come scrittore». Mi domandai cosa volesse sapere da me. Egli mi disse che soleva verificare se erano possibili certe opinioni, nel caso di Agassi sul signor Nick Bollettieri. Aveva con sé un taccuino e lo aprì al punto in cui Andre telefonava a suo padre Mike dicendogli che Nick stava rovinando il suo gioco. «Insegna tutto da fondo campo. Mai un serve and volley. Voglio ritornare a casa a Las Vegas e giocare a serve and volley». Scossi la testa. «È Bollettieri ad aver sviluppato un nuovo tipo di tennis, quello che nelle nostre telecronache io e il mio amico Tommasi chiamiamo attacco dal fondo». Non esisteva prima di allora. Non avevo mai saputo che all' inizio Andre fosse stato contrario sino al punto di voler andarsene dalla Academy. Per questo atteggiamento Andre venne punito al punto di fare le pulizie nei bagni: suo padre dette ragione a Bollettieri e lasciò il figlio, beninteso a pagamento, ad assorbire la nuova tattica che divenne da allora lo schema maggiormente impiegato e vincente. Un incontro occasionale Ho incontrato il papà di Agassi in un torneo di tennis negli Usa senza sapere chi fosse. Mi trovavo ancora insieme a Tommasi che, liberatosi da quell' uomo che non aveva niente dell' americano, mi disse chi era. «È il papà di Agassi, l' ho intervistato quando faceva il pugile e aveva perso un match. Ricordo che aveva lasciato Teheran la prima volta nella sua vita per recarsi ai Giochi del 1948 a Londra: aveva 17 anni e aveva avuto la sfortuna di incontrare subito lo spagnolo Álvaro Vicente, che sarebbe arrivato fino in semifinale. A fine intervista mi chiese una cosa molto strana: "se incontra mio figlio, gli dica che sbaglia nel non voler più avere nessuna conversazione con me, il suo papà". Deve essere disperato a chiedere una cosa simile a me, un semisconosciuto». Mi informai allora su Mike Agassi. Arrivato negli Usa da emigrante, dopo che lo Scià era stato obbligato ad andarsene dalla Persia a causa della rivoluzione. Aveva lavorato all' inizio come muratore e la volta che ebbe raccolto abbastanza denaro da acquistare una casa, e iniziare la sua nuova professione di tennis-coach, l' aveva comprata con un giardino tanto grande da costruire un campo da tennis. Poiché il tennis era diventato uno sport ben remunerato, dal 1968 si era spostato da Chicago a Las Vegas dove - oltre alla casa aveva trovato un posto da buttafuori al Caesars Palace e aveva iniziato a dare lezioni di tennis. Si era sposato con una certa Betty ed era diventato padre di Rita, Phillip e Tamara ai quali apparecchiava le culle come campi da tennis, con una pallina sospesa e piccole racchette. «Mi ero ripromesso, avessi avuto un bimbo, che sarebbe diventato famoso quanto gli australiani Rosewall e Laver». A Las Vegas aveva anche iniziato a riaccordare racchette e il tennis era diventato la sua vita fino al giorno dell' invio di Andre da Bollettieri. Superate le difficoltà, Andre si dimostrò il migliore dei fratelli fino al giorno che Mike ebbe il denaro per spedirlo alla Academy. La fine della storia vede la ribellione di Andre sino al punto di non parlare più a suo padre, e di pregare uno sconosciuto perché si ravvedesse. Non ho avuto occasione di scrivere qualcosa di simile a questa storia, sia per non essere un giornalista completo, sia perché non ne ho avuto l' occasione.

Da gazzetta.it il 6 maggio 2020. E chi l’avrebbe mai detto. L’integerrimo, veganissimo, anti-vax, Novak Djokovic un tempo, nella sua prima vita, si è anche ubriacato. Non solo, il numero 1 al mondo ha raccontato durante una diretta Instagram con Maria Sharapova, di essere sceso in campo un po’ alticcio. Nole racconta divertito, insieme all’amica ed ex collega fresca di ritiro, di aver giocato da ubriaco in Coppa Davis, in Svezia appena dopo aver vinto il primo Wimbledon: «Non dovevo giocare quel week end, dopo il venerdì eravamo già avanti 2-0 così la sera ho festeggiato. Poi il sabato mi sono ritrovato in campo… - racconta - Mettiamola così, la mia visione della palla non è stata ottimale in quel match…». Durante la chiacchierata via social la Sharapova ha raccontato di un appuntamento tra i due: «Era un doppio misto di esibizione - ha detto Masha - tu eri ancora molto giovane non so se avessi ancora vinto un torneo o meno. Giocavamo uno contro l’altro e mi avevi detto che se avessi perso sarei dovuta venire a cena con te. E così è successo! Siamo andati a un ristorante giapponese, e ci siamo pure fatti una foto ricordo».

Marco Lobasso per leggo.it il 14 maggio 2020. Segni particolari: bellissima. Gabriela Sabatini compie sabato 50 anni. Sembra impossibile, eppure è così. Bellissima sì, ma anche una delle tenniste più forti degli ultimi trent’anni. Argentina, mora, caliente, spettacolare rovescio a una mano; perfetta per diventare la rivale di Steffi Graf, che invece era bionda, fredda, decisamente meno sexy, in quei magici anni tra gli 80 e i 90. E lo divenne, perdendo spesso, ma non sempre, dalla tedesca numero 1 del mondo e vincendo 27 tornei e una prova del Grande Slam. Ancora oggi, se nomini Gabriela, Roma sospira. O almeno quella Roma che alla fine del “decennio paninaro” aveva gli anni giusti per innamorarsi di lei. Vinse quattro volte (con due finali) gli Internazionali d’Italia. Il Foro Italico sembrava casa sua. «Era incredibile. Quando giocava Gabriela lo stadio delle Statue, il più bello del mondo e allora campo principale del Foro, diventava magico. Tifavano tutti per lei, la seguivano, la incoraggiavano, l’adoravano. La Rai inquadrava costantemente striscioni d’amore per lei» racconta.

Raffaella Reggi, numero 1 d’Italia in quegli anni e grande rivale dell’argentina.

«Che lotte con Gabriela, tutte fisiche. Sono stata a un passo dal batterla, però poi vinceva sempre lei. Dite che era bellissima? Certo, ma picchiava anche duro, era una campionessa fortissima».

Con Gabriela protagonista, gli anni delle “notte magiche” romane sono stati ancora più belli. Un maggio dopo l’altro: lei vinceva, sbuffava, con quello sguardo malinconico e intenso e l’abbronzatura naturale che la rendeva ancora più bella; i tifosi la osannavano. Era tostissima in campo, timida e di poche parole fuori. E Roma l’amava forse anche per questo. Indifferentemente, sia gli uomini sia le donne. Gabriela sarebbe dovuta venire nella Capitale, per gli Internazionali, proprio in questi giorni. Poi la pandemia ha fermato tutto. «Ma state certi che tornerò», ha promesso. E noi, suoi innamorati di sempre, l’aspettiamo nel 2021. Auguri Gabriela, l’età non è mai contata nulla...

Dagospia il 16 maggio 2020. “Una abbronzata allucinazione di fluidità e giovinezza”, secondo Martin Amis. Una “dea guerriera”, per Gianni Clerici. Gabriela Sabatini, che oggi compie 50 anni, resta conficcata nell’immaginario come sogno erotico e sex symbol del tennis ’80-’90. “Se attacchi, mi attizzi”, i nostri tennis lovers al Foro andavano dritti al punto. Era la preferita dai romani, a lei erano dedicati striscioni grandi come lenzuola a sei piazze, ricorda Adriano Panatta nel suo libro ‘Il tennis è musica’. Ce n’erano di tutti i tipi: in stile disneyano (“Roma uguale Gabyland”), in stile esplicito, in stile veleggiante (“Il Moro ci piace ma la Mora anche di più”), in stile poetico (“Gaby nei cuor avanti con ardor”), in stile Mario Brega (“Gabriela sei uno zucchero”). Il Centrale grazie a lei diventava “un’alcova all’aria aperta”. Sguardi d’invidia accompagnavano Eugenio Rossi, il suo coach per una stagione al quale attribuirono un flirt con l’argentina dalla camminata alla John Wayne e le spalle “da indossatore di Armani”. Per lo Scriba Clerici “soltanto un’atroce battuta, invano modificata con risultati sempre più deludenti, le impedì un accesso tra le Immortali d’altra parte meritato, per il resto del suo gioco e del suo fascino”. A Roma vinse quattro volte e fece strage di cuori. “Mi piaceva tantissimo”, ricordò qualche anno fa Max Giusti a Dagospia – “io in quegli anni ero anche in piena pre-adolescenza, capirai… Più che come bomba erotica la vedevo come la fidanzatina del liceo». Anche con i laghetti di sudore sotto le ascelle sprigionava sensualità e desiderio tanto che l’intellettuale australiano Clive James non si trattenne: “Portatemi il sudore di Gabriela Sabatini…”

Da ubitennis.com il 16 maggio 2020. Non porta più i codini come quando cominciò a palleggiare a Núñez,  impugnando come poteva una racchetta Condor fatta d’acciaio, troppo pesante per una bimba che non aveva ancora compiuto sette anni. Non ha nemmeno l’innocenza che sfoggiava nel giugno del 1984, quando fece innamorare tutto il Bois de Boulogne, conquistò il Roland Garros junior e si mordeva le labbra, timida, durante la premiazione.  Però conserva la stessa essenza, la stessa freschezza e lo stesso calore. Questo sabato Gabriela Sabatini compirà 50 anni. Niente le fa perdere la simpatia. È stata una grande sportiva in un’epoca d’oro. Contemporanea di vere leggende, in carne e ossa, che sembravano uscite da un film di fantascienza. Sensibile e senza malizia, brillò in un circuito caricato di aspettative, che nascondeva anche parti di egoismo e arroganza. Sul campo da tennis, mentre riusciva a “giocare”, nel senso più romantico della parola, Gaby si trasformava e lasciava scorrere la sua poesia. Gelosa della sua intimità e della riservatezza della sua famiglia, Sabatini si è mantenuta sempre lontana dai conflitti. È stata una grande attrazione pubblicitaria […]: seduceva per la sua bellezza, ma anche per il suo modo di essere, per la sua naturalezza. Lo ha scritto anche Monica Seles nella propria biografia, From Fear to Victory (Dalla paura alla vittoria), facendo menzione all’atteggiamento della tennista argentina dopo che il tedesco Günter Parche l’aveva accoltellata ad Amburgo. Le migliori tenniste della WTA decisero di non congelare la classifica della jugoslava, poi naturalizzata statunitense, che era numero 1. Le rivale le voltarono le spalle con il voto, tranne una che si astenne. “Gaby fu l’unica giocatrice che mi sostenne dopo l’accoltellamento. Ha pensato come una persona, non con la testa alla classificia, non ha pensato agli sponsor o agli affari. È una persona diversa dal resto delle giocatrici che erano nel tour”, ha spiegato Seles. Bisogna andare a cercare anche lì per capire perché Gabriela è tanto amata. Vincitrice di 37 titoli e numero 3 del mondo nel 1989. Però insofferente alla fama e all’esposizione mediatica. Nel 2013, in una chiacchierata con La Nación, confessò: “Quando ero piccola e pensavo che vincendo un torneo dovevo parlare, molte volte perdevo in semifinale per non farlo“. Da quando si è ritirata, nel 1996, a soli 26 anni, non ha smesso di collaborare, in silenzio, senza vantarsi. Lo ha fatto con molte tenniste giovani; la fa come ambasciatrice di una fondazione che lotta contro il cancro al seno. Lo fa perché ci crede. E si lascia coinvolgere. Vive così da quando si è liberata del tennis professionistico prima che potesse cominciare a odiarlo.

Oggi concilia i suoi doveri da donna d’affari con una vita sana: pratica sport ogni giorno (adora la bicicletta) e mangia con attenzione (molta frutta e verdura). Si permette qualche sgarro, ovviamente: gelato, pasta, cioccolata calda o cappuccino, a seconda della stagione. A Zurigo, una delle tre città in cui vive durante l’anno (insieme a Buenos Aires e Miami) ha seguito corsi per imparare qualcosa di più sull’origine e la preparazione del caffè. Giura che potrebbe rimanere per ore seduta in un caffè. Attualmente è a Miami, anche se si sarebbe dovuta trovare in Svizzera per preparare i festeggiamenti per il suo compleanno. Lo stava progettando con amici e familiari, ma il coronavirus l’ha sorpresa in Florida.

“Sono qui, cercando di far passare queste giornate così strane che stiamo vivendo, difficili da gestire, perché – racconta alla Nación – ti passano tante cose per la testa. Non mi posso lamentare di niente, mi trovo in un luogo molto comodo, Miami, dove si può uscire, si può fare sport all’aperto, che è una cosa buona. Sono qui, aspettando di poter rientrare in Svizzera prima o poi. L’umore? Bisogna far rallentare un po’ il cervello, perché l’essere umano è abituato a programmare, a pensare nel futuro, a fare piani. Nel mio caso è lo stesso: mi muovo in continuazione, per cui la mente comincia a pensare a tutte queste cose e tutto diventa difficile, soprattutto di sera a volte fatico un po’ a dormire, come penso che succeda a tutti. Penso alla gente che sta attraversando davvero un brutto periodo per la situazione economica… sono pensieri che fanno capolino e come fai a fermarli e non pensare? È molto difficile”.

Il tennis ti ha dato tanto, ti ha insegnato tanto, ma forse ti ha procurato anche qualche dispiacere. Ogni tanto pensi che avresti preferito un’altra vita? Evitare le luci della ribalta, avere più libertà?

«No, il tennis mi ha dato molto di più di quello che mi può aver tolto. Sono una persona fortunata. Ho potuto viaggiare, conoscere il mondo, avere amici ovunque. Tutto questo forse non lo avrei avuto. Questa esperienza mi ha fatto crescere e mi ha aiutato a maturare. Ero una persona timida e introversa: negli anni della scuola media ero molto chiusa e condizionata dalla timidezza. Il tennis, dovermi esprimere mi ha aiutata moltissimo nella mia personalità. Ovviamente ho sempre preferito difendere la mia sfera privata, perché sono fatta così e così mi sento più a mio agio; ma il tennis è meraviglioso: il contatto con la gente mi fa stare bene. E adesso me lo godo ancora di più».

Nel documentario The Last Dance, Michael Jordan dice: “Molti vogliono essere Jordan un per un giorno o per una settimana, ma forse dovrebbero esserlo per un anno. Poi vediamo se lo desiderano ancora”. Ti ritrovi in questa frase, per quanto riguarda la fama e la pressione che hai subito?

«Non l’ho visto ancora, ma lo vedrò, perché è stato una delle leggende più grandi dello sport. Non credo al suo livello, ovviamente, ma anch’io ho sentito quella pressione, quelle aspettative con cui ho dovuto fare i conti. Forse è la parte più difficile, perché una ragazza non è abituata ad avere una vita così sotto i riflettori. Sì, credo che sia stato l’aspetto più duro: gestire questa situazione, separare le cose, perché qui e là sentivo giudizi che non mi facevano stare bene, che mi facevano soffrire, per cui ho dovuto separare i piani e concentrarmi quasi esclusivamente nel gioco, nel tennis, nei miei obbiettivi. E questo mi ha aiutato. Però non so se sarebbe così bello stare nei passi di Jordan per qualche giorno… Bisogna saperlo gestire, dev’essere una fatica incredibile a quei livelli».

Una volta hai detto che “la fama e la sovraesposizione hanno avuto qualcosa a che fare” con il fatto di non raggiungere il n.1. A volte le aspettative erano soffocanti?

Sì, soprattutto all’inizio, perché parliamo di quando avevo 16, 17 anni e cominciava la storia della fama, dei giornali che parlavano di me e a volte fa male quando si scrivono cose che non si conoscono davvero. È lì che bisogna separare i piani e imparare come funziona, non uscire dal proprio terreno, seguire gli obbiettivi e la professione. Questo mi ha permesso sempre di restare concentrata. Devi trovare un equilibrio: isolare la tua parte più privata, senza smettere di essere te stessa, e senza che questo incida su tutto il resto».

La carriera tennistica di Sabatini è stata un capolavoro, con grandi picchi di ispirazione e anche qualche ostacolo sul finale. Si potrebbe aprire il baule dei ricordi e scegliere a caso: nel 1985, a soli 15 anni, è stata la semifinalista più giovane della storia del Roland Garros, sconfitta da Chris Evert, allora n. 2 della Wta.

«Sì, mi ricordo: è incredibile, se ci penso adesso, stare sul centrale del Roland Garros a 15 anni. In quel momento, credo, non capivo nemmeno dove fossi, contro chi stessi giocando. Anche se in un certo senso lo sapevo, perché Chris Evert, quando cominciai a prendere in mano la racchetta, era già molto in alto. Però trovarsi a giocare contro di lei, a quell’età, è qualcosa di cui non ti rendi bene conto, non ci pensi. Mi divertivo a stare lì, a poter giocare una semifinale, in un torneo come il Roland Garros, in una città come Parigi. Non hai del tutto consapevolezza di quei momenti, poi a volte guardo le foto e dico: “Wow, che piccola che ero!”».

Lo spirito olimpico di Seul 1988, quando hai conquistato la medaglia d’argento ti ha segnata? In realtà continui a essere un punto di riferimento per gli sportivi argentini.

«Sì, è stata un’esperienza unica, perché i tennisti, ad eccezione della Fed Cup, non hanno l’opportunità di rappresentare il proprio Paese. Allora il torneo olimpico non dava punti WTA, però era così importante e gratificante indossare i colori dell’Argentina e condividere quell’esperienza con gli altri atleti: stai nello stesso edificio, li incontri in continuazione, era come una famiglia, andavamo a mangiare tutti insieme. Mi dava tantissima energia. Ricordo che mi svegliavo al mattino e tutti si stavano allenando, preparandosi per le loro gare, e anche a me veniva voglia di allenarmi. Tornai da lì carica come non ero mai stata. Ai Giochi olimpici respiri davvero lo sport e capisci il valore dello sforzo che fanno molti atleti, perché la maggior parte di loro sono dilettanti e si preparano solo per quel momento, che alla fine dura due minuti o una giornata. Da allora in poi mi piace mantenere contatti con gli altri sportivi, incitarli, accompagnarli. È molto bello e mi dà grande soddisfazione».

È impossibile non parlare di New York e Roma, due luoghi in cui ti caricavi di energia e dove hai ottenuto i tuoi migliori risultati (Us Open 1990, due Master al Madison Square Garden e quattro titoli nella capitale italiana).

«Sì, credo che influisse molto sul mio gioco, sul mio stato d’animo. E ovviamente New York e Roma erano posti in cui fuori dal campo da tennis stavo bene. Vabbè, in Italia, a Roma, mi sento come a casa perché hanno le nostre stesse abitudini. E poi parliamo del pubblico, perché in entrambe le città il pubblico era molto caldo, molto espressivo, si lasciavano coinvolgere dalla partita e questo mi infondeva più energia ed entusiasmo».

A Roma venivano a vederti anche i tuoi familiari, no?

«Sì, tuttora ho alcuni parenti da parte di mio padre, che venivano a posta per il torneo, visto che vivono sull’Adriatico, nelle Marche. Quando arrivava il torneo, venivano anche loro, così avevamo modo di vederci ed era bello anche stare con loro. Sono andata anche al paese dei miei antenati, dopo che ho lasciato il tennis, ho il passaporto, mi hanno offerto le chiavi della città, è stato bellissimo conoscere la casa dove viveva la nonna di mio padre.

Ami viaggiare. Ti è capitato di andare in posti dove non pensavi di essere conosciuta?

«Mi è successo quando avevo già smesso di giocare e andavo a promuovere il mio profumo, come a Varsavia, in Polonia. C’era una coda lunghissima per avere il mio autografo. Mi è successo soprattutto in posti dove non ero mai andata a giocare e mi conoscevano più per i profumi che per il tennis: è stato molto curioso e sorprendente».

Gaby, ti guardi allo specchio il 16 maggio, guardi un po’ più in profondità, ripercorri la tua vita per fotogrammi. Che cosa vedi? Che cosa ti piace? E che cosa no?

«Sento di essere una privilegiata della vita, ho fatto tutte le cose che ho desiderato fare, continuo a farle e avere questa opportunità è già tanto. L’importante è stare bene con sé stessi. Cerco di condurre una vita sana, sono felice di stare dove sono, di aver vissuto quello che ho vissuto. Ovviamente, ti dici anche: “Beh, certe cose potevano essere un po’diverse”».

In che senso?

«Forse in campo professionale, forse in campo personale. Però sento di aver preso le decisioni che mi sembravano giuste in quel momento, per cui mi sono sentita e mi sento bene. Non ho nessun rimpianto: mi sono presa sempre tutto il tempo necessario per decidere. Mi sento bene con quello che sono e con quello che ho e mi sento grata per tutto».

Hai perduto alcune persone care. Che rapporto hai con la morte?

«È dura affrontare queste situazioni, l’ho vissuto con mio padre (Osvaldo, morto a marzo 2016): il peggio che possa succedere è vedere una persona cara che soffre. Però, parlando della morte è parte della vita, è la nostra continuazione, anche se non è così facile da accettare. Per esempio perché una persona non c’è più? O perché ci sono alcune morti così ingiuste? È difficile da elaborare psicologicamente».

Nella tua carriera hai ricevuto aiuto dagli psicologi?

«Sono stata in terapia per molti anni, al di là del tennis (in Argentina, andare in analisi è come andare dall’oculista per noi, almeno era così negli anni Ottanta. Ndt). D’altro canto ho lavorato anche con uno psicologo dello sport, quando ho ritenuto di averne bisogno. Mi ha aiutato moltissimo, sia in un momento specifico della mia carriera sia alla fine, quando non riuscivo a elaborare quello che mi succedeva in campo, quando non mi divertivo, non sopportavo gli allenamenti. Per questo sono tornata dallo psicologo e mi ha aiutato a capire che era il momento di dire basta».

Chi ti conosce bene dice che da moltissimo tempo il tennis non ti faceva sorridere come al Madison Square Garden, quando hai giocato un’esibizione con Monica Seles nel 2015. Hai quella foto come profilo in rete. Dopo anni senza gioia, è li che ti sei riconciliata con il tennis?

«Sì, sì, mi avevano proposto di giocare al Madison l’anno precedente, ma non ero preparata, non gioco molto, magari una volta ogni tanto, ma in quel momento erano passati tre o quattro anni senza giocare e avevo rifiutato; però l’idea mi frullava in testa, più che altro per tornare a New York, al Madison. Quando me l’hanno chiesto di nuovo, ci ho pensato su e ho detto: “Ok, mi impegno a farlo, comincio ad allenarmi”. Mi sono allenata per quattro mesi prima della partita. Sì, ero rimasta con la sensazione di non divertirmi tanto con il tennis e in quei mesi sono tornata a divertirmi come quando ero piccola. Addirittura, negli ultimi tempi da professionista il servizio era una sofferenza e invece lì mi sono sentita così bene a tirare forte, così a mio agio! Perché ho cercato di prendere tutto alla leggera. Prendo sempre tutto troppo sul serio. Ho pensato: “Se un giorno non ho voglia di allenarmi, non lo faccio”. Non mi allenavo tutti i giorni, uno ogni due. Intendo il tennis, perché l’allenamento fisico non l’ho mai trascurato e questo è stato un bel vantaggio, altrimenti sarebbe stata molto più dura. Quando mi sono trovata al Madison Square Garden era cambiato un bel po’, sembrava un posto diverso, ma mi sono divertita un sacco».

Che diresti oggi alla Sabatini tennista?

«(Sorride) Non ho niente da dirle, se non che mi sento molto orgogliosa di quella persona, di tutto quello che ha lasciato, di quello che ha consegnato al tennis».

E magari le diresti di prendersi alcuni momento del gioco con più tranquillità?

«Sì, forse sì, che non prenda le sconfitte come la fine del mondo. Più che altro, che siano qualcosa di positivo e non di negativo, perché quando perdevo no volevo avere niente a che fare con nessuno, credo che pretendevo troppo da me stessa e a volte giocavo contro di me. Proverei a prendere tutto con più tranquillità, di cercare altre cose da fare. Avevo cominciato a farlo nell’ultimo periodo e mi aveva aiutato sapere che esiste un mondo fuori dal tennis, che nella vita si possono fare altre piccole cose. Questo cercherei di introdurlo di più nel tennis».

Gastón Gaudio raccontava che in finale di carriera, di notte, usciva a fare foto. Tu che facevi?

«In un certo periodo anch’io mi sono data alla fotografia e giravo con la macchina fotografica. In un altro periodo viaggiavo con la chitarra, che non era esattamente facile perché era un po’ grande da portare in giro. Ricordo che eravamo ad Amelia Island, allora Carlos Kirmayr era il mio allenatore e insisteva molto su questa parte, mi ha aiutato molto a ridurre la pressione. Io dicevo: “Oh, che bello sarebbe andare a cavallo sulla spiaggia!”. E Carlos, dopo la partita, mi diceva: “Andiamo a cavallo sulla spiaggia”. E così tante altre piccole cose. Carlos insisteva e funzionava».

Quali sono le prime cose che farai quando avremo recuperato un po’ di normalità dopo la pandemia?

«Abbracciare i miei cari, andare a prendere un caffè o un gelato con gli amici. Però soprattutto vedere i miei cari e poterli abbracciare».

(Traduzione di Alessandro Condina)

Maria Sharapova si ritira: ''Ho dato la mia vita al tennis''. A 32 anni la campionessa russa, vincitrice di 5 Slam, appende la racchetta al chiodo. L'annuncio in una lunga lettera: ''Mi mancherà tutto di questo sport, ho avuto gioie e dolori indicibili''. Sul futuro: ''Inizierò a scalare una nuova montagna''. Francesco Carci il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Maria Sharapova lascia il tennis. Non è un fulmine a ciel sereno, ma poco ci manca. La campionessa russa, 32 anni, ha deciso di appendere la racchetta al chiodo e lo ha fatto attraverso una lunga ed emozionante lettera inviata a Vanity Fair e Vogue, nella quale ripercorre tutta la carriera.

Il ricordo dei 5 Slam. "Come fai a lasciarti alle spalle l'unica vita che tu abbia mai conosciuto? Come ti allontani dai campi su cui ti sei allenata da quando eri una bambina, il gioco che ami - che ti ha portato lacrime indicibili e gioie indicibili - uno sport in cui hai trovato una famiglia, insieme ai fan che si sono radunati dietro di te da più di 28 anni? Lo so questo, quindi per favore perdonami. Tennis, ti sto dicendo addio". Inizia così la lunga lettera della siberiana, ex numero 1 del mondo e vincitrice di 5 Slam. Il primo, a Wimbledon nel 2004, quando era ancora minorenne: "Sembrava un buon punto di partenza - ricorda -. Ero un'ingenua diciassettenne, collezionavo ancora francobolli e non capivo l'entità della mia vittoria fino a quando non sono diventata più grande, e sono contenta di non averlo fatto". Nel 2006 il trionfo agli Us Open, il 2008 in Australia e nella terra rossa parigina del Roland Garros la doppietta 2012-2014: "Gli US Open mi hanno mostrato come superare le distrazioni e le aspettative. Se non potevi gestire la confusione di New York, beh, l'aeroporto era accanto. L'Australian Open mi ha portato in un posto che non aveva mai fatto parte di me prima. Non riesco davvero a spiegarlo, ma era un buon posto dove stare. La terra all'Open di Francia ha rivelato praticamente tutte le mie debolezze - per cominciare, la mia incapacità di scivolarci sopra - e mi ha costretto a superarle, due volte. È stato bello".

"Il tennis mi ha dato la vita". Sul proprio profilo Instagram Maria ha pubblicato una foto da bambina su un campo di tennis, con la racchetta in mano. Segno di come questo sport l'abbia accompagnata da sempre: "La prima volta che ricordo di aver visto un campo da tennis, mio padre ci giocava. Avevo quattro anni a Sochi, in Russia, così piccola che le mie minuscole gambe pendevano dalla panca su cui ero seduta. Così piccola che la racchetta che ho raccolto accanto a me aveva il doppio delle mie dimensioni. Quando ho iniziato a giocare, le ragazze dall'altra parte della rete erano sempre più vecchie, più alte e più forti. Ma a poco a poco, con ogni giorno di prove in campo, questo mondo quasi mitico è diventato sempre più reale. Una delle chiavi del mio successo è che non ho mai guardato indietro e non ho mai guardato avanti. La mia forza mentale è sempre stata la mia arma più forte. Anche se il mio avversario era fisicamente più forte, più sicuro, anche semplicemente migliore, avrei potuto perseverare". Poi il racconto più emozionante: "Nel dare la mia vita al tennis, il tennis mi ha dato una vita. Mi mancherà ogni giorno. Mi mancheranno l'allenamento e la mia routine quotidiana: svegliarsi all'alba, allacciare la scarpa sinistra davanti alla mia destra e chiudere il cancello del campo prima di colpire la mia prima palla della giornata. Mi mancherà la mia squadra, i miei allenatori. Mi mancheranno i momenti seduti con mio padre sulla panchina del campo di allenamento. Le strette di mano - da vincente o sconfitta - e gli atleti, che lo sapessero o no, che mi hanno spinto a fare del mio meglio".

Il doping e gli infortuni. Come da lei stesso ammesso, ci sono state gioie ma anche dolori. Come il clamoroso annuncio nel marzo 2016, quando ammise di essere stata trovata positiva a un controllo antidoping (per l'assunzione del meldonium) in Australia nel gennaio precedente che le costò due anni di squalifica, poi ridotta a 15 mesi. Per non dimenticare i tanti problemi fisici, in particolare alla spalla: "Uno di questi è arrivato lo scorso agosto agli Stati Uniti Open. Dietro porte chiuse, trenta minuti prima di entrare in campo, avevo una procedura per non sentire dolore alla spalla per superare l'incontro. Gli infortuni alla spalla non sono una novità per me: nel tempo i miei tendini si sono sfilacciati come una corda. Ho avuto più interventi chirurgici, una volta nel 2008; un'altra volta l'anno scorso e ho trascorso innumerevoli mesi in fisioterapia. Scendere sul campo quel giorno sembrava una vittoria finale, quando ovviamente avrebbe dovuto essere solo il primo passo verso la vittoria. Condivido questo non per pietà, ma per dipingere la mia nuova realtà: il mio corpo era diventato una distrazione". Ultimo pensiero sul futuro: "Guardando indietro ora, mi rendo conto che il tennis è stata la mia montagna. Il mio percorso è stato riempito di valli e deviazioni, ma i panorami dalla sua cima erano incredibili. Il tennis mi ha mostrato il mondo e mi ha mostrato di che pasta sono fatta. È come mi sono messo alla prova e come ho misurato la mia crescita. E così in qualunque cosa sceglierò per il mio prossimo capitolo, la mia prossima montagna, continuerò a spingere. Continuerò ad arrampicarmi. Continuerò a crescere".

Tennis, Maria Sharapova si ritira: «Ma come ti lasci alle spalle l’unica vita che tu abbia mai conosciuto?» Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Nemesi bianchissima della super campionessa nerissima, capace di guidare per undici anni consecutivi la classifica di Forbes delle atlete più pagate del mondo pur vincendo molto meno di Serena Williams, mortificata da un infortunio cronico alla spalla Sua Bionditudine si ritira a 32 anni. Alla maniera con cui nel 2016 annunciò al mondo il suo doping tres chic, cioè convocando i giornali amici alla sua corte, Maria Sharapova scrive un articolo per Vogue e Vanity Fair domandandosi: «Cosa farà nella vita una che per tutta la vita ha giocato a tennis?». Niente panico. Miliardaria e volto glamour del jet set internazionale, fidanzata con il gallerista inglese Alexander Gilkes con il quale intende mettere su famiglia, la divina Maria sbarcata negli Usa a 12 anni con 250 dollari in tasca troverà il modo di rimanere sulle copertine dei giornali. Una linea di moda, l’impegno con Nike che probabilmente la vedrà traghettare dal ruolo di testimonial del brand a quello di manager (all’uopo ha preso un Master, fuori laurea, a Harvard), l’amicizia con Anna Wintour, Jennifer Aniston, Chelsea Handler e le altre femmine Alfa del bel mondo losangelino (Maria tiene villa a Manhattan Beach, sobborgo a sud della metropoli) garantiranno una pensione morbida alla campionessa russa che ha saputo integrarsi così bene negli Usa senza mai tagliare i ponti con la Grande Madre dello zar Putin, che la volle portabandiera ai Giochi. Straordinaria protagonista del marketing, eccellente nel saper vendere il suo marchio anche durante la squalifica di 15 mesi per doping che ha appena scalfito l’immagine della tennista più desiderata dagli uomini, algida ma non così distante come il suo ufficio stampa ce l’ha raccontata per anni (di persona Sharapova si è sempre rivelata molto meno scostante della sua immagine pubblica), Maria è stata - parlandone da viva -anche campionessa vera. Non si vincono cinque Slam per caso nell’era della Williams, ristabilendo minorenne la supremazia Wasp nel tempio anglosassone di Wimbledon (2004) prima di arrendersi alla conclamata superiorità di Serena, mai più battuta. E allora, con quel tennis violentissimo fatto di gesti più rudimentali che bianchi e con l’intelligenza brillante che l’ha sempre contraddistinta, Sharapova le sue perle Major è andata a cercarsele altrove: Us Open 2006, Australian Open 2008 e non una, ma ben due volte il Roland Garros, nel 2012 e nel 2014, pescando dentro l’aria altera l’umiltà di remare da fondocampo sul rosso, la superficie meno congeniale al muscolo sharapoviano, che si è rivelato impossibile, alla fine, dopo due operazioni alla spalla, ricucire. Maria ha corrisposto perfettamente alle aspettative del padre Yuri, suo primo coach. Ha lenito con i successi straripanti (36 titoli Wta, numero uno del mondo nel 2005) il dolore di mamma Yelena, costretta in Russia da problemi di visto quando lei e il papà erano già stati accolti all’accademia di Bollettieri in Florida. Ha sventolato la coda bionda in faccia a legioni di fan totalmente irretiti dalla sua bellezza di femmina dell’Est inurbata all’Ovest, capace di imparare un inglese madrelingua, di vestire con eleganza, di non sfigurare a cospetto delle celebrities. Non c’è niente di sbagliato nella carriera di Maria Jurevna Sharapova che si interrompe oggi che finalmente è satolla e soddisfatta («Come dimenticare i campi e lo sport che ti ha fatto piangere e ridere, che ti ha dato una famiglia e fan in tutto il mondo per più di 28 anni...?»), non certo il tentativo di allungarsi la carriera chiedendo aiuto a Riccardo Piatti e fallendo il ritorno in Australia, nemmeno l’errore madornale di quel doping al meldonio che l’ha umanizzata avvicinandola ai sudditi mentre Serena Williams prendeva il volo verso 23 titoli Slam. Nessuno è perfetto. Nemmeno Maria Sharapova.

Alexandra Cadantu: “Ho visto Serena Williams svestita e sono rimasta incredula”. Andrea Ienco il 03/06/2020 su Notizie.it. Una collega di Serena Williams ha confessato di aver visto la tennista nuda in spogliatoio e di essere rimasta senza parole. Serena Williams è una delle tenniste più forti di tutti i tempi e senza dubbio anche una delle più amate in assoluto di questo splendido sport. Nonostante questo la tennista americana è stata spesso vittima di commenti vergognosi e razzisti in merito al suo aspetto fisico. A tornare a parlare di questa situazione è la tennista rumena Alexandra Cadantu, attualmente numero 292 al mondo. La giocatrici ricorda il primo incontro contro la campionessa made Usa: “Ricordo la mia prima volta in un grande Slam e la prima volta in quegli spogliatoi grazie ad un incontro con Serena Williams. Non l’avevo mai vista e me la trovai dinanzi negli spogliatoi: era totalmente svestita e ho ripensato a quell’incontro per una settimana. Era davvero molto grande. Vedendola li penso poi che sia davvero incredibile come Serena riesca a giocare e muoversi”. Nel corso della sua carriera Serena Williams è stata spesso offesa in maniera vergognosa per il suo fisico e il suo peso. La giocatrice infatti è stata spesso paragonata ad un uomo. L’ex numero 1 al mondo ha sofferto molto per questa situazione ed ha rivelato: “Era molto difficile per me. La gente diceva che dovevo nascere uomo viste le mie braccia e la mia forza. Sono totalmente diversa rispetto a Venus: lei era magra, alta e bella, io sono totalmente diversa, molto più forte e muscolosa. Quando ero giovane, a 22 anni, volevo provare a perdere peso e raggiungere delle taglie inferiori.”

Parolacce e racchettate. E McEnroe fece a pezzi il salotto del tennis. L'americano cacciato all'Australian Open inaugurò l'era dei campioni maleducati. Sergio Arcobelli, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Era una domenica pomeriggio umida quel 21 gennaio 1990, trent'anni fa come oggi. Nell'aria, che diveniva sempre più calda con l'alzarsi del sole, un uomo tormentato e pensieroso cercava di riprendersi dalla notizia choc appresa pochi minuti prima. John, il tuo torneo è finito. Sei fuori. Sono passati trent'anni dall'edizione del 1990 dell'Australian Open, ma chi era presente a Melbourne Park di certo non avrà dimenticato l'espulsione la prima nella storia del tennis nell'era Open -, di John McEnroe. Resta, ancora oggi, il momento più umiliante della carriera di Super Mac, uno dei più grandi talenti della racchetta, vincitore di sette titoli Slam. Ricapitolando: siamo nel quarto turno degli Australian Open '90 e John McEnroe, opposto allo svedese Mikael Penfors, inizia, come al suo solito, ad andare in escandescenza. Prima, un'intimidazione alla giudice di linea (che gli costa due warning); poi, un sonoro vaffa al giudice di sedia Gerry Armstrong; nel mezzo, specialità di casa McEnroe, la racchetta scagliata violentemente a terra che gli costa un punto di penalità. Basta questo a far infuriare John, già fuori controllo di suo. E questo nonostante lo statunitense conduca l'incontro per due set a uno. «Ero sicuro che avrei vinto il match rivelerà a posteriori Super Mac -, ma ho mancato un colpo che non avrei dovuto mancare. Per la rabbia ho gettato la racchetta. I giocatori lo fanno sempre». Non finisce lì. Dopo aver demolito l'attrezzo, McEnroe chiude il suo personale teatrino imprecando persino contro il supervisor del match, Ken Farrar. Una parolaccia fatale. L'arbitro, inflessibile, a quel punto, non fa altro che applicare il regolamento: Game, set and match in favore di Pernors. «È stato un momento difficile confesserà l'americano - anche perché la mia ex moglie e i miei figli erano lì ad assistere. Vorrei che quel fatto mi avesse cambiato di più, mi avesse aiutato a cambiare i miei atteggiamenti. Ma non ci fu verso». Quella in Australia, comunque, non fu la prima e nemmeno l'unica follia di McEnroe (si pensi allo sfogo di Stoccolma, 1984). Anzi, l'americano si può dire benissimo che abbia fatto scuola: da Kuerten a Serena Williams, da Nalbandian a Dimitrov e Kyrgios, per non parlare di Fabio Fognini in casa Italia, sono solo alcuni di quelli multati e squalificati da un torneo per comportamenti sopra le righe. Ultimo di questi il canadese Denis Shapovalov, che in un match di Davis ha colpito con una pallina il giudice di sedia. Cacciato. Ieri, per non farsi mancare nulla, proprio il canadese ha preso un warning per racket abuse ed è stato protagonista di un altro sfogo contro un arbitro: «È la mia racchetta, faccio quello che voglio. Fai il tuo lavoro, stai solo cercando una ragione per punirmi». Alta scuola.

Paolo Bertolucci: «Io e Panatta, diversi in tutto. Conquistava le fan con il colpo del ciuffo». Elvira Serra il 13/8/2020 su Il Corriere della Sera. Le interviste della serie «L’altro della coppia».

Preferisce «Pasta Kid» o «Braccio d’oro»?

«Pasta Kid, mi ci riconosco di più. Me lo diede per provenienza e abitudini culinarie Bud Collins, del Boston Globe».

A Boston fece la più grande scorpacciata di aragoste. Riesce ancora a mangiarle?

«Eravamo ospiti con Adriano di Mr Kraft, cose buone dal mondo: aveva dato una festa in nostro onore e ne arrivarono camion pieni».

E le medialunas di Buenos Aires? Ne mangiava 20 di fila.

«Ancora tutte le mattine!».

Paolo Bertolucci è «quello che giocava con Panatta». Un po’ riduttivo, se si pensa che nella classifica individuale è stato il numero 12 al mondo. Nato in casa nel Palazzetto del tennis di Forte dei Marmi, papà Nino maestro di tennis, primo giocattolo racchetta e pallina, a 11 anni fece l’incontro che diede inizio alla relazione più duratura della sua vita: lui era Adriano Panatta, 12 anni, già bello e non particolarmente simpatico. Cominciò a sopportarlo due anni dopo a Formia, quando dovettero dividere la camera.

Cosa gli ha regalato per i 70 anni?

«Un pezzo sulla Gazzetta dello Sport. Molto meglio dei regali che mi fa lui».

Per esempio?

«Al mio matrimonio mi regalò un cavallo!».

Che bello!

«Per niente! Lo fece solo per farmi spendere soldi!».

La più grossa che le ha combinato?

«Lo salva che è una persona buona e con uno così non puoi restare arrabbiato. Ma abbiamo litigato un sacco di volte, dentro e fuori dal campo. Non saremmo potuti essere più diversi: lui di famiglia socialista, io liberale, lui giocava a sinistra, io a destra, lui non si dà mai pace, io sono un tipo tranquillo...».

Le spiace aver fatto una carriera alla sua ombra?

«Una volta alla Royal Albert Hall di Londra nel presentarci dissero che lui era one of the most handsom men in Europe, uno degli uomini più affascinanti d’Europa, e io ero the shorter, quello più basso. Ma nella coppia ero il regista che creava e preparava il piatto, lui il bel ragazzo che dava il colpo del ciuffo».

Ma non era la Veronica il colpo di Panatta?

«Tecnicamente. Ma il colpo del ciuffo era bestiale, le donne impazzivano. Lui prima di colpire la palla si spostava i capelli con la mano e loro gridavano: A-dri-a-no! Ma il colpo lo avevo preparato io!».

Lui dice che per vendicarsi gli ha messo il veto a Sky Sport, dove lei commenta il grande tennis.

«E io dico che lui chiede troppi soldi!».

Ha dovuto coprirlo spesso con le donne?

«Lasciamo stare...».

Me ne dica almeno una!

«Eravamo in Spagna e durante una partita mi fa: “La vedi quella donna in tribuna? Stasera esce con me”. E io: “Vabbè adesso però cerchiamo di vincere”. La sera, come da manuale, la signora, sposata e con tre-quattro figlioli, lo raggiunse in albergo. Poiché dormivamo in camera insieme, dovetti cedergli la stanza e andai in quella accanto, comunicante. A un certo punto sentii bussare alla porta, era il marito: “Donde està mi mujer”? Ma che ne so, risposi. Adriano aveva sentito tutto e quando andò via fece entrare la moglie da me: bussò da lui e non c’era già più».

Nella sua autobiografia, «Pasta kid» (Ultra Edizioni), scrive che grazie a voi Björn Borg diventò un sex symbol.

«Vestiva in un modo... Zoccoli svedesi, jeans e maglietta. Lo obbligammo a tirar fuori la carta di credito e rifarsi il guardaroba...».

Pure Adriano era vanitoso...

«Altroché! Guai a toccargli i capelli, diventa pazzo».

La partita più bella?

«La vittoria in Coppa Davis».

Con la maglietta rossa.

«Quella storia... Buon per Adriano che ve ne siete accorti, ma ai tempi non fece così tanto clamore. Comunque poi la cambiammo».

La vittoria più gustosa?

«Contro gli australiani a Roma, o anche a Montecarlo contro McEnroe e Gerulaitis».

È vero che doveva allenare Federer?

«Ero nella rosa, ma significava stare 40 settimane all’estero, avevo appena smesso di fare il girovago...».

Cosa pensa di Sinner?

«Ha tutto: testa mezzo tedesca, è serio, è ben guidato da Piatti e vive per il tennis».

E lei gioca ancora a tennis?

«Mai. Quando ho smesso ho smesso».

Sogna di giocare?

«Mi è successo all’inizio del lockdown. Non ricordo contro chi, ma era un match delicato, non sapevo se colpire sul dritto o sul rovescio. Ho riprovato quella sensazione, il mal di pancia che ti prende...». 

Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 18 settembre 2020. Piazza dei Signori, il salotto buono di Treviso, è in fermento. «E che succederà mai...?» ride l' impunito. Succede che un segugio della cronaca locale ha fatto un giro in Comune, ha visto le pubblicazioni, ha scatenato il tam tam: a 70 anni compiuti il 9 luglio, sempre ironico sotto il ciuffo ma mai come in questa occasione serio e compreso, l' indimenticato eroe del tennis italiano Adriano Panatta si sposa con la compagna Anna Bonamigo. Il 10 ottobre, a Venezia, nella Sala degli Stucchi di Ca' Farsetti, sestiere di San Marco, affacciato sul Canal Grande. Carlo Nordio, magistrato trevigiano titolare dell' inchiesta sul Mose e sulle cooperative rosse nella stagione di Mani Pulite, grande amico della coppia, officerà il rito civile. Pochi e distanziati, come impongono le norme anti-Covid, gli invitati: il sindaco e il vicesindaco del comune di Treviso, Mario Conte e Andrea De Checchi, Luigi Brugnaro, primo cittadino di Venezia, le amiche storiche di Anna, che fa l'avvocato a Treviso ed è molto nota in città, Philippe Donnet, Ceo del Gruppo Generali e testimone dello sposo, di cui è partner nella ristrutturazione dell' ex Sporting Club Zambon di via Medaglie d' Oro, acquistato all' asta per 550 mila euro. Presenti, con grande gioia dello sposo, anche i tre figli, avuti dalla prima moglie Rosaria Luconi («Con lei non ci sentiamo più»): Rubina, Niccolò e Alessandro. «Sono felici per me e io felice che ci siano». Un secondo matrimonio per entrambi. Un atto di fiducia nell' istituzione o un gesto di allegria, Adriano? «Ma quale allegria! Non ci si sposa per scherzo. Io ci credo. Eccome se ci credo. Il matrimonio è una cosa seria ed era un desiderio di entrambi, mio e di Anna. Ci si sposa con grande serenità, dopo quasi sette anni che stiamo insieme. Io per amore mi sono trasferito da Roma a Treviso, che mi ha accolto benissimo. Sposarsi è un percorso naturale». La scintilla a Capri, uniti da amici comuni. Adriano e Anna hanno cominciato a parlarne un anno fa circa. «Io ero separato, poi ho divorziato. Che ne dici, lo facciamo, ho chiesto ad Anna. E lei: perché no? Del matrimonio avrei detto io stesso ma la cosa è girata ed eccoci qui, vabbé, a me non pare una notizia sensazionale però è una bella idea, non mi nascondo». I Panatta continueranno a dividersi tra Roma e Treviso, dove la settimana prossima cominciano i lavori al Tennis Club («Abbiamo i permessi, apriamo il cantiere, l' impianto è molto grande, ci vorranno mesi. Spero venga pronto entro la prossima estate, magari senza Covid...»). La città è piccola, Adriano ama girare per il centro storico in bicicletta, da oggi attesa pioggia di pacche sulle spalle e felicitazioni: «Va bene, risponderemo a tutti con un sorriso e con educazione. Treviso è una cittadina civilissima, ci si conosce un po' tutti, il giro dei negozi-locali-ristoranti è sempre lo stesso, c' è una dimensione di paese, ci si vuole bene». Dopo il matrimonio, nessun viaggio di nozze. «Ma 'ndo andiamo con il Covid? Ci si sposa, si fa un brindisi, poi belli tranquilli torniamo a casa nostra a Treviso. Mica siamo sposini novelli! Non succederà nulla di eccezionale, fidatevi: con Anna ci sposiamo perché stiamo bene insieme. Tutto qui».

Elena Filini per il Messaggero il 17 settembre 2020. Mancavano solo i fiori d' arancio. Ed ecco che Adriano Panatta, 70 anni appena compiuti, si regala le nozze con Anna Bonamigo. Il matrimonio sarà celebrato a Venezia il 10 ottobre nella sala degli stucchi del municipio di Ca' Farsetti. Ad officiare il rito civile Carlo Nordio, il magistrato amico fraterno della coppia. Una cerimonia intima, con i soli parenti come testimoni, in ottemperanza alle norme anti Covid. E un grande sogno che si realizza per l' avvocato trevigiano, che diventerà, in seconde nozze, la signora Panatta. Difficile andare oltre gli scarni dettagli delle pubblicazioni. I futuri sposi sono emozionati e decisi a difendere la privacy di un momento magico. A lungo accarezzato e diventato progetto concreto durante il lockdown. Panatta avrebbe voluto dare una notizia ufficiale, ma l' implacabile iter amministrativo lo ha anticipato. Non parla però, non ora almeno. La boa dei 70 anni e una nuova giovinezza per il campionissimo romano e ormai trevigiano d' elezione: il ricordo dei primi passaggi di Panatta nel capoluogo della Marca, degli avvistamenti in bicicletta o nei locali insieme alla bella Anna sembra preistoria. Dopo quasi 7 anni, oggi l' ex tennista rubacuori ha su Treviso un chiaro progetto di vita professionale e personale. Che le frequentazioni del campione con Treviso fossero insolitamente frequenti si comincia ad avvertire nella tarda primavera del 2014. Ma le prime uscite pubbliche a Nordest sono datate luglio: Adri e Boba che vanno a fare la spesa, che praticano sport, che escono a cena e suscitano curiosità. Ma i due, fedeli al basso profilo, non confermano nulla finché la liaison diventa davvero difficile da smentire. Anna, del resto, era stata censita da Dagospia già nell' ottobre 2013 in occasione di un party dato in onore di Panatta al Circolo Canottieri Aniene, con Renzo Arbore, Paolo Villaggio, Paolo Cirino Pomicino e gli sportivi Nicola Pietrangeli e Yuri Chechi. Raggiante e bellissima in abito nero con bolero di volpe. Negli anni l'affascinante Adriano si vede sempre più spesso lungo il Sile, fino a scegliere Treviso e la casa di piazza Vittoria come dimora principale. La coppia è sempre più affiatata: dalla vernice delle mostre di Marco Goldin alle prime in Fenice, dagli eventi benefici al Teatro Comunale ai progetti sportivi, Adriano entra nel tessuto sociale con Anna inseparabile al fianco. Nell'ottobre 2019 arriva una decisione destinata a rendere ancora più importante la sua presenza in città: Panatta rileva all' asta il tennis Club Zambon. Ecco che vita e professione si intrecciano. Anna, discreta consigliera, approva. Iniziano i progetti, la richiesta di permessi e arriva il Covid. La coppia ferma tutto e si rifugia in casa, mandando ai fan e agli amici segnali di consapevolezza e buonsenso. Dedicandosi alla cucina e a nuove prospettive. Poi, pian piano, la vita riprende.

LA PANDEMIA. Ma quella lunga intimità durante la pandemia forse fa intravvedere il bisogno di un passo importante. Addirittura il secondo sì per entrambi. E il 9 luglio, in occasione dei 70 anni di Panatta è proprio Anna a tradire il tradizionale riserbo e a dedicare ad Adri una frase che viene dal cuore. «Continua a tenermi stretta, e fammi volare con te». Un amore maturo, nato quasi per azzardo, proseguito tenacemente. Un amore di quelli che ti cambiano la vita, hanno spesso ripetuto entrambi. Ed ecco che a 70 anni si ritrova la voglia di fare sul serio. «La verità è che a lui dell' età non importa nulla. E a me neanche. Siamo diventati impavidi e temerari, l' amore ci ha dato una carica enorme». È passata l' estate e con l' autunno si sono rimessi in moto i progetti al tennis club. Ma, dal cilindro, è uscito ben altro. Anna aveva sempre creduto che un giorno il grande amore sarebbe arrivato. La vita non l' ha delusa. Dopo 6 anni, lei gli ha chiesto «Fammi volare». E lui ha scelto di accontentarla. Nella città più romantica del mondo, sul Canal Grande.

Tennis: "veronica", ciuffo ribelle e cuori infranti, i 70 anni di Adriano Panatta. Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Uno smash spalle alla rete, dalla parte del rovescio e con una frustata di polso non indifferente. E' il colpo più iconico di Adriano Panatta, quella "veronica" (termine coniato da Rino Tommasi rifacendosi a un gesto del torero durante la corrida) entrata nell'immaginario collettivo come un binomio legato indissolubilmente al tennista romano, che giovedì taglia il traguardo dei 70 anni. Anzi, un autentico marchio di fabbrica che lo ha accompagnato nel corso della sua straordinaria carriera, Roland Garros compreso. Nel 1976, anno del suo storico trionfo nello Slam parigino (dopo quello nel "suo" Foro Italico, con il trionfo in Coppa Davis, l'unica conquistata dall'Italia, a completare una stagione da record), Panatta rischiò di salutare il torneo al primo turno con Hutka, quando si ritrovò a fronteggiare un match point sul 9-10 al quinto set. "Prima la veronica, poi la volee in tuffo: passarono quel punto su tutte le tv - ricorda con una vena d'orgoglio - Sono cose difficili da spiegare, su quanta bravura o fortuna ci fosse. Penso sia un misto di entrambi i fattori, sono dell'idea che alla fine tutto si compensi".

Al circolo Parioli era per tutti "Ascenzietto", il figlio di Ascenzio il custode. Eppure, nonostante un'infanzia vissuta sui campi da tennis e in mezzo alla banda di "ragazzacci" di Nicola Pietrangeli e Bitti Bergamo, l'incontro con lo sport che avrebbe segnato la sua vita avvenne quasi per caso. "Io volevo fare nuoto, ma i corsi erano già chiusi. 'Ti ho iscritto al tennis' mi disse mio padre" racconta nella sua autobiografia "Più dritti che rovesci". Il talento del futuro campione sbocciò così all'ombra del jet set della Capitale. Nel tempo Panatta sarebbe diventato l'inventore di quel tennis anni Settanta che, grazie al suo gioco solare e mediterraneo - un tocco morbido e la predilezione per le voleè contrapposti allo stile metodico e nordico di un'altra stella come Bjorn Borg - avrebbe contribuito alla popolarità del tennis in Italia, sport che fino ad allora era considerato passatempo per pochi. Nel palmares del più grande giocatore italiano dell'era open figurano 10 tornei del circuito maggiore in singolare e 18 nel doppio. Porta la sua firma l'unica Coppa Davis tricolore, contro il Cile, nel 1976, anno in cui iscrivendo il suo nome nell'albo d'oro dei più importanti appuntamenti sul rosso (Roma e Parigi) raggiunse il quarto posto del ranking mondiale, suo miglior piazzamento.

A Santiago Panatta vinse entrambi i singolari e il doppio, in coppia con Paolo Bertolucci. Entrambi vestivano magliette rosse in segno di protesta contro la dittatura di Augusto Pinochet: era il colore dei fazzoletti sventolati dalle donne che scendevano in piazza alla ricerca dei parenti. "Lo conobbi in un torneo a Cesenatico, io avevo 11 anni e lui 12 - racconta Bertolucci - e non mi rimase molto simpatico, con quel suo modo di fare romano... a me che venivo da un paesino come Forte dei Marmi. Anni dopo ci ritrovammo al centro federale di Formia dove finimmo in camera insieme. E lì sboccio l'amore. Quanti incontri... Io a destra, lui a sinistra. Io quello basso, lui quello alto. Litigavamo anche. Durante una trasferta negli Usa non ci parlammo per due settimane, nemmeno in albergo. Ma io sapevo che sarebbe stato lui a cedere e così fu. Perché Adriano ha un gran cuore, è un generoso. Ma sa anche essere rompiscatole".

Eppure, in 14 anni di carriera, si ricordano tanto anche memorabili sconfitte. Quella nel '79 nei quarti a Wimbledon contro il modesto Pat Duprè, tre spanne inferiore. La finale a Roma nel 1978 al quinto contro Borg (quella delle monetine lanciate in campo dagli spalti). La battaglia agli Us Open (quarto turno) contro Jimmy Connors (1978), forse la migliore partita di Adriano di sempre. Sedici finali perse contro 10 vinte, quasi tutte sfumate per un errore di troppo, un calo fisico, un passaggio a vuoto. Per certi versi, dunque, Panatta è entrato nella storia di questo sport anche per quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

Quanto a talento puro - purtroppo non esistono algoritmi che possano validare una classifica della classe tennistica - l'ex Re del Foro Italico entra per acclamazione nel gruppetto dei migliori di sempre. Un 'braccio assoluto', lo stesso che hanno avuto Laver e Ashe, Nastase e Federer. Gesti eleganti e sorprendenti, come nessun maestro potrà mai insegnare. Tanto da essere certi giorni immortale, tennista universale e completo. In Davis a Roma nel '79 spiegò a un giovane Ivan Lendl cosa fosse il tennis, con un 6-0 6-0 negli ultimi due set (un ace battendo da sotto) che umiliò quello che di lì a poco sarebbe stato il dittatore del circuito. Al primo turno del Foro nel '76 fu capace di annullare 11 match-point all'australiano Warwick con un paio di smorzate e una volée in tuffo, per poi piegare in finale la resistenza di Guillermo Vilas, un Nadal d'altri tempi. Migliaia i '15' da applausi 'tutti in piedi' che oggi avrebbero sbancato sui social o YouTube. Lampi di divinità che avrebbero meritato traguardi migliori: almeno un altro Slam, almeno il primo posto in classifica per qualche settimana, in un'epoca in cui i più forti si chiamavano Borg e Connors, McEnroe e Orantes, Ramirez e Gerulaitis.

Però - è giusto ricordarlo - il ciuffo ribelle del "Cristo dei Parioli" piaceva alle donne e non poco. "La figura del playboy impenitente è una favola che mi hanno cucito addosso", va ripetendo il diretto interessato. Ma carriera sportiva e vita privata sono due strade che corrono l'una accanto all'altra. Loredana Bertè, Novella Calligaris, Mita Medici, Serena Grandi, Clarissa Burt. Compagne vere o da rotocalco, sono alcuni dei nomi accostati a Panatta nel corso degli anni. Come dire trofei e cuori infranti, per Adriano, che terminata la carriera agonistica nel 1983 è stato capitano non giocatore della squadra italiana di Coppa Davis dal 1984 al 1997, guidandola fino alle semifinali nel 1996 e 1997. Dopo un matrimonio durato una vita con Rosaria Luconi che gli ha dato tre figli (Niccolò, Alessandro e Rubina), oggi ha una compagna trevigiana, Anna Bonamigo, per la quale ha lasciato Roma sette anni fa e rilevato l'ex Sporting Club di Treviso. Nuova vita a Treviso, con un colpo vincente in serbo. Lui, romano che più romano (e romanista) non si può (è stato anche consigliere comunale ai tempi di Rutelli sindaco e poi assessore provinciale allo sport nella giunta di Enrico Gasbarra), vuole farne un circolo all'antica dove si possano insegnare i colpi classici, quelli che non si usano più, piatti e piazzati, che fanno emettere alle corde di una racchetta il vero suono del tennis, quel 'pof, pof, pof' dell'ormai celebre cameo cinematografico ne 'La profezia dell'armadillo' di Daniele Scariggi (gli è valso un Nastro d'Argento nel 2019). Eppure in questa sua nuova vita lontano dal Centrale, Panatta dà l'impressione di aver ancora in serbo un colpo vincente. Forse una smorzata di rovescio o - perché no - una delle sue famose veroniche spalle alla rete da far venire giù lo stadio. Per chiudere, stavolta sì, da numero uno.

ROMOLO BUFFONI per il Messaggero l'8 luglio 2020.

Panatta è a Forte dei Marmi con due giorni di anticipo sul suo compleanno: sarà una grande festa dei 70 anni?

«Macché, giusto una cena con figli e nipoti. Spero nemmeno mi facciano la torta, non sono per le celebrazioni io».

Le dà così fastidio che la cerchi tanta gente per festeggiarla?

«No, per carità. E' che uno finisce per dire le stesse cose».

Paolo Bertolucci è di Forte dei Marmi: per una sera si ricomporrà il mitico doppio azzurro che vinse la Davis? O non ha invitato nemmeno lui?

«Paolo credo sia già qui e certo che lo chiamerò, spero passi almeno per il brindisi».

Panatta, i miti invecchiano?

«L'importante è che non succeda a me! A parte gli scherzi, mi sento abbastanza in forma e non ho acciacchi seri». 

Ma una situazione in cui un giovane non la riconosce come nella scena de La Profezia dell'Armadillo le è mai capitata?

«Ma quello è un film, è finzione. Ma sa che le dico? Che per me non è un problema se la gente mi riconosce o no. Non è una cosa a cui penso minimamente».

Da vincente qual è, è bastato quel cameo nel film tratto dal libro a fumetti di Zerocalcare per farle vincere un premio, il Nastro d'argento: il cinema può essere una nuova opzione?

«Onestamente non ci ho mai pensato. Non so se sarei all'altezza».

Insomma, niente feste per i 70 anni, niente cinema. Ormai fa vita ritirata a Treviso...

«Ci si vive proprio bene. Città curata e organizzata molto bene. È il mio buen retiro».

E poi lì c'è l'amore no?

«Sì, è la città della mia compagna (Anna Bonamigo, che fa l'avvocato ndr)».

E Roma?

«E' caotica. Sarà l'età ma ormai ci resisto poco».

Si può paragonare con la sua Roma, quella degli anni 70?

«Ma de che? Roma oggi è un'altra cosa. E' cresciuta, si è allargata e un po' incarognita».

In che senso?

«La gente è diventata meno tollerante, c'è un traffico impossibile. Auto parcheggiate in seconda, terza fila. E' una grande metropoli. C'è chi ama vivere a New York, io lì potrei impazzire».

E' solo colpa delle dimensioni esagerate o è anche governata male?

«Guardi, io ho fatto il consigliere comunale con sindaco Rutelli, nel suo secondo mandato (dal 1997 al 2000, ndr) e so quanto è difficile seguire una città così grande. Ogni giorni ti devi confrontare con mille problemi. Ma, tanto per essere chiari, Roma rimane la città più bella del mondo».

Se qualcuno le proponesse di candidarsi sindaco? Ci penserebbe?

«Ma che è matto? E' il mestiere più difficile del mondo. E' una jattura. E' come candidarsi al martirio».

Ci racconta un frammento della sua di Roma?

«Quella by night che oggi chiamano movida era diversa. Noi andavamo a cena da qualche parte e poi ci ritrovavamo in un locale, prima il Number One poi il Jackie O' e ci divertivamo lì. Oggi li vedi tutti fuori, per strada, con in una mano il bicchiere e nell'altra il telefonino. Ma poi che si raccontano?»

Non prova nostalgia?

«Roma è una bellissima donna un po' sciupata, con qualche ruga e qualche difetto, a cui però bisogna voler bene. E' talmente speciale che solamente chi non è romano può non capirlo».

Lei iniziò a giocare al Circolo Parioli dove suo padre faceva il custode, ma in quale quartiere è nato?

«Io sono di viale Tiziano, Flaminio. Poi a 10 anni papà venne assunto dal Coni e ci trasferimmo all'Eur davanti al centro sportivo Tre Fontane».

Lì si allenava la Roma, è il motivo del suo tifo?

«No, non ricordo come nacque l'amore per i giallorossi. Tanto più che mio padre era laziale. Chissà...».

Però si ricorda quando durante una partita degli Internazionali tardò a servire perché si volle informare se la Roma avesse segnato?

«Sì, come no. Si sentì un boato così fragoroso. La squadra se la passava male, rischiava la B, era un gol importante».

Il 1976 è stato il suo anno: vittoria agli Internazionali battendo l'argentino Vilas e del Roland Garros superando l'americano Solomon. Quindi a fine anno la Coppa Davis a Santiago del Cile indossando le maglie rosse anti-Pinochet. Eravate consapevoli del livello di provocazione per il regime?

«Certo, altrimenti non lo avremmo fatto. Ma qui non se ne accorsero subito, tant' è vero che se ne è parlato trent' anni dopo...».

La conserva ancora quella maglia?

«No, non ce l'ho più. Non ho conservato niente della mia carriera. Gliel'ho detto: non mi piacciono le celebrazioni».

Ricorda l'attimo di quella stagione magica in cui pensò: sono arrivato in cima, ce l'ho fatta.

«La felicità dura qualche secondo e anche con un pizzico di cinismo ricordo che pensai domani me tocca ricomincià da capo...».

Direi romanità al 100%. E il 76 diede i natali a un certo Francesco Totti, campione romano amato nel mondo. Il suo erede insomma.

«Lui è un idolo assoluto. Talmente una brava persona da non aver mai sentito parlar male di lui e del resto come fai a volergli male a un ragazzo così?»

Alla Roma sembra che non glie ne abbiamo voluto poi così tanto...

«Ma quella non è più la Roma, con questi americani che vanno e vengono... L'ultima Roma per quanto mi riguarda è stata quella dei Sensi».

Invece il tennis dove si è fermato? A Federer, a Nadal o a Djokovic?

«A Federer, fuoriclasse assoluto».

Lui a quasi 39 anni ricomincia da capo da un pezzo per dirla alla Panatta...

«Roger è longevo perché non si è mai fatto male veramente, gioca un tennis morbido e poi ha la testa giusta».

Invece Panatta si è dedicato anche ad altri sport, tanto da essere fra i rari campioni del mondo in due discipline: tennis con la Davis e motonautica offshore in cui trionfò nel 2004. Una passione che la portò spesso a Monte Carlo, altra sua città.

«Nel Principato andavo sempre volentieri e avrei voluto vincere il torneo, fra i più prestigiosi. Ma per riuscirci avrei dovuto chiudermi in camera con tre mandate...».

Ahia, doppio fallo Panatta! Mi costringe a chiederle delle sue distrazioni. Della Dolce vita, della Bertè e Renato Zero, di Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi...

«No guardi, se ne sono dette tante di fregnacce. Io mi distraevo quando me lo potevo permettere».

Se per magia oggi si trovasse davanti il ventenne Adriano Panatta cosa gli direbbe?

«Di fidarsi di meno delle persone. Ho avuto tantissimi amici, ma anche qualche delusione. Solo che io non serbo rancore. Me ne dimentico. E sto meglio. Mi scusi ma adesso dovrei andare, sa i preparativi...».

Un ultimo pensiero per Ennio Morricone, altro romano che ha dato lustro all'Italia nel mondo scomparso lunedì.

«Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Persona eccezionale, genio sbalorditivo e dimostrazione della capacità dell'Italia di tirare fuori talenti straordinari».

Come Roma per il tennis: Pietrangeli, Panatta e Berrettini?

«Cos' è? Una formazione calcistica? Ora devo proprio salutarla».

GAIA PICCARDI Per il Corriere della Sera il 5 luglio 2020.

Adriano, sono settanta.

«Ma di cosa parliamo?».

Settant' anni giovedì.

«Cerchi rogne?».

Daaai. Giro di boa importante: tentiamo un bilancio?

«Il bilancio facciamolo tra dieci anni, se ci arrivo. I 70 non me li sento addosso. Tocco ferro: sono ipocondriaco da sempre, ma sto bene. Ogni tanto ho un po' di mal di schiena. L'ha usata parecchio, Panatta, mi ha detto il dottore. Verissimo. Però il tennis, alla fine, è stato gentile con me».

Festa a sorpresa?

«Dio me ne scampi! Una cena tranquilla, a Forte dei Marmi, con i nipoti, i figli e la mia compagna. Come se nulla fosse». Eppure nulla non è. Cominciamo da Roma, Parigi o dalla Davis in Cile? Tutto nel '76.

«Possiamo fare finta che non ho mai vinto nulla e parlare d'altro?».

È una vecchia gag ma proviamoci.

«È vero: non ho una coppa. Ho perso tutto».

Non è possibile.

«Non è un vezzo, giuro. Ho fatto tanti di quei traslochi in vita mia...».

Sparita anche la maglietta rossa che a Santiago si dice abbia fatto infuriare Pinochet?

«Tutto! Non sono un feticista, l'idea del salotto-museo mi fa orrore. Non l'ho mai detto a nessuno, conservo un'unica cosa: la pallina del match point contro Vilas a Roma, una Pirelli. Se la fece regalare mio padre Ascenzio, custode del Tc Parioli. Quando è mancato, riordinando casa, l'ho trovata. Poi è sparita di nuovo, misteriosamente. L'ha ripescata di recente mia figlia Rubina in un cassetto. È sbiadita, dura come un sasso. E con il tempo si è rimpicciolita, come i vecchi».

 I trofei, il boom del tennis alla fine degli Anni 70, la grande popolarità ancora oggi: di cosa va più fiero, Adriano?

«Penso di essere stato una brava persona, con tutti. Non ho sospesi. Non sono vendicativo, non serbo rancore. Ho avuto parecchie delusioni però poi scordo tutto: nomi, cognomi, motivo dei contrasti... Comunque ho una certezza: ho avuto più amici che nemici».

E che amici. Paolo Villaggio.

«Un uomo di cultura mostruosa e intelligenza straordinaria. Un fratello, un fuoriclasse, un genio assoluto. Paolo sosteneva ci fossimo conosciuti a Cortina, dove a metà pomeriggio faceva aprire i ristoranti per mangiare polenta e capriolo. Ci divertivamo con poco, non parlando mai né di cinema né di tennis. Lo adoravo perché sapeva sempre sorprendermi. Fu lui a presentarmi Fabrizio De Andrè, che scoprii essere timidissimo».

Ugo Tognazzi.

«Irresistibile, quando era in forma. Dopo Roma e Parigi, mi ero messo in testa di vincere Montecarlo. Nell'81 sto giocando bene, sono tirato a puntino: arrivo in semifinale contro il solito Vilas. La vigilia piombano in riviera Paolo e Ugo. Voglio cenare alle otto e andare a letto presto, dico. Come no. Si presentano alle undici, ci sediamo a tavola a un'ora assurda, la serata finisce alle tre del mattino tirando fuori Ugo che vomita da un cespuglio. Il giorno dopo, non vedo palla: Vilas mi massacra».

Quindi è vero: se fosse stato meno viveur e meno pigro avrebbe vinto molto di più.

«Questa è una leggenda da sfatare: io non sono pigro, è che mi hanno dipinto così. Il romano, disincantato, accidioso... Ma de che ? Certo non ero Borg, ma non farei mai cambio. Non mi allenavo come Vilas, però nemmeno passavo le giornate a poltrire. La verità è che avevo un gioco molto rischioso, da equilibrista, senza margini, che mi richiedeva di essere sempre al cento per cento. E poi avevo tanti interessi, mica solo il tennis. Certo tornassi indietro, sono sincero, alcune cose non le rifarei».

Ed eccoci a Wimbledon '79, a quel quarto di finale perduto con il carneade Pat Du Pré.

«Non me lo perdono, il più grande rimpianto della carriera. Ho sempre snobbato Wimbledon, non me ne fregava niente: gli inglesi, le loro tradizioni, l'erba su cui la palla rimbalzava da schifo... Levava la parte artistica dal gioco, la odiavo».

Avanti due set a uno, con la prospettiva di Tanner in semifinale e poi della nemesi Bjorn Borg, spesso battuto.

«Gira il coltello nella piaga?».

Ha mai sognato di rigiocare il match con Du Pré?

«Uff! Tante di quelle volte...».

 E come finisce? Almeno nel sogno vince?

«Mai. Mi sveglio sempre un attimo prima. Un paio di volte mi sono sognato in campo con un mestolo in mano: un'angoscia! Tu pensa la testa...».

Panatta e le donne. Ha più sedotto o è stato più sedotto?

«Quando ero giovane venivo più sedotto. Ma non parlo mai di donne: detesto gli uomini che lo fanno, anche se sono semplici apprezzamenti. Lo trovo così di cattivo gusto».

Eppure il colpo che più la caratterizza porta un nome da femmina, veronica.

«Ah, la veronica non si insegna: viene naturale. Quella per annullare il match point a Pavel Hutka, seguita da una volée in tuffo, al primo turno di Parigi '76, è forse la più celebre. Il nome veronica lo inventò il giornalista Rino Tommasi. Forse, per non alimentare la mia falsa fama di seduttore, era meglio chiamarla Filiberto!».

Il più grande di sempre?

«Facile, Roger Federer. Le statistiche a favore di Djokovic non mi interessano. Io guardo il complesso: lo stile, la mano, la completezza. Federer è, e sempre sarà, quello che gioca a tennis meglio di tutti gli altri».

Perché Borg, che pure ha conquistato dieci titoli del Grande Slam di più di lei, la pativa così tanto?

«Perché lo facevo giocare male. Attaccavo, prendevo rischi, gli rompevo gli schemi. E non mi facevo intimidire dalla sua aria ieratica: essere ironico e dissacrante mi ha permesso di non prendere le cose troppo sul serio (né lui né me stesso) e di cogliere dietro la maschera di ghiaccio le sue insicurezze. Bjorn è un matto calmo. Serissimo quando giocava, un pazzo totale fuori dal campo. Ci stiamo simpatici da sempre, senza sapere perché. Ancora oggi mi diverto a insultarlo: Bjorn non sei mai stato capace, gli dico, e lui ride, ride moltissimo...».

Si aspetta gli auguri di Loredana Bertè, la donna che amò Panatta e sposò Borg?

«Ma no, dai, è passato tanto tempo. Però con Loredana ci siamo voluti bene. È il '72 o il '73, non ricordo. Stiamo insieme. Ti presento un amico, mi fa. Arriviamo in Cinquecento a Piazza Venezia. Sotto il balcone del Duce ci aspetta uno sciroccato vestito da marziano: stivali, tuta, mantello... È Renato Zero».

La sua Roma in disfacimento. Chi vedrebbe bene come sindaco?

«Sono stato consigliere comunale nella giunta Rutelli, so per esperienza che è una città difficilissima da governare: solo il Tuscolano è grande come Firenze, cento comuni, una provincia sconfinata... Troppi meandri incancreniti. Vedere Roma ridotta così, oggi che vivo a Treviso, mi fa male ma non voglio giudicare la sindaca Raggi, che non conosco. Ci vorrebbe una svolta coraggiosa e non vedo nessuno con le caratteristiche adatte. I 5 Stelle non li capisco: il mestiere di politico non si improvvisa».

Nicola Zingaretti segretario del Pd le piace?

«Lo conosco bene, è una brava persona. Ripenso a me: ero convinto di poter cambiare il mondo ma le variabili che ti circondano in politica sono milioni. Ogni giorno ti accorgi di quante ingiustizie sociali ci sono, ed è impossibile metabolizzarle se hai una certa sensibilità».

Francesco Guccini, fresco 80enne, sostiene che l'uomo è l'unico animale che sa di dover morire.

«Non è vero: anche gli elefanti se ne accorgono».

Crede che nell'aldilà continuerà a giocare a tennis, Panatta?

«C'è un aldilà? Mi farebbe molto piacere crederci. Nel dubbio, però, la racchetta me la porto».

Francesco Persili per Dagospia l'11 gennaio 2020. “Francesco, perché il mister ti ha sostituito al trentesimo del secondo tempo?”; “Vedi Rogge, er calcio è diverso dal tennis. Qui “i coach so’ de coccio”. (Pare che l’espressione sia entrata nel vocabolario di Federer). L’aneddoto sull’incontro tra King Roger e Totti negli spogliatoi dell’Olimpico è solo una delle tante perle del nuovo libro di Adriano Panatta, “Il tennis l’ha inventato il diavolo”, scritto con Daniele Azzolini per i tipi di Sperling&Kupfer. Avventure, colpi da manuale, partite epiche e mattane assortite. C’è Ion Tiriac, genio multiforme che fa strage di cuori fra le gran dame dell’alta società romana e si mangia un bicchiere per scommessa e Ezio “Pancho” Di Matteo che al Cairo lancia le scarpe al muezzin: “Fu lui il primo diavolo tennista nel quale mi sono imbattuto”, scrive Adriano Panatta che tra Djokovic, Nadal, Federer e Berrettini non manca di squadernare fatti e fattacci di quel grande “romanzo popolare” che sono gli Internazionali di Roma. “Dal 1950, l’anno della ripresa, fino a tutti gli anni Novanta, con il Villaggio creato da Cino Marchese, il torneo visse tra pragmatismo e affabulazione…”. Gustosissime le righe dedicate a Betty Ann, una bionda californiana da urlo, che alle appassionate attenzioni del pubblico rispose facendosi ricamare in rosso sulle mutandine di pizzo un enorme “Watch it”, che esplodeva colorato e irridente ogni volta che il vestitino tendeva a salire. Prima di Federer in fissa con la cacio e pepe c’era Beppe Merlo che al cambio di campo sorseggiava del tè e lo voleva sempre ben caldo. L’ordinazione al bar si faceva tramite altoparlante (“Un tè caldo sul Centrale, grazie”. Pausa. “Zucchero a parte, grazie”. Pausa. “Ah sì, due fettine di limone”. Pausa. “Ben lavato, grazie”). Più che il Babingtons di Piazza di Spagna, il Foro è sempre stato dipinto da certa pubblicistica antipatizzante come “la fossa dei leoni”. A questa vulgata molto hanno contribuito le monetine lanciate a Borg e "la cagnara" nella semifinale del 1978 tra Panatta e Higueras con l’arbitro Bertie Bowron che giunse ad esclamare in italiano: “Zitti cretini”. Un capitolo a parte meritano i giudici di linea, alcuni così vecchi che si addormentavano durante l’incontro. Questo piaceva molto a McEnroe che ghignava con il giudice di sedia: “Shh, dica piano il punteggio, se no li sveglia”. Anche se la battuta migliore resta quella di Roddick: “Continuate gli studi ragazzi, o potreste finire per diventare un giudice di sedia”. Sliding doors. Per James Blake, nel 2004, Roma ha rappresentato l’inizio della fine. Prima di quel maledetto incidente sui campi del circolo Parioli, era il tennista più in vista tra le nuove leve e quello più modaiolo (la canotta di Nadal era nata per lui). Poi tutto cambiò. In allenamento Blake inciampò e centrò un palo della rete. Rottura dell’osso del collo e rischio di paralisi. Visse un anno dentro un’armatura di gesso, la morte del padre gli dette il colpo di grazia. Diventò completamente calvo. Gli sgambetti della sorte lo allontanarono dalle passerelle e stando alle ultime disavventure con la polizia e con il villone di Tampa pare che non l'abbiano ancora abbandonato. Chiosa Panatta: “La sfiga, come dicono a Roma, arriva in carrozza e se ne va in ciabatte…” C’è uno strano legame tra la legge di Murphy e il tennis, l’unico sport, diceva Goran Ivanisevic, che obbliga a giocare contro 5 avversari: “il giudice di sedia, il pubblico, i raccattapalle, il campo e se stessi”. E l’avversario quello vero? Anche, ma lui è il meno”. “A volte capita di chiedersi chi sia davvero il diavolo”, Panatta ricorda la vittoria contro Gerulaitis al primo turno degli Internazionali del 1978. Ero imbambolato, un tifoso urlò dalle tribune: “Adrià, so’ venuto da lontano pe’ vedette. Sei proprio er peggio de tutti”. "Aveva ragione lui, fu quella voce a darmi slancio. Vinsi la partita, poi cercai con gli occhi quel tifoso. Lo vidi che si asciugava le lacrime. Sollevai un braccio verso di lui, come a dire: “La partita l’abbiamo vinta insieme”. Il tennis è “stressante, logorante, abbrutente”. Ma neanche a farla così pesante. Gianni Ocleppo, interrogato da una baronessa sulla vita randagia dei tennisti, sfoderò la migliore risposta, di quelle che spazzano l’incrocio delle righe: “Una vita faticosa, la nostra. Tanto tennis e poco altro. In compenso ci viene duro, ma così duro che è una bellezza guardarlo…”

Da ilnapolista.it il 30 maggio 2020. L’Equipe celebra Adriano Panatta e il suo successo al Roland Garros nel 1976. Il titolo è tutto un programma. “Panatta camminò sull’acqua”. Il riferimento è ai miracoli di Adriano quell’anno che vinse Roma dopo aver annullato undici matchpoint all’australiano Warwick al primo turno e conquistò Parigi dopo averne annullato uno al cecoslovacco Pavel Hutka che Panatta sconfisse 12-10 al quinto. L’Equipe ricorda che quell’anno – ormai ne sono passati 44 – l’azzurro ne annullò otto anche al primo turno di Nizza, contro il giapponese Jun Kuki (5-7, 6-4, 9-7). Panatta, come al solito, minimizza: «La mano di Dio? Francamente no. Non c’è un segreto per salvare undici matchpoint. Ci vuole fortuna. È il destino… » “Non aveva alcun punto in comune con l’ascetico e sinistro Ivan Lendl “che si nutriva con noodles d’acqua e carne bianca di tacchino d’allevamento, cosa che necessariamente inacidì il suo personaggio, come un Ravaillac (l’assassino di Enrico IV, sinonimo di fanatico, ndr)”. Il quotidiano francese, che definisce Panatta playboy, prova a spiegare lo stato di grazia di Panatta in quell’anno. No, non si sottopose ad alcun duro lavoro sulla terra. No, non si allenò più (o meglio) del solito. Solo che il miracolo della vittoria contro Warwick allineò perfettamente i pianeti. Undici matchpoint. E il giornalista Ubaldo Scanagatta ricorda che ne annullò dieci sul servizio dell’australiano e disse: «Non ho mai pensato di perdere». Panatta – definito il miracolato – ricorda che giocava “molto meglio al Roland Garros che a Roma. In Italia c’erano probabilmente troppe aspettative. Ma dopo aver battuto Warwick, credo di essermi liberato. Ho iniziato a giocare con grande serenità. Tutto mi sembrava molto facile».

Lo sgarbo di Solomon a Roma. L’Equipe ricorda i quarti di finale con Solomon quando l’americano abbandonò il campo per una chiamata dubbia dell’arbitro. In precedenza, viste le tante chiamate “sospette”, Panatta gli disse che avrebbero arbitrato loro, così fecero. L’Equipe cita la celebre definizione che Gianni Clerici diede dei giudici di linea romani: “patrioti miopi”. Solomon recuperò nel terzo set da 0-4 a 5-4. E su un pallonetto di Panatta successe il patatrac. Per l’americano, la palla era fuori. Ma la chiamata non. arrivò. Panatta non gli concesse il punto. Secondo Scanagatta, la palla era buona, riferisce che anche per Newcombe era dentro. Solomon si rifiutava di proseguire e quando l’arbitro gli disse per l’ottava volte: “o giochi o te ne vai”, se ne andò. Panatta disse: «Si è comportato male con il pubblico e ancor più con me», dirà l’italiano. Si sarebbe reincontrati. In finale, Adriano sconfisse Vilas. E due giorni dopo, affrontò Hutka. Panatta ricorda come annullò quel matchpoint. Con una formidabile volée in tuffo, degna del miglior Becker, scrive L’Equipe. In realtà furono due colpi: la volée alta e poi una in tuffo. Ho visto spesso quel punto perché Gil de Kermadec (fondatore del servizio video della Federazione francese) girò un film sul torneo. Fu un mix di fortuna e tecnica. Oggi lo chiamiamo “veronica”. Dopo la mia vittoria nell’ottavo contro Franulovic, sono tornato al mio hotel a Saint-Germain-des Prés, e poi sono andato al Café des Arts per guardare Borg contro Jauffret (vinse Borg 10-8 al quinto). Tifavo Björn. Mi piaceva affrontarlo tanto quanto odiavo giocare contro Jauffret. È paradossale, ma è così! Vinse Panatta: 6-3, 6-3, 2-6, 7-6. A Björn non piaceva giocare contro di me. Non gli davo ritmo. Variavo moltissimo, andavo a rete. Con me, ogni punto era diverso. E l’ho fatto soffrire molto. Lo destabilizzavo. Cercavo anche di portarlo a rete.

L’Equipe ricorda l’amicizia tra i due, Loredana Bertè. Arriva la finale. E dall’altra parte della rete chi c’è? Solomon ovviamente. Panatta racconta l’aneddoto noto agli appassionati. Prima della finale, nello spogliatoio, Panatta chiamò l’americano a fianco a sé davanti a uno specchio. Solomon era bassino, era 1,68 e Panatta gli disse: “Guardati, come pensi di battermi?”. Oggi dice: «Non è stato molto bello… ma è una storia vera».

Da corriere.it il 7 gennaio 2020. Francesca Schiavone torna a sorridere. Lex tennista ha voluto condividere su Instagram uno scatto che la ritrae felice per la ricrescita dei suoi capelli dopo la chemioterapia. La sportiva, il 14 dicembre 2019, aveva annunciato di avere «un tumore maligno» e di essere «riuscita a vincere questa battaglia. La più dura, in assoluto, che abbia mai affrontato». Dopo mesi di assenza, l’ex campionessa del tennis azzurro era riapparsa con un video — senza nascondere un briciolo di emozione — per raccontare la sua battaglia contro la malattia.

Il racconto della malattia. «Vi racconto cos’è successo negli ultimi 7 mesi della mia vita — aveva raccontato la campionessa milanese —. Mi hanno diagnosticato un tumore maligno... Oggi, sono già pronta ad affrontare nuovi progetti che avevo ma non potevo realizzare. Ci rivedremo presto, felice di quello che sono oggi». Schiavone si era ritirata a settembre 2018, agli Us Open: congedandosi dal tennis giocato «la Leonessa» aveva confessato di aver «realizzato i miei sogni». Oggi allenatrice, è stata la prima tennista italiana a conquistare un titolo del Grande Slam (Roland Garros 2010), la terza in assoluto nella storia dopo Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta.

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2020. La prima racchetta, l'alabarda spaziale con cui si è fatta largo nel quartiere Gallaratese e nel tennis, è appesa al muro («Arriverà anche quella con cui ho vinto il Roland Garros a Parigi dieci anni fa»). Disegnate per terra, le righe di un campo («In questi tempi difficili, i clienti credono siano segnali di distanziamento per il Covid»). Al centro del suo nuovo mondo, un bistrot piccolo e accogliente sul Naviglio grande, a Milano, lei, la donna che visse due volte (o forse anche tre), Francesca Schiavone. I capelli, dopo la malattia, sono ricresciuti, i jeans non le cadono più di dosso, il sorriso è tornato quello di una volta. Per voltare pagina Francesca si è regalata un libro, «La mia rinascita», perché anche le leonesse cedono al vezzo dell'autobiografia. Che ha il suo linguaggio denso e immaginifico, messo al servizio - come un talento in funzione del risultato sportivo - dei messaggi potenti contenuti in 150 pagine. «Diamo troppe cose per scontate, la malattia invece ti insegna a stare calato nel presente e a goderti ogni istante - racconta davanti a un caffè -. Io ne sono la dimostrazione: se hai un sogno, puoi realizzarlo». Anche guarire dal linfoma di Hodgkin è un sogno: «La malattia è una galera. Oggi apprezzo il dono della vita. Sono sempre andata a messa, mi ci portava la nonna. Credo in forze superiori a noi e, finita la chemio, mi ero ripromessa di pregare di più. Nella casa in campagna ho libri di psicologia e filosofia: quando diventano complessi mi incasino, vado avanti, torno indietro. Però l'energia dentro di me la sento». C'è il rischio di commuoversi, parlando con Francesca. Da adolescente era «indecifrabile, oppositiva, scontrosa, ruvida»: «Mi sentivo incompresa». Una sera disperata, dopo una sconfitta in Sicilia, il momento più buio: «Avevo la sensazione di non ripagare i sacrifici che i miei stavano facendo per me. Passai nelle vicinanze di un ponte, pensai: basta un passo. A chi non è capitato? Siamo soli, in campo e nella vita. Forse solo un figlio può colmare questo vuoto». È cambiata strada facendo; la malattia l'ha aperta come un'ostrica, con dentro la perla. E adesso che ha compiuto 40 anni è bello sentirla dire «io sono amore». Ci spieghi, Franci? «La prima volta l'ho avvertito a Parigi. Avevo passato la mattina a piangere, non volevo giocare la finale. Ma quando sono entrata in campo ero così piena di amore per il presente, per quel che dovevo fare, per la mia vita che mi aveva portata fino a lì, che ne sono stata travolta». Quello stesso sentimento deborda da un libro che è un atto d'amore nei confronti dei genitori, mamma Luiscita che è stata a sua volta malata («La vera guerriera di famiglia è lei, io al confronto sono un micetto») e papà Franco («Ho preso la sua generosità e l'agilità fisica»). Il passaggio più intimo è Francesca che lava la schiena alla madre appena dimessa dall'ospedale: «Pensai che era bellissimo riappropriarmi di lei, e forse pure di tutto il tempo che non avevamo mai avuto per stare davvero insieme». C'è un vecchio pianoforte strimpellato con antica passione («Quando tocco i tasti torno indietro nel tempo: un Anelli verticale, ore di solfeggio, pomeriggi interminabili. Ma mi sento libera»), c'è il progetto di ricominciare ad allenare promesse del tennis («Una scuola mi piacerebbe: Corrado Barazzutti dice che sono nata per sporcarmi di terra rossa»), c'è una serenata per Sileni, partner nel bistrot e nella vita («Non ho bisogno di camminare mano nella mano con lei per strada, ma è la mia forza tranquilla: ha un carattere che placa il mio mare mosso»). C'è, soprattutto, la più bella partita mai vinta. No, non il Roland Garros. «Avevo il cuore allenato dallo sport, le vene hanno ricevuto buchi su buchi ma hanno retto. La dottoressa mi ha chiesto costanza: vieni per la chemio ogni due settimane, prendi la pastiglia, segui la dieta. La disciplina che richiede voler guarire non l'ho patita: me l'aveva già data il tennis. La terapia ha bruciato l'atleta, e sono tornata un essere umano». Credere che tutto sia possibile non è difficile. «Basta volerlo fare».

Pietrangeli e lo "slam" di feste rovinate. Nicola Pietrangeli fuoriclasse assoluto di un altro tennis: 60 anni fa portava a casa il suo secondo Roland Garros consecutivo. Ma quella polemica sullo stipendio...Marco Lombardo, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. Sessant'anni fa oggi Nicola Pietrangeli portava a casa il suo secondo Roland Garros consecutivo. Nell'anno in cui raggiunse anche le semifinali di Wimbledon (battuto da Rod Laver), diventando da allora «il più grande tennista italiano di sempre». Poi è arrivato Panatta, altro personaggio e altri tempi, ma non c'è dubbio che Nicola sia stato uno dei migliori in assoluto. Perché anche quando le classifiche si facevano a spanne, nessuno dubitava che il terzo posto del ranking fosse un giusto merito. Ci sarebbe insomma da festeggiare quel 3-6, 6-3, 6-4, 4-6, 6-3 con cui superò il cileno Ayala, soprattutto perché confermarsi un anno dopo in uno Slam è roba che possono fare solo i grandi. Così, però, non è. Sessantanni dopo infatti Nicola Pietrangeli è un signore che ha dato il suo volto al tennis, e che dal tennis è stato ricambiato. Ma che purtroppo è rimasto invischiato in una di quelle diatribe nelle quali non sai bene da che parte stare. Sembra quasi una tradizione, ricordando quanto successo nel 2016 agli Internazionali di Roma, quando i 40 anni dalla prima e unica Coppa Davis azzurra (nella quale Pietrangeli era capitano in panchina) sono stati celebrati con la bocca storta e in tono bassissimo. Colpa di caratteri perennemente contro e, forse, di qualche cattivo consigliere. Anche in questo caso, nel quale Nick è uscito allo scoperto in un'intervista al Corriere con cui si è lamentato di essersi visto sospendere («senza una telefonata») lo stipendio dal presidente federale Angelo Binaghi. Che ha messo in cassa integrazione tutti i dipendenti e i collaboratori, con lo scopo - ha spiegato la Federtennis in una nota piccata - di sostenere economicamente circoli e maestri durante il disastro coronavirus. Ecco, appunto: a chi dare ragione? Meglio astenersi, e piuttosto ricordare l'anima gentleman di Nicola campione e testimonial di un tennis italiano che da un ventennio gli ha dato una casa come uomo immagine e ha perfino intitolato a suo nome il campo più bello del Foro Italico. D'altronde Nick, sempre al fianco dell'amica Lea Pericoli, fa parte del nostro meglio, grazie alle sue gesta e poi ai suoi ricordi. E alle sue battute, quelle da intervista s'intende: «Allenandomi meglio avrei vinto di più? Sì, ma mi sarei divertito di meno...». Erano altri tempi: il trionfo al Roland Garros per dire, valeva 150 dollari, però sicuramente qualche serata galante di maggior valore. Era un tennis più umano e per questo è giusto celebrare oggi un campione così simbolo del nostro tennis. Che, stoppato dal virus nel momento in cui sta tornando in cima al mondo, è comunque imbattibile nel rovinarsi le feste.

Schiavone: «Mia mamma si è ammalata di tumore poco prima di me, ma è stata lei a darmi forza». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. «Ho vissuto la malattia sulla pelle. Ci sono giorni in cui ti senti a terra, stramazzata. Ma poi la forza la trovi. E ricominci». Milano, bei chioschi della Società Umanitaria, convegno “Stare insieme fa bene” organizzato da Casa Amica da 35 anni accoglienza e solidarietà per i malati che migrano per curarsi (6 case, 7500 presenze, 45 mila posti letto offerti). Parlano il professor De Braud (“la malattia va collocata nell’esistenza del malato perché è essa stessa vita”) e la dottoressa Gaggi, esperta di psico-oncologia (“bisogna essere capaci di vivere la malattia trovando un nuovo modo di vivere la vita”), poi parla - per la prima volta in pubblico - lei, Francesca Schiavone, la campionessa di tennis del Roland Garros 2010 che sui social ha rivelato di avere avuto il linfoma di Hodgkin con un video che ha fatto il giro del mondo scatenando un’onda di affetto travolgente. «I sintomi sono la prima cosa che percepisci: una grandissima stanchezza e un mal di pancia continuo. Ti chiedi: cosa sta succedendo? - racconta la Leonessa tra la commozione generale -. La prevenzione è fondamentale, ma la malattia ti porta a contatto con te stesso. Entri in uno stato improvviso, nessuno ti avvisa. Sono molto importanti le persone che ti stanno accanto nelle cure: medici, infermieri, psicologo, famiglia, perché l’unione fa la forza». Francesca usa poche parole, ma le sceglie bene, con l’attenzione con cui sceglieva i colpi in campo.«Dopo le cure devi fare delle scelte: io adesso non posso giocare a tennis, non posso correre. Per me sono sacrifici. Ma a quel punto inizia qualcosa di nuovo, di altro». Una sortita in palestra dopo Natale, però, si è rivelata prematura. Troppa fatica, tempi di recupero lunghi. Allora Schiavone, in attesa di poter tornare ad allenare, sta scrivendo un libro sulla sua esperienza di malattia. Prima di salutare, svela un particolare intimo: «Ho avuto la fortuna/sfortuna che si ammalasse mamma prima di me. Papà è impazzito: la moglie, poi la figlia. Ma a me la malattia di mamma ha insegnato tanto. Attraverso di lei mi sono resa conto di quanto importante fosse la mia presenza e, quando è toccato a me, la sua per me. Siamo interconnesse. Mi ha aiutato ad affrontare la malattia con coraggio. A volte ti senti a terra, stramazzata. Ma poi la forza di rialzarti la trovi e dici: okay, oggi ricomincio». Il messaggio più forte. Un ace al centro (del cuore).

Da gazzetta.it il 21 gennaio 2020. Una cosa è sicura: quella tra Fabio Fognini e Reilly Opelka nel primo turno degli Australian Open è stata una battaglia. Non solo a colpi di dritti, rovesci e smash, ma anche di parole. Nel mirino dei due tennisti, nel match cominciato lunedì e finito oggi con la vittoria in 5 set dell’azzurro, è finito soprattutto l’arbitro, Carlos Bernardes. Fognini ad un certo punto ha tirato in mezzo anche il numero 1 del mondo, Rafael Nadal. L’arbitro aveva appena penalizzato l’azzurro per aver scagliato con rabbia la raccheta a terra. “Non posso giocare con un arbitro che non mi da tranquillità - ha sbottato Fognini in italiano -. Se lo chiede Rafael Nadal va tutto bene, ma se lo chiede Fognini... Se lo chiede Sua Maestà lo accontentano subito tutti. Sei una vergogna, non sei adatto a questo mestiere. Non puoi darmi una penalità per lanciare la mia racchetta quando lui (Opelka, ndr) continua a dire f... Non ti sto dicendo di andare a f..., sarebbe diverso”. Prima del richiamo che ha scatenato l’ira di Fognini anche Opelka, numero 38 del mondo, se l’era presa con l’arbitro e proprio perché non stava penalizzando la rabbia dell’azzurro contro la sua racchetta. “Sei patetico - ha detto all’arbitro il 22enne statunitense -. A me hai dato una penalità subito, lui l’ha fatto almeno tre o quattro volte”. Mentre dopo la gara Fognini ha sorvolato sul suo sfogo contro l’arbitro, Opelka ha candidamente ammesso di aver sbagliato. “Quello sfogo non mi ha affatto aiutato, anzi mi ha danneggiato. Sono emozioni negative, che di certo non aiutano contro uno come lui”.

Michele Caltagirone per it.blastingnews.com il 26 gennaio 2020. Il copione è più o meno lo stesso, per fortuna stavolta le dichiarazioni di Fabio Fognini, pur polemiche, sono meno eclatanti delle 'maledizioni' lanciate agli inglesi e della 'bomba' invocata su Wimbledon. Come a Londra lo scorso luglio, anche a Melbourne in questo mese di gennaio nel primo Slam di stagione, il tennista ligure deve cedere il passo a Tennys Sandgren. Il 28enne del Tennessee, del resto, aveva già dato un dispiacere ai tifosi italiani eliminando Matteo Berrettini al secondo turno. Ora si ripete contro Fognini, chiude in quattro set sul 7-6 7-5 6-7 6-4 e cala il sipario sulla rappresentativa italiana in terra d'Australia, Fabio era l'unico esponente superstite dopo l'eliminazione di Camila Giorgi nel tabellone femminile. Non è esattamente un'uscita di scena in punta di piedi, perché Fognini - come detto - si lascia anche andare a dichiarazioni polemiche nei confronti del giudice di linea, reo a suo parere di avergli rovinato la partita. Fognini è stato dunque incapace di trattenersi, ancora una volta, nel primo set quando lo score era di 5 pari. Il giudice di linea chiama un fallo di piede e Fabio esplode. "Mi hai rovinato la partita, ti devi vergognare" ed in ogni caso perdere il controllo già nel primo parziale gli costa caro visto che lo regala a Sandgren. Il suo nervosismo è una costante anche nel secondo parziale dove è capace comunque di recuperare una situazione di 0-4, salvo poi perdere 5-7 ed incassare un secondo penalty point. Nel prosieguo del match sembra ritrovare il bandolo, buono il suo gioco da fondocampo che mette in difficoltà lo statunitense anche se, a conti fatti, a fine match il 51 % di prime palle messe in campo è un dato evidentemente pesante che rema contro il ligure, mentre Sandgren risponde con un 67% in battuta. Il terzo set vinto al tie-break gli dà comunque la sensazione di un'altra impresa, dopo la pazzesca rimonta nei confronti di Opelka al primo turno, ma Tennys è di un'altra pasta in questo torneo e chiude impietosamente sul 6-4 il quarto ed ultimo parziale. "Grazie a tutti, credo sia stato divertente - dichiara Tennys Sandgren a caldo, a fine match - anche perché giocare con Fognini è sempre una battaglia. Ci sono stati momenti di tensione ed ero stanchissimo anche io, ma sono rimasto concentrato e non ho smesso di spingere. La cosa importante è essere ai quarti". Qualche ora prima si era invece assistito all'ennesimo monologo di Novak Djokovic. Il serbo è in gran forma, i pronostici lo danno vincitore del torneo e lui vuole assolutamente rispettare le previsioni della vigilia. Altri tre set senza storia, questa volta la vittima è Diego Schwartzman che viene superato 6-3 6-4 6-4.

·        Quelli che…le Lame.

Estratto da La Repubblica il 24 gennaio 2020. Sui social - la sua forma di espressione preferita – Arianna Errigo ha parlato di «idee strampalate » e scritto: «Se il mio obiettivo fosse veramente quello di compattare la squadra proverei a rivolgere la parola alle mie compagne invece di andarle a incolpare sui giornali. Se fossi in lei mi concentrerei sul lavoro... soprattutto adesso che ha un compito molto importante, l' ultimo assalto della gara a squadre, cosa che non le sta riuscendo nel migliore dei modi». Raggiunta al telefono, Elisa Di Francisca è arrabbiata: «Tutto questo mi rattrista. Lei si deve sentire per forza chiamata in causa, è una bambina capricciosa».

Paolo Marabini per gazzetta.it il 24 gennaio 2020. E adesso volano gli stracci. Altro che fioretto, qui si va di sciabolate. La prima subito dopo i Mondiali del luglio scorso a Budapest. Dream Team battuto in finale di una stoccata dalla Russia. Ed Elisa Di Francisca, fresca campionessa europea nella stagione del rientro dopo la maternità, non le manda certo a dire. “Non sono per niente contenta dell’atteggiamento della squadra” dice alla Gazzetta subito dopo la finale iridata. “Non siamo ancora una squadra. Ho rispetto e stima per le mie compagne, però c’è da lavorare ancora un bel po’. Abbiamo un anno di tempo per trovare i meccanismi da Dream Team”. “È un percorso, di sicuro bisogna ricreare un gruppo, serve tempo” le fa eco lì vicino Arianna Errigo, l’altra “ape regina” del nostro fioretto. Con la quale, è risaputo, da parte di Elisa – probabilmente dalla finale-derby di Londra - non c’è certo ‘sto gran rapporto. Silenzio, si va in vacanza. E ricomincia un’altra stagione. Ma bastano le prime gare ed ecco il secondo assalto. E’ il 14 gennaio e, presentando un’iniziativa benefica a Roma, subito dopo la raggiunta qualificazione aritmetica per Tokyo, la stessa Di Francisca rincara la dose. “Anche se ci siamo appena conquistate il pass per Tokyo – dice la jesina bi-olimpionica di Londra 2012 – sono abbastanza incazzata. La qualificazione era quasi scontata, la realtà invece è che non vinciamo. Le cose non vanno bene perché non ci amalgamiamo, non riusciamo a tirare bene quando la compagna che è salita in pedana prima tira male. Il problema? Molto semplice: noi prima cantavamo l’inno, ballavamo e il tutto creava gruppo. Adesso ognuno si fa gli affari propri. Queste parole non mi faranno risultare simpatica? Chissenefrega”. Altro silenzio. Ma fino ad oggi. Quando, via social, ecco arrivare la sciabolata di Arianna. Che colpisce un bersaglio preciso. “Purtroppo – fa sapere la brianzola – mi trovo a rispondere pubblicamente a un articolo che avrei preferito non leggere. Non voglio soffermarmi troppo sulle cose dette da Elisa, perché ognuno ha le sue idee, per quanto strampalate mi possano sembrare. Quello che mi sento di dire è che probabilmente se il mio obiettivo fosse veramente quello di compattare la squadra proverei a rivolgere la parola alle mie compagne invece di andarle a incolpare sui giornali. Mi auguro inoltre che chi è preposto a dirigere la Nazionale si prodighi al fine di evitare il ripetersi di questi spiacevoli episodi”. Chiaro riferimento, in questo caso, al c.t. Andrea Cipressa. Che a pochi mesi dall’appuntamento più importante del quadriennio si trova tra le mani una patata bollentissima. “Cosa devo dire…” esordisce quasi sconsolato Cipressa. “Evidentemente avvicinandoci ai Giochi affiora un po’ di nervosismo di troppo, anche per qualche risultato non positivo. Comunque lunedì saremo in raduno a Tirrenia e mi chiuderò in una stanza con Arianna ed Elisa per chiarire la situazione. Non chiedo a loro di essere amiche. Chiedo però la massima serietà e la condivisione di un obiettivo che è importante per tutti, non solo per loro due”.

·        Quelli che…sulla Neve.

Silvia Morosi per "corriere.it" il 29 ottobre 2020. Lindsey Vonn, 36enne pluricampionessa di sci che ha lasciato l’attività alla fine della scorsa stagione sportiva, è finita al centro di una polemica per via di alcune fotografie pubblicate sui suoi profili social. L’atleta, in vacanza per il suo compleanno (che cade il 18 ottobre), aveva condiviso alcuni scatti in costume, che hanno scatenato commenti pieni di offese e odio: «Pensa di essere più attraente di quello che è», ha scritto qualcuno («She thinks she’s a lot hotter than she thinks… fat knees»); «Ho 60 anni e ho partorito due bambini e sono meglio di lei», ha replicato un altro; e ancora «Nascondi quel sedere grasso in una tenda», senza dimenticare parolacce e insulti di ogni genere.

La replica: «Sono 100% naturale e 100% Lindsey». Parole che non sono passate inosservate alla regina delle nevi statunitense (nel suo palmarès ci sono un oro olimpico, due ori iridati, quattro Coppe del Mondo generali e sedici di specialità, ndr), che ha postato alcuni scatti nei quali alcune «imperfezioni» (come sono state definite dagli haters) sono più evidenti, corredate da un lungo post: «Non sono una taglia zero e per me va bene. Una cosa che posso assicurare a tutti voi — ha scritto — è che non ho mai modificato le mie foto con Photoshop e ne sono orgogliosa. Non ho mai subito alcun tipo di chirurgia plastica. Niente Botox o filler, niente mini interventi chirurgici. Letteralmente niente. Sono 100% naturale e 100% Lindsey». Anche come atleta — ha aggiunto — «ricevo tanti commenti spietati che fanno a pezzi il mio corpo e, a volte, mi fa male. Ma sono una persona normale. A volte il mio stomaco si piega, si vede la cellulite sul sedere o non riempio bene la parte superiore del costume. Sono orgogliosa di quanto io sia forte», ha detto, lanciando un messaggio di speranza rivolto a tutte le donne: «Siate forti, rimanete in salute e amate voi stesse, non importa cosa dicono gli haters. Un ringraziamento speciale a voi che siete stati positivi e di supporto ... manteniamo viva la cultura della body positivity».

Alberto Tomba sciatore del secolo, battuto Thoeni. Ha vinto nettamente il sondaggio promosso dalla Federazione sport invernali, che ha festeggiato il suo centenario. La Repubblica il 07 ottobre 2020. Alberto Tomba è l'atleta del secolo della Federazione italiana sport invernali. La proclamazione è avvenuta nella serata conclusiva dell'evento "Fisi 100 Celebration" all'Hangar Bicocca di Milano al quale hanno preso parte anche il ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, il presidente del Coni, Giovanni Malagò e il presidente della Fisi, Flavio Roda. Nel sondaggio tra gli appassionati, durato un mese, Tomba ha battuto col 61% delle preferenze nel duello finale Gustav Thoeni (39%), il più grande della "Valanga azzurra" e allenatore del campione bolognese negli anni migliori della sua carriera. Il sondaggio ha coinvolto 32 atleti che hanno fatto la storia della federazione sport invernali: sciatori di oggi e del passato, fondisti, ma anche dominatori di altre discipline invernali, come il pluricampione olimpico dello slittino, Armin Zoeggeler.

Elena Fanchini sconfigge il cancro e torna sugli sci. Le Iene il 13 gennaio 2020.  La sciatrice alpina della nazionale italiana, torna gloriosa sugli sci dopo aver vinto il cancro all’intestino e l’infortunio alla tibia. Inizia una nuova avventura, anche se “da turista”, dice Elena. La sciatrice torna sulle piste di casa e non si dà per vinta. Noi l’abbiamo conosciuta nell’intervista di Nicolò De Devitiis. "Il mio regalo più bello", ha scritto su Instagram Elena Fanchini, la 34enne sciatrice azzurra vicecampione del mondo di discesa libera. Elena è stata ferma per quasi due anni prima per un cancro all’intestino e poi per una frattura alla tibia. Elena Fanchini è ritornata sugli sci partendo proprio dalle piste di casa a Montecampione e ha immortalato questo momento pieno di gioia con una foto su Instagram: “Per adesso da turista, ma la parola ritiro non è contemplata dal mio dizionario”, ha detto la sciatrice. Di Elena Fanchini vi abbiamo parlato con Nicolò De Devitiis nell’intervista che potete rivedere qui sopra. La Iena l’ha incontrata a casa sua e con il suo sorriso, la sciatrice ci ha raccontato la rinuncia alle gare, la battaglia, le operazioni, la chemioterapia, le sofferenze e gli allenamenti, nonostante tutto. “Ho iniziato a pregare, il Signore mi ha ascoltato”, ha detto Elena. E fu così che dopo 13 mesi dall’incidente, Elena è pronta a conquistare la pista da sci con lo stesso ottimismo e tenacia di prima. 

Elena Curtoni, gli infortuni, la nebbia e il tiramisù: «Così ho battuto anche la iella». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Falvio Vanetti. A Bansko le era già capitato di essere in testa: accadde nel 2015 in superG. «Ma poi arrivò la nebbia — ricorda Elena Curtoni — e la corsa fu annullata. Ripetuta il giorno dopo, arrivai quinta: diciamo che, nonostante quel colpo di sfortuna, avevo capito che questa pista fa per me». Stavolta, invece, è tutto vero. Nessuna nuvola di Fantozzi all’orizzonte, tutto bello, chiaro e luminoso come il sole che ha inondato la sua prima scalata al podio più alto. «Com’è il sapore della vittoria? Forte. Dolce come il tiramisù. Ne vorrei ancora di più, di vittorie e di tiramisù». Grande Elena, brava e coraggiosa. Capace di risollevarsi da un destino che nemmeno Lady Iella avrebbe avuto: «È più bello di quanto immaginavo. Questo è un doppio successo: chiude un ciclo nero e detta una svolta. Nel 2017 avevo concluso quarta nella classifica del superG. Ma subito dopo, in primavera, mi sono rotta astragalo e malleolo della gamba sinistra. Quindi, in autunno, sono saltati legamento crociato e menisco del ginocchio destro. Ero all’apice della carriera e ho visto sfumare i Giochi 2018». La ripresa è stata durissima, ma Elena Curtoni ce l’ha fatta e va fiera di una cosa: «Non ho mai smarrito il sorriso, nemmeno nei momenti più complicati». Vedendo quanto tempo ha perso, viene automatico domandarle se non si sente per caso una sciatrice sfortunata. La risposta è decisa, non c’è nemmeno un secondo di dubbio: «Non faccio la martire, infortuni gravi sono capitati a tante altre colleghe. E forse i guai, dei quali avrei comunque fatto volentieri a meno, mi hanno aiutata a crescere anche come donna. Banalmente, se ripenso alla mia storia, posso concludere che con tutta probabilità era destino che andasse così. Ed era scritto che avrei vinto stavolta. Ci sono alcuni dettagli che paiono spiegarlo: i miei genitori sono venuti fin qui per tifare». Marta e Federica sono le ancelle che condividono il suo giorno indimenticabile. Bassino: «Ho sperato fino all’ultimo di vincere, ma sono contenta per Elena. Mi è tornato alla mente il gigante di Aspen di tre anni fa. Mi diverto sempre di più, è bello essere nelle posizioni di vertice. Questo risultato ci spedisce nella storia, sono felice di aver vissuto una giornata da Grand’Italia». Brignone: «Sono emozioni forti, nel mio caso già vissute in altre due triplette. La classifica generale si accorcia? Sì ed è bello: però io non guardo troppo avanti». Elena, invece, a questo punto lo farà. «Metto al centro i Giochi del 2022: lavorerò con serenità per arrivarci al massimo della forma. Ho ottenuto poco per quello che ritengo di valere, ho ancora tanto da dare e da raccogliere». Curiosità: ha mai immaginato che cosa avrebbe combinato senza tutti quegli infortuni? «Sì, certo, l’ho immaginato eccome. Ma non ci faccio caso: tanto non è andata in quel modo».

Brignone, i segreti dietro alle vittorie: il rock, il telefono (spento) e il confronto con mamma Ninna Quario. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Flavio Vanetti. Di madre in figlia, nel segno della famiglia dello sci e di un’Italia delle nevi che viaggia come un treno. Federica Brignone alza gli occhi al cielo quando, tagliato il traguardo del gigante del Sestriere, vede la luce verde sul tabellone e il suo tempo uguale a quello di Petra Vlhova. È un ex aequo che confeziona una beffa a Mikaela Shiffrin, battuta per un centesimo, e che scatena la felicità dei 20 mila sparsi tra il parterre e il pendio dedicato a Giovannino Agnelli, da ieri candidato a ospitare il Mondiale 2029. «Sentivo dei boati, sentivo soprattutto il team che mi urlava: Petra è davanti! Ho spinto e sono stata fortunata. Il centesimo perso dalla Goggia nel superG di St. Moritz stavolta mi ha premiato? I centesimi fanno parte di chi, in una gara, ne ha di più». È il terzo trionfo stagionale di Federica, e il quinto podio, ma a emozionare è soprattutto il ponte temporale con la madre Ninna Quario: l’ultima italiana a imporsi da queste parti è stata Deborah Compagnoni (due ori iridati nel 1997), ma l’ultimo centro di un’azzurra nella Coppa del Mondo è quello del 14 dicembre 1983 di Ninna in slalom. «Sapevo di lei, non ricordavo però la data. Mamma mi ha chiamato (come giornalista era a Wengen a seguire le gare maschili, ndr)? No, ho il telefono staccato da due giorni: ruba energie, non lo guardo». Parliamo allora del sorpasso alle regine Deborah Compagnoni e Isolde Kostner? Deborah ha 16 successi in Coppa, Isi 15. E Federica è a quota 13, ormai è solo questione di tempo. «La mia carriera è in crescendo, non ho ancora finito. È un onore essere paragonata a due grandi campionesse: il giorno in cui avrò vinto quanto Deborah sarà il momento in cui mi ritirerò». Una gara «da infarto», Federica dixit. Dura sia per il tracciato («Non sono stata impeccabile, avrei potuto fare metri in meno») sia per lo scenario della classifica. «Mi ero già ritrovata prima tre anni fa a Plan de Corones, dove poi vinsi: ma partivo 14ª, nessuno mi aspettava; stavolta, invece, ero attesa». Ha dovuto estraniarsi, azzerare e riconcentrarsi, aiutandosi con la musica («Amo il rock, quando serve metto quello potente») e preparandosi a essere dura contro il ruggito della Vlhova e della Shiffrin. Ha chiuso affiancata alla campionessa iridata della disciplina e davanti all’olimpionica del gigante: il quinto centro stagionale delle nostre ragazze, il settimo totale di un’Italia arrivata grazie a Dominik Paris al podio numero 19, ha un valore aggiunto che permette a Federica di staccare pure l’americana nella graduatoria della specialità, a quattro prove dalla fine. «Ma più che questo fatto, essendo il cammino verso la coppa ancora lungo e incerto, mi rende felice il fatto di aver imparato a gestire primato e pressione. Sì, sono cambiata». Federica e Dominik sono le due locomotive della Nazionale bianca, che saluta pure i progressi in gigante di Sofia Goggia ma annota una giornata opaca della Bassino. Tra i due, ora è la Brignone a spingere: 3 primi posti contro i 2 di Paris. «Domme però è un grande, è un esempio: non è un duello con lui. Gli auguro di essere sempre primo, io bado a vincere le mie gare». Doveroso pensarci e soprattutto farlo, «anche perché quelle due là non mollano un colpo».

·        Quelli che…il Biathlon.

Federico Danesi per “Libero quotidiano” il 19 febbraio 2020. I paragoni nello sport sono esercizi filosofici fini a sè stessi, ma i numeri, invece, non mentono. E quelli di Dorothea Wierer la collocano chiaramente in un' altra dimensione, perché i due ori mondiali di Anterselva hanno un peso specifico pesante. Tolta Federica Pellegrini, che di ori Mondiali al collo ne ha ben sei, la regina delle discipline invernali è invece Stefania Belmondo con 4. Subito dietro di lei c' era Deborah Compagnoni con 3, agganciata ora dalla ragazza di Rasuin. Ma cos' hanno in comune le prime tre? Che sono anche andate in doppietta nella stessa edizione (Belmondo due volte). Doro qui ha ancora tre gare e almeno in due queste può puntare al bersaglio grosso. Numeri impressionanti, come la sua forza mentale. Come domenica anche questa volta c' era una tedesca da battere, Vanessa Hinz che, sulla tabella delle scommesse, viaggiava decisamente più in basso rispetto a tutte le favorite. E come domenica alla fine ha avuto ragione lei, anche se è stato tutto più complicato. Perché dopo l' ultimo poligono dell' Inseguimento sapeva bene di potersela godere e che gli ultimi 300 metri si erano trasformati in una passerella. Questa volta aveva poco più di 2 secondi all' uscita dell' ultima sessione di tiro e li ha conservati con una precisione quasi maniacale fino al traguardo. Impresa doppia Una grande fatica, che Hinz ha sbagliato una volta sola, ritrovandosi con 1 minuto in più sul tempo finale, mentre lei ha invece doppiato l' errore ed è stata costretta ad un super lavoro sugli sci, ma anche nel forzare i tempo di rilascio colpi, esercizio nel quale è maestra. Le altre, tutte, hanno sbagliato di più. Doro invece negli ultimi due giri è stata trasportata letteralmente al traguardo dal pubblico anche se in realtà non capiva nulla di quanto le urlavano gli allenatori a bordo pista, come ha confessato alla fine: «Ho fatto un paio di errori stupidi, all' ultimo poligono tremavo ed è stata una battaglia mentale. Mentre sparavo mi parlavo, dicendomi, «dai, non sbagliare». Non sapevo bene come erano messe le altre, ma sapevo di essere in gara per le medaglie. Quando sono arrivata al poligono finale ho tremato abbastanza, ma non sapevo ancora come ero messa. Oggi ero molto confidente nel mio tiro. Il giro conclusivo è stato particolare, non sapevo quanto fosse andata forte Hinz e quindi dovevo solo concentrarmi su me stessa. Il tifo mi ha dato una carica in più, ma c' erano tanti tedeschi...». Tifosi che alla fine l' hanno pure applaudita, perché questo non è il calcio e qui si tifa solo a favore. Uno sport di nicchia, l' ha riconosciuto pure lei in sala stampa, anche se ora Wierer entra in un' altra dimensione e il biathlon in Italia con lei. Invece è mancata clamorosamente Lisa Vittozzi, scarica mentalmente e alla fine solo settantunesima con otto errori, come se le polemiche pre Mondiali l' avessero svuotata caricando a palla quell' altra. L' oro nell' Individuale, è anche un passo avanti importante nella classifica di Coppa del Mondo: il vantaggio sulla norvegese Eckhoff è di 94 punti e fino a100 su Oeberg. Ma lei pensa solo ad Anterselva: nove anni fa si fece conoscere da tutti ai Mondiali Juniores di Nove Mesto. Cosa vinse? Tre ori e un argento, in fondo le manca poco.

Dorothea Wierer e i suoi segreti: dorme solo 4 ore e spara truccata. Le rivali la imitano. Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Dorme solo quattro ore per notte, non sa rinunciare al cioccolato, ama la moda e lo spritz, vorrebbe essere più alta (è 158 cm) e meno muscolosa, vive a Cavalese in Val di Fiemme con il marito Stefano ma è a casa solo 70 giorni all’anno. Non le piacciono i giri di parole (vietato Doro d’oro), adora i tacchi a spillo, da quando gareggia truccata la imitano anche le avversarie e ha detto no — ormai lo sanno anche i muschi e i licheni — a Playboy (non ne parla volentieri, però la proposta l’ha lusingata assai e di solito chiude l’argomento con una battuta: «Al massimo poso in intimo e photoshoppata!»). Ah, quante cose crediamo di sapere della campionessa del mondo dell’inseguimento, che ora andrà convinta (ma non servirà molta fatica: i contratti sono già firmati) a continuare fino all’Olimpiade di Pechino 2022, quando avrà 31 anni, capolinea di una grande carriera. Il biathlon, e non da oggi, è lei: Dorothea Wierer, la stella azzurra con il fucile in spalla che accoglie con soddisfazione i messaggi di complimenti del premier Conte (atteso qui sabato) e del presidente del Coni Malagò. Occhi grigi da tigre, volto da modella, sportiva da 400 mila euro a stagione tra premi e sponsor, fiore all’occhiello delle Fiamme Gialle, 700 ore di allenamento nel fondo e 300 nel tiro a stagione, donna che non dimentica. Ad Anterselva, l’anno scorso in Coppa del Mondo, aveva vinto per la prima volta nella specialità — l’inseguimento — in cui aveva centrato il maggior numero di podi (14). «Ci ho ripensato, all’ultimo poligono, quando si era capito che lì si sarebbe decisa la gara» ha detto ieri. Un ricordo prezioso. E di sicuro, nel centrare la più bella vittoria al termine di una prova fantastica, Dorothea avrà ripensato all’allenatore azzurro che l’aveva portata al vertice prima di lasciare la Nazionale italiana per andare ad allenare le norvegesi, Patrick Oberegger, una scelta che Wierer aveva vissuto come un tradimento. Doppio gusto, quindi, nel lasciarsi alle spalle la Roeiseland. Dopo aver perso anche Patrick Favre, assoldato dalla Francia, nell’estate 2018 l’Italia del biathlon era stata costretta a rinnovare i suoi quadri tecnici. Oggi, supervisionati dal d.t. Fabrizio Curtaz (che ha saputo ricucire con garbo e intelligenza l’inutile polemica aperta alla vigilia del Mondiale da Lisa Vittozzi), in Nazionale lavorano (bene) Andreas Zingerle, Andrea Zattoni, Klaus Hoellrigl e Nicola Pozzi. Gi uomini dietro il piccolo segreto della motivazione extra di Calamity Jane, trasformata dalla stagione scorsa: «Abbiamo voluto dimostrare che non avevamo bisogno di loro».

·        Quelli che …in Acqua.

FLAVIO VANETTI per il Corriere della Sera il 15 luglio 2020. Umberto Pelizzari un giorno incontrò un anziano pescatore. «Mi piace come vai sott' acqua», gli disse il vecchio. Aggiunse: «Ma ci sono due modi per farlo». Prese un pezzo di corallo e lo gettò nel mare; quindi da una mezza noce di cocco fece colare il latte. «Adesso corallo e cocco sono insieme nell'acqua. Però il corallo resta corallo, mentre il cocco è mare». Metafora straordinaria: chi fa l'apneista deve diventare tutt' uno con il Grande Blu. Pelizzari c'è riuscito, oltretutto a suon di record. Quello del 1999 - meno 150 metri in assetto variabile «no limits», raggiunti in 2'57'' - è tuttora la frontiera umana negli abissi.

Restare in apnea è un concetto di norma negativo. Però nel suo caso...

«Un detto buddista dice che tutto quello che fai quando non respiri è giusto. L'apnea come disciplina e regola di vita porta a fare riflessioni e dà una sensibilità particolare rispetto al corpo: sarò di parte, ma aiuta a trovare situazioni di pace».

L'apnea è uno stato dell'anima o del corpo?

«Il primo passo lo compie il corpo: impari la cosa più innaturale, trattenere il fiato. Dici: chi me lo fa fare? Ma se realizzi che l'apnea può darti tanto in termini di rilassamento, ecco che entra in gioco l'anima. Feroce tenacia e implacabile costanza, ma anche gioia e spensieratezza: tutto questo è l'apnea».

Riesce a descrivere un'immersione?

«Le pulsazioni rallentano, il corpo svanisce, ogni sensazione galleggia dentro nuove forme. Resta solo l'anima, come detto. È un lungo tuffo che sembra assorbire l'universo. Ogni volta risalire è una scelta: sono io che torno a riappropriarmi della mia dimensione umana per venire di nuovo alla luce. Il primo respiro nel riemergere è come il primo respiro fatto quando sono uscito dal ventre di mia madre».

Che cosa si vede laggiù?

«Spesso me lo chiedono. Forse l'unica risposta è che non si scende in apnea per vedere, ma per guardarsi dentro. Negli abissi cerco il mio io. È un'esperienza mistica, ai confini col divino».

La fede allora aiuta?

«Sono credente, ma non perché ho fatto apnea. Faccio il segno croce alla partenza e poi quando ho finito: prima per chiedere, poi per ringraziare. Chi va sott' acqua segue ciò che crede in base all'educazione ricevuta».

C'è l'ansia di risalire?

«No: sai che il corpo può farcela. A -150 ho aperto gli occhi e ho trovato un pallone che mi aiutava a tornare su: il record era fatto, il resto sarebbe stato una passeggiata».

A occhi chiusi, conferma?

«Sì, per concentrarmi».

La paura è una compagna?

«No, altrimenti non scenderesti mai. Però può subentrare: ho conosciuto chi ha smesso perché non riusciva ad arginarla».

Si dice: il sub si immerge per guardare, l'apneista per guardarsi dentro.

«Quando sono nel blu cerco di scrutare il più lontano possibile. Vorrei andare oltre: dove non lo so, ma oltre. Mi basterebbe scorgere il punto in cui arriverò, ma non ce la faccio. A volte però i raggi del sole mi aiutano: rompono la superficie e si insinuano indicandomi la direzione».

È passato dal nuoto orizzontale a quello verticale. Come mai?

«Disputavo gare, ma in orizzontale non ero granché. Avevo cominciato perché temevo l'acqua: fu mia madre a spedirmi in piscina. Al nuoto orizzontale spesso arrivi perché qualcuno lo stabilisce per te. A quello verticale, invece, approdi perché vuoi metterti alla prova».

Inseguire un record è sfida a un numero o a se stessi?

«Quando per 10 mesi ti alleni non pensi al primato o alla faccia dei rivali: ti bruceresti. Vivi semmai le belle sensazioni dell'apneista: vai sotto senza confrontarti con profondimetri e avversari».

C'è un record che le ha dato più di altri?

«Ognuno ha una storia. Direi comunque il primo e l'ultimo. Il primo perché nessuno pensava che uno sconosciuto di Busto Arsizio arrivasse a battere Pipin Ferreras, il cubano che si dice abbia imparato ad andare sott' acqua ancora prima di camminare. Quello dei 150 metri, invece, è una pietra miliare. I 50 metri furono di Enzo Maiorca, i 100 di Jacques Mayol, i 150 sono miei: puoi dimenticare tutto quello che sta in mezzo».

Com' era il rapporto con Pipin?

«Di rivalità, anche accesa. Tra noi due magari non era così forte, ma veniva creata dai media e dai team. Ha fatto il gioco di entrambi: meglio avere due che lottano per i 150 metri piuttosto che uno che scende a 300 metri».

Nell'atletica si diceva che Sergey Bubka ritoccasse il primato del salto con l'asta un centimetro alla volta, per monetizzare le apparizioni nei meeting. Gli apneisti hanno un approccio diverso ai record?

«Quando sono sceso a -150 ho battuto il precedente limite di 12 metri: basta questo a rispondere. Non so quanto ci fosse di vero nella vicenda di Bubka, ma nel nostro caso, purtroppo o per fortuna, non ci sono stati interessi commerciali. Poi dopo mesi di allenamenti la cosa essenziale è quello che puoi dare: se hai un potenziale da 150 metri ma ti fermi a 139, magari stabilisci il record ma non sei soddisfatto».

Come si arriva ad avere otto litri di capacità polmonare?

«Un po' per natura, un po' per la pratica. Grazie a un corso di apnea passi magari da 5 a 7 litri: non hai ingrossato i polmoni, hai solo imparato a usare il tuo potenziale».

Majorca, Mayol o Cousteau?

«Cousteau ci ha fatto conoscere quello che accade là sotto: è stato un divulgatore. Majorca e Mayol sono invece gli apneisti per eccellenza. L'uomo potrà arrivare a -300 metri, ma loro resteranno nella leggenda. Majorca è diventato mio amico: era una persona genuina, trasparente, schietta. Mayol, invece, è stato mio maestro e mi ha cambiato. Vorrei aggiungere una cosa su di lui».

Prego, ne ha facoltà.

«Mi disse: "Se vuoi immergerti con me, rinuncia a tutto ciò che attiene alla tua personalità umana; togliti anche il profondimetro e l'orologio. Ogni volta che raggiungi il fondo del mare devi assaporare sensazioni di piacere un po' più forti e un po' più belle di quelle che hai avvertito la volta precedente"».

Negli abissi c'è una barriera invalicabile per gli umani?

«A livello fisiologico, nello sport sono stati spesso fissati limiti che però sono stati superati. Sicuramente sott' acqua ce n'è uno oggettivo: a -500 metri non si arriverà mai. È come dire che i 100 metri piani non saranno mai corsi in 2 secondi. Ma è ancora presto per stabilire la soglia tra possibile e impossibile».

Giornalismo e divulgazione appartengono alla sua seconda vita, lasciato l'agonismo.

«La parte principale è comunque ancora nella didattica: porto in acqua nuovi atleti. Poi c'è la divulgazione, vero: mi chiamano aziende per conferenze. Il giornalismo? In tv ho fatto cose interessanti, ma non mi sono mai sentito giornalista».

Non amiamo il mare, a giudicare da come lo trattiamo.

«Non ci rendiamo conto di quanto sia importante, gli manchiamo di rispetto: una sana educazione ambientale non guasterebbe. Il mare sa rigenerarsi e ripartire, ma non so per quanto tempo potrà farlo se non gli daremo tregua».

In Italia servirebbe un ministro del mare?

«Di ministri ce ne sono già abbastanza: nel nostro caso basta quello dell'ambiente. Servono scelte meno politiche e più pratiche: bisognerebbe lavorare di più a livello di ecologia. Ecologismo ed ecologia sono cose diverse».

Lei ha mai pensato alla politica?

«La seguo poco, per sfiducia e perché ho altri interessi. Vedo anche egoismi, soprattutto in un'Europa che in un'emergenza sanitaria come quella che stiamo passando non ha avuto un protocollo comune di intervento. Non lamentiamoci se la gente ne ha piene le scatole e si sente sovranista».

Cita spesso un proverbio eschimese: «Quando un uomo parte per un Paese straniero, porta con sé la moglie e il suo cuore, ma abbandona le armi e le leggi del suo popolo per accettare quelle del luogo in cui va».

«Ogni volta che vai sott' acqua devi ricordarti delle regole del mare. La natura umana deve fare i conti con una dimensione diversa: devi lavorare in controtendenza e accettare altre norme».

Segue i delfini: è un'indicazione per la vita?

«Sì, i delfini sono spensierati e sorridono sempre. Seguirli tutti i giorni potrebbe essere utile, perché no?».

L'Italia oggi è in apnea... Come la vede?

«Siamo un Paese che ne ha vissute tante e ne è sempre venuto fuori. Speriamo che il nostro modo di essere ci aiuti anche dopo questo periodo terribile».

Umberto Pelizzari ha capito quanto è profondo il suo mare?

«No. Non so che cosa mi spinge laggiù, ma nemmeno mi interessa scoprirlo. Ogni volta che scendo incontro cose uniche, il mondo dentro di me e attorno a me è diverso: non ho luce, il cuore marcia piano, un battito ogni sette-otto secondi, otto-nove pulsazioni al minuto. Quando risalgo, realizzo che sto tornando quello di prima, l'uomo di sempre. Sono anfibio? No, sono solo un terrestre che scopre un'altra dimensione».

Sara Tardelli per fondazioneleonardo-cdm.com il 27 maggio 2020. Immota manet. E’ il motto che mi torna in mente per descrivere Tania Cagnotto. Quando l’Italia si è fermata ed è sprofondata nel dramma delle vittime e dei contagi per il Coronavirus, Tania Cagnotto si allenava per le olimpiadi di Tokyo. Lo stop è stato un duro colpo anche per lei come racconta: ” Devo ripuntare alle olimpiadi. Ci proverò. E’ difficile ritrovare gli stimoli necessari. Noi atleti ci alleniamo per anni, siamo tarati su una data precisa. In due mesi ho perso praticamente tutto quello che avevo recuperato fisicamente. Non ci sono certezze sulla data dei prossimi giochi olimpici”. Tania è perseveranza, stabilità, calma. Siede nell’Olimpo degli atleti più forti del mondo, è la tuffatrice che ha regalato al nostro Paese più medaglie nella storia dei tuffi femminili. Eppure nella sua lunga e iridata carriera, non si è fatta scuotere dagli estremismi dell’agonismo e del successo. “Non ho mai odiato un’avversaria, le ho sempre ammirate. Imparavo da loro piuttosto che sperare che sbagliassero. E poi credo profondamente nell’allenamento”. Tania Cagnotto, 35 anni, fiore all’occhiello della Guardia di Finanza, nel 2017 si ritirava dalle piscine. Il suo cuore guardava altrove, oltre le medaglie. Cercava Maya, la sua bambina che oggi, a due anni, si diverte un mondo ad allenarsi con la mamma. Un destino beffardo ha spiazzato tutti, Tania compresa che si era rimessa in gioco e in gara con un approccio diverso: “Senza lo stress di raggiungere l’obiettivo, non devo più dimostrare niente a me stessa. E’ diverso da prima. Adesso la mia priorità è Maya”. Mi viene spontaneo chiederle cosa ha imparato dallo sport che insegnerà a sua figlia: “Cercherò di capire la sua passione, di insegnarle a non rinunciare alle prime difficoltà, di avere pazienza e arrivare in fondo alle cose”. Parole che in questi giorni complessi possono ispirarci per superare i sacrifici che le tante fasi che stiamo vivendo e affronteremo, richiedono. Come il distanziamento sociale, uno degli aspetti più subdoli da gestire: ”Provo tristezza quando devo dire a Maya di non avvicinarsi agli altri bambini, mi si stringe il cuore a tenerla lontana da tutti. Sono in imbarazzo anche con le altre mamme, sembra mancanza di fiducia. Dobbiamo abituarci a prendere le misure su tutto”. Infanzia e madri sono due temi ignorati fino ad oggi dal governo che ha scaricato sulle spalle delle donne le esigenze della famiglia. Le mamme anche in questa ripresa, sono schiacciate dalla cura dei figli, le incombenze della casa e il lavoro come dice Tania “Se facessi un lavoro normale non so come farei a gestire Maya. Ho tante amiche in smart working, con figli a casa, senza aiuto. Mi chiedo come facciano. Tra marito e moglie si danno i turni per poter lavorare. Vivono situazioni davvero difficili. Si dovrebbe fare di più”. La vita di un atleta è in continuo movimento, con pochissimo tempo per le cose più semplici. “All’inizio della quarantena stavo realizzando il sogno di una vita, fermarmi, godermi la casa, stare tranquilla con la mia famiglia. Ho pensato a quanto sono fortunata ad essere felice con mio marito, stavamo tutti bene. Adesso sono tanto dispiaciuta per le difficoltà economiche che l’Italia deve affrontare. Penso a chi non riuscirà a riaprire e spero che il governo trovi davvero un modo per aiutarli. E poi ci siamo noi che dobbiamo dare una mano in tutti i modi possibili, anche comprando prodotti italiani”. Adesso che siamo in cima ad un trampolino da cui quasi non si vede il punto d’impatto, facciamo un respiro profondo e con perseveranza, stabilità e calma tuffiamoci nella vita.

Tania Cagnotto si ritira: "Scelta difficile, ma ho una nuova vita dentro di me". Libero Quotidiano il 09 agosto 2020. Ufficiale: Tania Cagnotto si ritira. L'annuncio arriva su Instagram dove scrive: "So che molti di voi volevano vedermi ancora una volta sul trampolino e mi spiace di avervi deluso ma in questo lockdown, come sarà successo a tanti altri, ho avuto tempo di riflettere e capire cosa fosse più importante per me. Non avevo più quella forza di volontà(che per 20 anni mi ha guidato) di impegnarmi e sacrificarmi nel modo in cui un olimpiade lo richiede! Ho sempre onorato tutte le Olimpiadi e non potevo non farlo anche questa volta!". Poi un ringraziamento alla storica compagna di sincro Francesca Dallapé, con la quale ha conquistato la medaglia d'argento a Rio 2016. "Grazie Francesca per avermi convinta ad affrontare questa sfida pazzesca e di avermi fatto tornare a sognare qualcosa in grande come un Olimpiade da mamme...E ancora una volta grazie a tutti voi, che avete ricreduto in me...voi che mi avete dato la forza di rimettere in moto la macchina...voi che mi avete sempre sostenuto con messaggi di stima e affetto! Vi prometto che vi renderò ancora partecipi della mia vita e comunque questo è solo un arrivederci al mondo dei tuffi perché credo di poter dare ancora qualcosa in un altra veste...(E poi a Maya servirà un'allenatrice)", conclude. Una scelta difficile, come l'ha definita la regina dei tuffi: "Da una parte la voglia di partecipare alla mia sesta olimpiade da mamma con il grande sogno di portare la bandiera e dall'altra il desiderio di allargare la famiglia. Ebbene sì, questa volta ho scelto la vita, la famiglia e poco dopo il destino ha voluto regalarmi una nuova vita dentro di me, già felice per la mia scelta".

Romolo Buffoni per ilmessaggero.it il 12 agosto 2020. Mettere su famiglia o continuare ad allenarsi duramente per inseguire il sogno delle Olimpiadi? Tania Cagnotto, la più grande tuffatrice italiana di tutti i tempi, ha scelto la prima opzione.  Davanti alla prospettiva di stringere i denti per altri dodici mesi ed inseguire i Giochi fuggiti in avanti causa Covid, sacrificando gli affetti, Tania ha scelto di fermarsi e godersi tutto quello che la vita le sta offrendo e le offrirà: l’amore, la figlia Mata di due anni e un’altra vita in arrivo. Conseguenza naturale anche l’addio di Francesca Dallapè, sua compagna nel sincro. Ma lei continuerà a gareggiare nel trampolino 3 metri singolo. Una scelta tutta femminile che gli uomini spesso non capiscono e, altrettanto soventemente, complicano. Ne sanno qualcosa le atlete che, dopo il parto, decidono di tornare a gareggiare ritrovando il mondo diverso da come lo avevano lasciato. Allyson Felix, sprinter statunitense che con 9 medaglie olimpiche (6 ori e tre argenti) ha il record Usa, ha ingaggiato una battaglia contro gli sponsor che, dopo la maternità, abbattono i compensi delle atlete. Sorrisi, abbracci, pacche sulle spalle e cinismo li ha provati sulla sua pelle Serena Williams tornata al tennis dopo aver messo al mondo Olimpia. Al Roland Garros si presentò con una tuta nera necessaria per contenere e proteggere le parti del corpo provate dalla gravidanza e prevenire danni alla circolazione, tenuta che fece arricciare il naso agli organizzatori del torneo parigino. Ma la donna che ha abbattuto un vero e proprio tabù si chiama Alysia Montano, anche le americana, che come le lavoratrici comuni si è recata sul posto di lavoro fino a quando ha potuto, ovvero ha corso gli 800 metri con il pancione di otto mesi.

Doping tentato, Filippo Magnini assolto: annullata la squalifica di 4 anni. Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Bonarrigo. Filippo Magnini è stato assolto. Il Tas, la corte di arbitrato di Losanna ha ribaltato la sospensione decisa dal Tribunale antidoping italiano. L’ex nuotatore era stato squalificato per quattro anni per tentato doping, sia in primo che in secondo grado. «Ho vinto. Il Tas mi ha assolto in pieno da ogni tipo di accusa», scrive Magnini sul suo profilo Instagram.«È sempre stato così, le gare le ho sempre vinte negli ultimi metri. Mi hanno insegnato a non mollare mai. Sono sempre stato un atleta e una persona corretta. Tremo dalla gioia», ha commentato ancora il campionissimo azzurro, 38 anni, ormai ritirato. La ex stella del nuoto azzurro grazie ai due titoli mondiali e i nove europei conquistati in 15 anni di carriera era stata ritenuta colpevole di aver utilizzato o tentato di utilizzare sostanze dopanti ed era stata condannata al massimo della pena. Avrebbe concordato l’acquisto di prodotti dopanti, presumibilmente ormoni della crescita che sarebbero stati «mascherati» con il nome di «integratori plus».

Nuoto, Tas assolve Magnini: annullata squalifica doping. Era stato fermato per quattro anni: "Sapevo di non avere fatto nulla di male, finalmente è stato dimostrato". Paolo Rossi su La Repubblica il 27 febbraio 2020. Aveva ragione lui. Filippo Magnini è stato scagionato dal Tas di Losanna dall'accusa di doping, un incubo che finalmente finisce. Annullata la squalifica di quattro anni comminata dal Tna italiano sia in primo che in secondo grado. Ancora qualche mese fa il 38enne pesarese aveva voluto lanciare il suo j'accuse, urlando al mondo intero come si sentisse un appestato. "Tenevo gli occhi bassi, quando mi chiedevano di posare per una fotografia pensavo che non sapessero cosa mi fosse successo. Sapevo di non avere fatto nulla di male, finalmente è stato dimostrato. Il miglior regalo di matrimonio, visto che a breve Magnini convolerà a nozze con Giorgia Palmas. E' una nuova vita gli si apre di nuovo, finalmente. "Racconterò tutta la mia storia in un libro che uscirà il 24 marzo per Sperling&Kuper. Si chiamerà 'la resistenza dell'acqua', l'ho finito di scrivere oggi". "Ho vinto. Il Tas mi ha assolto in pieno - ha scritto sui social l'ex nuotatore azzurro, ormai ritiratosi -. È sempre stato così, le gare le ho sempre vinte negli ultimi metri. Mi hanno insegnato a non mollare mai. Sono sempre stato un atleta e una persona corretta. Tremo dalla gioia". Poi all'Ansa si è lasciato andare: "Ho vinto, ho sognato e aspettato che la verità venisse fuori: quel giorno è arrivato e ora sono la persona più felice del mondo. Ho sempre avuto fiducia in questi anni durissimi, sono stato piegato da queste accuse ma non sono stato spezzato. Lancio a tutti un messaggio positivo: di non mollare mai se avete ragione la verità viene fuori, le cose possono funzionare. Il vostro capitano è tornato, può succedere di tutto". Il pesarese, due volte campione del mondo dei 100 sl (2005 e 2007), era stato condannato a 4 anni di squalifica dal Tna dopo essere finito sotto accusa per la frequentazione col nutrizionista Guido Porcellini, a sua volta squalificato 30 anni. Magnini era stato condannato in primo e in secondo grado, perché sospettato di aver tentato di utilizzare sostanze dopanti che, in base all'articolo 2.2 del codice della Wada, l'Agenzia mondiale antidoping, equivale ad averlo usato. E' la fine di un incubo durato 3 anni, sin da quando, nell'ottobre del 2017 l'azzurro venne inserito, insieme a Michele Santucci, tra gli indagati dalla Procura antidoping di Nado Italia sulla base degli atti dell'inchiesta della Procura di Pesaro nei confronti del medico nutrizionista. Magnini era stato condannato in primo grado un anno dopo, nel novembre del 2018, con 4 anni di squalifica (il procuratore nazionale ne aveva chiesti 8), condanna confermata in appello nel maggio dello scorso anno dal Tna che, invece, aveva assolto Santucci. Poi la decisione di rivolgersi al Tas e la liberazione per un fatto mai avvenuto.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2020. Due titoli mondiali sui 100 metri stile libero (nessun italiano mai, prima), due fidanzate da copertina (Federica Pellegrini e Giorgia Palmas), il doppio ruolo di atleta e ambasciatore dello sport pulito. Svegliandosi la mattina del 1° giugno 2017, Filippo Magnini scopre di essere sulle prime pagine di tutti i quotidiani perché indagato dalla Procura del Coni, accusato di doping sulla base di intercettazioni, senza essere mai risultato positivo o trovato in possesso di sostanze proibite. In 48 mesi, subisce due processi e due squalifiche di quattro anni, il massimo della pena. Poi, il 26 febbraio scorso, l' incubo svanisce: la suprema corte del Tribunale dello Sport di Losanna capovolge la sentenza italiana e assolve Magnini da ogni colpa.

Filippo, come e dove vive questi giorni drammatici?

«A Milano, con grande senso di responsabilità: la situazione è grave e tutti dobbiamo attenerci alle regole per uscirne presto. Sono con Giorgia, Sofia e i nostri cagnolini. Passo le giornate in famiglia».

L' ultima nuotata?

«A metà febbraio. Poi sono riuscito a ordinare online degli attrezzi da palestra per allenarmi a casa».

Giugno 2017: lei passa dal palcoscenico sportivo-mediatico alla cronaca.

«Mi sveglio e mi trovo sulle prima pagine dei giornali. Mi crolla il mondo addosso, non ne comprendo il motivo. Sono incredulo».

Si parla di doping: la giustizia ordinaria la considera un testimone. Quella sportiva, la processa e condanna due volte. Accanimento?

«Vista l' assoluzione non è giusto parlare di accanimento».

Il processo sportivo italiano ha avuto momenti di grande tensione. I suoi giudici prima o poi ammetteranno il loro errore?

«Il processo è stato subito difficile: più andavo avanti meno ne capivo il meccanismo. Non mi interessa che ammettano l' errore: il mondo l' ha già compreso. Mi interessa siano venute fuori la verità e la mia innocenza».

Perché questa storia è finita in un tribunale sportivo?

«Perché chi doveva giudicarmi non conosce lo sport, non si intende di integrazione, fisioterapia, alimentazione. Però ha pieno e libero potere di giudicare. Ne sono uscito grazie all' avvocato Maria Laura Guardamagna: mi è stata vicina sul piano difensivo ma anche su quello umano».

Lei non ha mai rinnegato Guido Porcellini, il medico al centro dell' indagine?

«Ho sempre detto la verità: Porcellini non mi ha mai proposto sostanze vietate e io non le ho mai chieste. Seguiva molti grandi atleti e anche con loro si è sempre comportato correttamente: è stato infatti scagionato dall' accusa di spaccio nei confronti di sportivi. Se poi nella vita privata agiva in modo diverso con altre persone, io non potevo saperlo. Porcellini mi era stato presentato da mio cugino Matteo Giunta, attuale allenatore federale del nuoto. Era un oncologo e ha seguito la malattia di mio nipote».

Lei ha parlato di grande difficoltà nello spiegare la sua innocenza.

«In Italia è più facile distruggere che costruire. Parlare male di qualcuno ha più ritorno mediatico che parlarne bene. Mi sono ritrovato su tutte le prime pagine a processo sportivo non ancora iniziato. Dopo l' assoluzione, poche testate mi hanno dato gli stessi spazi che mi avevano riservato per accusarmi. Per questo ho deciso di raccontare la storia in un libro: "La Resistenza dell' Acqua"».

Qual è stato il momento più difficile?

«Fatico a sceglierne uno. Sono stati tanti e ognuno così pesante e mortificante che a ripensarci mi viene un peso allo stomaco. Penso a quando l' accusa asseriva che il problema oncologico di mio nipote era una falsità e mi tornano alla mente i pianti miei e della mia famiglia quando abbiamo scoperto la malattia. Mi ricordo dei tanti ospedali, da Milano alla Francia, che abbiamo girato per trovare una soluzione. Mi fa rabbia sentire che una persona - che non ha davanti un terrorista o uno stupratore ma un atleta - affermi una cosa del genere solo per dar manforte alla sua teoria accusatoria».

C' è qualcosa di cui si è pentito?

«No, la vicenda è emersa esclusivamente dalla convinzione di colpevolezza nella testa di chi mi accusava a prescindere dalla lettura delle prove».

Che cosa prova verso chi l' ha trascinata in giudizio e per due volte l' ha giudicata colpevole?

«Lei cosa proverebbe? Sono stato accusato e condannato ingiustamente ma ora che ho vinto la mia energia è proiettata solo sul futuro».

Quella di Losanna è l' unica sconfitta nella storia della giustizia sportiva italiana. Che lezione trarne?

«Che non si gioca con la vita delle persone. Non sono un giurista, non ho le competenze tecniche per dire cosa debba cambiare. Ma so che una decisione del Tribunale Antidoping può distruggere sia dal punto di vista sportivo che umano. Per un atleta di alto livello lo sport è lavoro, è vita. Ogni sentenza che possa comportare la sua esclusione deve essere presa con cautela o le conseguenze possono essere devastanti».

Cautela in che senso?

«Serve essere più possibilisti su una valutazione di innocenza rispetto a una di colpevolezza. Chi giudica deve conoscere la materia sportiva, la vita di chi lavora sui centesimi di secondo e segue un programma di integrazione alimentare studiato sui suoi parametri. E sapere che lo staff di un atleta è composto da professionisti che operano per farlo star bene. Tutto questo non può essere messo in mano a chi non sa di cosa si sta parlando. Io non discuterei mai di ingegneria aerospaziale perché non ne capisco niente».

Il Cio ha appena rinviato i Giochi di Tokyo.

«Giusto. Quello che sta capitando è più grande di qualunque gara sportiva».

Che cosa direbbe a chi in questi giorni si allena senza sapere quando potrà gareggiare?

«Di non mollare. Nessuna sfida è troppo grande da non poter essere vinta».

Sta per pubblicare un libro. Il suo lettore ideale?

«Chiunque voglia conoscere la mia storia e capire come si reagisce ad una grossa ingiustizia. Chiunque ami lo sport, desideri comprendere la bellezza e le difficoltà di essere un campione. È dedicato a chi lotta per i propri sogni e ama la vita».

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2020. Le big waves, annunciate dalla tempesta Ciara, si sono presentate puntuali. In gergo le chiamano XXL, onde extralarge. Alle 9.30, muta allacciata fino al mento e tavola sotto braccio, i primi di ogni batteria erano già nell' acqua glaciale di Nazarè, il borgo di pescatori dell' Estremadura portoghese che ogni anno ospita il Tow Surfing Challenge, la variazione sul tema più virtuosa e pericolosa del surf: una moto d' acqua traina sulla cresta dell' onda l' atleta (tow-in), che stacca prima del punto di rottura (line-up) e scende a rotta di collo (take-off), cercando di non fare la fine del portoghese Alex Botelho, che ieri è stato portato in ospedale dopo una caduta rovinosa. C'erano una volta, in questo martedì da leoni e leonesse, Justine e Maya, le prime donne ammesse sulla Streif inzuppata di adrenalina e salsedine, di solito territorio esclusivo degli uomini. Ma Justine Dupont, francese 28enne, e Maya Gabeira, brasiliana 32enne, non sono surfiste qualunque. Mademoiselle a 11 anni cavalcava le prime onde, nel 2013 domava Belharra, nei Paesi Baschi, dove la barriera corallina crea un frangente violento, capace di inghiottire anche le navi ma non lei, un' habitué di Nazarè. Gabeira è nel Guinness dei Primati per aver surfato proprio in Portogallo (ottobre 2018) l' onda più grande mai affrontata da una donna: 20,7 metri di altezza. Nata a Rio de Janeiro, Maya è la Wonder Woman dello sport della tavola. È stata la prima ragazza a dare del tu a Ghost Tree e Teahupoo, le onde più famose di Pebble Beach (California) e Tahiti. Scalando le montagne d' acqua di Nazarè, nel 2013 rischiò di morire: quell' anno il canyon sottomarino produsse vertigini di altezza impressionante, Gabeira cadde, finì sott' acqua, venne ripescata sul filo dell' annegamento e rianimata dal collega e connazionale Carlos Burle, noto per essere sceso da un' onda di 30,5 metri, ed essere arrivato giù vivo. Il Tow Surfing Challenge, insomma, non è roba per signorine e le foto arrivate ieri dal Portogallo, mentre la scogliera si riempiva di spettatori affascinati dalla grandiosità dello spettacolo, fanno spavento (online impazza il video del volo di Botelho: un miracolo che sia sopravvissuto). Dieci squadre di due surfisti. Ogni team ieri ha gareggiato due volte in un' ora di batterie, rispettando un criterio di priorità per garantire a tutti i big waves riders di lanciarsi sulle onde migliori e più grandi della giornata. Inglesi, australiani, francesi, un italiano che si divide tra la Sardegna e le Hawaii, Francisco Porcella, classe 1989, già concorrente di «Ballando con le stelle» su Raiuno. E poi loro, Justine e Maya, le primedonne che surfano nella scia delle californiane Faye Baird Fraser e Mary Ann Hawkins, le pioniere negli Anni 30 e 40. Non hanno paura, non temono la rivalità con gli uomini. «La cosa che mi piace di più scendendo da un' onda è sentire la potenza e l' energia dell' Oceano» dice Dupont. «Fissare il record era il sogno della mia vita: ora non mi pongo più limiti» sorride Gabeira, figlia di quel Fernando militante del movimento brasiliano dell'«8 ottobre» che nel '69 rapì l' ambasciatore americano. Rivoluzionarie si nasce.

Bertelli e vent’anni di Luna Rossa: «Ossessione? No, ma voglio la coppa». Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Vent’anni fa, oggi, il mare della Coppa America diventava un po’ più azzurro: battendo America One di Paul Cayard 5-4, a Auckland Luna Rossa diventava la seconda barca italiana a vincere la Vuitton Cup (nel lontano 1992 c’era stato il Moro di Venezia), la prima con uno skipper non anglosassone (Francesco De Angelis) a disputare la Coppa America. Un successo entrato nella storia della vela, che incollò l’Italia davanti alla tv tutte le notti per vedere le regate in Nuova Zelanda. L’inizio di un’arrembaggio lungo quattro lustri e sei campagne di America’s Cup, inclusa quella del 2017 interrotta da un clamoroso ritiro per protesta nei confronti della presunzione di Larry Ellison (all’epoca defender con Oracle): al timone, metaforicamente (che tentazione, però, mettercisi davvero...), Patrizio Bertelli, ad del gruppo Prada e motore di ogni sfida. La prossima, nel 2021 di nuovo a Auckland contro Team New Zealand sui rivoluzionari monoscafi volanti (Ac75), verrà lanciata dalle regate di Cagliari (23-26 aprile), quando vedremo in acqua, a confronto, gli yacht del futuro. Senza prodiere né boma ma con il doppio timoniere (Bruni-Spithill).Bertelli, vent’anni volati. «Vent’anni spesi bene. Grazie alla vittoria della Vuitton si è formato un grande movimento della vela italiana, forte e qualificato, che ha dato lustro a tutta l’Italia marinara. Non dimentichiamoci che a Valencia, nel 2007, eravamo tre team italiani: noi, Mascalzone Latino e +39. Una cosa mai vista, un grande risultato. E pensare che all’inizio intorno a Luna Rossa c’era molto scetticismo».Scetticismo?«Be’ sì, avevo fatto l’Admiral’s Cup ma ero ancora visto come un neofita appassionato: nessuno poteva immaginare come sarebbe andata in Coppa America. Ne sarei stato capace?». Si ricorda di quanti secondi Luna Rossa superò America One nella regata decisiva del 5-4?«...no!».Quarantanove.«Non pochi... Andava bene di poppa, quella Luna».Era la leggendaria Ita 45, prima della nidiata. Che fine ha fatto?«È a Grosseto, tenuta per benino in deposito: si potrebbe rimetterla in acqua domani. Negli anni siamo riusciti a creare un bellissimo archivio storico delle Lune».Avrebbe mai detto che il ragazzo di bottega della prima Luna, Max Sirena, sarebbe diventato lo skipper?«È partito dal basso ed è salito. Esempio di come deve essere la forma mentale giusta».Sfatiamo qualche leggenda. È vero che l’idea della Coppa America nacque nel 1997 nello studio del progettista German Frers?«Pura verità. Stavamo progettando l’Ulisse, quando German mi disse: Patrizio ma perché non fai la Coppa? Presi subito Doug Peterson come designer e Francesco De Angelis come skipper, convincendolo a rinunciare al giro del mondo. Qualche telefonata e in un mese avevo messo insieme il progetto».Molti di quei marinai della prima ora sono nel team Luna Rossa Prada Pirelli che nel 2021 a Auckland tenterà di strappare la coppa ai neozelandesi.«Matrimoni, figli, cose belle e meno belle: mi piace pensare, in vent’anni, di aver formato una grande famiglia allargata. Ci uniscono un filo sottile e il concetto di italianità. Con Torben Grael, l’ex tattico, siamo rimasti amici: navighiamo insieme sulle barche d’epoca. De Angelis lo incontro nelle regate con i maxi. Sirena e Plazzi sono andati e venuti, arricchendo il bagaglio da Oracle».Altra leggenda: il nome Luna Rossa sarebbe nato a cena sulla collina di Tirli, guardando in cielo una luna piena.«Non è così. Io e Miuccia eravamo a casa con amici. La barca neozelandese che avremmo dovuto sfidare si chiamava Black Magic, magia nera. Scrivemmo una decina di nomi su un foglietto: per contrapposizione, scegliemmo Luna Rossa».Sempre leggenda: la sua spiccata antipatia per Paul Cayard, rivale baffuto in quella Vuitton. Perché?«Ma no, non è vero. A me hanno insegnato che con gli avversari la familiarità è negativa: mai diventare amico dei tuo diretto avversario. Tenevo le distanze, tutto qui».Dov’è, fisicamente, la Vuitton Cup 2000?«Allo Yacht Club Punta Ala, con cui lanciammo la sfida. A Grosseto c’è una replica».Come dobbiamo considerare la sfida alla 36ª America’s Cup: la quinta o la sesta di Luna Rossa?«Nel 2013 a San Francisco partecipammo solo per aiutare Team New Zealand, nel 2017 a Bermuda ritirai il team perché in corsa erano state commesse porcherie troppo gravi per tacere. Un cambio di classe strada facendo: non si fa! Anche oggi con gli Ac75, i monoscafi volanti disegnati dai kiwi, se non ci fossimo noi a tenere la barra al centro le richieste di cambiamenti sarebbero continue».Confessi, Bertelli: le piacciono i monoscafi volanti?«Sono barche di complessità enorme: saranno anche fantascientifiche ma sono difficilissime da far navigare! Verrebbe voglia di cambiare ma teniamo fede alla parola data. In ogni caso, avendo prestazioni da catamarani, si tratta di alta tecnologia».Non ha la sensazione che i detentori neozelandesi nel progettare la barca si siano spinti un po’ troppo in là?«Siamo stati una settimana a Auckland per definire le barche della prossima Coppa. Avevamo pensato ai Vor 60 ma non potevamo rischiare di far nascere una barca già superata: eravamo d’accordo sui monoscafi con i foils. Non aveva senso essere conservativi».Pensa che Luna Rossa riuscirà ancora una volta a riscrivere la storia diventando la prima barca italiana in 170 anni di storia a vincere la Coppa America?«I neozelandesi sulla carta sono in vantaggio. Ma la Coppa America è fatta di situazioni: quella volta che a Cayard contro di noi esplose lo spinnaker verde, quando Team New Zealand a San Francisco vinceva 8-1 con Oracle e perse 8-9... Mai dire mai!».Ormai ha fatto più America’s Cup del barone Bic e di Thomas Lipton. Dopo vent’anni la Coppa è una passione o un’ossessione?«Un’ossessione mai, una passione sempre».

Stefano Arcobelli per questionedistile.gazzetta.it il 10 febbraio 2020. Mark Spitz. Lo chiamavano Spitzeros i compagni che lo odiavano perché vinceva sempre. Non è latino, semmai ebreo di origine, e californiano di residenza. Se fosse stato italiano avrebbe cambiato la città di nascita: Modesto. Oggi compie 70 anni. Deve il suo mito ai 7 ori con altrettanti record ai Giochi di Monaco 72, quelli tragici dell’attentato terroristico di Settembre nero, e di Novella Calligaris, che conquistò 3 medaglie. “Con 7 ori Phelps è il secondo uomo ad aver messo piede sulla luna, con 8 il primo ad essere arrivato su Marte”. Phelps ci riuscì a Pechino nel 2008: con i costumoni. Spitz nuotava con lo slippino. Alberto Castagnetti diceva scherzosamente di lui a proposito della velocità dell’americano: “A Monaco, nel 1972, ero in batteria con Mark Spitz. Lo vidi allo start, poi lo rividi solo in serata… al Villaggio”. Spitz dirà, invece: “Le medaglie pesano. È dura tenere tutte le medaglie al collo e rimanere diritti. Mi dispiace per Phelps, ogni volta che si legge sui giornali ci trova anche me, come se avesse  due nomi. Speravo di vivere abbastanza per vedere battere il mio record. Questi primati sono stati un traino di popolarità del nuoto fino a Pechino 2008, quindi io ho vinto ancora. Mi sono sempre sentito come un fabbricante di auto: ne ho costruita una perfetta”. Sposato con Susie ha due figli. Ai Giochi di Messico ’68 conquistò un argento e un bronzo (100 farf. e 100 sl) e due ori in staffetta. Poi a Monaco si rese protagonista dei trionfi nei 200 farfalla (2’00″70), 200 sl (1’52″78), 100 farfalla (54″27), 100 stile libero  (51″22), 4×100 sl (3’26″42), 4×200 sl (7’35″78), 4×100 mista (3’48″16). Oltre alle 11 medaglie olimpiche ha migliorato 26 primati mondiali individuali. E’ stato per 7 volte anche primatista  mondiale con la 4×100 sl, 4×200 e 4×100 mista del Santa Clara e della nazionale americana. A 22 anni decise di ritirarsi (salvo un tentativo  clamoroso di rientro nel ’91 per qualificarsi ai Giochi di Barcellona) per tuffarsi nel mondo del business delle telecomunicazioni. E’ stato anche attore, protagonista di serie tv. E’ attualmente ambassador di Arena, che contribuì a lanciare con Host Dassler nel 1973. C’è sempre un po’ d’Italia per lui.

Stefano Arcobelli per gazzetta.it il 17 gennaio 2020. Fede ci ripensa? “Potrei continuare dopo l’Olimpiade di Tokyo 2020 - dice a Sky in occasione del ritorno in Tv come giudice di Italia’s Got Talent -. La gara con me stessa è sempre accesa”. Federica Pellegrini si sta allenando per Tokyo: “Sento ancora le farfalle nello stomaco ed è meglio così - ammette -. Se fossi troppo tranquilla significherebbe che non mi interessa più il risultato, invece quella tensione mi porta ad essere sempre attiva e più concentrata e il fatto di sentire così ogni gara è una fortuna”. L’olimpionica e 8 volte di fila sul podio ai Mondiali con 4 ori nella gara del cuore, aggiunge che “sto pensando seriamente di andare avanti, ma solamente per non sentire più è l’ultima, è l’ultima. Chissà, i colpi di testa fanno parte della mia vita. Però adesso c’è Tokyo e poi ci pensiamo. Vedremo, non voglio sbilanciarmi, adesso facciamo prima le qualificazioni (a marzo a Riccione, ndr) e poi vediamo”. E ancora: “Il ritiro è una scelta personale, non deve essere imposta da altri. Se la farò, sarà la quinta Olimpiade: per me non cambia niente: l’Olimpiade è una cosa talmente grande che non cambia nulla se è la prima o la quinta, a parte la fifa. E poi il fatto di aver raccolto tanto, soprattutto negli ultimi due Mondiali, mi dà sicurezza. Questo non significa andare a Tokyo e vincere, ma sotto questo aspetto sono molto più tranquilla”.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 9 gennaio 2020. Quinto cerchio, l' ultimo, tondo come il mondo che aspetta Federica Pellegrini: quello con cui rivaleggiare per l' ultima volta, quello da girare per intero a gare archiviate e quello da costruire, da capo.

Fine dei Giochi, esorcizziamo. In quattro edizioni e alterne fortune, ha capito che cosa non bisogna fare?

«Il mio percorso non cambia, ma siamo arrivati in fondo, il post sarà del tutto inedito».

Nessuna scaramanzia uscita dalla media tra edizioni esaltanti e frustranti?

«No, verranno i miei genitori, a Natale ho regalato loro il viaggio e i biglietti».

Le altre volte c'erano?

«Ad Atene sono arrivati in ritardo, a Pechino non c' erano e neanche a Rio, a Londra sì. Niente ossessioni e una sola certezza: ora so che arrivare all' ultimo mi tiene tranquilla, quindi no al collegiale per adattarsi al fuso e mi presento solo tre giorni prima».

Il suo saldo olimpico è in attivo?

«Sì. I 200 stile libero sono durissimi, per le altre è stato difficile ripetersi o stare a quei livelli, molte fanno l' exploit poi si perdono o cambiano rotta».

La campionessa in carica Ledecky, battuta in due Mondiali di fila, li farà?

«Solo se sarà in super forma, se deve scegliere di sicuro quella è la gara che molla».

A Tokyo una novità c' è, è in corsa per la commissione atleti del Cio. Avrà tempo per la campagna elettorale?

«La faremo prima, via social, io nuoto fino al 2 agosto, il voto è il 4 e il 5, giorno del mio 32esimo compleanno, le nomine. Vedremo quanto ci sarà da festeggiare».

I dissensi espressi sul podio sono legittimi o inopportuni?

«Le prese di posizione recenti, almeno in piscina, sono state scatenate dal doping. Lo capisco, ma non credo sia giusto puntare il dito in assenza di sentenze. Purtroppo anche io ho visto cose strane negli anni».

Quando?

«Se lo dicessi si capirebbero i sospetti e siccome non punto il dito... sto zitta».

Russi tutti a casa o si giudica sui singoli?

«Mi metto nei panni di chi è pulito e sono combattuta, però si tratta davvero di doping di stato».

Ha postato una mano inanellata. Voglia di fidanzamento?

«Vedete il diamante? No, quindi nessuna promessa, quell'anello è un regalo di mia madre e non lo levo mai dal 2004».

Quanto l' amore ha influenzato le sue Olimpiadi?

«Nel 2004 zero e pure nel 2008 direi, il 2012 è stato un anno che proprio non è andato, anche a livello personale, nel 2016 nessuna turbativa così come, credo, nel 2020. Ormai sono abbastanza grande per scindere le cose».

Nel 2012 non lo era?

«Avevo 24 anni, evidentemente non ero ancora matura».

Rimpianti? Se non fosse stata la fidanzata di Magnini sarebbe andata diversamente?

«È stato un insieme di errori, non avevo sviluppato la progressione giusta, in palestra non sono stata seguita come dovevo e in più ci si è messo il cuore. Stagione difficile».

Magnini si sposa, reazioni?

«Era nell' aria e prima o poi arriverà per tutti il momento».

Una volta archiviato l' agonismo, tornerà anche lei a parlare del suo amore?

«Magari, ma la priorità ora è restare più rilassata possibile».

Ci riesce?

«Si sono sfogati tutti, non c' è altro da dire oltre quello che si sa. Io non confermo, non ho intenzione di parlarne. A volte vedo paparazzi che scattano e poi le foto non circolano, tanto la storia è sempre la stessa».

Quattro anni fa, quando si parlava di una relazione con il suo tecnico, Matteo Giunta, diceva: «Mi fotografano anche in bagno».

«Passi avanti, ora le imboscate vanno a vuoto, mi piace pensare di essermi anche meritata un certo rispetto».

Europei a maggio, come viverli senza pressioni?

«Devo ancora valutare con Matte. Potrei persino saltarli o fare solo le staffette, se ci sono. A due mesi dai Giochi non voglio certo essere al top, se nuoto i 200 lo farò sotto carico».

Il viaggio intorno al mondo lo ha già organizzato?

«No, è un desiderio: ho sempre visto un "road trip" come l' inizio della nuova vita».

A 16 anni la sua prima Olimpiade, che effetto le fa vedere la sedicenne Greta Thunberg che risveglia coscienze?

«Ecco, lei si è fatta un viaggetto in barca a vela niente male. Mi piace, a 16 anni vedi il mondo come lo vorresti, a 30 meno, ma credo che lei porterà avanti questa lotta, ha saputo farsi ascoltare».

Lei a 16 anni ci riusciva?

«Io ero incavolata nera con l' universo e pensavo ai brufoli».

Vinceva pure medaglie olimpiche.

«Sì, ma ero in uno stato confusionale».

Ora parla spesso di clima, gli incendi in Australia, e l' acqua alta a Venezia. Il suo elemento le ha fatto paura?

«Mamma è nata a Venezia, il mio babbo ci ha lavorato per 40 anni, mezza famiglia abita a Murano. L' acqua alta c' è sempre stata, stavolta ci ha spaventati, sì, ma alla gente è rimasta troppo impressa quella notte. Tantissime disdette e fughe: la città non si merita altri guai, anche se il problema resterà fino a che non attiveranno questo benedetto Mose. Speriamo che dopo tanti sprechi sia davvero benedetto».

Il 15 gennaio riparte su Sky «Italia' s Got Talent». Cosa ha scoperto di sé in tv?

«Che piaccio molto più di quanto mi sarei aspettata. Lì si vede la ragazza normale, lontana dall' agonismo che stravolge».

Da quando sarà bandita la parola Olimpiadi?

«Fosse per me da ora, ma so come funziona, dovrò contrastare la marea che sale».

Sempre allo stesso modo?

«Io non la vivo con tutto questo marasma interiore, la marea viene da fuori e dai che ti ridai entra. Non sono a tenuta stagna, nessuno lo è».

Simona Quadarella...Stefano Arcobelli per la Gazzetta dello Sport l'8 giugno 2020.

Simona, ha ripreso già forte?

«Non dovevamo cambiare molto nel lavoro, siamo partiti forti e con intensità. Non stiamo perdendo tempo, è un momento traumatico per tutti, ma cerchiamo di mantenere l' obiettivo».

Le avevano negato Rio per pochi decimi, ed è già qualificata per Tokyo: la sua pazienza dev' essere davvero mondiale?

«Con la mia compagna di stanza Elena Di Liddo, che ha avuto gli stessi problemi di Giochi mancati, ormai ci ridiamo su: questo è il nostro destino. Ma Tokyo non ci sfuggirà, prima o poi! Siamo tranquille. Durante il lockdown ne parlavo spesso con lei».

L' esperienza della pandemia in che modo l' ha cambiata?

«Ha destabilizzato tutti: personalmente penso che un anno in più mi aiuterà a crescere e ad essere migliore».

A proposito, ha sentito che potrebbero essere Giochi diversi per via del covid?

«Spero che sia lo stesso un' Olimpiade divertente, in acqua e fuori».

Qual è una delle prime cose che ha fatto dopo il lockdown?

«Sono andata subito a salutare i miei parenti e ho preso un gelato: tutto fatto con precauzione. Ho ritrovato una Roma più bella anche se con meno gente in giro».

Nel suo libro parla di curva Quadarella...

«Sono i miei tifosi, che mi seguono ovunque a cominciare da mamma e papà: avevano comprato anche i biglietti per Tokyo e organizzato la trasferta. Ma faranno di tutto per esserci. Ho bisogno di loro, sono il mio segreto. Anzi, come lo chiamo io il mio Villaggio».

Prima di Ferragosto dovrebbero esserci le prime gare: saranno solo un diversivo?

«Spero siano gare divertenti, un mese a casa è stata dura. Faticare in allenamento è bello, ma senza gare è difficile davvero pensare agli obiettivi».

Un anno dopo, il titolo mondiale nei 1500 come se lo gode?

«Non sono diversa caratterialmente. Ma sono maturata, ho più consapevolezza dopo l' anno scorso. Non era stato così dopo i tre ori europei del 2018, non avevo vinto un titolo iridato: quello sì ti fa cambiare idea».

La Ledecky l' ha definita iridata "non per caso" e, rispetto a lei, parte forte come Paltrinieri e non si ferma più.

«Per affrontare l' americana occorre una gara fatta con la testa: partire forte non è da me, io lavorerò per velocizzare la prima parte per realizzare un certo tempo, ma non posso partire come lei».

È diventata famosa per i suoi ori e i suoi pianti...

«Ora ho più sicurezza in acqua, conosco i punti di forza e di debolezza, miei e delle avversarie. Prima ero più irrazionale, ingenua, non pensavo e agivo. Adesso mi aiuta la consapevolezza».

Come ricorda il trionfo iridato?

«Mi sono fatta il secondo tatuaggio: il 23, perché ho vinto il 23 luglio; in coreano, perché eravamo a Gwangju; e al polso destro, perché ho toccato la piastra con la mano destra».

È scattata anche la scintilla dell' amore?

«Sì, Alessandro Fusco. È di Alessandria e nuota i 200 rana. È un bel momento essere felici, un grande segnale che mi serve a staccare dal nuoto, e lui mi dà la carica perché vive i problemi del nuotatore».

Su Instagram impazzano le sue diverse facce: è questa la vera Quadarella?

«Mi piace e mi diverte tanto postare video, foto, situazioni di me fuori dall' acqua. Ho partecipato anche ad alcune campagne dei miei sponsor. Tutto mi sta aiutando a crescere. E poi...».

E poi?

«È un modo per far vedere come cambio, per trasmettere messaggi a chi mi segue. Sono cresciuta fanatica della femminilità, mi piace mantenerla e lo sport aiuta».

Influencer... come Fede?

«Mi piace, ma voglio arrivarci perché ho fatto qualcosa nello sport. Ci dev' essere la base: il successo, le medaglie. Ma soprattutto voglio far capire che non è venuto tutto facile. Noi non siamo dei privilegiati. Ci facciamo un mazzo così».

In questi anni, per lei è stato un crescendo impressionante.

«La delusione sportiva è quella che gli atleti risentono di più rispetto ad altri ambiti, mestieri. Io l' ho provata per aver mancato Rio. Se non avessi svoltato nel 2017, ora non sarei qui».

Quale ruolo intende svolgere in questa super nazionale?

«Io mi sento ancora un' emergente forse perché devo concludere il mio ciclo olimpico. Poi dopo Tokyo potrò sentirmi una leader».

Lei è tifosissima della Roma: come vivrà la ripresa del campionato?

«Sono contenta che il calcio riparta, posso capire cosa significhi per i giocatori, tiferò come sempre e spero di poter tornare allo stadio».

Magari con il suo coach Minotti, che ha appena compiuto 40 anni: nel suo libro, per lui ha citato Catullo "Odi et amo".

«Christian ha quasi sempre ragione. Ognuno ha bisogno di un certo tipo di allenatore. Lui è il tipo giusto per me, ci si confronta e se sono arrivata a questo livello il merito è suo».

A Tokyo la finale dei 200 sarà lo stesso giorno di quella dei suoi 1500: sarà più riposata della Ledecky...e ci sarebbe la staffetta con la Pellegrini?

«Vorrei lavorare anche per i 200 in chiave 4x200, ma adesso non si sa nulla: 13 mesi sono pochi e tanti nello stesso tempo».

·        Quelli che…lo Skate.

Da “la Repubblica” il 30 gennaio 2020. In concomitanza con l’installazione OooOoO, skatepark realizzato dall’artista coreana Koo Jeong A, progetto a cura di Julia Peyton-Jones con Lorenza Baroncelli, il 31 gennaio alle 18.30 Triennale Milano presenta la lectio di Roberto D’Agostino dal titolo “Tracce sul marciapiede”, con una introduzione di Stefano Boeri, presidente di Triennale Milano, e interventi di Paolo Cenciarelli, fotografo, Simone El Rana, artista, Paulo Lucas von Vacano, editore di Drago edizioni.

Stefania Parmeggiani per “la Repubblica” il 30 gennaio 2020. Asfalto, polvere e cemento. Tanto cemento. E poi lividi, ginocchia sbucciate, costole rotte, denti scheggiati senza che la cosa importi realmente perché il dolore viene dopo. Prima c'è solo il desiderio di sfidare il tempo e lo spazio, rubare velocità, inseguire il sogno di una evoluzione senza fermarsi al pensiero delle conseguenze. Lo skate è così da sempre, da quando sul finire degli anni Cinquanta un surfista di Los Angeles in astinenza da onde si lanciò su un mare di cemento. Piazze, parcheggi, panchine, scheletri urbani e poi, negli anni Settanta, le piscine svuotate dalla siccità. Onde di cemento perfette, che attraversano le generazioni fino ad arrivare oggi a Tokyo: Olimpiade 2020, lo skateboard come disciplina olimpica. La lunga marcia di quello che per anni è stato considerato più una filosofia di vita che uno sport, viene celebrata dalla Triennale Milano con una immersione nella cultura skate. Dalla strada al museo in più atti. Primo: l' installazione "OooOoO" dell' artista coreana Koo Jeong A, un grande skatepark multisensoriale inaugurato alla fine di novembre e dove chiunque può esibirsi accompagnato dalla musica elettronica di Koreless, un produttore di Glasgow. E poi serate ed eventi che attraverso la lente di moda, cinema, grafica, architettura, urbanistica, musica e sport approfondiscono l'universo degli skater e la loro pulsione creativa. Tra questi la mostra "Tracce sul marciapiede", a cura di Roberto D'Agostino, giornalista ed esperto di sotto e controculture, che racconta attraverso film, fotografie, video e tavole d'artista sia la rivoluzione di Dogtown, degradato quartiere tra Santa Monica e Venice, sia gli adolescenti che a Roma e Milano aggrediscono ogni giorno marciapiedi, scalinate, ringhiere, cantieri abbandonati, rampe degli svincoli stradali. «Fare skating non nasce da un bisogno di ribellione, ma piuttosto da un bisogno mistico di calore umano, amicizia, fratellanza e solidarietà», spiega D' Agostino che il 31 inaugurerà la mostra con una lectio che affonda nel cuore della cultura skate, in quel «groviglio di emozioni gettate senza garbo sulla strada non per sfidare il potere, ma per crescere senza sfuggire alla sofferenza, al contrario cavalcandola per vedere come andrà a finire». In una dimensione dove non ci sono istruttori o maestri, ma solo amici, compagni di strada che si incontrano e contribuiscono alla creazione di una identità. E pensare che tutto iniziò come un «passatempo per acrobati picchiatelli», con sedute di allenamento su rotelle che dovevano calmare l'astinenza dei surfisti nei giorni di calma, quando l'oceano non regalava onde e nemmeno emozioni. «La svolta - ricorda D'Agostino - arriva nel 1976 quando la siccità lascia senz'acqua Los Angeles. Una disposizione del sindaco vieta di innaffiare i giardini e per un' estate intera, decine di migliaia di piscine restano a secco, ma non inutilizzate. Quello spazio rimasto vuoto, così levigato e parabolico, è perfetto per le evoluzioni più rischiose». Sono i giorni eroici degli Z-Boys, surfisti fatti skater che entrano illegalmente nelle ville dei ricchi, si appropriano delle loro piscine e di intere strade trasformando i marciapiedi in un regno con regole profondamente sovversive: «Niente competizione e divise, nessun vinto e vincitore. Lo skate è prova di un' etica opposta, sotterranea e violentemente antisportiva e antiautoritaria, che esiste in contrapposizione alle convenzioni sociali». Una frase di Dogtown and Z-boys - docufilm di culto con la voce narrante di Sean Penn, che sarà proiettato insieme a Paranoid Park di Gus Van Sant e Kids di Larry Clark - sintetizza perfettamente questo spirito ribelle ormai diventato cultura: «Il surf fece le regole dello skate. Lo skate cambiò le regole della vita». A Los Angeles, nei bassifondi di New York, in Europa e anche in Italia. «Nel 1977 Odeon, rubrica di spettacolo e curiosità dal mondo, trasmette un servizio sullo skating, strade e marciapiedi vengono invasi da giovanissimi entusiasti, un successo accompagnato da numerosissimi incidenti». Scatta l'allarme, Genova vieta la circolazione dello skateboard. Altre città ne seguono l'esempio, all' inizio del 1978 il divieto è esteso a tutto il territorio nazionale. «Ma come sempre accade - continua D'Agostino - la proibizione accende il desiderio e i ragazzi continuano a cavalcare il cemento anche se nell' ombra, di notte, lontano dai riflettori e dagli sguardi dei curiosi. Finché negli anni Novanta nascono le prime strutture adeguate come l' Elbo skatepark di Bologna». Ben presto il Coni lo riconosce come disciplina sportiva e quest'anno vedremo per la prima volta i migliori skater del mondo sfidarsi a Tokyo. L'evoluzione italiana è raccontata in mostra da una selezione di fotografie di Paolo Cenciarelli, che ritraggono la scena romana in relazione al contesto urbano e architettonico e da una serie di skateboard creati da Simone El Rana, artista che ha come marchio di fabbrica l' ex-voto e un tripudio di forme, dai teschi alle immagini religiose, tipiche del mondo dei tatuatori. Non solo: due video, ideati per Triennale dallo stesso D' Agostino con montaggio del fotografo Pierluigi Amato, srotolano il nastro del tempo dagli anni Novanta a oggi. «Sono immagini amatoriali, spesso crude, girate dagli stessi skater per documentare i loro balletti di audacia e precisione, i progressi e i fallimenti». Riprese di quando lo skating era una pratica strana, considerata dai più un rifugio per teppisti o disadattati, e filmati di oggi, dei giorni in cui è diventato una pratica da oro olimpico e un oggetto da museo. Ma D'Agostino avvisa: «Attenzione con le parole, chi fa skate rifiuta la fruizione passiva. Si sente al centro di una storia, che sia un successo o una sconfitta, un salto o una caduta». Atleti ruvidi e spavaldi, distanti da logiche di potere e dominio, inquieti protagonisti di una esibizione che diventa metafora della vita: quando cadi non hai scelta, ti devi rialzare.